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11 settembre - Due anniversari: il golpe in Cile (1973); le due torri (2001). Ci sarà un nesso?

La Repubblica, 25 maggio 2011

"la Repubblica", 28 agosto 2011. Anche qui in eddyburg.it

qui, nelle

L’inclusione nel decreto di una norma che consente il traffico delle cubature è, al tempo stesso, la fanfara che scatena le armate dei barbari alla distruzione del territorio in tutti i suoi aspetti (come patrimonio della civiltà e come habitat dell’uomo) e la dimostrazione del ritardo della cultura (anche quella urbanistica, anche quella della sinistra, anche quella liberale) a comprendere la portata delle ragioni della crisi e quindi della sua “soluzione”.

Il nodo della questione è quella che i giuristi chiamano “appartenenza dell’edificabilità”. A chi appartiene la potestà (il diritto) a trasformare il suolo di sua proprietà al di là dei tradizionali usi rurali? Da alcuni secoli in tutto il mondo toccato dalla civiltà nordatlantica la natura, spesso fortemente privatistica, della proprietà del suolo è stata temperata dalla decisione che la quantità, i modi e i tempi delle trasformazioni di tipo urbano vengono decise dall’autorità pubblica: è a questa, in ultima istanza, che spetta la responsabilità di decidere in che modo il territorio deve essere trasformato per diventare più efficacemente l’habitat dell’uomo. Questa decisione storica (che ha accompagnato i forti processi di urbanizzazione generati dall’affermazione del sistema capitalistico borghese) ha assunto procedure Da quando si sono affermate forme più estese di partecipazione del popolo (degli elettori) al governo le decisioni sulle trasformazioni di tipo urbano sono state caratterizzate da una “pianificazione” (cioè a una visione e disciplina olistica delle trasformazioni) “democratica” (cioè caratterizzata da subordinazione ai poteri eletti e trasparenza nel procedimento di formazione delle scelte). Il principio implicito in quella decisione storica, e nelle sue conseguenze procedurali, era evidentemente che l’edificabilità “appartiene” al potere pubblico: alla collettività, e non al singolo proprietario o possessore.

Questo principio non è mai stato affermato in modo esplicito nel diritto italiano; ma non è stato neppure contraddetto. Quando in un famoso progetto di piano regolatore (quello di Roma, nei primi anni 2000) si è parlato di “diritti edificatori” che debbano essere riconosciuti de jure ai proprietari beneficiati” da una decisione urbanistica ho cercato di capire se era vero. Con l’aiuto dell’indimenticabile Luigi Scano ho studiato la questione e ho potuto dimostrare che tutta la giusrisprudenza era concorde nell’ammettere che la decisione di rendere edificabile a fini urbani un suolo era una decisione che spettava all’autorità pianificatrice, e che pertanto questa poteva modificarla senza pagare alcun indennizzo al proprietario. Alle stesse conclusioni è arrivato un illustre giurista, uno dei pochi esperti veri di diritto urbanistico italiano, Vincenzo Cerulli Irelli

Tuttavia l’espressione “diritti edificatori” (appartenenti ai privati proprietari) ha circolato ed è diventa pensiero corrente: a destra e a sinistra, tra gli inesperti e tra gli esperti, tra i politici e tra gli urbanisti. É diventato un passepartout per motivare pratiche “perequative” sempre più estese e – su un terreno solidamente strutturale – per allargare il dominio della rendita urbana nell’economia e nella società.

In molte città e paesi (non in tutti, per fortuna) si è cominciato a ragionare e a decidere in termini di mercato delle cubature. Questo sembrava finalmente libero (grazie al luminoso esempio del PRG “riformista” di Roma) dai rischi corsi da chi aveva praticato l’urbanistica contrattata negli anni di Mani pulite.

Ma la volontà di includere una norma che “liberalizza” il trasferimento di cubature da una parte all’altra del territorio dimostra che prima questa “libertà” non c’era. Prima, cioè oggi, chi ha ottenuto dal comune, attraverso la decisione di un piano, la facoltà di edificare sul suo terreno non era (non è) “libero” di trasferirla da un’altra parte. Ergo, non era legittimo farlo. Ergo, la “perequazione allargata”, la concessione di “crediti edilizi” in cambio di cessione di aree, quindi in definitiva l’appartenenza privata di “diritti edificatori” era (è) illegittima. A partire dal PRG di Roma, in cui i “diritti edificatori” furono fortemente voluti dagli urbanisti che lo proposero, ma consapevolmente accettati dal sindaco che li difese.

Giustamente lo stesso giornale della Confindustria dimostra preoccupazione per la “Cubatura in libera vendita”. Liberati dal fastidioso pensiero di dover pagare per un atto illegittimo i promotori immobiliari si affaccenderanno più tranquilli a mediare tra gli interessi dei possessori di fondi (di soldi) e le amministrazioni comunali. Certo, quelle dove un’avveduta “cultura della pianificazione” (e dell’interesse collettivo) resta ancora solida negli eletti, lì si potrà impedire con i piani urbanistici che la commercializzazione del diritto a edificare produca effetti: ove il Prg non consente i trasferimenti di cubatura e simili procedure, il “diritto di edificare” rimane un flatus vocis. Ma quanto, e quanti, resisteranno? Quanti hanno resistito, per restare nel campo dello stravolgimento delle norme della politica urbana, alla facoltà di destinare a spese correnti le somme raccolte per realizzare le opere di urbanizzazione tecnica e sociale?

La legittimazione del traffico di cubature è veramente un tassello di grande rilievo nella campagna di “superamento della crisi” per mezzo del saccheggio dei beni comuni. Ancora più se lo leggiamo legato all’altra grande questione sulla quale si dibatte da mesi: come utilizzare l’alibi della crisi senza toccare i portafogli del compound finanziario e di quello militare, cogliere qualche refolo del vento dell’antipolitica, e finalmente smantellare quel poco, o tanto, del patrimonio di governo pubblico istituzionale che ancora sopravvive. Nessuno sano di mente può pensare di difendere l’assetto istituzionale italiano così com’è. Ma una cosa è affrontare i suoi veri nodi, liberare i luoghi della democrazia esistente dall’abbraccio mortifero di partiti che non rappresentano più la società, rendersi conto delle ragioni che giustificano un assetto istituzionale multiscalare (corrispondente quindi alla realtà profonda del territorio), e configurare un nuovo ordinamento delle istituzioni elettive da attuare perché la volontà comune si esprima e diventi operativa in modo più efficace, altro è smantellare pezzo per pezzo ciò che decenni di storia hanno costruito. Proseguire lo sgretolamento dei luoghi del potere pubblico è comunque operazione utile ai saccheggiatori del territorio per ridurre i “lacci e lacciuoli” che ne possono ostacolare le scorrerie.

É giusto l’allarme che da molte parti si leva per il decreto che nei prossimi giorni sarà discusso dal parlamento nazionale. Giusto l’appello che nasce dal movimento che ha dato vita alla stagione dei referendum, preparati dalla miriade di lotte per la difesa dei beni comuni territoriali che hanno caratterizzato l’Italia dell’ultimo decennio. Giusta anche la preoccupazione che la stagione dei referendum e delle recenti elezioni amministrative si disperda come un fiume nella sabbia e non trovi la propria configurazione organizzativa. Ancor più giusta, se è possibile dirlo, la decisione della Cgil di proclamare per il 6 settembre prossimo uno sciopero generale nazionale. Ostacolare la via delle panzerdivisionen dei saccheggiatori del territorio fisico e storico, materiale e morale, culturale e sociale del nostro paese è il primo impegno di chiunque tema il futuro che ci preparano, e voglia contrastarlo. A volte, anche di recente, i ribelli inermi hanno vinto; anche in Italia.

1. Il decreto 70 del 13 maggio propone, secondo le intenzioni di chi l’ha proposto e approvato, «misure diverse finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’economia». Secondo lei centra l’obiettivo?

Vi sono diverse “economie” possibili. Quella che domina nelle teorie e della prassi di chi governa oggi l’Italia è un’economia basata sulla privatizzazione dei beni comuni e sull’appropriazione da parte dei privati di tutte le rendite, a cominciare da quella immobiliare. É un’economia il cui obiettivo finale è arricchire i portafogli dei potenti, portando via alla collettività quello che può essere convertito in moneta nei tempi più brevi. A questo fine il decreto è veramente utile. Se invece l’obiettivo è un’economia che valorizzi il lavoro, che arricchisca le dotazioni sociali, che accresca il benessere degli abitanti (a partire dai più deboli) allora certamente gli effetti di questo decreto saranno devastanti.

2. Uno dei punti più discussi riguarda le coste, con tempi di concessione ai privati portati ai 20 dagli iniziali 90 anni, e i distretti turistico alberghieri: quali scenari si aprono?

La questione delle coste è l’esempio più limpido dell’economia perversa cui accennavo. Nella consapevolezza generale, e negli stessi istituti del diritto e delle istituzioni, le nostre coste sono un bene comune e un bene pubblico. Si è riconosciuta questa loro natura nelle stesse leggi e nello stesso assetto patrimoniale instaurato in Italia dalla borghesia capitalista e liberale. Le coste sono state inoltre riconosciute come una componente essenziale del paesaggio nazionale: una delle categorie di beni più rigorosamente tutelati, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, e di tutta la legislazione di tutela del paesaggio nata con la legge Galasso del 1985 e delle successive stesure dei codici del paesaggio (dal testo unico della ministra Melandri al codice Urbani e Rutelli.

Tutelare le coste non significa solo rispettarne il paesaggio, ma anche garantirne la più aperta fruizione da parte di tutti. Aprirne l’uso alla cementificazione e alla privatizzazione significa quindi consentirne la distruzione per l’uno e l’altro aspetto. Un’aberrazione che avrebbe richiesto forma di protesta molto più accese di quelle che pure vi sono state, e che hanno prodotto il risultato, peraltro limitatissimo, di ridurre il periodo della loro privatizzazione. Considero del resto questo risultato del tutto irrisorio. La vicenda delle concessioni autostradali ci racconta con chiarezza una storia che certamente si ripeterà: vedremo puntualmente prorogare i termini alla scadenza dei vent’anni. Nel nostro disgraziato paese diventano definitive tutte le decisioni provvisorie, purchè siano devastanti per il pubblico e fruttuose per il privato.

