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Si tratta di una nuova proposta di legge, promossa dalla struttura delle Camere di commercio volte a valorizzare le iniziative immobiliari (Tecnoborsa), con la complicità (ovviamente culturale) del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori (Cnappc), del Consiglio nazionale degli ingegneri (Cni), del prof. Paolo Stella Richter, coadiuvati da alcuni tecnici.

La proposta è volta di fatto a consolidare e a renderli permanenti, introducendole nel diritto e nella prassi politica e amministrativa, due delle peggiori e più devastanti “innovazioni” della malcultura urbanistica degli anni Novanta: i “diritti edificatori” come ineluttabile privilegio assegnato al proprietario di un suolo per effetto di una decisione di uno strumento urbanistico generale; la “perequazione”, ossia l'attribuzione di un quantum di edificabilità a ciascun terreno investito dalla pianificazione urbanistica, sia esso destinato a edificazione privata o pubblica, a servizi e verde, a strade e così via.

Sul documento che ci accingiamo a commentare (e che riportiamo in calce), i promotori intendono «ricercare il più̀ ampio consenso possibile presso altri stakeholders istituzionali; per cui al fine di favorire una larga condivisione il testo sarà̀ trasmesso anche agli enti ed alle organizzazioni che compongono il Comitato tecnico scientifico di Tecnoborsa, nonché́ alle associazioni interessate ai settori della pianificazione, delle costruzioni e dell’immobiliare e alle pubbliche amministrazioni, in particolare comuni e regioni alle quali la legge attribuisce la competenza in materia». Cercheremo di fare altrettanto.

In rapida sintesi le proposta si concreta in una premessa, un premio e un passaggio operativo.

La premessa è un postulato assiomatico : esistono suoli che hanno una «vocazione edificatoria», ossia una «oggettiva predisposizione alla edificabilità̀». Essi non comprendono solo le aree già edificate legittimamente e quelle vincolate da un titolo abilitativo (concessione edilizia, permesso di costruire o altro) legittimamente rilasciato e non decaduto, ma anche le ulteriori categorie: «b) aree destinate all’edificazione dal piano urbanistico vigente alla data di entrata in vigore della presente legge; c) aree non edificate che risultino comprese nel perimetro dell’agglomerato urbano, o siano comunque già dotate delle opere di urbanizzazione primaria o per le quali le opere stesse risultino già̀ previste dal programma triennale delle opere pubbliche del Comune o per le quali infine il proprietario abbia già̀ assunto l’impegno di procedere alla loro realizzazione».

Chi cosa ottiene il premio, e in che consiste? Lo ottiene, manco a dirlo, il proprietario delle aree che hanno una siffatta vocazione. Innanzitutto quelle aree sono «soggette a perequazione urbanistica» (art. 3, comma 2); cioè, se il comune, con un successivo piano urbanistico, ritiene di dover eliminare o ridurre l'edificabilità su quell'area e su altre in analoghe condizioni (perché c'è sotto una falda idrica o una villa romana, o perché è ridotto il fabbisogno di aree edificabili, o perché l'esigenza della tutela del paesaggio e dei beni culturali ha indotto lo Stato ad ampliare le categorie di beni territoriali da sottoporre a protezione, o per qualunque altra motivata ragione che abbia indotto a modificare il precedente piano) il comune deve assicurare al proprietario di ottenere altrove il lucro che gli è stato donato con l'edificabilità, o comunque deve indennizzarlo per il ben tolto. E “naturalmente”, in caso di espropriazione per pubblica utilità, al proprietario verrà pagata un'indennità la quale comprende l'entità della sua “vocazione edificatoria”, mentre per le altre aree non “vocate” l'indennità sarà determinata applicando «la disciplina vigente per le aree agricole» (art. 8, comma 3). Insomma, l'articolo 42, comma 2 della Costituzione, che dispone che la Repubblica può espropriare un'area per motivi d'interesse generale salvo indennizzo, attua questa disposizione nel senso di renderla più favorevole al privato di quanto già oggi non sia.

Questi i vantaggi derivanti dalla premessa: premio al privato, penalità al pubblico. . Ma la “vocazione edificatoria” (questa espressione ci fa inorridire, ma dobbiamo continuare a scriverla) è tutt'altro che “oggettiva”. Lo si comprende dall'elencazione che il documento fa delle categorie di aree che la compongono. Diciamolo pure, è altamente discrezionale. Il passaggio operativo allora è quello di stabilire chi decide. Decide il comune: anzi, gli 8mila e passa comuni italiani, i quali, «con proprio atto tecnico di accertamento [...] individuano il perimetro dell’agglomerato urbano e le aree esterne a vocazione edificatoria». La regione, per conto suo, stabilirà quali sono «i presupposti specifici per il riconoscimento della vocazione edificatoria» (art. 3, comma 3).

Tralasciamo di segnalare, in questa prima valutazione della proposta immobiliarista, le incredibili norme sul trasferimento delle cubature una volta concesse e mai riducibili; trascuriamo le eccezioni di costituzionalità che si potrebbero fare a una siffatta legge, che accresce le sperequazioni tra i diversi soggetti interessati (non solo quella, fondamentale sebbene nessuno se ne preoccupi tra proprietari e non proprietari, ma quelle interne all'universo dei proprietari fondiari) e colpisce al cuore la responsabilità della Repubblica (in primo luogo dello Stato) di tutelare il paesaggio. Trascuriamo le incoerenze interne del pur breve articolato proposto (quale quella tra aree “vocate” e aree definite fabbricabili dal piano urbanistico). Ci sembra che già le nostre rapide annotazioni rivelino la vera natura del documento: accrescere ulteriormente il peso della rendita fondiaria urbana in Italia, rafforzare la disponibilità dei suoli a essere “vocati” alla trasformazione. Il “risultato atteso” dell’accettazione della logica, delle definizioni e dei meccanismi del progetto degli Immobiliaristi &Co. è quello della ripresa della spinta all’ulteriore consumo di suolo, all’espulsione dell’agricoltura dalle aree periurbane e via via da quelle più lontane, e in definitiva all’ulteriore estensione di quella repellente crosta di cemento e asfalto che già avvolge il nostro presente, e il futuro degli abitanti del Belpaese.

La speranza è che la proposta di Tecnoborsa e dei suoi volenterosi collaboratori raccolga la pronta e indignata reazione – in primo luogo – di quanti hanno abbracciato la causa della critica al “consumo di suolo”, della difesa del paesaggio e dell'ambiente, della promozione delle identità locali, e della costruzione di un'economia fondata sul lavoro (e sul suo impiego socialmente produttivo) e non sull'incremento della rendita fondiaria.

D - Perchè nei piani urbanistici, al di là delle virtuose raccomandazioni, il paesaggio urbano - sia quello del futuro da costruire sia quello ereditato dalla storia - non sembra da tempo precisamente al primo posto, tanto che la città contemporanea fa fatica a trovare un dialogo costruttivo (nelle funzioni come nelle forme) per es. con fiumi, boschi, giardini privati ed aree di aggregazione ?

R - La ragione è, al tempo stesso, semplice e complessa. Essa sta nel fatto che la visione del territorio oggi egemonica è quella che vede e usa il territorio come qualcosa che diventa ricchezza (soldi e potere) mediante la sua “urbanizzazione”, dove con questo termine si intende la costruzione di strade e stradoni, case e casette, capannoni e piazzali – e così via. Se accanto alle forme si sapesse guardare anche alla sostanza delle cose, e ai meccanismi che governano le trasformazioni del territorio, ci si rederebbe facilmente conto che l’uso del territorio è finalizzato alla realizzazione di maggior ricchezza per chi lo possiede (o se ne può appropriare) mediante la sua trasformazione in quella “repellente crosta di cemento e asfalto” che indignava Antonio Cederna.

Il territorio dovrebbe essere visto, e usato, come un elemento essenziale della vita presente e futura della società perché è, come dice Piero Bevilacqua, l’habitat dell’uomo (e di altre specie animali e vegetali). Esso oggi è visto e usato unicamente come produttore di valore di scambio. Quindi i processi reali di trasformazione del territorio sono del tutto indifferenti sia al rispetto delle qualità (naturali, paesaggistiche, culturali) e degli elementi di rischio (terreni franosi, esondabili, falde inquinabili ecc.) esistenti, sia alla creazione di nuovi paesaggi dotati di qualità nuove.

A questo proposito devo aggiungere che a mio parere non siamo capaci di imprimere qualità nel territorio se non interpretiamo l’azione che compiamo oggi come lo sviluppo e la prosecuzione delle azioni che la natura e la storia hanno svolto nei secoli passati. Oggi, invece, l’interesse personale che sollecita i più (a partire dagli architetti e dai sindaci) è costituito dall’affermare la propria personalità, individualità, creatività, eccezionalità.

D - Nell'ipotesi che le città più virtuose nei prossimi 10 anni decidano di non costruire neanche un mattone, quali azioni potremmo intraprendere per recuperare il degrado e lo squallore crescente delle periferie e delle macro-infrastrutture già presenti ?

R – Suggerisco tre passaggi, e ritengo necessaria una condizione.

Primo passaggio: decidere che non si sottrae un solo metro quadrato al terreno libero (naturale o agricolo che sia) se non si tratta di un’indifferibile esigenza sociale non soddisfacibile riusando suoli già sottratti al ciclo nella natura, che si tratti di aree esterne o interne alla città costruita.

Secondo passaggio: abbandonare la logica, oggi dominante, di progettare ogni nuovo elemento (casa, strada, canale, piazzale ecc.) come elemento isolato dal contesto, e vedere invece ogni trasformazione come qualcosa che nasce da una visione, e da un progetto, relativi all’intero contesto cui l‘oggetto appartiene. Poiché il paesaggio altro non è che l’immagine, la forma, di un contesto ampio, identificabile nelle sue connessioni interne e colto nelle sue differenze da ogni altro contesto.

Terzo, conseguentemente applicare il metodo della pianificazione urbanistica e territoriale, colpevolmente abbandonati dei decenni passati per effetto delle stesse logiche, ideologie e interessi che hanno fatto prevalere la “città della rendita” sulla “città dei cittadini”.

Naturalmente non basta qualsiasi pianificazione: occorre una pianificazione orientata secondo principi e di obiettivi coerenti con quello della difesa della bellezza, della salute e del benessere dei cittadini di oggi e di domani. La pianificazione che si pratica oggi è volta invece alla crescita della ricchezza economica di chi adopera il territorio per accrescere il suo potere finanziario. Quindi, la condizione preliminare è che si modifichi il punto di vista dal quale si vede la città, e le esigenze che devono essere soddisfatte prioritariamente nel governo delle trasformazioni del territorio.

D - Partendo dalla tua esperienza di urbanista, puoi proporci degli esempi positivi di paesaggi contemporanei ?

R. Purtroppo nella mia memoria si sono accumulate immagini nelle quali le espansioni recenti hanno lasciato sopravvivere solo brandelli dei paesaggi del Belpaese di anni lontani. E mi riferisco sia alle espansioni nelle forme compatte delle periferie delle grandi città governate dalla speculazione degli anni del dopoguerra, sia nella sbriciolatura miserabile dell’abusivismo delle coste e delle periferie di gran parte dell’Italia centrale e meridionale, sia nello sprawl (lo sguaiato sdraiarsi della città sul territorio) delle opulente città dell’Italia dello “sviluppo”. I tentativi compiuti negli anni migliori della nostra storia recente (mi riferisco agli anni 60-70 del secolo scorso) sono stati per lo più stravolti dai decenni successivi.

E’ dalla difesa di quei residui brandelli (nella quale per fortuna un numero sempre più vasto di cittadine e cittadini sono impegnati), da una concezione della bellezza come un valore che nasce dall’umiltà (humilitas significa “adesione alla terra”) e dal rispetto della storia e della natura che potranno nascere esempi positivi di paesaggi contemporanei. La scommessa è riuscire a proiettare la storia sul futuro, evitando i due scogli del mimetismo e del nuovissimo.

Edoardo Salzano, 16 aprile 2012

da: Giorgio Napolitano, “Intervista sul pci”, A cura di E J Hobsbawm, Laterza 1976, p. 63-64)

Premessa

Di diritto alla città si è scritto e parlato spesso, su eddyburg , nella sua Scuola estiva e negli eventi internazionali che eddyburg e Zone onlus hanno contribuito a organizzare negli ultimi anni. Abbiamo ragionato e discusso sull’impostazione originaria di Henry Lefebvre e sui successivi approfondimenti ed estensioni del termine nonché sulla stretta connessione dell’espressione lefebvriana con la più recente tematica dei “beni comuni”. Su quest’ultimo argomento è in corso di pubblicazioneun numero monografico dei quaderni dell’università La Cambre di Bruxelles, curato da I Boniburini , J. Le Maire, L. Moretto e H. Smith, dal titolo The right to the City / The City as a common good.E’ un argomento, (certamente non nuovo ai frequentatori di eddyburg) del quale si è da tempo occupato David Harvey, tra i più autorevoli studiosi contemporanei della condizione urbana e certo il più rilevante analista di scuola marxista della città.

Il saggio di David Harvey, di cui pubblichiamo un ampio estratto ringraziando sia l’autore che l’editore, costituisce a nostro parere un’illustrazione chiara ed esauriente del percorso di riflessione che il geografo anglosassone (Harvey è britannico e insegna da tempo negli Usa) ha sviluppato negli ultimi anni, a partire da Social Justice and the City (1973) fino a Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution (2012). Quest’ultimo non è stato ancora tradotto in Italia, benchè ne siano comparse recensioni ospitate anche su eddyburg. L’editore Ombre corte ha invece dato alle stampe la raccolta di tre saggi di Harvey, intitolandola il capitalismo contro il diritto alla città (2012). E’ da essa che abbiamo tratto, nella traduzione di Carlo Varesch,i un ampio brano del saggio ” Il diritto alla città”, originariamente pubblicato inNew Left Review, 53. 2008. (i.b.)

David Harvey

Il diritto allo città

[…]Voglio qui esaminare un altro tipo di diritto collettivo, quello alla città, nel contesto di un rinato interesse per le idee di Lefebvre al riguardo e dell’emergere in giro per il mondo di svariati movimenti sociali che rivendcano questo diritto. Come definirlo, dunque?

Il noto sociologo urbano Robert Park scrisse tempo fa che «dei tentativi fatti dall’uomo per rimodellare il mondo in cio vive secondo i propri desideri [la città] è il più duraturo e nel complesso anche il più riuscito. E così, imdirettamente e senza una chiara consapevolezza della natura delle proprie azioni, l’uomo nel creare la città ha creato se stesso» . Se Park ha ragione la questione di quale tipo di città vogliamo non può essere separata da altre questioni: che tipo di persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazione vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita vogliamo, che valori estetici riteniamo nostri.. Perciò il diritto alla città è molto più che un diritto d’accesso individuale o di gruppo alle risorse che la cittàincarna: è il diritto di cambiare e reinventare la città in modo più conforme ai nostri intimi desideri. E’ inoltre un diritto più collettivo che individuale, perché reinventare la città dipende inevitabilmente dall’esercizio di un diritto collettivo sui processi di urbanizzazione. Quello che intendo sostenere è che la libertà di creare e ricreare noi stessi e le nostre città è un diritto umano dei più preziosi, anche se il più trascurato. Come possiamo, dunque, esercitare al meglio questo nostro diritto?

Se, come sostiene Park, ci è finora mancata una chiara consapevolezzadella natura del nostro compito, sarà anzitutto utile riflettere sul modo in cui, nel corso della storia, siamo stati formati e riformati da un processo urbano messo in moto da forze possenti. L’incredibile velocità e ampiezzadell’urbanizzazione negli ultimi cent’anni, per esempio, significa che che siamo stati ricreati diverse volte senza sapere come, perché e a che scopo. Questa urbanizzazione impressionante ha contribuito al benessere dell’umanità?Ci ha reso persone migliori o ci ha lasciato brancolare in un mondo di anomia e alienazione, di rabbia e frustrazione? Siamo diventati delle semplici monadi scagliate a caso nel mare urbano? Questo tipo di domande ha impegnato , nel XIX secolo, pensatori diversi come Friedrich Engels e Georg Simmel, che hanno offerto analisi acute dei soggetti che stavano allora emergendo a seguito della rapida urbanizzazione . Ai nostri giorni non è difficile enumerare tutti i tipi di ansia e di malcontento, ma anche di entusiasmo , che si realizzano nel corso di trasformazioni urbane ancora più rapide. Eppure sembra che, per qualche motivo, ci manchi il coraggio per una critica sistematica. Il codice del cambiamento ci travolge, anche se ovviamente le domande rimangono. Che fare, ad esempio, dell’immensa concentrazione di ricchezza, privilegi e consumismo in quasi tutte e città del mondo, nel mezzo di quello che le Nazioni unite dipingono come “un pianeta degli slum”? .

