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«Ego terras omnis tamquam meas videbo, meas tamquam omnium»

Per chi ha un po’ di frequentazione dei luoghi nei quali si è rifugiata la politica (o dai quali essa riemerge) i caratteri del conflitto del quale il territorio è oggetto sono molto chiari. Sono riassunti nell’antitesi espressa dal titolo di questo scritto: città dei cittadini o città della rendita?

Alcune precisazioni lessicali. Quando parlo di città parlo dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città” che la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello rurale. E quando parlo di cittadini parlo di quelli attuali e di quelli potenziali, con particolare attenzione a due categorie di soggetti che oggi non sono dotati dei diritti di cittadinanza: i forestieri e i futuri, i migranti e i posteri.

1. LA CITTÀ DELLA RENDITA

La città come macchina

per arricchire i ricchi

Conosciamo bene la città della rendita. É quella che denunciamo e soffriamo ogni giorno. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse, distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.

Per i costruttori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene che può essere utile ad altri.

Non a caso l’economia liberale ha considerato la rendita come la componente parassitaria del reddito. Non a caso ha tentato di ridurne gli effetti, con le pratiche dell’espropriazione a prezzi che non riconoscevano i vantaggi derivanti dalle decisioni pubbliche e i tentativi di tosarla con lo strumento fiscale. Tentativi che, nel nostro paese, sono stati proseguiti fin agli anni 70 del secolo scorso .

Dalla “rendita parassitaria”

alla “rendita motore dello sviluppo

Ma gli animal spirits del capitalismo reale hanno spinto i proprietari e i gestori del capitale a impadronirsi anch’essi di quote rilevanti della rendita. Il passaggio dall’atteggiamento critico nei confronti della rendita urbana alla piena partecipazione al banchetto consentito dal suo progressivo incremento è avvenuto platealmente agli inizi degli anni 70: quando i padroni della Fiat e capi della Confindustria passarono, da affermazioni di piena condivisione per una riforma urbanistica che combattesse la rendita urbana e i suoi incrementi, a pratiche di spostamento di risorse (finanziarie, organizzative, culturali) dagli investimenti industriali a quelli immobiliari.

«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire. Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» aveva dichiarato Gianni Agnelli, padrone della Fiat e presidente della Confindustria [Agnelli G. 1972]. Ma pochi anni dopo Fiat, e con essa Pirelli, Falck, Zanussi, Benetton abbandonarono il mondo del profitto e dell’industria per scorrazzare nei lauti pascoli della rendita finanziaria e di quella immobiliare, impegnandosi attivamente nel campo della speculazione sul mattone, irrigato e fertilizzato da un ceto politico sempre più succube dell’economia data.

Ha scritto Walter Tocci, in un saggio che rivela come il peso della rendita immobiliare sia diventato decisivo nell’attuale fase del capitalismo: «La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più» [Tocci W. 2009].

Il dominio dell’ideologia e della prassi del neoliberismo

É a partire dagli anni 80 che in Italia le cose cambiarono sostanzialmente. Il dominio dell’ideologia neoliberista e il primato delle parole d’ordine lanciate dal craxismo ne sono una componente essenziale. E rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso.

Sul terreno solido dell’economia la finanziarizzazione aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio. Rifacendoci alle categorie classiche della teoria economica, l’appropriazione privata di rendite (finanziarie e immobiliari) divenne la componente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del capitale intrecciandosi strettamente al profitto. Del resto, il peso del salario poteva essere via via ridotto dall’innovazione tecnologica.

É il caso di aggiungere, a questo sommario quadro, che l’appiattimento della politica sull’economia ha consentito ai gestori del capitale di ottenere dagli amministratori il consistente aiuto derivante dalla loro possibilità di promuovere o consentire, con l’insieme delle politiche urbane, la sistematica espansione delle parti del territorio il cui valore di scambio passava dalle utilizzazioni legate alle caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edilizia. Attraverso le politiche urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’economia spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare. Decisivo, a questo fine, è stato l’aiuto fornito alla speculazione fondiaria dalle politiche nazionali, che hanno ridotto via via le risorse trasferite ai comuni lasciando loro la possibilità di stornare i cespiti degli oneri di concessione dalla realizzazione delle attrezzature pubbliche alle spese correnti.

Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno dovuto introdurre qualche cambiamento nelle loro politiche. Aiutate e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno dovuto procedere allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti . Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.

I prezzi del trionfo della rendita

Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano, afferma Tocci [Tocci W. 2009].

Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio. Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una macchina - costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività - usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.

2. LA CITTÀ DEI CITTADINI

Mille vertenze

In esplicita antitesi con la città della rendita si è affacciata sulla scena una città alternativa: quella che definisco “la città dei cittadini”, con la precisazione che ho fatto all’inizio sul termine di “cittadino”. É quella che emerge dalla miriade di vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e quartieri, per rivendicare qualcosa che si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative locali o settoriali (spesso l’uno e l’altro insieme) che caratterizzano la vita sociale in questi anni.

Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo “sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni della “città infinita”. Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di città.

Non sono chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione. Proviamo a definirli, riassumendoli in quattro questioni: il rapporto città-campagna, gli spazi per la collettività, l’abitazione, la partecipazione.

A. Città e campagna

La città è, al tempo stesso, il luogo che l’uomo ha inventato e costruito quando ha avuto bisogno di organizzare la sua vita attorno a spazi, servizi e funzioni comuni e, al tempo stesso, il modo che l’uomo ha utilizzato per costruire il proprio habitat nell’ambito dello spazio naturale. Per una lunghissima fase della storia dell’umanità l’urbano (caratterizzato dall’artificialità fisica, dalla ricchezza dei rapporti interpersonali e della vita sociale) è restato racchiuso nella cerchia delle mura urbane e delle sue immediate adiacenze, utilizzando il resto del territorio pressoché unicamente come supporto delle vie di comunicazione – esili dapprima, poi via via più massicce e intense. Nei secoli a noi più vicini l’organizzazione urbana (l’habitat dell’uomo) si è esteso via via all’intero territorio: non solo artificializzandone parti sempre più estese, ma soprattutto inserendo la massima parte delle sue componenti ai ritmi, ai modi di fruizione e di trasformazione, ai valori propri delle funzioni urbane.

Oggi il territorio rurale non è considerato, valutato e trattato in relazione alle sue qualità proprie, ma alla sua capacità di entrare nel ciclo delle utilizzazioni (e dei valori economici) urbani. É un “suolo in attesa di urbanizzazione”. Se è un terreno agricolo il suo proprietario aspetta il momento nel quale la vanga che lo aprirà non sarà più finalizzata alla messa a dimora di una vigna o di un platano, ma alla realizzazione delle fondazioni di un edificio. Un bosco non avrà nel suo destino quello di essere governato per il patrimonio di beni naturali che costituisce ma, nel migliore dei casi, come estensione del parco urbano, nella peggiore come luogo da distruggere per riempire il sito di ville e villette. Una spiaggia svolgerà il suo ruolo come sede di una serie di stabilimenti balneare, e magari di piscine, alberghi, casette di vacanza.

Connesso a questa trasformazione (culturale, economica, fisica) vi è un altro fenomeno, che incide direttamente sulla vita dell’uomo. L’alimentazione non è più il consumo di merci prodotte a distanza ravvicinata, da un suolo nutrito dalla stessa storia che ha prodotto quella citta e dalla stessa cultura che ne ha foggiato gli abitanti, dallo stesso sole e dalla stessa aria, dal ciclo delle stesse stagioni, ma è sempre più prodotta altrove, lontano, là dove le regole dell’economia capitalistica trovano maggiore convenienza.

Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini. Il modello di città la cui domanda nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e quartiere, di città, di area vasta, di regione…), tra l’urbanizzato (=prevalentemente artificializzato) e il rurale (=prevalentemente naturale). Deve consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo, aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di bellezza, di storia, d’identità.

Ma è la stessa localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare, là dove ciò si dimostri essenziale ed irrinunciabile, che deve tener conto di un corretto rapporto con la natura. La terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per sé un valore. É una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità sacrificarne una porzione; quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di altri e superiori valori), e va compensato con equivalenti restituzioni di naturalità.

B. Gli spazi e i servizi per la collettività

Gli spazi, i servizi e le funzioni comuni attorno ai quali è nata e si è organizzata la città nella storia hanno ricevuto, nei decenni dell’affermazione del welfare state, un consistente accrescimento qualitativo e quantitativo. Ai luoghi classici della città greco-romana, medioevale e rinascimentale si sono aggiunti quelli destinati alle esigenze della salute, dello sport e della ricreazione, della cultura, realizzati per una cittadinanza sempre più vasta e sempre più cosciente dei propri diritti: diritti che avevano la loro condizione decisiva nel ruolo delle classi lavoratrici nel processo di produzione e di consumo. É cresciuta insomma la consapevolezza della necessità di una vasta e articolata “città pubblica”, costituita da quell’insieme di spazi, servizi, attrezzature, reti divenuti standard, indispensabili integrazioni della vita che si svolge nell’ambito dell’alloggio (e della fabbrica).

Per la città della rendita tutto ciò è un peso: riduce lo spazio della speculazione edilizia e, con il sistema fiscale (inevitabile cespite del costo della “città pubblica”) rischia di pesare sulle rendite. Ecco allora che si pratica la riduzione degli spazi pubblici, la loro privatizzazione, al soddisfacimento con servizi privati (a pagamento) di esigenze che nella città del welfare erano soddisfatte con servizi pubblici: dalla salute alla scuola, dallo sport all’assistenza – fino alla sostituzione della piazza, archetipo della città, con il centro commerciale.

É probabilmente da questa consapevolezza, dal disagio provocato dalla perdita di una dotazione urbana sentita come un bene essenziale, che nasce la domanda di una più ricca presenza di attrezzature e servizi, spazi e reti, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli. E alle esigenze del passato nuove esigenze si aggiungono, completandole e integrandole: che le dotazioni comuni e pubbliche non solo siano funzionali alle esigenze che devono soddisfare, ma posseggano almeno tre ulteriori requisiti: che siano risparmiatrici d’energia e di altre risorse naturali e non peggiorino la qualità di quelle impiegate; che siano dotate di una riconoscibile bellezza, ottenuta come risultato dell’insieme e non dal singolo oggetto; che siano utilizzabili da tutti, senza discriminazioni tra ricchi e poveri, giovani e anziani e bambini, uomini e donne, cittadini e forestieri. Che siano, insomma, ecologiche, belle, eque.

C. L’abitazione

Nell’ambito della “citta pubblica” – nella tradizione più antica delle città europee come nella città del welfare – un ruolo particolare ha svolto l’abitazione. Questa è intrinsecamente il luogo del privato, quindi dovrebbe essere “l’altra parte della città” rispetto a quella pubblica. Eppure per almeno due circostanze essa è entrata nell’orbita della prima. Innanzitutto perché la forma, e lo stesso funzionamento, degli spazi pubblici sono definiti dal modo in cui gli edifici destinati alla residenza (le case, i “mattoni” con i quali è realizzata la forma fisica della città) sono organizzati sul territorio. Basta osservare la planimetria d’una città medioevale per rendersene conto. In secondo luogo perché, da quando la polis ha applicato una dose di giustizia sociale nell’amministrazione urbana, il “pubblico” si è fatto carico di fornire un alloggio a chi non aveva i mezzi per ricorrere al mercato .

Nei tempi più vicini, soprattutto in Italia, l’abnorme lievitazione della rendita urbana ha reso i prezzi delle abitazioni incompatibili con i redditi di un numero crescente di famiglie. Ecco allora che è rinata in questi anni una vertenza che aveva divampato negli anni 60: quella della “casa come servizio sociale”. Con questo slogan non si chiedeva allora, e non si chiede oggi, che l’uso degli alloggi sia garantito a tutti come lo è un servizio pubblico, come ad esempio il servizio sanitario o quello scolastico, ma che il prezzo per l’uso delle abitazioni sia regolato da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Oggi la questione della residenza si pone sotto un quadruplice aspetto: quelli del costo, della localizzazione, della tipologia d’uso, dell’espulsione.

Il costo per l’utente: si tratta in primo luogo di abbattere l’incidenza della rendita urbana sul costo compessivo dell’alloggio. Si tratta di riprendere gli strumenti della politica della casa degli anni 70 e di aggiornarli e integrarli in funzione delle modifiche della domanda. Ma si tratta in primo luogo di applicare il principio secondo il quale la funzione della casa non è quella di arricchire chi la produce ma quella di dare abitazione a una famiglia – così come la funzione di un farmaco è di curare un malato.

La localizzazione: si è costruito dappertutto, dove ciò era più conveniente per l’investitore (e dove era reso possibile dai sindaci) in qualunque parte del territorio; ma la residenza deve essere collocata a distanza ragionevole dal luogo dove i suoi abitanti svolgono gli altri momenti della loro vita: il lavoro, la scuola e così via. La città della rendita ha accentuato il pendolarismo . L’assenza della pianificazione urbanistica e una politica dei trasporti finalizzata all’espansione della motorizzazione individuale hanno aumentato, e reso più costosi, i prezzi degli spostamenti. Nella città dei cittadini non si devono costruire residenze dappertutto, ma solo dove esiste una domanda reale e dove un efficiente sistema di servizi pubblici può collegare la residenza alle altre funzioni della vita quotidiana.

La tipologia d’uso: tutti gli strumenti dell’ideologia e dell’economia sono stati impiegati per spingere gli italiani a risolvere il problema della propria abitazione (e di quella dei loro figli) con il godimento in proprietà. Con ciò si è posta una grave ipoteca sulla mobilità della popolazione sul territorio. Mentre in altri paesi la larga presenza dei patrimonio abitativo in affitto consente a chiunque di cambiare luogo di lavoro senza eccessivi problemi, in Italia ciò è diventato particolarmente difficile e oneroso. Sarebbe necessario condizionare fortemente l’ulteriore espansione della proprietà dell’abitazione e offrire, invece, un ampio stock di alloggi in affitto. Iniziando dal porre termine all’alienazione dei patrimoni immobiliari pubblici o parapubblici.

L’espulsione: un peso crescente sta assumendo in Italia un processo in atto in tutto il mondo atlantico: l’espulsione di abitanti da parti della città per effetto di interventi di “riqualificazione”, spesso promossi dagli stessi amministratori pubblici, che comportano modifiche nelle condizioni economiche d’accesso, oppure provocano trasferimenti provvisori che poi diventano definitivi. Sono gli effetti della gentrification, che aumentano parallelamente alla maggior diffusione di politiche urbane volte al recupero anziché all’ulteriore espansione.

D. La partecipazione, ossia la politica

Le nuove vertenze riprendono in gran parte i temi di quello che, sul finire degli anni 60, fu rivendicato come “diritto alla città”. Henry Lefebvre [Lefebvre H. 1968] espresse questo principio in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio (e si tratta, sostanzialmente, degli argomenti che abbiamo toccato nei precedenti paragrafi), e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni.

