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Lo abbiamo già affermato: ci sembra che l’attuale cultura urbanistica non sia ancora pervenuta a formulare un’analisi sufficiente della città opulenta, e che, per questo motivo, essa non abbia potuto individuare chiaramente e coerentemente le radici e le cause dell’attuale situazione della città, né, di conseguenza, le prospettive e le speranze che possono schiudersi al suo futuro. E poiché l’opulenza costituisce ormai l’innegabile realtà di fatto, la cultura urbanistica - quando non si oppone disperatamente e velleitariamente a tutte le condizioni date, com’è il caso, già da noi esaminato, del neo-utopismo - finisce inevitabilmente per patire la logica dell’ordinamento dell’opulenza e per subordinarvisi: il che accade sia quando si aderisce e ci si adegua piattamente al portato dello sviluppo storico, accettandolo acriticamente in tutti i suoi aspetti, sia quando si tenta di distinguersi da esso e di criticarlo, senza però aver maturato una sufficiente consapevolezza della sua ambiguità, e quindi dell’occasione storica che essa costituisce.

L’atteggiamento di acritica adesione all’opulentismo costituisce a sua volta il comune substrato di due differenti posizioni: una subisce l’opulenza come processo in atto, ed è quindi contraddistinta da una visione della realtà ancora dinamica, irrequieta, apparentemente anticipatrice; l’altra accetta l’opulenza come l’unica realtà possibile, come il dato indiscutibile e assiomatico, in nessun modo valutabile e criticabile.

Gran parte della cultura urbanistica italiana è dominata, ci sembra, dalla prima di tali posizioni; e ciò non è davvero casuale o inspiegabile, ma è invece strettamente legato alle generali condizioni della nostra società. In Italia, infatti, l’opulenza è indubbiamente un processo in atto, il quale, nella misura in cui è anche il portatore di valori storicamente positivi (la fuoriuscita dalla miseria e dalla fame, l’affermazione proletaria, la pacificità della democrazia, la liquidazione dell’importanza sociale dei privilegi lbol1ghesi e di quelli pre-moderni), e nella misura in cui, per converso, è frenata e ritardata dalle resistenze opposte dai residui del passato, sollecita e sospinge a una partecipazione attiva al suo realizzarsi.

Naturalmente, dato che una simile posizione non è fondata su di una consapevolezza delle autonome esigenze di sviluppo della città e su di una conseguente critica dell’opulentismo, ed è anzi contraddistinta da una inconsapevole ma globale accettazione di quest’ultimo, fuori da ogni capacità di distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi, si giunge ad assumere come valori anche gli aspetti più inquietanti ed erronei dello sviluppo opulento, e si è portati a rivivere e a ribadire quell’impostazione che abbiamo definito funzionalistica. Ecco, insomma, che la città viene considerata e riguardata come una mera e subordinata funzione dell’assetto opulento del sistema.

Necessariamente, contro e malgrado ogni buona intenzione, si concepisce allora l’urbanistica come un semplice strumento per la lotta dell’opulentismo contro le remore e gli impacci che ne ostacolano lo sviluppo. E poiché, in quanto urbanisti, si può partecipare a questa lotta solo conformando la città secondo il modello di riferimento adottato (quello, appunto, dell’opulenza), si giunge, nel concreto, a ideare e a progettare degli insediamenti i cui punti di forza sono costituiti dall’esaltazione e dalla celebrazione delle più vistose conseguenze dell’opulentismo: l’ipertrofia delle attività terziarie, nelle quali viene vissuto il lavoro superfluo; il dinamismo irrequieto, che deriva dalla mancanza di ogni regola umanamente accettabile; la ,genericità dei valori e dei contenuti, in cui si esprime la gratuità e l’arbitrarietà del consumo opulento; infine, la fuga solitaria verso la natura, che costituisce la evasione estrema, e necessariamente individualistica, da una città ridotta a congestionata “conurbazione”.

2. L’astrazione sociologistica di Kevin Lynch

Una identica impostazione funzionalistica caratterizza la seconda delle posizioni cui abbiamo accennato: quella che, identificando empiricamente l’esistente con l’assoluto, accetta la condizione dell’opulenza come l’unica realtà possibile. Crediamo che questa posizione possa essere efficacemente illustrata da alcune tesi che sono alla base delle ricerche del noto studioso statunitense, Kevin Lynch.