Rivendicare il diritto alla città nel senso che qui intendiamo significa rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite e ricostruit, agendo in modo diretto e radicale. […]

la Repubblica",6 febbraio 2012.

«

DueSindaci da dimenticare

Rlazione al convegno "Le forme della politica organizzata", Roma 22 giugno 2012, L'Unità, 23 giugno. Anche in eddyburg.

Assidua ricerca

Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze

le lucide menti

le lotte senza respiro

l’assidua ricerca del vero

hanno nutrita.

Con l’altrui dolore

l’umano confronto

e le parole dette

sul pane, la casa, la pace per tutti

non bastarono

come le lacrime che lavano l’offesa

e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.

Un canto ci voleva per tutti i petti

PostillaQuesta poesia L'abbiamo scelta tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padove 2011, editrice Il Torchio.

E’ una poesia scritta negli anni anni in cui - come oggi(?) - dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu.

La mistificazione del lessico è uno strumento essenziale dell'ideologia dominante. E' perciò uno dei fronti della nostra guerra.

premessa: Le parole di eddyburg,

Abbiamo sempre dato molta importanza alle parole, fin dall’inizio di questo sito. Più di una cartella tematica a proposito di questo argomento è contenuta nella sezione “Poesia e non poesia”: una dedicata proprio ad articoli dedicati alle parole e alla loro importanza, altre a questioni più specifiche: non manca un glossario a più voci, nel quale raccogliamo definizioni di parole di cui ci sembra utile precisare il significato, oppure di cui si è data una interpretazione che ci sembra interessante e condivisibile. Proprio in questa collochiamo questo testo di Bevilaqua su due termini del discorso politico che negli ultimi tempi sono stati pesantemente deformati nel gergo corrente per essere usati come flautati ingredienti per la propria tesi o come bastoni con cui colpire l’avversario. Altre cartelle analoghe sono in altre parti del sito. Segnaliamo fra tutte quella intitolata“testi per un glossario”, nella sezione “Urbanistica e pianificazione, dove raccogliamo (soprattutto a opera di Fabrizio Bottini), testi anche molto ampi attorno a parole decisive per gli argomenti che ci interessano. Sarebbe bello se uno degli attenti e disponibili frequentatori del sito costruisse una “visita guidata su questo tema, con l’elenco delle parole trattate.

Il lavoro sulle parole ha avuto poi un forte sviluppo quando ci siamo accorti del forte peso che esse avevano conquistato per affermare nel mondo l’egemonia del potere del capitalismo nella sua forma attuale, e della correlata ideologia neoliberista. Ormai, nelle guerre globali, il ruolo di devastazione del terreno avversario prima dell’assalto finale, una volta affidato alle artiglierie, è attribuito al “discorso”, del quale le parole costituiscono i plotoni. Così, nelle varie edizioni della Scuola di eddyburg abbiamo approfondito - grazie soprattutto a Ilaria Boniburini - l’analisi delle principali parole impiegate delle giornate della Scuola.Ne trovate i testi nelle cartelle dedicate alle varie sessioni della Scuola

Alla riflessione sulle parole, nella costante ricerca di rivelare le deformazioni e mistificazioni compiute per renderle strumentali a determinati interessi sono dedicati anche articoli raccolti in altre parti del sito, quali gli “eddytoriali” e numerose postille agli articoli ripresi altrove e presentati sul sito.

I - L'estremismo dei moderati

Habent sua fata verba. Anche le parole hanno il loro destino nel confuso universo del dibattito pubblico. Il termine moderato, ad esempio, è di quelli cui sembra arridere un imperituro favore, continuamente rinnovato, anche quando esso appare sostanzialmente falsificato dalla realtà dei fatti.

Anche quando esso serve a coprire e autorizzare realtà e dinamiche sociali che hanno ben poco di regolato, mite, corretto, misurato. Oggi i moderati, ad esempio, pur entro una variegata platea di atteggiamenti e culture , sono pienamente identificabili con i difensori dell'ordine esistente. Questa è la loro specchiata carta d'identità, la definizione che tutti li comprende. Certo, sono sempre agitati dal sacro furore di renderlo migliore, quest'ordine, attraverso la vecchia e consunta favola delle riforme da fare, e tuttavia pervicacemente impegnati a difenderne l'assetto, le gerarchie dominanti, la narrazione ideologica di sostegno. Dunque, essi sono diventati, di fatto, e in genere senza effettiva consapevolezza storica del loro nuovo ruolo, il contrario di ciò che immaginano di essere, vale a dire degli estremisti. E il paradosso risiede in una ragione elementare: il loro atteggiamento e la loro collocazione politica non solo non contrasta, ma anzi favorisce il dispiegarsi di fenomeni economici, sociali e ambientali che sono obiettivamente estremi. Il conservatorismo sostanziale della loro posizione e del loro agire, che nulla cambia nella condizione dei deboli e dei perdenti, si presenta con un volto sì mite, ma nei confronti delle potenze dominanti dell'epoca e delle loro sregolate scorrerie.

Com' è possibile ? Le metamorfosi sociali che la storia ci consegna vanno sempre tenuti nel conto. Il tempo, «assidua lima» , come diceva un dimenticato poeta, Giacomo Zanella, non lascia mai niente uguale a se stesso. Quante cose, nel corso storico, si sono rovesciate nel loro contrario! E infatti, da storico, debbo ammettere e ricordare che non sempre il moderatismo ha incarnato una politica subalterna e parassitaria come oggi accade, piegata ad accompagnare e blandire la smodatezza delle forze dominanti. I moderati che hanno realizzato l'Unità d'Italia, ad esempio, e che hanno sconfitto una ipotesi democratica e socialmente avanzata di unificazione, sono stati tuttavia uomini di ardimento e di sagacia politica, e hanno condotto a termine un gigantesco progetto. Hanno unificato, almeno istituzionalmente, gli italiani, fondando uno stato-nazione. Per avvicinarci al nostro tempo, e per passare dall'epica ottocentesca alla prosa del Novecento, ricordo che La Democrazia Cristiana, ad esempio, tra gli anni '50 e '70, ha realizzato una politica moderata, che ha assorbito e neutralizzato vasti settori reazionari ed eversivi, ancora così presenti e attivi nella società italiana, imponendo talora forme contenute ma efficaci di modernizzazione capitalistica. Dalla Riforma agraria alla Cassa per il Mezzogiorno, dalla scuola media unica al piano INA Casa.

Perché il moderatismo politico oggi non è una virtù, ma, al contrario, la conclamata perversione di una politica riformatrice? A renderla tale sono fenomeni vari e complessi riassumibili , tuttavia, in buona parte, nel vasto ma uniforme processo della trasformazione subita dai partiti politici negli ultimi decenni. Tutti, infatti – salvo quelli definiti radicali – hanno inseguito e inseguono oggi il “centro”, come un tempo i cavalieri medievali vagavano per il mondo in cerca del sacro Graal. Essi puntano, cioé, a disporsi in una posizione intermedia fra le classi sociali allo scopo di rappresentare gli interessi moderati che si immaginano dominanti nella società. E' una scelta che mira dritta al successo elettorale e che non ha nessuna ambizione di trasformazione della società, di modifica della ripartizione della ricchezza, di alterazione degli assetti di potere. I “moderati” assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza dati non come un terreno di conflitto, ma come un principio di realtà da rispettare. Si parte dallo status quo e dal potere su cui si regge, per rappresentarlo con messaggi politici e per svolgere un 'opera di mediazione e di raccordo tra le più varie figure sociali, pensate come elettori, e non certo quali articolazioni di una gerarchia di classi. Gli esponenti del moderatismo sono, dunque, gli agenti di un nuovo «mercato della politica», impegnati a vendere messaggi in cambio di consenso per la propria riproduzione di ceto. Ma essi lasciano immutati gli squilibri drammatici che non solo sconquassano le nostre società, ma le vanno inclinando velocemente verso scenari sempre più ingovernabili. Sotto il profilo culturale, il moderatismo oggi rappresenta la perpetuazione di un conformismo ideologico che è fra i più vasti e totalitari che l'umanità abbia mai conosciuto. Esso si fonda interamente, malgrado i vari scongiuri di rito, sul “senso comune” neoliberista: un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste, come vedremo, che siano state pensate e diffuse nell'età contemporanea.

Che cosa c'è , infatti, di moderato nell'assetto e nella ratio economica del capitalismo del nostro tempo, nelle dinamiche sociali che esso promuove, nell'ideologia che lo ispira ed alimenta ? E' forse moderata la pretesa delle imprese di avere prestazioni sempre più estreme dai lavoratori, sia in termini di intensità che di durata della giornata lavorativa? E' mite e sobria la spinta a un consumismo sfrenato che divora quotidianamente interi continenti di risorse, e che sta portando dissesti tendenzialmente irreversibili ai complessi equilibri della Terra? E tutto questo mentre ancora un miliardo di persone soffre la fame, milioni di bambini muoiono ogni anno per assenza di cibo, acqua potabile, medicine d'uso comune? E' sobria e discreta la pretesa del capitale finanziario di avere ritorni a due cifre, e in tempi sempre più brevi, dei propri investimenti, a prescindere dagli andamenti dell'economia reale? Sono sobrie e parsimoniose le gigantesche speculazioni finanziarie che attraversano quotidianamente il globo, mobilitano immense masse di denaro, sconvolgono economie, manomettono le sovranità degli Stati ? In realtà, mai come oggi il mondo era apparso così drammaticamente percorso da eventi estremi. Non casualmente un sociologo italiano, Tonino Perna, ha potuto dedicare un suo libro, Eventi estremi, al carattere violento e alle «fluttuazioni giganti» che oggi attraversano – e sembrano far ricadere in un medesima logica di funzionamento - tanto il clima che il mondo turbolento della finanza.

Eppure i politici moderati non hanno altra divinità da adorare che la crescita economica, il cosiddetto sviluppo. Promuovono, infatti, il sostegno incondizionato all'accumulazione del capitale, immaginata come il motore da cui discendono poi a cascata, per virtù del mercato, tutti i vantaggi distribuibili tra i vari ceti sociali. Ma è ancora così? Ed è andata così nell'epoca gloriosa del così detto “libero mercato”, il trentennio neoliberale ? Basta un rapido sguardo storico per accorgersene. Forse che non è cresciuta l'economia USA negli ultimi 30 anni? Eppure gli americani hanno visto aumentare l'intensità e la durata della loro giornata di lavoro. In tale ambito sono ritornati indietro di quasi un secolo. Mentre l'insieme delle relazioni umane tendono, per dirla con Zygmunt Bauman, a liquefarsi. E la middle class (la classe media e i ceti popolari) da sempre adorata dai moderati, per il suo essere collocata al centro, che fine ha fatto? Negli USA è stata spazzata via – come ha scritto Lou Dobbs, un giornalista americano, nel suo War on the middle class - da una vera e propria guerra di classe che l'ha ridotta in miseria. Non è cresciuta l'economia europea nello stesso periodo? Eppure la disoccupazione, già prima della crisi, è di fatto aumentata, solo in parte contenuta o camuffata dal dilagare del lavoro a tempo determinato. Una intera generazione di giovani, in diversa misura da Paese a Paese, è stata gettata nel limbo dell' incertezza e della precarietà. E i lavoratori occupati? In Italia, in molti settori, per reggere ai ritmi della fatica, alle lunghe giornate in fabbrica o in cantiere, i lavoratori fanno ricorso alla cocaina. In Francia, come in Giappone, si allunga la catena dei suicidi per l'insostenibilità dei ritmi di prestazione nelle aziende. Sono nati nuovi poveri, la disuguaglianza ha raggiunto picchi da antico regime, è dilagata l'infelicità sociale. Come hanno mostrato in una grande inchiesta, La misura dell'anima, Richard Wilkinson e Kate Picket , «la disuguaglianza è violenza “strutturale”», essa lacera il tessuto vivo della società, è all'origine di un moltitudine di disagi e patologie, avvelena la qualità del vivere. E che cosa ha di moderato una crescita economica che ha reso sempre meno vivibili le nostre città, che è venuta distruggendo le risorse naturali a un ritmo insostenibile, che sta modificando il clima, che minaccia la possibilità di vita di intere regioni e popoli della terra già nei prossimi decenni?

Le cose non cambiano, anzi si mostrano in una esemplarità da caso-studio, se mettiamo il naso nel laboratorio italiano. Se avviciniamo lo sguardo allo scenario politico nazionale, l'abuso dell'aura virtuosa di cui il termine moderato si ammanta appare nella sua luce più grottesca. Negli ultimi anni il nostro Paese è diventato, sotto questo profilo, teatro di un imbarazzante paradosso. Pensiamo al PDL , il maggiore partito del governo appena caduto, che ha sempre preteso di essere una formazione politica moderata. Ora, non solo esso è stato saldamente legato, nell'esecutivo, e ne ha condiviso le scelte, a un partito estremista, xenofobo e persecutorio, come la Lega. Una formazione che lucra consenso elettorale sulla paura e l'odio per il diverso e lo straniero, e si presenta con un volto così moderato da teorizzare la distruzione dell'unità nazionale. Ma è all'interno dello stesso PDL che il moderatismo appare come l'aglio in casa del vampiro. Esiste oggi, sulla scena pubblica italiana e potremmo dire mondiale, un personaggio più smodato, intemperante, eccessivo, disordinato di Berlusconi? Ma la sregolatezza, che solo sino a un certo punto pertiene alla sfera privata – anche per i modi in cui essa si è manifestata e si organizzata – non si limita appunto all'ambito delle prestazioni sessuali. Avremmo pure potuto sorridere della satiriasi di un vecchio, un vecchio potente e soprattutto dotato di uno straordinario potere d'acquisto. Certo, se questo non avesse anche comportato – come di fatto è avvenuto - una così spregevole pratica di mortificazione e mercificazione delle donne. Benché il nostro sorriso, comprensivo e “cattolico,” non avrebbe in questo caso risparmiato all'Italia gli effetti gravi di deturpamento della propria immagine a livello mondiale, presso l'opinione pubblica di Paesi nei quali la dignità del comportamento personale costituisce un tratto indispensabile dell'agire politico.

Ma il fatto è che la più dirompente smodatezza Berlusconi l'ha manifestata sul piano politico, subordinando, come mai era accaduto nella storia dell'Italia unita, il governo del Paese e parte del Parlamento ai suoi interessi personalissimi, mettendo in discussione la divisione dei poteri e l'indipendenza della magistratura, occupando i mezzi di comunicazione di massa, facendo violenza alla Costituzione, stracciando le procedure e le regole della vita democratica, trafficando segretamente con affaristi e criminali. E dunque ponendosi come modello ed esempio, per così dire, per la parte più sregolata ed abietta che opera nei bassifondi della vita italiana, quella opaca galassia che abusa del nostro territorio, evade le tasse, corrompe i magistrati, lucra affari col pubblico denaro. In questo nuovo estremismo immorale, diffuso nello spirito del Paese dal potere di governo, perfino quello che avrebbe dovuto essere il supremo custode dei valori universali della moderazione, la Chiesa di Roma, si è trasformato in una forza disposta sulla trincea dell'estremismo. Non solo essa ha di fatto e troppo a lungo tollerato la sregolatezza moralmente e civilmente dirompente di un capo di governo, in ragione della contropartita per nulla evangelica dei vantaggi economici che ha ricevuto per il suo silenzio. Ma ha praticato e pratica pervicacemente una forma di estremismo che ha la pretesa incontenibile di entrare nell'intimo delle nostre vite. Com'è noto, la Chiesa di Roma, questo papato, vuole toglierci il diritto alla morte. Noi, che come tutti i viventi sparsi sulla Terra, non abbiamo potuto scegliere la nostra nascita, non abbiamo potuto decidere se fare il nostro ingresso nel mondo, dovremmo oggi essere privati del supremo diritto di scelta che la nostra vita ci dona: decidere il modo e il quando del nostro morire.

