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Even in this sector, the liberalisation brought about by Cacciari’s first administration has determined a break with the traditional policy of control of the transformations of the uses of ground floors, policy which had led previous administrations to resist for years to the opening of the first fast-food restaurant in Campo San Luca. More precisely, this has been possible thanks to the repeal of the municipal resolution which, applying the national law n.15/1987, was an instrument for the local authority to prevent the sprawl of fast-food restaurants and junk stores even more effectively than the land use plan.MoSE (Experimental Electromechanical Module) is a very “hard”, gigantic system of mobile barrage (even though it entails heavy permanent installations) of water in the three openings ( bocche di porto) that regulate the exchange of sea and brackish water. From this exchange does depend the environmental equilibrium: the equilibrium of the water, of the vegetation, of the fauna of the very precious lagoon of Venice. The function of the MoSE should be to automatically close the access of sea water when the sea threatens to exceed a certain level thus causing the flooding of inhabited areas.

It is not easy to understand why this system, which as been designed by a consortium of State contractors firms, should be judged by many of uncertain utility, harmful for the activity of the port (which is one of the main economic resources for the city) and devastating for the ecological equilibrium of the lagoon. To understand their reasons, it should be reminded that the equilibrium of the lagoon has depended for centuries on a daily and minute work of maintenance to manage its numerous natural elements (length and depth of the thousands of canals, characteristics of the vegetation, defence of the coastline, extension of the brackish basin, characteristics of the solid and liquid elements supplied by the rivers) which allow the preservation of the lagoon as it is. Only thanks to this control it has been possible to defend the lagoon from the two natural destinies it could face: to become a swamp and eventually mainland, if the solid supplies were to prevail, or to become an open bay, if the force of the sea was to prevail.

Only a modern systemic vision allows today to preserve that equilibrium, to which is strongly connected the solution of the issue of the exceptionally high tides ( acque alte). Acque alte which have become progressively more aggressive as a consequence of the (now ceased) utilization of underground waters for industrial purposes in Porto Marghera, of the reduction (caused by the successive filling ups and the formation of closed fisheries) of the area where the sea tide can spread out, of the gigantic increase in the section of the channels that bring the sea water (enlarged and deepened to allow the access to oil tankers), of the rise in the sea level (due to the global climatic events).

The dispute between the local political forces concerned about the environment and interested in a sustainable development, and those interested in grasping the chances of economic expansion linked to the public works lies entirely on the contrast of two different projects. Very schematically (I’ll present soon more documents and comments), the first project has as primary aim the re-equilibration of the complex system of the lagoon, by acting on the whole set of elements that compose it; the second project proposes an engineering-type system which is pharaonically expensive, of uncertain effectiveness, certainly harmful for the relevant elements of the ecosystem of the lagoon (and for its whole equilibrium) and entailing irreversible physical transformations.

In these days the second perspective has prevailed, thanks also to a tricky trap in which the local opposers (as reported by the local press) to the MoSE have fallen and to the forcing committed by its powerful supporters.

Anche lì, la rottura con una tradizionale politica di contenimento delle trasformazioni degli usi dei locali al piano terreno, che aveva visto le precedenti giunte resistere per anni all’apertura del primo fastfood a Campo San Luca, è avvenuta con la liberalizzazione promossa dalla prima giunta Cacciari. Precisamente, con la revoca della delibera comunale che, applicando una legge nazionale (15/1987), consentiva al Comune di evitare l'invasione dei fast food e dei negozi di junk in modo ancora più efficace del PRG.

Il MOSE (MOdulo Sperimentale Elettromeccanico) è un gigantesco sistema, molto hard, di sbarramento mobile (ma con consistenti opere fisse) delle acque ai tre varchi (le Bocche di porto) che regolano lo scambio tra acque marine e acque salmastre da cui dipende l’equilibrio delle acque, della vegetazione, della fauna (in una parola,l’equilibrio ecologico) di quel preziosissimo bene che è la Laguna di Venezia. La sua funzione dovrebbe essere quella di chiudere automaticamente l’accesso alle acque del mare quando queste minaccino di superare un certo livello e di provocare l’allagamento dei pavimenti delle zone abitate della laguna.

Non è facile comprendere perché il sistema di sbarramenti progettato da un consorzio di imprese concessionarie dello Stato è giudicato da moltissimi un’opera di incerta utilità ai fini del suo obiettivo, penalizzante per l’attività del porto (una delle maggiori risorse della vita economica della città), devastante per l’equilibrio ecologico della laguna.

Per comprenderlo, occorre ricordare che la laguna basa, da secoli, il suo equilibrio su un lavoro quotidiano e minuto di manutenzione volto al governo dei numerosissimi elementi naturali (lunghezza e profondità dei mille canali che la percorrono, caratteristiche della vegetazione, difese dei litorali, estensione del bacino salmastro, caratteristiche degli apporti solidi e liquidi dei corsi d’acqua) cui è affidata la possibilità di mantenere la laguna in quanto tale. È solo grazie a tale azione di governo della laguna che è stato possibile scongiurare i due destini cui l’evoluzione naturale la condurrebbe in alternativa: diventare una palude, e poi una terra ferma, ove prevalgano gli apporti solidi dei fiumi; diventare una baia aperta, ove prevalga la forza delle onde marine.

