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Il manifesto, 30 aprile 2013

Sul binario morto della crescita, senza mai citare la miseria morale e lo sfaldamento della nostra comunità nazionale

In Parlamento ogni volta che la telecamera inquadrava qualche deputato regolarmente si vedeva che stava guardando il telefonino. Il discorso del resto non sembrava rivolto ai parlamentari in aula. Per fare le cose che Letta ha indicato ci vorrebbe un governo di cento anni. E invece sarà una storia molto più breve. E in questa storia ci sono parole di economia aziendale. Sapevo che non sarebbero arrivate parole a me care. L'Italia è una terra di montagne e paesi. E queste tre parole sono mancate. Niente terra, niente montagne, niente paesi. Non ho sentito nessun riferimento alla crisi ecologica del pianeta, nessun riferimento alla cultura. Mi pare che abbiamo al governo un diligente applicato di segreteria. Il preside è il Cavaliere, è lui che decide cosa fare. Dall'altra parte c'è un partito che deve ancora decidere cosa essere.

Letta è un democristiano del terzo millennio. Il suo pensiero, come quello della maggioranza dei suoi colleghi, è chiuso nella religione dominante del denaro. L'Europa e la crescita sono il suo binario, ma è chiaro che si tratta di un binario morto. Non ha fatto nessun riferimento alla miseria spirituale dilagante, allo sfaldamento della comunità. È la lettura del mondo di un uomo cresciuto nei palazzi del Potere, un uomo che sembra non aver mai camminato su un sentiero di campagna. Una lingua astrattamente concreta, lontana da qualsiasi tensione mitica e mistica. Un uomo senza utopie che parla a una nazione concepita come un insieme di interessi economici. Questo è il danno più grande della politica, ben oltre le note e annose ruberie. Una politica che elenca politiche mai realizzate, che ha una visione piccola della vita. Nell'elenco delle parole lettiane che seguono sono tante quelle che non troverete. Non c'è Dio, non c'è la morte, non c'è la poesia. Non troverete la citazione di uno scrittore, di un'artista, di un filosofo, di un musicista. Come se nel bene e nel male l'Italia fosse solo una questione politica. Insomma, non sanno fare neppure la cornice e pretendono di fare il quadro. Anche se il suo governo riuscisse a farci diventare più ricchi della Germania, io penso che saremmo di fronte a una storia misera e minima.
Abbiamo bisogno di una lingua emozionata ed emozionante e invece il verbo è questo: Presidente della Repubblica, momento eccezionale, emergenza, volontà di servizio e senso di responsabilità, costituzione, situazione economica grave, finanza pubblica, vincoli, strategie, crescita, risanamento finanza pubblica, sviluppo, governo europeo ed europeista, integrazione, intese, sostegno, elaborazione, risanamento, politiche per la ripresa, crescita, coesione, ripartire, conti pubblici, incentivi, provvedimenti, crescita economica, meccanismi virtuosi, banche, imprese, attori economici, crescita, produttività, competitività, arena globale, investimenti, regole e incentivi, imprenditori italiani e stranieri, strumenti, defiscalizzazione, salari, peso fiscale, costo del lavoro, incentivi monetari, imprenditorialità, fare tesoro, spirito imprenditoriale, investire, politica industriale moderna, piccole e medie imprese, motore dello sviluppo, alta tecnologia, ottica organica, processo di integrazione, la burocrazia, snellire le procedure, equità, attrarre investimenti, valorizzare, inadempienze, classi dirigenti, la questione del lavoro, crescita non fine a stessa, crescita, rifinanziamento, imprese e lavoratori, innovazione, debiti, ostacoli burocratici, spirito d'impresa, economia, vita economica, crescita del paese, obiettivi europei, crescita della persona, welfare universalistico, ammortizzatori sociali, precari, valorizzare, ricostruzione, autocritica, innovazione, partecipazione, trasparenza, autorevolezza del potere, legge elettorale, competenze, percorsi, decisioni, procedure, coesione nazionale, patto di fiducia, convergenza, politica, politiche, ruolo del parlamento, forze politiche, regole, processo costituente, veti, contrapposizioni, prese di posizione, riforma, convenzione, principi, democrazia governante, ridurre i costi, responsabilità, ottica di alleanza, maggioranze ampie e coese, mercato unico, rilancio, equilibri mondiali, politica comune, processi globali, rinnovato impegno, forze armate, soluzione equa e rapida, economia, esportazione, sfida, decisioni, proposte, obiettivo complessivo, l'Europa e la crescita, la crescita e l'Europa.

Un ricetta sarda che mi arriva in Rwanda tramite il sito di unamico maremmano. All’apparenza è una ricetta ottima;i culurgiones lo sono, sia quelli dell'Ogliastra (come questi) sia quelli del Campidano. Il mondo è bello perchè è vario. Alleo.it, rubrica "webfood", aprile 2013

INGREDIENTI

1 kg. di patate
600 gr. di farina di semola
300 gr. di pecorino fresco
200 gr. di pecorino
1 cipolla bianca
2 spicchi d’aglio
Foglie di menta
Olio extravergine d'oliva
Sale

PREPARAZIONE

Lessate le patate con la buccia e passatele ancora calde, intanto in un tegame versate un po’ d’olio con gli spicchi d’aglio, la cipolla tagliata, il sale e la mentuccia tritata finemente fate cuocere bene in modo che la cipolla perda la sua croccantezza, fate raffreddare e passate il tutto unendolo alle patate, sminuzzate il pecorino fresco ed aggiungete anche questo ingrediente, fate amalgamare bene tutti gli ingredienti in modo da formare un impasto abbastanza morbido ed omogeneo, assaggiate il composto che deve risultare alla giusta salatura non dal sale ma dal formaggio, coprite con un’asciughino e fate riposare.

Per la sfoglia impastate la farina con acqua tiepida e un filo di olio, l’impasto deve risultare elastico, sigillate la pasta con pellicola trasparente ed usatene un pezzo alla volta (la pasta non deve asciugarsi), tirate sempre una sfoglia alla volta altrimenti la pasta si asciuga e non sarà possibile eseguire la cucitura; dalla sfoglia ricavate dei dischetti del diametro di 6-8 cm. Per tagliare la sfoglia potete usare un coppa pasta o un bicchiere. Al centro di ogni disco mettete una noce abbondante di ripieno, ripiegate la pasta e saldate le due metà dell’involucro pizzicando i bordi in maniera alternata (prima a destra e poi a sinistra). Dovete arrivare a formare una sottile cordatura, simile ad una spiga, cuocete i culurgiones in abbondate acqua salata, serviranno 6-7 minuti circa (dipende dallo spessore della pasta). Condite i culurgiones con la passata di pomodoro fatta restringere su fuoco dolce con foglie di basilico, sale e olio extravergine d'oliva.
Disponete 5 culurgiones con una bella spolverata di formaggio grattugiato per ogni piatto e se qualcuno vuole fare il bis ricordate che i culurgiones si servono sempre in numero dispari.
nota La ricetta è tratta dal sito alleo.it- discovery contemporany culture, l'immagine da il mestolo magico.

Trovatori, Einaudi 2007. Segnalata da Vezio De Lucia il 25 aprile 2013

Andatelo a dire

“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire

fu come le nevi...”
No, i fuochi di un tempo
non trovano pace...”
“La cenere al vento

riscopre la brace...”
“Una cosa il giudizio...”
“Un’altra la pietà...”
“Lottare per la morte...”
“O per la libertà ...”
“L’unica dignità
della nostra storia
è la memoria
della verità ...”
“Alla vecchia e alla nuova
Resistenza italiana...”
“Contro l’odio che odia...”
“Per l’amore che ama...”
“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire
fu come le nevi...”

Presidente Zagrebelsky, gentili ospiti, care amiche ed amici, se c'è una parola a cui la storia dell'umanità deve molto, una parola a cui devo molto anch'io, il mio impegno professionale e oggi questa carica che ho l'onore di ricoprire, bene, quella parola è proprio utopia.Perché l'utopia racconta il dubbio. E senza dubbi, la politica sarebbe solo un fotogramma immobile, un esercizio di vanità, una condizione di solitudine. L'utopia è ricerca. Cioè misurarsi con i propri limiti, averne rispetto e pudore, mai paura. Accettare la sfida del cambiamento che è la promessa più alta della democrazia.

L'utopia è il viaggio: l'irrequietezza del mettersi in cammino, lasciare porti sicuri per spingere lo sguardo oltre la linea dell'orizzonte. Perché ciò che conta, come scriveva il poeta greco Kavafis, è partire: "…quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze…" Senza questa condizione faticosa e stimolante, senza l'utopia di un prossimo viaggio, che cosa sarebbe stato della nostra storia? Come avremmo potuto immaginare che un giorno il presidente della più importante nazione del mondo sarebbe stato il figlio di un africano, senza il dovere di quell'utopia?

E se la mia storia mi porta oggi a presiedere la Camera dei Deputati, forse è anche il frutto delle molte silenziose e tenaci utopie a cui ho cercato di dar voce per più di vent'anni, dal diritto degli ultimi e dei perseguitati di non essere per sempre ultimi e vittime, alla fame di speranza e di vita di chi si è messo in viaggio senza sapere se mai sarebbe arrivato. Penso al viaggio di centinaia di migliaia di migranti e rifugiati a cui l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite e altre organizzazioni provano ogni giorno a restituire dignità e futuro.

Certo, la storia ci insegna che spesso in politica l'utopia appare come un'eresia. Eppure, quale utopia è oggi più necessaria se non immaginare un'Italia in cui diritti, eguaglianze, dignità civili siano finalmente parole certe, regole riconosciute, principi rispettati?

Viviamo in un tempo che non è affatto equo. Nel mondo l'1% degli uomini possiede il 40% di tutte le risorse del pianeta. Le tre persone più ricche del mondo hanno lo stesso peso economico dei 600 milioni di essere umani più poveri. Senza andar lontano, il patrimonio dei dieci italiani più ricchi è uguale alle risorse degli otto milioni di italiani più poveri.

Se la politica non assume su di sé la sfida di curare queste ferite di civiltà, se non saremo capaci di affrontare l'utopia urgente e possibile di un paese e di un mondo più equi, di quale buona politica staremmo parlando? La crisi in corso ha prodotto conseguenze drammatiche sulla vita delle persone, ma nella sua durezza ci costringe a ridefinire i nomi e i giudizi che attribuiamo ai fatti della politica e della società. Ci spinge ad accorciare la distanza che separa l'utopia dalla possibilità.

Faccio tre esempi soltanto, tra i molti che ci offre il contesto nazionale ed internazionale.

Il tema delle spese militari, fino a qualche tempo fa oggetto - nel panorama italiano - di critiche che rimanevano circoscritte agli ambienti del pacifismo. Oggi la richiesta di riduzione di quelle spese si presenta ben più diffusa, al punto che nei mesi scorsi diverse forze che sostenevano il governo si sono attribuite il merito dei tagli più cospicui. Perché questo cambiamento? Perché la crisi economica ha spinto a guardare in modo diverso gli investimenti militari. Un dibattito, fino a ieri considerato "ideologico", ha assunto oggi la concretezza di un bivio: volete voi qualche cacciabombardiere in più, oppure quel denaro può essere investito per sostenere la spesa sociale? L'utopia di un mondo meno armato quindi si è finalmente spogliata di ogni astrattezza per diventare stringente discussione su una possibile destinazione alternativa delle risorse pubbliche.

Secondo esempio. Il dibattito sul sistema bancario. La critica alla finanza speculativa è stata per lungo tempo patrimonio di gruppi considerati radicalmente alternativi al sistema economico capitalistico. Anche in questo caso la crisi ha ribaltato il nostro punto di vista: oggi è naturale chiedere che le banche tornino ad una funzione di sostegno alle imprese e alle famiglie, ed è altrettanto naturale condannare le speculazioni finanziarie che in pochi secondi possono spingere un Paese e i suoi cittadini sull'orlo del baratro.

Terzo esempio. Le questioni dell'ambiente. Veniva considerato fuori dalla storia chi si permetteva di criticare il modello di sviluppo dominante, chiedendo che venisse arginato il consumo illimitato di territorio, l'edificazione senza regole, la monetizzazione delle bellezze naturali a prezzo del loro sfregio. In questo caso, più che la crisi economica è stata l'evidente devastazione dell'Italia a farci aprire gli occhi. La protezione del territorio non è il sogno bucolico del ritorno in Arcadia, ma l'unico modello di sviluppo realisticamente praticabile in un Paese dalle straordinarie ricchezze ambientali qual è il nostro. La presunta "utopia" di uno sviluppo ecosostenibile si è rivelata la strada lungo la quale avviare la nostra ripresa.

E non era forse considerata un'utopia, fino a pochi mesi fa, affrontare il nodo dei costi della politica come sto provando a fare adesso da presidente della Camera? Anche per questo il mio primo atto è stato quello di ridurre in modo significativo la retribuzione e le prerogative che mi erano assegnate. Il secondo atto è stato quello di chiedere a tutti i deputati titolari di cariche istituzionali di fare altrettanto: e la loro risposta è stata positiva. E continueremo su questa strada.

Non lo sto facendo, credetemi, per cercare un facile consenso e neanche soltanto per esigenze di risparmio. Lo faccio perché in un tempo così difficile per la vita delle famiglie italiane, quando in tanti sono costretti a sacrifici e risparmi al limite delle loro possibilità, soprattutto le istituzioni, soprattutto chi fa politica deve dare un segnale concreto di rigore e di limpidezza. Se avessi avuto un dubbio sulla necessità di queste scelte di rigore e di sobrietà, la tragedia di Civitanova Marche lo avrebbe sicuramente spazzato via. Romeo Dionisi, Anna Maria Sopranzi, suo fratello Giuseppe, tre persone per bene, oneste, che si sono trovate da sole a sopportare il peso materiale e morale della loro povertà. Morire per miseria e per dignità ferita è un'ingiustizia intollerabile! Quando ci si toglie la vita perché si è diventati improvvisamente e insopportabilmente poveri, quando s'è smarrito anche il diritto alla speranza - e in Italia è già successo troppe volte - significa che la società non ha più reti di protezione sociale adeguate. E significa che si è troppo diffusa l'idea della povertà come qualcosa di cui vergognarsi, l'idea cinica secondo la quale se sei povero è colpa tua che non sei abbastanza bravo, scaltro, furbo. Che non sai farti valere come invece saprebbero fare quelli che si vantano delle loro ricchezze, raggiunte non importa come. E' vero o no che tanti, troppi in Italia la pensano così?

Eppure la qualità di una persona non si evince dal reddito. Eppure, scolpito nello spirito profondo della nostra Repubblica, c'è quell'articolo 3 della Costituzione che ho scelto come bussola per il mio operare. Lasciate che lo rilegga con voi: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

Questo articolo non ci ricorda soltanto che tutti siamo uguali: ci dice anche che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono alla persona di realizzarsi e di partecipare alla vita del Paese. E la Repubblica non è una entità astratta: siamo noi, siete voi, sono le nostre istituzioni, le forze politiche e sociali, le scuole, le Università, i luoghi del lavoro e della produzione. Purtroppo le diseguaglianze sono aumentate negli ultimi anni, non diminuite. E la crisi in corso ha moltiplicato e ingigantito gli ostacoli da rimuovere. Penso all'articolo 3 quando leggo i dati resi noti poche settimane fa, secondo i quali 57mila studenti hanno abbandonato l'Università italiana negli ultimi dieci anni. E' un numero che più drammaticamente di ogni altro ìndica come suonino vuote per i nostri giovani le promesse di uguaglianza che noi, loro genitori, avevamo potuto considerare credibili.

Presidente Zagrebelsky, tutto avrei potuto immaginare, appena un mese fa, tranne che sarei stata chiamata all'alto compito che oggi mi onora. Dopo i primi momenti di sorpresa e, perché negarlo, di spavento, ho cercato di concentrare tutte le mie energie su una missione che considero prioritaria su ogni altra: dare il mio contributo per ricucire il rapporto profondamente lacerato tra i cittadini e le istituzioni. Ho creduto di dover prendere sul serio la critica che sale dal profondo del Paese verso i partiti e verso la politica. E non mi sentirete mai liquidare questa critica come "antipolitica". Non perché non veda il pericolo di populismi autoritari e illiberali: ne è piena l'Europa, purtroppo. Ma questa domanda di trasparenza e di onestà non è nemica della buona politica, anzi, ne rappresenta l'essenza. Così come non è una svagata protesta il disgusto diffuso verso la corruzione, lo sperpero di denaro pubblico, l'esibizione ostentata e volgare del potere.