A questo punto, dunque, è d'obbligo porsi la domanda: perché il termine moderato gode di tanto pubblico favore? Come sanno i linguisti, le parole, anche se soggette alla mutazione del tempo, posseggono una stoffa storica di lunga durata. Esse serbano a lungo la loro originaria semantica e dunque spesso anche l'aura nobile delle loro origini. E il termine moderato, infatti, incassa abusivamente i meriti indubbi della virtù morale che, in origine, esso definisce. La moderazione – che proviene dal latino modus, misura, medietà – è una encomiabile proprietà dell'uomo saggio e mite, che rifugge dagli eccessi. Un ideale di umanità che la civiltà romana mise in cima alla sua gerarchia di valori. E che nel corso del tempo è stata tanto più apprezzato quanto più lontano e contrapposto a ciò che è estremo, violento, senza misura. Possiamo dire radicale?

Ma oggi, siamo ancora a questo ? O la moderazione dobbiamo cercarla esattamente nel suo opposto? Non dobbiamo, come fece Erasmo da Rotterdam nel XVI secolo, nell' Elogio della follia, cercare la saggezza nell 'insania ? « Se i mortali – fa dire Erasmo alla follia – troncassero nettamente ogni rapporto con la saggezza e passassero la loro intera esistenza in mia compagnia, non sarebbero mai vecchi, e anzi godrebbero felici di una eterna giovinezza .>> Occorre capovolgere il significato delle parole. Un ideale di generale “moderazione”, per quegli imprevedibili arcana che governano i nostri destini, per quei capovolgimenti che fanno talora irruzione nel corso storico, è diventato, nel giro di qualche decennio, la prospettiva di un progetto rivoluzionario. Può sembrare forzato e paradossale, ma è esattamente così. Qual'è infatti oggi la finalità suprema dei disegni più radicalmente eversivi dell'attuale assetto disordinato del mondo? A che cosa ambiscono i molteplici soggetti e movimenti che mirano a sovvertire l'ordine capitalistico? E' la prospettiva di una società sobria, che ponga fine al consumismo smisurato, alla bulimia distruttiva di territorio e risorse, all' affanno della crescita infinita, alla mortificazione dell'umana operosità ridotta a merce, alla competizione senza quartiere, alla dissipazione nel lavoro e nel consumo del nostro tempo di vita. Che altro chiedono le moltitudini di donne e uomini che oggi criticano dalle fondamenta il capitalismo violento del nostro tempo? A che cosa aspirano i sostenitori della decrescita, del buen vivir, di Slow Food, del Take back yor time e del Dawnshifting americani, dei movimenti che rivendicano i beni comuni? Essi chiedono l'avvento di una società conviviale, come la profetizzava Ivan Illich, una società in cui i rapporti umani siano improntati alla mitezza, virtù di cui oltre 20 anni fa Noberto Bobbio tesseva un appassionato l'elogio. Il pensiero radicale, dunque, considerato estremo e violento dalla vulgata storica, è in lotta per aprire la via a un diverso rapporto degli uomini con la natura, un rapporto di cura e protezione che metta fine all'età del saccheggio, a nuove relazioni solidali fra gli uomini, a una più equa ripartizione del benessere, a forme egalitarie di partecipazione al governo della cosa pubblica, che siano regolate da un diritto mite, come quello auspicato e descritto da Gustavo Zagrebelsky in un suo fortunato saggio del 1992.

II- Lo sguardo radicale

Ben diversa fortuna ha conosciuto il termine moderno radicale. E da quanto si è detto sin qui si comprende agevolmente il perché. Sin nel linguaggio corrente esso è sinonimo di estremista, supremo insulto politico, oltre che intellettuale, in un epoca nella quale sono rimasti sotto il cielo solo integerrimi moderati, osservanti buone pratiche di indifferenza, che non turbano l'ordine iniquo del mondo. Nel nostro Paese, per la verità, il termine ha anche una sua specifica storia politica, com'è largamente noto. Il Partito radicale – già presente nel Parlamento italiano nell'Italia liberale - ha conosciuto una discreta fortuna tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Allorché immise nella dibattito pubblico dominante, quello, per intenderci, sovrastato dai grandi partiti di massa della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, il tema eversivo dei diritti civili, delle libertà individuali, della sessualità, del diritto di famiglia. Incursione fortunata, coronata da successo, come il referendum sul divorzio e sull'aborto: eventi che hanno contribuito a cambiare in profondità vecchi e talora arcaici rapporti personali e familiari, forme insostenibili di subordinazione delle persone al potere, sia ecclesiastico che laico. Dunque, una pagina importante della storia civile dell'Italia contemporanea, che tuttavia ha lasciato al termine radicale non solo il suo originario alone di eterodossia, ma anche quello di formazione minoritaria. Una condizione da cui quel partito non è più uscito, malgrado la scelta poco nobile degli ultimi anni di accostarsi al centro-destra di Berlusconi. E nonostante l'apertura di credito di molti suoi dirigenti – persino di una donna di valore come Emma Bonino - al dottrinarismo neoliberista che ha trionfato negli ultimi decenni e che oggi è in frantumi.

L'alone di marginalità e minorità politica si è poi esteso e rafforzato negli ultimi anni con le vicende che hanno investito i partiti a sinistra delle varie formazioni eredi del Partito comunista italiano. Com'è noto, Rifondazione comunista è stata tagliata in due da una scissione che l'ha portata fuori dal Parlamento , condizione che ha condiviso anche con la formazione politica dei Verdi. Qualcuno si rammenta del drammatico tracollo di consenso della formazione Arcobaleno alle elezioni del 14 aprile 2008? Si capisce, dunque, come negli ultimi anni il termine radicale, con cui viene normalmente denominata la sinistra non moderata, abbia avuto in sorte – anche per evidente demerito e scarso senso di responsabilità di molti dei protagonisti di queste vicende – il marchio svalutativo della marginalità istituzionale, della minorità ribelle e inconcludente, della insignificanza numerica e politica.

Eppure il termine radicale, per gran parte delle formazioni di sinistra italiane di cui discutiamo, non è apparentabile con l'estremismo. Almeno sotto il profilo teorico, la sinistra di orientamento marxista è stata per tempo vaccinata contro quella che è stata una « malattia infantile«del movimento operaio internazionale. Lenin aveva lungamente dileggiato, nel suo famoso saggio del 1920 sull ‘Estremismo, «La puerilità della “negazione” della partecipazione al parlamento» da parte di innumerevoli “sinistri” prima e dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Compreso il nostro Amadeo Bordiga e i suoi compagni dell'ala comunista del PSI. E messo sotto accusa anche non pochi tratti di semplicismo parolaio circolante in quegli anni, e che tuttavia non è mai scomparso né dal lessico, né dalla pratica politica corrente. Ovviamente, in quei tempi di ferro e di fuoco, Lenin aveva in mente una prospettiva apertamente rivoluzionaria, che oggi non ci appartiene nelle soluzioni immaginate, nei metodi e nelle forme della realizzazione. Così come non ci appartiene l'aspro linguaggio di critica, di accusa di tradimento, ai dirigenti della Seconda internazionale, spesso personaggi grandi e lungimiranti, come Kaustky e Berstein. Ma, nella presente fase storica in cui Lenin, per la vulgata corrente, è diventato poco più di un criminale comune, giova ricordare per un momento che cosa è stato il pensiero rivoluzionario, il grado di intelligenza della storia cui esso è pervenuto. E' un antidoto culturale contro il conformismo dominante rammentare i grandi passaggi d'epoca in cui il pensiero politico è stato capace d'immaginare e di perseguire un nuovo mondo possibile. Proprio nell' Estremismo Lenin, il teorico del Partito avanguardia del proletariato, il capo bolscevico svolgeva queste sorprendenti considerazioni :

«La storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più “astuta”, di quanto immaginino i migliori partiti, le più coscienti avanguardie delle classi più avanzate. E ciò si comprende, giacché le migliori avanguardie rappresentano la coscienza, la volontà, le passioni, la fantasia di decine di migliaia di uomini; ma la rivoluzione viene attuata in un momento di slancio eccezionale e di eccezionale tensione di tutte le facoltà umane, dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di molte decine di milioni di uomini».

Occorrerebbe ricordarsene più spesso. Naturalmente la critica di Lenin all'estremismo viene qui richiamata per ragioni meramente filologiche, di ripristino della corretta storia delle parole e dei concetti. Essa non serve certo a mettere al riparo le formazioni della sinistra dall'accusa di estremismo, in una fase nella quale esso viene individuato e bollato in tutto ciò che non rientra nelle regole del conformismo e del perbenismo dominanti. A Rifondazione comunista, ad esempio, non è stata sufficiente la teorizzazione della “non-violenza” come scelta strategica di lotta politica, per farle guadagnare un'oncia di aura rispettabile nel panorama politico italiano.

Ma il termine radicale ha un'altra storia e oggi un nuovo significato. E' stato Marx a dare alla parola radicale il significato che ora ci si presenta in tutta la sua potente attualità. Nella Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione , uno scritto del 1843, il venticinquenne Marx scrive:«Essere radicale significa cogliere le cose dalla radice .»: più precisamente, nella sua lingua, Radikal sein ist die Sache an der Wurzel fassen. E aggiunge :«Ma la radice dell'uomo è l'uomo stesso.». Ecco, dunque, uno sguardo di cui abbiamo oggi davvero bisogno. Per incredibile che possa apparire, viviamo una fase storica nella quale, nonostante l'immenso patrimonio di conoscenze di cui disponiamo, stiamo soffocando sotto la coltre di un occultamento totalitario della nostra umana radice. Qual'è il nostro fine, la nostra possibile felicità sulla terra, la nostra responsabilità verso le altre creature che la popolano, l'intera natura, le generazioni che verranno? Ci troviamo nella necessità di disseppellire l'intera umanità da uno strato gigantesco di conformismo che l'ha ormai trasformato in mezzo, strumento di un progetto ormai incalzante e distruttivo di crescita economica infinita. Tutti gli ideali di umano progresso e incivilimento che dall'Illuminismo in poi si sono susseguiti come orizzonti del nostro avvenire sono oggi ridotti a questa vacua teleologia dell'”andare avanti” e sempre sullo stesso sentiero.

Potremmo dunque dire, riprendendo il termine del pensatore di Treviri, che radicale significa affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costituitivi dei processi materiali. E quindi compiere un disvelamento dei fatti sociali occultati dalle idee ricevute, dal conformismo, dal belletto ideologico dell'industria culturale. Giacché mai come oggi è stata tanto vera l'affermazione, dello stesso Marx, secondo cui «le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti.»

L'attualità di questa vecchia e controversa verità è confermata del resto da un fenomeno degli anni recenti che tutti abbiamo potuto osservare con stupore e costernazione: l'affermarsi di quello che è stato definito il pensiero unico.

Ma occorre essere più analitici. Uno sguardo può essere radicale se esso è capace di una prospettiva storica, se è in grado di scorgere il percorso temporale dei fenomeni, il processo della loro formazione nel tempo. Comprendere che i rapporti dominanti e le istituzioni in cui viviamo immersi sono l'esito di un modo di produzione che si è formato storicamente, è indispensabile per capire la loro origine e il loro significato generale, ma anche per afferrare la loro transitorietà. Costruiti dagli uomini essi sono destinati a trasformarsi e a perire. Sotto il profilo della storia del pensiero è perfino banale ricordarlo. Ma oggi questa elementare verità, questo senso comune dell'uomo moderno, riacquista una nuova freschezza, viene di nuovo a rompere la scorza dell'uniformità che ci sovrasta. Tutto questo perché il capitalismo tende oggi di nuovo, ma con una totalità planetaria sconosciuta al passato, a presentarsi come natura, mondo fisico immutabile, la realtà unica al di la della quale c'è il nulla. Ricordate il « There is no alternative>> non c'è alternativa, di Barbara Thatcher ? Lo scrittore e giornalista canadese Mark Fisher, in un suo recente Pamphlet, Capitalist realism, ha utilizzato l'espressione di “business ontology” ontologia degli affari, per definire la trasformazione totalitaria di ogni frammento di realtà in merce, la penetrazione del capitale nel tessuto vivente della realtà, il suo stesso farsi realtà unica e immodificabile della nostra esperienza. Essa ha trovato alimento – lo aveva colto con anticipo Pierre Bourdieu - nelle « politica di spoliticizzazione, che pesca senza vergogna nel lessico della libertà, liberalismo, liberalizzazione, deregolamentazione, tende ad assegnare un potere fatale ai determinismi economici, liberandoli da ogni controllo, e a sottomettere governi e cittadini alle forze economiche e sociali così' “liberate”».

Ma occorre smontare, togliere i vari mattoni dell'edificio, per cogliere l'artificialità fasulla di questa costruzione umana che ha la pretesa di presentarsi come l'unica possibile ed è solo un tratto della storia mondiale recente del capitalismo, il calco ideologico del suo dominio. Io credo che l'aura di immodificabilità con cui il capitale, penetrato in ogni angolo della vita, si presenta oggi ai nostri occhi - tema su cui tornerò - dipenda almeno in parte dal dominio totalitario assunto dalla scienza economica e dalla sua degradazione in tecnica. E' accaduto, infatti, al pensiero economico dominante quello che sembra essere il destino di tante scienze giunte al loro grado estremo di maturità. Da scienza sociale qual'e' stata sin dal XVIII secolo e per buona parte del Novecento, essa si è ormai trasformata in una tecnologia della crescita economica. E la tecnica – non la scienza, come voleva Heidegger – la tecnica «

. Tutta l' “intelligenza “ della tecnica, infatti, la sua incontenibile potenza, il suo successo, risiedono nella capacità di replicare i propri meccanismi costitutivi, di rimanere identica a se stessa nella sua operatività. La sua essenza, la sua anima operosa si esprime nel perseguimento dell'identico, nella replicazione senza scarti, sempre uguale e potenzialmente infinita, di un dispositivo.

La citazione di Marx è tratta da, Annali Franco-tedeschi di Arnold Ruge e Karl Marx, a cura di G.M.Bravo, Edizioni del Gallo, Milano 1965, p. 134. Il brano originale di Marx, per la verità, è più efficace della traduzione. Marx usa il termine fassen, afferrare, ben più energico del «cogliere» della traduzione italiana.

Noi abbiamo tratto la citazione, e il piccolo testo qui sopra, dal libro di Piero Bevilacqua, Elogio della radicalità, Laterza 2012

Francesco Giavazzi, “Una commedia che deve finire”, editoriale dal Corriere della Sera, 19 maggio 2012

Da La distruzione della natura in Italia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1975, [p. 21]

"L’Unità", 21 aprile 2012. Anche su eddyburg

Una parole per me importante è la parola “politica”. Una parola oggi molto di moda, anche se in senso prevalentemente negativo. Una parola che viene adoperata spesso rovesciata nel suo significato fino a divenire un'arma contro l'avversario: si rovescia in “anti-politica”. Per me la “politica” non è solo quella che si fa nelle istituzioni e nei palazzi del potere, è anche quella che si promuove là dove si è accusati di praticare l'”anti-politica”.

La definizione di politica che a me pare eccellente – negli anni in cui la “politica” ufficiale sembra più interessata all'accumulazione del potere da parte di chi ce l'ha già anziché al realizzarsi di interessi generali della società – è quella che ne diede don Lorenzo Milani, quando fece esprimere a uno scolaro della sua Scuola di Barbiana il concetto di politica:

«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» (Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967).

Politica è insomma, anche per me, l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti – o almeno di molti, dei “tutti” di una determinata comunità – o dell'intera società.

"La Repubblica", 24 aprile 2012. Anche su eddyburg.

"L'Unità", 21 aprile 2012. Anche su eddyburg.

Campo dell’Anzolo Raffael è il nome di un piccolo sistema di spazi pubblici abbastanza nascosti ma facilmente accessibili, all’estremità ovest del sestiere di Dorsoduro. Lì assistetti, durante la gloriosa Festa nazionale dell’Unità del 1973, a una memorabile rappresentazione del Berliner Ensemble di Bertold Brecht. Lì c’era una tipica osteria veneziana, dove si mangiava la cucina povera e saporita dei pescatori.

Ma non tutte le sostituzioni (le “modernizzazioni”) vengono per nuocere. Rimasta vuota l’osteria, vi si è insediato da qualche anno un ottimo ristorante, della catena Pane Vino e San Daniele. La gestione attuale aggiunge alla tradizionale linea friulana della catena, e ad alcun piatti della cucina veneziana, un meraviglioso tocco foresto: molte ottime cose della Sardegna e qualche innesto di altre regioni, con un pizzico di creatività.