Solo una moderna visione sistemica può consentire oggi di assicurare ancora quell’equilibrio, al cui ripristino è affidabile anche la massima parte dell’obiettivo della riduzione delle acque alte a livelli ragionevoli. Acque alte divenute progressivamente più minacciose per effetto del prelevamento delle acque dal sottosuolo per alimentare le industrie di Porto Marghera (ora cessato), del restringimento dell’area su cui può espandersi il flusso di marea (dovuto ai progressivi interrimenti e alla formazione di bacini chiusi per l’itticultura), del poderoso aumento della sezione dei canali che immettono l’acqua marina (allargati e approfonditi per consentire l’ingresso delle petroliere), dell’aumento dei livelli degli oceani (dovuto agli eventi meteorici planetari).

La querelle tra le forze locali più sensibili all’ambiente e a uno sviluppo duraturo, e quelle volte a cogliere le occasioni immediate di espansione economica connesse alle “grandi opere” sta tutta nella contrapposizione di due progetti. Schematizzando molto (ma tornerò presto sull’argomento, con commenti e documenti), il primo assume come obiettivo prioritario il riequilibrio del complesso sistema lagunare, agendo sull’insieme degli elementi che lo costituiscono; il secondo propone un sistema, di matrice ingegneristica, faraonico per l’impegno di spesa richiesto, incerto nella possibilità effettiva di raggiungere gli obiettivi proposti, sicuramente dannoso nei confronti di elementi rilevanti dell’ecosistema lagunare (e del suo equilibrio complessivo), irreversibile nelle trasformazioni dell’ambiente fisico che determina.

In questi giorni, è la seconda prospettiva quella che ha prevalso, grazie anche a una sapiente trappola nella quale (come documentano le cronache cittadine) sono caduti gli oppositori comunali al progetto MoSE, e alle forzature operate dai potenti sostenitori di quest’ultimo.

All’inizio del secolo una scommessa era davanti all’Occidente: davanti a quella civiltà nata sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate, sviluppatasi nel Delta del Nilo e nelle pianure della Galilea, nelle isole dell’Egeo e nel Peloponneso, poi sulle rive del Tevere e da qui propagatasi all’intera Europa, infine – arricchita dall’assimilazione delle culture di altri popoli indigeni e allogeni – radicatasi nel segno della libertà al di là dell’Atlantico. La scommessa, ambiziosa ma possibile, di esportare i propri valori faticosamente costruiti nel corso di millenni mediante un dialogo e uno scambio tra eguali, che permettesse all’Occidente di assimilare i valori (diversi, ma non per questo meno preziosi) maturati nell’ambito di altre civiltà e altre storie.

L’arrogante e violenta iniziativa di Bush e del possente gruppo di potere di cui è l’espressione ha fatto sì che la scommessa fosse perduta. La poderosa (ma spesso cieca) armata americana non ha solo spezzato l’esercito di Saddam: ha infranto le speranze di uno sviluppo del mondo fondato tra il dialogo tra le culture e le fedi. Qui sta la ragione della pertinace predicazione di papa Wojtyla, l’unico tra i potenti ad aver compreso qual era la posta in gioco, e perciò il più conseguente avversario di questa guerra.

All’estremo opposto (il nocciolo della Matrioska) è il suicidio dell’Italia. Dominata dal peggiore ceto politico che abbia mai abitato tra le Alpi e il Canale di Sicilia, in preda a un’accozzaglia di personaggi unificati solo dalla proterva volontà di sostituire sistematicamente l’interesse privato a quello comune, di saccheggiare il futuro in nome del massimo sfruttamento del presente, la nazione sembra condannata a un destino mortale. Non si vede infatti nessun segno di un’alternativa realmente capace di presentarsi come tale: dotata cioè di valorialternativi a quelli del signor B., capace di dare rispostecoerenti con tali valori, unita perché capace di fare della diversità di posizioni una ricchezza, impegnata nel delineare la strategia e il programma di un’opposizione di governo.

Il settore di maggior confusione è certamente la sinistra. Ad essa è affidato il maggior carico di responsabilità e di speranza: per il suo patrimonio ideale, per la sua potenziale forza organizzativa, per la sua residua consistenza, per l’attenzione che le riserva la più vitale delle reazioni al berlusconismo (quella dei girotondi, del sindacato, delle bandiere arcobaleno). Essa è oggi lacerata in un conflitto nefasto perché tenacemente racchiuso nei giochi sterili delle etichette, dei personalismi, delle piccole tattiche delle burocrazie di partito. Bisogna dirlo: per colpa (o per errore) di quanti hanno governato e governano le formazioni politiche della sinistra, di quanti sono stati ripetutamente sconfitti e (caso anomalo nel mondo democratico) non hanno saputo, dopo la sconfitta, farsi da parte.

Tra l’uno e l’altro suicidio sta quello dell’Europa. In questo caso, più che di suicidio si dovrebbe parlare di assassinio. A me sembra infatti abbastanza chiaro che non rispondere come hanno fatto Chirac e Schröder avrebbe significato piegarsi alla prepotenza di Bush è smarrire ogni speranza di autonoma collocazione dell’Europa nello scacchiere mondiale: ridurre l’Europa al ruolo di satellite, come avrebbe voluto il signor B. Ma tant’è. Nel pieno del difficile percorso per allargare i propri confini e per stabilire il proprio statuto, per uscire dal regno dell’economia e farsi Europa nel regno della politica e dei valori civili, il continente ha visto rialzarsi le barriere tra i diversi stati, ridurre il suo peso politico, allontanarsi la speranza di giocare un ruolo strategico di dialogo e pace tra le civiltà, le religioni, le culture.