Se davvero ridiventassimo un paese civile (è un’ipotesi che dopo i risultati delle recenti amministrative non mi sento di escludere) certamente impediremmo di governare alcunché a governanti che abbiano promosso, o accettato, un simile abominio: proclameremmo per loro l’interdizione perpetua a qualunque ruolo pubblico.

3. Il decreto continua a semplificare le procedure, sia autorizzative che burocratiche, in ambito edilizio per favorire l’intervento privato e lancia di fatto un nuovo Piano Casa. È deregulation o liberalizzazione?

Nel termine “liberalizzazione” è compresa una certa razionalità. Nell’ambito della produzione di merci (scarpe o panettoni, chiodi o caramelle, opere edilizie o tubi d’acciaio) è ragionevole sostenere che non è compito del settore pubblco produrli. La regolamentazione di ciò che si può fare sul territorio, e in che modi, quantità, funzioni, è certamente nelle competenze di una istituzione che rappresenti la totalità dei cittadini. Del resto la pianificazione urbanistica moderna è stata invenata dagli stati liberali e borghesi nell’età del capitalismo, proprio perché ci si è resi conto che il mercato, da solo, non sapeva né poteva risolvere alcune questioni che richiedevano una visione (e una decisione) collettiva, d’insieme, sistemica. Eppure in Italia siamo proprio nel campo della deregulation proprio in uno dei domini in cui essa è più negativa. Il carattere stupidamente reazionario di queste norme è veramente straordinario; molto più imbarazzante, per noi italiani, che il bunga bunga.

4. Il decreto modifica anche il Codice dei beni culturali, portando ad esempio a 70 anni il limite di 50 per potere apportare vincoli di tutela per i beni immobili. Quale è la sua valutazione come uomo di cultura?

Anche qui siamo in presenza di una follia. Non c’è bisogno di essere “uomo di cultura” per comprendere che cancellare storia e arte è un segno di incapacità a comprendere i principi base della civiltà. Esiste futuro solo per un popolo che conosce e rispetta il suo passato e apprende da esso. Il fatto è che gli anni di cui si vorrebbero cancellare le testimonianze architettoniche sono stati gli anni più fruttuosi della nostra storia recente. Gli anni della Resistenza, della Repubblica, della Costituzione, della speranza per dei domani che cantassero. Gli anni, per esempio, del monumento alle Fosse ardeatine, epitome di ciò che vogliono distruggere.

5. L’Italia attende ormai da molti anni una «legge di governo del territorio» che superi i provvedimenti frammentari e a volte contraddittori che, come conferma anche quest'ultimo, continuano a regolare gli interventi sul territorio. Non c'è anche una responsabilità delle troppe divisioni tra culture non solo urbanistiche?

Non basta una nuova legge urbanistica. Serve una buona legge urbanistica: che sia finalizzata a organizzare città e territori nell’interesse dei cittadini di oggi e di domani, e non nell’interesse della rebdita immpbiloiare, del suo accresciembto, della sua appropriazione da parte dei più potenti. Con questi chiari di luna…


In The Ghetto

(Scott Mac Davis - 1969)

As the snow flies

On a cold and gray Chicago mornin'

A poor little baby child is born

In the ghetto

And his mama cries

'cause if there's one thing that she don't need

it's another hungry mouth to feed

In the ghetto

People, don't you understand

the child needs a helping hand

or he'll grow to be an angry young man some day

Take a look at you and me,

are we too blind to see,

do we simply turn our heads

and look the other way

Well the world turns

and a hungry little boy with a runny nose

plays in the street as the cold wind blows

In the ghetto

And his hunger burns

so he starts to roam the streets at night

and he learns how to steal

and he learns how to fight

In the ghetto

Then one night in desperation

a young man breaks away

He buys a gun, steals a car,

tries to run, but he don't get far

And his mama cries

As a crowd gathers 'round an angry young man

face down on the street with a gun in his hand

In the ghetto

As her young man dies,

on a cold and gray Chicago mornin',

another little baby child is born

In the ghetto

Nel Ghetto

(Scott Mac Davis - 1969)

Mentre la neve cade

In una fredda e grigia mattina a Chicago

Un povero piccolo bambino è nato

Nel Ghetto

E la sua mamma piange

Perchè se c’è una cosa di cui lei non ha bisogno

É un’altra bocca da sfamare

Nel Ghetto

Gente, non capite

Il bimbo deve essere aiutato

O un giorno crescerà essendo un uomo arrabbiato

Guarda me e te

Siamo troppo ciechi per vederlo

Giriamo semplicemente la testa

E guardiamo dall’altra parte

Beh, il mondo va avanti

E il bimbo affamato con un naso moccoloso

Gioca per la strada, mentre un vento freddo soffia

Nel ghetto

E la sua fame divampa

così inizia a vagabondare per la strada, di notte

impara a rubare

e impara a combattere

Nel ghetto

Allora una notte, in disperazione

Un giovane uomo fugge

Compra una pistola, ruba un’auto

prova a correre, ma non va lontano

E sua mamma piange

Come la folla si raduna attorno a questo arrabbiato giovane

Che si affaccia per la strada con una pistola in mano

Nel ghetto

Come il suo giovane muore

una fredda e grigia mattina a Chicago

Un altro bambino è nato

Nel ghetto

Esiste un bene comune che viene raramente considerato tale: il territorio, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.), né secondo approcci monodisciplinari che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo, ma come sistema nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo (Bevilacqua 2009).

É alla tutela e alla messa in valore di questo bene comune che sono volte le attenzioni dell’urbanistica: più precisamente, della sua migliore tradizione, oggi appannata dal prevalere di tendenze corrive al mainstream dell’immobiliarismo neoliberistico (Salzano 2010). É a quello stesso obiettivo (alla tutela del bene comune territorio) che è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei: l’azione di quella miriade di aggregazioni - temporanee o stabili - di persone che si incontrano per la difesa di questo o quell’altro spazio pubblico e destinato agli usi collettivi, per impedire interventi minacciosi per la salute degli abitanti, per contrastare la trasformazione di paesaggi godibili in distese di case e capannoni, per protestare contro i costi e i disagi della mobilità, per pretendere le attrezzature necessarie per sostenere la vita delle famiglie, per rivendicare l’accesso di tutti alle dotazioni comuni, per ottenere la soddisfazione del diritto a un’abitazione a condizioni sopportabili.

Alcune delle esperienze nelle quali sono coinvolto testimoniano come l’incontro tra queste due realtà (che potremmo definire il pensiero esperto e il pensiero militante) possano condurre a individuare alcune caratteristiche essenziali del bene comune territorio, e alcune modalità dell’aggressione di cui sono vittime. Mi riferisco alla partecipazione all’European Social Forum del 2008 a Malmö (Salzano 2009) e ad altre esperienze di collaborazione con la Cgil, alla conoscenza diretta delle attività della Rete toscana per la difesa del territorio fondata e guidata da Alberto Asor Rosa, dall’esperienza di costruzione di AltroVe, la rete veneta dei comitati e delle associazioni in cui sono personalmente coinvolto, e alle conoscenze che mi derivano dalla gestione di quel nodo di comunicazioni che è costituito ail sito eddyburg.it e dalla sua Scuola estiva di pianificazione territoriale.

L’insieme di queste esperienze mi ha convinto di due cose. Da una parte, della durezza, ampiezza e potenza dell’azione tesa a distruggere il bene comune territorio, e la grande fragilità delle risposte che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo. Dall’altra parte, della necessità – per poter resistere e passare al contrattacco – di riflettere su un momento storico che la cultura ufficiale tende a mistificare rimuovendo dalla memoria collettiva gli elementi positivi: mi riferisco ai decenni a cavallo del 1970.

Il saccheggio

Ho provato a riassumere fatti e valutazioni sull’azione distruttiva del territorio in una nota del sito eddyburg.it, di cui riprenderò alcune formulazioni. Ho definito quell’azione come il prodotto di una strategia chiaramente individuabile: quella del saccheggio del bene territorio.

L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere o divenire oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.

Per raggiungere quest’obiettivo il primo passaggio riguarda l’ideologia: precisamente, il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e ai saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati: sono ridotti, da Scienza, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.

Il secondo passaggio logico è la negazione dell’esistenza di beni non riducibili a merci: solo se ogni cosa è “merce”, tutto è soggetto al calcolo economico e il mercato può diventare la dimensione esclusiva delle scelte (e il mercato, nel frattempo, è stato ridoto a lla sua forma di monopolio od oligopolio collusivo: un ossimoro). Il terzo passaggio (e qui si passa decisamente dall’ideologia alla prassi) consiste nell’abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.

I beni che si vogliono ridurre a merci, i “commons” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg e con le sue attività registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, né rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Si tenta di cancellare o di privatizzare non solo i beni materiali, ma anche quelli che costituiscono la risposta storica alle esigenze che hanno prodotto nel territorio – nell’habitat dell’uomo – trasformazioni di tipo urbano: a cominciare dalle piazze, luogo aperto all’incontro di tutti gli abitanti, trasformate in parcheggi o svuotate da “non luoghi” alternativi (dove contano solo i “clienti”), proseguendo con le scuole, gli ospedali e alle altre attrezzature degli “standard urbanistici”, via via più trasferite dalla fruizione pubblica al servizio a pagamento, e per finire con i servizi per la mobilità, dove via via si squalifica e si riduce il trasporto collettivo (soprattutto quello per le piccole e le medie distanze) e si incentiva la motorizzazione privata. Insomma, tutti gli elementi del “welfare urbano” (possiamo definire così le conseguenze territoriali delle politiche del welfare state) che furono conquistati in due secoli di faticose vertenze sociali e politiche.

Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre all’habitat dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi). É un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Provoca disagi e sofferenze, quindi genera reazioni. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).

Ma l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra italiana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante.

Il diritto alla città

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate: le trasformazioni del territorio e la sua attrezzatura furono finalizzate non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogno che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare (che è certamente tra quelle primordiali nella trasformazione del pianeta in habitat dell’uomo) diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia, divenuta consapevole della sua forza costituita dalla solidarietà di fabbrica, riuscirono a strappare. (Il capitalismo recuperò terreno altrove, accrescendo lo sfruttamento nelle regioni colonizzate e negli ambiti della natura: ma questo è un altro discorso).