Tra le cose migliori che ho mangiato i malloreddu e i culurgiones alla campidanese (con ripieno di ricotta di pecora e zafferano di San Ginesio), le crespelle con asparagi, l’oca al confit, il tipico porceddu sardo, il frico (una tortina furlana di formaggio e patate) caldo con prosciutto di San Daniele, uno splendido sorbetto di passion fruit su un letto di frutti di bosco. Il saporito pane di Altamura e i friabili tarallini pugliesi, nonché un buon assortimento di vini completano il desco.

Di giorno, nella lunga buona stagione, si sta bene in campo; la sera e col fresco la sala interna è graziosa e, soprattutto, comoda e tranquilla, l’ospitalità e il servizio ottimi, il prezzo contenuto: ho sempre mangiato e bevuto bene, senza eccedere, per 35-40 € a testa. Compreso il bicchierino di mirto.

Meglio prenotare: +39 0415237456, Comunque, tutte le informazioni sul sito.

Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica (non faccio nessuna distinzione tra l’una e l’altra) quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

Per completare questa definizione, devo precisare ancora il significato che assumono i termini che ho adoperato per qualificarla, e in primo luogo devo precisare qual è il suo oggetto. È facile affermare che sono oggetto della pianificazione territoriale ed urbanistica le trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

A questo campo, solo a questo campo (ma, insieme, a tutto questo campo) deve essere diretta la responsabilità e la competenza della pianificazione.

Gli obiettivi posti alla pianificazione, come abbiamo visto, variano in relazione al contesto storico. [...] È certo che tutti i possibili sistemi di obiettivi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.

Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazioni sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.

Uno dei compiti della pianificazione (anzi, della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione) è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti, e sia tradotta nelle scelte operative in modo verificabile sia a priori (nella certezza che la catena degli effetti sia suscettibile di provocare quelli voluti) che a posteriori. È nella capacità di definire un siffatto metodo e meccanismo che sta anche la garanzia di base di un soddisfacente rapporto tra l’apparato tecnico della pianificazione e la rappresentanza della società.

DIRITTO ALLA CITTA'

Significato, motivi e contesto di un antico slogan. Sintomi e ragioni dlla sua rinascita

Il mio intervento, come enuncia il sottotitolo, sarà articolato in due parti:

1. Significato, motivi e contesto dello slogan “diritto alla città”, che ebbe una grande fortuna alla fine del decennio Sessanta del secolo sorso e poi declinò nel corso del decennio successivo.

2. Sintomi e ragioni della sua rinascita, che si manifesta – secondo molti studiosi della città e della società – nei nostri anni: gli anni della globalizzazione e, soprattutto, del neoliberismo.

A queste due parti vorrei anteporre qualche considerazione di carattere un po' più generale, che vi servirà a comprendere il mio punto di vista sugli argomenti che svilupperò. Credo che sia buona norma non presentarsi enunciando solo i propri titoli formali, ma anche dichiarando qual'è la propria posizione, la propria ideologia.

PREMESSA. ALCUNE PAROLE



Ideologia



Cominciamo proprio da questa parole: ideologia. E' una parola oggi largamente screditata. Oggi per “ideologia” si intende qualcosa che esclude la ragione, che rinvia a parole e concetti quali schematismo, dogmaticità, partito-preso, pregiudizio e preconcetto. Il significato classico del termine, che condivido e adopero, è invece il seguente: L'ideologia è «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali» (T. A. Van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Firenze 2004).

Screditare quel termine è stata, in Italia, un’operazione culturale che ha voluto cancellare un preciso fatto storico: che l'ideologia è stata, nei decenni che hanno preceduto il neoliberalismo, «quel sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009).

Sostenere che l’ideologia è morta, rendere il termine sinonimo di “dogmatismo” e “preconcetto, ha aiutato a inculcare l'idea (e la prassi) che la politica è pura amministrazione. E quando la politica si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina prevale sugli obiettivi che dovrebbero guidarla. La politica diventa gestione del potere fine a sé stessa: gli unici interessi da servire sono quelli di chi della politica è il gestore.

Politica



Un'altra parole per me importante è – appunto – la parola politica. Una parola oggi molto di moda, anche se in senso prevalentemente negativo. Una parola che viene adoperata spesso rovesciata nel suo significato fino a divenire un'arma contro l'avversario: si rovescia in anti-politica.

Per me la “politica” non è solo quella che si fa nelle istituzioni e nei palazzi del potere, è anche quella che si promuove là dove si è accusati di praticare l'”anti-politica”. La definizione di politica che a me pare eccellente – negli anni in cui la “politica” ufficiale sembra più interessata all'accumulazione del potere da parte di chi ce l'ha già anziché al realizzarsi di interessi generali della società – è quella che ne diede don Lorenzo Milani, quando fece esprimere a uno scolaro della sua Scuola di Barbiana la sua esoerienza:

«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» (Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967).

Politica è insomma, anche per me, l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti – o almeno di molti, dei “tutti” di una determinata comunità – o dell'intera società.

Comunità e società, democrazia e istituzioni, rappresentanza e partecipazione. E poi, accanto a politica, economia (quella che oggi è diventata la padrona della politica). Ecco altre parole chiave sulle quali mi piacerebbe ragionare con voi. Ma non posso dedicare tutto il mio spazio al preambolo, quindi accennerò soltanto ad altre due parole: città e storia.

Città



Comprendere che cosa è città dovrebbe essere facile per persone che – come noi tutti in quest'aula - di essa ci occupiamo professionalmente. Io ho dedicato anni importanti della mia vita a cercar di comprenderlo , e ne è nato un libro (Edoardo Salzano, Urbanistica e società opulenta, Laterza, Roma 1969). Passati alcuni anni (una quarantina) mi sono accorto che la città alla quale mi ero riferito era una particolare città; la città dell'Europa, forse la più ricca di qualità e più rivelatrice di principi di carattere universale, ma non credo l'unica, nè la sola portatrice di principi e valori d'interesse universale.

I punti fermi della mia ricerca di allora, e i principi di partenza per una nuova investigazione, sono tutti desumibili da due espressioni intimamente legate:

1. la città non è un aggregato di case ma è la casa della società, quindi non hanno senso le interpretazioni basate su dati esclusivamente o principalmente quantitativi o descrittivi, mentre è fondamentale la presenza, accanto all'ineliminabile dimensione dell'”IO”, quella altrettanto fondamentale del “NOI”;

2. la città non è comprensibile se non si tiene sempre presente lo stretto legame tra le sue tre dimensioni, “ urbs, civitas, polis”, la città come sistema di strutture fisiche, di relazioni sociali, di capacità politica.

Naturalmente – come tutto nella vicenda dell'uomo – questi due attributi della città non devono essere considerati ipostatizzando il presente, la nostra esperienza personale, ma allargando lo sguardo sulle dimensioni della geografia e della storia: dell'universo spaziale e di quello temporale.

Oggi mi sembra particolarmente importante la seconda parola, storia. Perciò dedicherò a questa qualche ulteriore minuto del preambolo.

Storia



«Natura di cose altro non è che nascimento di esse», scriveva Giambattista Vico. Senza avere consapevolezza della nostra storia (e del modo in cui le cose sono nate) non si è neppure capaci di pensare a un futuro diverso dal presente che viviamo. Non è quindi un caso se, per spegnere sul nascere qualunque tentativo, speranza, sforzo per cambiare lo stato di cose attuale e costruire un domani diverso dall' oggi, lo slogan più espressivo dell'attuale fase del sistema capitalistico – il neoliberismo – è quello coniato da Margareth Tatcher, “There is no alternative”, non c'è alternativa: il famoso acronimo TINA.

E' appena il caso di precisare che consapevolezza della storia – e della sua importanza per comprendere l'oggi e preparare il domani – non ha nulla a che fare con la nostalgia, con il lamentoso rimpianto per i tempi andati. Significa invece ricordare che la storia è maestra di vita (Historia Magistra Vitae): la storia ci insegna a vivere, cioè a cambiare, a crescere, a migliorare, noi stessi e il mondo.

Ma veniamo adesso alla nostra storia più vicina. In particolare, a quegli anni nei quali nacque, si sviluppò e divenne portatore di azioni lo slogan del quale ci stiamo occupando: il “diritto alla città”.

SIGNIFICATO, MOTIVI E CONTESTO

DELLO SLOGAN “DIRITTO ALLA CITTÀ”



Che vuol dire “diritto”?



La parola “diritto ha almeno due significati. Può significare norma che garantisce al soggetto portatore del diritto determinate prestazioni, o privilegi, o condizioni, nell'ambito del dispositivo giuridico vigente. In Italia, ho diritto al servizio sanitario nazionale, ho diritto a partecipare all'elezione di chi governa, e quant'altro stabiliscono la Costituzione e il sistema di norme che ne deriva. Oppure, “diritto” può significare aspirazione, tensione, rivendicazione di qualcosa che ancora non è riconosciuto dal sistema di regole sociali in atto, ma che è il risultato sperato di un'azione che sento necessaria.

Quando parliamo di “diritto alla città come qualcosa che si è manifestato nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso ci riferiamo a questo secondo significato del termine. La rapida esplorazione che faremo di quegli anni ci rivelerà che, per alcuni rilevanti aspetti, quel secondo significato dell'espressione “diritto alla città” (diritto come rivendicazione) si è tradotto, sia pure parzialmente, in diritto giuridicamente sanzionato.

Henry Lefebvre



Henry Lefebvre coniò l'espressione “diritto alla città”, nell'ambito di una riflessione sulla città e l'urbanistica condotta con gli strumenti d'analisi e interpretazione della scuola marxista. In polemica con le culture dell'epoca Lefebvre studiò la città non nelle sue forme e funzioni, ma nel meccanismo della sua produzione. La città era per lui il prodotto dell'azione della società, quindi strettamente legata (e anzi determinata) dalle regole e dagli interessi dei rapporti di produzione, quindi dal gioco di potere delle classi sociali. Egli vedeva il deterioramento della città (e della condizione urbana) come conseguenza dei rapporti (di produzione e di potere) propri del sistema capitalistico-borghese.

Secondo la sintesi che Ilaria Boniburini ne ha esposto alla Scuola di eddyburg del 2009, «per Lefebvre la città è un oeuvre, un’opera, una realizzazione alla cui costruzione tutti gli abitanti partecipano: gli “abitanti”, non solo i residenti e i cittadini. Il diritto alla città è il diritto alla vita urbana, all’abitazione, ai luoghi dell’incontro e dello scambio, ai tempi e ai ritmi necessari per un uso pieno dei luoghi e delle opportunità». La sua realizzazione «richiede una scienza capace di comprendere la città, un’ urbanistica orientata ai bisogni sociali e una forza politica e sociale capace di metterle in atto». Questa forza Lefebvre la individuava nella classe operaia, cui il pensiero marxista affidava la responsablità storica di superare dialetticamente il sistema capitalistiico-borghese.

E' interessante osservare oggi – nel pieno dell'affermazione del tema dei “beni comuni” e della riflessione sulla nuova rivendicazione della “città come bene comune” - che Lefebvre poneva l'accento sulla necessità di stabilire il primato del valore d’uso; ciò che a suo parere richiedeva il controllo della sfera economica, quindi una riconfigurazione delle relazioni di potere.

Ancora due corollari della visione lefebvriana del “diritto alla città”: esso, per Lefebvre, «postula il diritto a partecipare (tutti gli abitanti dovrebbero avere un ruolo centrale nelle decisioni che contribuiscono alle trasformazioni urbane), e postula il diritto all’appropriazione che include la prerogativa di occupare».

Il biennio 1968-69 in Italia

Il pensiero di Lefebvre ebbe una forte influenza nel pensiero e nelle azioni che dominarono nel biennio di grandi trasformazioni che fu il 1968-69, momento di massima tensione di un periodo (dagli inizi degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo) che vide realizzarsi in Italia una fase ricca di riforme profonde della società.

Si tratta di un biennio (e di un ventennio) che nei decenni successivi il pensiero dominante ha fatto di tutto per cancellare – riducendoli all'immagine di un periodo di tensioni sociali anarcoidi, dominate da un terrorismo di sinistra.

Gli storici dell'Italia contemporanea (da Paul Ginzborg a Guido Crainz, per non citare che quelli i cui articoli ospito spesso su eddyburg) hanno cominciato a raddrizzare le cose e a ristabilire una memoria corretta di quegli anni. Io stesso – non come storico, ma come testimone - ne ho scritto con una certa ampiezza, anche nel mio libro Memorie di un urbanista (Corte del Fontego, 2010), nel quale cerco di ragionare sull'Italia che ho vissuto: un'Italia nella quale, le ragioni della società e della politica e quelle della città e dell'urbanistica sembravano – e anzi erano – strettamente collegate. Non solo nel pensiero di qualche accademico e di qualche intellettuale, ma nella vita della società nel suo insieme.

Furono anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio.

Di quegli anni vorrei ricordare soprattutto due cose: il ruolo delle forze sociali, le conquiste ottenute. Il diritto alla città come rivendicazione, e il diritto alla città come norma.

Le forze sociali

Due componenti furono a mio parere essenziali, oltre al movimento degli studenti: il movimento per l’emancipazione delle donne, il movimento operaio.

Inizio dal movimento femminile, perché fu cronologicamente il primo a scendere in campo su un aspetto del “diritto alla città”. E lo faccio particolarmente volentieri anche perché oggi è l'8 marzo.

Il movimento femminile era rappresentato in quegli anni quasi esclusivamente dall'Unione Donne Italiane. Fu particolarmente rilevante la vertenza aperta dall'UDI all'inizio degli anni Sessanta nell'intento di liberare le donne dall'obbligo del lavoro casalingo.

L’Udi aveva lanciato una vasta campagna per l’istituzione di servizi che alleggerissero le lavoratrici (e le donne in generale) dal peso della gestione domestica; tra le attività svolte su questo tema, una legge d’iniziativa popolare, sulla quale si raccolsero oltre 50mila firme, e un convegno per la previsione dei servizi sociali nella pianificazione urbanistica.

Il titolo del convegno era “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico”. Si svolse a Roma, il 21-22 marzo 1964. Tre delle quattro relazioni di base furono svolte da altrettanti urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti e Alberto Todros.

Ma decisivo fu soprattutto il ruolo del movimento dei lavoratori, nelle sue espressioni sindacali e in quelle politiche.

Voglio ricordare soprattutto l’autunno del 1969, che fu certamente il momento più alto dello scontro sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra (allora espresse dall’ala della sinistra del Psi che faceva capo a Riccardo Lombardi). Era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci.

Il ruolo delle forze sociali è stato riconosciuto, tra gli altri, dallo storico Paul Ginsborg. In quegli anni, scrive, «le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centrosinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio».

E voglio ricordare che un ruolo essenziale nel raggiungere i risultati (al di là delle cause legate alle trasformazioni della struttura economica e alla politica internazionale) fu il fatto che la spinta delle rivendicazioni sociali trovava la sponda delle istituzioni, tramite partiti politici che erano ancora – secondo quanto detta la Costituzione – i canali attraverso i quali i cittadini potevano «concorrere con metodo democratico ala politica nazionale».

I risultati

Non voglio dilungarmi troppo. Mi limito a ricordare alcune delle maggiori trasformazioni che ebbero un riflesso concreto sul diritto – più precisamente, sulla norma – anche se, malauguratamente, non ebbero il tempo sufficiente per tradursi nei fatti in modo adeguato.

Nel campo del nostro interesse di urbanisti e studiosi della città ricordiamo che:

Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia

- la generalizzazione della pianificazione urbanistica,

- il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,

- l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.

Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), del 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), del 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), del 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità:

- di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,

- di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,

- di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.

E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni 80, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi, secondo il quale la definizione normativa delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto.

Ma usciamo dal nostro stretto campo, per comprendere meglio. E ricordiamo che in quegli stessi decenni, sincronicamente e per merito degli stessi soggetti, culture, movimenti, si ottennero altre grandi conquiste sul terreno dei diritti sociali, strettamente collegati alla condizioni urbana.

Ricordiamo:

- lo statuto dei diritti dei lavoratori,

- la scala mobile,

- il servizio sanitario nazionale,

- la libertà per le donne di interrompere la gravidanza e

- la libertà per tutti di divorziare,

- l’istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato,

- il tempo pieno nella scuola elementare,

- il voto ai diciottenni

- l’estensione della democrazia, nelle istituzioni, nella scuola e nelle fabbriche.