Bene: quella richiesta di trasparenza è anche la mia. E quell'intolleranza verso il malaffare è anche la mia. E' per questo che, nelle prime settimane di Presidenza, ho voluto mandare un segnale chiaro all'opinione pubblica e alle forze politiche, presentandomi con un biglietto da visita che contribuisca a far sentire meno lontane le istituzioni e a far percepire le aule del Parlamento come "la casa della buona politica". Ma è anche il tempo di affermare, con altrettanta nettezza, che l'idea della "politica gratis" è un'utopia negativa, un modello che dobbiamo smettere di inseguire anche se esso conta ancora su notevoli sostegni mediatici. La politica non può essere raffigurata solo o principalmente come la competizione tra chi taglia di più i costi. Ed è una banalità quella che fa il conto degli euro che si "sprecherebbero" in ogni seduta parlamentare, come se il confronto tra le posizioni, l'approfondimento anche faticoso dei problemi, fosse una permanente dissipazione di tempo e di denaro.

Così come non mi convince un'altra semplificazione, così di moda in questi tempi, che vorrebbe la politica esclusivamente finanziata dai privati. Intendiamoci, sento forte la necessità di regole più rigorose delle attuali, ma continuo a pensare che non debba essere indispensabile avere generosi finanziatori per poter concorrere alla vita democratica. Perché la buona politica sta nell'esercizio responsabile delle proprie funzioni: liberi, anzitutto, da ogni condizionamento. Mi sembra invece un'utopia necessaria, alla quale guardare con grande attenzione, quella di una partecipazione sempre più estesa dei cittadini, grazie anche agli strumenti della Rete. La società italiana mantiene, nonostante la crisi che colpisce anche i soggetti della rappresentanza sociale e politica, un alto livello di partecipazione. E stasera tributeremo il giusto omaggio all'artista che più di ogni altro ha saputo ricordarci quale sia il nesso inscindibile tra partecipazione e libertà.

E' la partecipazione che ci rende cittadini consapevoli, come ci vuole la nostra Costituzione, mentre una forte spinta economica e comunicativa, che investe tutte le società, vorrebbe fare di noi (e soprattutto dei nostri ragazzi) consumatori in servizio permanente effettivo, la cui cittadinanza si esplica al massimo nella deposizione di una scheda nell'urna. La rete offre nuove e grandi possibilità di informazione e di coinvolgimento, ma non mi attrae una presunta democrazia diretta che funzioni secondo lo schema "uno schermo, un voto". Molto può essere fatto per potenziare gli strumenti della democrazia parlamentare, accorciando le distanze che separano rappresentanti e rappresentati.

Spero che possa essere presto portata alla discussione della Camera la proposta che rafforza l'iniziativa legislativa popolare. Fin qui lo strumento non ha prodotto risultati apprezzabili: in passato i testi sottoscritti da almeno 50mila cittadini sono rimasti troppo spesso a prender polvere nei cassetti parlamentari, non avendo a disposizione alcuna corsia preferenziale. Dobbiamo impegnarci a modificare i regolamenti parlamentari, in modo da rendere rapido e obbligatorio l'esame del testo sottoscritto da un numero adeguato di cittadini e per consentire ai promotori di quel disegno di legge di poter seguire direttamente l'iter della proposta.

Allo stesso scopo mira anche la "campagna d'ascolto" che intendo promuovere alla Camera non appena saranno stati superati i prossimi, rilevanti passaggi istituzionali. Sarà l'incontro con i soggetti sociali, economici, culturali che incarnano le questioni più acutamente avvertite dalla nostra comunità civile. L'apertura della "casa della buona politica" a chi lavora ogni giorno alla soluzione dei problemi. Mi piacerebbe che questa apertura potesse accompagnare l'attività legislativa (una volta che - spero prestissimo - essa potrà svilupparsi a velocità piena), in un intreccio fruttuoso con gli strumenti ordinari delle audizioni nelle Commissioni parlamentari.

E dobbiamo impegnarci a ritrovare un rapporto fecondo, intenso, leale con l'Europa. L'Europa immaginata nel manifesto di Ventotene, quella straordinaria, preziosa utopia fabbricata nella durezza del confino fascista. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi intuirono che l'unico rimedio alle dittature, alle guerre, a quel tempo infelice di uomini contro sarebbe stato un grande progetto federalista europeo. E' la sfida che dobbiamo raccogliere, dopo anni di reticenza e di disimpegno: restituire all'Italia l'orgoglio di battersi per gli Stati Uniti d'Europa. Un'Europa dei diritti, delle opportunità, delle pari dignità. Un'Europa nella quale i nostri figli si sentano a pieno titolo cittadini, siano nati a Palermo o a Berlino. Un'Europa che sappia fare della solidarietà e della coesione sociale non solo voci di spesa ma primati della propria azione politica. Un'Europa che sappia difendere e rinnovare il suo sistema di welfare, giustamente definito come "la più straordinaria invenzione di ingegneria sociale degli ultimi 150 anni". Un'Europa che metta al centro della propria architettura istituzionale e civile i beni comuni, che sono valore fondativo di ogni democrazia: l'aria, l'acqua, l'ambiente, la cultura, la conoscenza…

Eppure in Italia i beni comuni sono stati spesso svenduti, trascurati, piegati alle logiche del profitto. Siamo tra i paesi d'Europa che meno investono nella cultura e nell'istruzione. Ma siamo anche un paese che, attraverso un referendum, ha saputo restituire all'acqua pubblica la sua inviolabilità di bene collettivo, risorsa di tutti, dignità di ciascuno. Quel referendum, e il milione e quattrocentomila firme che lo hanno accompagnato, sono stati un gesto di sana indignazione collettiva. Ha ragione Salvatore Settis quando scrive che per tenere viva la speranza e darle forma dobbiamo coltivare la nostra indignazione, non spegnerla come se riguardasse solo il passato. Anche in questo sento forte il dovere della politica e delle sue istituzioni: dobbiamo affrancare i cittadini dalla rassegnazione e dall'abitudine, far sentire loro che partecipare, proporre, scegliere, decidere, vigilare rappresentano il pieno esercizio del diritto di cittadinanza. Dal quale nessuno di noi può prescindere.

In conclusione, lasciatemelo dire: anche la democrazia, nella sua concezione più alta e compiuta, rischia di apparire un'utopia. Ma come potremmo sottrarci a questa sfida sapendo che il diario quotidiano di ogni democrazia è scritto sulla vita materiale, faticosa di milioni di donne e di uomini? Prendersi cura di quelle vite e di quelle fatiche non è un'utopia: è il segno della buona politica. A Montecitorio come nel più sperduto villaggio d'Africa. Pensate a Kogelo, appena un punto sulla carta geografica del Kenia, un gruppo di case appoggiato sulla linea dell'equatore. Da Kogelo partì negli anni Cinquanta un uomo. Suo figlio oggi è il presidente degli Stati Uniti d'America. Ecco, ragazzi, cos'è la nostra saggia utopia!

Vi chiedo di mettere da parte ogni cinismo e di osare! Volate alto, non abbiate paura! Non abbiate timore di esporre il vostro sguardo alle cose di questo mondo. Riprendetevi il sogno, i valori della solidarietà, dell'eguaglianza, della dignità umana. Perché questi principi non sono solo parole virtuose: è in essi, dentro di essi, il segno della vita che verrà. Di una politica responsabile. Di una felice democrazia.

La Repubblica, 5 aprile 2013

LA SOCIETÀ non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, di persone che si conoscono reciprocamente. È un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono come facenti parte d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Come può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco la cultura. Consideriamo l’espressione: io mi riconosco in... Quando sono numerosi coloro che non si conoscono reciprocamente, ma si riconoscono nella stessa cosa, quale che sia, ecco formata una società. Questo “qualche cosa” di comune è “un terzo” che sta al di sopra di ogni uno e di ogni altro e questo “terzo” è condizione sine qua nond’ognitipo di società, non necessariamente società politica. Il terzo è ciò che consente una “triangolazione”: tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta e, da questo riconoscimento, discende il senso di un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là della semplice vita biologica individuale e dei rapporti interindividuali. Quando parliamo di fraternità (nella tradizione illuminista) o di solidarietà (nella tradizione cattolica e socialista) implicitamente ci riferiamo a qualcosa che “sta più su” dei singoli fratelli o sodali: fratelli o sodali in qualcosa, in una comunanza, in una missione, in un destino comune.

Noi siamo immersi in una visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, nel senso sopra detto? Per niente. Anzi, il bisogno si pone con impellenza, precisamente a causa dei suoi presupposti costituzionali: la libertà e l’uguaglianza, i due pilastri delle concezioni politiche del nostro tempo, che se lasciati liberi di operare fuori di un contesto societario, mettono in moto forze egoistiche produttive di effetti distruttivi della con-vivenza.

Non si può convivere stabilmente in grandi aggregati di esseri umani che nemmeno si conoscono facendo conto solo su patti degli uni con gli altri, come pensano i contrattualisti. A parte ogni considerazione realistica, una volta stabilita una regolazione contrattuale degli interessi in campo, a chi o a che cosa ci si potrebbe richiamare per richiedere l’adempimento degli obblighi assunti, ogni volta che l’interesse mutato spingesse qualcuna delle parti a violarli? Ogni contratto, senza una garanzia terza, sarebbe flatus vocis. Per molti secoli, questa garanzia era riposta nella religione; oggi, nell’età della secolarizzazione, non può che essere la cultura.«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento », dice l’art. 33, primo comma, della Costituzione. Questa norma di principio è da considerare la base della “costituzione culturale”, così come esiste una “costituzione politica” e una “costituzione economica”, ciascuna delle quali contribuisce, per la sua parte, alla costruzione della “tri-funzionalità” su cui si regge la società, secondo quanto già detto. La Costituzione, senza aggettivi, è la sintesi di queste costituzioni particolari. Innanzitutto, dicendosi che l’arte e la scienza sono libere e che libero ne è l’insegnamento si dà una definizione.
L’attività intellettuale non libera, cioè asservita a interessi d’altra natura non è arte, né scienza: è prosecuzione con altri mezzi di politica ed economia. Si dirà, tuttavia: non è arte la scultura di Fidia, perché al servizio della gloria di Pericle? Non è arte la poesia di Virgilio, perché celebrativa della Roma di Cesare Augusto? E non è arte quella di Michelangelo, commissionata da Giulio II e Paolo III? La loro non è arte perché voluta, comandata, perfino imposta da altri, che non l’artista? Naturalmente no. Ma non è arte per la componente priva di libertà, esecutiva del volere del committente; è arte, per la parte che l’artista riserva alla sua libera creazione. Cose analoghe si possono dire per le opere dell’ingegno al servizio dell’economia, cioè della pubblicità di prodotti commerciali. Anche a questo proposito, l’impasto di attività esecutiva e di attività creativa è evidente. Il rapporto tra l’una e l’altra è variabile. Normalmente, prevale l’aspetto strumentale: far nascere bisogni, orientare il consumo, combattere la concorrenza, promuovere le vendite: tutte cose che riguardano gli stili di vita, le aspettative, i sogni, ecc. In certo senso, formano cultura,e nel modo più efficace possibile. Ma, per questo aspetto, non sono esse stesse espressione della libertà della cultura; sono invece funzione dell’economia. Non rientrano nella definizione costituzionale. Vale anche qui, però, la forza purificatrice del tempo. A distanza d’anni, quando s’è persa la nozione dell’interesse originario, anche le opere di pubblicità possono depurarsi dal loro aspetto strumentale ed essere rivalutate e apprezzate nel loro valore artistico.

Non si tratta, comunque, di teorizzare una “cultura per la cultura”, senza contenuto, come pura evasione. La cultura come cultura ha una sua funzione e una sua responsabilità sociale, come s’è detto: una funzione che esige libertà. Sotto questo aspetto, il verbo “essere” che troviamo nella norma costituzionale assume il significato non d’una definizione, ma d’una prescrizione: “la cultura deve essere libera”. La difficoltà nasce dal fatto che deve essere libera, ma non può vivere isolata.

La prima insidia, qui, sta nella tentazione della consulenza. Il nostro mondo è sempre più ricco di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Questa – del consulente – è la versione odierna dell’“intellettuale organico” gramsciano, una figura tragica che si collegava alle grandi forze storiche della società per la conquista della “egemonia”: un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. I consiglieri di oggi sono gli imboscati nell’inesauribile miniera di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., che si legano al piccolo o grande potere, offrendo i propri servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che vendono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva in sé, ma lo sono quando sono essi stessi che si offrono e accettano di entrare “nell’organico” di questo o quel potentato. L’uomo di cultura diventa uomo di compiacenza.

La seconda insidia all’autonomia della funzione intellettuale è la tentazione di cercare il successo in questa, per poi spenderlo nelle altre funzioni. Ciò che è giusto in una sfera, può diventare corruzione delle altre sfere. Così, l’affermazione nella sfera dell’economia non deve essere usata strumentalmente per affermarsi nel campo della politica o in quello della cultura; l’affermazione nella sfera politica non deve essere il ponte per conquistare posizioni di potere nella sfera economica o in quella culturale; l’attività nella sfera culturale non deve corrompersi cercando approvazione e consenso, in vista di candidature, carriere e benefici che possono provenire dalla politica o dall’economia.

Merita qualche parola anche il binomio “libertà della cultura” e “democrazia”. La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società dove pressoché tutte le decisioni politiche hanno una decisiva componente scientifica e tecnica, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Per prendere decisioni democraticamente e consapevolmente in campi specialistici, chi non sa nulla deve potersi fidare di chi detiene le conoscenze necessarie. Non in nome della Verità, che non sta da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che può stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, la cultura come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza sarebbe un corpo morto. Di quali mezzi si avvale oggi la cultura? Semplificando: chat o book? Dov’è la radice della differenza? È nel fattore tempo, un fattore determinante nella qualità di tutte le relazioni sociali. La chat e i suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup, mailing list, facebook, messaggi immediati d’ogni tipo – appartengono al mondo dell’istantaneità; i libri al mondo della durata. I messaggi immediati appartengono alla comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione vive dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La comunicazione non ha onere d’argomentazione e non attende risposte. Il suo fine è dire e ridire su ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico - appartiene a un altromondo. Nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare? L’invasione degli instant la conseguenza della medesima risposta a entrambe le domande, rivolte agli autori e ai lettori: poco, molto poco, forse sempre meno tempo e meno concentrazione.

Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza del libro non è una rivendicazione a favore d’unaélitedi pochi fortunati lettori. La diffusione della lettura nonappartiene al superfluo d’una società non solo, com’è ovvio, perché ha a che vedere con la diffusione dell’istruzione. Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza, cioè della condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile a quanto c’è di più decisivo per la tenuta della compagine sociale, cioè la partecipazione a una delle tre “funzioni sociali”: la funzione politica di fondo, meno visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più determinante della stessa azione politica in senso stretto, la quale, nella prima trova i suoi limiti e i suoi fini. Si tratta, per l’appunto, della cultura

Micromega, n. 1/2013

Si può parlare dell’“attualità” del Principe di Machiavelli, in occasione dei cinquecento anni dalla sua redazione, ma con molte cautele. Questo piccolo scritto, un “opusculo”, straordinario per i concetti e per la lingua, tra i più letti al mondo, rientra certamente nel novero dei “classici”. Ora le opere classiche, mentre hanno la straordinaria capacità di parlare a tutti, nella lunga durata, sono sempre anche figlie del loro tempo, ne recano tracce ineliminabili, e a volte la loro bellezza nasce proprio dalla commistione di tempo ed “eternità”. Così, non c’è attualità che non si costituisca entro la consapevolezza della distanza, niente dei classici è trasferibile immediatamente nella realtà di oggi. Il filo di connessione è piuttosto costituito da quella che direi “lezione”, ossia la possibilità di ricavare liberamente dai classici temi e motivi che, in parte, vanno oltre il tempo e possono, più spesso in forma indiretta, farci da guida.