La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Levebvre (Lefebvre 1968), lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che si chiama pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).

Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchi i propri strumenti, fino alla deriva dei decenni a noi più vicini.

Credo che oggi si debbano riprendere i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” devono diventare parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni.

Ciò significa che oggi bisogna prendere coscienza dell’insieme delle aggressioni cui il territorio viene sottoposto: non solo di quelle che ne colpiscono una parte e di un aspetto (la consistenza fisica, la possibilità di fruizione e d’accesso, l’appartenenza collettiva o pubblica), ma anche quella che distrugge quel tanto di democrazia nel processo delle decisioni che è stato garantito dal sistema della pianificazione urbanistica. Un sistema nel quale la decisione sugli strumenti che definiscono le trasformazioni previste spetta agli enti elettivi di primo grado, espressione diretta (almeno nella Costituzione della Repubblica) della volontà dei cittadini; nel quale chi partecipa alla decisione è l’insieme dell’organo consiliare, quindi anche le minoranze; nel quale infine al cittadino è garantita la conoscenza del quadro delle decisioni (il piano) prima della sua definitiva approvazione, e quindi il diritto di osservare e opporsi.

Come aggrediscono la sostanza dei beni comuni territoriali così i saccheggiatori distruggono le modalità mediante le quali essi possono diventare oggetti del “diritto alla città”. Sostituiscono all’urbanistica democratica quella contrattata con la proprietà immobiliare; trasferiscono al competenza delle decisioni dagli organi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica a commissari ad hoc o alle stesse aziende private; riducono tutti gli spazi (gli spiragli) nei quali può manifestarsi la volontà dei cittadini. Negano il principio stesso della pianificazione, come formazione d’un quadro coerente e sistemico delle trasformazioni progettate per il futuro.

Frammentare le scelte è un modo classico per eludere non solo la capacità d’incidere, ma perfino la conoscenza di ciò che si sta trasformando. E senza conoscenza l’azione di contrasto è cieca.

Bibliografia

Bevilacqua P., Che cos’è il territorio, relazione al Città Territorio Festival di Ferrara, 2009 [http://eddyburg.it/article/articleview/11266/1/304]

Salzano E., Urbanisti ieri e oggi, "AAA Italia" (Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea), Bollettino n. 9, 2010 [http://eddyburg.it/article/articleview/15437/0/321]

Salzano E., Mancini O., Chiloiro. S. (a cura di), Città e lavoro. La città come diritto e bene comune, Ediesse, Roma 2009

Lefebvre H., Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)

Qui, in wikipedia, potete trovare la singolare storia di fraintendimenti grazie ai quali l'eroica morte a Pavia del signor La Palice (poi volgarizzato in Lapalisse)divenne l'origine dell'aggettivo "lapalissiano", cioè affermazione di una verità talmente ovvia da apparire stupida.

Quando si dileguò la notte

la mimosa rimase

in mezzo al campo

fra le case stupite.

Era sola

fiorita

un firmamento di polline

tremante

nel gelo del mattino.

All’alzarsi del vento

che ondeggiava

fra i rami del fico

ancora nudo

e il melograno secco

rabbrividì all'inganno.

Una febbre di primavera

un errore maligno

fremendo nelle vene

del suo tronco

l’aveva destata anzi tempo

spinta a quel fragile tripudio.

E ora

sulla terra ancora nera

spoglia d'uccelli

gemeva luminosa

nel cuore dell'inverno.

La poesia, senza titolo, è la prima della poemetto "Primavera" nel libro: Piero Bevilacqua, Il vento nella città, introduzione di Alberto Asor Rosa, Roma, Donzelli 2010,

La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio

come fa lo scoiattolo, ad esempio,

senza aspettarti nulla

dal di fuori o nell'al di là.

Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non é uno scherzo.

Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto

che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,

o dentro un laboratorio

col camice bianco e grandi occhiali,

tu muoia affinché vivano gli uomini

gli uomini di cui non conoscerai la faccia,

e morrai sapendo

che nulla é più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto

che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli

ma perché non crederai alla morte

pur temendola,

e la vita peserà di più sulla bilancia.

Nazim Hikmet

"Il Venerdì di Repubblica", 12 agosto 2011.

"E che cosa sono mai questi 'mercati', ai quali è stata trasferita quella 'sovranità', cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e 'delocalizzata' del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati - si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento - che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del Pil di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d'acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc.) che "'ntegrano' i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie". (Guido Viale, L'Italia al bowling d'Europa, il manifesto 5 agosto 2011)

Il fatto. Il centrosinistra, al governo da 12 anni, dopo una lunghissima discussione tutta su nomi di candidati che via via venivano proposti e bocciati, si presenta spaccato alle prossime elezioni comunali.

Un candidato (Felice Casson), magistrato stimato per la grinta con cui ha istruito processi famosi, espresso da una coalizione che raggruppa i Verdi (ridotti a Venezia all’area “sociale” dopo la spaccatura di qualche anni fa), Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Lista Di Pietro e Democratici di sinistra (spaccati quasi a metà).

Un altro candidato (Massimo Cacciari), notissimo filosofo ed ex sindaco, proposto da se stesso e sostenuto dalla formazione cui appartiene, la Margherita, dall’UDC e da un numero consistente dei Democratici di sinistra.

A complicare il quadro, Prodi sostiene Casson, Rutelli difende Cacciari. Casson è criticato perché si è appena posto in aspettativa (come del resto prescrive la legge) come magistrato. Cacciari è criticato perché ha smesso di fare il sindaco a metà mandato per futili motivi, passando le consegne a Paolo Costa, criticatissimo sindaco uscente: ma Costa, benché della Margherita e “figlio” di Cacciari, sostiene Casson. Il raggruppamento che fa capo a Casson ha una matrice ambientalista (il “polo rossoverde”), ma annovera tra i suoi sostenitori i promotori della sublagunare e della deregulation urbanistica nonché, nella persona dell’ex sindaco Costa, i complici del MoSE: posizioni che sono del resto presenti anche nell’altra sponda dello scompaginato centrosinistra.

Ulteriore complicazione: fuori sia dal centrosinistra sia dal centrodestra si è formata un’ulteriore candidatura. Carlo Ripa di Meana, già presidente della Biennale e commissario europeo all’Ambiente, è sostenuto da un gruppo di spiccato colore ambientalista, formato da eccellenti persone con un ottimo pedegree di tenaci campagne in difesa della città e della Laguna, ma che sembra poter svolgere solo un ruolo di testimonianza.

Unico elemento positivo, per il centrosinistra: sul versante opposto, c’è il nulla. Il centrodestra si presenta ancora più diviso, e il suo meno oscuro esponente locale, l’economista Renato Brunetta, ha minacciato: la prossima volta mi presento io.

Il commento. Venezia è stata spesso anticipatrice di tendenze nazionali: nel 1952 (il decentramento amministrativo), nel 1974 (i governi di sinistra). Adesso esprime nel modo più limpido un fenomeno che è nazionale: la crisi della politica. Testimonia insomma l’incapacità (generale, non solo veneziana) dei partiti di rappresentare alcunché di serio: un progetto politico, un blocco coeso di interessi sociali, una speranza di futuro. (E anche, diciamolo, l’incapacità di espressione di un’altra politica, sgorgata magari dalla “società civile”, o più sommessamente dagli esclusi dai partiti).

A Venezia questa crisi si svolge in un contesto ed ha una coloritura particolari.

Essa si sviluppa in un ambito caratterizzato da un sistema di poteri economici del tutto anomalo. Alla forza del comparto locale (ma non solo) legato allo sfruttamento commerciale della città, e di quello multinazionale legato al polo chimico di Porto Marghera, si aggiunge il potere del Consorzio Venezia Nuova: un consorzio di imprese di costruzione private, padrone (per concessione statale) del destino fisico della Laguna e della fortuna economica dell’universo tecnico, culturale, politico che ha saputo legare a sé.

La crisi, poi, è testimoniata e caratterizzata dal fatto che sulle scelte di fondo della città (il MoSE e la devastazione della Laguna, la sublagunare e la turistizzazione selvaggia della città, il destino di Porto Marghera e i provvedimenti da prendere per il rischio della chimica, la politica della casa e il rapporto con la proprietà immobiliare) i partiti hanno taciuto, si sono rivelati incerti, divisi: non tanto nelle analisi, quanto nel passare dalle parole ai fatti.

Lo scontro ha attraversato tutte le formazioni. Non è apparso esplicitamente, se non nelle punzecchiature del pettegolezzo politichese, perché esporre esplicitamente le diverse opzioni avrebbe condotto a rotture non compatibili con l’esigenza di governare a tutti i costi.

Tant’è. A un governo della città che ha cavalcato arditamente, tra i marosi delle critiche e dei mugugni, la promozione della sublagunare, la tolleranza per il MoSE, la deregulation urbanistica, l’abbandono di una politica pubblica della casa, nonchè qualunque interesse legato alla commercializzazione della città, si è accompagnato il crescere di posizioni di disagio più o meno profondo e di dissenso anche esplicito.

Ma non di questo si è parlato nella lunga fase di preparazione alle elezioni. Non si è andati a un confronto tra posizioni, linee, strategie. Non si è partiti da un’analisi critica (a mio parere severamente critica) dei comportamenti delle giunte Cacciari, e soprattutto della giunta Costa. Tutto è rimasto sottotraccia. Si è discusso solo di nomi. Poteva andare diversamente? Oggi, sui nomi si muore.

La dichiarazione. Non sono soltanto un osservatore, sono anche un elettore. Ho molte incertezze, ma anche alcune certezze.

Non posso votare Massimo Cacciari. Non posso dimenticare che fu la sua giunta ad aprire la strada alla deregulation urbanistica, alla rinuncia al controllo delle destinazioni d’uso, al corteggiamento di qualsiasi iniziativa commerciale, all’abbandono (in questa città storica!) di una politica della casa governata dalla mano pubblica; che fu lui ad abbandonare il governo della città nelle mani del peggior sindaco che la città abbia avuto, fautore del Mose, della sublagunare, della "apertura al mercato" della città e di ogni connessa privatizzazione.