Il Lynch si propone di analizzare la città e di individuarne gli elementi caratterizzanti attraverso la percezione che i suoi abitanti ne hanno; “dobbiamo considerare la città -egli dice non come un oggetto a sé stante, ma nei modi in cui essa viene percepita dai suoi abitanti”. L’inchiesta diretta, il test orale e grafico, le “battute di rilevamento” condotte da squadre di esperti, la costruzione infine di una “sintesi” mediante la sovrapposizione delle diverse impressioni sulla città ricavate dagli “uomini della strada” che in vario modo hanno collaborato all’impresa: questi sono gli strumenti (l’armamentario tecnico della sociologia più ammodernata) dei quali Lynch si giova per la sua analisi dell’ambiente urbano. Una simile analisi, tuttavia, non resta per il Lynch fine a se stessa. Dallo studio e dall’elaborazione del materiale in essa raccolto, dall’indagine accurata e minuziosa delle sensazioni che i mille oggetti di cui è composta la città (vie, case, insegne, quartieri, alberi, argini, fiumi, monumenti, arredi, parchi) sollecitano e suscitano negli abitanti, lo studioso americano intende desumere le leggi che consentano di costruire ambienti urbani dotati dell’attributo che più lo interessa: dotati cioè di figurabilità, ossia di quella “qualità che conferisce a ogni oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore una immagine vigorosa”.

Crediamo di vedere, sottese all’impostazione di Lynch, due esigenze la cui validità ci sembra incontestabile, e che è tanto più interessante porre in rilievo, in quanto esse trapelano da un contesto d’idee e di convinzioni che a nostro avviso è viziato (come subito vedremo) da gravissimi limiti. Ci.sembra intanto, in primo luogo, che l’interesse dimostrato per la figurabilità possa alludere (certo ambiguamente) all’esigenza di ricondurre l’attenzione dell’urbanista su quello che è il suo più pertinente e peculiare campo d’azione: la forma della città, i valori estetici che in essa devono esprimersi. Ci sembra poi, in secondo luogo, che nel proposito di vedere e di studiare la città attraverso gli occhi dei suoi abitanti, si nasconda in qualche modo la esigenza di assumere l’uomo come punto di partenza dell’operazione urbanistica.

Ma quale uomo? I limiti della posizione di Lynch divengono subito palesi. “Pragmatismo e sociologismo americano costituiscono il sostrato culturale a cui va ricondotto il suo pensiero”, e di conseguenza l’uomo è per lui, ovviamente, l’uomo dato, l’uomo di Boston o di New Jersey o di Los Angeles, così come può esser colto secondo i metodi e con “le distinzioni della psicologia sperimentale”. È un uomo “metastorico e metaculturale”, nel senso di una disumana e alienante astrazione: non nel senso cioè che possa e sappia giudicare e criticare la cultura e la storia per utilizzarle e rinnovarle, ma nel senso che, concepito ormai come “un organismo biologico legato alle sensazioni elementari e alle necessità pratiche”, vive, di necessità, solo nel presente e, distaccandosi da ogni legame con qualsivoglia tradizione, si è identificato con quel solo momento della sua storia che è appunto, con le sue ideologie, con la sua cultura, la società opulenta.

La generica forza di convinzione delle “immagini” urbane; la mera “percezione visiva” suscitata nel singolo individuo (e sia pure nelle “centinaia di migliaia di individui” statisticamente sommati) dai vari e disparati elementi della città di oggi; la “capacità d’orientamento” che quest’ultima richiede all’uomo che in essa s’avventura: questi sono i fenomeni che interessano il Lynch. E allora, fatalmente, mentre l’esigenza di ricondurre l’attenzione sui problemi della forma si dissolve in uno sterile formalismo psicologico-emozionale, la sua totale indifferenza per una definizione intrinsecamente autosufficiente e non contraddittoria della città lo rende pienamente disponibile per l’opulentismo, Nella patria del Lynch, d’altronde, la società opulenta non si identifica forse, quasi senza più residui, con quella situazione data che nella concezione e nell’ideologia dell’empirismo neopositivistico esaurisce ogni possibilità?

È chiaro dunque perché, sulla base della posizione del Lynch, la città è un fenomeno al quale non è possibile conferire alcun ordine. Essa non è il luogo di una cittadinanza, non è il luogo in cui risiede e opera una società; è soltanto e semplicemente l’ asilo (e la sorgente dei godimenti “visivi” o”percettivi”) di una moltitudine di individui, i quali vivono la loro libertà in modo meramente singolare e particolaristico. Non vi sono quindi - non possono esservi - leggi capaci di regolarla, né ideali comuni che possano darle una ragione.