In effetti oggi dalle vertenze sul territorio emerge la volontà di partecipare, da parte di tutti i cittadini, alla costruzione/trasformazione della città. Una partecipazione che non si riduca alla comunicazione unilaterale, top-down, delle scelte che chi governa ha già fatto, o sta per compiere. Ma una partecipazione che consenta di intervenire sulle scelte, di proporre soluzioni alternative – in una parola, di concorrere al governo. Si tratta quindi, per la città, di conoscere in anticipo i progetti di trasformazione e anche di poterne proporre,, di essere aiutati a comprenderne le premesse e le conseguenze, in definitiva di essere messi nelle condizioni di superare le forme della democrazia rappresentativa e delegata, praticando forme di democrazia diretta.

Grandi sono le difficoltà che si manifestano per ottenere (o strappare) successi in questa rivendicazione. E tuttavia, l’attuale degrado della democrazia delegata, il vuoto che si è aperto tra le istituzioni rappresentative e la società civile, la stessa crisi delle istituzioni, rendono la questione del tutto aperta. Si tratta di comprendere che cosa sia la politica: se sia solo quella che esprime la sua capacità di governo della società attraverso le istituzioni che conosciamo, oppure se essa sia qualcosa che è immanente al rapporto di ciascuna persona con la collettività. Quandi rifletto su questo tema mi viene spesso alla mente una frase del libro che don Lorenzo Milani raccoglie da uno degli allievi della sua Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» [Milani L. 1967]. Secondo molti, ciò che emerge dalle mille vertenze sul territorio, riannodabili attorno al tema della “città dei cittadini” è proprio il germe di una politica nuova. Ricca di limiti e difficoltà (su cui torneremo), ma anche di speranze.

3 LA NUOVA DOMANDA DI PIANIFICAZIONE

La mia tesi è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni cui l’habitat dell’uomo, e la vita della società, sono sempre più immersi.

É una nuova domanda che in parte può essere già soddisfatta mediante strumenti di pianificazione già utilizzati, spesso adoperati al di sotto delle loro potenzialità oppure distorcendoli, in parte trova interessanti anticipazioni e sperimentazioni in nuove forme di azione: limitate, parziali, imperfette, ma non è così che si sperimenta il nuovo in ogni campo?

S’incorrerebbe nell’errore tipico delle discipline separate dagli altri saperi e rinchiuse nella proprie technicalities se si trascurasse il fatto che la nuova domanda di pianificazione dell’habitat dell’uomo non nasce sola. Essa è componente di una più ricca domanda di cambiamento, che concerne tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica all’etica, dall’economia all’antropologia.

In effetti, affrontare in modo risolutivo quei quattro temi che abbiamo sopra indicato presuppone o postula la costruzione di una società interamente diversa da quella attuale, a partire dalla sua dimensione strutturale, dalla sua economia. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) che riesce a sopravvivere, da una crisi all’altra, solo erodendo ancora di più gli scarsi margini delle risorse naturali del pianeta, accrescendo le diseguaglianze, cancellando via via le conquiste raggiunte nell’evoluzione di una civiltà. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) nella quale il lavoro – lo strumento che l’uomo ha per conoscere e governare il mondo – sia ridotto a componente marginale della vita economica e sociale. Non possono essere risolte nell’ambito di una società nella quale la formazione sia diretta all’apprendimento delle tecniche necessarie per far andare avanti un sistema economico obsoleto, divenuto disumano, anziché nell’esplorare le vie dell’ancora sconosciuto e del possibile.

Ecco allora perché le questioni relative al territorio si legano strettamente alle grandi vertenze aperte nel nostro paese: l’ambiente, la scuola, il lavoro.

Ostacoli e limiti

nell’azione della “società critica”

Più che soffermarsi ancora sui contenuti della “città dei cittadini”, e sull’immaginario urbano che nasce dalle mille vertenze aperte sul territorio, è bene riflettere sugli ostacoli che ne intralciano l’affermazione. Poiché ho detto che i portatori essenziali di quell’ idea di città sono i “comitati” (riassumo in questo termine l’intero tessuto di gruppi, più o meno formalizzati, stabili, strutturati che caratterizza la “società critica” del nostro paese), è in primo luogo ai limiti di questi che occorre riferirsi

Mi sembra che si manifestino soprattutto tre limiti, riassumibili: (1) nella difficoltà di superare una visione settoriale e localistica dei problemi e dei disagi, per assumere invece una prospettiva olistica (dalla vertenza per la difesa dell’albero alla vertenza contro un cattivo piano urbanistico); (2) nel limitarsi ad azioni di contrasto e protesta, pur necessarie, invece di approdare alla formulazione di proposte; (3) nel rinchiudersi nell’impegno a difendere/costruire/affermare un’identità circoscritta (e quindi una città delimitata, una “città villaggio”), per assumere invece l’impegno a collaborare alla costruzione di un “mondo di città”: un habitat del quale tutti possano sentirsi ed essere cittadini uguali nel rispetto delle differenze.

Quei tre limiti sono in qualche modo inevitabili in conseguenza del modo in cui storicamente il mondo dei “comitati” è nato: vertenze locali, riferite a uno specifico oggetto o problema; reazioni di difesa e di resistenza, di fronte ad azioni che altri promuovevano nel loro quadro di riferimenti, di interessi, di poteri e di strumenti; individuazione di propri “compagni di lotta” nei vicini più immediati, ugualmente minacciati e componenti dalla “comunità” la cui identità si rivelava essenziale per ottenerne la solidarietà. Questa origine storica di molte vertenze locali fa sì che esse siano spesso caratterizzate da una logica Nimby, cioè ripiegate nella separatezza del proprio cortile, di ciò che immediatamente utilizzano; e quindi ostili a chi è “fuori”, “diverso”, “straniero”.

Remo Bodei ha svolto recentemente una interessante riflessione, proprio a partire dal termine “identità”. Dopo aver esposto e criticato i modelli correnti di identità Bodei propone la sua concezione: il tipo di identità « che preferisco e propongo, è rappresentato da un´identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l´identità individuale e collettiva si esalta. (…) Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l´idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l´esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall´egoismo, con la rinascita di piccole patrie» [Bodei R. 2011].

Localismo, protesta, chiusura:

come andare oltre

Localismo, protesta, chiusura: come superare questi limiti? Si è lavorato e si lavora in più di una direzione. Sebbene manchi ancora un quadro di conoscenza sistematica della ricca realtà associativa, sono da segnalare innanzitutto alcuni tentativi tendenti a superare il localismo coordinando (“mettendo in rete”) gruppi sorti in relazione a tematiche analoghe, aventi quindi analoghe o identiche controparti, e appartenenti a una medesima area; è il caso della rete toscana, pienamente affermata da qualche anno, e degli analoghi tentativi nel Veneto e in Lombardia. Più numerosi sono i cordinamenti e le reti a carattere intercoumane e subregionale (come l’efficacissimo Cat – Coordinamento Ambiente e Territorio, dell’area tra Venezia a Padova) o metropolitano, soprattutto in Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana, Lazio. Il ragionare insieme su un contesto territoriale e tematico più ampio di quello locale aumenta la consapevolezza dello spessore del problema, e rende più facile l’apporto dei “saperi esperti”; facilita perciò alle “reti” e ai “coordinamenti” di superare quei limiti storici.

Altre direzioni di lavoro di grande interesse sono costituite dalle vertenze tematiche nazionali, generate dall’aggressione – da parte dei poteri forti – ad alcune risorse sentite come beni comuni. Per citare solo le principali, l’Onda sorta impetuosa per reagire ai tentativi di mortificare la scuola pubblica e di provocare la privatizzazione dei processi formativi e il loro asservimento alle esigenze del mercato, e la grande esperienza della vertenza dell’”Acqua bene comune”, significativa per più di un elemento: per la grande capacità di mobilitazione determinata da un lavoro volontario di base tenace, ramificato, fornito da comitati e gruppi già esistenti e da numerosi “nuovi militanti”; per la capacità di gestire l’organizzazione in forme originali (come il “forum permanente”); per la collaborazione espressa a ogni livello da gruppi di intellettuali e cittadini; infine, per il grande successo conseguito nonostante gli ostacoli frapposti da un fronte ampio di poteri istituzionali (il governo e le sue emanazioni paragovernative, i partiti nella quasi totalità, i mass media).

Cittadini di più patrie

Superare quei limiti richiede comunque un più ampio sforzo di approfondimento, nel quale è essenziale ricostruire un legame tra due realtà sociali: gli “intellettuali” e il “popolo”. Gli “intellettuali” sono quelle persone che, a causa della loro stessa formazione, sono in possesso delle chiavi che aprono alcuni essenziali passaggi: la comprensione dei meccanismi, delle procedure, degli attori mediante i quali le proposte, le idee gli slogan diventano fatti concreti; la possibilità di delineare proposte alternative che siano concretamente realizzabili; le connessioni tra le specifiche situazioni alle quali ci si oppone (e delle controproposte) e il mondo più ampio dal quale quelle situazioni sono condizionate determinate e sul quale le stesse decisioni “locali” influiscono. E il “popolo” non è solo quello che dà le gambe alle azioni proposte, ma è anche l’interprete diretto della realtà che i disegni degli intellettuali interpretano, delle sue esigenze e speranze, dei suoi interessi e timori, e possessore di quei saperi che no derivano tanto dagli studi, quanto dai processi formativi spontanei basati sulla conoscenza del territorio e dalle tradizioni locali.

Mi sembra che su alcuni temi l’apporto degli intellettuali sia in questa fase essenziale. Quello che probabilmente ne riassume molti è il seguente: come utilizzare ancora lo slogan “pensare globalmente, agire localmente”? Come trovare un equilibrio tra il paese e l’universo? Le lotte dei comitati hanno insegnato che non basta “agire localmente”: le decisioni sul tunnel della TAV non si prende in Val di Susa, ma a Torino, Roma, Bruxelles. Occorre poter intervenire ai vari livelli in cui il processo delle decisioni si pone. La questione si pone allo stesso modo per quanto riguarda il rapporto tra “identità” e umanità: come superare l’elemento di chiusura, di esclusione dell’altro, che è sotteso al concetto di “vicino perché simile a me”?

La soluzione sta forse nel concetto di multiscalarità . Per governare il mondo e le sue trasformazioni, per “restituire lo scettro al popolo” nell’attuale configurazione della vita sociale, occorre che ciascun abitate del pianeta si senta cittadino di più patrie: del suo paese o quartiere, della città, la provincia, la regione, la nazione… e cosi via fino all’intera umanità. E occorre che si sia in grado non solo di conoscere come agisce sulle trasformazioni ciascun livello di governo, ma essere in grado di parteciparvi.

Superare quello slogan dell’ambientalismo primigenio, affrontare i problemi (per comprenderli e, soprattutto, per agire su di essi) richiede di affrontare un’altra questione complessa: il rapporto tra movimento e istituzioni. Le azioni, soprattutto quelle che riguardano il territorio, hanno una lunga gittata. Richiedono costanza dei principi e degli obiettivi, coerenza e continuità nelle azioni; e richiedono équipe di operatori dotati delle competenze necessarie e capaci di lavorare nel lungo periodo. Le istituzioni, comunque denominate, sono indispensabili per un movimento che voglia raggiugere gli obiettivi per i quali è nato. Si possono utilizzare le istituzioni esistenti, rinnovandole dall’intimo (credo che sia molto opportuno l’obiettivo che molti comitati si sono dati, di “conquistare i comuni”), oppure si possono formare istituzioni nuove. Ma il problema non può essere eluso.

Esso ci rinvia a una questione ulteriore: la politica, come ricostruirla, partendo dai germi di nuova politica che oggi si manifestano ma dando all’azione del “sovrano” (il popolo) continuità, coerenza, durata, capacità di egemonia e di efficacia? Su questo tema sarebbe necessario aprire una riflessione che porterebbe – chi ne abbia la capacità - molto al di là dell’argomento di questo lavoro.

Bibliografia

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Gibelli M.C., Salzano E. 2006, NO SPRAWL. Perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, Alinea, Firenze 2006

Milani L. 1967, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967

Bodei, R. 2011, Manifesto per vivere in una società aperta, «La Repubblica», 22 giugno 2011

Informazioni

"Quaderni del territorio" è la rivista online del Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche dell’Università di Bologna. Il n. 2, curato da Paola Bonora e Luigi Cervellati, sarà accessibile all’infirizzo http://www.storicamente.org/, col titolo “Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza tra urbano e rurale”. conterrà i seguenti contributi:

Paola Bonora, Tra il dire e il fare: le politiche del territorio in Italia

Sergio Conti, Prammatica per una filosofia di progettazione territoriale

Roberto Camagni, Rendita, efficienza e qualità della città

Matilde Gallari Galli, Partecipazione, spazi pubblici e processi identitari . La città contemporanea come luogo dello scontro tra poteri globali e identità tenacemente locali

Giuseppe Dematteis, La metromontagna: una città al futuro

Maria Cristina Gibelli, Governare l'esodo urbano: buone pratiche internazionali

Alberto Magnaghi, Politiche e progetti di territorio per il ripopolamento rurale

Edoardo Salzano, Dualismo urbano: la città dei cittadini e la città della rendita

Pier Luigi Cervellati, La cultura della terra per la città del XXI secolo

Rete Italiana per la Giustizia Ambientale e Sociale, 20 dicembre 2010

Eravamo pochi,

oggi siamo molti

Eravamo pochi, nel 2005, quando cominciammo a documentare e denunciare l’irrazionalità devastante del consumo di suolo in Italia. Di quei pochi, una parte si limitava a studiare il fenomeno nelle sue caratteristiche qualitative e ad analizzarlo dal punto di vista della possibile riqualificazione, riordinamento, riorganizzazione delle vaste estensioni di campagna invase dalla “diffusione urbana”. Nessuno, in Italia, si preoccupava di quantificare (di conoscere esattamente nelle sue dimensioni articolazioni, cause) il fenomeno, né tanto meno di combatterlo . Quando con alcuni amici organizzammo la prima edizione della Scuola di eddyburg questi due elementi ci preoccuparono molto. La nostra osservazione del fenomeno da una pluralità di postazioni locali e disciplinari, e le prime analisi sui loro costi, ci inducevano a dare una valutazione molto preoccupata delle conseguenze territoriali, sociali, economiche, culturali della sua espansione.

Riuscimmo a creare una certa agitazione sul problema, con l’aiuto soprattutto di due elementi: il successo che ebbe, da parte di alcuni gruppi politici, un testo legislativo idoneo a combattere il fenomeno che elaborammo ; la contemporanea reazione al fenomeno da parte di alcune associazioni protezionistiche (soprattutto Italia Nostra), di un certo numero di piccole amministrazioni locali, e di numerosi gruppi di cittadinanza attiva, soprattutto in Piemonte e in Lombardia. Questa ultime due componenti diedero vita a un movimento (Stop al consumo di territorio) che ebbe un inaspettato successo di adesioni.