Voterei volentieri Carlo Ripa di Meana, un galantuomo, sostenuto da una pattuglia di intrepidi ambientalisti, ma non lo voterò per la stessa ragione per cui non voterò, al primo turno, scheda bianca: perché non credo che sia giusto dare un voto di mera testimonianza.

Seguirò quindi con attenzione la campagna elettorale di Felice Casson, un uomo serio, rigoroso, che nel suo mestiere si è battuto per cause che ho condiviso, “non guardando in faccia a nessuno”. Se dimostrerà di esprimere posizioni vicine a quelle che a me sembrano giuste, se si impegnerà a fare le cose che un’amministrazione comunale può fare in ordine ai problemi principali della città in una direzione radicalmente diversa da quella della giunta Costa, allora voterò per lui.

Anch’io ho finito per parlare, in definitiva, di nomi. A questo ci hanno ridotto le riforme della Seconda Repubblica.

Sulle questioni cui accenno nella nota (in particolare MoSE e sublagunare) ci sono molti materiali nella cartella dedicata a Venezia e la sua Laguna . Per una valutazione complessiva sulle ultime giunte e a cciò che si sarebbe dovuto fare rinvio a una mia nota di due anni fa dal titolo " Fabiani per un'altra Venezia".

L'immagine nella presentazione è il logo lanciato dall'ex sindaco Paolo Costa per "aprire Venezia al mercato"

Rinviamo all'articolo "Preistoria della ex Falk di Sesto San Giovanni", di S. Brenna e agli scritti "Città dei cittadini o città della rendita " e "20 anni di urbanistica contrattata", di E. Salzano, entrambi su eddyburg

Dal commento alla decisione della Lega di votare contro la protezione parlamentare per il deputato berlusconiano Papa, "il manifesto", 21 luglio 2011

"Sono stato una delle prime vittime della Lega. Nel 1987 a Torino contestarono il mio spettacolo in dialetto - Per convincere Totò a girare un film approfittai bassamente delle parentele nobili di mia moglie"

A ottantuno anni Ugo Gregoretti non ha smesso di recitare. È appena salito sulla scena del festival di Spoleto, portandosi appresso la gigantografia del bisnonno eroe del Risorgimento. Ma un teatrino più famigliare continua nella splendida casa di via delle Coppelle, mentre rievoca il primo incontro a Napoli con il comandante Lauro, che lo fece entrare nella redazione monarco-fascista di Patria: «E mo´ vattenne a casa, guagliò, ch´aggia a parlà co´ pàteto ´e ´sti cazzi e tramme» (il padre di Gregoretti era presidente dell´Azienda tranviaria municipale). O quando ricorda la visita del compagno Marchesi, che voleva consegnargli la tessera del Pci dopo il successo dei suoi film sulle lotte operaie («Non posso», obietta il regista. «Sono fatuo, vanesio, maniaco dell´eleganza. Possiedo duecento cravatte e non intendo rinunciarvi». «Aragon ne ha quattrocento. E un centinaio di foulard». «Vabbè, damme ´sta tessera»). Figura poliedrica come pochi altri in Italia, regista di cinema e di opere liriche, inventore di un nuovo genere televisivo, direttore di teatri e di festival, attore e scrittore (una sua divertentissima autobiografia, Finale aperto, è stata pubblicata qualche anno fa da Aliberti). Esordì in Rai nei tempi preistorici di Mike Bongiorno. E da una celebre battuta di Lascia e raddoppia trasse ispirazione per Controfagotto, la storica rubrica che tanto gli somiglia.

Gregoretti, che ci è andato a fare a Spoleto con la fotografia a figura intera dell´avo combattente?

«Renato Nicolini ha messo in scena canzoni, poesie e cronache risorgimentali. Io ho avuto un ruolo in qualità di pronipote d´uno di quei giovani che dal Nord scesero a Roma per difenderla. I settentrionali d´allora avevano un´adorazione per i romani antichi, una sorta di retaggio del classicismo settecentesco. Pensi oggi a Bossi».

Lei è stato una delle prime vittime della Lega.

«Ero direttore del Teatro Stabile di Torino quando nell´87 affidai Le miserie di Monsù Travet, una commedia di Bersezio scritta in un dialetto piemontese ottocentesco, a due bravissimi attori dell´alto Lazio o giù di lì come Paolo Bonacelli e Micaela Esdra. L´idea non piacque all´attore Gipo Farassino, leader della nascente Lega Piemont. La sera della prima occuparono alla chetichella tutti i palchi del quarto ordine. Lo spettacolo fu interrotto ventidue volte».

Arrivò anche la polizia.

«Io vedevo la gioia dei poliziotti – tutti "terroni" – nel poter menare quegli esagitati del Moviment Piemontèis. A un certo punto fui aggredito da una leghista pazza. A una sua pausa per prendere fiato, ne approfittai: "Ma stia zitta brutta stronza". "Aaah, agenti", fece lei, come se fossimo a Scotland Yard. "Sentite che mi ha detto". "Che le ha detto, Dottò?", chiese il poliziotto. Bastò quell´inflessione per far nascere un´intesa tra me e l´agente. "Ma figuriamoci, un signore come il dottor Gregoretti…". Non fui arrestato».

Lei è sempre stato un Giamburrasca. In Rai la guardavano con sospetto.

«Ero stravagante, anche nel modo di vestire. Sandali capresi, sembravo pronto per la Canzone del mare, non per una redazione. "Ah Gregoré, ma ndò vai?", mi diceva il capo degli uscieri. Fui assunto a 23 anni, alla fine del 1953, per raccomandazione. Mio padre aveva amicizie influenti, tra cui il direttore generale dell´Iri. "Non farmi fare una brutta figura", mi disse l´ingegner Ferrari. Sette anni dopo vinsi il Prix Italia con il documentario La Sicilia del Gattopardo. "Come vede, non le ho fatto fare una brutta figura"».

Un premio prestigioso.

«Sì, vincevano sempre gli inglesi, ma quella volta fottemmo la Bbc. Venne a vederlo in Rai anche Luchino Visconti, in compagnia di Suso Cecchi. Io stavo come la rana di Esopo, sul punto di scoppiare...».

...di vanità...

«No, di gioia per l´invidia che vedevo esplicitamente dipinta sul volto dei miei colleghi. Visconti rimase colpito dalla sala da ballo di Palazzo Gangi: è quella dove avrebbe ambientato la celebre scena tra Angelica e il principe di Salina. Praticamente gli feci fare un sopralluogo in poltrona. Nessuno ci aveva mai messo piede prima di me».

E lei come ci riuscì?

«Esercitandomi nei baciamano con Gaetanina Gangi e bevendo un terribile rosolio della principessa di Lampedusa, che deteneva i diritti morali. Mi aveva aiutato anche la famiglia di mia moglie, Fausta Capece Minutolo, di antica nobiltà napoletana».

Funzionò anche con Totò.

«Di quella volta mi vergogno un po´».

Racconti.

«Dopo il successo del Gattopardo e del Controfagotto mi si aprirono le porte del cinema. Così fui spedito dal produttore del film Le belle famiglie a casa di Totò, che però aveva già detto di no. Era l´ultimo tentativo. Ci sedemmo vicini e prendemmo a parlare del tempo. Fu lì che mi venne l´idea miserabile. "Eh, anche mia moglie la Duchessa patisce tanto la calura". "Cosa avete detto? Favorite ripetere...". Totò portava sulle spalle il gravame della sua aristocraticità tardivamente riconosciuta. "Ma allora siamo tra persone per bene". E fece il film».

Lei ha lavorato anche con Pasolini.

«Più precisamente: girai I nuovi Angeli, un film-inchiesta sulla gioventù dell´epoca, immediatamente dopo Accattone. Avevamo lo stesso produttore, Alfredo Bini, e lo stesso operatore, Tonino Delli Colli. Allora, complessatissimo, chiedevo in continuazione: "Ma Pasolini...". "Lassalo perde´, nun ce pensà", mi diceva Tonino. Una mattina all´alba andammo a fare un sopralluogo in una grande distesa erbosa che era un pascolo di vacche. Un sottile velo di nebbia rendeva la scena molto suggestiva. "Scusa, un´ultima curiosità su Pasolini...". "Daje". "Ma se lui fosse arrivato davanti a questo splendore, dove avrebbe messo la macchina da presa?". "Avremmo fatto il giro del campo e ´ndove avesse visto la cagata più grossa... ‘macchina qui!´ ". Tonino anticipava la coprofagia di Sodoma e Gomorra».

Ma in Rai lei non si divertiva abbastanza?

«Sognavo il cinema. E la Rai era un´azienda becera. Negli anni Cinquanta il controllo occhiutissimo dei partiti al potere era come il tallone di ferro di Jack London. A noi dei servizi giornalistici veniva chiesto di magnificare le opere del governo. Io ero la persona meno adatta. Una volta feci saltare in aria una Chiesa».

Com´è possibile?

«Fui inviato a fare un servizio sul recupero di un´area del salernitano. Il progetto prevedeva anche la demolizione d´una chiesa, costruita nel letto d´un fiume. Da Napoli mi avrebbero mandato ben due macchine da presa, manco fossi Cecil B. DeMille. Ero sovreccitato. Quando seppi che la chiesa non sarebbe più saltata in aria, ci rimasi malissimo. Egualmente ci rimase male l´appaltatore di tutta la ricostruzione del luogo. Così una notte sistemammo ben cento fornelli di esplosivo. Uno scoop spettacolare. Ma il giorno dopo saltò anche il prefetto di Salerno. E io fui messo in quarantena».

Lei faceva recitare i suoi intervistati.

«Sì, praticavo un genere anfibio tra cinema e televisione. Un maestro era stato Vittorio Veltroni, che ci aveva insegnato l´importanza del sonoro: via quel vecchio trombone dello speaker, fai parlare il più possibile le persone. Per il resto facevo tutto da solo».

Inventò il documentarismo televisivo.