Eppure, io credo che sia qui, nella capacità dell’Europa di riprendere il suo cammino, la speranza per un futuro che recuperi i valori dell’Occidente, devastati dalla guerra di Bush. Non abbiamo visto, del resto, l’Europa unificarsi - al di là delle differenze tra i governi - nelle manifestazioni per la pace, e attraverso i simboli di “Pace adesso”, “No alla guerra del petrolio”, legarsi alle analoghe proteste e speranze al di là degli oceani?

At the beginning of the century the West was facing a challenge. The West is the civilization born on the shores of the Tigris and Eufrates, which had further developed on the delta of the Nile and in the planes of Galilea, on the islands of the Aegean Sea and in the Peloponnese, then on the shores if the river Tiber and from there spreading to the whole of Europe, and finally – enriched through the assimilation of cultures of indigenous and allogenous peoples – took root beyond the Atlantic ocean under the aegis of freedom. The challenge was ambitious but possible: to export the values, which the West had been strenuously building up throughout the centuries, through a dialogue and an exchange among equals. An exchange, which would have made possible the assimilation of the different and precious values grown within other civilizations and other histories.

The arrogant and violent initiative of Bush and of the potent power group, of which he is expression, is to be blamed for this opportunity having been lost. The ponderous (and often blind) American military has not only broken the army of Saddam: it has smashed the hopes for the development of the world based on a dialog among cultures and faiths. This is the rationale for the persistent preaching of Wojtyla, the only one among the powerful of the world who understood the stakes of the game, and therefore the most consistent opponent of this war.

At the other extreme (the inner doll of the Matrioshka), there is the suicide of Italy. Subjected to the worst political class that has ever inhabited the land between the Alps and the Sicilian channel, prey of a bizarre array of characters, united by the stubborn will to consistently and systematically substitute private interests to public ones, to pillage the future in the name of the maximum exploitation of the present, the nation seems to be condemned to a fatal end. There is in fact no sign of an alternative really capable of presenting itself as such, that is embodying alternative values to those of Mr. B., capable of giving coherent answers with such values. An alternative united because it can be enriched through diversity of positions, and engaged in outlining the strategy and the program of a government opposition.

The most confused sector is certainly the left. The left should be held responsible and yet it should be a source of hope: for its wealth of ideals, for its potential organizational strength, even for its residual consistency, for the attention that it deserves for the most vital reaction against berlusconianism (that of the “girotondi”, of the unions, of the rainbow flags). Today the left is divided in a conflict that is pernicious because it is tenaciously closed in a sterile game of labels, of personalism, of the small-scale tactics of the party bureaucracies. It should be said: to be blamed are the faults (or the mistakes) of those who have ruled and still rule the political formations of the left, who have been repeatedly defeated and (an anomalous case in the democratic world) yet were not able to leave the scene after the defeat.

Between one and the other suicides there is the suicide of Europe In this case, more than suicide we should talk of murder. It seems clear enough to me that not to answer as Chirac and Schröder did would have meant subjection to the arrogance of Bush and the loss of any hope of an autonomous position of Europe on the stage of world politics. Europe would be reduced to the role of satellite, as Mr. B. would like. And nevertheless, in the midst of the difficult path towards the enlargement of its borders and the establishment of its constitution, towards the overcoming of the purely economic conditions and becoming Europe in the sphere of politics and of the civic values, the continent has seen the reemergence of the borders between the different states and the reduction of its political weight. As a consequence the hope of playing a strategic role of dialog and peace among civilizations, religions, and cultures becomes more remote.

And nevertheless I believe that it is here, in Europe’s ability to again take up its path, that hope lies that the values of the West devastated by Bush’s war might yet be recovered for the future. Haven’t we seen, anyway, a united Europe, beyond the differences between governments, in the peace demonstrations, and through the connections to analogous protests and hopes beyond the oceans?

It is easy to say one should not stay with Saddam. He is one of the worst products of the inauspicious combination between the age-long stagnation of Middle Eastern civilizations and the rapacious and short-sighted interests of the West. Those who protested yesterday, when Saddam was an instrument of the West, against the massacres of Kurds, communists and other opponents, can easily say it today. There is therefore nothing to object to the first “not”.

Millions of people (in Europe and in the three Americas, in Asia, in Africa and in Australia) have already said they arenot with Bush: they have marched to oppose Bush’s war and to reject the policy of the US ruling class. The Pope, John Paul II, is saying every week, almost every day, that he is not with Bush. The Italian President, who is the highest representative of the nation, says the same thing. Members of the left wing and centre parties, sharply criticizing the Prime Minister for his tepidness and for his concealed servilism to Bush have said the same thing.

Many of us have said that, while not supporting Saddam, we don’t support Bush either. Where is the scandal? Isn’t saying “not with Bush, nor with Saddam” just saying the simple truth? Why shouldn’t one say such a simple truth?

In general, there are three possible reasons for not saying the truth: ignorance, fear or interest. It is difficult to ascribe ignorance to the members of Parliament, the political leaders, the journalists and the other clerks who have reproached Epifani for his phrase. It is even harder to believe that they can be moved by fear: fear of what, of whom? The CIA has proven not to be very dreadful.

The only reason that is left is interest. But what kind interest has pushed to clouding, to hiding the truth? Certainly it is not an economic interest: we are talking about respected politicians, not about gun merchants or firms for post-war reconstruction. Nor is it a “humanitarian” interest: I don’t believe that the death of an American or of an English soldier could seem to these respected politicians more horrible than the death of an Iraqi soldier. I fear it is only a trivial, petty political interest, an interest of electoral accounting. I fear it is only the concern of losing a few moderate voters. Voters who would have preferred to obtain the UN’s blessing for Bush’s and Blair’s troops, but who have anyway decided to (metaphorically) wear the helmet and to side with the “defenders” of the West, since Bush has taken action.