Il primo e centralissimo punto della lezione del Principe consiste nella decisività della dimensione politica. Certo, Machiavelli riteneva che la politica fosse il “tutto”, la priorità assoluta nella vita degli uomini, e tuttavia, col filtro della lezione, resta vero, in ogni caso, che la politica costituisce un essenziale punto di unitaria connessione per ogni comunità, che mai potrebbe farne a meno, per decidere le sue sorti collettive e anche individuali. Ma, al tempo stesso, Machiavelli insegna che la politica è un’arte tremendamente difficile, che incontra, sulla via della sua realizzazione, numerosi e gravi intralci. Il primo ostacolo che la politica trovi avanti a sé, è ciò che Machiavelli chiama “fortuna”. Fuori da ogni raffigurazione mitica, fortuna significa l’insieme delle condizioni, delle circostanze e delle situazioni, che, in un dato momento, costituiscono la realtà del mondo umano; sono i “tempi” della storia. Questa realtà è subito complicata da un secondo ostacolo, cui Machiavelli è particolarmente sensibile: le cose umane non sono mai “salde”, ma sempre in “moto”, i “tempi”, l’insieme delle situazioni date, sono soggetti a perenne “variazione”. Infine, gli uomini stessi costituiscono un decisivo ostacolo alla politica. L’uomo è costituito, per Machiavelli, da un fascio di potenzialità, che si attuano nella storia, non ha una natura fissa e immutabile, né segnata indelebilmente, come talvolta s’è detto, da una colpa originaria, di natura religiosa, o da una struttura metafisica che lo condanni al male; è anche un essere fragile e insicuro, bisognoso di “assicurarsi” delle forze ostili che lo minacciano, specie quando i tempi hanno una dura configurazione; dovrebbe avere la capacità di mutare se stesso, un precetto fondamentale della politica machiavelliana, e tuttavia è spesso attaccato, tenacemente, alle abitudini del suo modo di essere e di vivere, a specifici e determinati comportamenti.

La “fortuna” riassume nel suo ambito i primi due ostacoli, e specialmente il secondo, la variazione dei tempi, il quale comprende in sé anche il primo, la complessa durezza delle cose. Non è detto che la fortuna, questa dea capricciosa, sia sempre matrigna: può limitare l’azione umana e l’iniziativa politica, fino a “spegnerle”, ma può anche presentare un volto benevolo, ciò che Machiavelli chiama “occasione”. Se questi due primi ostacoli, compresi nella “fortuna”, costituiscono difficoltà a parte obiecti, riguardano l’oggettiva realtà data, spessa e mutevole, il terzo si colloca a parte subiecti; ed è, comprensibilmente, quello che preoccupa di più Machiavelli: la fortuna varia, le cose seguono il loro oggettivo corso, e solo l’azione umana può intervenire a mutarle. Alla decisività del terzo ostacolo, al pericolo estremo che esso può rappresentare per la politica, Machiavelli risponde con la “virtù”, che è l’insieme delle qualità che connotano l’azione del politico eccellente, capace di incidere sulle cose, per quanto siano resistenti e mutevoli.

Sarebbe ingenuo non riconoscere, nel quadro cui abbiamo accennato, il segno del tempo, in particolare circa la variazione, l’estrema mutevolezza della fortuna, e di quel che ciò ingenera nella vita degli uomini, La situazione storica dell’Italia, in cui il Principe nacque, era segnata da una durissima e miserevole crisi, che l’opera riflette e tenta di superare. Drammaticità delle cose, impazzimento nel girar della fortuna, fragile insicurezza degli uomini. L’Italia era divenuta, dalla fine del quattrocento, dalla discesa di Carlo VIII nel 1494, la “sedia”, dice Machiavelli, della “variazione”, e insomma costituiva il principale terreno di scontro e di conquista. E tuttavia, sarebbe anche difficile dire che gli ostacoli individuati da Machiavelli si chiudano in un cerchio remoto e interamente passato, senza entrare a far parte di una costante natura della politica, perciò anche di quella di oggi. La pesante inerzia delle condizioni date e il mutamento delle cose, non abbiano pure la gravità e l’accelerazione che Machiavelli soffre, costituiscono sempre dati elementari e oggettivi di ogni iniziativa politica. Quanto alla concezione dell’uomo di Machiavelli, cui s’è accennato, sebbene sia qui difficile parlarne distesamente, non è priva affatto d’interesse, per ogni età. Per il punto che ora interessa, la polivocità della natura umana viene espressa da Machiavelli attraverso una serie antinomica di qualità, come essere “impetuoso”, rapido di decisione e anche all’occorrenza violento, o “respettivo”, prudente e “temporeggiatore”; ma anche come essere buono o “non buono”. Il principe deve saper essere impetuoso e rispettivo, riuscendo ad alternare questi diversi comportamenti secondo la necessità; e poiché i tempi, e molti uomini, sono “tristi”, deve anche saper “intrare nel male”. La condizione è che l’atto sia necessitato, inferto senza compiacenza (“crudeltà bene intesa”), e, soprattutto, che, come la sua multiversa natura consente, il principe sappia tornare, subito dopo, alla “bontà”, riscattando, alla fine, le sue azioni “non buone” con la costruzione di uno stato che assicuri il “bene comune”. Ora, il problema è se l’uomo riuscirà a gestire queste potenzialità della sua natura, mutandole secondo quel che comandano la durezza dei tempi e i “venti della fortuna”. Varia e molteplice, la natura umana possiede altresì, come s’è detto, un fondo opaco, refrattario al mutamento di sé, ed è questo il problema che più angustia Machiavelli. In ogni caso, venendo all’oggi, anche a questo proposito ci aspettiamo sempre che un buon politico, dinanzi a una situazione nuova, sappia affrontarla vincendo la sua “natura”, i suoi consueti modi di essere.

Il problema del Principe è quello di costruire razionalmente una figura di principe che sappia sfidare l’inerzia delle cose, affrontare la variazione dei tempi, mutare la propria natura secondo le necessità, e, perciò, sappia realizzare il suo alto scopo, nonostante tutti i condizionamenti e le avversità. Ma sarà in grado il principe di vincere quest’insieme di difficoltà? Machiavelli procede, armato di una splendida lingua e di una mente acutissima, con speranza e timore, con sicurezza razionale e profondi dubbi. Il Principe consiste nella razionale costruzione di questa possibilità, nell’analisi delle condizioni e dei modi, attraverso cui l’azione politica possa affermarsi. La priorità essenziale è che il principe abbia una virtù “estraordinaria”, “eccessiva”; e i consigli di Machiavelli sono tesi a dar forma e contenuti al principio generalissimo della “virtù”, plasmando un esprit fort, un politico veramente capace, tanto nella consapevolezza dell’oggettiva realtà che nella soggettiva capacità di agire, di condurre a segno la sua “intenzione alta”. La politica non deve essere affatto pensata, per Machiavelli, come un’arte distaccata ed eterea. Bisogna sporcarsi le mani, scendere nel profondo della complessa realtà delle cose e dei suoi mutamenti, imparando a conoscere bene chi sono gli avversari della buona politica. Duro mestiere quello del politico, perché, conoscendo i suoi nemici, deve altresì passare attraverso i mezzi di cui essi si servono, i soli che conoscano; e, insomma, è costretto a “intrare nel male”, sebbene non debba mai farsene contagiare, fino a corrompere ’intera sua persona. Il male, ai tempi del Principe, era fatto di armi e violenza, tradimenti, pugnali e veleni. E Machiavelli, con la sua alta e dolorosa coscienza morale, è “necessitato” ad attraversare questa greve materia. Ma anche nei “tempi quieti”, come i nostri, la politica che volesse davvero cambiare le cose, dovrebbe egualmente esercitare giusta durezza, conoscere e cercar di neutralizzare i propri nemici, sporcarsi e trattare, entrando nella palude di complessi e purulenti poteri. La condizione di salvezza, dice Machiavelli, è solo che il politico sappia mantenere una fondamentale onestà di coscienza, e tenga ben fermo lo scopo da raggiungere.

Il principe di Machiavelli deve essere “egemone”. L’egemonia non coincide, semplicemente, con la politica “ordinaria”, perché ne costituisce una qualità aggiuntiva, una versione straordinaria e potenziata. Nell’accezione gramsciana, l’egemonia “politica” – un tema profondamente connesso, nei Quaderni, alle pagine su Machiavelli – si può riassumere (poiché la questione è alquanto complessa) nella formula di una politica che poggi, insieme, su egemonia (direzione, consenso) e dominio (forza, coercizione). Sebbene il dominio sia necessario in ogni stato, l’egemonia può esserci o no, come nel fascismo, dove la forza presumeva di essere nell’atto stesso consenso. Il principe nuovo di Machiavelli s’iscrive con precisione in questo quadro: esercita certamente dominio, ma deve in ogni caso governare con il consenso. Anche per giungere al potere, il principe deve dispiegare un’azione egemonica, nella strategia circa il modo di combattere i nemici, e, soprattutto, di stabilire alleanze. In sintesi, egemonica è una politica che sappia abbracciare più elementi e bisogni nel suo quadro, e riesca a prospettarli, con lunghezza di sguardo, nel futuro, mirando a modi di convivenza nuovi, o più avanzati, così come Machiavelli, dall’Italia, guardava a Francia e Spagna, ai primi due grandi stati moderni in via d’affermazione.

Il principe nuovo e “civile”, la figura più alta e “sicura” di principato, è fortunato nella sua genesi: non ha, propriamente, bisogno né di fortuna né di virtù, non deve compiere atti efferati, perché è chiamato al potere di uno stato da una delle due “classi” che lo compongono, dai “grandi” o dal “populo”: i due fondamentali soggetti collettivi, che sempre costituiscono, nella loro lotta o nella conflittuale collaborazione, il fondo ultimo della teoria politica di Machiavelli. Nel caso del principato “civile”, le forze sociali e politiche sono giunte a un’impasse nel loro conflitto, nessuna delle due può vincere sull’altra, e perciò devono ricorrere a un principe, a una figura “terza”. Assurto al potere, il principe deve in ogni caso mettere in atto una strategia egemonica: se ha già il favore del popolo, deve “mantenerselo amico” e assicurargli “protezione”. Ma poiché l’autorità, quale che sia la genesi del potere, deve essere in ogni caso esercitata nel segno dell’alleanza con il popolo, anche il principe che, da “privato cittadino”, sia divenuto tale con il “favore de’ grandi”, deve, “innanzi a ogni altra cosa, cercare di guadagnarsi el populo”. I grandi, cui il popolo non vuole assolutamente sottostare, devono in ogni caso essere repressi o “spenti” dal principe. Rispetto ai grandi, del resto, quando siano trattabili (“quelli che si obligano, e non sieno rapaci”), Machiavelli suggerisce anche una sottile strategia, un po’ al modo della nobiltà francese, rinserrata da Luigi XIV nella regia di Versailles. Del resto, il principe, di “grandi”, può “farne e disfarne ogni dì”.

Nel corso di un’azione egemonica, come si capisce, il principe deve innanzitutto pensare a se stesso e al suo potere, alla propria “gloria”; l’egemonia deve agire, contemporaneamente, a parte subiecti e a parte obiecti. L’appoggio al popolo non è “caritatevole”, ma risponde a una profonda logica politica. Machiavelli ha definito, in premessa, i due “umori”, la caratteristica natura e la passionalità più radicale delle due “classi”: “li grandi desiderano comandare e opprimere il populo”, il quale, a sua volta, “desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi”. Da ciò discende la necessità per il principe di “fuggire” in ogni modo i grandi, che si riterrebbero “equali” a lui, e, non ubbidienti ai suoi comandi, si servirebbero di lui come di un fantoccio, “per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito”; dotati di “più vedere e più astuzia”, i grandi costituirebbero insomma una minaccia interna, e anche esterna, quando, abbandonando il principe, tentassero di muovergli contro con le armi. Se dei “pochi” grandi, come nemici, il principe si può “assicurare”, il contrario avviene quando si “inimica” il popolo, che costituisce la stragrande maggioranza della popolazione, i polloi, che sono “troppi”. Poiché il popolo chiede, fondamentalmente, di non essere oppresso, è più “facile” mantenerselo amico, ove il principe “pigli la protezione sua”. E anche quando il principe provenga da un originario “favore de’ grandi”, voltosi alla protezione del popolo, ne riceve “amicizia”, perché gli uomini, “quando hanno bene da chi credevano avere male, si “obligano” al benificatore loro”, ancor più che se il principe fosse stato in origine chiamato dal popolo. Sebbene il ragionamento di Machiavelli sia retto da una ferma logica politica, in un punto dell’argomentazione compare anche un senso più largo di egemonia: non si può dare soddisfazione ai grandi “sanza iniuria d’altri”, sì invece al popolo, perché quello del popolo “è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso”.

Il principe nuovo, se non vuol farsi assoluto e crudele tiranno, uscendo così dalla stessa dimensione politica, può mantenere l’amicizia, il consenso del popolo, quando agisca con “grandezza e nobiltà d’animo”. Ciò vuol dire che ogni suddito deve essere sicuro di poter conservare il rispetto di sé e l’integrità della propria persona (l’”onore”); star tranquillo circa la protezione delle proprie donne, dei figli, e della sua “roba” (che è il terreno dove un principe “rapace” è più spesso tentato di opprimere); fiducioso che la giustizia sarà esercitata secondo le forme e le garanzie dovute (punire solo quando vi sia “iustificazione conveniente e causa manifesta”); certo che non sarà oppresso, vessatoriamente, dalle tasse di un principe “fiscale”, che, dilapidate le ricchezze dell’erario, venendo meno alla rigorosa distinzione machiavelliana di “publico” e privato, si volga di continuo a spremere il popolo per le guerre e le altre imprese. Scrive Gramsci, a proposito del principe di Machiavelli, che “le masse popolari dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine, se questo è storicamente progressivo e risolve i problemi essenziali dell’epoca”; il principe, difatti, “stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente”. Insomma, un popolo “sicuro”, “soddisfatto” e, come Machiavelli ripete spesso, “contento”. Si tratta, insomma, di un potere sempre accompagnato da egemonico consenso. Nei tempi che viviamo, in una situazione in cui la democrazia si riduce, non di rado, a garantire, in ultima istanza, un certo stato di diritto e i mercati, nemmeno ci si dovrebbe stupire troppo del quadro delineato da Machiavelli, di questa protezione personale, familiare, e, in senso largo, “sociale”.

Da ciò che si è detto, emerge, certo, una sostanziale passività del popolo; un qualche ruolo “attivo” si potrebbe tutt’al più scorgere solo nel fatto che il popolo, dopotutto, deve riconoscere e accettare l’offerta amicale del principe. Per la contraddizione che non lo consente, il principe non potrebbe mai “soddisfare” il popolo dal lato politico, rinunciando al suo potere monocratico, di modo che la soddisfazione sarà da ritrovare tutta sul piano dei bisogni essenziali e primari, di ciò che sta al di qua, o al di là, della politica. Si tratta, insomma, di una prima ed elementare forma di egemonia, riposante sulle necessità della vita. Ma la grandezza di Machiavelli sta nel fatto che egli conosce, insieme, una diversa e più alta forma di egemonia: quella esemplificata dalla repubblica romana, che è al centro dei Discorsi. Qui tutto il popolo, la “plebe”, è chiamato a un importantissimo, e, in un certo senso, decisivo ruolo politico: tutti i cittadini sono diventati “principi”. E si ha egemonia sia nella forma di una costituzione “mista”, di carattere “duale”, contro la monotonia degli stati “monoclasse”; sia nel determinante conflitto che oppone la plebe o popolo ai nobili o grandi, per la conquista di egemonia, sempre nel quadro delle istituzioni democratico-repubblicane, allo scopo di promuovere leggi “in favore della libertà”; sia infine negli effetti prodotti dal corpo politico così costituito, libertà interna e potenza esterna, con lo strepitoso esempio dell’”imperio” romano, che esercitò hegemonia, diceva Polibio, sull’intero mondo conosciuto, o almeno su una sua parte significativa. I Discorsi non dimenticano mai il Principe, e uno dei punti di forza di Machiavelli, è che, rifiutando ogni pensiero unico e definitivo, lavora su più “modelli”, principato e repubblica, incrociandoli tra loro, e facendo reagire l’uno sull’altro.