«Non fui il solo. Qui intervenne il colpo di genio di Guala, il direttore generale che veniva sbeffeggiato perché allungava le gonne alle ballerine. Appena arrivato, nel 1954, si rese conto che l´azienda era un covo di mediocri, quasi irredimibile. Così con un falso concorso fece entrare in Rai i migliori cervelli della nostra generazione. Umberto Eco. Fabiano Fabiani. Gianni Vattimo. Furio Colombo. Folco Portinari. E in questo modo cambiò il sangue dell´azienda».

Oggi guarda la Tv? Le provoca orticaria, disperazione?

«Non la guardavo neppure allora. Però farei una riflessione controcorrente: la libertà di idee che c´è oggi a quei tempi era fantapolitica. Un Santoro che manda a quel paese il direttore generale...».

Libertà mica tanto.

«Certo oggi si legge di Rainvest e delle trame della signora Bergamini, tutto ciò è scandaloso. Ma il clima complessivo non è paragonabile a quello di allora. C´è però una cosa che l´azienda aveva e non ha più: la qualità. I vertici volevano che imparassimo a fare bene le cose. E quindi le facevamo bene. Oggi la qualità non la richiede più nessuno, in Rai e altrove. Anche perché non c´è nessuno che te la sappia insegnare».

Continua a litigare con sua moglie per i funerali?

«Sì, ogni tanto vi si accenna. Fausta è fissata con Sant´Agostino, mentre i funerali dei registi a Roma si fanno nella Chiesa degli artisti in Piazza del Popolo. Figurati se Scola o Benigni sanno dov´è Sant´Agostino, e poi ci vuole il permesso per accedervi in auto. Lei obietta che possono venire in taxi. Mah, temo che sarà un flop».

Un progetto, a suo modo coerente, di sostituzione del privato al pubblico ha caratterizzato la politica urbanistica di Berlusconi. Ne sono esempi principali il cosiddetto piano-casa e gli interventi per il post terremoto all'Aquila. Linea comune è stata l'abbandono delle regole pubbliche, utili a costruire nel territorio un insieme sistemico, e il privilegio dato ad una visione individualistica dello spazio. Dimenticando che città e società sono due aspetti della stessa realtà: una non vive senza l'altra. Il consenso a questa politica l'ha trovato cambiando gli strumenti della formazione: non più scuola, parrocchia e casa del popolo, ma televisione commerciale.

Uomo di poche letture e pochi pensieri Berlusconi doveva affidarsi, anche per la sua politica urbanistica, alle pulsioni individuali e alle esperienze personali. Ecco allora i suoi due principi: ognuno è proprietario a casa sua, e fa della sua terra ciò che vuole; i problemi delle città si risolvono costruendo attorno a ciascuna di quelle esistenti una Citta Due, come ha fatto lui a Milano. Questi due principi non sono rimasti mere dichiarazioni. Si sono tradotti in coerenti politiche.

Il pilastro della visione urbanistica

Il pilastro dell’azione del Cavaliere è costituito dalla distruzione del primato dell’autorità pubblica nel governo del territorio.

É da alcuni secoli che le democrazie liberali hanno compreso che non tutti i problemi della società sono risolti dal mercato e che alcune dinamiche, come la crescita e le trasformazioni delle città e dei territorio, dovevano essere governate da un potere esterno al mercato: un potere pubblico. Il territorio è un insieme sistemico, in cui la modifica di un elemento comporta modifiche in tutti gli altri: non si possono sistemare le fabbriche se si trascura l’inquinamento che producono e le infrastrutture che devono alimentarle; non si possono localizzare le abitazioni e le scuole se non si organizzano in loro funzione ferrovie e strade; non si possono localizzare le urbanizzazioni senza sapere che risorse naturali ci sono sotto la superficie. Ecco che allora, già agli albori del XIX secolo, le democrazie borghesi inventarono la pianificazione urbanistica (poi estesa al territorio): un insieme di metodi e strumenti anch’esso, appunto, di carattere sistemico.

La pianificazione urbanistica, in un regime democratico, consente anche trasparenza (maggiore o minore) nella regolazione dei conflitti che nascono tra le diverse utilizzazioni possibili del suolo: conflitti inevitabili nel regime economico e patrimoniale attuale nel mondo capitalistico. Quali che siano comunque gli interessi che si vogliono privilegiare, le leggi delle borghesie liberali disponevano comunque che, in caso di contrasto tra interesse pubblico e interesse privato nell’uso del territorio, fosse il primo a prevalere. Ed è esattamente in questo spirito che le prime leggi urbanistiche del XIX secolo (e in Italia, dal 1865 fino alla legge urbanistica del 1942) determinavano l’esproprio per pubblica utilità, il pagamento di indennità che non remuneravano il maggior valore derivante dalle opere e le decisioni pubbliche, il prelievo fiscale di una quota dei plusvalori derivanti da queste. E adottavano, come quadro prescrittivo di tutte le trasformazioni della città (poi del territorio) la pianificazione.

La demolizione della pianificazione urbanistica è al fondo della visione urbanistica del Cavaliere proprio per le stesse ragioni che ne hanno storicamente motivato nascita e consolidamento. Lo è perché la pianificazione esprime un insieme di regole dettate dal potere pubblico, e lo è perché esprime una visione olistica della politica (quindi antagonista rispetto alla pratica discrezionale del caso per caso e del “quando voglio faccio”). L’odio per la pianificazione urbanistica si esprime in numerosi atti di governo, e in dichiarazioni pubbliche che hanno, nella società attuale, altrettanto valore di una norma.

La continua riproposizione dei condoni dell’abusivismo edilizio e urbanistico ha costituito un invito quasi esplicito a disprezzare piani e regole, “tanto prima o poi ogni abuso sarà condonato”. L’allentamento dei controlli edilizi (dalla concessione edilizia, via via, fino all’autocertificazione dell’intervento) ha significato passare gradualmente dal principio “il potere pubblico stabilisce che cosa si può fare e che cosa si può fare sul territorio e poi il privato agisce e viene penalizzato se contravviene”, al principio “fai quello che vuoi e se violi qualche legge poi, se ho tempo e voglia, provvederò eventualmente a penalizzarti”. Il trasferimento della potestà deliberativa su scelte rilevanti per l’organizzazione del territorio dagli organi elettivi collegiali agli organi di maggioranza e a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai sindaci e presidenti), hanno vanificato la capacità di controllo da parte delle minoranze e di conoscenza da parte dei cittadini, sacrificando la democrazia al mito della governabilità. L’impoverimento degli strumenti della funzione pubblica, obbligati a ridurre la quantità e la qualità del personale e delle strutture, a cominciare da quelle addette alla pianificazione del territorio e alla vigilanza su di esso ha reso via via impossibile governare efficacemente anche quelle amministrazioni (e non sono molte) che hanno cercato di andare controcorrente. Si è addirittura giunti ad attribuire funzioni rilevantissime, geloso appannaggio dell'amministrazione pubblica, a soggetti ( commissari) scelti in ragione della loro fedeltà al gruppo di potere dominante, con pieno potere di sostituzione agli organi democratici e di deroga dalle procedure di legge. La privatizzazione e commercializzazione dei beni pubblici è stata la conseguenza patrimoniale di quelle azioni sui dispositivi [1].

“Piano-casa” e dopo-terremoto

I casi più rappresentativi della visione urbanistica berlusconiana sono rappresentati da due avvenimenti: il famoso “piano-casa”, la gestione del dopo terremoto in Abruzzo.

Chiamare “piano-casa” quel singolare provvedimento, più mediatico che strutturale, lanciato da Berlusconi nel marzo 2009 è stato già di per sé un bluff. Il provvedimento annunciato con quel titolo non è un programma finalizzato alla realizzazione di alloggi per quelle fasce di abitanti della Repubblica che non riescono a trovare soddisfazione rivolgendosi al mercato privato (come fu per tutti i provvedimenti che si sono susseguiti dalla Liberazione a Prodi), ma semplicemente l’incentivo a chi possedeva già un’abitazione, o comunque un volume edificato, di ampliare la sua proprietà immobiliare e trasformarla nelle sue utilizzazioni, derogando esplicitamente da tutti i regolamenti e i piani nonché (almeno in una prima fase) dalle stesse norme di prevenzione dai rischi o di tutela dei beni culturali e del paesaggio.

Era facile comprendere che aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) avrebbe significato compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. E avrebbe significato privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra.

Tutti sono caduti nella trappola. Dimenticando la realtà (cioè l’esistenza di un vero “problema della casa”, che quel provvedimento non affrontava neppure marginalmente), trascurando l’impatto che quella linea d’azione avrebbe avuto sulle condizioni delle città, ignorando perfino la sua evidente incostituzionalità [2], tutti accettarono per moneta sonante il “piano-casa”; tranne pochissime eccezioni. Fu addirittura una “regione rossa”, la Toscana, ad adeguare per prima la sua normativa al dictat berlusconiano. Certo, limandone le punte più aspre, ma accettando comunque quel tema: arricchire l’edilizia privata, consolidare il “blocco edilizio”, premiando gli immobiliaristi piccoli e grandi invece di affrontare il problema di chi la casa non ce l’ha.

La “ricostruzione” dei luoghi colpiti dal terremoto in Abruzzo (l’altra scelta emblematica del regime berlusconiano) è una sintesi dell’immaginario urbanistico del Cavaliere. Già nei primi giorni del dopo-terremoto aveva colpito il modo in cui il premier aveva afferrato l’occasione del terremoto per farsi propaganda. Ha colpito gli osservatori più attenti il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, agevolati dalla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento. Hanno colpito le condizioni di vita nelle tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini.

Ma la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e sostanzialmente accettato dall’opposizione) di procedere alla ricostruzione in riferimento soprattutto a due scelte, tra loro strettamente collegate: l’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la ricostruzione “altrove” delle case distrutte.

Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.

Con la seconda scelta si è deciso sostituire, alla ricostruzione della città danneggiata dal sisma, un paio di decine di lottizzazioni su aree scelte casualmente senza nessuna logica territoriale e sociale. Lottizzazioni per di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: “con una cura maniacale dell’interno degli alloggi”, come scrivono gli autori del rapporto che per primo ha rotto il velo roseo che avvolgeva l’operazione [3], che rivela come per l’ideologia di Berlusconi (le esigenze dell’uomo si riducono a quello dell’individuo: la società cui appartiene non esiste e non interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo guscio, naturalmente alimentato da un televisore.