The policy sustained by Bush and Blair is leading to the suicide of the West: a moral suicide, because the values of justice and truth, which are the base of our civilization, have been trampled on; a strategic suicide, because an inevitable wave of hate towards all of us has been unleashed; a political suicide, because the international institutions, built with difficulty on the ruins of the world ravaged by Nazi-fascism, have been destroyed. The real scandal is that these petty political interests should cover words of truth.

Post scriptum

On January 26, 1998, years before the destruction of the Twin Towers and the proclamation of the horrible theory of preventive war, the PNAC – Project for the New American Century, a US pression group – wrote a letter to President Clinton prompting for a “strategy for removing Saddam’s regime from power,” even with the military. Among those who subscribed the letter are some of the most influential members of the US administration: Dick Cheney, Vice President; Lewis Libby, Cheney’s Chief of Staff; Donald Rumsfeld, Secretary of Defense; Paul Wolfowitz, Deputy Secretary of Defense Peter Rodman, “global security” advisor; John Bolton, Under Secretary of Arms Control and International Security; Richard Armitage, Deputy Secretary of State; Richard Perle, chairman of the Defense Policy Board; William Bristol, chairman of PNAC and Zalmay Khalilzad, Presidential Envoy to the Iraqi Opposition.

È facile dire che non si sta con Saddam. È uno dei peggiori prodotti del nefasto intreccio tra la plurisecolare stagnazione della civiltà mediorientale e gli interessi rapaci e miopi dell’Occidente. È particolarmente facile dirlo anche oggi per quanti hanno protestato ieri per le stragi di curdi, di comunisti e di altri oppositori che Saddam ha fatto quando era strumento dell’Occidente. Nulla da eccepire quindi sul primo “né”.

Ma milioni di persone (in Europa e nelle tre Americhe, in Asia e in Africa e in Australia) hanno già detto che non stanno con Bush: hanno manifestato nelle piazze la loro opposizione alla guerra di Bush, il loro rifiuto netto per la politica dell’attuale gruppo dirigente degli USA. Dice ogni settimana, ormai quasi ogni giorno, che non sta con Bush il Papa dei cattolici, Giovanni Paolo II. Lo dice il Presidente della Repubblica, massimo esponente e rappresentante della nazione. Lo hanno detto anche gli esponenti dei partiti di centro e di sinistra, criticando aspramente il Capo del governo per la sua tiepidezza, per il suo dissimulato servilismo verso Bush.

Siamo davvero in tanti ad aver detto che, oltre a non stare con Saddam, non stiamo neppure con Bush. Allora, perché scandalizzarsi? Dire che non si sta “né con Bush né con Saddam” non significa forse dire semplicemente la verità? Perché non si può, perché non si deve dire una verità così semplice?

In generale, le possibili ragioni per non affermare il vero sono solo tre. O l’ignoranza, o la paura, o l’interesse. È difficile affibbiare l’attributo dell’ignoranza ai parlamentari, ai dirigenti politici, ai giornalisti e agli altri clerici che hanno rimproverato Epifani per la sua frase. È ancora più difficile credere che sia la paura ad animarli: paura di che,di chi? La CIA ha dimostrato davvero di non essere troppo temibile.

Non resta allora che l’interesse. Ma quale interesse può aver spinto a desiderare di annebbiare la verità, di nasconderla? Non certo un interesse economico non stiamo parlando di mercanti di cannoni o imprese di ricostruzione posbellica, ma di stimati dirigenti politici. E neppure un interesse, diciamo così, umanitario: non credo che la morte di qualche soldato americano o inglese possa apparire a qualche stimato dirigente politico piò orrenda della morte di qualche soldato iracheno. Temo che sia solo un piccolo, meschino interesse di politico: anzi, di bottega elettorale. Temo che sia solo la paura di perdere qualche voto su quel versante moderato che magari preferirebbe aver avuto la benedizione dell’ONU alle armate di Bush e Blair, ma che comunque, visto che Bush si è deciso a rompere gli indugi, si è infilato (metaforicamente) l’elmetto in testa e si schierato con i “difensori” dell’Occidente.

La politica di Bush e di Blair ha dato il via a un vero e proprio suicidio dell’Occidente: suicidio morale, per aver calpestato e offeso i valori di giustizia e di libertà, che sono alla base della nostra civiltà; suicidio strategico, per aver scatenato una inevitabile ondata di odio verso tutti noi da parte di una sterminata parte dell’umanità; suicidio politico per aver demolito gli istituti della convivenza internazionale, costruiti con fatica sulle macerie del mondo devastato dal nazifascismo. Che in questo scenario piccoli interessi di bottega politica facciano velo alla pronuncia di parole di verità è veramente, questo si, scandaloso.Post scriptumIl 26 gennaio 1998, anni prima della distruzione delle Twin Tower, della proclamazione dell’orrenda teoria della Guerra preventiva, un gruppo di pressione statunitense PNAC ( Project for the New American Century)scriveva al Presidente Clinton una lettera (l’inserisco qui sotto) in cui si chiede esplicitamente di attuare “una strategia per rimuovere il regime di Saddam dal potere” (“ a strategy for removing Saddam's regime from power”) anche con mezzi militari. La lettera è pubblicata dalla rivista Internazionale, la cui redazione mette in evidenza come tra i firmatari vi siano “alcuni dei nomi più influenti dell'attuale governo degli Stati Uniti. E cioè: Dick Cheney, vicepresidente; Lewis Libby, capo dello staff di Cheney; Donald Rumsfeld, ministro della difesa; Paul Wolfowitz, vice di Rumsfeld; Peter Rodman, responsabile delle ‘questioni di sicurezza globale’; John Bolton, segretario di stato per il controllo degli armamenti; Richard Armitage, vice ministro degli esteri; Richard Perle, ex vice ministro della difesa dell’amministrazione Reagan e ora presidente della commissione difesa; William Bristol, capo del Pnac e consigliere di George W. Bush; e Zalmay Khalilzad, ambasciatore speciale di Bush presso l’opposizione irachena”.