3. La critica di un comunista.

Il processo dello sviluppo opulento non viene tuttavia tranquillamente accettato dall’insieme dell’attuale cultura urbanistica. Oltre alle due posizioni delle quali ci siamo ora occupati, e che possono venire entrambe riportate a un’identica matrice funzionalistica, esiste infatti - come abbiamo accennato - una terza posizione, caratterizzata dal fatto di avvertire l’estensione e la gravità della crisi cui è giunta l’intera vita sociale nella svolta dal capitalismo borghese all’opulenza, e di opporsi alle conseguenze che tale crisi comporta sul terreno dell’urbanistica, senza individuare peraltro in tutta la sua ambiguità - e dunque anche nella sua potenzialità positiva - la portata di quella svolta.

Una simile posizione è sostanzialmente espressa da un noto urbanista italiano d’orientamento marxista, Carlo Aymonino. Appunto per questo motivo, appunto cioè perché ci sembra che l’Aymonino possa essere considerato un significativo esponente della posizione che ora ci interessa esaminare, ci soffermeremo brevemente sulle sue tesi.

All’Aymonino, senza dubbio, non sfuggono le negatività presenti nell’attuale condizione della città, ma cade nell’errore (di utopistica radice) di un’apodittica negazione di tutta la realtà storica. L’informità della “città terziaria” e il suo carattere parassitario e superfluo; la dissoluzione della città, da “concentrazione stabile produttiva e culturale [...] in una concentrazione temporanea che tende sempre più ad assolvere il solo compito dello sviluppo forzato dei consumi”; la “marcata accentuazione di taluni consumi individuali che divengono “fine a se stessi” e che finiscono per condizionare “l’intera struttura urbana”; infine, “la generale tendenza alla fuga dalla città, verso un territorio che sempre più assume anch’esso gli “aspetti , alienati ‘ della città stessa”, tutti questi fenomeni, che indubbiamente e palesemente caratterizzano la città dell’assetto opulento, sono colti e enumerati (e naturalmente condannati) con una sensibilità critica e una decisione che derivano allo studioso dalla sua esperienza comunista. Tuttavia, l’Aymonino si limita a enumerare semplicemente tali fenomeni, descrivendoli con una certa sommarietà: egli non li analizza e non tenta di individuarli nelle loro cause. La realtà è che egli non intuisce il fatto che la crisi, di cui pur egli coglie tutti gli aspetti negativi,costituisce una svolta effettiva nel processo storico: poiché precisamente l’approdo opulento è senz’altro una novità, una fuoriuscita dall’ordinamento capitalistico-borghese.

I due modelli (quello capitalistico-borghese e quello opulento ), non vengono neppure distinti.. La situazione attuale - la situazione dell’opulenza - è presentata, fuori da ogni sua ambiguità, come un mero deterioramento di quella borghese; la città contemporanea è semplicemente il prodotto di alcune “trasformazioni”, sia pure “notevoli”, della città capitalistico-borghese: e non a caso, sembra talvolta che “l’elemento determinante” di tali trasformazioni debba esser visto unicamente nella “tendenza, da parte delle imprese industriali [ ...] a lasciare la città”.

Ne consegue che l’Aymonino identifica il superamento dell’assetto opulento (il quale tuttavia, et pour cause, non è mai definito come tale dall’Autore) nel rovesciamento dell’assetto capitalistico-borghese - in realtà, come tale, già storicamente finito - e nell’approdo più rapido possibile alla soluzione rivoluzionaria prevista e preconizzata dal marxismo; la quale però, poiché l’avversario che combatteva è stato ormai liquidato dall’opulenza, non si presenta più con le caratteristiche di quella mordente incisività sulla realtà storica che così a lungo ha sostenuto il movimento operaio e ne ha determinato la coscienza e la capacità di lotta, ma deve ormai dispiegarsi, nel vuoto, in tutto il suo astratto contenuto ideologistico, e dunque come salto qualitativo assoluto. Non a caso l’Aymonino, lungi dal partire da una differenziata analisi critica della città di oggi, e insomma da un esame che permetta di rilevare l’ambiguità e di distinguere la potenzialità positiva della città opulenta, dirige sostanzialmente il suo sforzo a dedurre, da una ideale città del futuro, quelle regole che l’urbanistica dovrebbe adoperarsi a imporre al magma confuso e caotico della megalopoli moderna.

E qual’è poi “l’idea generale”, qual’è “la nuova condizione umana, di valore universale”, che in tali regole dovrebbero esprimersi? Di necessità, l’una e l’altra non possono non essere quanto mai indeterminate e vaghe: “la molteplicità delle scelte” per “la più completa libertà sociale” è infatti, per l’Aymonino, quel contrassegno decisivo della società di domani, che nella città d’oggi bisogna prepararsi a esprimere “in termini formalmente compiuti”.