Evidentemente, nonostante il lungo letargo della cultura urbanistica ufficiale (l’ultima ricerca significativa era stata quella coordinata da Giovanni Astengo , ItUrb80, svolta nella metà degli anni Ottanta), una certa sensibilità alla questione era maturata un po’ dovunque. Prova ne sia che, fin da allora, il “contenimento del consumo di suolo” è diventato un elemento della litania con la quale il politichese (la lingua dei politicanti) rende omaggio alla idee suscettibili di colpire l’opinione pubblica e, all’atto stesso, se ne impadronisce e le deforma utilizzandole ai propri fini. Molti, che oggi invocano quel contenimento, mentre non praticano né attuano politiche davvero capaci di ottenerlo, lo utilizzano come alibi per proporre “densificazioni” delle città esistenti senza nessuna preoccupazione per le reali necessità degli incrementi volumetrici.

La città della rendita

Caratteristica strutturale determinante del periodo che sta dietro le nostre spalle è il peso straordinario che ha avuto – nel sistema economico e nelle politiche territoriali – l’acquisizione privata delle rendite: sia quelle finanziarie che quelle immobiliari (ricordo che gli “immobili” comprendono sia le “aree” che gli “edifici”, talché la rendita immobiliare comprende la fondiaria e l’edilizia). Se volessimo utilizzare una definizione coerente con quella che Luciano Gallino dà all’attuale fase del sistema economico, “finanzcapitalismo” , dovremmo parlare di “urbanistica della rendita”. Questa è stata splendidamente descritta da Walter Tocci nel suo saggio su “Il trionfo della rendita” . A me sembra che tutte le tensioni che attualmente agitano la società civile e hanno generato i movimenti antagonisti nei territori italiani siano riconducibili al conflitto tra due usi alternativi del territorio: quelli che ho definito “città della rendita” e “città dei cittadini” .

La crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha modificato in modo consistente il quadro, almeno per quanto riguarda i suoi aspetti di medio periodo. C’è da chiedersi se il disastro che è avvenuto negli scorsi decenni potrà proseguire negli stessi modi. Sembra ragionevole ipotizzare che i prossimi anni saranno invece caratterizzati da bassa domanda privata di alloggi e attività produttive, da scarse risorse pubbliche, e da un’offerta di spazi sovrabbondante e priva (per caratteristiche e localizzazione) di adeguati requisiti per qualsiasi utilizzazione. Insomma, il motore che sospingeva il consumo di suolo derivante dalla crescita della città (delle aree urbanizzate e urbanizzabili), non è forse entrato in stallo? Se così fosse, allora si porrebbe come primario il problema di come recuperare (socialmente, morfologicamente e paesaggisticamente, economicamente, funzionalmente) i territori devastati dallo sprawl.

Guardiamo il consumo di suolo

dalla campagna

Parallelamente si sta sviluppando però un altro fenomeno: le trasformazioni, patrimoniali e d’uso, dei terreni rurali. Consumo di suolo e riduzione del suolo agricolo sono certamente due fenomeni differenti per quantità, qualità, cause ed effetti. La riduzione del terreno agricolo dipende anche dall’aumento dei terreni rinaturalizzati e degli incolti nonché (nei dati delle analisi quantitative spesso utilizzate) dalla scomparsa di aziende agricole censite come tali . Se guardiamo alle trasformazioni dell’uso del suolo dalla città, allora la questione centrale è il devastante “sguaiato sdraiarsi della città sulla campagna”. Se le guardiamo invece a partire dal territorio rurale allora nascono preoccupazioni diverse, ma non meno rilevanti.

Nel territorio lo sviluppo capitalistico provoca infatti, in modo sempre più esteso: il land grabbing, l’accaparramento di suolo di una determinata comunità per costituire riserve alimentari per la nazione acquirente ; la pratica, tipica del colonialismo otto-novecentesco, della sostituzione delle colture tradizionali, legate a fabbisogni alimentari di prossimità; la più recente espansione dei suoli utilizzati la produzione di fonti energie alternative a quelle esauribili; infine, la specializzazione mercantile delle produzioni agricole: si produce là dove i costi di produzione (a partire dal lavoro) sono minori.

Le conseguenze di questi fenomeni sono di diverso ordine. Aumenta l dipendenza del consumo di beni alimentari dai luoghi della produzione internazionale, il che comporta a sua volta un consistente aumento del consumo energetico dovuto al confezionamento e al trasporto. L’omogeneizzazione dei gusti dei prodotti industriali comporta la scomparsa delle caratteristiche organolettiche dei beni; con la conseguenza ulteriore che gradi risorse vengono impiegate per la ricerca di “sapori” finti da aggiungere a merci rese omogenee dalla produzione industriale per “aggiustarne” il sapore e l’odore. Vengono distrutte le economie locali legate alle produzioni legate al territorio, e con esse le culture culinarie, profondamente radicate nella storia e nel paesaggio. Le fonti dell’alimentazione (le condizioni della produzione degli alimenti) vengono sottratte alla conoscenza diretta dei consumatori e affidate alle alchimie (e alle bugie) delle etichette e della propaganda.

Infine, last but not least, i prezzi dell’alimentazione sono sempre meno controllati dal rapporto tra produttore e consumatore. Rispetto ai rapporti produzione/consumo delle economie a filiera corta il prezzo è in costante aumento, grazie anche alle sempre più ingenti spese (in aggiunta al costo della terra e a quello del lavoro) impiegate per adulterare, confezionare, trasportare il prodotto e condizionare il consumatore. Con l’ulteriore conseguenza di contribuire all’aumento della povertà e, là dove la povertà giunge a determinati livelli, alla minaccia alla stessa sussistenza fisica. Perché dell’ultimo modello di telefonino la persona può fare a meno, del cibo no.

Che fare?

Per comprendere che cosa fare oggi credo che si debba partire da un principio. La terra, così come la natura e la storia l’hanno consegnata a noi, è un patrimonio che va amministrato con la massima saggezza sapendo che è un valore, che è limitata, che non è riproducibile, e che senza di essa la vita dell’uomo sarebbe impossibile.

Questo principio deve condizionare ogni azione di trasformazione. La sottrazione di un solo metro quadrato di suolo ai ritmi della natura è un prezzo, che può essere pagato solo se è strettamente necessario alla società umana nel suo insieme e se non ci sono modi alternativi di soddisfare l’esigenza che chiede il pagamento di quel prezzo. Nessuna casa nuova, nessuna strada nuova, nessun nuovo piazzale se prima non si è completamente utilizzato ciò che di artificiale già c’è. E di inutilizzato in Italia, malauguratamente, c’è tanto, se si guarda al nostro paese con lo sguardo fuori dalle bende della mitologia proprietaria e di quella economica.

Per quanto si possa guardar lontano, è difficile vedere un futuro nel quale la maggioranza dei decisori (locali, nazionali, globali) decida di applicare quel principio con piena coerenza. Allora la prima necessità, oggi, è di far diventare quel principio una consapevolezza di massa. É di rendere cosciente il maggior numero di persone di verità che condizionano la vita di ciascuno di noi: e ciascuno di noi, prima di essere casalinga o banchiere, operaio o poeta, professore o studente, spazzino od orefice, sfruttatore o sfruttato – è uomo e donna, è abitante del pianeta Terra, e la sopravvivenza è la prima esigenza di tutti noi e di ciascuno di noi.

Combattere il consumo di territorio non significa solo, oggi, ostacolare l’irrazionale espansione della città, lo sprawl urbano. Certo, questa è un componente essenziale, soprattutto nel nostro paese, in cui il trionfo della rendita immobiliare ha dominato, soprattutto negli ultimi decenni, in ogni aspetto delle politiche territoriali. E a questa necessità di difesa si aggiunge quella di sanare quello che il trionfo della rendita ha prodotto.

Difendere il territorio non significa solo tutelare la natura e il paesaggio, la capacità di rigenerazione fisica ed estetica che il esso fornisce, ma anche la sua prima funzione: alimentare l’umanità in ciascuno dei suoi componenti. Significa perciò anche difendere l’agricoltura: non necessariamente tutte le agricolture, ma certamente quelle che servono agli uomini che vivono il territorio, e li servono là dove essi lo vivono. Significa combattere la sostituzione delle colture locali con le colture industriali, le colture funzionali a primarie esigenze umane a quelle che sussistono solo perché premiate dal mercato globalizzato. Significa coinvolgere il più ampiamente possibile nella stessa grande vertenza le numerose associazioni che si impegnano per promuovere la difesa dell’agricoltura, l’approvvigionamento equo e salubre, la filiera corta, la difesa delle diversità colturali. E significa, al tempo stesso, legare le nostre battaglia - italiane, europee, nordatlantiche - a quelle dei paesi del terzo mondo, soggetti a quella rapina delle terre che ha già devastato le loro economie e la stessa sopravvivenza di interi popoli.

Sommario del numero di novembre 2011

della rivista Verdiana network



1 -Editoriale: “ In memoria di Mario Ghio “ di Enrico Falqui

2 - “Consumo di suolo e futuro del territorio” di Edoardo Salzano

3 - “Paesaggi Critici: il paesaggio liquido della città” di Francesco Ghio

4 -“Sguardi sulla Città: il patrimonio e l’abitare “ di Carmen Andriani

5 - “Utopie Urbane: Consumo zero di suolo” intervista al Sindaco di Cassinetta di Lugagnano (Mi), Domenico Finiguerra di Simona Beolchi

6 - “Tra monasteri benedettini e cave di tufo: progetto di recupero paesaggistico di spazi pubblici tra Gallipoli e Alezio (Puglia) di Annalisa Cataldi

7 - “Radiografia della crescita urbana nel nuovo Piano strutturale di Firenze” di Annalisa Biondi

8 - “ Workshop ACMA a Milano, la progettazione dei sistemi ambientali “ di Silvia Minichino

9 - LA RECENSIONE : “Le mie città, di Vezio De Lucia" di Paola Pavoni

Con un documento approvato da una recente assemblea dei soci l’INU (l’Istituto nazionale di urbanistica, una volta autorevole espressione della cultura specialistica) prende le distanze dalla legge Lupi-Mantini e ripropone, con una certa genericità e qualche scivolone, tesi meno devastanti di quelle del quinquennio trascorso. Interessante, invece, il dibattito che prosegue sulle pagine del Giornale dell’Architettura, l’utile mensile diretto da Carlo Olmo. Interviene questa volta (n. 42, luglio-agosto 2005) Bruno Gabrielli, con una tesi articolata in due punti con i quali concordo: 1) non basta predicare la necessità del consumo di suolo; 2) il consumo di suolo si combatte compiutamente solo se contemporaneamente si interviene sulla rendita immobiliare.

Ma è necessario precisare un paio di questioni, sulle quali le rapide argomentazioni di Gabrielli non mi convincono. Ciò servirà anche a ribadire alcuni punti delle proposta ormai denominata “legge di eddyburg” e onorando in tal modo questo sito.

Scrive Gabrielli: “Contenere il consumo di suolo è certamente una priorità. Ma è suffìciente l'enunciazione di principio? Davvero si può risolvere la questione con un divieto generalizzato imposto da una nuova legge urbanistica?” La “enunciazione” non basta certamente, e neppure è sufficiente “un divieto generalizzato”. Perciò nella proposta di legge degli “amici di eddyburg” proponiamo di stabilire un metodo. Di prescrivere cioè che in linea generale e di principio si possano utilizzare, per gli usi urbani, aree attualmente non urbanizzate solo alla condizione che sia previamente dimostrato che le esigenze che lo richiedono non possano essere soddisfatte altrimenti.

Questo principio metodologico sollecita a un modo di pianificare (che spetta alla legislazione regionale di definire, viste le più larghe competenze in materia che sono state attribuite alle regioni dalle modifiche costituzionali del 2001) basato su due pratiche, largamente dimenticate dagli urbanisti e dagli amministratori loro complici. La pratica dell’accurata determinazione dei fabbisogni di trasformazione, e quella della preliminare definizione delle condizioni poste alle trasformazioni dalle caratteristiche proprie dei territori.

Il calcolo del fabbisogno viene oggi considerato, dalla pratica amministrativa e da quella professionale, uno strumento obsoleto. La decisione sulle aree da sottrarre al ciclo naturale, e da conglobare nella “repellente crosta di cemento e asfalto” che Antonio Cederna stigmatizzava, avviene per motivi ben diversi: gli interessi immobiliari, le esigenze di “valorizzazione” di questa o di quell’altra area (appartenente a questo o a quell’altro proprietario), l’incremento dell’occupazione nell’edilizia, l’illusione di agevolare il traffico costruendo nuove arterie, l’arrendevolezza nei confronti delle multinazionali che, devastando aree rurali, scimmiottano la città antica (e la svuotano dal commercio).

Ritornare alla vecchia prassi del calcolo del fabbisogno nei diversi settori della “domanda di spazio”, ossia della preliminare individuazione della quota che è possibile assorbire in trasformazioni delle aree già urbanizzate è la prima conseguenza tecnica del principio della riduzione del consumo di suolo.

Non va sottovalutato che un contributo consistente al consumo di suolo è fornito dalla generalizzazione della “perequazione”, che lo stesso Gabrielli sembra proporre. Altro è estendere a tutte le aree che si è deciso motivatamente (sottolineo motivatamente) di urbanizzare o ri-urbanizzare l’ambito d’applicazione della procedura, introdotta con la legge 765/1967 con i piani di lottizzazione convenzionata, altro è premiare tutte le proprietà “in attesa di edificazione” spalmando sul territorio quote di edificabilità da riconoscere a tutti i proprietari spostandone l’applicazione. È un principio, quello della “spalmatura”, contro il quale Giovanni Astengo scrisse parole di fuoco, e i cui malefici risultati sono perspicuamente espressi dal nuovo PRG di Roma, che rende edificabile grandissima parte dell’Agro romano ancora libero.

Ricondurre la perequazione al ristretto ambito dell’attuazione di scelte di trasformazione definite dalla pianificazione generale, a partire da un rigoroso calcolo del fabbisogno socialmente motivato, eliminare il suo impiego quale strumento per aumentare la dotazione di spazi pubblici e di verde, è dunque una componente importante di una conseguente lotta all’inutile consumo di suolo.

Una ulteriore conseguenza tecnica è quella stimolata dalla legge 431/1985 (la “legge Galasso”), e dalle successive applicazioni in sede amministrativa e professionale (numerose leggi regionali e non poche esperienze di pianificazione) e in sede giurisprudenziale (numerose sentenze costituzionali). Occorre cioè, prima di decidere nel piano urbanistico che “qui si urbanizza per questa necessità, qui per quest’altra, e in questo e quest’altro modo”, individuare quali sono le componenti del territorio connotate da una qualità, da un valore, che richieda non necessariamente la conservazione assoluta di quello che c’è, ma le “regole” che l’esigenza di tutelare quelle qualità, quei valori, pone a ogni intervento dell’uomo.