Prima questione: i “diritti edificatori” dei privati. In questo sito la questione è stata ampiamente trattata, e penso che i lettori abbiano compreso che nessun diritto è riconosciuto dalla legge (e dalla giurisprudenza) a chi ha goduto di una previsione urbanistica lucrosa. Le misure “compensative” non sono quindi una necessità, ma una libera scelta della politica. I Reggitori del Campidoglio l’hanno compreso e – a quanto sembra – hanno fortemente ridotto il ricorso all’ambiguo strumento. Bisognerebbe propagandare questa informazione nella altre città d’Italia, perché gli equivoci non germogliano solo nell’Agro romano.

Seconda questione: il consumo di suolo. Ciò che ha unito quelle opposizioni al piano che volevano migliorarlo e non cancellarlo (la grande maggioranza, per fortuna) è la critica al sovradimensionamento e alla sottrazione di altra preziosa risorsa “territorio aperto”; la riduzione delle aree sottratte alla campagna è la correzione più forte che è stata apportata dal Consiglio comunale. Forse i tempi sono maturi per affermare un principio nuovo (in Italia, ma consolidato in altre società). Ogni sottrazione di suolo al ciclo naturale, ogni trasformazione di un paesaggio agrario in un incerto paesaggio urbano, è un prezzo: un prezzo che la società può pagare, ma se ciò è proprio necessario. Occorre perciò dimostrare rigorosamente che ci sono esigenza che la comunità non può soddisfare se non urbanizzando nuovi territori. Occorre commisurare strettamente, rigorosamente e trasparentemente le nuove aree urbanizzate agli accertati bisogni. Occorre, anzi, che il limite che separa le aree urbanizzate e urbanizzabili dal territorio aperto sia la prima scelta di un nuovo piano regolatore, e che sia un confine fisso, invalicabile, una invariante strutturale.

Terza questione: l’urbanistica e la politica. Il piano regolatore non è (non deve essere) uno strumento per regolare il valore economico dei suoli. Questo può essere un effetto, non l’obiettivo. L’obiettivo è (deve essere) porre le premesse perché la città sia amica delle donne e degli uomini, li aiuti a vivere, a risolvere i loro problemi: di fruizione dei servizi, di mobilità sul territorio, di incontro, di accesso ad un’abitazione a prezzi sostenibili, di godimento di ciò di bello e buono che natura e storia hanno prodotto. Assumere questo obiettivo, tradurlo in indirizzi concreti di uso del territorio e di trasformazione dei suoi modi di organizzazione, scegliere le soluzioni tecniche giuste perché ciò avvenga nei necessari atti amministrativi, è compito della politica. È l’urbanistica che è ancella della politica, non viceversa. Ma la politica deve effettivamente guidare la tecnica, deve chiederle di rispondere ai suoi quesiti, di soddisfare le esigenze che le pone in nome delle cittadine e dei cittadini, di oggi e di domani (oppure, se preferisce, in nome dei proprietari fondiari, dei promotori immobiliari, delle componenti dello sfaccettato “blocco edilizio”: ma ciò deve essere esplicito). Ma allora la politica deve assumere la pianificazione urbanistica come un suo compito centrale: quindi deve conoscerla, saperla adoperare per svolgere il suo peculiare servizio. I soprassalti tardivi, le correzioni dell’ultima ora, testimoniano della buona fede e dell’onestà, non della cultura politica, nè della consapevolezza degli strumenti impiegabili per raggiungere i fini.

Ne è passato del tempo da allora: un abisso, se lo misuriamo non in anni ma in eventi: tragedie e glorie, miserie e ricchezze, fatiche, piaceri, speranze, delusioni, mondi nuovi e macerie di universi. Epoche, separate da abissi. Uno snocciolarsi di eventi che ha cambiato il panorama di ciascuno di noi, e quello di noi tutti.

La guerra dei nazisti e dei suoi alleati in orbace e in grigioverde, accorsi per partecipare alla divisione delle spoglie. I bombardamenti delle città, la povertà e la condivisione solidale delle scarse risorse. I bollettini di guerra, e le trapelanti notizie degli uomini massacrati nel gelo e nel deserto dei fronti lontani. La scoperta dell’antifascismo e gli eventi di una Resistenza che si svolgeva accanto a noi. Lo svelamento degli orrori che, nel silenzio miope o complice dei nostri padri, era stato lucidamente perpetrato dal razzismo, non solo altrui.