SINTOMI E RAGIONI DELLA RINASCITA

DEL “DIRITTO ALLA CITTÀ”

La svolta

Il mondo è molto cambiato dagli anni nei quali il “diritto alla città” si tradusse da rivendicazione a sistema di norme. Gli storici concordano ormai sugli anni in cui va collocata la svolta, e sul nome della fase che da allora è cominciata. In Italia si colloca nella metà degli anni 80 del secolo scorso, e segue di pochi anni quella iniziata con le presidenze di Ronald Reagan e di Margaret Tatcher (cui David Harvey accompagna, come terzo e quarto cavaliere dell’apocalisse, Pinochet e Deng Tsao Ping). Il mondo cambia giro. Inizia la fase di quello che in Italia si chiama Neoliberismo, e nel resto del mondo Neoliberalism. Una fase del tutto nuova del sistema capitalismo; quella che nel suo recente libro Luciano Gallino definisce – secondo me con grande precisione – Finanzcapitalismo.

Dall’economia delle cose si passa all’economia della carta. Il Denaro non è più un mezzo per comprare Merci e produrre più Merci, ma è il Denaro in sé che diventa il fine: trasformare il Denaro in più Denaro producendo Merci o – sempre più largamente – trasformando Beni comuni in Merci per produrre sempre più Denaro.

É una mutazione totale dell’economia capitalistica. Che trascina con sé una mutazione profonda della società, dell’uomo – e naturalmente anche della città e del modo in cui si svolge il mestiere dell’urbanista.

Vediamo alcuni aspetti generali di questa mutazione. Dall’equilibrio tra privato e pubblico (e tra individuale e collettivo) si è passati al dominio del privato e dell’individuale. Dal ruolo del mercato come strumento di definizione dei prezzi delle merci si è passati al Mercato come dominus indiscusso d’ogni decisione (e a un “mercato” il quale, come abbiamo appreso nella crisi recente, è composto da 25 soggetti che decidono sui destini del mondo intero). La politica è diventata un’ancella dell’economia data, si è schiacciata su di essa.

Le conseguenze della svolta neoliberista sulla città (sull’habitat dell’uomo) sono state devastanti. Voglio sottolinearne tre aspetti a mio parere più significativi.

Dal pubblico al privato

Innanzitutto è pofondamente colpito il carattere pubblico, comune, collettivo della città nel suo insieme.

Nella nostra storia quel carattere era stato ritenuto raggiungibile mediante l’affermazione di un principio (il diritto/dovere della collettività di decidere l’uso del suolo e le trasformazioni urbane) raggiungibile mediante due strumenti:

- lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire),

- lo strumento di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa, promossa e garantita da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Oggi si sostituisce di fatto la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non presenti testimonianze molteplici di questa nuova prassi di “urbanistica contrattata”.

Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Ma il primo passo era stato compiuto quando si erano inventati quegli strumenti urbanistici anomali (programmi complessi, programmi integrati, e poi tutte le sigle immaginabili) che consentivano a un accordo stipulato tra amministratore e proprietario di derogare alla pianificazione ordinaria – soggetta a una procedura di larga evidenza pubblica.

E un passo successivo era stato effettuato quando, con il PRG di Roma redatto e approvato da amministrazioni di sinistra, con consulenti di sinistra, si inventarono presunti “diritti edificatori” (fino ad allora sconosciuti al diritto e ai giuristi), che avrebbero comportato l’obbligo del pagamento di pesanti indennizzi a un comune che avesse voluto ridurre, motivatamente, l’edificabilità sul suo territorio concessa da un piano regolatore troppo permissivo.

Il trionfo della rendita

La condizione grazie alla quale il governo pubblico poteva esercitare il suo diritto /dovere di regolare le trasformazioni dell’habitat dell’uomo era considerato – nei regimi liberali prima ancora che in quelli socialdemocratici e socialisti - la capacità del governo pubblico di ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia) sulle decisioni e sui costi della trasformazione della città, e di trasferirne l‘incremento dal privato al pubblico, per reinvestirlo nel miglioramento delle funzioni urbane.

In Italia, agli inizi degli anni 70 la necessità di contenere i grandi plusvalori della rendita immobiliare era così largamente condivisa che la stessa Confindustria dichiarava di sostenere una riforma urbanistica che, contenendo la rendita, avrebbe garantito buoni profitti senza colpire i salari.

Ma le cose cambiarono rapidamente. Gli stessi gruppi industriali che avevano criticato la rendita trovarono comodo appropriarsene, intrecciare sempre più profondamente rendita e profitto, e anzi spostare la loro attenzione dalle attività industriali a quelle immobiliari

Il percorso iniziò negli anni delle grandi trasformazioni del sistema produttivo (dalla manifattura al terziario), per svilupparsi fino ai nostri anni. La finanziarizzazione dell’economia aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio.

All’inizio degli anni 90 l’esplodere della bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si aprì la fase che Walter Tocci definisce della “rendita pura”: la fase in cui si celebra il trionfo della rendita immobiliare, diventata (insieme a quella finanziaria) il fine dell’intero sistema economico.

Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno introdotto significativi cambiamenti nelle loro politiche. Aiutate, e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno proceduto allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti .

Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.

Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio.

Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.

Rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso. E perché troppo stesso gli urbanisti abbiano trasformato il loro ruolo da quello di servitori dell’interesse collettivo a facilitatori dei progetti immobiliari.

Lo spazio pubblico

Un altro aspetto emblematico – il terzo - di quella che definisco “la città della rendita” è la progressiva riduzione e mistificazione dello spazio pubblico.

Gli spazi pubblici sono l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi dell’attuale crisi della città è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.

Sono rischi che non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia):

- la recinzione mentre la piazza è aperta,

- la sicurezza mentre la piazza è avventura,

- l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità,

- la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini,

- la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.

E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza della previsione e progettazione di spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città.

I diritti nella città del neoliberismo

In sintesi possiamo dire che l’elemento che caratterizza la condizione urbana nella città del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.

Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un’edificio abbandonato.

Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimenti in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo (componenti della “infrastruttura globale”) e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.

E le stesse opere d’interesse generale e sovra-locale (le ferrovie e i porti, gli ospedali e le dighe, e tutte le attrezzature a grande scala) non vengono definite, collocate, progettate, gestite finalizzandole agli interessi collettivi che devono soddisfare, non sono inquadrate perciò in una visione sistemica del territorio, non rispettano quindi della priorità della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale de territorio, ma tengono conto di un solo requisito: la quantità di danaro che possono far circolare, gli affari che possono consentire, gli arricchimenti che possono produrre nei patrimoni dei soggetti che le promuovono o le realizzano.

Un filo di speranza

La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata a un filo molto tenue. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi diinsofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.

Mi riferisco al variegato complesso dei movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Sono fragili, discontinui, limitati dal volontarismo che li caratterizza, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti.

- Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità.

- La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche.

- Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti

- Le difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro.

- La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale.

- La mercificazione (con le tre tappe della privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione) di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.

- I diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.

Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione raccontata da don Lorenzo Milani di cui vi ho parlato.

Un nuovo “diritto alla città”

É ormai ricca la letteratura che riprende questa espressione. Si sono occupati dell’argomento, sviluppando l’originaria analisi di Lefebvre, David Harvey, John Friedmann, Don Mitchell, Susann Parnell, Edgard Pieterse, e molti altri. Sono anche numerosi i tentativi di mettere in rete le mille esperienze che in tutto il mondo si stanno sviluppando, inquadrandole nel dibattito teorico. La letteratura e numerose eperienze sono raccolte in un libro in corso di pubblicazione a Bruxelles (The right to the city. The city as common good. Between social politics and urban planning, a cura di Ilaria Boniburini et al., «Cahier de La Cambre Bruxelles», La Lettre volée, 2012).

La luce che si vede, attraverso i rottami della crisi, è che sta emergendo la rivendicazione di un nuovo diritto alla citta, che comprende quelli delle rivendicazioni del secolo scorso, le integra e arricchisce con nuove rivendicazioni.

La nuova idea di città che sta emergendo è esprimibile in un’espressione semplice e semplicemente comprensibile, a un concetto al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato: occorre che la città, e anzi l’intero habitat dell’uomo, sia considerato un bene comune.

Ma su questo, magari riprenderemo il discorso in un’altra occasione.

Per scaricare il lin al testo audiovisivo del seminario

"L’Aquila, una Pompei del XI secolo", Intervista rilasciata a l’Aquila il 23 marzo 2012, aquilatv.it. Anche in eddyburg

IL SIGNIFICATO DEL PATRIMONIO CULTURALE E PAESAGGISTICO FINO ALLE RECENTI MODIFICHE NORMATIVE DEL CODICE DEI B.C.

Sintesi: Acquisizioni culturali, progressi della legislazione e tradimenti del pensare e del fare, dalla legge di Benedetto Croce (1922) all’ultima versione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2008). Interpretate da un urbanista.

ALCUNE PAROLE PER COMINCIARE

Le parole

Importanza delle parole e necessità di valutarle nel loro contesto semantico, storico e normativo.

Comincio a ragionare partendo da due espressioni, che trovo nei titoli rispettivamente del nostro convegno (Tutela e valorizzazione del paesaggio) e della mia relazione (Patrimonio culturale e paesaggio)

Valorizzazione

Questo termine ha, nella pratica sociale, un significato ambiguo: anzi, viene adoperato in due accezioni sostanzialmente alternative.

Da un lato, di parla di “valorizzazione” come trasformazione/gestione di qualcosa al fine di ricavarne un vantaggio economico. Quindi, in un’economia “di mercato”, equivale (o addirittura comporta) la riduzione di elementi (e, nel caso specifico dei beni culturali) a merci. È un’interpretazione che mette l’accento sullo sfruttamento economico anziché sulla qualità del bene.

Dall’altro lato, si può parlare di valorizzazione come “messa in valore”, evidenziazione, disvelamento e accrescimento delle qualità proprie del bene. Si può porre insomma l’accento sulla necessità di scoprire, di tutelare e di porre in giusta evidenza il valore intrinsecamente già presente nel bene, prioritariamente rispetto a qualsiasi obiettivo economico.

Nel linguaggio corrente prevale la prima accezione. Ed è palesemente a questa che si fa riferimento in tutto il dibattito attorno al paesaggio e alla sua tutela: a partire dalla nuova stesura del Titolo V della Costituzione, il quale attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” e alla legislazione concorrente tra Stato e Regione la “valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali” (articolo 3 lex cost 3/1981).

Scrive Salvatore Settis. «La “valorizzazione” è stata sempre più spesso intesa (a destra come a sinistra) in un senso meramente o prevalentemente economico: per “valorizzare” un palazzo che c’è meglio che venderlo? E per “valorizzare” un paesaggio che c’è di meglio che lottizzarlo?»

Patrimonio

Vorrei sottolineare la profonda differenza che c’è tra il termine “patrimonio” e il termine “risorsa”. Il primo esprime qualcosa che deriva dai nostri padri, e abbiamo il dovere di lasciare ai nostri eredi, accresciuto e migliorato e non degradato. Risorsa qualcosa che può (anzi, tendenzialmente deve) essere trasformata anche ad aaltro da sé: anche distrutta, se serve a uno scopo che nella considerazione sociale vale di più. Risorsa è un termine molto vicino a giacimento, espressione che chi si occupa di beni culturali e paesaggio ha cominciato ad odiare quando è stato adoperato da un ministro del governo Craxi, Gianni De Michelis, proprio per lanciare la “valorizzazione” delle nostre ricchezze, dei nostri patrimoni. Un patrimonio non si dissipa, una risorsa si può anche distruggere.

UN SECOLO DI ARRICCHIMENTI E TRADIMENTI

Proseguo con un molto sintetico excursus delle acquisizioni e delle perdite lungo il percorso dei 100 anni passati

1922 La legge Croce

La necessità di proteggere il paesaggio cominciò ad acquistare rilevanza istituzionale, in Italia, nei primissimi decenni del secolo corso. Mi sembra di poter dire che in una prima fase, che ha caratterizzato l’intera prima metà del XX secolo, ha prevalso una visione aristocratica del paesaggio in due sensi. (1) La consapevolezza del “valore” del paesaggio era percepita esclusivamente dalle aristocrazie culturali e politiche, dai “ceti alti” della cultura e del reddito. (2) Il “valore” del paesaggio era individuato solo nella sua qualità estetica, e i luoghi da tutelare erano i “bei paesaggi”.

Una intuizione che andava al di là di questa concezione può dirsi quella espressa da un ministro della Pubblica Istruzione che si chiamava Benedetto Croce. Questi introdusse per la prima volta il nesso tra paesaggio e identità di un territorio.

Il filosofo napoletano, quale ministro per la Pubblica istruzione nell’ultimo ministero Giolitti, scrive nel 1920:

«Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteri-stica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo» . È interessante rilevare che è dall’ambito di una visione estetica (la quale oggi ci appare limitata) del paesaggio che nasce, in Italia, l’esigenza della tutela e la sua interpretazione in funzione dell’identità nazionale. E la responsabilità di questa tutela non può che appartenere allo Stato, espressione della collettività nazionale.

1939 La legge Bottai

È su questa stessa linea che si collocano le leggi Bottai del 1939, introducendo alcuni elementi di novità per quanto riguarda soprattutto la strumentazione.

La prima normativa di carattere generale per la tutela del paesaggio è costituita dalla legge 29 giugno 1939 n. 1497, i cui principi e strumenti sono ancora operanti nella gestione dei vincoli paesistici del territorio italiano.

Il punto di vista della legge, la ragione per la quale essa prescrive la tutela delle “bellezze naturali”, è primariamente quello estetico e vedutistico. Ma accanto a questo al legislatore non sfuggono altri significati: quello scientifico (le singolarità geologiche), e quello legato alla fruizione (“punti di vista o di belvedere aperti al pubblico”).

I beni vengono tutelati in due modi. Si può inserire il bene o il complesso di beni che si vogliono tutelare in un apposito elenco, debitamente reso pubblico. Oppure, si può formare un “piano territoriale paesistico”, il quale detta norme alle quali qualsiasi intervento nella zona tutelata deve attenersi.

Accanto a un vincolo puramente procedimentale, il legislatore già nel 1939 - prima ancora, dunque, della legge urbanistica - aveva previsto la possibilità di tutelare i beni di rilievo paesaggistico mediante un piano.

1947 La Costituzione

Nella Costituzione della Repubblica italiana (1948) la tutela del paesaggio entra tra i massimi principi del nostro ordinamento. Il testo dell’articolo 9 della Costituzione è il seguente: «la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

La lettura dei verbali dell’Assemblea costituente rivela come la discussione sia stata ampia e impegnata, come sia stata significativamente approfondito l’esame del contenuto del paesaggio, del significato del termine “tutela” e del ruolo delle istituzioni. Settis nel suo ultimo libro ne dà ampiamente ragione. Tra i vari punti in discussione nella Costituente mi sembra di particolare interesse la questione della competenza della tutela. Già appariva la tensione tra un principio centralista e un principio regionalista. I membri della Costituente stavano lavorando contemporaneamente, in altre sale, sul tema regionalismo. E si cercava un equilibrio tra le istanze stataliste e quelle regionalista.

È interessante rilevare come un significativo passaggio di responsabilità sia avvenuto per merito di un autorevolissimo costituente sardo, Emilio Lussu. Si sta discutendo sulla sostituzione del termine “protezione” col termine “tutela”.

Il costituente Codignola, nell'illustrarlo , precisa che «si tratta di garantire allo Stato che il patrimonio artistico del Paese sia sotto la sua tutela, resti cioè vincolato allo Stato», e che «patrimonio artistico non significa soltanto i monumenti artistici e storici, poiché comprende [... ] l'insieme degli oggetti e dei beni di valore artistico e storico». Sottolinea inoltre di ritenere necessaria «una garanzia anche rispetto al previsto ordinamento regionale», giacché quest'ultimo «se esteso a certe materie, tra cui anche quella delle belle arti, può diventare un esperimento molto pericoloso», per cui occorre, «proprio prima di votare la questione delle autonomie regionali», stabilire «il principio che l'intero patrimonio artistico, culturale e storico del nostro Paese […] sia sottoposto alla tutela e non alla protezione dello Stato».

Interviene Emilio Lussu che dichiara di aderire totalmente all'emendamento di Codignola e propone di sostituire il termine "Stato" con il termine "Repubblica". Viste anche le note convinzioni di Lussu, la proposta non può che leggersi alla luce dell'asserzione, già presente nel progetto di Costituzione elaborato dal Comitato di redazione, per cui «la Repubblica si riparte in Regioni e Comuni». Con la proposta sostituzione di termini, cioè, si vuole non già traslare i compiti della "tutela" dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, ma certamente istituire la possibilità di competenze concorrenti.