Tanto per fare un esempio. Se così si procedesse, prima di ragionare se rendere edificabile l’area della famosa lottizzazione berlusconiana (junior) della Cascinazza, si sarebbe deciso che sulle golene dei fiumi, e sulle aree comunque interessate o interessabili dalle sue escursioni e interessate al suo subalveo non si costruisce nulla che non sia immediatamente amovibile.

Se mi è consentita una testimonianza personale, nelle proposte che ho avanzato a partire dal 1984 suggerivo appunto che la componente a tempo indeterminato del piano (quello che oggi viene denominato “piano strutturale”) consistesse, sostanzialmente e in primo luogo, in “una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti” e nell’individuazione, per ciascuna di esse, di quali siano “i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quale e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione” (Convegno nazionale “Luoghi e Logo”, 27-28 nov. 1984, Bologna).

È appunto a questa lettura attenta del territorio e alla conseguente definizione delle regole alle trasformazioni che invita la legge Galasso. Essa è stata assunta dall’INU nel 1994, e fatta propria da numerose leggi regionali. Ma lo è stato in modi così disordinati e pasticcioni, e così intrisi di quella logica di potere nella quale la delega totale ai comuni è integrata dalla più torbida discrezionalità regionale, da fornire risultati molto insoddisfacenti.

È alla logica della legge Galasso, ripresa e ribadita dalle successive edizioni del Codice del paesaggio (una delle poche cose non malvagie fatte dal governo Berlusconi) che la proposta di legge degli “amici di eddyburg” si ispira. Essa infatti propone, riprendendo una proposta di Italia Nostra, di aggiungere il territorio rurale tra le categorie di beni protetti dalla legislazione paesaggistica. Rafforzando in tal modo, e in nome d’un evidente “interesse nazionale”, la difesa dallo sprawl del territorio non urbanizzato.

Gabrielli ritiene che sarebbe necessario incidere su quelle che sono, a suo parere, le tre componenti del consumo di suolo: l’edilizia economica e popolare, i piani di lottizzazione, l’edilizia “spontanea”. Poiché il più contiene il meno, i principi proposti dalla “legge di eddyburg” e la loro corretta applicazione nelle legislazioni regionali soddisfano pienamente questa esigenza. Ma oltre che all’edilizia abitativa (pubblica, privata-programmata o privata “spontanea”) componenti sempre più consistenti sono gli interventi pubblici per le infrastrutture e gli interventi aziendali di grandi dimensioni e di portata territoriale: dalle grandi strutture per il commercio a quelle per la logistica, da quelle per l’intrattenimento a quelle igieniche.

L’unico modo per ricondurre all’ordine anche queste componenti dello sprawl è quello di affermare con forza (non solo con le perorazioni accademiche, ma con precise prescrizioni legislative) che “la pianificazione del territorio è lo strumento fondamentale attraverso cui si realizzano gli obiettivi propri” del governo del territorio: come appunto si afferma nella “legge di eddyburg”.

Pianificazione a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale oltre che comunale. Pianificazione in cui le competenze siano articolate tra i diversi livelli di governo in relazione al livello d’incidenza, “alla scala dei loro effetti”,come stabilisce il principio di sussidiarietà nella sua accezione europea. Pianificazione cui sono subordinati tutti gli interventi di trasformazione del territorio, da chiunque operati. Pianificazione “autoritativa” e pubblica, ben diversa quindi da quella della malfamata legge Lupi-Mantini.

Per combattere lo sprawl, sostiene Gabrielli, occorre affrontare la questione della rendita fondiaria. Giustissimo, a meno che non si tratti di “benaltrismo”,cioè di evasione da un obiettivo raggiungibile perché “la questione è ben altra!”. Per ottenere qualche risultato è necessario fare almeno tre cose, puntualmente presenti nella “legge di eddyburg”.

Occorre in primo luogo invertire la prassi att uale, che vede nella rendita immobiliare il motore della pianificazione,come è stato praticato in decine di comuni italiani e come si voleva generalizzare con la legge Lupi-Mantini. Occorre cioè ripristinare e rafforzare il principio, e la conseguente prassi, per cui la pianificazione del territorio e delle città è esclusiva competenza pubblica: è “autoritativa”, e i soggetti con i quali dialoga sono in primo luogo i cittadini in quanto tali (e non in quanto proprietari di vasti possedimenti o di piccoli lotti), e in secondo luogo le aziende che producono profitti, non rendite.

Occorre poi ribadire il principio che non esistono “diritti edificatori” se non quando è intervenuta una autorizzazione pubblica a costruire o trasformare, concessione edilizia o permesso di costruire che si chiami, conformemente e in attuazione del piano urbanistico, ed entro determinati termini di tempo. Di conseguenza, occorre ribadire (quanti principi sacrosanti sono già presenti nei nostri codici, e sono colpevolmente ignorati da urbanisti e amministratori!) che gli immobili vanno espropriati pagando una indennità che corrisponde al valore derivante dall’uso in atto, e non dalle speranze di “valorizzazione”.

Occorre infine saldare la politica urbanistica con politiche che consentano di incidere sui livelli della rendita, restituendo alla collettività la parte che le spetta. Ciò che è compito sia della politica fiscale, che di quella volta ad assicurare ai cittadini i diritti ai beni essenziali, tra cui primario quello dell’abitazione.

l'immagine è di John S. Pritchett ed è tratta da http://www.pritchettcartoons.com/sprawl.htm

Mario Ghio è scomparso; gli amici lo salutano il 2 novembre, alle ore 11, alla chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.

Sono due fatti molto distanti tra loro, ma entrambi indicativi delle difficoltà che si presenteranno: la prima quando, ricondotte le istituzioni italiane a un minimo di decenza, si vorranno affrontare i nodi politici in un rapporto civile tra posizioni alternative; la seconda, quando si avvieranno le politiche per il futuro.

Sul Corriere della sera Piero Ostellino ha colpito con pesantissime accuse il giurista Ugo Mattei (che i frequentatori di eddyburg conoscono bene). Oggetto della critica un articolo di Mattei sul manifesto. L’autore aveva osato affermare (nella sintesi di Ostellino) che «il diritto costituzionale d'accesso alla casa di abitazione si può emancipare dal ruolo subordinato alla presenza delle condizioni economiche dichiarate dallo Stato e dagli enti chiamati a soddisfarlo come diritto sociale concesso dal welfare pubblico. Nel quadro della funzione giuridica offensiva e della piena destinazione dei beni comuni esso può invece soddisfarsi tramite occupazione acquisitiva legittimata dalla pubblica necessità di spazi socialmente percepiti come abbandonati. Il diritto anche in questo caso sgorga dalla fisicità del conflitto e non può essere generato dalla riflessione astratta di chicchessia».

Mattei aveva insomma espresso un principio antico, che era stato bandiera di rivendicazioni di massa negli anni Sessanta, abbandonato nella ventata neoliberista che si è abbattuta sul mondo, e ripreso negli ultimi decenni sia nella letteratura internazionale che nelle migliaia di episodi di contestazione dei danni apportati dalle pratiche neoliberiste alle condizioni di vita nella società e nella città: il principio del “diritto alla città”. La rivendicazione espressa da quel “diritto” ha, tra le sue componenti, proprio l’appropriazione. Che Ostellino non conosca Lucien Lefebvre e gli altri studiosi che hanno esplorato l’argomento, che non sia informato delle pratiche sociali in atto nel mondo, tutto ciò non costituisce scandalo. E neppure lo costituisce che non condivida la tesi di fondo, e che si proponga anzi di contrastare i movimento che la agita, per difendere invece i vecchi interessi dominanti. Ciò che invece colpisce, e preoccupa ogni spirito autenticamente liberale, è la conclusione che Ostellino trae dalla critica.

Una conclusione minacciosa, ci verrebbe voglia di definire “fascista”. Chi sostiene quella tesi – secondo Ostellino – è oltre la Costituzione, oltre il welfare state, oltre la realtà effettuale, oltre il formalismo giuridico. Quindi, secondo Ostellino, chi sostiene quella tesi è un terrorista. Se non direttamente, è certamente un “cattivo maestro”: di quelli, dice il buon maestro, che vogliono perpetuare la «”guerra civile“ che insanguinò l'Italia nell'immediato dopoguerra e ne impediscono la modernizzazione».

Guai a tutti voi insomma, se volete andare oltre la Costituzione e non siete Calderoli, se mirate alla sostanza delle cose, se pretendete di migliorare il welfare state (intanto difendendolo dalla demolizione). Sarete implacabilmente denunciati all’opinione pubblica come demoni terroristi, o loro perfidi mandanti.

Non ci sembra difficile comprendere, se non le ragioni, il movente dell’anatema lanciato dal giornale di via Solferino. Il fatto è che il principio stesso della proprietà privata è messo in discussione dalla ventata di rivendicazioni dei beni comuni, proprio nel momento in cui la classe che il Corriere esprime si è gettata con precipitazione sul loro saccheggio attraverso la catena mercificazione / privatizzazione / appropriazione. Gettate alle ortiche le vesti del liberalismo si svela i vero volto del potere. É un colpo di coda del passato che non vuole morire, gravido di rischi per la democrazia italiana. Un’ipoteca pesante sul dopo Berlusconi, per chi ritiene che la democrazia abbia alla sua base il reciproco rispetto delle posizioni dverse..

Di carattere diverso è l’altra ipoteca espressa dal secondo avvenimento cui ci riferivamo. Sulla rivista Micromega, in un numero dedicato al “Programma per l’altra Italia”, non è stato pubblicato un articolo espressamente richiesto a Paolo Berdini, dal titolo “Città e territori come beni comuni. Nove proposte per salvare il Belpaese”. I frequentatori di eddyburg conoscono l’articolo di Berdini: la redazione della rivista non lo ha pubblicato sull’edizione cartacea, più diffusa e autorevole, ma l’ha inserita nella newsletter. Così lo abbiamo letto, apprezzato e diffuso.

L’evento ci ha colpito particolarmente perché è la seconda volta che capita, sulla stessa rivista e sullo stesso argomento. Eravamo nel 2002, in una fase difficile per l’urbanistica. Era giunto a piena maturazione il mutamento iniziato con la svolta del craxismo vent’anni prima e proseguito con l’abbandono da parte della sinistra d’ogni rigore sui temi del territorio. Uscì un numero monografico della rivista Micromega, dal titolo “”Un’altra Italia è possibile. Una ventina di saggi delineavano un programma alternativo a quello della destra, che da un anno dirigeva il paese col secondo governo Berlusconi. Da quel programma l’urbanistica, la pianificazione del territorio, le politiche urbane erano del tutto assenti. Scrivemmo una lettera aperta a Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista, sulla quale raccogliemmo l’adesione di 75 urbanisti. Nella lettera dichiaravamo di essere fortemente preoccupati per un’assenza, che ci sembrava clamorosa. E proseguivamo:

«Se nei capitoli del programma di Micromega non mancano (e giustamente) la sanità e la giustizia, l’immigrazione e il lavoro, l’università e le carceri, l’ambiente e i beni culturali (e altri numerosi temi), manca completamente il territorio. Questo, infatti, non si riduce all’ambiente (nell’accezione che questo termine ha assunto negli ultimi decenni, e che è ben rappresentato nel testo di Ermete Realacci) né ai beni culturali (nonostante l’accezione giustamente ampia che Salvatore Settis attribuisce a questa espressione). Ragionare e proporre un capitolo del programma per “un’altra Italia” che riguardi il territorio e la città significherebbe infatti farsi carico insieme delle ragioni dell’ecologia e di quelle dell’armatura urbana del nostro territorio, della tutela della natura e della dotazione delle infrastrutture, della difesa del paesaggio e del miglioramento delle condizioni di vita nelle città».

Concludevamo scrivendo che l’assenza del territorio e della città, dell’urbanistica, della pianificazione tra i 24 capitoli del programma proposto ci sembrava un’assenza grave e proponendo di aprire, sulla rivista, una discussione sulle ragioni di questa assenza. «Che non sono certamente – concludevamo - né la distrazione né la fretta ma, forse, qualcosa di più profondo, su cui tutti dovremmo interrogarci». Non ricevemmo alcuna risposta.

Oggi la storia si ripete. Ma nel frattempo qualcosa è cambiato. Migliaia di vertenze si son aperte in ogni città e regione per contestare e scelte della dissennata politica territoriale del neoliberismo straccione dei Berlusconi e proporre indirizzi alternativi. I temi della difesa dei beni comuni costituiti dalle qualità naturali, culturali e sociali delle città e dei territori, della loro vivibilità minacciata della deregulation, della riduzione dei rischi all’integrità fisica del territorio che frana ad ogni pioggia e a ogni passaggio di grande opera pubblica sono temi ormai attribuiti esplicitamente alla mancanza di una corretta pianificazione delle città e dei territori.

Bisogna dire che i pensosi redattori di MicroMega non sono gli unici, a sinistra, a mostrare questo ritardo culturale. Esso è espressivo di un vizio ampiamente diffuso su quel versante dello schieramento politico. Esso si manifesta in numerosissimi episodi, soprattutto a livello locale, di pieno accodamento dei politici e degli amministratori dei partiti di sinistra (anche di quella “radicale”) sulle questioni del territorio. Noi vi leggiamo l’incapacità, a un tempo, di cogliere le aspirazioni, le speranze, le aspettative che maturano sempre più vistosamente nella società civile, e di proporre soluzioni adeguate ai problemi che più direttamente colpiscono il patrimonio delle città e dei territori provocandone il degrado e minandone l’efficienza. E vi leggiamo anche una subalternità culturale a quella ideologia dell’indefinita crescita quantitativa che è diventata la matrice di un pensiero – se non ancora “unico” – certo largamente dominante.

Tra i colpi di coda reazionari della destra che si richiama al liberalesimo e la persistente cecità della sinistra, anche la stagione del dopo-Berlusconi si presenta davvero gravida non solo di incertezze, ma anche di rischi.

"il manifesto", 28 ottobre 2011

Eravamo pochi, nel 2005, quando cominciammo a documentare e denunciare l’irrazionalità devastante del consumo di suolo in Italia. Abbiamo salutato con gioia, aderendovi fin dall’inizio, la nascita e la rapida espansione del movimento Stop al consumo di territorio. Seguiamo con attenzione gli sforzi di quanti, dentro e soprattutto fuori dalle istituzioni, si battono per studiare, misurare, denunciare, combattere il consumo di territorio. La proposta di legge che presentammo nel 2006 costituisce ancor oggi, mi sembra, un contributo utile al quale riferirsi.