La politica, e specie quella d’egemonia, non è mai figlia di allegro ottimismo volontaristico, di spensierata sicurezza. Si nutre sì di ragione e passione, di fermo calcolo e di brucianti emozioni, ma li costituisce sul fondo, e con la perenne compagnia, dell’incertezza e del dubbio, dell’esperienza di passate e forse future delusioni. Il fatto è che non esiste una generale “scienza politica” capace di dare certezze, né Machiavelli ha mai cercato, contrariamente a quanto si continua pigramente a ripetere, di dar corpo a una simile scienza. Nulla è garantito, nulla è certo, in merito alla costruzione e all’effettiva riuscita di una buona politica. Ora, quasi alla fine di Principe XXV, in prossimità della sua conclusione, esplode in Machiavelli un dubbio radicale, “iperbolico e, per dir così, metafisico”, come avrebbe detto Cartesio. Non è più l’esitazione perplessa che aveva accompagnato tutta la stesura dell’opera, ma un dubbio devastante, capace di mettere in crisi, di “ruinare”, l’intera costruzione del Principe. No, forse non è vero che un principe, quand’anche fosse straordinariamente virtuoso, riesca a compiere l’impresa che ho preparato per lui. Lo smarrimento nasce nel punto più delicato: la fortuna è in perenne “variazione”, e questo è il dato della realtà, ma sarà l’uomo in grado di mutare se stesso, restando in sintonia con le cose, anche quando queste mutino rapidamente, ciò che Machiavelli dice “riscontro coi tempi”? Gli uomini, come hanno “diverso volto”, così posseggono pure diverso “ingegno et fantasia”, e, come esempio, Machiavelli riconduce questa disparità a due diversi tipi (prejunghiani), quello dell’”impetuoso” decisionista e quello del prudente “respettivo”. Gli esseri umani sono abituati a condursi in una certa maniera, secondo il loro temperamento, e magari sono stati fortunati nel comportarsi così; si capisce allora come siano riluttanti ad abbandonare il loro modo d’essere. Ma qui siamo ancora al dubbio “metodico”, non a quello “iperbolico”, che si ha quando si osserva che simili attitudini degli uomini non sono né scelte né revocabili, ma costituiscono un immutabile dato naturale. Così accade che, mentre i tempi variano impetuosamente, l’uomo non è in grado di mutare se stesso, non “potendo deviare da quello a che la natura lo inclina”. Si “felìcita” quando c’è un positivo “riscontro” con i tempi, una conformità tra il proprio carattere e quello di uno specifico momento storico, ma si “infelicita” quando il proprio “umore” è disforme dai tempi, sia esso impetuoso o rispettivo, ma nemmeno un uomo virtuoso come il principe nuovo può, uscendo dalla sua natura, secondare tutti i tempi. Può aver prosperato finché c’era un tempo congeniale alla sua natura, ma di necessità “rovina” quando, variando la fortuna, se ne sta “ostinato” nei suoi “modi”. Non c’è “uomo sì prudente” che sappia vincere questa sfida, un “savio” che sappia comandare “alle stelle et a’ fati”.

Per comprendere il punto di crisi, che rovinerebbe l’intero Principe, deprimendo ogni azione umana, è necessario guardare sommariamente la struttura del capitolo XXV, il più difficile, senza dubbio, dell’opera, che ospita quest’amara riflessione. Il titolo si chiede “quantum fortuna in rebus humanis possit”; è un tema del tutto nuovo rispetto al Principe, quale era stato fin qui svolto e presso che ultimato. Finora Machiavelli, pur fin troppo consapevole del peso della fortuna, aveva delineato l’eccezionale figura di un principe che sapesse duramente affermarsi sulla variazione dei tempi. Qui invece la riflessione assume un andamento filosofico, e, insomma, ci si interroga su quale sia “in universali” il potere della fortuna nelle cose umane. La premessa è molto significativa. Machiavelli riporta l’”opinione” di quanti sostengono che la “fortuna e Dio” abbiano così in mano il governo delle cose del mondo, che gli uomini, “con la “prudenzia loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno”. Una simile opinione è, certo, più facilmente credibile “ne’ nostri tempi”, quando si è vista e si vede una “variazione grande delle cose”, eventi “fuora di ogni umana coniettura”. Segue una confessione autobiografica: “a che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro”. Ma (“nondimanco”) l’idea fatalistica è subito rigettata, “perché il nostro arbitrio non sia spento”. Il problema è quale sia, nella storia, il rispettivo peso della fortuna e delle azioni umane. Machiavelli giudica che, all’incirca (“o presso”), la “fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre”, e che l’altra metà spetti al governo umano. E’ una partizione di necessità approssimativa, quella che aveva guidato, più o meno, la costruzione del Principe. E, del resto, chi potrebbe mai rigorosamente risolvere, con astratta ricerca intellettuale, un simile problema? Importante è sapere, come accade nel Principe, che c’è un pesante condizionamento delle cose, una durezza volta a volta data, e una possibilità d’azione, sebbene ardua anch’essa. La metafora del fiume, notissima e stilisticamente stupenda, illustra questa situazione: il fiume straripa impetuoso perché, nei “tempi quieti”, non si sono fatti “argini” e “ripari”; e così, parimenti, la fortuna “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle”. Nessuno potrebbe dire che per questa via siamo giunti a una rigorosa soluzione del problema del peso della fortuna nelle cose umane. Machiavelli stesso oscilla, ora inclinando più verso la fortuna, ora più verso la virtù. Ma, come s’è detto, è il problema stesso che è insolubile, né si lascia razionalmente sciogliere.

Nel breve finale del capitolo, Machiavelli si riprende dall’estremo dubbio, e avanza una dichiarazione del tutto contraddittoria, in apparenza, con l’analisi subito prima svolta: “io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo”. Può sembrare solo una passionale battuta, di fronte all’ oscura complessità del problema affrontato. Ma sarei portato a darle più ampio valore. Dalla depressione si esce con umori euforici, e tanto più la prima è stata acuta, tanto più i secondi sono eccitati e “veloci”. Con la preferenza accordata agli impetuosi, i più “decisionisti”, Machiavelli riprende, nella maniera più intensa, il tema, costante nel Principe, della volontà che agisce, della virtù che sa imprimere il suo segno sulle cose. E, implicitamente almeno, affiora qui un altro problema. La domanda sul peso rispettivo di fortuna e virtù, indecidibile sul terreno razionale, può essere affrontato e illuminato solo nell’ambito della praxis. Non si tratta in alcun modo di ergere bandiere di prometeico volontarismo, di azioni senza oggetto, contravvenendo a ogni lezione machiavelliana, ma è pur vero che il duro peso della fortuna si può sperimentare e misurare solo nel lavoro dell’azione, nel tentativo non di annullarlo, quanto di operarvi dentro per mutarlo, e lasciare nella “materia” delle cose la propria soggettiva “forma”. E’ qui che si vede quanto possa la fortuna nelle cose umane.

Se, prima del dubbio, sta l’intero Principe, e se nel finale del capitolo XXV Machiavelli si riallaccia ai suoi temi più caratteristici su virtù e fortuna, nel capitolo seguente e ultimo dell’opera, nella celebre Exhortatio a liberare l’Italia dai “barbari”, si ha una vistosa ripresa di tono circa la possibilità dell’azione politica, un timbro da grande orchestra, in qualche punto persino troppo sonora. Il superamento della profonda crisi intellettuale è segnato con nettezza: “Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci torre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi”. La virtù deve riprendere il suo alto e difficile corso. La politica di Machiavelli è imprescindibile dal nesso con la storia; non teoriche e un po’ eteree dottrine devono guidare il politico, ma l’acuta consapevolezza e il senso della storia, di quella passata e, soprattutto, di quella in cui deve agire. Il Principe è “vissuto” di storia, come si conviene all’”antiteorico” Machiavelli, e nel nostro capitolo è di nuovo al centro la situazione italiana. Nel punto del dubbio radicale, era la virtù, la capacità di agire, la questione centrale, e, anzi, il solo vero problema. Ora, tornata la fiducia nella virtù, che certo deve essere sempre grande, “estraordinaria”, la prospettiva si sposta dalla parte della fortuna, del tempo della storia e della situazione delle cose. La condizione italiana, s’è detto, era pessima, è ciò è ribadito anche nell’ultimo capitolo del Principe: l’Italia è “battuta, spogliata, lacera, corsa”. Centrale è in Machiavelli, tra fortuna e virtù, l’”occasione”, un modo di presentarsi dei tempi e delle cose, che, se non trova virtù adeguata, trascorre vanamente, così come la virtù, grande quanto si voglia, deperisce e si spegne, se non trova l’opportunità di esercitarsi. Nel nostro capitolo, l’occasione sta proprio nella disperazione delle cose, quando si è toccato il fondo dell’abisso. C’è, certo, un tratto di biblico provvidenzialismo nel prospettare come “occasione” quella situazione italiana tenuta ferma, nella sua drammaticità, per tutto il corso del Principe: “el mare si è aperto; una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuta la manna”. Come dirà, in una sua “degnità”, Vico: “parevano traversie ed erano opportunità”. Ma. del resto, secondo il costante convincimento di Machiavelli, “tutte le cose degli uomini” sono sempre “in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino”; giunte al punto più basso, le cose non possono che risalire. E si ha qui un’altra lezione di Machiavelli. Per quanto miserevole e sconsolata sia la situazione data, conviene sempre tentare una via d’uscita politica. Molte volte, e in vari modi, Machiavelli si sofferma sul fatto che, in condizioni disperate, quando non si ha più nulla da perdere, è sempre meglio affrontare la lotta, tentando, con decisione “impetuosa”, di rimontare la china. Ma per far ciò. le sole armi della ragione non bastano. Occorre saper mobilitare con tutti gli strumenti possibili, accendere gli animi, pur predisposti dalla loro condizione al mutamento, formulare un “manifesto politico” che esprima “fanatismo d’azione”, come diceva Gramsci. Machiavelli ricorre, tra altri esempi e motivi, alla biblica lezione di Mosè, di cui s’è già vista la presenza. L’occasione nasceva dal fatto che gli ebrei erano disperati e “stiavi”, e s’incontrò con la “virtù di Moisè”, il grande condottiero che mobilitò il suo popolo, traendolo fuori dalla schiavitù.

Questo testo ha fatto da base all’intervento sullo stesso tema realizzato da Mario Reale per l’Osservatorio filosofico.

Mario Reale è Professore emerito di Filosofia Teoretica alla Sapienza – Università di Roma. Fra le sue pubblicazioni più importanti: Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal “Discorso sull’ineguaglianza” al “Contratto”, (Edizioni dell’Ateneo, 1983) e La difficile eguaglianza. Hobbes e gli animali politici: passioni, morale, socialità (Editori Riuniti, 1991).

(1 febbraio 2013)

Corriere della Sera, 27 gennaio 2013 (f.b.)

Non bisogna andare lontano per avvicinarsi alla storia. «La storia siamo noi» dice una famosa canzone di Francesco De Gregori; ed è un'affermazione ineccepibile. Noi: noi uomini, cioè, nel mondo in cui viviamo, e che non sappiamo quale futuro avrà, ma ben sappiamo che ha avuto, come ciascuno di noi, un passato, una storia. Ed è, per l'appunto, quando, per ricordare o per una qualsiasi necessità, ci volgiamo al passato, che ci chiediamo: «Che cos'è mai la storia?».

Domanda antichissima, ma di quelle che perpetuamente si pongono e si ripropongono. Per il grande storico tedesco Leopold von Ranke, la storia consiste nel cercare che cosa realmente (realmente è qui la parola più importante; wirklich in tedesco) sia accaduto nel passato, come, cioè, siano veramente andate le cose nel passato. Una definizione semplice solo in apparenza. Essa implica, infatti, in primo luogo, che il passato è diverso da noi, ha una sua alterità rispetto a noi; e, in secondo luogo, che noi al passato possiamo accedere, che lo possiamo conoscere e riconoscere come passato, ossia in quella sua oggettiva alterità dovuta al fatto che, appunto perché passato, esso è diventato immutabile.

Ma, essendo così il passato, qual è poi la ragione per cui lo vogliamo o dobbiamo conoscere? Perché ci interessa il passato?
La verità è che noi abbiamo un bisogno di storia, che non nasce nel corso della nostra vita, nasce insieme con noi. In nessun momento possiamo, infatti, essere noi stessi sia come singoli, come individui sia come collettività o comunità, se non abbiamo una visione storica di noi stessi. Se non abbiamo, cioè, un'idea di ciò che eravamo nelle varie fasi della nostra vita e di ciò che ci ha fatto diventare quel che siamo oggi. Nessuna identità può, in effetti, sussistere senza un tale retroterra di memoria e di coscienza. Né si tratta di un retroterra fissato una volta per sempre. In ogni momento della nostra vita noi lo ricordiamo e lo raccontiamo in modo nuovo, e magari anche molto diverso da ieri. Certo, anche perché atteggiamo il nostro passato in modo che convenga al nostro presente, ma allo stesso tempo perché in quel passato diventiamo sempre più capaci di leggere meglio e più a fondo.

Ecco, dunque, perché ci interessa il passato e perché ci interessiamo ad esso. Sono i problemi e i bisogni del presente a spingerci verso di esso. È il nostro perenne, inesauribile bisogno di autocoscienza e di identità, è la nostra continua ricerca di noi stessi a spingerci a riformulare e a riatteggiare il nostro senso e la nostra immagine del nostro passato, spesso con mutamenti radicali rispetto alle immagini che ne avevamo prima. Perciò a ogni stagione della vita ci diamo idee e immagini differenti del nostro essere di ieri e dell'altro ieri. Sono le necessità e le spinte del presente a portarci a queste continue riletture del nostro passato. E questo è vero (occorre ripeterlo) sia per gli individui, dal meno provveduto di un suo patrimonio intellettuale e culturale al più geniale e multiforme, sia per qualsiasi gruppo umano, dal più piccolo e più primitivo al più grande, complesso e avanzato. Ed è, dunque, per questo che la storia viene scritta e riscritta a ogni generazione, e secondo le vedute e le necessità dei vari, innumerevoli grandi e piccoli gruppi umani compresenti sulla scena del mondo.

Un perenne fare e rifare che, però, non è affatto, come si potrebbe credere, un perenne disfare. Il passato è il passato. La sua alterità e immutabilità sono sempre fuori discussione. Se noi lo alteriamo per nostro piacere o per nostro interesse, prima o poi questa alterazione si ritorce contro di noi e ci costringe a un più serio ripensamento. E questo perché il passato lo possiamo far rivivere solo se ne abbiamo qualche documento. Come in una famosa réclame, la regola è: no documents, no history.

È come nella nostra vita privata. Il tempo rende sfocati, incompleti, inesatti i nostri ricordi, ma se abbiamo qualcosa alla mano (lettere, fotografie, filmini, oggetti, giochi e giocattoli, carte di identità o altri documenti, atti notarili, qualche mobile o qualche attrezzo, le pagelle della scuola, vecchi indumenti e qualsiasi altra cosa superstite del nostro passato) il nostro ricordo ne sarà ravvivato e sul nostro passato non ci potremo raccontare troppe favole. Che è quel che, per l'appunto, accade anche a livello collettivo e che costituisce il mestiere dello storico. Un mestiere che produceva in origine miti e leggende a cura di sacerdoti e altre simili figure sociali, ma diventato già presso i Greci e i Romani e, poi, soprattutto nell'Europa moderna, una «scienza», con suoi statuti e metodi, con criteri rigidamente documentari e con una capacità sempre più ampia di studio del passato, secondo moduli sempre più complessi, dalla semplice biografia alla «storia universale», ossia a una storicizzazione complessiva delle vicende di tutta l'umanità. È, dunque, la visione storica del nostro essere, di quello che siamo in quanto continuatori di quel che siamo stati, come singoli e come comunità o collettività, a consentirci di riconoscerci come tali, ossia ad assicurarci della nostra identità.