E poi, la riscoperta della politica, della democrazia, della competizione civile tra idee differenti. La fatica della ricostruzione e l’asprezza dei conflitti. La rottura dell’unità antifascista nel mondo e le nuove barriere al bolscevismo. Le piazze colorate divise dalla bandiere contrapposte ma unite dalla ricerca di valori e interessi comuni. L’austera severità e la minacciosa fermezza delle tute blu in corteo tra i palazzi signorili. Il manifestarsi dei frutti della ricostruzione: benessere, modernità, abbondanza dei consumi, nuovi orizzonti nei commerci e nei costumi. L’ingresso prepotente delle donne nel lavoro e dei valori urbani nella vita di tutti. E la scoperta dei prezzi inconsapevolmente pagati: le città a sacco, le coste devastate, le campagne abbandonate, i boschi distrutti – e insieme, l’affievolirsi dei sentimenti di solidarietà.

E ancora: i tentativi di cambiamento, tra velleità e delusioni e grandi speranze e fragili conquiste. Le molte facce della reazione, fino a quelle devastanti del terrorismo bombarolo di destra (e poi di quello di sinistra). Il crollo di una speranza e l’apertura di nuove complicate relazioni tra il mondo vincente del capitalismo di mercato e quello sconfitto della pianificazione socialista. La nuova frontiera dell’Europa, e la scoperta dei limiti: da quelli del pianeta e delle sue risorse, a quelli della democrazia e delle sue regole.

Fino a questi giorni, alle soglie della guerra dell’”Impero del bene” contro il resto del mondo: Un mondo che si era svelato molto più ricco di civiltà, fedi, religioni, costumi, ancora irriducibili a valori comuni, di quanto avessimo potuto immaginare. Il sorgere, accanto e in contrasto al nuovo imperialismo, di nuove estese solidarietà, gettate su territori tra popoli lontani (quanto memori di quelle solidarietà che avevano sconfitto l’orrore nazifascista?).

Leggere le cronache dell’arrivo dei reduci Savoia a Napoli fa comprendere che è passato ben più di qualche decennio. E scorrere le cronache di oggi è come guardare in un cannocchiale rovesciato.

Vedi, a proposito, i miei ricordi

Sono gli anni che iniziano con la Nota aggiuntiva del ministro La Malfa al Bilancio dello Stato (in cui si additano per la prima volta gli squilibri territoriali come un problema politico centrale per lo sviluppo del paese), con la denuncia degli effetti del quindicennio postbellico e delle devastazioni del territorio in esso compiuta, con la sconfitta della proposta radicale (per l’Italia) di riforma urbanistica ma con il rilancio della pianificazione delle città, la disciplina delle espansioni edilizia, l’introduzione della garanzia di civiltà degli standard urbanistici, lo svelamento degli errori di incostituzionalità del sistema di diritti dominicali. E si concludono (dopo anni costellati di “rumor di sciabole” e di attentati terroristici di matrice fascista) con il logoramento del tentativo di modernizzare il paese mediante leggi che riformassero non, come oggi, la superficie dei meccanismi del potere, ma la struttura sociale ed economica.

In quegli anni politica e urbanistica erano vicine perché servivano l’una all’altra.

La politica, quella che aveva le sue radici nella opposizione al fascismo, aveva scelto di spostare gli equilibri sul terreno dei meccanismi profondi dell’economia, riducendo il potere della rendita a vantaggio del profitto e del salario; come era storicamente avvenuto negli altri paesi europei. Aveva compreso che un assetto ordinato del territorio e delle città era essenziale perché la produzione riducesse i propri costi e la vita delle famiglie fosse più serena. Aveva dunque necessariamente trovato nella pianificazione territoriale e urbanistica uno degli strumenti essenziali per il governo delle trasformazioni della città e del territorio.

L’urbanistica, ancora immersa dell’esperienza della Resistenza, pienamente uscita dall’autarchia culturale, era insofferente della mortificazione implicita nell’arroccamento nella sterilità della denuncia o nell’evasione nei giochi dell’accademismo, nella riduzione dell’azione alla predicazione dell’utopia o al piccolo compromesso professionale. I suoi “militanti”, gli urbanisti, erano divenuti consapevoli che, se il loro mestiere consentiva loro di comprendere le ragioni della devastazioni che vedevano e di possedere le tecniche che avrebbero potuto evitarle e correggerne gli effetti, la possibilità di renderlo operativo dipendeva dal fatto che la politica comprendesse la portata generale della questione e si impadronisse della ricerca delle soluzioni possibili.

Lo studio al sesto piano del palazzone all’inizio di via Nomentana, l’ufficio di Michele Martuscelli, Direttore generale dell’Urbanistica del Ministero dei lavori pubblici, fu uno dei luoghi dove questo incontro divenne concreto. Uomini politici come Giacomo Mancini e Pietro Bucalossi, Francesco Compagna e Lorenzo Natali, Leone Cattani ed Enzo Storoni, Michele Achilli e Alberto Todros, e urbanisti come Giovanni Astengo ed Edoardo Detti, Luigi Piccinato e Giuseppe Samonà, Marcello Vittorini e Italo Insolera, Antonio Cederna e Antonio Iannello (ed economisti come Giorgio Ruffolo e Giuliano Amato, giuristi come Massimo Severo Giannini e Alberto Predieri) discutevano lì i tasselli di un disegno riformatore che non giunse mai ad affermarsi compiutamente, ma di cui non si riuscì (almeno fino ad oggi) a distruggere altrettanto compiutamente gli elementi di civiltà e di modernità (di Europa) che aveva introdotto.