La scarsa chiarezza di tali formulazioni - che l’Autore d’altra parte riconosce di dover “verificare con una ricerca più approfondita” - giustifica il tentativo d’interpretarle. E l’interpreteremo secondo una chiave che l’Aymonino medesimo, con una sua citazione conclusiva di un brano di Marx, sembra suggerire e legittimare: secondo una chiave marxiana.

Ma prima di accingerci a questo tentativo, vogliamo osservare che il brano di Marx citato dall’ Aymonino - soprattutto se letto nel suo contesto - non ci sembra particolarmente calzante con l’”ipotesi di ricerca” alla quale lo studioso comunista vuole riferirlo. Marx sostiene infatti che “la natura della grande industria porta con se variazioni del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Si è visto - prosegue Marx - come questa contraddizione assoluta elimini ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell’operaio, e minacci sempre di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale; e come questa contraddizione si sfoghi nell’olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale. Questo è l’aspetto negativo. Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l’effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell’operaio come legge sociale generale della produzione e l’adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita e di morte. Per essa diventa questione di vita e di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l’un con l’altro.

Marx coglie quindi una contraddizione tra la “grande industria” e la “sua forma capitalistica”, e riconosce nell’”individuo totalmente sviluppato” un obiettivo che si raggiungerà solo con l’”inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia”. Ma ci ‘sembra chiaro che un simile obiettivo è, nella dottrina comunista e marxista, soltanto un obiettivo storico, intermedio; un obiettivo che si colloca pur sempre all’interno di quella “sfera di produzione materiale vera e propria” da cui è indispensabile uscire per raggiungere, nella sua pienezza, il “regno della libertà”. Ci sembra in definitiva che sia a una siffatta “libertà”, e non a quella direttamente e quasi tecnologicamente legata alla “grande industria”, che l’ Aymonino si riferisca: ci stupirebbe, oltretutto, che la nuova condizione umana di valore universale, cui l’ Aymonino allude, fosse esclusivamente legata a una determinata “forza produttiva”, quale la “grande industria” indubbiamente rimane.

4. Città comunista e città opulenta: due prospettive coincidenti?

In realtà, come è sufficientemente noto, nella posizione marxiana e marxista la condizione umana di piena libertà, quella condizione che comporta il salto qualitativo dal “regno della necessità” al “regno della libertà”, si viene a realizzare e a concretare nella fuoriuscita dal lavoro: e cioè da quel momento insostituibile della vicenda dell’uomo, da quel fondamentale aspetto della sua operazione, che nel marxismo è vissuto come contingente - o meglio storica - alienazione, e nel cui superamento pienamente si identifica il punto di discrimine tra un’esistenza umana determinata “dalla necessità e dalla finalità esterna”, e un’esistenza vissuta invece, finalmente, come libero e dispiegato “sviluppo delle capacità umane”.

Non ci sembra una pretestuosa forzatura delle tesi dell’Aymonino, né un’avventata estrapolazione di esse, sostenere - come sosteniamo - la coincidenza tra la città in cui sarà verificata “la più completa libertà sociale” e la società che sarà marxianamente pervenuta al “vero regno della libertà” uscendo dalla necessità del lavoro. C’è dato allora di cogliere il perché della insufficienza e dell’astrattezza dell’ “ipotesi” dell’Aymonino, nella sua pretesa di essere proposta risolutrice dei problemi della città d’oggi. Bisogna infatti convenire che, per la posizione di cui ci stiamo ora occupando, la città dell’avvenire, la città della “molteplicità delle scelte” e della “più completa libertà sociale” - quella città da cui pur debbono trarsi le regole per ordinare la realtà urbana di oggi - è vista e prefigurata come la città in cui si è raggiunta quella “condizione fondamentale” per l’avvento del “vero regno della libertà” che Marx vedeva in una massima “riduzione della giornata lavorativa”, e in cui perciò l’estensione generalizzata del tempo libero è divenuta la condizione comune di una umanità affrancata dall’alienazione del lavoro.

Ma pur tralasciando ogni considerazione di principio sulla validità umana di una simile prospettiva, dobbiamo peraltro necessariamente sottolineare che entro una tale ipotesi la tensione rivoluzionaria del comunismo finisce inevitabilmente per identificarsi con la realtà storica dell’opulenza. È stato proprio uno studioso di formazione marxista, Herbert Marcuse, a cogliere con singolare acutezza il fatto che, nella realtà della società opulenta, viene esclusivamente a concretarsi proprio quella tesi marxiana “secondo cui il regno del lavoro non può che restare il regno della necessità [ ...] , mentre il regno della libertà può svilupparsi unicamente al di fuori e al di sopra del regno della necessità”. Afferma infatti ancora il Marcuse:

“Io credo che qui dovremmo discutere se nella società industriale ad alto sviluppo questa concezione possieda ancora un valore in generale, ed è probabilmente questo il punto più cruciale di tutta la questione: amiamo tutti i concetti di piena realizzazione di ciascuno, di libero dispiegamento delle capacità individuali, a tutti sta a cuore l’eliminazione dell’alienazione, però oggi dobbiamo domandarci: che senso ha una cosa del genere? Che senso ha, se nella società tecnologica di massa il tempo lavorativo, il tempo lavorativo socialmente necessario, è ridotto al minimo e il tempo libero quasi tocca le proporzioni di un tempo pieno? Che fare allora? Se ancora indulgiamo a espressioni venerande come “lavoro creativo” o “sviluppo creativo”, non verremo a capo di nulla. Che senso ha oggi quella vecchia istanza? Vuol dire che tutti andranno a pesca o a caccia, che scriveranno tutti poesie o dipingeranno e via elencando? So bene che è facilissimo tirare al ridicolo in queste cose, e in questo momento mi esprimo in modo provocatorio, giacché proprio questo è per me uno dei più seri problemi del marxismo e del socialismo, e penso non di questi soltanto. Proprio su questo punto dobbiamo acquisire concretezza, e non limitarci più a discorrere di autodispiegamento dell’individuo e di lavoro non alienato, ma porci la domanda: che senso ha una cosa del genere? Perché la progressiva riduzione del lavoro necessario non è più un’utopia, bensì una possibilità molto reale”.

Allora la città del futuro, la città nella quale ci si illude di trovar la legge per superare le negatività presenti nella città contemporanea, viene a coincidere, praticamente senza residui, con la città dell’opulenza. Infatti, come abbiamo dimostrato, il tempo libero non è altro che il portato naturale dell’evoluzione del sistema in cui il lavoro è ridotto - sulla base della originaria operazione dello sfruttamento - a capitale; di quella evoluzione, precisamente, che ha nell’assetto opulento il suo punto terminale e invalicabile.

Quindi affrontare oggi il problema della città entro la prospettiva di una libertà realizzata come uscita dal lavoro, conduce, di fatto, semplicemente a proseguire lo sviluppo opulento dell’insediamento urbano, venendo a porre oggettivamente in crisi ogni volontà rivoluzionaria di rinnovamento; sicché, seppur si vuole salvare quest’ultima, seppur si vuole rimanere fedeli, si è necessariamente sollecitati alla fuga in avanti nell’utopia e nell’estremismo. In realtà, proprio dalle posizioni come quelle dell’Aymonino si sprigiona spesso una tensione ad accelerare ed estremizzare quel processo di trasformazione opulenta della città che - lo abbiamo visto - porta alla fine, inevitabilmente, l’insediamento urbano al suo destino di crisi: a quel destino, cioè, che vede l’unica possibile uscita dalla congestione metropolitana (e dalla conseguente paralisi della vita urbana) nella dispersione delle residenze e nella dissoluzione dell’organismo cittadino.

Ma c’è di più: poiché il limite della piena uscita dal lavoro e della generale affermazione del tempo libero rimane semplicemente un limite, poiché in altri termini non si raggiunge mai, per i motivi che abbiamo più sopra enunciati, la piena e definitiva uscita dalla forma (fenomenologica, sociologica, psicologica) del lavoro e il tempo libero viene invece largamente vissuto come lavoro superfluo, ecco che la posizione della quale ci stiamo ora occupando deve rivelare, come necessario contrappunto all’estremismo, anche il proprio velleitarismo. Ed ecco allora che, mentre da un lato, come prima s’è visto, si è dovuta far propria la prospettiva e la tendenza dello sviluppo opulento, dall’altro lato, ogni qual volta ci si propone di far concretamente i conti con le cose, si è costretti ad accettare la realtà dell’opulenza così come questa storicamente si presenta. Ci si riduce, perciò, in definitiva, accantonando la critica e l’opposizione alle conseguenze dell’opulentismo, a rimaner subalterni a quest’ultimo anche nell’immediato: ad accettare in sostanza questa città così come il processo opulento la va configurando, e a celebrarne gli aspetti più caratterizzanti e negativi: il “problema” del tempo libero, la centralità delle attività terziarie, la genericità e la fungibilità dei valori e dei contenuti.