Credo che oggi quello che è necessario più d’ogni altra cosa sia estendere il movimento per la difesa del territorio da ogni utilizzazione e trasformazione che non sia resa necessaria per inderogabili necessità sociali. La terra, così come la natura e la storia l’hanno consegnata a noi, è un patrimonio che va amministrato con la massima saggezza sapendo che è un valore, che è limitata, che non è riproducibile, e che senza di essa la vita dell’uomo sarebbe impossibile.

Questa è la premessa da cui bisogna partire, e che deve condizionare ogni azione di trasformazione. La sottrazione di un solo metro quadrato di suolo ai ritmi della natura è un prezzo, che può essere pagato solo se è strettamente necessario alla società umana nel suo insieme e se non ci sono modi alternativi di soddisfare l’esigenza che chiede il pagamento di quel prezzo. Nessuna casa nuova, nessuna strada nuova, nessun nuovo piazzale se prima non si è completamente utilizzato ciò che di artificiale già c’è. E di inutilizzato in Italia, malauguratamente, c’è tanto, se si guarda al nostro paese con lo sguardo fuori dalle bende della mitologia proprietaria e di quella economica.

La necessità, oggi, è di far diventare queste affermazioni una consapevolezza di massa. É di rendere cosciente il maggior numero di persone di verità che condizionano la vita di ciascuno di noi: e ciascuno di noi, prima di essere casalinga o banchiere, operaio o poeta, professore o studente, spazzino od orefice, sfruttatore o sfruttato – è uomo e donna, è abitante del pianeta Terra, e la sopravvivenza è la prima esigenza di tutti noi e di ciascuno di noi.

Se guardiamo alla terra da questo punto di vista allora una cosa diventa subito evidente. Combattere il consumo di territorio non significa solo ostacolare l’irrazionale espansione della città, lo sprawl urbano. Certo, questa è un componente essenziale, soprattutto nel nostro paese, in cui il trionfo della rendita immobiliare ha dominato, soprattutto negli ultimi decenni, in ogni aspetto delle politiche territoriali. Difendere il territorio non significa solo tutelare la natura e il paesaggio, la capacità di rigenerazione fisica ed estetica che il territorio fornisce, ma anche quella che è la sua prima funzione: alimentare l’umanità in ciascuno dei suoi componenti.

Combattere il consumo di territorio significa perciò anche difendere l’agricoltura: non necessariamente tutte le agricolture, ma certamente quelle che servono agli uomini che vivono il territorio, e li servono là dove essi lo vivono. Significa combattere la sostituzione delle colture locali con le colture industriali, le colture funzionali a primarie esigenze umane a quelle che sussistono solo perché premiate dal mercato globalizzato. Significa coinvolgere il più ampiamente possibile nella stessa grande vertenza le numerose associazioni (già numerose sono presenti in questa iniziativa) che si impegnano per promuovere la difesa dell’agricoltura, l’approvvigionamento equo e salubre, la filiera corta, la difesa delle diversità colturali.

E significa, al tempo stesso, legare le nostre battaglia - italiane, europee, nordatlantiche - a quelle dei paesi del terzo mondo, soggetti a quella rapina delle terre che ha già devastato le loro economie e la stessa sopravvivenza di interi popoli.

Eddyburg intende impegnarsi ancora di più in questa direzione, anche con una prossima iniziativa della sua Scuola estiva di pianificazione. E partecipa con piena condivisione alla grande manifestazione di domani: grande, anzi grandissima, per i temi che agita e il futuro che indica, altrettanto robusta – speriamo – anche nelle presenze fisiche e in quelle morali.

"il manifesto", 25 ottobre 2011. Anche su eddyburg

Un’importante sentenza del Consiglio di Stato (IV sezione, sentenza n.2418/2009 del 10 gennaio 2009) ribadisce un principio da tempo affermato nella giurisprudenza, e tranquillamente calpestato di quanti affermano che, se un piano urbanistico comunale prevede una volta che un determinato terreno sia edificabile, nasce nel proprietario un “diritto edificatorio” che non può essere revocato da unb piano successivo. Una conferma, con qualche interessante integrazione a favore dell’interesse pubblico.

Il fatto

Il terreno di un certo soggetto, nel comune di Perugia, era stato inserito nel Prg tra le aree edificabili. Successivamente era iniziato l’iter di un piano di lottizzazione, attuativo di quella previsione; iter che si era protratto per molti anni senza peraltro concludersi con gli atti formali richiesti dalla legge.

Nel 2002 il comune aveva approvato un nuovo Prg, nel quale quell’area, insieme ad altre, era stata classificata cone zona agricola. La società proprietaria aveva ricorso al Tar, e questo aveva dato ragione al Comune. Nuovo ricorso, questa volta al livello superiore della giustizia amministrativa.

Il Consiglio di Stato ha confermato il parere del Tar con alcune argomentazioni che vogliamo riassumere per il loro generale interesse.

La sentenza in tre punti

Il Consiglio di Stato ribadisce, in primo luogo, che un Prg (o una sua variante) ha un potere superiore a quello di un piano di lottizzazione il cui iter non si sia concluso, e quindi può tranquillamente modificarne o annullarne le previsioni. Così si esprime la sentenza:

“Ed invero, muovendo proprio dalla giurisprudenza in materia di aspettative derivanti da lottizzazioni edilizie e modifiche preclusive dello strumento urbanistico, deve premettersi e ribadirsi che nessuna posizione giuridicamente può essere riconosciuta a progetti di lottizzazione che, al momento della variazione del PRG, risultino ancora in itinere o in istruttoria ancorché da lungo tempo. É evidente che ciò non è assentibile, in ragione del fatto che, mentre la variante di PRG assume immediata efficacia, per contro non sussiste alcuna approvazione di atto giuridico che sia perciò assurto al rango di uno strumento urbanistico efficace (nella specie attuativo, ad iniziativa di parte privata, quale il piano di lottizzazione) e del quale debba in qualche modo tenersi conto”.

La proprietà aveva poi sostenuto che comunque, avendo il terreno la destinazione d’uso edificatoria, era stata versata al comune una quota dei contributi previsti per le opere di urbanizzazione. La sentenza afferma: ciò significa che il Comune dovrà probabilmente restituire la somma percepita, ma non costituisce un mootivo per annullare la variante al Prg e ripristinare i “diritti edificatori”. Ecco le parole della sentenza:

“[…] anche il pagamento di oneri di urbanizzazione, lungi dal costituire aspettative edificatorie tutelate, si muove in realtà nel solo ambito obbligatorio-patrimoniale, generando al più il dovere restitutorio di somme non dovute, ma non può certamente comportare il sorgere di un dovere dell’amministrazione di fornire particolare motivazione delle proprie scelte urbanistiche incisive delle aspettative di mero fatto”.

Un ulteriore argomento di contestazione da parte della società proprietaria era nella circostanza che, comunque, il Comune aveva cambiato la destinazione d’uso del terreno da edificatorio ad agricolo. La sentenza afferma che ciò è nella piena potestà del comune, e che la situazione documentata dal piano rivelava che, se c’era una “vocazione”, questa era quella agricola e che quindi era pienamente legittimo adeguare a questa realtà le prescrizioni della pianificazione. Afferma la sentenza che non vale mettere in contrasto la previsione del precedente piano e quella del nuovo, poichè

“tale correlazione non può fondare alcun vizio di illegittimità, rappresentando il contenuto stesso del legittimo esercizio dello “jus variandi” in sede pianificatoria e comporta proprio il potere di mutare il regime giuridico-urbanistico dell’area, che vede quindi cambiare la sua “vocazione” in senso giuridico (nella specie da edificatoria ad agricola). Altra nozione è invece rappresentata dalla “vocazione” intesa come la situazione dell’area nelle caratteristiche geomorfologiche del contesto in cui essa si trova al momento dell’esercizio del potere pianificatorio e quindi indipendentemente dalla destinazione giuridica sino a quel momento impressa ma che può avere o meno avuto esplicazione mediante un effettiva trasformazione del territorio. Ed è tale situazione che viene in rilievo rispetto alla nuova destinazione giuridico-urbanistica che all’area si intende conferire e che, come correttamente confermato dal TAR, il Comune risulta aver nella specie preso in considerazione ove ha evidenziato (nello studio preliminare e carta d’uso del suolo) che l’area ha oggettivamente caratteristiche agricole essendo di natura “seminativo-irrigua”. Rispetto a tale valutazione tecnica, quindi, la scelta del nuovo PRG di imprimere destinazione agricola è del tutto coerente […]”.

Riassumendo: il piano urbanistico generale può senza ombra di dubbio modificare una destinazione d’uso precedente, anche se è stata avviata e lungamente elaborata lsa procedura di formazione di un piano di lottizzazione. Oltre alla corretta motivazione, l’unica spesa che il comune deve sostenere è quella eventuale di spese legittimamente sostenute dal proprietario. É del tutto legittimo imprimere una destinazione d’uso agricola a un terreno precedentemente dichiarato edificabile quel terreno è idoneo per l’agricoltura.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it



1. IERI.

NASCE IL DIRITTO ALLA CITTÀNELL’ITALIA POST-FASCISTA



Il dopoguerra

Il fascismo, che aveva dominato l’Italia dal 1922 al 1943, e la Seconda guerra mondiale, avevano lasciato all’Italia una pesante eredità: le distruzioni di un conflitto che aveva attraversato l’intero paese, soggiornandovi a lungo; un’economia chiusa, “autarchica” e tendenzialmente autosufficiente, largamente basata su un’agricoltura spesso praticata in forme arcaiche e improduttive. Dopo la Liberazione i principi di libertà, giustizia sociale e democrazia, propri della Resistenza, erano stati assunti a base del nuovo stato. Una nuova democrazia (“democrazia di massa”) aveva sostituito quella prefascista, condizionata dal prevalere dei ceti più ricchi.

Dal 1946 il suffragio universale era stato realizzato nella sua pienezza, estendendo il voto alle donne. Il quadro politico della nuova Repubblica (l’abolizione della monarchia fu determinata da un referendum nel 1946) era fortemente condizionato da partiti che avevano una consistente base popolare. I partiti più ricchi di consenso sociale erano il democristiano (DC), il comunista (PCI) e il socialista (PSI). La DC, a causa del suo substrato cattolico e della sua stessa storia, era l’interprete, oltre che dei ceti borghesi, anche di porzioni consistenti del mondo contadino e dell’artigianato . Il PCI e il PSI esprimevano soprattutto la classe operaia e larghi strati del bracciantato e, nelle regioni centrali, della mezzadria.

Passata la breve fase dell’unità dei partiti antifascisti, dal 1947 anche in Italia aveva prevalso la spaccatura in due schieramenti contrapposti. La maggioranza parlamentare di centro destra era aggregata attorno alla DC; ad essa si opponeva un blocco di forze di sinistra, con una prevalenza del PCI, ampiamente egemonico negli strati intellettuali. Proprietà privata e liberismo economico, fortemente sostenuto dall’assistenza statale, erano i pilastri della politica governativa. Ciò incise pesantemente sul modo in cui avvenne la ricostruzione. L’urbanizzazione era stata pesantemente distrutta dalla guerra.

«Più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; distrutti un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Particolarmente acuto il problema abitativo che già prima della guerra era assai grave (nel 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze). Mentre in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale, in Italia, viceversa, è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l’alibi – appunto – di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso dispositivi agili e di emergenza»[1].

La ricostruzione è avvenuta nell’ambito di una politica economica che ha privilegiato soprattutto due settori: l’attività edilizia privata, considerata anche come una utile tappa intermedia per il passaggio della mano d’opera dall’agricoltura, fino ad allora dominante, all’ industria; l’industria manifatturiera, che già aveva solide basi nel capitale industriale del Nord e a cui era affidata la competizione sul mercato internazionale. In questo settore, le cui attività erano concentrate nell’area NordOvest, si puntava soprattutto sulla produzione di beni di consumo durevoli (l’automobile, ma anche gli elettrodomestici). L’agricoltura era stata lasciata, soprattutto nel Mezzogiorno, agli inefficienti rapporti di produzione del passato.

La migrazione dal Sud al Nord, dalle campagne e dai centri minori alle città maggiori, dalle colline e dalle zone interne verso i fondovalle e le coste aveva rimescolato la distribuzione della popolazione sul territorio. La sfrenata attività edilizia aveva trasformato caoticamente la fisionomia delle maggiori città e delle aree costiere. La scelta di politica economica aveva insomma consentito l’ingresso dell’Italia nel mercato mondiale e (grazie al condizionamento esercitato da una forte pressione sindacale e dal carattere popolare dei maggiori partiti) un consistente aumento del benessere e della capacità di spesa delle famiglie; tuttavia aveva provocato anche una estesa devastazione del territorio e gravi fenomeni di congestione, sovraffollamento e disagio nelle città. Questi fenomeni, insieme a un logoramento della formula politica di centro-destra, erano venuti al pettine nella seconda metà degli anni Cinquanta e avevano provocato, sia una presa di coscienza dei guasti provocati e il maturare della necessità di correre ai ripari, sia il formarsi di una nuova alleanza politica.

L’Italia alle soglie degli anni 60

Alla fine degli anni Cinquanta l’Italia era profondamente cambiata. Aveva completato la sua trasformazione: dalla prevalenza dell’agricoltura si era passati decisamente a quella dell’industria. Il reddito medio era aumentato e aumentava la disponibilità ad acquistare i beni di consumo durevoli che l’industria sfornava in grande quantità a prezzi sempre più convenienti.

L’industria era cresciuta, i profitti e l’accumulazione avevano rafforzato i luoghi dove si era concentrato lo sviluppo produttivo: ma il territorio e le città ne avevano pagato duramente il prezzo. La fuga della forza lavoro dal Mezzogiorno, dalle aree interne e collinari dell’Italia centro-meridionale e l’indirizzarsi degli investimenti nelle aree già sviluppate aveva penalizzato le altre. La scelta di privilegiare l’automobile rispetto ai trasporti collettivi aveva reso più grave la congestione delle città. Gli squilibri territoriali cominciavano a essere vissuti come un peso allo sviluppo degli stessi settori avanzati dell’economia.

Erano cambiate decisamente le condizioni della vita delle famiglie. Dai modi, dai ritmi e dai valori del mondo delle campagne si era passati a quelli della città. L’aumento dei redditi e l’incentivo fornito ai consumi individuali durevoli aveva inciso sulla conformazione dei bisogni e dei modi di vita. L’ingresso delle donne in un mondo del lavoro diverso da quello legato all’attività agricola e alla famiglia patriarcale aveva pesantemente mutato il modo in cui si svolgeva la loro vita: le donne, che la propaganda conservatrice avrebbe voluto restassero legate al loro ruolo di “angeli del focolare”, erano ormai condizionate da una nuova vita: Ma in questa si sommavano due lavori: quello nella fabbrica o nell’ufficio, e quello delle mansioni casalinghe, ormai svolte fuori del sistema di benefici fornito dalla famiglia patriarcale.