Nel corso del tempo, a volte, la soddisfazione comunitaria di questa esigenza ineludibile è più forte della sua dimensione e soddisfazione individuale; e nelle comunità vi è un fortissimo senso storico della propria identità. In questi casi la soddisfazione comunitaria di quel bisogno assorbe e risolve in sé, più o meno largamente, anche la sua soddisfazione a livello individuale. Ci si riconosce come individui in quanto membri della comunità e partecipi della sua identità. In altri casi, invece, da un lato, le comunità avvertono il bisogno storiografico in maniera attutita, mentre, dall'altro lato, il senso dell'individuo e dell'individualità si presenta molto più forte. In tali casi l'esigenza individuale di soddisfare il bisogno di storia prevale nettamente; il senso e la coscienza individuale non si sentono e non si ritengono più assorbiti e soddisfatti appieno dalla pratica storiografica comunitaria, collettiva.

Oggi vi sono condizioni nuove di questa connotazione sociale e individuale della storiografia; e ciò perché nella civiltà moderna uno dei fili rossi più importanti appare il potenziamento simultaneo sia del piano e delle esigenze sociali, collettive, comunitarie sia della presenza e della forza dell'individuo e del conto che se ne fa. E questo significa che, permanendo sempre il bisogno di storia con le sue esigenze di pensiero e di immagine, vi è pure l'esigenza di soddisfarlo in relazione alle circostanze per cui, a livello sia individuale sia collettivo e sociale, la domanda di storia si è tanto moltiplicata.

Una domanda nella quale non si è mai spenta l'antica aspettativa che la storia ci dica il nostro da fare di oggi, che sia, come si diceva un tempo, maestra della vita. Ciò che è stato ci dovrebbe dire ciò che sarà. Ma non è così. Il passato illumina il presente, ma non lo determina, diceva Hannah Arendt. Il presente lo facciamo noi, con le nostre azioni, idee, volontà, passioni, interessi. Il passato ci condiziona, ma non ci costringe. Se fosse altrimenti, in tanto tempo, da Adamo ed Eva in poi, avremmo appreso molto bene a dedurre il futuro dal passato. Anche i genitori ammoniscono i figli in base alla propria esperienza e i figli riluttano ai loro ammaestramenti, e hanno ragione. Il presente dei figli non è quello dei genitori, e nessuno rinuncia al diritto di formarselo a propria misura.

Perciò, la storia ci dice da dove veniamo e dove ci troviamo e di questo non possiamo fare a meno. Ma dove andare da oggi in poi lo decidiamo noi, ora. E, insomma, né i padri possono rifiutare la responsabilità di aver condizionato in un certo modo i loro figli né i figli possono giustificarsi di quel che fanno con le responsabilità dei genitori. La storia, a ben pensarci, è una scuola inesorabile che impone a tutti, senza eccezioni, esami senza fine; è una palestra di esercizi e di gare senza pause di riposo o di minore impegno.

Questa affermazione, espressa da Cristina Gibelli a proposito del nuovo PGT di Milano, ha una portata che travalica la dimensione, pur rilevantissima, della seconda capitale d’Italia. Quando si cimenta con le questioni che hanno a che fare con l’uso del suolo (e quindi con il ruolo della rendita immobiliare) anche la sinistra che ha la schiena dritta si rivela schiava della triade mattone-finanza- potere mediatico. Seppure in cuor suo (e nelle sue parole) prediliga “la città dei cittadini" o “la città come bene comune”, di fatto si limita ad addolcire, mitigare, depeggiorare la devastante realtà della “città della rendita”. Succede a Milano come a Napoli, a Cagliari come a Venezia (se quest’ultima può essere ancora definita di sinistra).

Abbiamo scritto in altra occasione della "vergogna napoletana” e non passa settimana senza che dobbiamo raccontare qualche ulteriore episodio della svendita dei patrimoni pubblici della Serenissima al Benetton o Cardin di turno, o al “libero mercato” che aspirerebbe a investire sulle sponde della Laguna. Questa volta parliamo di Milano, per tirare qualche conclusione di carattere più generale sulla sinistra al potere.

L’articolo di Cristina Gibelli, che compare qui accanto, documenta con efficace sintesi i passaggi e le scelte che hanno provocato forte delusione in chi aveva partecipato con speranzosa fiducia all’avventura elettorale di Giuliano Pisapia, e ai primi passi della sua giunta. Altri scritti ci sono giunti, da fonti diverse ma tutte meritevoli di credito, per documentare con dovizia di argomenti le ragioni di un giudizio profondamente critico del “nuovo” piano di governo del territorio ambrosiano. Spero che giungano anche altri scritti che argomentino le ragioni degli amministratori in carica.
Gli errori più gravi che emergono da ciò che abbiamo finora potuto esaminare sono, in sintesi, i seguenti:
- la pretesa di affrontare i problemi di assetto della città senza alcuna visione del sistema territoriale di cui è parte (quanti decenni sono passati invano dal generoso tentativo del Piano intercomunale milanese?);
- la sostanziale conservazione (qualcuno ipotizza addirittura un potenziale incremento) delle quantità della nuova edilizia rispetto alle immani dimensioni del piano Moratti;
- l’accettazione acritica delle infami pratiche di “perequazione” e “compensazione” urbanistica.
- l'oggettivo abbandono del principio, legittimato con tenaci lotte sociali negli anni '60 e '70, degli “standard urbanistici”, cioè di spazi pubblici come tali assicurati solidamente al possesso e all’uso della cittadinanza. Non ci sembrano “errori” da poco a fronte dei “depeggioramenti” sbandierati dalla giunta.

Se riflettiamo a queste critiche di merito tenendo conto dell’opacità nella quale si è svolta la preparazione e l’approvazione del PGT, non possiamo sfuggire a qualcosa che è ben più d’un sospetto: è un’ombra pesante che si getta su tutta l’area della sinistra, ivi compresa quella che - almeno nelle intenzioni dichiarate - si propone di essere radicale (nel senso di mirare alle radici dei problemi) e meno compromessa con i poteri dominanti.
Le due domande che ci poniamo sono allora le seguenti: (1) quali sono i poteri che governano oggi le città e i territori: quelli espressi dalle istituzioni democraticamente elette secondo le regole della democrazia rappresentativa, oppure quelli costituiti dai tre interessi, sempre più solidalmente legati tra loro, dalla grande proprietà immobiliare, del sistema finanziario, dei mass media? (2) rispetto a questo sistema di potere, rispetto alla triade mattone, banche, grandi media, sono complici o succubi solo i soggetti politici facenti capo al vecchio sistema dei partiti, arricchito dai partiti dei tycoons e del razzismo padano, oppure anche quelli che vogliono esprimere un’alternativa? I casi che abbiamo sott’occhio ci obbligano a dare risposte molto sconfortanti a entrambe le domande.

La “trahison des clercs”

Prima di concludere questa dolorosa nota dobbiamo formulare un’autocritica: anzi, una critica a quegli intellettuali che, professando il sapere e praticando il mestiere dell’urbanistica, hanno accreditato, o addirittura inventato, gli strumenti consentono ai portatori di interessi privati di scardinare i principi dell’interesse pubblico. Ci riferiamo a chi ha criticato la “urbanistica autoritativa”, a chi ha inventato i “diritti edificatori”, a chi ha dichiarato fuori moda gli “standard urbanistici" e ha gettato alle ortiche il metodo del rigoroso calcolo delle quantità di urbanizzazione necessarie per i fabbisogni sociali non soddisfacibili nei volumi già edificati e sui suoli già laterizzati.
Quello della trahison des clercs è un tema sul quale dovremo ancora tornare, nel tentativo di comprendere come e perché si sia dissolto il nesso tra la cultura e la pratica politica da un lato e, dall’altro, la cultura urbanistica, intendendo per questa la capacità di comprendere ciò che la città è, quali siano le forze e i meccanismi che ne determinano le trasformazioni, e quali i modi in cui queste incidano sulla vita delle persone. Su questo tema dovremo richiamare di nuovo l’attenzione dei nostri lettori. E probabilmente questo ci aiuterà a comprendere perché la sinistra, anche quella radicale, sia stata così debole nei confronti dei “poteri forti” rivelandosi portatrice suo malgrado d’una “incultura della città”.
Il ricatto della triade
Ma c’è un’ultima questione su cui non possiamo non spendere ancora qualche parola. Le vicende delle nostre città ci dicono chiaramente che le istituzioni, e in particolare i comuni, sono schiave del sistema finanziario. Le banche che finanziano giorno per giorno le amministrazioni pubbliche sono intrinsecamente legate agli interessi immobiliari e tutt'e due insieme, attraverso i mass media, informano e formano l’opinione pubblica. Perciò lo stesso potere delle maggioranze di sinistra (e della stessa sinistra radicale) è sotto ricatto: si sono dovuti stipulare o accettare in silenzio accordi, espliciti o impliciti, per ottenere il consenso necessario a governare. Questi impegni, si dice, vanno rispettati: i margini dei “depeggioramenti” consentiti dall’accordo di potere sono esigui, al di là non si può andare, pena il fallimento. Che fare allora? Scendere dal treno e lasciare che la locomotiva lo conduca verso il peggiore dei destini possibili? Oppure guidare il convoglio lungo i binari già tracciati da altri?

E’ un dilemma che per fortuna non ci tocca personalmente, ma pensiamo che l’ultimo arbitro debba essere la coscienza di ciascuno. Se però dobbiamo dare (come vogliamo) una risposta politica, il nostro giudizio è chiaro. Chi ha ottenuto i voti necessari per governare in nome di scelte radicalmente diverse da quelle contro le quali è sceso nell’arengo, non può governare proseguendo la vecchia politica, per di più nascondendolo ai suoi stessi elettori. Se la presa sulla società della triade proprietà-banche-media è così forte da esercitare un’egemonia non contrastabile, cederle oggi significa cancellare anche i germi di controegemonia che l’inizio dell’avventura aveva fatto emergere, a Milano e altrove.

A Milano, cedere oggi e proseguire il progetto urbanistico Moratti Masseroli, per non rischiar di perdere il consenso ottenuto nella vicenda elettorale, significa propter vitam vivendi perdere causas. Significa, nel concreto della società, disperdere i germi di speranza: quei germi che oggi forse sono troppo deboli per prevalere, ma che da domani saranno del tutto cancellati, o sostituiti dalla rabbia non incanalata.
Su questa nostra posizione la discussione, naturalmente, è aperta.

E se tanto per cominciare lo chiamassimo Papocchiello, o Cionfoletto, invece di Seitan? Lo dico a uso dei cultori della cucina della mamma, col naso già pronto ad arricciarsi davanti a qualcosa che non fa parte del vocabolario più corrente, o peggio suona esotico, roba da stravaganti capelloni drogati appena tornati da uno dei loro malsani giri turistici. Allora, invece di Papocchiello o Cionfoletto chiamiamolo col suo nome tecnico, ovvero glutine di grano, perché si tratta di questo: un alimento ricco di proteine e senza grassi e colesterolo, di origine vegetale, che si usa in cucina per un’infinità di piatti unici e secondi, più o meno come se si trattasse di carne, anche se è una stupidaggine presentarlo come sostituto della carne. Ma su questo tornerò alla fine. Vediamo la ricetta vera e propria per farselo in casa.

Premetto che ci vuole un po’ di lavoro, ma nessuna abilità particolare, né ingredienti, né attrezzi. Giusto un pochino di tempo e pazienza, e alla fine si è – forse – fatta la pace con l’alieno, verificando che alieno non lo è affatto. Mentre un po’ alieno lo pare, sugli scaffali dei negozi e supermercati, venduto a caro prezzo (un paio di euro scarsi l’etto) tra i prodotti biologici. Per fare un calcolo rapido di convenienza, più o meno: quanto costa un chilo di farina? Ecco, con un chilo di farina e un po’ di sale si producono 3-4 etti di glutine pronto per la cucina. Vi conviene? A voi la scelta, una volta sommato l’olio di gomito naturalmente.

Il lavoro consiste nel preparare, con il chilo di farina (integrale, biologica, 00, come preferite e come magari vi consiglia qualcun altro) e tre cucchiai di sale, un impasto tipo pane o pizza, non troppo duro né che scappa da tutte le parti insomma. Chi ha poco spazio o non ha voglia di sporcare in giro, può usare il metodo dell’insalatiera, grande a sufficienza naturalmente per poterci lavorare un chilo di farina prima col cucchiaio di legno per incorporare l’acqua e poi impastarla un po’ a mano. Alla fine si copre e si lascia riposare un’oretta. In questa ora c’è il tempo per inventarsi il brodo vegetale di cottura, e di prepararlo materialmente, perché sarà quello che, alla fine, dà il sapore al Seitan/Cionfoletto/glutine di grano che ci siamo preparati. Nella pentola d’acqua, calcolata più o meno per contenere e coprire la massa di pasta che abbiamo lavorato (un po’ ridotta) ci possono andare verdure, odori, spezie, e la classica manciata di sale o cucchiaiate di salsa di soia. Magari anche un dado da brodo vegetale per i veri eretici che non se la tirano troppo col purismo.

Ecco, immaginiamoci quel brodo che sta sobbollendo già da mezz’ora e passa con carota cipolla sedano sale pepe o peperoncino, un mazzetto di rosmarino o quel fondo di origano restato lì dall’anno scorso ecc. Torniamo alla materia prima, che ha ancora la forma della palla di pasta da pizza. Adesso bisogna sciacquarla dall’amido, e ci vuole un po’ di pazienza, acqua corrente calda e fredda, e lo spazio per due insalatiere: una con l’acqua calda e alternativamente una con quella fredda. Si copre l’impasto e lo si lavora sott’acqua finché il liquido appare saturo di amido, poi si solleva l’impasto risciacquato e si ricomincia operazione nell’altra insalatiera. Per toglierlo tutto, l’amido, io ho impiegato una dozzina abbondante di passaggi prima di vedere che l’acqua non si intorbidiva più e la pasta cambiava decisamente consistenza. Se si usa farina integrale, il segnale che si sta finendo arriva dalla crusca che inizia a andarsene di colpo in gran quantità. Il consiglio degli esperti è di cominciare e terminare con il risciacquo in acqua fredda. In mano avete una palla, decisamente ridotta, di pasta molto plastica e un po’ appiccicosa. Pronta per essere cotta nel brodo e insaporita.

Il mio salsicciotto di seitan dopo la bollitura

La tecnica di cottura è come quella di certi insaccati: per stare insieme c’è bisogno di un contenitore di cotone o garza spessa, va benissimo un piccolo strofinaccio da cucina, o un grosso brandello di vecchia camicia se li tenete da parte. La forma più comoda poi da affettare per il consumo o la conservazione è quella del salsicciotto, naturalmente tenendo conto anche della forma della pentola in cui lo si cuoce. Ago, filo un po’ più solido di quello solito per attaccare i bottoni, ogni giro attorno al salsicciotto un punto o due dove si sovrappongono i lembi. Non c’è bisogno di essere uno stilista milanese, l’importante è fare un pacchetto che non rischi di sciogliersi sballottato nell’acqua bollente. Si cuoce a fuoco basso (per evitare eccessi di sballottamento inutili) tre quarti d’ora. Fatto.

Il brodo vegetale ovviamente non l’ho calcolato negli ingredienti, perché è cosa a parte, si usa per conto proprio, una volta estratto il salsicciotto. Io me lo metto in una bottiglia da riciclare in cucina per varie cose, altri ci fanno il risotto o la minestra o chissà. È brodo, e siamo in un paese democratico anche coi tecnici e i banchieri, per adesso. Ma dicevo all’inizio a proposito dell’idea di seitan come sostituto della carne, che è una sciocchezza: sostituisce la carne nel senso che dà un apporto nutritivo identico quanto a proteine, senza i grassi saturi e il resto, ma chi ci cercasse consistenza, o vago sapore simile, necessariamente resta deluso. L’altra cosa da lasciar perdere è l’idea di mangiarsi il seitan così com’è: non ha una sua personalità definita, anche se ovviamente sa di qualcosa e ha una propria consistenza. Ma consumato così ricorda certi piatti di maccheroni “acqua e sale” improvvisati in campeggio o a tarda notte, quando non si trova proprio nient’altro di commestibile. Allora il consiglio è di usare il glutine come se fosse appunto della pasta all’italiana, da accompagnare con altro, salsa, sughi, verdure condimenti vari, a piacere, meglio se su un modello spezzatino, tanto per tornare alla similitudine indebita con la carne.