Non ci sembra dunque casuale se nell’attuale pratica professionale degli urbanisti italiani si rileva spesso una chiara tendenza formalistica, dalla quale non è esente chi, come l’ Aymonino, pur partendo dalla premessa della necessità di un impegno nell’analisi e nella trasformazione della società, e cogliendo poi una serie di importanti aspetti della nostra realtà sociale e urbanistica, non raggiunge però una sufficiente consapevolezza dei problemi e delle prospettive del nostro tempo. Una prova significativa di tale tendenza formalistica è costituita, crediamo, dalla fortuna che ha incontrato - proprio tra gli urbanisti più vicini alla posizione che abbiamo ora analizzato - la tematica non priva d’interesse, ma certo ambigua, dei contenitori. Questi sono infatti presentati e concepiti spesso come organismi urbanistici e architettonici nei quali è possibile svolgere, indifferentemente, una serie di funzioni estremamente varie e diverse (commerciali, residenziali, burocratiche e amministrative, artigianali, scolastiche, ricreative e così enumerando), senza che nessuna di esse conferisca un qualche carattere distintivo all’edificio nel quale vien svolta. Il contenitore, in altri termini, si configura come una struttura edilizia e urbanistica massimamente fungibile e ”poli-funzionale”, disponibile per qualunque contenuto, e ridotta quindi tendenzialmente a pura forma, ossia a mera empiricità generica.

5. La questione delle attrezzature collettive”

C’è un tema, fra tutti quelli che oggi costituiscono argomento di studio e di discussione tra gli urbanisti, che nonostante la sua apparente settorialità e il modo in cui finora è stato affrontato, ci sembra comunque - per tutto quello che abbiamo fin qui i sostenuto - particolarmente interessante e merita senz’altro di essere preso in considerazione: è il tema delle cosiddette “attrezzature collettive”. È chiaro il motivo di questa nostra affermazione: le “attrezzature collettive” costituiscono, infatti, i luoghi, le aree, gli edifici predisposti e organizzati per la soddisfazione di una serie di esigenze di carattere pubblico e comune; esse costituiscono dunque, per ciò stesso, un momento urbanistico legato a quella realtà del consumo comune di cui abbiamo ribadito più volte l’importanza e la decisività.

Le attrezzature scolastiche e per l’infanzia, le chiese e i centri parrocchiali, le attrezzature sanitarie e quelle ricreative e sportive, i centri culturali e le biblioteche, le attrezzature per l’esercizio dei diritti democratici, i centri sociali e quelli civici, i centri commerciali e le attrezzature collettive domestiche: queste sono - in una delle classificazioni correnti - le principali categorie di “attrezzature urbanistiche” oggi riconosciute. E non è forse evidente che esse costituiscono una sorta di prolungamento di quei luoghi e quegli edifici (l’acropoli, la rocca, l’agorà, il foro e l’arengo, il tempio e la cattedrale) che nella città classica e in quella medievale costituivano i punti focali della vita cittadina e i nuclei dell’ordinamento formale dell’organismo urbano? Non sono esse forse lo sviluppo di quei servizi collettivi che Owen e Fourier ponevano al centro delle New Harmony o dei Falansteri? Tutto ciò è talmente ovvio e palese che non merita certo di soffermarvisi più a lungo. Ma quel che vogliamo ora sottolineare è che la questione delle “attrezzature collettive”, ove sia posta al centro dell’interesse e dell’impegno di quanti si occupano del destino della città contemporanea, se consente di cogliere, nell’immediato, l’occasione dell’opulenza, costituisce anche un iniziale superamento dei suoi limiti.

In effetti, dato che l’assetto opulento è caratterizzato dal fatto che, nel suo ambito, il consumo di tutti è divenuto la dimensione centrale e decisiva dell’intera vita economica e sociale, e che esso può -e addirittura deve - crescere ed espandersi con una propria autonomia, ecco che esiste oggi la possibilità concreta di cogliere l’occasione dell’opulenza non solo per soddisfare, in modo via via più ampio, i bisogni che vengono oggi avvertiti, ma per porre anzi, dispiegatamente, il consumo di tutti - nella sua nuova autonomia - come la realtà centrale e ordinatrice dell’organismo urbano: di porre perciò le “attrezzature collettive” come l’elemento decisivo della città.

D’altra parte, dal momento che il limite dell’opulentismo è soprattutto ed essenzialmente costituito, nei confronti della città, dall’individualismo che è intrinsecamente connesso al modo opulento di fruire il consumo, è chiaro che ogni sforzo orientato a consolidare o a inventare, a proporre o a sostenere forme comuni di consumo, è uno sforzo che, per ciò stesso, tende a porsi in opposizione alla logica del modello opulento, a contraddirla e a negarla e, infine e in prospettiva, a pretenderne e a prepararne il rovesciamento e la sostituzione. La questione delle “attrezzature collettive” potrebbe allora effettivamente costituire il fulcro di un’azione volta a restituire un ordinamento autonomo alla città; a operare dunque per la città di domani, cominciando a costruirla nel presente. E poiché una tale questione è stata già da tempo affrontata, dalla cultura e dalla prassi urbanistica, si tratta di vedere adesso in che modo gli urbanisti abbiano saputo lavorare su di un simile tema.