Le stesse condizioni abitative nelle città erano nuove rispetto a quelle della vita contadina. Nella ricerca di un alloggio si dovevano fare i conti con gli alti valori determinati dalla forte incidenza della rendita fondiaria urbana. La spontaneità lasciata alle forze imprenditoriali mostrava insomma suoi limiti e rendeva evidenti i suoi prezzi. Il sistema economico cominciava a registrare le sue “diseconomie di congestione”, e agli italiani degli anni 60, mentre venivano offerti i benefici dello sviluppo (l’aumento del reddito, la maggiore libertà personale, le più ampie occasioni dì incontro, l’accesso a servizi di livello urbano) venivano imposti i pesi di un modello di vita particolarmente disagiato. Le condizioni di vita nelle periferie urbane e negli slum che accerchiavano le maggiori città cominciavano ad essere l’argomento di film di successo (come quelli di Luchino Visconti e di Pier Paolo Pasolini).

Nel frattempo, mutamenti rilevanti si erano manifestati nel quadro politico. Dopo la sconfitta, nel 1953, di una legge elettorale (denominata “legge truffa”) con la quale l’alleanza imperniata sulla Dc avrebbe avuto la garanzia di assicurarsi la maggioranza assoluta nel Parlamento anche se avesse conseguito la sola maggioranza relativa, erano iniziati processi di mutamento degli orientamenti interni dei gruppi che componevano il partito di maggioranza. Dopo varie oscillazioni, e un pesante tentativo di svolta a destra nel 1960, cominciava ad affacciarsi la proposta politica di una “apertura a sinistra”, che condusse all’inizio degli anni 60 prima alla formazione di maggioranze comunali di centro-sinistra (basate sull’alleanza della Dc con il Psi), e poi al primo governo nazionale di centro-sinistra nel 1962.

Un peso rilevante sul mutamento degli orientamenti della Dc, partito di esplicito orientamento cattolico, ebbe l’avvento al papato, nel 1958, di Giovanni XXIII. Scrive lo storico Paul Ginsborg: “l’integralismo di Pio XII fu sostituito da una diversa concezione della Chiesa, piuttosto legata al suo ruolo pastorale e spirituale che non alla sua vocazione politica anticomunista. Si apri così lo spazio per un dialogo fra cattolici e marxisti, e in campo politico democristiani e socialisti poterono finalmente trovarsi faccia a faccia per trattare”[2]. Degli argomenti della trattativa fecero parte la programmazione economica, l’istituzione delle Regioni, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media e la riforma urbanistica. Quest’ultima fu tra quelle che non andarono in porto.

Al nuovo quadro politico si accompagnò la proposta di un nuovo indirizzo economico. Ugo La Malfa[3]è ministro del Bilancio. Nella discussione del bilancio dello stato propone una nuova politica economica4[4], basata su due cardini: programmazione economica, come insieme di strumenti capaci di svolgere un trasparente ed esplicito ruolo di indirizzo delle imprese pubbliche e private coerente con gli obiettivi d’interesse generale, e politica dei redditi, come coinvolgimento dei sindacati dei lavoratori nelle scelte di redistribuzione della ricchezza prodotta. Nel documento si «metteva al centro il contrasto fra l’”impetuoso sviluppo” di quel periodo e il permanere di “situazioni settoriali, regionali e sociali di arretratezza e ritardo economico”. Squilibri territoriali tradizionali (in primo luogo quello fra Nord e Sud) sono in parte modificati, annotava La Malfa, ma per certi versi aggravati, con la “congestione di alcuni centri urbani”, lo “spopolamento di altre aree” e così via. E se “molte situazioni di sottosviluppo sono state alquanto alleviate in termini assoluti, sono però diventate per la nostra società meno sopportabili”»[5].

Questi, in sintesi, i punti rilevanti della proposta: una critica, ampiamente documentata e argomentata, al modo in cui i precedenti governi avevano gestito la fase della ricostruzione e dell’inserimento nel mercato internazionale; l’individuazione delle condizioni delle città e dei territori come punti rilevanti della valutazione critica; una gestione ferma dell’economia da parte di una politica coerente e trasparente, appoggiata da un atteggiamento confidente- sebbene dialettico – delle organizzazioni dei lavoratori.

Lotte sociali e disastri territoriali

Negli stessi anni un ministro democristiano, Fiorentino Sullo, propose una riforma del modello di crescita delle città. La legge che presentò (ispirata dagli intellettuali che facevano capo all’Istituto nazionale di urbanistica) prevedeva l’esproprio preventivo delle aree destinate dai piani all’espansione delle città, e la loro utilizzazione da parte dei promotori immobiliari. La proposta scatenò una reazione furibonda delle destre, che la descrissero come una legge che avrebbe espropriato tutti i proprietari di case. La DC non difese il suo ministro (e la verità dei fatti) e la riforma fu bocciata[6]. Ma nel frattempo si erano manifestati nella società e nel territorio iniziative ed eventi, di segno positivo e negativo, che riaprirono la questione.

Tra gli episodi positivi, dimenticati dalla storia ufficiale di quegli anni, devono essere citati il buon governo urbanistico di molti comuni, soprattutto quelli guidati da maggioranze di sinistra, e l’azione del movimento organizzato delle donne, anch’esso nell’ambito dello schieramento progressista. Numerosi comuni dell’Emilia-Romagna, della Toscana – e anche di altre regioni del Nord e del centro – avevano abbandonato il laissez faire urbanistico promosso dal governo, e applicavano metodi di pianificazione moderni. Essi tentavano di contrastare le pressioni della speculazione fondiaria per contenere l’espansione disordinata delle città, e prevedevano consistenti spazi pubblici7[7]. Il movimento femminile (e in particolare l’Unione donne italiane) aveva organizzato una grande campagna di massa per ottenere l’inserimento nei piani urbanistici di adeguate dotazioni di spazi per gli usi collettivi, e interventi normativi e finanziari per la prima infanzia e la scuola a tempo pieno.

Accanto alle rivendicazioni sociali e alle buone pratiche, si manifestavano eventi drammatici. Nel 1966 alcuni episodi colpirono molto l’opinione pubblica: il crollo improvviso di un intero quartiere ad Agrigento e drammatiche alluvioni che minacciarono di travolgere Firenze e Venezia. Quegli eventi rivelavano che il territorio, - devastato dall’invasione delle costruzioni nei luoghi più sensibili, minacciato dai sovraccarichi edilizi su suoli fragili, abbandonato dalle attività agricole e forestali - si ribellava minacciando le città, gli averi e le vite degli gli stessi cittadini. Il Parlamento corse ai ripari con una legge che introduceva elementi di razionalità nell’uso del territorio, generalizzando una pianificazione urbanistica adeguata alle esigenze della vita contemporanea. Non era una legge di riforma, come quella che aveva proposto il democristiano Sullo, ma una misurata razionalizzazione delle pratiche urbanistiche: una “legge ponte” verso una successiva più ampia riforma, per la quale le condizioni non sembravano mature.

Anche la “legge ponte” ebbe una vita stentata; le sue innovazioni furono contrastate sia da contrasti interni alla stessa maggioranza parlamentare che da successivi interventi della Corte costituzionale; questi ponevano in evidenza le contraddizioni tra l’esigenza di destinare spazi adeguati agli usi pubblici a un prezzo contenuto, e il carattere privatistico che caratterizzava in Italia il diritto di proprietà immobiliare8[8]. Ma più robuste pressioni sociali si preparavano.

Un biennio decisivo: 1968-1969

In Italia il Sessantotto ebbe caratteristiche singolari. «Solo in Italia – solo in Italia, in tutto il mondo – movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente, tendendosi la mano»[9]. Il movimento degli studenti, che come negli altri paesi iniziò nelle aule universitarie per estendersi poi a masse più ampie di giovani, incontrò, e contribuì a preparare e a sostenere, l’altro grande evento di quegli anni: la vertenza sindacale che si aprì tra la primavera del 1968 e l’autunno del 1969[10]. Per la prima volta le rivendicazioni dei lavoratori e della loro organizzazione non riguardavano solo le questioni dei salari e dei contratti nelle fabbriche o le condizioni di lavoro nella campagne, ma affrontava i temi della città: il problema dei trasporti, della casa, dei servizi sociali furono al centro di un vertenza che si concluse con un grande sciopero generale nazionale.

La storia era cominciata a Torino, nella primavera del 1969. Nel marzo 1969 la Fiat aveva pubblicato un bando per assumere negli stabilimenti di Torino 15 mila nuovi addetti, reclutandoli nel Mezzogiorno: trasferendosi ovviamente con le loro famiglie, avrebbe significato almeno 60 mila nuovi immigrati a Torino e l’aumento della popolazione che avrebbe fatto saltare le già precarie strutture residenziali, e quel po’ di attrezzature sociali funzionanti nei comuni della cintura. D’altra parte i programmi di espansione degli impianti e dell’occupazione della Fiat avrebbero ulteriormente aggravato l’emarginazione delle regioni meridionali. I fatti di Torino, gli altri scioperi generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle occupazioni di alloggi (e dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi i cui canoni d’affitto erano bloccati ai valori di prima della guerre) ponevano in primo piano la necessità di una nuova politica della casa.

L’autunno del 1969 fu il momento più alto del conflitto: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra, era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci, che si avviava ad essere quello col più ampio consenso elettorale. Temi come “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale” diventano insomma slogan popolari, che alimentano vertenze diffuse sul territorio. Con il primo termine si chiedono democrazia e partecipazione nelle decisioni urbanistiche, e si rivendicano quartieri dotati di tutto ciò che serve a una vita nella quale il privato si prolunghi nel pubblico e il pubblico serva al privato: servizi, verde, luoghi d’incontro, facilità di vivere e d’incontrarsi. Con lo slogan “casa come servizio sociale” si chiede che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Da quel momento iniziò un percorso di innovazioni legislative con le quali si definì un quadro di obiettivi, procedure e strumenti di grande positività[11]. Si raggiunsero traguardi notevoli in particolare a proposito della questione delle abitazioni e in quella degli spazi pubblici nelle aree d’espansione: due temi nei quali, nell’Italia di quegli anni, si riassumeva il tema del “diritto alla città”[12].

Quale idea di città

Le conquiste raggiunte generarono reazioni violentissime: al movimento riformatore si oppose la “strategia della tensione”, che trovò complicità inaspettate ai piani alti del Palazzo. L’utilizzazione del territorio urbano ed extraurbano era una delle poste in gioco: “città come casa della società”[13], oppure città come macchina per produrre ricchezza alla proprietà immobiliare? Ma domandiamoci qual’era l’idea di città – di habitat dell’uomo - che costituiva l’immagine che animava le lotte di quegli anni anni.

Il nesso tra cultura, politica e società era molto stretto. La Resistenza, che costituiva il complesso dei valori cui non solo le forze di sinistra si ispiravano, aveva contribuito se non a rompere, a rendere permeabili le frontiere che separavano l’accademia, i partiti e i movimenti sociali. In particolare la cultura urbanistica (che si era formata in Italia nel periodo fascista guardando alle esperienze dell’Europa democratica) si poneva esplicitamente al servizio della società[14].

Più ancora che dalle università, la cultura urbanistica italiana era alimentata allora dalla pattuglia di urbanisti e amministratori associati nell’Istituto nazionale di urbanistica (INU), e soprattutto dalla sua prestigiosa rivista, Urbanistica, diretta dall’urbanista Giovanni Astengo e finanziata dall’industriale Adriano Olivetti. Molto efficace dal punto di vista della documentazione e della descrizione delle nuove pratiche, la rivista contribuì fortemente a far conoscere ai giovani architetti e ingegneri italiani (la professione di urbanista non era ancora formalizzata) le esperienze dei paesi più evoluti. Olivetti non era impegnato nell’urbanistica solo come sponsor di iniziative culturali, ma aveva fondato e sistematicamente alimentato anche culturalmente un movimento (“Movimento di Comunità”) che aveva nella corretta urbanistica e nella creazione di condizioni di vita pienamente umane nelle città uno dei punti di forza della sua ideologia. L’attenzione era rivolta soprattutto alla costituzione di unità di vicinato capaci di promuovere e sostenere uno spirito comunitario, e alla rimozione degli squilibri territoriali e sociali.

Molti giovani architetti avevano trovato un campo di sperimentazione di nuovi principi dell’housing e del planning nella progettazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, promossi con il programma INA-Casa negli anni dal 1949 al 1963. Esperienze in larga misura insoddisfacenti, per una serie di ragioni che solo successivamente furono superate, ma che comunque – grazie anche al supporto dell’Ufficio studi, regista culturale del programma – applicavano modelli di riferimento desunti dalle esperienze dei paesi più avanzati.

Gli esempi che soprattutto colpivano i giovani professionisti – propagandisti tra le forze sociali dell’idea di una città a misura d’uomo - erano quelli delle città della socialdemocrazia europea (dal Karl Marx Hof della “Vienna rossa” alle realizzazioni di Bruno Taut negli anni precedenti al nazismo ai quartieri e alle città dell’Olanda e della Scandinavia. Oltre alla riconoscibile forma dei nuovi insediamenti, ai loro efficaci collegamenti mediante trasporti collettivi alle diverse parti della città, alle ampie dotazione di verde, alla contemporaneità nella costruzione degli alloggi e degli spazi pubblici attrezzati, colpiva l’attenzione con la quale erano organizzate e gestite tutte le funzioni che potevano ridurre l’impegno materiale nella gestione domestica (dalle scuole agli asili nido, dalle palestre agli ambulatori, fino ai servizi comuni di caseggiato, come le lavanderie e gli spazi per picnic e incontri di gruppi di amici) e ai percorsi pedonali e ciclabili che connettevano gli spazi socialmente rilevanti.

Negli esempi di buone pratiche europee allora proposti come modelli di riferimento, la stessa organizzazione fisica degli spazi appariva guidata molto più dai ritmi e dai percorsi dei bambini (dall’età della carrozzella a quella della bicicletta), dei loro genitori, degli anziani e dei cittadini qualunque che dagli interessi immobiliari[15]. Di quei paesi colpiva anche molto la politica fondiaria che gli stati e i comuni avevano saputo gestire, mediante la costituzione di grandi patrimoni di aree pubbliche sulle quali dirigere l’espansione della città, rendendo così indipendenti le scelte di organizzazione urbanistica dal peso della rendita fondiaria. Si vedeva nella politica fondiaria una delle condizioni di base che consentivano di costruire città vivibili per tutti i suoi abitanti[16].