Un metodo rapido da ultimo momento la sera è la scatoletta di piselli stufati (con le cipolle, o il sugo rosso) dentro cui si affettano sottili o a dadini 100 grammi di glutine a persona. Oppure al posto dei piselli ci possono essere le patate, o i peperoni, o i funghi. Insomma tutto ma non una fetta di quella cosa grigiastra ed elastica portata alla bocca da sola, che fa utilitaristica miseria. Se poi gli aficionados dell’alce cacciato a mani nude da Sarah Palin e cotto alla brace nella capanna di tronchi non sono ancora convinti, fatti loro. Scopo di questa facile ricetta era cercare di uscire dalla mistica del biologico o vegano come religione da strapazzo. Cosa del tutto fuori luogo, e che serve solo a qualche bottegaio per tenere prezzi assurdi. Ha senso, far pagare tutti quei soldi per il salsicciotto di glutine? Evidentemente no, ma lo si capisce appunto solo facendoselo da soli. Per chi apprezza, buon appetito.

(p.s. chi si è convinto che farsi il seitan sia complicato, provi a leggere della mia esperienza col tofu p.p.s. chi per le elezioni americane diceva che "tanto sono tutti uguali" non ha subito una quadriennale vicepresidenza di Sarah Palin, barbecue di grizzly con inni razzisti inclusi)

. a Repubblica, 6 novembre 2012

È virtù l´humanitas e lo stesso nome designava lo studio delle lettere, sul presupposto che ingentiliscano la persona. Questa storia parla d´una scuola e narra avventure climateriche. In greco "klimaktér" significa gradino o piolo d´una scala, nonché congiunture pericolose della vita umana, ricorrenti ogni settimo anno.

Dura sette anni anche l´evo che racconto, segnato da profonde mutazioni: l´Italia era finto Impero sotto la diarchia Re-Duce; ridotta all´osso da una guerra calamitosa, diventa repubblica. Siamo in quarta elementare. Al mattino le scolaresche prendono posto nel corridoio lungo corso Re Umberto, davanti alle rispettive aule, ed ecco un dialogo databile 2 marzo 1938, Mercoledì delle Ceneri: «è morto D´Annunzio»; annuncia l´ultimo venuto; «era vecchio come il cucco», commento, non sapendo chi portasse quel nome sontuoso.

Tra noi spiccava un forestiero evoluto, Adolfo Sarti, e salterà la quinta. Del secondo ginnasta, rammento viso, statura, voce, maniere, tutto fuorché il prenome. Ero designato anch´io al salto, infatti ascolto qualche lezione in casa del maestro, contigua al Teatro Toselli: la porta dà sul ballatoio; è un prete dal viso rosso, oriundo della val Casotto, e nelle feste patriottiche porta gradi militari, ex cappellano. Ma saltare l´anno è da puer pragmaticus, quale non ero, incline invece ai passi introspettivi: ad esempio, sapevo quanto sia volatile l´Io, pronome evocante deperibili ricordi; e desisto, noncurante della carriera. I due entrano nel ginnasio: li rivedo ogni mattina in via Barbaroux, dov´è finita anche la nostra classe; e dissimulo lo status inferiore liberandomi del grembiule.

Finalmente, giugno 1939, anche noi sosteniamo l´esame d´ammissione nel vecchio convento delle clarisse, adiacente all´omonima chiesa. Il ginnasio non è aperto a tutti ma la selezione ha maglie larghe: "I miei giochi" è il tema d´italiano; all´orale esito, dovendo definire il colore glauco, aggettivo carducciano, e la interrogante indica una gemma nell´anello. Dal 15 ottobre restiamo in via Barbaroux traslocando al pianterreno (...). La professoressa è giovane e fine. Insegna matematica un laureando pendolare da Caraglio.

Matematico anche don G. (religione, un´ora alla settimana) e viene da famiglia contadina della Spinetta, come Giuseppe Peano, al quale saranno intitolate le elementari di Tetto Canale. Mia madre v´insegnava, anno Domini 1932. Lì avevo sfiorato Thanatos cadendo nella «bialera» ma era parte infima del disegno cosmico che scorressi sotto i lastroni del ponte; poi racconto d´avere visto la luna ossia un barlume all´altro capo; episodi meno importanti diventano figura d´ex voto nel Santuario della Riva (...). Corre l´ultimo anno dei lampioni accesi. Sulla linea Maginot tedeschi e franco-inglesi fingono un Sitzkrieg, guerra da seduti, o drôle de guerre, stramba (...).

L´anno scolastico 1943-44 (quarto della guerra persa e quinta ginnasio) comincia tardi, lunedì 15 novembre. L´indomani nevica. Attratto dalla medicina (v´influiscono Axel Munthe, Cronin, Marañon), m´arrischio nella camera ardente dell´ex pugile dal nome slavo, fattorino del fascio locale, poi seviziatore negl´interrogatori: partigiani scesi dalla Bisalta gli hanno regolato i conti; girando intorno alla bara studio quel viso cattivo. «L´hanno ucciso perché stava con noi e finiremo tutti così», esclama drammaticamente uno della casa, benvestito, intrattenendo due signore compunte (...).

L´equinozio primaverile 1945 lascia le cose quali erano in loco ma l´Armata rossa sta sull´Oder e, forzato il Reno a Remagen, gli alleati sciàmano verso l´Elba. Il bel tempo richiama gli schettini. In una domenica già tiepida artisti ragguardevoli cantano arie d´opera nel concerto pomeridiano al cinema Italia, accompagnati dal solo pianoforte. La fine arriva d´un colpo (...).

A proposito d´abile didattica e mnemotecniche, Jules Michelet nomina la Societas Iesu (Histoire de France, IX volume, 512s.): formava dottori a 15 anni, eloquenti, sapientissimi, in gran décor, «sots à jamais», irreversibilmente stupidi; tale, ad esempio, Ludovico Settala, luminare milanese. Dal Silvio Pellico, come l´ho vissuto, gli scolari ricevevano impronte d´intelligenza laica. Lo stile è cuneese, quindi alieno dall´enfasi. Lo definiva un capitolo degli Statuti 1382, n. 406, «de non eundo ad septimas»: il lutto sia evento dell´anima, senza gesti; pianti clamorosi nei funerali costano sei soldi; idem invitare estranei alla messa del settimo giorno.

Vogliamo fissare qualche massima? Il pensiero ha norme inesorabili: le parole vanno usate con parsimonia, mai prima d´avere chiara la cosa da dire; è frode, e marchia chi la consuma, tutto quanto nasconda, trucchi, simuli l´idea; prenez garde dalla loquela canterina, sconnessa, ridondante, perché indica spirito fraudolento; e non dimentichiamolo, sapere conta meno del pensare.

(Questo testo è un brano della lezione che venerdì 9 terrà a Cuneo - salone del Comune - e l´ indomani nel bicentenario Liceo classico Silvi)

Persi le forze mie persi l'ingegno

Che la morte m'è venuta a visitare

E leva le gambe tue da questo regno!

Persi le forze mie persi l'ingegno

Le undici le volte che l'ho visto

Gli vidi in faccia la mia gioventù

Oh Cristo me l'hai fatto un bel disgusto

Le undici le volte che l'ho visto

Le undici e un quarto io mi sento ferito

Davanti agli occhi ho le mani spezzate

E la lingua mi diceva "è andata è andata"

Le undici e un quarto mi sento ferito

L'undici e mezza mi sento morire

La lingua mi cercava le parole

E tutto mi diceva che non giova

Le undici e mezza mi sento morire

Mezzanotte m'ho da confessare

Cerco il perdono da la madre mia

E questo è un dovere che ho da fare

lo a mezzanotte m'ho da confessare

Ma quella notte volevo parlare

La pioggia il fango e l'auto per scappare

Solo a morire lì vicino al mare

Ma quella notte volevo parlare

E non può non può

Può più parlare può più parlare

Non può non può

Può più parlare può più parlare

Persi le forze mie persi l'ingegno

Che la morte m'è venuta a visitare

E leva le gambe tue da questo regno!

Persi le forze mie persi l'ingegno

Il canto ricalca la narrazione per orario tipica del modo narrativo popolare. È nelle passioni religiose, soprattutto nel Lazio, in Umbria e nelle Marche, che si cantano le ore collegandole a momenti significativi della Crocefissione.

Pierpaolo Pasolini poeta, scrittore e regista cinematografico, è stato uno dei più ispirati intellettuali del '900. Fu ucciso il 2 novembre 1975 all'idroscalo di Ostia, nei pressi di Roma.

"LaRepubblica", 19 ottobre 2012

Si sa che la megalopoli è un grande melting pot: etnie, sostanze inquinanti, abitudini alimentari, affiliazioni politiche. Tutto scorre mescolandosi su e giù per i rivoli dei corsi d’acqua, dei nastri d’asfalto, dei binari e dei cavi in fibra ottica. E tutto cambia, a volte in meglio. È un miracolo possibile anche con Calderoli? Magari si, e vediamo la ricetta a partire dagli ingredienti ambientali.

Le orobiche valli bergamasche, oltre che per Arlecchino e le gare di moto fuoristrada, sono famose anche per la cosiddetta “polenta taragna”. Il nome taragna deriva da tarare, mischiare, perché durante la preparazione è necessario "tararla" di continuo a evitare che si attacchi sul fondo del paiolo. Non tanto la polenta, quanto il formaggio utilizzato di norma per comporre questo piatto unico: acqua, sale, farina mista di varie granaglie, burro e Bitto. Il quale Bitto viene prodotto prevalentemente nelle aree che mettono in comunicazione la Valtellina (provincia di Sondrio) con la Valbrembana (provincia di Bergamo) e che culminano nel passo dove sorge la leggendaria Ca’ San Marco, uno dei simboli mistico-territoriali della Lega Nord. Puro, inattaccabile e cristallino padanismo d’alta quota? Vediamo.

Il cuscus, dall’arabo “ rec-chesches” (=cibo tritato), poi solo “ chesches”, da cui la fonetica “ cuscus”, si accosta di solito a cibi saporiti, speziati, verdure, pesce … Va bene, va bene: ma anche qui zoccolo duro di mediterraneismo cristallino da quota zero calma piatta?

In fondo si diceva sopra che la megalopoli gira e rimestola tutto quanto, e ce lo insegna la geografia come “megalopoli” non sia quella cosa che dalle pagine dei giornali ci raccontano architetti e sociofagi di bocca buona: dentro ci stanno sia le aree di recupero urbano in joint-venture pubblico-privata, che la grande città diffusa delle pianure, dei fiumi e dei laghi, che, infine, anche le valli formaggifere. Come quella striscia di casupole che si snoda dalla “sacra” Ca’ San Marco, col suo bassorilievo cinquecentesco col Leone della Serenissima, nel verde dei pascoli. Dentro le casupole, una specie di versione locale della Maga Magò, sopra pentoloni brontolanti, produce il mitico Bitto. Ma: sacrilegio! Del Bitto si può anche fare a meno, come dimostrano generazioni di polente condite al formaggio buonissime, e come (ancora più sacrilegio!) alla polenta dalla necessariamente lunga cottura, si può sostituire il mitico cus-cus, o cous-cous per chi vuole la grafia francese a tutti i costi.


Insomma lasciamo le vette cristalline, il Leon cinquecentesco (che non mangiava el teròn, allora inesistente), e rientriamo nel mondo normale laicizzato, dove ad esempio i muratori orobici e quelli maghrebini si incrociano sui medesimi furgoni della trasformazione urbana più o meno strisciante, sui piazzali dei supermercati per lo spuntino volante di mezza giornata, o su quelli delle pompe di benzina nell’infinita coda serale che risale in disordine le arterie della megalopoli.

È con questi modi e tempi, che nasce la nuova cucina, con ingredienti trovati in fondo all’armadio, al frigo, o presi di corsa al supermercato sulla via di casa: cus-cus pronto dall’angolo farine o da quello “esotico”; un po’ di burro; una tazza di latte; sale qb; una confezione di strip-zola. Per chi non avesse colto il riferimento, dicesi “ strip-zola” quel genere di formaggio dal sapore lievemente pungente, che in effetti assomiglia un pochino al gorgonzola, viene venduto in varie forme nei supermercati lungo le strip metropolitane, e si apre strappando la strip di plastica trasparente, con gesto che libera la caratteristica invitante puzzetta, che raggiungerà l’apoteosi a fine preparazione.

Dosi, più o meno per due persone: una tazza di cus-cus; una tazza identica di latte e un bicchier d’acqua; una cucchiaiata abbondante di burro; un etto (o più, volendo) di strip-zola.

La preparazione richiede assai meno di questa infinita premessa, ovvero circa dieci minuti in tutto. Si mette a bollire il latte allungato e salato in un pentolino antiaderente. Nel momento in cui inizia a salire la schiuma si spegne, si aggiungono la tazza di cus-cus e il cucchiaio di burro. Dopo aver mescolato sino a sciogliere il burro, e aspettato alcuni minuti col pentolino coperto che il cus-cus abbia assorbito tutto il liquido, si riaccende il fuoco al minimo, e mescolando con una spatola di legno (gesto scaramantico che scaccia i fantasmi delle Magò Bittine) si incorpora lo strip-zola. Se l’insieme pare un po’ troppo compatto, basta aggiungere ancora un pochino di latte. Pronto!

Come insegnano alla fine tutte le ricette della taragna classica: sarebbe un piatto unico, però …. Però in qualunque posto, per quanto sia ricca e calorica, ve la offrono sempre accompagnata a salumi, carni ecc.

Anche il cus-cus taragno non vuole essere da meno, e si può proporre con cose sicuramente più leggere e digeribili, ma altrettanto se non più gradevoli. Si accompagna benissimo a verdure come le bietole ripassate all’aglio (meglio ancora non bollite prima, ma fatte appassire direttamente), o i porri ad anelli pure appassiti a fuoco lento, o una frittata di cipolle, per chi poi non deve fare un lungo viaggio in compagnia nell’abitacolo di un pickup regolarmente in coda sulla superstrada.

E la domanda iniziale: piacerà a Calderoli? La risposta, laicissima, suona: boh! In fondo, chi se ne frega.

Nota: per chi vuole accompagnare il cus-cus taragno a sensazioni forti, uno sfondo socio-canzonettaro, direttamente dal prato di Pontida (f.b.)

“il manifesto” 28 settembre 2012. anche in eddyburg

L'Unità, 25 settembre 2012

La Repubblica, 27ottobre 2011.

Cit. da Francesco Erbani, “Addio a Insolera urbanista militante”, la Repubblica, 28 agosto 2012

"La Repubblica", 12 maggio 2012. Anche su eddyburg

La Repubblica", 19 agosto 2012

La legge urbanistica italiana compie oggi settant’anni (ma entrò in vigore il 16 ottobre 1942). Vide la luce quando infuriavano i combattimenti a Stalingrado, stava per cominciare la battaglia di El Alamein e a Roma si sarebbe dovuta inaugurare la grande esposizione universale dell’E42. I settant’anni li dimostra tutti ma continua a stare in buona salute e, per quanto si può capire, resterà in vita ancora a lungo. Ha resistito alla caduta del fascismo, alla costituzione repubblicana, all’istituzione delle regioni, alle modifiche costituzionali del 2001. Eppure, a chiedere di sostituirla o di modificarla radicalmente si cominciò negli anni Cinquanta. L’avventura più drammatica l’ha vissuta nell’estate del 1964 quando il presidente della Repubblica Antonio Segni e il comandante generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, d’accordo con autorevoli esponenti del mondo politico ed economico, tentarono addirittura un colpo di stato per impedire che fosse approvata la proposta di riforma presentata nel 1962 (altro anniversario che cade quest’anno) da Fiorentino Sullo, ministro democristiano sconfessato dal suo partito. Le uniche modifiche importanti alla legge del 1942 sono dovute a Giacomo Mancini (abile nello sfruttare il consenso dell’opinione pubblica scossa dalla frana di Agrigento che aveva svelato di che malaffare grondava l’attività edilizia non solo nella sventurata città siciliana) e a Pietro Bucalossi (per quello che resta della sua maltrattata riforma del 1977).

I lettori eddyburg sanno che con gli anni Ottanta è cambiato tutto, nella politica e nella società italiane peggio che altrove. Soprattutto in urbanistica. Se fino al decennio precedente i tentativi di modificare o sostituire la legge del 1942 erano stati animati da idee progressiste – di sinistra se volete – negli ultimi lustri si è verificato un vistoso cambiamento di scenario e le modiche proposte sono state e sono di segno regressivo, volte cioè a peggiorare la legge, a depotenziarla, a renderla più che mai funzionale agli interessi privati e speculativi.