La scomparsa di Michele Martuscelli, e il clima culturale di anni lontani che il suo ricordo sollecita ad evocare, induce a ribadire una convinzione. Uno degli handicap che ancora pesano sul successo di una politica di riforme vere nel nostro paese, che rendono poco credibili gli sforzi volti a contrastare lo sfrenato individualismo del privilegio (evidente bandiera del berlusconismo), che imprimono un sospetto di opportunismo e di labilità alle formazioni politiche dell’opposizione, sta nel fatto che esse sembrano trascurare le questioni del governo delle città e del territorio: sembrano considerare irrilevanti, o fastidiose, questioni che sono vitali per la vita delle cittadine e dei cittadini, e per il futuro del nostro paese.

Voleva essere un’addolorata protesta perché i gravissimi problemi dell’ organizzazione della città e del territorio (creazione e luogo privilegiato della vita degli uomini, oggi e qui devastati scenari del loro disagio quotidiano) vengono da alcuni decenni del tutto trascurati da chi governa e da chi aspira a governare. Eppure, benché neppure una parola sollecitasse a sospettare un’intenzione corporativa, il dubbio a qualcuno è venuto. Mi sono domandato perché. Quando il mio interlocutore è in buona fede penso sempre di avergli dato io l’occasione di cadere in errore: per me non è una formula di cortesia dire “non mi sono spiegato”, invece di “non hai capito”. Dov’era allora l’appiglio dell’equivoco? Perché si è potuto pensare che la lettera fosse in difesa degli urbanisti invece di essere in difesa della città e del territorio?

Ho capito perché. L’invito a firmarla era rivolto agli urbanisti e sono gli urbanisti che l’hanno firmata. L’equivoco non sarebbe nato se mi fossi rivolto, per cercarne l’adesione, a chi usa la città e il territorio e patisce gli errori del suo malgoverno: alle cittadine e ai cittadini. Ma è stato davvero un errore il mio? Riflettendoci mi sono convinto di no, e voglio spiegarne le ragioni.

Non ritengo affatto che gli urbanisti – che noi urbanisti – si sia degli eroi o dei santi. Non ritengo che si abbia un senso civile, una sensibilità politica, una capacità di anticipare il futuro più elevata (né più povera) di chi pratica e condivide altri mestieri e altri saperi. Né credo che la nostra “ comunità scientifica”, che la cultura urbanistica italiana sia stata e sia scevra di errori: come altre comunità e altre culture. Solo che il nostro mestiere, e ciò che ci sforziamo di sapere, ci induce a essere esperti della città e del territorio. Non in concorrenza con gli altri che se ne occupano distintamente da noi (i geologi e i politici, gli economisti e i naturalisti, i geografi e i sociologi, i giuristi e gli statistici, gli architetti e gli ingegneri) ma assumendo per conto nostro la missione di tener conto dell’insieme dei fattori che caratterizzano lo spazio della vita della società, e studiandoci di individuarne l’organizzazione più efficiente rispetto agli obiettivi (di funzionalità, di equità, di bellezza, di durevolezza) che la società si pone (e ci pone). L’organizzazione migliore dello spazio, nell’immediato e soprattutto nel tempo, è il nostro mestiere. Che si interseca e scambia utilità con quello dell’ambientalista e quello del politologo, ma non si confonde né si sostituisce ad essi.

Ecco allora una buona ragione per rivolgersi in primo luogo agli urbanisti quando si vuole protestare perché l’organizzazione e il destino della città e del territorio sono ignorati dalla politica. Sono i primi a comprendere che qualcosa non va e qualcos a si comprometterà irrimediabilmente se la politica trascura il territorio: perché è alla politica che spetta, in ultima analisi, quel “governo del territorio” di cui essi e le loro pratiche sono uno strumento. Certo, tra i clercs sono anche i primi a pagare: quando la politica si disinteressa della città e del territorio (della “casa della società”): anche il loro ruolo sociale decade. Né possono rifugiarsi nella solitudine degli studi, come è dato di fare ai portatori di altri saperi, poiché il loro mestiere è finalizzato all’agire.

Quindi, in definitiva, è anche in loro difesa che gli urbanisti hanno firmato la lettera al direttore di Micromega: non però in difesa del potere della loro corporazione, ma dello specialismo che offrono alla società e del quale la società deve avvalersi, pena l’ accumularsi di sofferenze d disagi, di sprechi e di sopraffazioni.

Mi spaventano quando arrivano dai mass media e dalla e-mail a raffica che scaturiscono dal Paese devastato nella sua sicurezza dai terroristi suicidi dell’11 settembre, quando assumono la forma del dileggio agli europei imbelli e cialtroni che vogliono la pace ad ogni costo. E mi spaventano quando li sento serpeggiare nei nostri discorsi e nelle nostre piazze.

L’editoriale del mio amico americano ricorda quanto siamo vicini, sulle due sponde dell’Atlantico, nel male e nel bene: europei e americani, e soprattutto italiani e americani.

Come loro, anche noi abbiamo oggi un governo democraticamente eletto (con le regole di questa limitata democrazia che siamo riusciti a costruire), ma devastante negli obiettivi che si pone e nei modi in cui li persegue. E non so, francamente, se sia più mortificante per noi l’essere rappresentati dal servilismo strisciante e guitto del tycoon che la maggioranza (risicata) dei nostri concittadini ha scelto per governarci, o per loro il dover essere identificati con l’arroganza trogloditica dell’uomo di affari che una maggioranza (discussa) degli elettori ha sollevato ai fastigi della Casa Bianca.