2. OGGI.

FORME E SOSTANZA DELLA CITTÀ DEL NEOLIBERALISMO

Il contesto, nel mondo e in Italia

Le parole d’ordine e le conquiste degli anni 60 e 70 cui mi sono finora riferito vanno collocate in un quadro più ampio di progressi sul terreno sociale ed economico: il riconoscimento del diritto al divorzio e all’aborto, lo statuto dei diritti dei lavoratori, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e l’abolizione delle strutture manicomiali, l’introduzione del tempo pieno nella scuola elementare, l’istituzione della scuola materna statale, l’estensione del voto ai diciotto anni. Esse emersero da un forte intreccio tra ruolo propositivo degli intellettuali (e la forza rappresentativa della narrazione delle esperienze dell’Europa socialdemocratica), la condivisione da parte delle forze sociali significative , che vedevano in quella narrazione orizzonti raggiungibili e coerenti con le loro aspirazioni, e capacità di mediazione tra obiettivi (la città desiderata) e strumenti per raggiungerli (azione legislativa e amministrativa).

Ma esse provocarono anche fortissimi contrasti: una reazione che si scatenò subito, agli albori degli anni 70, con la “strategia della tensione” e con gli attentati terroristici, che proseguirono fino all’assassinio di Aldo Moro[17], ne impedirono il raggiungimento e ne prepararono il capovolgimento. Gli anni 80 del XIX secolo sono quelli che gli storici indicano come gli anni della svolta, del regresso, dell’inizio del declino che ancora oggi caratterizza il nostro paese. Ma il germe del degrado c’era già nei decenni precedenti, nei quali probabilmente si intrecciarono le pulsioni verso il rinnovamento civile e quelle verso una utilizzazione meramente egoistica e individualistica dei successi economico ottenuti dal boom degli anni 50. Si discute sul perché la svolta sia avvenuta, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Almeno per quanto riguarda l’Italia si colloca nella metà degli anni 80 il suo momento principale, perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.

Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. Nel 1984 in Italia un decreto del governo Craxi aveva aperto l’attacco alla scala mobile (al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto) e nell’anno successivo era fallito il referendum indetto dal PCI per difenderlo. Siamo negli anni del trionfo di una nuova visione della società: nuovi valori sono divenuti vincenti nel pensiero comune. Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale.

Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva lo storico Paul Ginsborg, «crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti»[18]

La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Raggiunge il massimo della sua esplicazione quel “declino dell’uomo pubblico” del quale Richard Sennett individua le antiche matrici e le attuali configurazioni[19]. Tutto ciò non poteva mancar di trovare la sua espressione nel destino della città e del suo governo.

La città del neoliberalismo

Molti episodi – sul terreno della cultura, della politica, della legislazione, dell’azione amministrativa – hanno punteggiato il passaggio da una concezione della città e dell’urbanistica all’altra: da quella che ha ispirato i principi del “diritto alla casa e alla città” e ha prodotto quella che, per la sua vicinanza temporale e sostanziale alle politiche sociali di quei medesimi anni, possiamo definire “città del welfare”, e quella che possiamo definire “città neoliberista”. I primi cambiamenti di orientamento intellettuale e morale della cultura urbanistica si vedono già negli anni 70; in molti ambienti universitari si critica la pianificazione urbanistica non per superarne i limiti, rendendola più adeguata alle nuove esigenze, ma opponendole il “progetto urbanistico”. Questo viene presentato come strumento più flessibile per trasformare la città, ma via via si configura come un sistema di decisione definito in base a input forniti dalla proprietà immobiliare: l’iniziativa, insomma, spetta a quest’ultima. Alle proposte intellettuali seguono leggi e decisioni di sindaci, coerenti con questa impostazione, che consentono deroghe via via più ampie alle regole della pianificazione, e sostituiscono a queste la contrattazione, sempre più esplicita, con gli interessi immobiliari.

Tre eventi riassumono il nuovo contesto, tutti in qualche modo connessi a Milano, la grande laboriosa capitale della borghesia industriale italiana, definita “capitale morale” d’Italia in contrapposizione alla flaccida e burocratica Roma, capitale ufficiale. Nel 2000 viene proposto e adottato, in stretta simbiosi tra esponenti della cultura accademica e protagonisti della politica di destra, un nuovo modo di intervenire sulla città: non più un piano urbanistico che definisca regole, vincoli e opportunità stabiliti a priori sulla base di criteri oggettivi, ma un documento d’inquadramento di carattere molto generale e generico, unica cornice nell’ambito della quale l’Amministrazione sceglierà caso per caso, quindi discrezionalmente, le proposte d’intervento presentate dalla proprietà immobiliare20[20]. Nel 2003 un autorevole parlamentare della destra, ex assessore a Milano, presenta un disegno di legge urbanistica nazionale nel quale si sostituisce formalmente la contrattazione con i proprietari immobiliari alla pianificazione urbanistica decisa dalle autorità pubbliche democraticamente elette[21]. Nel 2007 un docente universitario del Politecnico di Milano esprime in modo molto chiaro l’ideologia neoliberista applicata all’urbanistica: la “città del liberalismo attivo” (come l’autore la definisce) ha i suoi cardini nella supremazia assoluta del mercato rispetto a qualunque regola definita da un’autorità a esso esterna, nella identificazione dei proprietari come gli unici soggetti meritevoli di considerazione, nella definizione di una “soglia di decenza” al di sotto della quale l’abitante ha diritto a un aiuto dello stato per potergli consentire di raggiungere i prezzi per l’uso della città pretesi dal mercato[22].

A livello nazionale, se la proposta di legge del centrodestra non riesce a passare, si approvano peraltro numerosi provvedimenti – praticamente senza discontinuità dall’età di Craxi a quella di Berlusconi e dai governi di destra a quelli di centrosinistra - mediante i quali: la pianificazione urbanistica, con le sue procedure e le sue regole, viene sostituita dalla possibilità, via via più generalizzata, si derogare ad essa; le decisioni in materia di organizzazione e uso del territorio urbano ed extraurbano vengono via via trasferite dagli organismi collegiali, dove è presente una pluralità di posizioni, ai “capi” (il sindaco, il presidente della provincia e della regione, il primo ministro); nelle concrete decisioni sul territorio la finalità è sempre più esclusivamente quella di accogliere e accompagnare le iniziative tendenti a ricavare consistenti aumenti di valore delle aree interessate, indipendentemente dalla reale necessità delle trasformazioni previste; alla stessa logica (accrescere i patrimoni privati accollandone le spese alla collettività) si ispirano le decisioni in merito alle grandi infrastrutture, e alle altre opere pubbliche promosse e finanziate col debito pubblico.

L’elemento che caratterizza la condizione urbana nei territori del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.

Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un edificio abbandonato.

Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimento in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.

Le stesse piazze, i luoghi che simbolicamente rappresentano più d’ogni altro luogo il carattere sociale della città come bene comune, e che sono all’origine dell’invenzione della città nella civiltà europea, hanno subito un progressivo degrado. Sul ruolo dello spazio pubblico è opportuno soffermarsi, per l’incidenza che ha nella protesta che genera il suo degrado, e quindi sulla formazione di una possibile ideologia alternativa.

Le piazze e gli spazi pubblici

Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è stato il ruolo delle piazze, come il luogo dell’incontro tra le persone e come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Erano i fuochi dell’ordinamento spaziale e simbolico della città. I luoghi dove i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità, dove celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.

Nell’idea e nella realtà che la storia ha consegnato ai contemporanei gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti gli abitanti possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E sono il luogo dell’incontro con lo “straniero”.

Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si è esteso a tutta la città. Il governo della città non è stato più solo dei padroni dei mezzi di produzione: è cresciuta la dialettica tra lavoro e capitale, è nato il welfare state. I luoghi delle funzioni comuni si sono arricchiti di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono stati il frutto di lotte nelle quali le organizzazioni della classe operaia hanno gettato il loro peso. L’emancipazione femminile ha accresciuto ulteriormente il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne.

Oggi tutto questo è cambiato. In Italia gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’interesse comune, sono in decadenza: se ne propone addirittura l’abolizione. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Alle piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’interesse del frequentatore all’acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’integrazione, della varietà, della libertà d’accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’outlet, dall’aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.

Il legame di continuità tra spazio privato e spazio pubblico egualitario (aperto al ricco e al povero, al cittadino e al foresto, al giovane e al vecchio), già messo in crisi dalla zonizzazione sociale del razionalismo, è definitivamente spezzato dalla segregazione delle gated communities e dell’emarginazione dei diversi. Le regole sono scavalcate dalle deregulation progressivamente estesa a ogni dimensione della pianificazione. La fabbrica è devastata dal ricorso sempre più massiccio ed esclusivo al lavoro precario. L’abitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale. Ognuno è solo al cospetto del mercato, e di un mercato caratterizzato dall’incidenza crescente della rendita.

Lo spazio pubblico e la democrazia

Spazi pubblici e spazio pubblico: due concetti collegati, ma distinti. Quello che definisco spazio pubblico della città non consiste solo nei luoghi fisici dedicati alle funzioni collettive. Non si tratta solo delle piazze e delle scuole, dei municipi e dei mercati, delle chiese e delle biblioteche, de parchi pubblici e delle palestre. Si tratta anche dell’uso che di questi luoghi viene promosso e garantito, e si tratta della possibilità di ciascuno (quindi di tutti) di concorrere alle decisioni. Si tratta, in altri termini, non solo di urbanistica ma anche di equità e di democrazia.

La possibilità e la capacità di incidere sul processo delle decisioni sulla città è un requisito che sempre più fortemente è stato richiesto nel corso della storia. E ho accennato al fatto che negli anni Sessanta la “democrazia di massa”, che aveva caratterizzato la vita politica italiana fin dal dopoguerra, non era più considerata sufficiente: come si fosse aperta – soprattutto dopo il Sessantotto studentesco e operaio - la domanda di una più intensa partecipazione dei soggetti al processo delle decisioni: una domanda che si era tradotta nelle prime esperienze dei “consigli”, formatisi direttamente nei luoghi del lavoro (la fabbrica), dell’apprendimento (la scuola), della vita urbana (il quartiere).

Queste esperienze rimasero isolate e s’insterilirono. Ma se osserviamo quanto è accaduto nei decenni più recenti scopriamo che la democrazia, invece di fare passi avanti, ha fatto – almeno in Italia – poderosi passi indietro, rispetto agli stessi principi della democrazia liberale. Il destino della città non è più pensato come qualcosa che è ancora – sia pure imperfettamente – nelle mani dei cittadini e dei loro eletti. Sempre di più la governabilità (nuova parola chiave) prevale sulla democrazia. Agli organi collegiali (il consiglio comunale o provinciale o regionale) si è sostituito il potere del “capo” (sindaco o presidente della provincia o della regione o del governo). Dalle istanze nelle quali è presente, con facoltà di conoscenza e di controllo, anche la minoranza, il potere è stato trasferito in quelle dove solo la maggioranza ha tutti i diritti. E si è trasferita la responsabilità di decidere sempre più a organismi esterni alle istituzioni democratiche: a “commissari” investiti di pieni poteri, anche di deroga alla legislazione esistente, e alle aziende private.

3. DOMANI

UNA NUOVA IDEOLOGIA: LA CITTÀ COME BENE COMUNE

La speranza dei movimenti

Come riprendere oggi un cammino che consenta di restituire al popolo qualcosa che abbia la dignità di essere definito “diritto alla città”? E quale idea di città, esprimibile in una frase semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti di quel “diritto”? Questa è l’ultima parte – la più difficile – del mio intervento.

Partiamo dalle cose. Se si conviene che l’idea di città proposta e praticata dal neoliberismo sia insoddisfacente, che l’ideologia che la sorregge debba essere contrastata e sostituita, che per l’habitat dell’uomo (perché a questo ci riferiamo quando parliamo di “città” al di là degli esempi consegnatici dalla storia) debba essere individuato un diverso futuro, allora dobbiamo riferirci a ciò che resiste alle attuali tendenze e cerca di opporsi e di proporre delle alternative. Guardando alla società possiamo dire che il punto di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, che esprimono sofferenze individuali che però appartengono a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta). “Dentro queste nuove esperienze – ha scritto un uomo che viene dalla letteratura e dalla politica e che si è immerso nel movimento ambientalista - circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili”[23].

Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti. Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità. La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche. Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro. La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale. La privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.

Questi temi toccano direttamente l’esperienza di vita dei cittadini. Meno direttamente la toccano altri temi, che pure hanno sollecitato un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva. Mi riferisco al movimento che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo.

Il consumo di suolo è molto esteso in Italia. Esso è considerato particolarmente grave perchè in Italia, a differenza che in altri paesi europei, le aree pianeggianti e di fondo valle (che sono quelle più interessate dalla trasformazione in cemento e asfalto) sono una porzione molto limitata del territorio nazionale, perché il territorio è ricchissimo di testimonianze storiche disperse per ogni doive, e perché sono del tutto assenti politiche governative e regionali tendenti a contrastarlo. Fino a pochi anni fa la stessa cultura accademica ignorava il fenomeno e la sua entità. Oggi, a parole, il consumo di suolo è criticato da tutti, ma solo un ampio movimento popolare ha intrapreso una lotta conseguente[24].

E insieme a questi temi, direttamente legati al territorio e ai beni comuni materiali, quelli dei diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.

Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana, nelle colline tra Firenze e Bologna, quando disse che aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica»[25]. É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi l’habitat dell’uomo è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione.

C’è un concetto allora, al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città (e per estensione l’intero habitat dell’uomo) sia considerato un bene comune. Ma su questa parole converrà soffermarsi.

Città come bene comune

Per comprendere il significato dell’espressione “città bene comune” è utile riflettere su ciascuna delle tre parole che la compongono.

Città

Nell’esperienza europea (ma probabilmente nell’esperienza storica di tutte le civiltà del mondo) la città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città non è un aggregato di case, è la casa di una comunità. Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.

Bene

Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.

Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.

Un bene, invece, è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.

Comune

Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.

Il termine “comune” presenta peraltro una possibile declinazione negativa, più esplicito nel termine derivato “comunità”. Una comunità è una figura sociale che include (i membri di quell’organismo comune) ma contemporaneamente esclude (gli altri). Né questa declinazione può essere risolta sostituendo a “comune” il termine “collettivo”. É opportuno allora precisare il termine comune” (e “comunità”) con una ulteriore precisazione. Nell’esperienza della vita contemporanea ogni persona appartiene, di fatto, a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera quotidianamente. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande.

Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo, cittadino del mondo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.

Quali soggetti nella “città globale”

Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.

Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.

É probabile che questo obiettivo non sia mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni. Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più.

La tendenza generale sembra infatti quella di un’accentuazione di tutti gli squilibri tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Tra i due estremi dell’opulenza e della miseria aumenta la casistica delle differenze con una forte propensione al moltiplicarsi di enclaves e recinti, ciascuno dei quali racchiude gruppi sociali diversamente dotati di accesso ai beni ma ugualmente rinchiusi nella loro incapacità di comunicare con gli altri in termini di comprensione, condivisione, cooperazione.