Il caso più noto e clamoroso è quello della cosiddetta legge Lupi che nel 2006 è stata a un passo dalla definitiva approvazione. Un disegno di legge micidiale che cancellava il principio stesso del governo pubblico del territorio, sostituito dalla negoziazione con gli interessi privati. Nella primavera del 2006 la proposta era stata approvata dalla Camera (dalla maggioranza di centro destra, più 32 voti a favore espressi dall’opposizione di centro sinistra) e se non fu approvata dal Senato fu anche per merito di eddyburg che si scatenò. Raccogliemmo centinaia di firme contro; a cura di Cristina Gibelli e di Edoardo Salzano fu pubblicato un volumetto, La controriforma urbanistica, subito esaurito, presentato in molte città, e in audizione anche al Senato della Repubblica (per merito del vice presidente Sauro Turroni) dove la legge stava per essere definitivamente approvata. I senatori del centro sinistra restarono muti e la discussione coinvolse in particolare gli esponenti di Alleanza nazionale che accusammo di prestarsi ad affossare una legge prodotta in una stagione di cui essi erano in qualche modo gli eredi, una legge comunque caposaldo di modernità e di tutela dell’interesse pubblico. Ne nacque un’aspra discussione, ma infine i senatori di An chiesero di rinviare la discussione, che non fu possibile grazie all’anticipato scioglimento delle Camere, e la proposta Lupi finì in archivio.

Quella fu per noi un’occasione angosciosa. Siamo stati più o meno degnamente protagonisti di decenni di impegno a favore della riforma urbanistica, per accantonare e superare la legge del 1942, per nuove norme più moderne ed efficaci. Abbiamo finito con il sentirci obbligati a difendere quella legge con le unghie e con i denti, sapendo che dalla politica e dalle istituzioni di oggi possono venire solo peggioramenti. Così sono andate le cose.

Ps. In un prossimo intervento m’impegno ad estendere la riflessione dalla legge urbanistica del 1942 a quella sul paesaggio 1939, anch’essa fondamentale e fortunatamente longevo strumento di garanzia per il nostro territorio.

Vezio De Lucia

Diciamo noi: non avete torto,né gli uni né gli altri, ma cerchiamo di capire la cosa più a fondo tenendo conto delle parole adoperate e del contesto in cui risuonano e prendono senso. E allora ci prende paura. Avevamo espresso il nostro timore già all’inizio della giostra postillando un articolo ragionevole, che vedeva alcuni difetti dell’annunciato provvedimento ma non ne individuava quello che a noi sembrava esserneil vizio di fondo: commentando, avevamo scritto: Il primo segnale di pericolo è nel titolo del nuovo strumento: “Contratto di valorizzazione urbana”. E prodeguivamo:

«Sappiamo fin troppo bene che, quando si parla di “valorizzazione” nelle politiche urbane e territoriali ci si riferisce all’aumento della rendita urbana e della quota di essa che ne viene a quelli che una volta si chiamavano speculatori, e oggi “investitori immobiliari. Sappiamo che dal pensatoio (si fa per dire) dal quale emergono questi strumenti, sono nati e proliferati quei progetti speciali, battezzati con accattivanti denominazioni, tutti orientati a facilitare gli affari degli “investitori immobiliari” derogando dalle regole di una corretta pianificazione urbanistica e di un’adeguata partecipazione sociale.» Oggi lo riconosce perfino l’INU.

Ponevamo infine una domanda che ci sembra cruciale per valutare qualsiasi intervento sul territorio: legge, piano, progetto, negozio che sia: chi ci guadagna e chi ci perde? Nello specifico, a chi serviranno i pochi spiccioli sottratti ad altri programmi pubblici. A migliorare la qualità dei quartieri investiti dalla valorizzazione” per i loro attuali abitanti, ad accrescere la quota dello stock di edilizia residenziale utilizzata da chi non può accedere al “mercato”? o a migliorare il “portafoglio titoli” dei soli noti?.

Aspettavamo un documento governativo un po’ più ricco dello striminzito articolo 12 del decreto legge 22-6-2012 n. 83, “Misure urgenti per la crescita del Paese”,
pubblicato nella G.U. 26 giugno 2012, n. 147. Invano. Allora abbiamo cercato di capire basandoci sulla lettera della disposizione e su ciò che dai giornali e dall’aria che annusavamo (diciamo dal contesto) via via emergeva.

Ecco come si predispone il «piano nazionale per le città»: il responsabile istituzioale è «Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Sarà quindi, pensiamo, il solito ufficio nel Palazzo di Porta Pia dove hanno elaborato quei “progetti speciali” mediante i quali, a partire dagli anni 80, si è scardinata la pianificazione urbanistica e si è aperta una strada più larga agli interessi immobiliari? E’ facile immaginare che lì sarà il pensatoio (e in qualche limitrofo “istituto d’alta cultura”). Ma dopo l’esperienza del passato oggi bisognapremunirsi nei confronti dei “lacci e lacciuoli” di cui altre istituzioni potrebero rivendicare la responsabilità”. Portiamo allora al vertice del meccanismo delle decisioni quello strumento della “conferenza” che è stato così utile nelle altre occasioni: istituiamo - hanno pensato - un concerto preventivo istituendo una Cabina di regia cui affidiamo il comando, e inseriamoci non solo di chi ha responsabilità istituzioali, ma anche con chi ha il potere dominante: quello dei soldi.

Ecco quindi la “cabina di regìa” «composta da due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di cui uno con funzioni di presidente, da due rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle province autonome, da un rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze, del Ministero dello sviluppo economico, del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, del Ministero per i beni e le attività culturali, del Ministero dell'interno, dei Dipartimenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri per lo sviluppo e la coesione economica, per la cooperazione internazionale e l'integrazione e per la coesione territoriale, dell'Agenzia del demanio, della Cassa depositi e prestiti, dell'Associazione nazionale comuni italiani e, in veste di osservatori, da un rappresentante del Fondo Investimenti per l'Abitare (FIA) di CDP Investimenti SGR e da un rappresentante dei Fondi di investimento istituiti dalla società di gestione del risparmio del Ministero dell'economia e delle finanze».

Questo autorevole soggetto predispone il “Piano per le città”. Ma che cos’è questo “piano”? (comma 1 Il pensiero va ad altrettanto soggetti, luoghi e “piani”: a quello redatto dopo la crisi del 1929 dalla Tennessee Valley Authority, nell’ambito del roosveltiano New Deal, o a quello disegnato di Patrick Abercrombie per la Londra distrutta dalle bombe naziste, o a storie più nostrane come il piano “’Ina – Casa” di Amintore Fanfani o il “Progetto Ottanta” di Giorgio Ruffolo e Antonio Giolitti negli anni del centro-sinistra riformatore e non riformista.

Ma nell’Italia di oggi non si fanno piani né programmi, costruiti sulla base di studi e riflessioni, scelte politiche chiare, obiettivi enunciati e provvedimenti con essi coerenti. Si mobilitano le risorse dei potenziali finanziatori offrendo “premialità” e facilitazioni”: dove il primo termine indica cubature in più, o “spalmature” di cubature su terreni più vasti, o attribuzione alle cubature delle utilizzazioni più vantaggiose per il proprietario/promotore, e il secondo termine allude a deroghe ai lacci e lacciuoli derivanti dalla tutela di interessi non coincidenti con la “valorizzazione” dei portafogli privati.

In pratica, quindi, con il Piano città di Monti Lo Stato invita i comuni (l’anello più debole della catena delle istituzioni territoriali e più esposto alle tentazioni immobiliaristiche) a inviare alla cabina i progetti che intende favorire, raccogliendoli dai propri cassetti o dalle offerte dei proprietari/promotori presenti (con i loro suoli o edifici o “diritti edificatori, o “legittime aspettative”) nell’area della sua competenza amministrativa. Questi progetti hanno un nome, rivelatore: «Contratti di valorizzazione urbana costituiti da un insieme coordinato di interventi con riferimento ad aree urbane degradate» (comma 2)

La Cabina di regìa sceglierà, tra tutte quelle presentate, le proposte dalla cui sommatoria emergerà il “Piano per le città”e aggiungerà le proprie ulteriori “premialità” del primo (schei) o del secondo tipo (deroghe, “spalmature”, esondazione di cubature su terreni limitrofi.

Sulla base di quali criteri saranno scelti i beneficiari? Il provvedimento lo dice, con chiarezza, nel 3° comma. Naturalmente c’è il «miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale ed ambientale», come c’è la« riduzione di fenomeni di tensione abitativa, di marginalizzazione e degrado sociale» e il «miglioramento della dotazione infrastrutturale anche con riferimento all'efficientamento (sic - nella compagine dei professori non ce n’è uno di italiano) dei sistemi del trasporto urbano». Insomma, il buon cuore è salvo. Ma il portafoglio batte altrove. Criteri di cui, scommettiamo, si terrà molto più conto sono quelli elencati alle lettere a) e b): l’« immediata cantierabilità degli interventi» e la «capacità e modalità di coinvolgimento di soggetti e finanziamenti pubblici e privati e di attivazione di un effetto moltiplicatore del finanziamento pubblico nei confronti degli investimenti privati»: se il progetto di “valorizzazione economica” è pronto, sei vostri partner hanno i loro suoli ed edifici pronti a essere gratificati, e se alla gratificazione vogliono partecipare altri investitori, eccoci qua. Quello che conta è che aumenti il PIL, con buona pace di Bob Kennedy buonanima e di chi - oggi, domani o dopodomani- sarà danneggiato dall’ulteriore trasformazione del territorio: se il cemento e l’asfalto avrà seppellito un po’ più di terra, la città della rendita avrà prevalso una volta ancora sulla città dei cittadini di oggi e di domani, e qualche altro gruppo sociale sarà stato esplulso verso nuove, più lontane periferie.

Siamo troppo pessimisti? Ci facciamo accecare dalla soverchia attenzione che riserviamo all’ideologia dominante e alla previsioni dei suoi perniciosi effetti? Lo speriamo vivamente. Ma non ci fidiamo. Come non ci fidiamo del fatto che i soldi sono pochini e c’è molta fuffa. Il territorio da devastare, fisicamente e socialmente, è ancora vasto. Perciò rinnoviamo l’appello alla vigilanza.

Che sotto la fuffa della propaganda ci sia altro è confermato del resto, dal fatto che, proprio in questi giorni, i leader dell’immobiliarismo e i loro cantori stanno facendo fuoco e fiamme perché il Parlamento riprenda l’esame dei vecchi provvedimenti “lupeschi”: proprio quelli che si propongono di consolidare i nefasti principi e meccanismi dei “diritti edificatori, della “perequazione” e degli altri strumenti, probabilmente essenziali perché quel Piano città possa effettivamente decollare. Vecchi strumenti, molte volte denunciati su queste e altre pagine (vedi ad esempio l’ eddytoriale 119, e la cartelle che abbiamo dedicato alla Legge Lupi.

Cercheremo di vigilare. E ci piacerebbe che i nostri amici in giro per l’Italia vigilassero anch’essi e ci informassero su quali sono gli avvoltoi, e quali i loro progetti pronti per essere trasmessi, nelle città grandi piccole: a Roma come a Napoli, a Venezia come a Firenze, a Torino come a Milano, a Bologna come a Bari. Informateci, per favore.

Così come ci piacerebbe se la speranza di quelli che abbiamo definito “ottimisti” venisse nutrita dalla riproposizione di ciò che, per realizzare una vera politica delle città, sarebbe oggi necessario proporre agli uomini di buona volontà, là dove ancora ce ne sono. Nei palazzi e nelle piazze.

Legge urbanistica.

Vi hanno accennato di recente un paio di ministri “tecnici”. Succede ad ogni evento che scuota il territorio (come l’ultima alluvione in Liguria), o a ogni campagna che scuota l’opinione pubblica (come quelle per lo scempio del paesaggio). Questo non è male; il male è che i politici d’oggi non studiano, non conoscono che cosa in altri tempi legislatore e governante hanno fatto o non fatto, perciò non sanno che le sciagure avvengono anche perché non sono state applicate con rigore leggi che le avrebbero scongiurate. Alcune proposte estemporanee a proposito di legislazione urbanistica le abbiamo lasciate cadere, come quella del ministro Clini, che non è stata più di una battuta; altre le abbiamo criticate, come quella del ministro Ornaghi, che sembrava promettere un provvedimento strutturato (ma non sarebbe meglio se si occupasse delle sue competenze, per esempio della pianificazzone paesaggistica?).

Della proposta Ornaghi abbiamo criticato il fatto che essa sembrava voler generalizzare «i bonus volumetrici, lo spostamento delle volumetrie, le modifiche a go-go delle destinazioni d'uso». E abbiamo ugualmente criticato l’INU, che di quella proposta aveva condiviso - in particolare - la promessa di definire «con una normativa dello Stato strumenti da tempo presenti nelle leggi regionali ma mai consolidati giuridicamente come la perequazione e la compensazione urbanistica». Giuseppe De Luca, autorevole esponente di quell’istituto, ci ha risposto che era «basito» della nostra critica, la quale non coglieva la necessità di una legge che evitasse di «lasciare ai caotici interventi dei provvedimenti finanziari di turno l’introduzione di normazioni urbanistiche e pianificatorie» quali quelle della perequazione, dei crediti edilizi e così via.

La “perequazione” è stata ed è tuttora un disastro; “consolidarla” è un danno ulteriore rispetto alla sua invenzione. Il modo in cui la perequazione è stata proposta e praticata ha costituito uno dei peggiori strumenti adoperati in Italia per consolidare e accrescere il peso della rendita e il potere della speculazione immobiliare. Sappiamo che è stato cospicuo il contributo che l’INU, e i suoi maggiori e più autorevoli esponenti, hanno dato a questo strumento, a partire dall’inizio degli anni Novanta. Lo abbiamo più volte denunciato, come abbiamo denunciato il fatto che un poderoso sostegno intellettuale all’accresciuto potere della speculazione immobiliare (e un pesante intralcio ai tentativi di contrastare, con una corretta pianificazione, il potere dell’immobiliarismo) è stata costituita dall’invenzione – da parte del presidente onorario dell’INU - dei “diritti edificatori”, fino ad allora sconosciuti al diritto e ai suoi operatori.

Oggi la perequazione urbanistica generalizzata, i diritti urbanistici e i suoi “derivati”, i “crediti edilizi”, sono diventati prassi corrente, grazie al sollievo che le pratiche simoniache della vendita dei diritti pubblici sul territorio offrono ai comuni strangolati dalla provocata asfissia dei bilanci locali. Se una legge urbanistica serve oggi è per cancellare ogni “perequazione urbanistica” che vada al di là da quella prevista dalle legge ponte del 1967, per ristabilire l’inesistenza di “diritti edificatori” e per condurre a compimento il tentativo compiuto dal “sovversivo” ministro Piero Bucalossi, con la sua legge del 1977, precisando che l’edificabilità (e in generale la trasformabilità del territorio) è il prodotto di una concessione dell’autorità pubblica sulla base di un atto di pianificazione territoriale e urbanistica socialmente, ambientalmente e culturalmente orientata.

La continuità del legislatore di oggi con quello di ieri non induce a sperare che una simile legge possa oggi emergere dal parlamento o dal governo (non si sa bene dove risieda il potere legislativo), per quanto duro ciò sia per le quotidiane fatiche di chi, nelle oscure trincee degli enti locali, ancora si impegna a difendere la buona urbanistica – e magari a praticarla. Tanto più se si sollecita illegislatore a finalizzare la futura legge urbanistica al consolidamento, «con un normativa dello stato», di quei devastanti strumenti.

Energia

Secondo tema, la questione energetica. Il governo ha minacciato di eliminare gli incentivi alle energie alternative. Alle pressioni perché questi fossero mantenuti si sono contrapposte sollecitazioni perché invece essi fossero rivisti in particolare per ridurre il peso dell’eolico. Un conflitto nell’ambito del mondo ambientalista? Probabilmente è un rischio che esiste, grazie al modo sussultorio, causale, dominato dall’emergenza che volta a volta detta le regole della discussione e della decisione su questioni notali – e perciò stesso meritevoli di ragionamente complessivi e di decisioni coerenti e di portata strategica.