Come loro, anche noi oggi, 15 febbraio, riempiamo le piazze per protestare per la politica, suicida per la civiltà occidentale, che il padrone e il servo si propongono di scatenare. Come loro, anche noi detestiamo la risposta perdente e omicida del terrorismo, ma vogliamo sconfiggerla con armi diverse da quelle del terrore di massa, e senza negare neppure ai presunti assassini le garanzie che la nostra civiltà ha conquistato al mondo. Come loro, anche noi torniamo ai valori e agli episodi del passato comune per rafforzare la nostra volontà di oggi, per trovare gli antidoti al male che ci circonda.

I valori e gli episodi del passato comune: a questi dovremmo riflettere più tenacemente per combattere i germi dell’intolleranza che serpeggiano al di qua e al di là dell’Atlantico. I valori e gli episodi della lenta e faticosa conquista della democrazia, che per la nostra civiltà ha richiesto secoli di lotte e di maturazioni (e che alle altre civiltà si vorrebbero imporre – come si diceva una volta – con le baionette). Quelli della faticosa conquista dei diritti del lavoro, strappati al capitalismo con quel travagliato e sanguinoso percorso di emancipazione del lavoro che ha il suo simbolo nella festa del 1° maggio (una festa che, non dimentichiamolo, è nata, nel 1886, nelle piazze di Chicago dal sacrificio dei lavoratori americani). Quelli, infine, della resistenza al nazifascismo, che ebbe nell’America di Roosvelt (come nella Gran Bretagna di Churchill e nell’Unione sovietica di Stalin) i protagonisti della sua vittoria.

Ho scelto, come icone di questi giorni, le due immagini affiancate della bandiera della pace e della Guernica di Picasso. Quest’ultima immagine ricorda il primo episodio della resistenza all’intolleranza sanguinaria del nazifascismo. Mi richiama alla memoria un libro che - in questi giorni in cui la bandiera a stelle e strisce rischia di diventare simbolo di ciò che non vogliamo - invito a leggere e a rileggere: Hemingway, Per chi suona la campana: un libro dedicato alla medesima guerra di cui Guernica testimonia gli orrori, e al contributo che dall’altra parte dell’Atlantico venne allora alla salvezza dell’Europa.

Qual è la storia del Primo Maggio?

Che cos’è Guernica?

Che cos’è quel libro di Hemingway?

Perché si chiama “Per chi suona la campana

È una tesi che Cerulli Irelli giudica assolutamente ovvia, mentre ha definito”una sciocchezza” la tesi secondo cui, invece, si dovrebbero “compensare” previsioni di piano che riducano o tolgano edificabilità ad aree “valorizzate” da precedenti previsIoni di piano. Queste affermazioni possono apparire assolutamente controcorrente nel dibattito e nella prassi dell’attuale urbanistica italiana. La “compensazione” è diventata infatti una parola d’ordine. Nel PRG di Roma ha provocato un notevole sovradimensionamento, del tutto immotivato seconda qualunque altro criterio. Ma in quanti comuni italiani si ritiene che cancellare una previsione del piano vigente comporta la necessità di “compensare” il proprietario per la perdita subita”? Eppure, come ho dimostrato rastrellando tutte le sentenze disponibili (della Corte costituzionale del Consiglio di Stato, dei TAR) perfino le lottizzazioni già convenzionate possono essere ridotte anche pesantemente nei loro contenuti, e perfino cancellate, se la decisione è adeguatamente motivata. E senza pagare alcun prezzo (se non quello per i danni reali eventualmente subiti dal proprietario e inoppugnabilmente documentati). Figuriamoci una semplice previsione di PRG.

Adeguatamente motivata. Ecco, in questa frase c’è un limite dell’attuale giurisprudenza. Oggi occorre motivare la riduzione di edificabilità. Vorrei porre un obiettivo certo ambizioso ma, a mio parere, non utopistico: raggiungibile cioè. È ormai amplissima la consapevolezza del fatto che il ciclo biologico naturale è un bene prezioso da cui troppa parte del nostro territorio è stata privata (dal 1945 a oggi il territorio urbanizzato è aumentato del mille per cento). È convinzione sempre più larga che il paesaggio agricolo, boschivo, pastorale è un bene culturale, è un elemento della ricchezza comune. Ebbene, tutto ciò non dovrebbe sollecitare a chiedere una “adeguata motivazione” – anzi, una dimostrazione scientifica – della necessità di sottrare anche un solo ettaro ulteriore di terra al ciclo biologico, al paesaggio non urbano?

Nel piano strutturale di Sesto Fiorentino la Giunta comunale ha deciso si inserire, tra le “invarianti strutturali” (e anzi prima fra esse) la linea che segna il limite delle aree urbanizzate e urbanizzabili. La città ha raggiunto i suoi limiti. Le ulteriori esigenze di spazio possono essere soddisfatte utilizzando meglio ciò che è già stato sottratto alla campagna. È la riproposizione di una regola che, come Camagni, Gibelli e Rigamonti hanno documentato, si sta applicando in diverse aree dell’Europa e degli USA. Assumerla in modo generalizzato sarebbe un buono strumento per tutelare l’ambiente e la cultura.

P. S. A proposito di quest’ultima affermazione. È singolare osservare che una prestigiosa rivista come Micromega, nel numero dedicato a delineare il programma per “un’altra Italia possibile”, dedica due dozzine di capitoli ad altrettanti argomenti (tra cui, appunto, l’ambiente e i beni culturali, insieme alla giustizia e alla sanità, all’immigrazione e all’università, alle carceri e alla sicurezza), e non ne dedichi nessuno al territorio e al suo governo: come se non fosse qui, negli scempi e negli errori che si commettono con la malpianificazione del territorio e delle città, una delle cause maggiori della devastazione dell’ambiente e della dissipazione dei beni culturali.

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