Essi sono però uniti da un comune destino costituito da due elementi. Da un lato, dal fatto di appartenere tutti al medesimo pianeta, le cui risorse appaiono sempre più limitate, e sono contese tra utilizzazioni alternative, dove prevalgono quelle che privatizzano e commercializzano i beni comuni. Dall’altro lato, dal fatto di appartenere a un habitat (e a un’economia) nel quale la tradizionale dimensione del “locale” è sempre più integrata da una dimensione “globale”, che lega tra loro i diversi “locali” in un sistema sempre più governato da attori lontani e irraggiungibili: da un pugno di uomini dotati di poteri invincibili.

L’habitat dell’uomo appare insomma sempre più caratterizzato dalla integrazione di differenti luoghi, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie peculiarità, i propri conflitti, ma tutti legati tra loro dall’essere funzionali a un unico processo di sfruttamento economico e a un unico sistema territoriale. Un sistema territoriale che Saskia Sassen ha definito “città globale”[26], del quale due elementi essenziali garantiscono la sopravvivenza e la funzionalità. Da un lato, “l’infrastruttura globale”, cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere. Dall’altro lato, i flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.

Tra gli uni e gli altri, tra gli abitanti della “infrastruttura globale” e quelli del “pianeta degli slums[27]”, vive e consuma la massa del “terzo strato”: di quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla cultura dei padroni, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi anche loro al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo una promozione o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione nei confronti della moltitudine dei più deboli e più sfruttati, dai quali è sempre possibile aspettare l’insorgenza.

Se questa rappresentazione della città di domani (che è già presente tra noi) è condivisibile, allora il concetto di “diritto alla città”, così com’è stato elaborato nel corso del secolo scorso, richiede oggi un impegno del tutto particolare, poiché sollecita ad affrontare la questione nel quadro della globalità che oggi la caratterizza. Oggi non è più sufficiente perseguire l’equità all’interno di una delle numerose “città”, o tipi di città, della tradizione, ma occorre cercarla nell’insieme dell’habitat dell’uomo, rompere le barriere tra i diversi strati che lo compongono la “città globale. E il tentativo di perseguire l’equità a questo livello non potrà condurre a risultati soddisfacenti se non si terrà conto, insieme a ciò che unisce, anche di ciò che divide: della grande diversità delle condizioni culturali e materiali tra le varie realtà locali che compongono il “globale”.

Non è insomma in un archetipo della vita urbana che si potranno trovare i riferimenti esclusivi di un nuovo paradigma, ma solo nell’attenta ricerca di ciò che – all’interno di tutte le storie, le culture, le tradizioni che hanno caratterizzato i popoli e i luoghi del mondo – costituisce un insegnamento da applicare per costruire, utilizzando le rovine delle vecchie, una nuova città pienamente umana.

Riconquistare la storia e lo spazio pubblico

La città della tradizione non è ancora scomparsa. Sul terreno non sono rimaste solo rovine. C’è anche vita, speranza, e quindi germi di un possibile futuro. Ne ho indicati i segni nelle tensioni sociali che nascono un po’ dappertutto per resistere alla dilapidazione del beni comuni, nelle vertenze aperte per difendere lo spazio e gli spazi pubblici che la globalizzazione neoliberista sta divorando, nei tentativi di ricostruire una nuova socialità – e una nuova politica – dal basso. É da qui bisogna partire.

Beni e valori comuni, spazi e spazio pubblico, funzioni collettive: questo è il punto di partenza segnalato da ciò che si muove nella società. Ed è questo, in definitiva, che la storia ci indica.

Se si vuole costruire un futuro diverso dal presente è dalla storia che bisogna partire. “Historia magistra vitae”, la storia è maestra della vita. Proprio per questo quei poteri che vogliono che le cose rimangano come sono hanno tentato di cancellare la storia (la consapevolezza del nostro passato, delle radici di ciò che siamo e quindi dei germi di ciò che saremo) dalla nostra memoria. Recuperare la memoria, recuperare la storia: questo è ciò che è innanzitutto necessario per contrastare chi vuole appiattire l’uomo sul suo presente, per inculcargli la convinzione che nulla è modificabile, perché tutto ciò che è stato è quello che sarà, ed è tutto già cristallizzato in un presente immodificabile.

La storia – e le lotte di oggi – ci danno un’indicazione precisa: partire dalla difesa e dalla riconquista dello spazio pubblico. In tutti i suoi aspetti. Poiché è spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico le aree destinate alle funzioni collettive, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane e la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.

Il compito dell’urbanista

Per un urbanista l’obiettivo della difesa e riconquista dello spazio pubblico pone una molteplicità d’impegni. Il primo , nella situazione di oggi, è quello della difesa del metodo e dello strumento della pianificazione in quanto tale. Senza una visione olistica e di lungo periodo del territorio e delle sue trasformazioni non è possibile realizzare una città equa e umana: non è possibile garantire un futuro nel quale il diritto alla città sia realizzato.

Non basta però una qualsiasi pianificazione. É necessaria una pianificazione che abbia come suoi obiettivi non il privilegio degli interessi immobiliari, né la crescente “valorizzazione economica” del territorio, né lo “sviluppo dell’urbanizzazione” indipendentemente dalle sue finalità, ma il benessere delle popolazioni presenti e future in termini di salute, di accesso alle risorse e a tutti i beni comuni sia naturali che storici. Una pianificazione che assuma tra i suoi compiti principali (se vogliamo contrastare ciò di più negativo oggi accade) il contrasto al consumo di suolo e delle altre risorse naturali limitate, e il soddisfacimento, nell’organizzazione della città e del territorio, delle esigenze collettive dell’abitazione, dei servizi, della mobilità in condizioni di equità per tutti gli abitanti. Una pianificazione che abbia al suo centro la ricerca dell’equità nella dotazione dei servizi , nella libertà dell’uso e dell’accesso agli spazi della vita e delle funzioni collettive indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, economiche, della razionalità nella disposizione delle cose sul territorio, della bellezza nella definizione dei nuovi paesaggi e nella conservazione di quelli esistenti.

Si tratta allora per gli urbanisti – almeno in Italia - di cambiare molto rispetto alle attuali tendenze culturali. Più che tecnici al servizio degli interessi attuali e futuri della maggioranza della popolazione gli urbanisti sono oggi ridotti alla condizione di “facilitatori” degli interessi immobiliari, di “negoziatori” tra le aspettative dei proprietari e utilizzatori di aree da “sviluppare” con l’urbanizzazione indipendentemente dalle priorità sociali, di operatori abili a “perequare” gli interessi dei proprietari immobiliari e del tutto indifferenti alle ben più gravi sperequazioni tra persone, gruppi sociali e classi che abitano la città.

Ma pianificazione significa anche partecipazione dei cittadini al governo del territorio, alle decisioni che concorrono a realizzare le condizioni della vita futura. Perciò lavorare in questa direzione significa anche impegnarsi nel tentativo di espandere le democrazia (la capacità e possibilità di tutti di concorrere alla costruzione del bene comune) al di là dei limiti della democrazia rappresentativa e dell’istituto della delega permanente. Significa allora dare a tutti la possibilità concreta di essere liberi di partecipare alla vita pubblica, rendendo indipendente la libertà dalla proprietà[28].

Significa perciò anche costruire una nuova economia, nella quale il lavoro non sia alienazione (nel senso di ordinamento ad altro da sé) e riduzione dell’attività dell’uomo a merce, ma sia “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini”[29]. Ma qui si apre un discorso che andrebbe ben al di là del tema di questo contributo, e di questo stesso fascicolo.

[1]Vezio De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Roma, Donzelli, 2006, p. 5

Ideologia è un termine screditato: uno dei tanti di questi anni carichi di “revisioni” tese a cancellare la memoria del passato per rendere il presente funzionale agli interessi dominanti.

Certo, «se si intende per “ideologia” un credo cieco e catechistico» sarebbe stato bene lasciar estinguere quella parola e, soprattutto, la prassi che esprime, e attribuire al termine “ideologico” un significato negativo. Ma ideologia significa un’altra cosa. Essa infatti, per adoperare termini semplici e chiari, è «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali» (T. A. Van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Firenze 2004).

Screditare quel termine è stata, in Italia, un’operazione culturale che ha voluto cancellare un preciso fatto storico: che l’ideologia è stata, nei decenni che hanno preceduto il neoliberalismo, «quel sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009).

Sostenere che l’ideologia è morta, rendere il termine sinonimo di “dogmatismo” e “preconcetto”, ha aiutato a inculcare l’idea (e la prassi) che la politica è pura amministrazione. E quando la politica si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina prevale sugli obiettivi la macchina dovrebbero guidare. La politica diventa gestione del potere fine a sé stessa: gli unici iteressi da servire sono quelli di chi della politica è il gestore.

E significa, soprattutto, lasciare libero campo all'ideologia dominante, cancellando il diritto di altre ideologie a presentarsi, essere discusse affermarsi.

Un commento all'articolo di Barbara Spinelli su "la Repubblica", da "il manifesto" del 18 ottobre 2011

"L'Unità", 16 ottobre 2011. Anche qui in eddyburg.

Da qualche anno è di moda il sushi, e i nostri connazionali fanno a gara a svuotare il portafoglio per gustarsi i caratteristici tagli scelti di pesce crudo accompagnato da salse varie. Per molti è davvero una scoperta esotica, quella di consumare pesce senza passare per la padella o il forno, mentre invece anche da noi esiste una consolidata tradizione di piatti di pesce crudo, spesso anche con qualità “povere”, ovvero accessibili a tutte le borse. Come gli sgombri.

Ingredienti: filetti di sgombro; sale; zucchero di canna; erbe aromatiche; olio d’oliva; aceto balsamico o succo di limone. Tempo di preparazione: dieci minuti di lavoro effettivo, e una giornata di attesa per completare la marinatura a secco.

Fatevi preparare dal vostro pescivendolo di fiducia i filetti di sgombro, o (se siete capaci, non è difficilissimo ma neppure cosa da poco) fateveli da soli. Nella maggior parte delle pescherie degli ipermercati i filetti di sgombro si vendono già pronti in vassoio, 4-6 filetti a un prezzo medio di circa 3-4 euro. La quantità a persona varia a seconda che li si voglia consumare come stuzzichino o secondo piatto vero e proprio. In questo caso servono un paio di sgombri, che significa 4 filetti a testa. Per lavorare agevolmente si consiglia di trattare 4-5 sgombri per volta.

Per la marinatura mescolare un paio di cucchiai scarsi di sale, un paio di zucchero, per ogni sgombro, una manciata di erba aromatica sminuzzata (a scelta: dragoncello, timo, rosmarino, origano ecc.), pepe in grani e macinato, uno spicchio o due di aglio. Si stendono i filetti su un piatto ribaltato posto dentro a un piatto fondo più grande – per tenerli rialzati e far colare il liquido – facendo via via degli strati ricoperti del miscuglio sale-zucchero-erbe- ecc.. Si ricopre e si lascia in frigo 12 ore.

Si puliscono lavando accuratamente con acqua corrente i filetti per eliminare il sale, si asciugano, si leva la pelle e le spine residue, e si affettano. Si posano su un piatto pulito e si condiscono con un filo d’olio e qualche goccia di aceto balsamico o succo di limone. Si accompagnano bene anche allo zenzero candito. Sono ottimi, una vera sorpresa per chi non li ha mai assaggiati.

Qualcuno sostiene che per ragioni igieniche debbano essere tenuti preventivamente in freezer un giorno o due. Noi per ora siamo sopravvissuti, ma è una precauzione da non prendere alla leggera: il pesce crudo è più pericoloso di un samurai offeso dall'accostamento dei nostri sgombri nazionalpopolari al sacro sushi.

Altan "la Repubblica", 13 ottobre 2011

Dalle cronache sulla manifestazione di Libertà e giustizia a Milano

Anche quest’anno è arrivato ottobre, e si continua a girare in maglietta, almeno nelle ore centrali della giornata, come se si fosse finalmente avverata la millenaria profezia delle vecchie zie: non ci sono più le mezze stagioni! Per fortuna qualche segnale dell’alternarsi eterno delle stagioni ce lo dà il capitalismo, nella sua versione civiltà dei consumi, che propone sugli scaffali del supermercato le classicissime pesche stoppose e insapori, o l’impennarsi dei prezzi unito al crollo di gusto dei pomodori.

Sempre sui medesimi scaffali, a confermare l’arrivo dell’autunno spuntano le patate dolci o americane, quelle bitorzolute di solito a buccia beige di cui non si sa mai bene cosa fare. Io le compro da anni soprattutto per infilarne una dentro a un vaso di vetro pieno d’acqua, e poi passare tutta la buia stagione invernale ripulendo la cascatina di foglie che ne spunta dopo qualche giorno, e ogni tanto aggiungendo un po’ di liquido. Innocenti evasioni.

Dato che al supermercato la perfida grande distribuzione ci obbliga però a comprarne un intero vassoio, di quei tuberi bitorzoluti, resta il problema di cosa farsene del resto. Un buon metodo per risolverlo è quello del purè di patate dolci, non solo variante esotica di quello comune, ma anche modo per accompagnare molto meglio certi piatti. Ingredienti semplicissimi, oltre alle patate: sale, olio d’oliva, latte di soia o riso. Le dosi variano a seconda dei gusti personali e del modo di consumo, ma più o meno per una persona bastano e avanzano un paio di patate medie, e col resto naturalmente ci si regola a occhio (mi spiace se siete il tipo di persone che non sa neppure scaldarsi l’acqua del tè: affidatevi alla vostra badante).

Preparazione pure semplicissima, le patate basta lavarle, farle a pezzi e cuocerle a vapore in pentola a pressione 7-8 minuti. La buccia si leva dopo molto più facilmente. Tagliare ancora in pezzettini più piccoli e schiacciare bene con una forchetta (o usare il passaverdura se poi vi piace scrostarlo, o il frullino, o non so cosa) aggiungendo via via sale, olio, latte di soia. Perché olio e latte “succedaneo” anziché burro e latte di vacca comune as usual con la schiacciata di tuberi della mamma? Perché l’olio – ne basta molto poco - aggiunge un po’ di gusto deciso e pungente che arricchisce il dolce delle patate, e il latte di soia è più leggero e dolce di quello munto. Con questi ingredienti poi non serve ripassare in casseruola.

Si può consumare così, come piatto unico se ci si accontenta (io mi accontento, se le patate sono tre o quattro), oppure accompagnare a formaggi dal sapore deciso, o a carni asciutte come certi tagli di maiale. In questo caso meglio abbondare un po’ col latte, e se si gradisce mescolare al tutto mezzo spicchio d’aglio lasciato a sobbollire una mezz’oretta nel latte. Buon appetito.

In eddyburg

"La Repubblica", 25 maggio 2010

Intervista, Corriere della sera, 21 settembre 2011

da Logos Quotes, 22 settembre 2009

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