Le scelte del dopo-terremoto hanno colpito direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.

Questa, del resto, è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non aveva promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia?

Come per il “piano-casa” anche per la cosidetta “ricostruzione” in Abruzzo l’opposizione è caduta in pieno nella trappola mediatica. Per molti mesi, quando i progetti erano chiarissimi nella loro impostazione e nel loro svolgimento, perfino la stampa più ostile esprimeva lodi per il comportamento della coppia Berlusconi-Bertolaso. Il fatto è che entrambi i versanti dello schieramento politico e culturale condividono le stesse preferenze: privilegiare la governabilità sulla democrazia, scegliere la tempestività dell’intervento trascurando ricerca laboriosa della soluzione più idonea, cancellare la storia e dimenticare così gli ammaestramenti del passato.

L’urbanistica di Berlusconi esprime, in larghissima misura, una strategia che non può che definirsi bipartisan. Una strategia che assume una certa idea di “sviluppo” come l’obiettivo generale cui tendere e cui ispirare l’intera dinamica della società, che vede nel mercato lo strumento capace di misurare, meglio d’ogni altro, non solo il “valore di scambio” delle merci, ma ogni valore che abbia un senso, e che infine nega, o nasconde, o riduce al massimo, la dimensione pubblica privilegiando al massimo quella privata. Ma Berlusconi innesta una marcia in più: assume privatisticamente i poteri pubblici, utilizzando per gestirli i suoi commissari. Les jeux sont faits; il mito del mercato è stato utilizzato per sostituire a quest'ultimo il potere monopolistico di un monarca assoluto.

La strategia del saccheggio

Nella concezione berlusconiana dell’uso del territorio (e più in generale dei beni comuni) l’obiettivo si specifica con chiarezza, esprimendosi in quella che si può definire la strategia del saccheggio[4]. Bisogna far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa. Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.

Ecco allora che il suolo deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Devono essere privatizzati gli elementi del paesaggio la cui “valorizzazione” può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Naturalmente, come abbiamo visto, si devono distruggere le regole. Ma farlo non si può senza ottenere il consenso necessario, poiché (e finché) si opera in un contesto nel quale bisogna rispettare le forme della democrazia. Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul presente (non è vero che “There Is No Alternatives”).

Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent’anni. E allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio (“meno stato più mercato”, “privato è bello”, “padrone a casa mia”, “meno tasse per tutti”) e far credere alla “gente” che benessere significa modernizzazione, sviluppo significa crescita, democrazia significa votare una volta tanto, privato è meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.

[1]A proposito delle iniziative di Berlusconi nel settore immobiliare (quindi nel campo del territorio e dell'urbanistica), Walter Tocci osserva che «l'insieme di questi provvedimenti configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra». "L’insostenibile ascesa della rendita urbana", Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 27.

[2]Vincenzo Cerulli Irelli, Luca De Lucia, “Il secondo 'piano casa': una incostituzionale depianificazione del territorio”, Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 106-116.

[3]Comitatus Aquilanus, L’Aquila. Non si uccide così anche una città?, a cura di Georg Frisch, Clen, Napoli 2009

[4]Questi temi sono affrontati più ampiamente nel sito web eddyburg.it. Vedi in particolare l'”eddytoriale” n. 143.

Questione di classe. Il ministro Tremonti aveva detto: siamo tutti a bordo del Titalic, ricchi e poveri, quelli di prima classe e quelli di terza.

“You cannot solve a problem from the same consciousness that created it. You must learn to see the world anew.”

Caro Signor Presidente, mi permetto di rivolgermi a lei per la mia antica frequentazione del Cespe, il centro di politica economica del Pci. Con tutto il rispetto, lei è stato ingannato a proposito della Val di Susa. La popolazione della Valle sta subendo una violenza insopportabile, che arriva tra le sue case. Non poche saranno abbattute. Si è creata una situazione che più che a una servitù di passaggio, assomiglia a una servitù per la vita. La violenza è sempre deprecabile, ma in Val di Susa siamo di fronte a una violenza grande, del denaro.

I lavori continueranno per dieci e più anni. I bambini cresceranno in miniera, tra polvere e camion di residui di scavo; enormi macchinari disumani e orribili scoppi rumorosi. Le fonti sotterranee saranno compromesse o si perdranno come troppo spesso avviene per gli scavi nella montagna. Forse l'acqua sparirà del tutto - nessuno dei fautori del tunnel ha fatto studi in proposito - e la Valle dovrà essere rifornita dalla pianura, con appositi trasporti di acqua da bere. L'agricoltura perfetta della Valle, i legumi, il vino d'altura, spariranno senza rimedio. Tutto un prevedibile disastro ecologico in cambio di un treno inutile, esagerato simbolo di una concezione sconfitta; e per eseguire un ordine ingiusto.

Caro Presidente, lei ci ha insegnato che gli ordini ingiusti non si eseguono, agli ordini ingiusti si resiste. Lei, Presidente, ha affermato nel suo comunicato che «non si può tollerare che legittime manifestazioni di dissenso, cui partecipano pacificamente cittadini e famiglie si sovrappongano provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive contro reparti di polizia chiamati a far rispettare la legge».

Ci son dunque due leggi e anche chi protesta è dentro la legge, non solo chi ha il compito di farla rispettare. Tutto questo deve offrire un'ampia materia di riflessione a ogni persona che non viva di preconcetti. Proviamo dunque a discutere nel merito delle cose. Il treno Tav dà lavoro oggi e ne darà per anni. Domani, il treno entrerà in un progetto di viaggiatori e scambi di merci altissimo e crescente.

Ma è proprio così? In verità, l'oggi è ben diverso da come spesso lo si racconta: traffici e passeggeri sono in netta diminuzione rispetto alle previsioni sulle quali l'opera era stata decisa. Per il futuro la vera preoccupazione è che la Valle e il mondo siano soffocati dall'inquinamento, dal troppo pieno; che l'acqua pulita venga a mancare e anche il nutrirsi possa presentare qualche problema maggiore. Per questo una Valle fertile e pulita è un obiettivo intelligente e di primaria importanza.

Noi sappiamo, presidente, che lei si occupa d'altro, ma resta il fatto che le cifre sui traffici alla base del tunnel sono tutte sbagliate. Dire «forse sono discutibili», come i più democratici dei commentatori dei giornali di lunedì lasciano intendere è troppo poco; sono sbagliate e basta. Per questo, moltissimi esperti del ramo oggi sono convinti che il tunnel sarebbe un errore, un po' come lo era una centrale nucleare nelle settimane precedenti il referendum; solo che prevale la morale lassista dell'«Intanto facciamolo. A qualcosa servirà». Oppure si vuol tramutare il treno Tav in un simulacro? Qualcosa di somigliante al cappello dell'imperatore al quale Guglielmo Tell non volle inchinarsi, non volle rendere omaggio, in una Valle poco lontana?

Presidente, venga nella Valle. Si renderà conto di tutto con i suoi occhi, con il suo alto senso di giustizia.

Postilla

La lettera aperta di Parlato apre, sul giornale, un ampio servizio sulla vicenda della Val di Susa Il manifesto è l’unico giornale che abbia costantemente informato sulle ragioni (locali e generali) dell’opposizione alla TAV. Un’opposizione che non è solo nell’interesse della valle (e che comunque anche per questo aspetto avrebbe meritato attenzione da parte di chi governa e di chi informa), ma anche nell’interesse generale. Eppure, anche i documentati rapporti che hanno svelato le bugie dei promotori della TAV non hanno mai ricevuto puntuali repliche, e neppure hanno avuto risposta le domande che sono state ripetutamente avanzate: ultime, quelle di qualche giorno fa da Beni, Mattei e Pipino. Il silenzio della stampa e la sordità dei governanti dura da sette anni almeno. In realtà (come dimostrano anche i commenti di questi giorni) alla ragione si preferisce la retorica demagogica dello “sviluppo” e della “modernazzione”. Nessuno di quelli che contano (con il potere delle istituzioni e con quello dell’informazione) raccolgono le voci critiche (ragionevoli) a QUESTO “sviluppo” e a QUESTA “modernizzazione”.A proposito di quest’ultima parola, ci piacerebbe che certi giornalisti (per esempio, quello che in questi giorni gestisce Prima pagina di RadioTre) si chiedesse se per l’Italia sia più modernizzante costruire un segmento d’un’opera altamente improbabile nel raggiungimento dei risultati proposti, oppure impiegare le stesse risorse per rendere “mmoderna” la rete già esistente, far viaggiare meglio le persone e le merci, e magari lavorare più seriamente sulle “autostrade del mare”.

L’incapacità di chi governa e di chi informa è il vero segno dell’arcaicità del nostro paese e della necessità di modernizzarlo davvero (ma abbandonando la retorica delle Grandi opere). Se non fosse così, non accadrebbe che della vicende TAV in Val di Susa i grandi meida, dipendenti e indipendenti, si accorgano solo quando esplode qualche bottiglia molotov

«"Ora va risolto il nodo Fiat valuteremo una legge ad hoc". Sacconi: bisogna chiudere il tempo dei conflitti». Titolo e sottotitolo dell’articolo di Roberto Mania su la Repubblica, 30 maggio 2011

Da un'intervista pubblicata sul quotidiano online "Affaritaliani.it", 28 giugno 2011

Tra gli studiosi della città (un po' meno tra quelli della società) Fiorentino Sullo è noto per la sua proposta di legge urbanistica, elaborata nei primi anni 60, presentata nell'estate del 1962 e clamorosamente bocciata nella primavera del 1963. Sullo era allora democristiano e ministro per i lavori pubblici. Fu sconfessato dal suo stesso partito (segretario era Aldo Moro) in seguito a una campagna di stampa dai toni così feroci come solo negli anni recenti li abbiamo sentiti riecheggiare di nuovo. Non c'erano allora né “il Giornale” né “Libero”, ma c'era in compenso il “Tempo” di Roma che svolse un analogo ruolo. L'accusa che gli si rivolgeva era di voler togliere la casa agli italiani. Si affannò a dimostrare che le accuse erano fantasiose bugie ma non ci riuscì. Già allora l'informazione corretta era molto difficile.