Una discussione seria sull’energia dovrebbe partire da una riflessione e decisione su un interrogativo di fondo, il cui esito condiziona l’intro quadro: quanta energia è necessaria all’Italia, oggi e in una prospettiva di medio periodo? E’ evidente che questa domanda avrà risposte diverse a seconda del modello di sviluppo che si decide di scegliere: se quello tipico della “società opulenta”, della produzione indefinitia di merci indiopendentemente dalla loro utilità sociale, oppure quello alternativo che da tempo ha iniziato a configurarsi. E’ evidente quale sia il modello che l’attuale maggioranza politica condivide, ma una discussione e una scelta esplicita (e la conseguente quantificazione) farebbero chiarezza sulle scelte di merito.

La seconda premessa dovrebbe essere quelle di scegliere, per avviare operativamente la soluzione (qualunque essa sia), il metodo della programmazione: la definizione cioè di un programma nazionale dell’energia, che stabilisse la cornice tenendo conto di tutti gli aspetti del problema: quali energie produrre e quali energie consumare, dove, come, quando, con quali risorse, tenendo conto delle ricadute che la produzione di energia ha su settori delicati come la salute delle persone e quelle dell’ambiente, sull’assetto del territorio e del paesaggio e su quello dei consumi energetici, e così via. E’ evidente che le scelte in merito alla mobilità e al consumo di territorio, all’organizzazione dell’habitat e alla progettazione delle strutture necessarie per la produzione di energia (compresa quella delle caratteristiche tecniche delle pale eoliche), dovrebbero far parte del programma, ed essere assunte in piena autonomia e indipendenza dalle suggestioni delle aziende produttrici e dalle loro lobbies.

E’ probabile (o almeno, è fortemente auspicabile) che nell’ambito di un simile programma non trovino spazio né la scelta di un ritorno al nucleare, o allo sviluppo ulteriore delle fonti fossili, né le connotazioni distruttive del paesaggio e di numerose risorse (da quelle finanziarie a quelle agricole) che ha assunto lo sviluppo incontrollato dell’eolico e rischia di assumere quello del solare nel nostro paese. Come è fortemente auspicabile che l’utilizzazione delle biomasse sia strettamente finalizzato al recupero dei residui, e non provochi (come sta provocando) nuove forme di sottrazione di suoli alle produzioni agricole finalizzate all’alimentazione.

Anche a proposito della questione energetica è peraltro assai difficile che, nell’attuale quadro politico, il “decisore finale” assuma l’impegno di seguire un procedimento come quello che sembra ragionevole proporre. Ciò che conduce al terzo e ultimo tema che si voleva affrontare: la politica.

La politica

Occorre avere una visione della politica diversa da quella corrente se non si vuole cascare nell’antipolitica (così come, del resto, si deve avere una visione dell’economia diversa da quella corrente se non si vuole cascare nel rifiuto di ogni discorso economico). Per fortuna i frequentatori più assidui di eddyburg condividono una definizione di politica che ho più volte proposto mutuandola da Lorenzo Milani: politica è l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti. E’ una definizione di carattere generale, quindi va specificata. A me sembra che il “problema” oggi condiviso dalla grande maggioranza di quanti appartengono al vasto mondo dei partiti politici (e a gran parte del mondo delle istituzioni, dai partiti fortemente permeate) sia quello che si definisce sinteticamente “il potere per il potere”. In altre parole, conquistare e mantenere, per sé e per il proprio gruppo, tutto il poitere possibile, indipendente da qualsiasi finalità di carattere generale. Una vasta letteratura disponibile per illustrare questa forma della politica. Rinvio per tutti al recentissimo libretto rosso di Piero Bevilacqua, Elogio del radicalismo (Laterza, 2012).

Rifondare la politica, costruire una nuova politica, è impresa difficilissima. I germi di una nuova politica (anche questo è un concetto ampiamente sviluppato in questo sito) sono presenti nel vasto movimento nato dal disagio provocato in tutto il mondo dalla forma attuale del capitalismo (quello che Luciano Gallino ha battezzato “finanzcapitalismo”) e dalla sua ideologia, il neoliberalismo, e dalle conseguenti reazioni critiche. A partire dalla condivisione del disagio e della critica delle sue cause sono sorti, e cntinuano a sorgere, tentativi di organizzare confluenze tra diversi gruppi, oppure soggetti politici nuovi, che costituiscano forme utilizzabili fin dall’immediato come credibili alternative alla “politica” dominante.

Tuttavia non bastano il disagio e la critica - per quanto estesi - per modificare un radicato sistema economico sociale. Non basta l’affiorare, nell’ambito della società, di germi, segnali, inizi di una possibile contro-egemonia. E’ necessaria anche un’analisi accurata del sistema vigente, della storia da cui è nato e si è affermato, dei suoi vizi ed errori, delle forze su cui può contare per sopravvivere. E’ necessario anche individuare una forza sociale che abbia, nelle intime ragioni della sua esistenza, la ragione stessa del suo porsi come motore dell’alternativa. Ed è necessario individuare e condividere una nuova ideologia (un insieme coerente di principi, sentimenti, convinzioni) da una parte vasta, e potenzialmente maggioritaria, della società.

Nel frattempo, l’unica linea possibile è quella che tende – da un lato – ad approfondire la ricerca, la discussione e la sperimentazione di ciò di coerente con la nuova affiorante ideologia già si manifesta nella società e – dall’altro lato, sul piano delle istituzioni della democrazia attuale – a resistere e attaccare perché restino aperti più spazi possibili per costruire basi più solide e prospettive più certe e convincenti per una “nuova politica” capace di conquistare e gestire il potere: governare.

In questo quadro, un compito importante (ed essenziale perché l’affermazione di un sistema economico-sociale profondamente rinnovato sia possibile) è quello di risvegliare le coscienze dal torpore in cui mezzo secolo di oscuro lavoro del “persuasori occulti” le ha gettate. Il compito, insomma, di risvegliare e alimentare lo spirito critico che è decisivo per poter immaginare un mondo diverso da quello in cui oggi viviamo: anzi, sopravviviamo con crescente difficoltà.

Si tratta di una nuova proposta di legge, promossa dalla struttura delle Camere di commercio volte a valorizzare le iniziative immobiliari (Tecnoborsa), con la complicità (ovviamente culturale) del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori (Cnappc), del Consiglio nazionale degli ingegneri (Cni), del prof. Paolo Stella Richter, coadiuvati da alcuni tecnici.

La proposta è volta di fatto a consolidare e a renderli permanenti, introducendole nel diritto e nella prassi politica e amministrativa, due delle peggiori e più devastanti “innovazioni” della malcultura urbanistica degli anni Novanta: i “diritti edificatori” come ineluttabile privilegio assegnato al proprietario di un suolo per effetto di una decisione di uno strumento urbanistico generale; la “perequazione”, ossia l'attribuzione di un quantum di edificabilità a ciascun terreno investito dalla pianificazione urbanistica, sia esso destinato a edificazione privata o pubblica, a servizi e verde, a strade e così via.

Sul documento che ci accingiamo a commentare (e che riportiamo in calce), i promotori intendono «ricercare il più̀ ampio consenso possibile presso altri stakeholders istituzionali; per cui al fine di favorire una larga condivisione il testo sarà̀ trasmesso anche agli enti ed alle organizzazioni che compongono il Comitato tecnico scientifico di Tecnoborsa, nonché́ alle associazioni interessate ai settori della pianificazione, delle costruzioni e dell’immobiliare e alle pubbliche amministrazioni, in particolare comuni e regioni alle quali la legge attribuisce la competenza in materia». Cercheremo di fare altrettanto.

In rapida sintesi le proposta si concreta in una premessa, un premio e un passaggio operativo.

La premessa è un postulato assiomatico : esistono suoli che hanno una «vocazione edificatoria», ossia una «oggettiva predisposizione alla edificabilità̀». Essi non comprendono solo le aree già edificate legittimamente e quelle vincolate da un titolo abilitativo (concessione edilizia, permesso di costruire o altro) legittimamente rilasciato e non decaduto, ma anche le ulteriori categorie: «b) aree destinate all’edificazione dal piano urbanistico vigente alla data di entrata in vigore della presente legge; c) aree non edificate che risultino comprese nel perimetro dell’agglomerato urbano, o siano comunque già dotate delle opere di urbanizzazione primaria o per le quali le opere stesse risultino già̀ previste dal programma triennale delle opere pubbliche del Comune o per le quali infine il proprietario abbia già̀ assunto l’impegno di procedere alla loro realizzazione».

Chi cosa ottiene il premio, e in che consiste? Lo ottiene, manco a dirlo, il proprietario delle aree che hanno una siffatta vocazione. Innanzitutto quelle aree sono «soggette a perequazione urbanistica» (art. 3, comma 2); cioè, se il comune, con un successivo piano urbanistico, ritiene di dover eliminare o ridurre l'edificabilità su quell'area e su altre in analoghe condizioni (perché c'è sotto una falda idrica o una villa romana, o perché è ridotto il fabbisogno di aree edificabili, o perché l'esigenza della tutela del paesaggio e dei beni culturali ha indotto lo Stato ad ampliare le categorie di beni territoriali da sottoporre a protezione, o per qualunque altra motivata ragione che abbia indotto a modificare il precedente piano) il comune deve assicurare al proprietario di ottenere altrove il lucro che gli è stato donato con l'edificabilità, o comunque deve indennizzarlo per il ben tolto. E “naturalmente”, in caso di espropriazione per pubblica utilità, al proprietario verrà pagata un'indennità la quale comprende l'entità della sua “vocazione edificatoria”, mentre per le altre aree non “vocate” l'indennità sarà determinata applicando «la disciplina vigente per le aree agricole» (art. 8, comma 3). Insomma, l'articolo 42, comma 2 della Costituzione, che dispone che la Repubblica può espropriare un'area per motivi d'interesse generale salvo indennizzo, attua questa disposizione nel senso di renderla più favorevole al privato di quanto già oggi non sia.

Questi i vantaggi derivanti dalla premessa: premio al privato, penalità al pubblico. . Ma la “vocazione edificatoria” (questa espressione ci fa inorridire, ma dobbiamo continuare a scriverla) è tutt'altro che “oggettiva”. Lo si comprende dall'elencazione che il documento fa delle categorie di aree che la compongono. Diciamolo pure, è altamente discrezionale. Il passaggio operativo allora è quello di stabilire chi decide. Decide il comune: anzi, gli 8mila e passa comuni italiani, i quali, «con proprio atto tecnico di accertamento [...] individuano il perimetro dell’agglomerato urbano e le aree esterne a vocazione edificatoria». La regione, per conto suo, stabilirà quali sono «i presupposti specifici per il riconoscimento della vocazione edificatoria» (art. 3, comma 3).

Tralasciamo di segnalare, in questa prima valutazione della proposta immobiliarista, le incredibili norme sul trasferimento delle cubature una volta concesse e mai riducibili; trascuriamo le eccezioni di costituzionalità che si potrebbero fare a una siffatta legge, che accresce le sperequazioni tra i diversi soggetti interessati (non solo quella, fondamentale sebbene nessuno se ne preoccupi tra proprietari e non proprietari, ma quelle interne all'universo dei proprietari fondiari) e colpisce al cuore la responsabilità della Repubblica (in primo luogo dello Stato) di tutelare il paesaggio. Trascuriamo le incoerenze interne del pur breve articolato proposto (quale quella tra aree “vocate” e aree definite fabbricabili dal piano urbanistico). Ci sembra che già le nostre rapide annotazioni rivelino la vera natura del documento: accrescere ulteriormente il peso della rendita fondiaria urbana in Italia, rafforzare la disponibilità dei suoli a essere “vocati” alla trasformazione. Il “risultato atteso” dell’accettazione della logica, delle definizioni e dei meccanismi del progetto degli Immobiliaristi &Co. è quello della ripresa della spinta all’ulteriore consumo di suolo, all’espulsione dell’agricoltura dalle aree periurbane e via via da quelle più lontane, e in definitiva all’ulteriore estensione di quella repellente crosta di cemento e asfalto che già avvolge il nostro presente, e il futuro degli abitanti del Belpaese.

La speranza è che la proposta di Tecnoborsa e dei suoi volenterosi collaboratori raccolga la pronta e indignata reazione – in primo luogo – di quanti hanno abbracciato la causa della critica al “consumo di suolo”, della difesa del paesaggio e dell'ambiente, della promozione delle identità locali, e della costruzione di un'economia fondata sul lavoro (e sul suo impiego socialmente produttivo) e non sull'incremento della rendita fondiaria.

Il decreto Monti dispone infatti l’abrogazione delle norme «che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi».

Il significato di questa abrogazione (deregolamentazione) è chiaro. La pianificazione e programmazione degli enti pubblici elettivi (“autoritativa”) deve avere quale suo obiettivo principale, cui tutti gli altri sono subordinati, lo sviluppo delle attività economiche. Poiché (e finché) “le finalità pubbliche perseguite” (la “crescita”, l’aumento del PIL, la produzione di maggiore valore di scambio) non saranno raggiunte, ogni altro obiettivo sarà ad esso sacrificabile. La tutela dei beni culturali e del paesaggio, il benessere degli abitanti delle città e dei territori, la salute, l’equità nell’accesso ai beni comuni, quindi un’organizzazione dello spazio che consenta di soddisfare queste esigenze, tutto ciò diventerà, insieme al lavoro, variabile subordinata della “crescita”.

Domandiamoci qual è, nell’Italia di oggi, la “crescita” che trova ostacoli nella pianificazione e programmazione “autoritative”. E’ forse quella caratterizzata dall’innovazione e dalla ricerca, dal perseguimento del migliore valore d’uso del prodotto? Certamente no. L’attività economica più redditizia, quella alla quale si sono pesantemente convertite, fin dagli ani Settanta del secolo scorso, le stesse aziende capitalistiche “moderne e avanzate”, è quelle del mattone: dell’incremento e della massima valorizzazione della rendita fondiaria urbana.

Non è necessario ricordare ai frequentatori di eddyburg, e neppure alle migliaia di persone che dedicano parte del loro tempo e della loro attenzione politica ai gruppi e comitati di cittadinanza attiva, quale sia la realtà dello “sviluppo economico” che trova ostacoli in quel poco che resta (o che si teme possa restare) della pianificazione urbanistica e territoriale, specie se con “specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”.

Lo “sviluppo economico” che trova ostacoli nella buona pianificazione e programmazione “autoritative” è quello stesso a favore del quale il governo Berlusconi ha emanato i suoi condoni edilizi e il suo “piano-casa” e ha disegnato, nel salotto di Emilio Fede, il suo programma di infrastrutture e “grandi opere”. Non c’è alcuna discontinuità tra la politica berlusconiana e quella montiana a questo proposito. Del resto non poteva essere altrimenti, se pensiamo alla maggioranza sulla quale il nuovo governo si regge. Oltre agli uomini di Berlusconi essa infatti comprende quel PD che troppo spesso ha seguito, condiviso, accettato – o, quando è stato più feroce – subito le scelte di politica territorile di Berlusconi. Non è stata forse la regione Toscana la prima ad accettare la logica del “piano-casa”? e non sono decine e decine i sindaci del PD che hanno seguito la logica della deregolamentazione urbanistica, o del sovradimensionamento dei piani in omaggio allo “sviluppo”, o hanno riconosciuto negli interessi dei “finanziatori” quelli da premiare nelle scelte urbanistiche, o hanno puntato il loro successo su “grandi opere” celebrative della loro persona – prima ancora del loro governo?

Certo, il decreto Monti è pieno di ambiguità lessicali e procedurali: chi, quando e come definirà, ad esempio, il carattere ««vessatorio» di determinate procedure? Chi stabilirà, volta per volta, qual è «l’interesse pubblico», e quali regole o vincoli siano «non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche»? Qualcuno, magari, potrà essere tranquillo pensando: ma questi intellettuali, moralmente ineccepibili e ricchi di cultura e buon gusto, oltre che di buon cuore, staranno attenti a non far danno. Ma anche questi ottimisti dovrebbero tremare pensando che cosa succederà se, e quando, a Monti subentrerà un nuovo Berlusconi, che si troverà in cassaforte questo provvedimento. E di Caimani ce ne sono tanti, in giro.

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