Qui voglio accennare a un’altra parola ambigua. Concorrere: è una parola che ha due significati che nella prassi sono addirittura antitetici. Concorrere può significare correre insieme gareggiando l’uno contro l’altro, cioè competere, oppure correre insieme aiutandosi l’uno con l’altro, cioè co-operare. Mi sembra che la competizione sia riconosciuta oggi come un requisito indispensabile nell’ideologia corrente, mentre al significato co-operativo era quello preconizzato dai padri costituenti.

1956 La Corte costituzionale

I vincoli di tutela incidono ovviamente sulla disponibilità della proprietà degli oggetti territoriali (edifici o aree che siano) individuati dai provvedimenti amministrativi previsti dalle leggi. Tali vincoli devono essere indennizzati o meno? La questione è stata a lungo discussa, e pacificamente risolta dalla Corte costituzionale fin dal 1968, con una sentenza (la n. 56) che fu messa in ombra dalla contemporanea sentenza (la n. 55) la quale invece dichiarava l’illegittimità costituzionale della non indennizzabilità dei vincoli cosiddetti “urbanistici” o “funzionali”.

La questione meriterebbe di essere approfondita. Mi limiterò in questa sede a ricordare che per la Corte costituzionale, mentre sono di natura “espropriativa”, e perciò illegittimi se non indennizzati, i vincoli funzionali (sentenza n. 55), sono invece legittimi i vincoli di inedificabilità per la tutela del paesaggi (sentenza n. 56).

Ma ciò avviene a una precisa condizione: che il vincolo riguardi tutti i beni appartenenti a definite “categorie a confine certo”: dove per confine ovviamente non si intende un perimetro territoriale, ma una categoria concettuale.

Così, la sentenza costituzionale n. 179 del 1999, riepilogando le precedenti sentenze, ricorda che non sono indennizzabili “i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, "in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge".

1985 La legge Galasso

La legge Galasso riprende la questione tenendo il massimo conto delle sen-tenze costituzionali del 1968. L’imposizione del vincolo paesaggistico avviene su aree individuate attraverso la definizione di categorie di beni a confine certo. Questa categorie di beni sono definite in ragione della loro singolarità geologica (rilievi, vulcani, ghiacciai, coste ecc.) o ecologica (zone umide, parchi, riserve naturali ecc.) oppure in virtù della loro capacità di testimoniare le trasformazioni dell’ambiente ad opera dell’uomo (argini, zone archeologiche, ville e giardini ecc.), o, infine, per la loro appartenenza a determinati soggetti (aree assegnate alle università agrarie).

Si tratta di una tutela del paesaggio che non riguarda più soltanto beni di esclusiva rilevanza estetica (bellezze naturali) o culturale (singolarità geologiche, beni rari o di interesse scientifico o di valore tradizionale) bensì beni che costituiscono elementi caratterizzanti la struttura morfologica del territorio nazionale, siano essi naturali o effetto dell’attività umana.

Rispetto alla legge del 1939, è mutata la concezione, e quindi la specificità del “notevole interesse pubblico” protetto dall’ordinamento. Non più e non solo beni individuati come singoli o come complessi, ma tutela dell’ambiente come patrimonio collettivo, come segno e testimonianza della nostra cultura.

Il paesaggio, viene così inteso e protetto per elementi territoriali «che segnano le grandi linee di articolazione del suolo e delle coste», come bene ambientale che però «non annulla, ma supera, non nega ma integra quello originario di bellezza naturale» .

Anche la scelta del legislatore, di aver inserito tutti i beni elencati dalla legge in questione, nell’articolo 82 del Dpr. 616/1977 e non più nell’articolo 1 della legge n. 1497, fa intendere il distacco dalla impostazione tradizionale, acco-gliendo invece (Zaccardi) «una nozione di tutela paesaggistica diversa e desunta da alcune impostazioni dottrinarie secondo cui il paesaggio è una nozione che va ben oltre la tutela della bellezza naturale» .

I meriti della legge non consistono peraltro solo nell’aver aperto una fase di più progredita salvaguardia dei connotati essenziali del territorio italiano, ri-prendendo l’intuizione del paesaggio come elemento caratterizzante l’identità nazionale: sono anche nell’aver introdotto una sostanziale innovazione nei modi della tutela e nella pianificazione territoriale e ur-banistica. La legge non ha abrogato la vecchia legge del 1939 e non ha quindi eliminato la possibilità di vincolare certi beni col sistema tradizionale della individuazione attraverso “elenchi”, ma ha individuato direttamente talune categorie di beni da salvaguardare, in al modo facendo derivare il vincolo paesaggistico immediatamente dalla semplice previsione legislativa .

La legge enuncia l’obbligo delle regioni di procedere all’approvazione del piano paesistico relativamente ai beni e alle aree sopraccitate. Questo è l’aspetto più innovativo della nuova disciplina: il vincolo non è più fine a se stesso, ma è la premessa della necessaria pianificazione paesistica-territoriale.

I beni direttamente vincolati dalla legge, dovranno essere identificati in via amministrativa e provvisti, a cura delle Regioni, di una «specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale» (sottolineo: valorizzazione ambientale, non economica), mediante la redazione di «piani paesistici o piani urbanistico-territoriali aventi specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali».

La legge non fa riferimento solo ai piani paesistici, ma anche a “piani urbani-stico-territoriali aventi specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Non solo piani volti esclusivamente alla tutela del paesaggio (sia pure nel senso nuovo implicito nella legge 431/1985), le regioni possono adempiere al dettato della legge, e tutelare il paesaggio anche con gli strumenti ordinari della pianificazione. Purché (la sottolineatura non è irrilevante) quella pianificazione ordinaria abbia “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.

È la pianificazione nel suo complesso, ad ogni livello, che deve insomma farsi carico della tutela del paesaggio e dell’ambiente. E se ne deve far carico ad ogni livello: mentre la pianificazione regionale individua gli elementi rilevanti a quel livello, quella provinciale e quella comunale approfondiscono e specificano via via individuando gli elementi percepibili al loro livello.

1985-1990 La Corte Costituzionale

La Corte costituzionale aveva riconosciuto la piena legittimità di quel dispositivo della legge Galasso. Non solo. In più occasioni aveva dichiarato necessario che l’individuazione dei beni e la definizione delle regole per la loro tutela proseguisse sistematicamente: la legge, ha affermato la Corte, «introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale» .

Essa non si esaurisce nell’individuare le grandi componenti del paesaggio nazionale, ma deve prolungarsi nell’azione “assidua” non solo nel nel tempo, ma anche nello spazio. Nell’azione insomma di tutte le istituzioni della Repubblica, riprendendo cosè l’antica intuizione dell’Assemblea costituente: l’azione tutelatrice anche delle regioni, le province, i comuni.

Nelle stesse occasioni la Corte aveva riconosciuto come, in conformità con l’articolo 9 della Costituzione, le scelte relative alla tutela del paesaggio avessero assoluta prevalenza rispetto a quelle concernenti altri interessi, esigenze, motivazioni: esse sono un prius rispetto alle decisioni di trasformazione. La pianificazione paesaggistica, o la componente paesaggistica della pianificazione territoriale e urbanistica, deve precedere le componenti che attribuiscono al territorio capacità di “sviluppo urbanistico (orrenda espressione)”, cioè che prevedono la realizzazione di infrastruttu-re, urbanizzazioni, edificazioni.

2001 Le modifiche al titolo V della Costituzione

Alle soglie del nuovo millennio si andava già nella direzione di uno slabbra-mento dell’ordinamento statale delineato dalla Costituzione.

Nella speranza di mettere le braghe al federalismo della Lega di Bossi si varò la modifica del Titolo V. Solo con grande fatica si riuscì allora a evitare l’introduzione nella nostra carta costituzionale di alcune innovazioni (o restaurazioni) molto preoccupanti per l’assetto del territorio, quali l’attribuzione di competenze legislative esclusiva all’uno o all’altro dei poteri legislativi. Dimenticando il carattere cooperativo della con-correnza, si preferì comunque il ritaglio delle competenze. Si introdusse la separazione tra tutela e valorizzazione. Ciò che ha significato accentuare il carattere me-ramente economico della valorizzazione e rompere l’eguaglianza di principio tra Stato e Regione.

2000-2006 La convenzione europea

Secondo la Convenzione europea del paesaggio , il paesaggio è «una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni»; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio «costituisce una risorsa favorevole all’attività economica» e «può contribuire alla creazione di posti di lavoro».

Entrambi gli enunciati suddetti hanno sollevato discussioni e critiche.

La sottolineature del “valore economico” del paesaggio è sembrato a molti (a partire da chi v parla) molto rischiosa dato il contesto nel quale oggi operiamo. La prevalenza della dimensione economica su ogni altra dimensione dell’agire umano e sociale è un incontestabile dato di fatto, e la sua negatività è stata messa ripetutamente in luce. Ciò soprattutto in una fase e in un’area storico-geografica nella quale la riduzione d’ogni bene a merce, la privatizzazione e mercificazione dei beni comuni, l’appiattimento d’ogni interesse a quello individuale appaiono dominanti.

Il riferimento della definizione stessa del paesaggio alla sue percezione da parte delle popolazioni è stato oggetto di ampie discussioni le quali, sia pure partendo da preoccupazioni diverse, impongono tutte distinzioni e cautele.

Così, ad esempio, secondo Vezio De Lucia

«la subordinazione del valore paesaggistico alle percezioni dei cittadini direttamente interessati a eventuali trasformazioni e, ancor più, la funzionalizzazione del paesaggio allo sviluppo economico sono obiettivi evidentemente in contrasto con l’assunzione della tutela del paesaggio fra i principi della Costituzione repubblicana (art. 9) e con la tradizione della legislazione e delle politiche di settore. Insomma, almeno in teoria, nel nostro paese il paesaggio è sempre stato inteso come un valore in sé, svincolato da ogni subordinazione, soprattutto dalle convenienze locali, e quest’impianto concettuale è opportunamente ricordato in ogni occasione di dibattito su attentati alla bellezza del territorio» .

Parte invece da un giudizio positivo sulla convenzione un altro urbanista, Al-berto Magnaghi, per approdare a considerazioni anch’esse – seppur diversa-mente – critiche. Secondo Magnaghi «la Convenzione europea del paesaggio apre la strada allo sviluppo della coscienza di luogo: dar voce alla percezione sociale del paesaggio e dei suoi valori da parte delle popolazioni attraverso processi partecipativi».

Tuttavia, prosegue Magnaghi, si deve tener conto del fatto che: «la designazione di paesaggio come “determinata parte del territorio cosi come è percepita dalle popolazioni “, è un processo e non un dato; non si dà nei territori locali una identificazione stretta fra popolazioni e luoghi: […] “abitanti” significa abitanti “locali” ma anche nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users, presenze multietniche, giovani, anziani, ecc.».

La pianificazione non può quindi ridursi, prosegue Magnaghi, alla «semplice registrazione di una “percezione” data, ma un processo euristico di decodificazione e ricostruzione di significati, attraverso l’apprendimento collettivo del paesaggio come bene comune, facendo interagire saperi esperti e saperi contestuali per il riconoscimento da parte dei diversi attori dei valori patrimoniali e per innescare patti per la cura e la valorizzazione del patrimonio. Non si da infatti la gestione di un paesaggio come bene comune se è il risultato di una somma di azioni individuali dettate da interessi particolari. E’ necessario un processo partecipativo che avvii una trasformazione culturale di riconoscimento condiviso dei beni comuni per agire le trasformazioni del paesaggio e la fruibilità collettiva di beni in via di privatizzazione: il paesaggio agrario, le coste, gli spazi pubblici delle città, i fiumi, le foreste» .

E se – per concudere su questo punto - la percezione del paesaggio non è il punto di partenza, ma l’obiettivo d’un ”processo euristico”, di un percorso aperto da costruire per ipotesi e tentativi progressivamente modificati e aggiustati, allora è evidente che occorre operare sia sul versante della maturazione della consapevolezza di chi vive il paesaggio a distanza più ravvicinata, sia con l’azione tendente a salvaguardare, “dall’alto” delle istitu-zioni, la permanenza nel tempo delle componenti essenziali del patrimonio paesaggistico. Ciò con una pianificazione che abbia nella tutela delle qualità del territorio (della sua integrità fisica e della sua identità culturale) la sua decisione prioritaria e condizionante, e con le altre forme di tutela e di vincolo quando questa garanzia non sia ancora raggiunta.

2004-2008 Il codice dei B.C. e del paesaggio

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, nelle sue successive edizioni, ha ripreso integralmente la disciplina della legge Galasso, introducendo alcuni ulteriori elementi: tra questi, vorrei segnalare

- l’individuazione – come oggetti della pianificazione paesaggistica - degli «ambiti di paesaggio», accanto alle «categorie di beni a confine certo

- la co-pianificazione, ossia la condivisione (con-correnza in senso co-operativo) tra Stato e Regione nella pianificazione paesaggistica

- la ripresa dell’impegno dello Stato a definire le «linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale».

Gli “ambiti” non sono precisamente definiti dalla legge, e anzi il loro ruolo si è ridotto nelle successive versioni del Codice. Nella sostanza essi fanno tuttavia riferimento a un criterio di analisi e trattamento del paesaggio aaggiuntivo a quello dell’individuazione e regolamentazione dellle grandi componenti (le “categorie a confini certi”): un criterio che pone l’accento sulla specificità di ogni contesto territoriale, e allo stretto intreccio tra le varie componenti del paesaggio e tra queste e la società che li ha prodotti e che li utilizza.

La “co-pianificazione” avrebbe voluto e potuto essere lo strumento mediante il quale avviare il processo di “assidua riconsiderazione” tutelatrice del paesaggio nazionale mediante la coopperazzione tecnica dei due principali soggetti istituzionali prepost alla sua “tutela e valorizzazione”.

La ripresa del dettato del Dpr 616/1977, sul “lineamenti fondamentali del’assetto territoriale nazionele”, avrebbe consentito di partire dal paesaggio per raggiungere una ricomposizione dei mille conflitti d’uso e di prospettiva che affliggono la comunità nazionale (pensiamo solo a quella tra grandi infrastrutture da un lato, e paesaggio e ambiente dall’altro)

I limiti e gli errori

Possiamo dire che, in Italia, nell’elaborazione culturale e legislativa che si svolta nel corso di un secolo (ma che ha le sue radici nell’Italia preunitaria), si è raggiunta con la legge del 1985 e quella del 2008 un quadro di principi, di procedure e di strumenti che avrebbero potuto consentire una effettiva ed efficace utela delle qualità del Belpaese. Tuttavia, vediamo con i nostri occhi che non è così. É inutile in questa sede che mi dilunghi a illustrare questo punto. Mi domando però: perché ciò è accaduto?

Ho fatto più volte riferimento al clima generale nel quale siamo immersi (in Italia e nel mondo); alla grande svolta – a mio parere negativa – che si è aperta negli anni 80 del secolo scorso. Ma non è neppure su questo che voglio in questa sede insistere.

Ci sono errori e limiti della cultura politica tipicamente italiani: sappiamo fare buone leggi, ma non siamo capaci (o non vogliamo) mettere a punto gli strumenti amministrativi e operativi capaci di gestirle: l’intendenza non segue. E ci sono errori nelle stesse leggi. Vorrei segnalarne uno a questo proposito, proprio dalle modifiche introdotte nel 2008 al Codice del paesaggio.

Mi riferisco all’articolo 135, comma 1. Nelle precedenti stesure del Codice il piano paesaggistico elaborato congiuntamente da Stato e Regioni si estendeva all’intero territorio regionale. Il testo ora vigente assume invece come area di piano quella limitata ai “beni paesaggistici”, e cioè agli immobili vincolati a norma delle leggi del 1939, alle categorie della legge Galasso e alle loro integrazioni.

Questa decisione è assolutamente controcorrente rispetto al percorso che ho potuto finora delineare. Scompare l’unitarietà del paesaggio. Scompare la posizione di pariteticità tra Stato e Regione: il primo deve limitare la sua presenza al recinto dei beni già individuati la Regione no. É la logica dei “parchi” e dei “preparchi”: all’interno tutto è tutelato, attorno si può insediare tutto ciò che di quel siito tutelato può godere. Nel recinto la “tutela”, fuori la “valorizzazione” – con ciò che questa oggi, e in Italia, significa. Scompare la “assidua riconsiderazione del territorio nazionale” nella sua multiscalarità che la Corte aveva giudicato essenziale al rispetto del dettato costituzionale.