Occorre innanzitutto rilevare, a questo proposito, che negli ultimi anni si è manifestato nel nostro paese un rinnovato interesse per il problema delle “attrezzature collettive”, e che un primo frutto di tale interesse può esser già oggi individuato in alcuni parziali approfondimenti di quel problema, i quali, pur senza costituire delle clamorose novità -e, soprattutto, senza aver condotto ancora a un organico e complessivo sviluppo della questione delle “attrezzature” -, indicano tuttavia una positiva tendenza della cultura urbanistica, che ci sembra interessante sottolineare per due motivi particolari.

Innanzitutto perché, dal momento che quegli approfondimenti non nascono da un tentativo di individuare le ragioni di principio dell’operazione urbanistica, e sono invece essenzialmente sollecitati dalle esigenze della pratica, essi - se sono ancora, appunto per tale motivo, precari e insufficienti - costituiscono però una prova ulteriore di un fatto al quale abbiamo già accennato: del fatto, cioè, che è la medesima realtà d’oggi, la realtà dell’opulenza, a pretendere ( e a consentire) un più largo e impegnato interesse al tema delle attrezzature urbanistiche. In secondo luogo, perché nella capacità dimostrata dagli urbanisti (o, almeno, dai migliori di loro) di avvertire e registrare la sollecitazione che scaturisce dalla concreta realtà sociale (quella sollecitazione per uno sviluppo del consumo di tutti, di cui s’è detto), si può scorgere un confortante segno di speranza per una loro più matura presa di coscienza.

La necessità di superare la tradizionale separazione tra “residenze” e “attrezzature”, e la conseguente concezione dello sviluppo della città come una continua “aggiunta” di unità integrate, in cui le parti tradizionalmente “residenziali” costituiscono solo un aspetto, inscindibile dagli altri; la proposta di realizzare un “telaio” di “attrezzature collettive” come struttura ordinatrice dell’organismo urbano, e dell’intero territorio, al quale è tendenzialmente esteso “l’effetto città”; l’esigenza di sottrarre “le attrezzature collettive” ai criteri strettamente funzionalistici o fisiologici che, nell’impostazione tradizionale, ne regolavano avaramente il dimensionamento, e la tendenza invece a stabilire degli “standards” fondati sulla previsione di un più largo affermarsi della dimensione sociale della vita dei cittadini , queste sono, tra le nuove acquisizioni dell’urbanistica italiana, quelle che ci sembrano più interessanti e promettenti. In esse, infatti, comincia a manifestarsi empiricamente non solo una generale tendenza a estendere quantitativamente il peso delle “attrezzature collettive” e a precisare e ad affinare i metodi per una loro migliore determinazione, ma, soprattutto, una iniziale e positiva volontà: la volontà di rompere le barriere che separano il consumo pubblico dal consumo privato e di vivere ogni momento della “residenza” come consumo pubblico; la volontà di ricondurre un tale consumo al suo ruolo di elemento centrale e ordinatore della città; di valutare e misurare l’efficacia dell’operazione urbanistica in base al grado di fruibilità del consumo comune assicurato a ogni cittadino dalle sistemazioni urbanistiche stesse; di trovare infine, proprio sul terreno del consumo pubblico e comune, il decisivo e peculiare punto d’incontro tra l’urbanistica e la realtà sociale.

6. L ‘ipotesi del modello nucleare”

Certo, una siffatta volontà, proprio perché per ora è generalmente vissuta come empirica approssimazione, proprio perché non è ancora sufficientemente fondata ne su di una chiara ed esplicita consapevolezza dei principi peculiari alla disciplina urbanistica né su di una rigorosa analisi del processo storico contemporaneo, rischia di stemperarsi nella ovvietà del praticismo - o addirittura di dissolversi nelle frivolezze brillanti di una moda -, e minaccia contemporaneamente di risolversi in una mera velleità tecnocratica.

Già altre volte la tendenza tecnocratica e il velleitarismo demiurgico hanno pesato sulle migliori intenzioni e sulle intuizioni più promettenti degli urbanisti. È il caso, che qui particolarmente ci interessa ricordare, di quella concezione “nucleare della città che, pur costituendo un primo tentativo moderno di conformare 1’insediamento umano sulla base di una determinata organizzazione delle attrezzature, si traduceva poi in uno schema razionalisticamente e astrattamente precostituito dei modi della convivenza sociale, il quale non trovava alcuna effettiva corrispondenza nella realtà della società civile, e tentava perciò di sovrapporsi a quest’ultima come una soffocante camicia di Nesso oppure - più sovente - veniva da essa anarchicamente rifiutato e infranto.