La sua proposta era innovativa per la realtà italiana. Sviluppava gli elementi positivi già introdotti nella legislazione italiana dalla legge urbanistica del 1942, adeguandola alla nuova realtà del paese: l'accresciuta dinamica insediativa, le consistenti differenze nell'organizzazione del territorio, la dimensione di massa della riconquistata democrazia. L'adeguamento alla nuova realtà imponeva di fare i conti con quello che era stato il dominus dell'espansione urbana e la matrice della forma sciagurata che le sterminate periferie avevano assunto nei primi tre lustri del dopoguerra: bisognava fare i conti con la rendita fondiaria urbana.

Il ministro democristiano ci provò, con prudenza, ed elaborò la sua proposta. Si rifaceva all'insegnamento degli economisti liberali. Si riallacciava a principi che erano stati trasformati in leggi negli anni della destra storica, della sinistra storica e del giolittismo. Applicava strumenti che erano stati adoperati ampiamente negli anni del regime fascista. Ma questo non bastò a salvarlo. Come non gli bastò dimostrare che intendeva applicare in Italia la stessa politica fondiaria urbana che aveva reso civili le periferie delle città di più evoluti paesi europei.

Riflettendo su quell'esperienza mi viene da pensare che non molto è cambiato in Italia, da allora oggi, quanto meno per due profili: per la tendenza perniciosa a ignorare la storia del nostro paese, e per l'ugualmente pervasivo e letale provincialismo pratico. Due aspetti della medesima miopia, l'una nel tempo, l'altra nello spazio.

Le due ragioni di Fiorentino Sullo

per contrastare la rendita

É opportuno precisare quale fosse l'obiettivo che Sullo si poneva nel contrastare la rendita fondiaria urbana. La rendita fondiaria urbana: cioè quell’elevatissimo gradiente che gratifica il proprietario del suolo quando il prezzo, da quello del terreno agricolo, ascende a quello del terreno edificabile.

Dalla lettura delle pagine che scrisse all'indomani della sua sconfitta emergono due ragioni sostanziali:

1. l'enorme incremento del prezzo dei terreni, che si manifestava quando questi da agricoli divenivano idonei all'edificazione, incideva in modo insopportabile sul prezzo delle abitazioni, delle quali c'era un grande bisogno a causa sia dell'entità delle migrazioni interne sia dall'esigenza di migliorare le condizioni di abitabilità;

2. l'entità della rendita urbana e la sua appropriazione da parte dei proprietari facevano sì che forma e struttura della città fossero determinati dall'unica regola del massimo sfruttamento economico d'ogni porzione di suolo, realizzando periferie invivibili.

Sullo insiste molto sulla descrizione delle trasformazioni che avevano caratterizzato l’assetto territoriale e demografico del paese negli anni della ricostruzione postbellica e sulle ragioni che pretendevano dall’azione pubblica un governo del territorio e del mercato capace di abbattere in misura consistente il prezzo delle case. Su questo gli incrementi della rendita fondiaria urbana incidono in modo insostenibile, sia per i bilanci delle famiglie che per il potere pubblico, che deve provvedere sia ad assicurare il godimento dell’abitazione per quei ceti che non possono accedere al mercato sia ad arricchire la città delle dotazioni che le rendono cosa diversa, e più civile, che un mero ammasso di case e capannoni.

Ed egli insiste ugualmente sul denunciare il risultato funzionale ed estetico dell'appropriazione privatistica della rendita urbana. Per effetto di questa

«la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli o medi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni a mezzo delle maggiori altezze dei fabbricati e che si pongono in netto antagonismo con i cittadini non interessati alla speculazione, i quali chiedono spazio per i veicoli ed aria per le persone. E quindi riduzione al massimo della densità fabbricativa».

Cita, proposito delle conseguenze nefaste della rendita urbana, classici della cultura urbanistica. Cita Gustavo Giovannoni, e cita Camillo Sitte (1889):

«I prezzi elevati dei terreni - scrive Sitte - spingono i costruttori alla loro massima utilizzazione possibile; è questa la ragione per cui molti dei più attraenti motivi dell’ architettura cadono a poco a poco. in disuso ed ogni lotto fabbricabile dà luogo ad un blocco squadrato» (Camillo Sitte, L’arte di costruire la città, )

Cita con ampiezza Hans Bernoulli (1946), del quale riporta un lungo brano nel quale lo studioso elvetico racconta (dice Sullo) «l'assurdo di di un’urbanistica che si sviluppi consentendo l’anarchica utilizzazione del suolo da parte di ciascun proprietario privato».

Fa sue le conclusioni di Bernoulli: «La nuova città, i nuovi quartieri abbisognano . di territorio; debbono liberamente disporre del terreno su cui sorgeranno, liberi e disimpegnati per poter erigersi e svilupparsi secondo le migliori norme. Perché il suolo corrisponda ad un compito così nuovo e di così diversa qualità, è necessario rimuovere con sicurezza e con tranquillità le suddivisioni attuali per dar luogo a quella nuova» (Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano)

La proposta di Sullo

Dall’intreccio tra queste due ragioni nasce la sua proposta, volta a impedire che negli anni successivi la prosecuzione dei trend espansivi della città producesse effetti sociali analoghi a quelli che si erano registrati nel periodo precedente: pesante incidenza sui bilanci delle famiglie, assenza delle elementari condizioni d’igiene e di vivibilità, sovraffollamento, disagio abitativo e urbano.

L’attenzione era volta all’espansione delle città. Lo strumento era quello impiegato dagli stati dell’Europa nei quali il welfare urbano si era affermato più che in Italia: l’acquisizione preventiva da parte del comune delle aree d’espansione individuate dai piani urbanistici, con un indennizzo commisurato al valore agricolo; la progettazione dei nuovi insediamenti da parte della pubblica amministrazione; la realizzazione, da parte del comune, di tutte le urbanizzazioni primarie e secondarie, tecniche e sociali; la cessione agli utilizzatori, privati e pubblici non della proprietà del suolo, ma del diritto di utilizzarlo per un periodo determinato, a un prezzo corrispondente alla spesa sostenuta della pubblica amministrazione.

La scelta della cessione temporanea e non della proprietà (“diritto di superficie”) avrebbe consentito al comune di rientrare in possesso delle aree nel momento in cui l’edificato fosse divenuto obsoleto e si fosse voluto modificare l’assetto dell’area.

La violenta reazione del blocco sociale e politico formatosi attorno alla grande proprietà fondiaria ed edilizia indusse la DC ad abbandonare, come sappiamo, la proposta di Sullo.

Se il suo iter fosse proceduto, sarebbero venute alla luce (e avrebbero potuto essere risolte) alcune contraddizioni che la legge non superava. In particolare, la legge introduceva una disparità di trattamento tra i proprietari delle aree non ancora urbanizzate, soggetti all’espropriazione e quindi privati dalla possibilità di lucrare della rendita urbana, e i beneficiari del diritto di superficie, che avrebbero potuto godere degli incrementi della rendita edilizia (cioè del trasferimento della rendita dal fondo all’edificio). Una seconda disparità si sarebbe manifestata tra gli espropriati e i proprietari degli immobili (aree ed edifici) nella città consolidata. Insomma, ad alcuni sarebbe stato lasciato il privilegio di lucrare sull’incremento della rendita (la quale aumenta all’aumentare delle aree fabbricabili) e ad altri no.

La prima debolezza intrinseca della proposta sarebbe stata certamente riparata ricorrendo all’esempio della legge 167/1962 (una sorta di anticipazione parziale della legge urbanistica), e cioè mediante il controllo dei prezzi delle case costruite sui terreni divenuti pubblici. La seconda (cioè la disparità tra i nuovi insediamenti e la città esistente) avrebbe richiesto provvedimenti di carattere più generale in materia di diritto proprietario e di fiscalità pubblica: cioè il prelievo generalizzato di una parte almeno, ma consistente, del plusvalore determinato in relazione alla crescita e al miglioramento della città.

Le ragioni dell’etica e dell’economia

Se riflettiamo oggi sulla posizione di Fiorentino Sullo per aiutarci a ragionare sull’oggi e sul domani è necessario accennare a un’altra ragione della sua proposta: una ragione che parte dall’etica per prolungarsi nell’economia.

Nel difendere la sua proposta Sullo ripete che si deve incidere seriemente sugli alti costi dei suoli urbani, il che è possibile solo se si espropria, urbanizza e rivende le aree a chi ha bisogno del suolo per costruire. E prosegue: «Se milioni di cittadini ci guadagnano, c’è qualcuno che ci perde. E che strepita. Ma chi ci perde, perde arricchimenti iniqui. Non ciò che è suo, ma ciò che, per fortuite coincidenze, gli viene, con l’attuale sistema delle leggi, regalato dallà collettività».

Sullo è insomma pienamente consapevole di una realtà che era ben nota alla cultura liberale. Una realtà che voglio ricordare in questa sede.

Delle tre forme di reddito (salario, profitto, rendita) nelle quali si divide la torta della ricchezza nazionale, la terza, la rendita, è l’unica che non corrisponde ad alcuna logica d’interesse sociale e a nessun contributo del soggetto percettore all’attività economica. Se vogliamo rifarci alla logica dell’analisi liberale possiamo dire che il salario è il corrispettivo del lavoro, il profitto è il corrispettivo della capacità imprenditiva, e la rendita compensa unicamente il privilegio proprietario. Se vogliamo riferirci a una logica sostanziale, sappiamo che il salario paga la sussistenza e la riproduzione del lavoratore, essenziale per qualsivoglia processo produttivo; che il profitto costituisce, oltre alla remunerazione dell’attività imprenditoriale, il miglioramento – attraverso l’accumulazione - delle condizioni della produzione; che la rendita costituisce un mero prelievo della ricchezza prodotta, in nome di una posizione di potere.