Più ampie e generali le preoccupazioni che nascono se si valuta nel suo complesso l’attuazione delle leggi per la tutela del paesaggio. Le ha puntualizzate in un documento di un anno fa l’associazione Italia Nostra, con un lavoro a tappeto, coordinato da Maria Pia Guermandi .

Partiamo dalle Regioni. Una sola dispone di un piano paesaggistico compiuto: la Sardegna . Ma siamo ancora lontani dall’adeguamento della pianificazione comunale a quella statale/regionale, e quindi alla dispiegata efficacia delle procedure del codice. La tutela dello Stato è ancora imperiosamente necessaria.

Del resto, con l’eccezione della Sardegna «i piani paesaggistici elaborati dalle regioni possiedono solo raramente elementi prescrittivi e una definizione chiara di procedure e regole atte a regolamentare l’uso del territorio e a delimitare senza ambiguità le aree tutelate e i diversi livelli di tutela. […] In generale, la disciplina del paesaggio rimane invischiata nel sistema della pianificazione territoriale ordinaria dove comanda sempre il livello comunale, al quale è riconosciuta, un’autonomia ampia, quando non amplissima, mentre a livello regionale generalizzata è la rinuncia a operazioni di strategia territoriale su area vasta».

Né le cose vanno meglio a livello statale. Non solo le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio, «sono restate finora una pura dichiarazione d’intenti». A mancare, «a livello centrale, è anche l’elaborazione di un quadro univoco di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, solo, potrebbe consentire una reale omogeneità di obiettivi e di risultati, mentre ugualmente relegata alla dimensione della ipotesi futuribile sembra l’organizzazione sul territorio di un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati».


Il rapporto di Italia nostra attribuisce una particolare negatività a un orienta-mento che l’associazione individua nell’ambito della politica ministeriale, ma che a mio parere ha una portata molto più generale. Si tratta della tendenza «ad oscurare il carattere di prevalenza e preminenza della tutela del paesaggio rispetto ad ogni altro interesse pubblico, pur eretto limpidamente a valore primario dalla disciplina costituzionale, per sostituirlo con un ben più accomodante ‘contemperamento’ fra la salvaguardia di tali valori e la esigenze della libera attività imprenditoriale anche laddove quest’ultima comporta pesanti interventi di trasformazione del territorio».

ALTRE PAROLE PER CONCLUDERE

Concludo ragionando brevemente su un ulteriore gruppo di parole spesso ambigue, fuorvianti, e non di rado adoperate per forzare il contesto.

Sviluppo

Sviluppo è un termine ambiguo. Per meglio dire, è adoperato in modi diversi, e assume diversi significati. È un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia.

Ma nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa da molti decenni unicamente crescita quantitativa dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità reale.

Vincolo

Vincolo, invece, è un termine screditato. Nessuno osa più difendere il vincolo. Vincolo è oggi solo un impaccio da cui occorre liberarsi. Ma che cosa si intende per vincolo, a proposito del territorio?

Per “vincolo” il linguaggio corrente considera qualunque utilizzazione del suolo che non preveda la sua trasformazione profonda, la sua sottrazione a un uso in qualche modo legato alla natura e alla storia, la sua laterizzazione. É vincolato un territorio sottratto al bosco, all’agricoltura, alla landa o al prato, alle acque correnti o a quelle immobili e stagnanti, al pascolo e all’uso degli animali, all’agricoltura.

Criticare e cbtestare questa concezone non significa dire che occorra sempre vincolare, cioè sottoporre alla rigida conservazione. Il problema non è quello di affermare “qui si conserva tutto quello che c’è”, “qui nessuna tra-sformazione è consentita”. E non è neppure quello di individuare alcune aree nelle quale quelle due parole, conservazione e vincolo, devono essere le uniche che valgono, recintarle e abbandonare tutto il testo alla trasformazione scriteriata.

La vicenda della legislazione di tutela del paesaggio ci racconta qual è la soluzione ragionevole.

Tutto il territorio è intriso di qualità: naturali, storiche, culturali. Queste qualità sono il prodotto della collaborazione tra natura e storia. In ogni brandello del territorio ci sono elementi da conservare ed elementi suscettibili (o bisognosi) d’essere trasformati. Anche un bosco richiede l’abbattimento di certi suoi alberi e il diradamento di certe sue essenze, e anche la necropoli richiede la manutenzione dei suoi elementi (quindi la trasformazione di ciò che gli eventi del tempo, se lasciati soli, provocherebbero). Anche l’edilizia storica, per rimanere viva, richiede trasformazioni, che siano però coerenti con le regole che hanno guidato nei secoli la sua formazione e le sue trasformazioni organiche.

Una cosa è importante stabilire senza equivoci. Le esigenze della tutela delle qualità (naturali, storiche, culturali) di ogni porzione di territorio hanno la priorità – in termini di valori, in termini di utilizzazioni, in termini di tempo – rispetto a ogni trasformazione. E finché regole saggiamente elaborate e rigorosamente amministrate non rendono possibile raggiungere questo status, difendiamo la conservazione anche generale (e generica), difendiamo il vincolo.

Sostenibilità

É un’espressione passepartout: un grimaldello universale. Nasce inizialmente nell’ambito di una critica allo sviluppo divoratore delle risorse non riproducibili. Una prima mediazione a livello alto è quella tentata dalla Commissione Brundtland, che introduce il concetto di “riserva per i posteri” delle risorse fornite dall’ambiente planetario(«soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future»), postula quindi la priorità della riserva ambientale nei confronti dello sviluppo economico. Successivamente viene annacquato: accanto alla “sostenibilità ambientale” vennero poste quelle “economica” e “sociale”. Tra le tre, si sa chi vince.

Oggi “sostenibile” è un attributo che costa poco, pesa pochissimo ed è appli-cabile a ogni intervento devastatore, purché questo sia mitigato, compensato, perequato. Ecco tre ulteriori parole sulle quali avrei voluto soffermarmi, ma il tempo è scaduto.

Ringrazio innanzitutto Giovanni Spalla, Luca Borsari e la Fondazione per la cultura Palazzo Ducale, Andrea Agostini e Legambiente, di avermi invitato a partecipare a questa serie di incontri. Ho potuto apprezzare molto quello che ho visto e sentito – delle precedenti sedute – dal sito che ne riporta i materiali. L’oscuro silenzio che avvolge i temi su cui ragioniamo (in sostanza, qual è lo stato delle città, e quale il suo destino) è per me grave fonte di preoccupazione, e qualsiasi iniziativa ragionevole che tenti di forare questa coltre è benvenuta.

La città

Vi parlo come urbanista. E come urbanista che ha imparato che il suo mestiere ha senso, e può essere utile, se non dimentica mai che la città – la realtà alla cui essenza il suo mestiere è legato –può essere compresa e trasfomata solo se si tengono insieme i suoi tre aspetti: la città come urbs, come insieme di relazioni dello spazio e nello spazio; la città come civitas, come società che concretamente abita quello spazio; la città come polis, come capacità e struttura di governo dell’urbs e della civitas.

Estendendo un po’ questa connotazione della città si potrebbe facilmente giungere a una sua più compiuta definizione: cosa che a me sembra essenziale se si vuole non solo descriverla, ma agire per trasformarla. Il tempo non mi consente di dilungarmi su questo tema. Mi limiterà a una sola considerazione.

Se consideriamo la città non come un mero aggregato di case e di altri elementi, ma come “la casa della società”, allora non possiamo non renderci conto che oggi intero territorio è diventato “la casa della società”: è il territorio nel suo insieme il luogo che l’uomo associato impiega per tutte le sue necessità legate alla sua vita.

Une definizione che in questo senso mi sembra interessante e utile è quella coniata da Piero Bevilacqua: il territorio come “habitat dell’uomo”.

“La città dei diritti”

Il tema che mi è stato assegnato può essere affrontare almeno sotto due profili, in relazione a due facce della parola “diritto”:

diritto come norma garantisce la tutela di determinate facoltà e possibilità della persona e il soddisfacimento di determinate esigenze;

diritto come rivendicazione di una facoltà, una possibilità, una esigenza attualmente non garantite, o garantite in modo insufficiente.

Questi due profili non sono antitetici, ma sono legati dialetticamente, nel senso che – come la storia ci insegna – la rivendicazione di un diritto conduce (può condurre) alla sua trasposizione in norma.

Se parliamo oggi dei diritti in relazione alla città allora penso che sia utile affrontare l’argomento in relazione a tre successivi momenti della nostra storia:

ieri, quando, nell’ambito della “città del welfare”, nel nostro paese una serie di rivendicazioni hanno trovato il loro soddisfacimento e sono diventate norma;

oggi, che dalle vicende dei decenni a noi più vicini è scaturita una nuova serie di rivendicazioni, che aspirano a essere a loro volta tradotte in norma.

domani, futuro possibile, che possiamo – se non prevedere né progettare – provare a progettare e a costruire.

IERI.

La città del welfare

Gli storici cominciano a guardare con sguardi più attenti a un ventennio della nostra storia recente il cui ricordo, nei trent’anni passati, è stato deformato, o rimosso, o addirittura demonizzato. Mi riferisco agli anni 60 e 70 del secolo scorso.

Anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio.

Mi sembra che tra le riforme vere e le riformicchie la differenza stia nel fatto che le prime modificano le strutture della società, dell’economia, della politica, della cultura, e aprono la strada a più profonde trasformazioni, mentre che le riformicchie di oggi siano al più aggiustamenti, mitigazioni, ammorbidimenti di storture vere o presunte.

Non voglio dilungarmi troppo. Mi limito a ricordare alcune delle maggiori trasformazioni che ebbero un riflesso concreto sul diritto – più precisamente, sulla norma – anche se, malauguratamente, non ebbero il tempo sufficiente per tradursi nei fatti in modo adeguato.

Nel campo dell’urbanistica

Nel campo del nostro interesse di urbanisti e studiosi della città ricordiamo alcuni obiettivi raggiunti.

Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia

- la generalizzazione della pianificazione urbanistica,

- il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,

- l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.

Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità

- di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,

- di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,

- di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.

E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni 80, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi e nella cultura che le ha prodotte e stabilito nei suoi meccanismi, secondo il quale la definizione delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto.

Ma usciamo dal nostro stretto campo, per comprendere meglio. E ricordiamo che in quegli stessi decenni, sincronicamente e per merito degli stessi soggetti, culture, movimenti, si ottennero altre grandi conquiste sul terreno dei diritti sociali, strettamente collegati alla condizioni urbana.

Ricordiamo: lo statuto dei diritti dei lavoratori, la scala mobile, il servizio sanitario nazionale, la libertà per le donne di interrompere la gravidanza e la libertà per tutti di divorziare, l’istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato, il tempo pieno nella scuola elementare, il voto ai diciottenni e l’estensione della democrazia, nelle istituzioni, nella scuola e nelle fabbriche.

Come e perché si raggiunsero questi obiettivi

Un ruolo essenziale nel raggiungere questi risultati (al di là delle cause legate alle trasformazioni della struttura economica e alla politica internazionale) fu la spinta che nasceva dalle rivendicazioni sociali e la sponda che questa trovava nelle istituzioni, tramite partiti politici che erano ancora – secondo detta la Costituzione – i canali attraverso i quali i cittadini potevano «concorrere con metodo democratico ala politica nazionale».

Questa spinta ebbe una complessa maturazione, e conobbe forse il punto più alto negli eventi del 1968-69. Tre componenti furono a mio parere essenziali: il movimento per l’emancipazione delle donne, il movimento studentesco e il movimento operaio. Quest’ultimo – nelle sue espressioni sindacali e in quelle politiche – fu decisivo.

Voglio ricordare soprattutto l’autunno del 1969 che fu certamente il momento più alto dello scontro sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra (allora espresse dall’ala della sinistra del Psi che faceva capo a Riccardo Lombardi). Era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci. Un partito il cui animatore su questi temi era allora – voglio ricordarlo oggi nella sua città – Alarico Carrassi, allora responsabile della politica della casa e l’urbanistica in quel partito.

Lo ha riconosciuto del resto uno storico del livello di Paul Ginsborg. In quegli anni, scrive, «le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centrosinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio».

“Diritto alla città”

C’è uno slogan che suona particolarmente interessante all’orecchio di un urbanista, e che in qualche modo riassume il senso generale, il “diritto generale” delle trasformazioni di quegli anni: il diritto alla città. É uno slogan, ma è anzitutto il titolo di un libro, del sociologo francese Henry Lefebvre: Droit à la ville. Un libro che agì molto nelle coscienze.

Il libro di Lefebvre indicava le due componenti essenziali del “diritto alla città”: il diritto per tutti di appropriarsi della città, di usarla senza esclusioni né preclusioni;

, e il diritto di tutti a partecipare alle decisioni circa le sue trasformazioni, il suo governo.

Si tratta evidentemente dell’uso della parola “diritto” per indicare una rivendicazione, non un sistema di norme e di pratiche acquisite. Ma chi ha vissuto quegli anni sa bene che sono stati allora i grandi movimenti della società (gli studenti, gli operai, le donne…), ascoltati da una intelligente politica del Palazzo a ottenere gli obiettivi normativi raggiunti in quel periodo.

L’espressione “diritto alla città” è scomparsa quasi interamente nei decenni successivi. Sta riemergendo oggi, ed è forse rivelatrice di una nuova stagione di speranza. Ma su questo tornerò più avanti. Vorrei domandarmi invece in quale terreno affondano le radici dei due decenni. In quegli anni in cui, in Italia, si poté parlare di “città del welfare” non solo come di un immaginario che in quella fase era condiviso – in quanto proprio dell’ideologia egemone,- ma come obiettivo reso concretamente raggiungibile dal sistema normativo.

Le radici

Le radici di quella fase erano indubbiamente, in Italia, nella Resistenza antifascista e nell’unità delle forze che avevano costruito la “Repubblica fondata sul lavoro”. Erano nella Costituzione, quindi, e nella cornice di principi condivisi che essa forniva a interessi e progetti diversi e in conflitto tra loro.

Quelle radici erano anche in una concezione della politica. La concezione che la politica significava, per tutti, anteporre gli interessi generali a quelli particolari. Nei diversi progetti politici lo stesso riferimento “di parte” che l’uno o l’atro schieramento assumeva (il primato del lavoro proletario o quello della proprietà privata o quello dell’impresa capitalistica) erano assunti in quanto chiave del raggiungimento di un maggiore “interesse generale”, e non in quanto bastone con cui picchiare e annullare l’avversario, o recinti degli interessi che devono essere garantiti contro tutti gli altri.

In un orizzonte più ampio nella storia e nella geografia le radici di quei due decenni erano nel compromesso keynesiano tra capitale e lavoro, e nell’accordo tra le potenze mondiali nella guerra antifascista.

Certo, quel compromesso era consentito dal fatto che ci si muoveva ancora entro una parte del mondo. Ne erano escluse quelle vaste porzioni del pianeta che poi furono chiamate Terzo mondo, o Paesi in via di sviluppo, e verso le quali venivano esportati i conflitti perché non turbassero il difficile equilibrio tra le classi del sistema capitalistico. Non dimentichiamo mai che il prezzo del maggior benessere dei paesi dell’Europa socialdemocratica e del Nordamerica fu pagato, ed é ancora pagato, dalle vittime della colonizzazione dell’Asia e dell’Africa.

OGGI

La svolta

Gli storici concordano ormai sugli anni in cui va collocata la svolta, e sul nome della fase che da allora è cominciata. In Italia si colloca nella metà degli anni 80 del secolo scorso, e segue di pochi anni quella iniziata con le presidenze di Ronald Reagan e di Margaret Tatcher (cui David Harvey accompagna, come terzo e quarto cavaliere dell’apocalisse, Pinochet e Deng Tsao Ping). Il mondo cambia giro. Inizia la fase di quello che in Italia si chiama Neoliberismo, e nel resto del mondo Neoliberalism. Una fase del tutto nuova del sistema capitalismo; quella che nel suo recente libro Luciano Gallino definisce – secondo me con grande precisione – Finanzcapitalismo.