Il riferimento di Sullo è costituito dalla dottrina liberale. Cita un testo pubblicato nel 1900 da Luigi Einaudi proprio ragionando sulla rendita determinata dall’edificabilità dei suoli:

«Il caso dei terreni edilizi [così Einaudi definisce i suoli edificabili, distinguendoli da quelli destinati agli usi agricoli] è invece molto diverso. Non esiste un vincolo indissolubile tra la proprietà del terreno ed il lavoro applicato alle costruzioni; anzi, il valore del terreno cresce per virtù propria, date le circostanze d’ambiente propizie, senza che su di esso si sia nulla edificato. Il proprietario del terreno nudo, sul quale mai non è stata fatta da lui alcuna spesa, può venderlo ad un prezzo incredibilmente alto all’imprenditore di case il quale ha intenzione di fabbricarvi sopra. La proprietà del suolo non è nient’affatto una condizione necessaria perché si eserciti l’industria edilizia» (Luigi Einaudi, in “La Riforma sociale”, anno VII, vol. X, p.779).

Il contesto

La vicenda della legge Sullo si aprì – come ho detto – all’inizio degli anni 60 e si concluse nel 1963. Pochi anni. Ma essa è nata, si è sviluppata ed è proseguita in un arco di tempo più ampio, che ne costituisce il contesto e al quale è bene richiamarsi, sia pure in modo necessariamente sintetico.

Nasce quando maturano tre condizioni.

1. Il consolidarsi dell’industria manifatturiera, che diviene competitiva con quelle estere;

2. La diffusa consapevolezza delle conseguenze territoriali e sociali di uno sviluppo capitalistico, lasciato interamente libero all’azione dei suoi animal spirits;

3. L’affermarsi di una democrazia di massa, che pretendeva l’esercizio dei diritti promessi dalla Costituzione.

Sono gli anni nei quali la DC sposta l’asse del suo potere, la programmazione economica diventa un tema centrale, alcuni poteri monopolistici vengono messi in discussione. “Modernizzazione” significa a quei tempi eliminare i lacci e lacciuoli della rendita urbana, perchè in tal modo le città sarebbero diventate più efficienti, le abitazioni – e in generale la vita delle famiglie – meno costose, di conseguenza la spinta salariale non avrebbe avuto nuovo alimento.

Si erano comprese molte cose. Ne era stata trascurata una: la potenza di quel “complesso edilizio” che Valentino Parlato, con un’analisi di un’acutezza raramente raggiunta dopo, descrisse (1970). Scrive Parlato:

«In questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta é l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando - per rafforzare i più solidi legami di interesse economico - il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, é naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”» (Valentino Parlato, Il complesso edilizio, 1970).

Il “complesso edilizio” non fu sconfitto. Sembrò averlo incrinato la poderosa spallata data nel biennio 1968-69 da un blocco alternativo di forze sociali, che andava dagli studenti, alle donne, ai lavoratori delle fabbriche e degli uffici. Quella spallata che culminò nel grande sciopero generale nazionale per la casa, i trasporti, l’urbanistica e il Mezzogiorno del 19 novembre 1969. Un mese dopo, il 12 dicembre dello stesso anno, cominciarono ad esplodere le bombe del terrorismo.

Gli anni successivi (tutto il corso degli anni 70) videro ancora avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte dell’una e dell’altra delle grandi correnti che percorrevano la società. Le consapevolezze che erano state acquisite agli inizi degli anni 60 – e in particolare la necessità di contenere fortemente la rendita fondiaria urbana – sembrava ancora viva. Lo testimoniano le prese di posizione singolari (se le rileggiamo oggi) di uno dei massimi esponenti del capitalismo italiano, Gianni Agnelli, padrone della Fiat e, poco dopo, presidente della Confindustria.

In un’intervista rilasciata all’Espresso Gianni Agnelli affermava:

«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire [...] Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» (Intervista rilasciata all'Espresso, novembre 1972).

Erano anni sui quali gli storici hanno cominciato a riflettere, abbandonando gli slogan unilaterali degli “anni di piombo”. Anni che conobbero – non solo sul terreno dell’urbanistica – grandi conquiste e grandi sconfitte. Il clima generale stava cambiando. In peggio. Già cavalcavano nel mondo globalizzato i quattro cavalieri dell’Apocalisse ritratti da David Harvey sulla copertina del suo libro più fortunato, la Breve storia del neoliberismo: Tatcher, Reagan padre, Pinochet, Deng Tsiao Ping. Stava iniziando l’epoca di quello che Giorgio Ruffolo chiama turbo-capitalismo.

In Italia, la “modernizzazione” del craxismo espresse la sua versione al pomodoro della strategia neoliberista, e il passaggio dalla pianificazione urbanistica all’urbanistica contrattata fu la sua ricaduta sul terreno della città. “Privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli” furono gli slogan vincenti, agitati su tutti i lati dello schieramento politico.

Che cosa è successo della rendita urbana in questo mutato contesto?

La rendita oggi

Ci aiuta a comprenderlo un saggio di Walter Tocci, oggi direttore del Centro per la riforma dello stato ma buon conoscitore dell’urbanistica grazie anche alla sua esperienza di amministratore al comune di Roma, dove è stato assessore ai trasporti e vicesindaco. É un saggio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Democrazia e diritto, la cui parte monografica è dedicata al “Trionfo della rendita urbana”.

L’autore ragione a lungo sul legame tra rendita urbana e rendita finanziaria, sull’evoluzione del connubio tra queste due realtà, sul dominio che esse sono venute a svolgere nella fase neoliberistica e sulla attuale crisi. In relazione a quel connubio la rendita urbana ha svolto in passato funzioni ed ha assunto caratteristiche diverse. Nella fase dell’espansione urbana ha prevalso la rendita

«prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo».

Più tardi, negli anni Ottanta, cambiò il verso della trasformazione. Si tornò a operare all’interno della città, utilizzando gli immobili liberati dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.).

«La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici».

Ed ecco il punto:

«La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».

All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase che Tocci definisce della “rendita pura”. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi. Tocci rileva che

«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria».

Il cambiamento è enorme, non solo in termini quantitativi. Cambia radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia.

A differenza di quanto accadeva prima, la rendita immobiliare non può più essere indicata (e combattuta) come un fattore di arretratezza.

«Anzi, oggi essa si trova a svolgere un ruolo di trascinamento dell'innovazione economica. D’altronde, come spesso accade, il nuovo contiene una rielaborazione dell'antico. Infatti, la novità della finanziarizzazione consiste nel ritrovare un collegamento con l’atto originario dell’appropriazione capitalistica, a lungo dissimulato dall’economia classica e consumato non a caso nel campo della proprietà immobiliare. L’accumulazione del capitalismo nasce infatti nel momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta […] Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso sulla produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un terreno, ma l’atteggiamento di fondo è il medesimo […] Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra l’economia e la politica. Il primato della rendita porta con sé un potere costituente. Per questo la forma capitalistica contemporanea è accompagnata da una formidabile verticalizzazione del potere in tutti i campi, nello Stato, nell’impresa, nella società».

“Il declino nascosto sotto il mattone”

Il predominio della rendita (la “rendita pura”) come segno della modernità. Ma è una modernità che va nella direzione del declino. Almeno per il nostro paese. Tocci sottolinea il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende (a partire dalle grandi e “moderne”: Fiat, Pirelli, Falk, Benetton) di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, l’imprenditività (se tale può ancora chiamarsi) dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano.

Gravi sono le responsabilità dei tecnici. In particolare gli urbanisti, che hanno accompagnato e “facilitato” la legittimazione della rendita. Scrive Tocci: «Quando il progetto urbanistico smarrisce il senso critico si riduce a celebrare il già fatto o a pianificare il nulla». Gravi anche le responsabilità degli imprenditori, e soprattutto dei politici in questa scelta di privilegiare la rendita anzicchè combatterla: incoraggiata da alcuni, utilizzata da altri, ignorata da chi aveva il dovere culturale di denunciarla.

Ma ai più è sfuggito un fatto. In Italia, quella che è una tendenza generale della fase attuale del capitalismo, ha assunto una forza e un’incidenza straordinaria per effetto di una iniziativa politica (quella del governo Berlusconi-Tremonti) che, in questo settore, ha dispiegato una strategia volta con grande efficacia a consolidare la base immobiliarista dell’economia e della società.

«Il funzionamento capovolto del mercato della rendita» (il valore dei suoli edificabili aumenta all’aumentare dell’offerta, a differenza da ciò che accade per altre merci) e l’introduzione del fondo immobiliare sono stati utilizzati e accompagnati da una serie di misure, tutte orientate nella medesima direzione. Per citare le principali, il superamento dell’equo canone e la liberalizzazione dei canoni di locazione, lo scudo fiscale, la dismissione dei patrimoni immobiliari pubblici, il condono edilizio, il piano-casa» A cui vanno aggiunte le innumerevoli eliminazioni dei controlli sulle trasformazioni aventi rilevanza urbanistica.

«L'insieme di questi provvedimenti –prosegue Tocci - configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra. Poi sul piano istituzionale, con un'inusuale consonanza tra l'intervento dello Stato e quello di Regioni, Province e Comuni, tranne poche e meritorie eccezioni. Neppure i media, prima della recente crisi, avevano mai raccontato i meccanismi più o meno occulti del fenomeno, lasciando quindi l'impressione di un ampio consenso dell'opinione pubblica».

Che fare?

La rendita immobiliare è ancora un avversario da battere. Non nel senso – ovviamente – di eliminarla, ma certo in quello di ridurne gli effetti negativi, operando nelle due direzioni storiche: trasferirne parte consistente (molto consistente, se il sogno di Henry George non è integralmente realizzabile) dal privato al pubblico; ridurne drasticamente la crescita con le politiche urbane mirate.

Ma è un avversario ancora più consistente che nel passato. Ciò rende evidente che la lotta contro la rendita non è questione tecnica, che possa essere affidata a questo o a quel pool di esperti. É innanzitutto una questione politica, culturale, morale. Occorre in primo luogo comprendere (occorre che tutti comprendano) che non invertire la tendenza comporta danni gravissimi per tutti e per tutto. Occorre denunciare, illustrare, dimostrare, argomentare. Questo è il primo compito dei tecnici, degli intellettuali.

Ma occorre al tempo stesso che la politica ri-assuma il proprio ruolo. Che non è quello di accompagnare l’economia data (illudendosi di cavalcarla), limitandosi a mitigarne gli effetti meno gradevoli. La politica deve tornare a dirigere l’economia: a definire per quali fini debbano essere impiegate le risorse scarse di cui il pianeta dispone.

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