Dall’economia delle cose s passa all’economia della carta. Il Denaro non è più un mezzo per comprare Merci e produrre piùMerci, ma è il Denaro in sé che diventa il fine: trasformare il Denaro in piùDenaro producendo Merci o – sempre più largamente – trasformando Beni comuni in Merci per produrre sempre piùDenaro

É una mutazione totale dell’economia capitalistica. Che trascina con sé una mutazione profonda della società, dell’uomo – e naturalmente anche della città e del modo in cui si svolge il mestiere dell’urbanista.

Vediamo alcuni aspetti generali di questa mutazione. Dall’equilibrio tra privato e pubblico (e tra individuale e collettivo) si è passati al dominio del privato e dell’individuale. Dal ruolo del mercato come strumento di definizione dei prezzi delle merci si è passati al Mercato come dominus indiscusso d’ogni decisione (e a un “mercato” il quale, come abbiamo appreso nella crisi recente, è composto d 25 soggetti che decidono sui destini del mondo intero). La politica è diventata un’ancella dell’economia data, si è schiacciata su di essa.

Le conseguenze della svolta neoliberista sulla città (sull’habitat dell’uomo) sono state devastanti. Voglio sottolinearne tre aspetti a mio parere più significativi.

Dal pubblico al privato

Innanzitutto è profondamente colpito il carattere pubblico, comune, collettivo della città nel suo insieme.

Nella nostra storia quel carattere era stato ritenuto raggiungibile mediante l’affermazione di un principio (il diritto/dovere della collettività di decidere l’uso del suolo e le trasfrmazioni urbane) raggiungibile mediante due strumenti: lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), lo strumento di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa, promossa e garantita da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Oggi si sostituisce di fatto la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non presenti testimonianze molteplici di questa nuova prassi di “urbanistica contrattata”.

Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Ma il primo passo era stato compiuto quando si erano inventati quegli strumenti urbanistici anomali (programmi complessi, programmi integrati, e poi tutte le sigle immaginabili) che consentivano a un accordo stipulato tra amministratore e proprietario di dergare alla pianificazione ordinaria – soggetta a una procedura di larga evidenza pubblica. E un passo successivo era stato effettuato quando, con il PRG di Roma redatto e approvato da amministrazioni di sinistra, con consulenti di sinistra, si inventarono presunti “diritti edificatori” (fino ad allora sconosciuti al diritto e ai giuristi), che avrebbero comportato l’obbligo del pagamento di pesanti indennizzi a un comune che avesse voluto ridurre, motivatamente, l’edificabilità sul suo territorio concessa da un piano regolatore troppo permissivo.

La rendita immobiliare

La condizione grazie alla quale il governo pubblico poteva esercitare il suo diritto /dovere di regolare le trasformazioni dell’habitat dell’uomo era considerato – nei regimi liberali prima ancora che in quelli socialdemocratici e socialisti - la capacità del governo pubblico di ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia) sulle decisioni e sui costi della trasformazione della città, e di traferirne l‘incremento dal privato al pubblico, per reinvestirlo nel miglioramento delle funzioni urbane.

In Italia, agli inizi degli anni 70 la necessità di contenere i grandi plusvalori della rendita immobiliare era così largamente condivisa che la stessa Confindustria dichiarava di sostenere una riforma urbanistica che, contenendo la rendita, avrebbe garantito buoni profitti senza colpire i salari. Ma le cose cambiarono rapidamente. Gli stessi gruppi industriali che avevano criticato la rendita trovarono comodo appropriarsene, intrecciare sempre più profondamente rendita e profitto, e anzi spostare la loro attenzione dalle attività industriali a quelle immobiliari

Il percorso iniziò negli anni delle grandi trasformazioni del sistema produttivo (dalla manifattura al terziario), per svilupparsi fino ai nostri anni. Esso è stato recentemente analizzato con grande acume da Walter Tocci. «La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».

Il trionfo della rendita

Negli anni successivi la finanziarizzazione dell’economia aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio. L’appropriazione privata di rendite (finanziarie e immobiliari) divenne la componente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del capitale intrecciandosi strettamente al profitto.

All’inizio degli anni 90 l’esplodere della bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si aprì la fase che Tocci definisce della “rendita pura”: la fase in cui si celebra il trionfo della rendita immobiliare, diventata (insieme a quella finanziaria) il fine dell’intero sistema economico.

Gli amministratori e la rendita

L’appiattimento della politica sull’economia ha consentito ai gestori del capitale di ottenere dagli amministratori il consistente aiuto derivante dalla loro possibilità di promuovere o consentire, con l’insieme delle politiche urbane, la sistematica espansione delle parti del territorio il cui valore di scambio passava dalle utilizzazioni legate alle caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edilizia. Attraverso le politiche urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’economia spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare. Decisivo, a questo fine, è stato l’aiuto fornito alla speculazione fondiaria dalle politiche nazionali, che hanno ridotto via via le risorse trasferite ai comuni lasciando loro la possibilità di stornare i cespiti degli oneri di concessione dalla realizzazione delle attrezzature pubbliche alle spese correnti.

Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno introdotto significativi cambiamenti nelle loro politiche. Aiutate, e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno proceduto allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti .

Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.

Alto è il prezzo

Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano, afferma Tocci.

Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio. Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una macchina - costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività - usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.

Rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso. E perché troppo stesso gli urbanisti , avallati dai loro istituti, abbiano trasformato il loro ruolo da quello di servitori dell’interesse collettivo a facilitatori dei progetti immobiliari.

Abbandono della pianificazione della città e del territorio, e trionfo della rendita come motore dello sviluppo: non sono forse queste due novità anche le cause dei disastri recenti?

Lo spazio pubblico

Un altro aspetto emblematico – il terzo - di quella che definisco “la città della rendita” è la progressiva riduzione e mistificazione dello spazio pubblico.

Gli spazi pubblici siano l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi dell’attuale crisi della città è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.

Sono rischi che non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia):

la recinzione mentre la piazza è aperta,

la sicurezza mentre la piazza è avventura,

l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità,

la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini,

la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.

E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza della previsione e progettazione di spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città

I diritti nella città del neoliberismo

In sintesi possiamo dire che l’elemento che caratterizza la condizione urbana nella città del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.

Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un’edificio abbandonato.

Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimento in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo (componenti della “infrastruttura globali”) e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.

E le stesse opere d’interesse generale e sovra-locale (le ferrovie e i porti, gli ospedali e le dighe, e tutte le attrezzature a grande scala) non vengono definite, collocate, progettate, gestite finalizzandole agli interessi collettivi che devono soddisfare, non sono inquadrate perciò in una visione sistemica del territorio, non risoettano quindi della priorità della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale de territorio, ma tengono cnto di un solo requisito: la quantità di danaro che possono far circolare, gli affari che possono consentire, gli arricchimenti che possono produrre nei patrimoni dei soggetti che le promuovono o le realizzano.

DOMANI

«Del doman non v’è certezza»

Il trend non ci aiuta certo. Se le cose proseguono così come stanno andando, la città diventerebbe quella che gli studiosi e romanzieri come Saskia Sassen, Mike Davis e James G. Ballard ci raccontano. Da un lato l’infrastruttura globale, il luogo universale della residenza, delle attività, dei piaceri e delle connessioni tra quelli che comandano – la porzione più ristretta e più ricca dell’umanità e i suoi servi più diretti. All’estremo opposto, il pianeta degli slum. L’insieme in continua espansione delle residenze delle persone prive di diritti, di ricchezza, di dotazioni, in preda alla precarietà. In mezzo, il vasto mondo dei ceti in transizione, illusi da una penetrante pubblicità di poter aspirare a raggiungere livelli di vita più alti, e rigettati via via verso il mondo degli umili e dei precari.

La crisi aperta da qualche anno – che moltissimi ormai leggono come una crisi del sistema, e non una crisi nel sistema – potrebbe essere utilizzata per uscire dal trend, dal progressivo disfacimento di tutte le condizioni positive del passato. Ma sembra che le forze che tuttora governano il mondo non siano su questa strada. Sembra che l’uscita dalla crisi sia perseguita nel ripristino dei meccanismi stessi che l’hanno provocata. Sembra che l’ideologia della crescita indefinita sia ancra quella dominante, in un arco vastissimo di forze.

Non lo testimonia anche il fatto che vi sia una convergenza pressochè assoluta delle forze politiche di destra, di centro e di sinistra nel credere che la realizzazione di nuove infrastrutture, di nuovi pezzi di città, di nuove sottrazioni del territorio agli usi di un’agricoltura “naturale”, che la formazione di nuove rendite immobiliari sia un bene, perché aumenta il “prodotto interno lordo”?

Dobbiamo dirci fortunati se, con Lorenzo de’ Madici, possiamo dire “del doman non v’è certezza”. E per trovare segni di speranza dobbiamo cercare nelle incertezze, negli interstizi. Non possiamo sperare di trovarla nei partiti politici, non possiamo sperare di trovarla nelle istituzioni, se gli uni e le altre non cambiano profondamente. Possiamo trovarli se guardiamo nella società: o meglio, in alcuni movimenti che oggi l’agitano

Un filo di speranza

La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata a un filo molto tenue che tuttavia esiste. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.

Mi riferisco al variegato complesso dei movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, limitati dal volontarismo che li caratterizza, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti.

- Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità.

- La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche.

- Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti

- Le difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro.

- La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale.

- La mercificazione (con le tre tappe della privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione) di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.

- I diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.

Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione raccontata da don Lorenzo Milani; l’’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana che disse di aver aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica».

É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione: l’habitat dell’uomo.

La terra si ribella

Il dramma di oggi sta nel fatto che l’intervento necessario per ribaltare la logica del trend attuale è anche estremamente urgente. Segnali sempre più forti e continui di arrivano dalla stessa terra su cui poggiamo i piedi. La terra, la superficie, la crosta del nostro pianeta si ribella. L’abbiamo maltrattata, le cassandre hanno oreisto il futuro e non sono state ascoltate.

Da quanti decenni chi sa leggere con occhi limpidi ha ammonito che le nostre case, città, strade, fabbriche sorgevano su terreni fragili – oltre che ricchi di bellezza naturale e culturale? Non voglio ricordare Giustino Fortunato, che all’inizio del secolo scorso denunciava lo “sfasciume pendulo su mare” che caratterizzava ampie zone del Mezzogiorno (ma anche in Liguria ne sapete qualcosa), né gli intellettuali (da Piero Calamandrei a Manlio Rossi Doria) che ne ripresero il messaggio negli anni della nascente Repubblica. Ma voglio ricordare Antonio Cederna, leggendovi un brano che pubblicò nel 1973, quasi 40 anni fa:

«Un’Italia che frana e si sbriciola non appena piove per due giorni di fila, ecco l’immagine che subito ci propone il 1973, quasi a imporre alla nostra attenzione il problema di fondo e il più trascurato della politica italiana: la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica.

«I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato: e tutti dovremmo aver capito che ben poco essi hanno di “naturale” poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti».

Che cosa hanno imparato i nostri governanti? E noi stessi, i nostri istituti di cultura, le nostre università. Ancora oggi, nonostante le lagrime di coccodrillo a ogni alluvione, frana, inondazione, smottamento, tutto prosegue come prima. Case a go-go anche quando il mercato è sovrassaturo, strade e autostrade, gallerie e trafori, grattacieli e grandi opere, ponti sullo stretto e inutili treni ad alta velocità per far concorrenza agli aerei, strade camionali per evitare di usare il mare.

I più saggi – come il nostro Presidente della Repubblica – ammoniscono che, per evitare i disastri quali quelli che si sono recentemente abbattutti sulla Toscana, la Liguria, la Sicilia, affermano che occorre investire di più nella prevenzione. Ma pochi, pochissimi, riconoscono che la prima e più completa prevenzione è quella di una pianificazione urbanistica e territoriale corretta e rigorosa, condivisa e autorevole, e nel preliminare riviuto a riconoscere nello sviluppo della rendita immobilare il deus ex machina delle decisini sull’uuso del territorio.

Non siamo soli

Per fortuna ciò che si muove nella nostra società per difendere le condizioni della nostra vita di cittadini non è limitato nei nostri confini. Sui temi della critica alla condizione urbana e alla degradazione del territorio, sui temi della rivendicazione di rinnovati diritti i gruppi sociali che si muovono in Italia non sono isolati.

In moltissime parti del mondo essi sono nati, si sviluppano, trovano momenti di vicinanza e di identità ideale, e spesso anche pratica, movimenti analoghi mossi da analoghe motivi di sofferenza, di protesta, di rivendicazione: soprattutto sui temi della casa e degli sfratti, della segregazione e dell’esclusione dai beni essenziali, della volontà di partecipare alle politiche urbane. Insomma, sui temi che nutrivano l’antica proposta di Lucien Lefebvre sul “diritto alla città”.

Un nuovo “diritto alla città”

É ormai ricca la letteratura che riprende questa espressione, e sono numerosi i tentativi di mettere in rete le mille esperienze che in tutto il mondo si stanno sviluppando. Alcune sono raccolte in un libro in corso di pubblicazione a Bruxelles, a cura di Ilaria Boniburini e altri studiosi. La luce che si vede, attraverso i rottami della crisi, è che sta emergendo la rivendicazione di un nuovo diritto alla citta, che comprende quelli delle rivendicazioni del secolo scorso, le integra e arricchisce con nuove rivendicazioni.

La nuova idea di città che sta emergendo è esprimibile in un’espressione semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti, di questo rinnovato “diritto”? C’è un concetto al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città, e anzi l’intero habitat dell’uomo, sia considerato un bene comune.

Non credo che sia necessario precisare ulteriormente che cosa intendo per città. Qualche rapida notazione sugli altri due termini, bene e comune.

Bene

Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.

Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.

Una merce è qualcosa che ha valore solo in quanto posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.

Comune

Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.

Che fare?

Si può reagire al mainstream e navigare controcorrente a condizione che si assumano quattro obiettivi, che sono anche quattro impegni.

Bisogna far crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali.

Un esempio vistoso è il termine “vincolo”: si intende per tale qualunque destinazione del suolo che non consenta l’edificabilità di tipo urbano: è un vincolo la destinazione a una utilizzazione agricola, o all’impianto o la conservazione di una foresta, alla ricerca in un’area archeologica, nella costituzione di un’area di libera visione di un monumento o al godimento di un paesaggio. “Vincolo” è tutto ciò che contrasta con l’uso mercantile, venale del suolo.

Secondo obiettivo: bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.

Bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più si allargherà il campo di quanti occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.

Ma in primo luogo occorre resistere. La difesa dello spazio pubblico deve essere al centro dell’ attenzione. Mi riferisco allo spazio pubblico in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi, e senza trascurare gli spazi aperti della natura, sempre più malamente antropizzata, degradata e dissestata; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme, il diritto alla democrazia, alla partecipazione alle scelte, all’esercizio della politica così come la intendeva Don Milani. E quando parlo di spazio punbblico non mi riferisco solo alle competenze, alle decisioni e alle responsabilità delle istituzioni democratiche, ma all’insieme delle persone che formano la società: quello che tu, io e l’altro occupiamo insieme, per discutere e decidere insieme del comune destino.

Mi sembra che la resistenza offra un ampio campo d’azione agli urbanisti, e a chiunque si occupi di città e territorio con competenze specialistiche. Ne suggerisco alcune alla discussione. La difesa della legalità, delle regole che sono state ottenute in stagioni migliori e che stabiliscono la priorità degli interesse generali su quelli particolari, la difesa del territorio e dei suoi abitanti, la trasparenza delle procedure, la partecipazione e i confronto. L’educazione degli amministratori: occore spiegare loro qual è l’esito delle scelte che propongono anche quando sono sbagliate, le possibili alternative, le conseguenze dei loro atti, e bisogna ottenere da loro la traspareza del processo delle decisioni. L’aiuto ai cittadini, perché sempre più comprendano e possano intervenire, senza farsi illudere della demagogia dei camuffatori di ciò che c’è dietro le decisioni.

E soprattutto credo che agli urbanisti – ma a chiunque interessi un uso corretto della crosta del nostro pianeta - competa la difesa della pianificazione, come metodo che può riuscire a portare a sintesi critica i diversi aspetti, interessi, esigenze delle trasformazioni del territorio, dando la priorità a quelli che esprimono l’interesse comune di tutte le cittadine e cittadini a partire da quelli che necessitano di maggior tutela: i più deboli e potenzialmente esclusi, e i nostri posteri.

L’audio e le immagini della conferenza sono raggiungibili qui

"il manifesto", 9 marzo 2012. Anche in eddyburg.

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