Non vogliamo affermare con questo che non abbia, in linea di principio, alcun senso la tesi secondo cui la società (e dunque anche la città) debba trovare la propria più peculiare e armonica organizzazione in una gamma via via crescente di organismi e istituti e livelli associativi, che dall’iniziale nucleo sociale della famiglia si allarghino a mano a mano fino a comprendere l’intera umanità. In questo senso, anzi, ci sembra che i propugnatori del “modello nucleare” abbiano colto, sia pure implicitamente e con tutti i limiti di un’approssimazione astrattamente sociologica, una importante verità di principio, che sarebbe del tutto erroneo negare seccamente, respingendo la vita sociale ai suoi poli estremi: l’individuo e l’umanità.

Resta tuttavia indiscutibile il fatto che oggi, nella concreta situazione della nostra epoca, la vita sociale non è organizzata - né è immediatamente organizzabile - secondo i moduli ipotizzati nel “modello nucleare” della città. Così, mentre l’esclusivizzata astrattezza di un tale modello conduceva i suoi sostenitori a esaltare gli ipotetici elementi di coesione entro i vari “livelli associativi” da essi previsti (e a trascurare di conseguenza le relazioni tra i diversi “livelli” ), la loro preoccupazione di valorizzare una sociologica “scala umana” li portava a dissolvere tendenzialmente l’unitarietà dell’intero organismo sociale e urbano in nome di una velleitaria - o soffocante - compattezza dei “livelli” elementari (le “unità di vicinato”, le “comunità”, i”quartieri”). E perciò appunto, essi erano inevitabilmente condannati a raggiungere, con la loro azione, due sbocchi pratici entrambi negativi.

Da un lato, infatti, nella misura in cui le loro schematiche teorie riuscivano a trovare una qualche concreta applicazione, essi potevano ancorarsi, entro il sistema sociale storicamente dato, a un unico punto di riferimento, a una sola struttura organizzativa: quella costituita dalla dimensione produttiva. Nascevano così i”quartieri operai”, o le “comunità” strettamente e funzionalmente asservite - in modo più o meno paternalistico - a questa o a quell’altra fabbrica; nascevano, insomma, le unità residenziali pienamente e direttamente appiattite alle leggi e agli interessi aziendali, segregate e rinchiuse nel cerchio angusto di una realtà produttiva prevaricatrice e alienante. Ma dall’altro lato, nella misura in cui la vita sociale rifiutava di farsi imprigionare negli schemi razionalistici e nelle tecnicistiche astrazioni dei propugnatori del “modello nucleare”, quest’ultimo veniva semplicemente vanifìcato e dissolto dall’incontro con la concretezza delle cose, e rivelava tutto il suo velleitarismo. La forza spontanea della vita sociale operante nella città - di una vita sempre più dominata dal dispiegarsi del consumo opulento -, sebbene priva di un suo ordine sufficiente disgregava le tecnocratiche illusioni dei pianificatori, e svuotava di contenuto e di significato i loro tentativi e i loro progetti.

7. La linea degli standards”

A un destino analogo va incontro chi, senza rendersi conto della reale portata e della potenzialità di rinnovamento che è sottesa al tema delle “attrezzature collettive”, vede in esso unicamente il problema di assicurare ai cittadini, in aggiunta alle dotazioni edilizie di cui già possono disporre (case, alloggi, stanze), “adeguate” dotazioni urbanistiche di verde attrezzato, di aree ed edifici scolastici, e così enumerando.

È esattamente ciò che accade nell’ambito di quella che può esser definita la “linea degli standards urbanistici”. Infatti entro questa linea si perviene, è vero, a comprendere che il problema della città può esser risolto solo se si pone l’accento sugli elementi pubblici, comuni, collettivi: ma questi ultimi non vengono visti come l’elemento ordinatore dell’intero insediamento umano, come il principio stesso della città, come il momento decisivo di quest’ultima e di ciascuna delle sue parti. Gli elementi pubblici vengono considerati invece unicamente come delle aggiunte , come delle integrazioni, che devono completare un assetto delle città che può, in definitiva, restare quello tradizionale.

Poco importa in altri termini, agli assertori della “linea degli standards”, che la porzione volumetricamente più consistente della città (quella costituita dagli edifici destinati alla residenza) resti sostanzialmente immodifìcata, e perciò dominata da una concezione individualistica dell’abitare. Poco importa che ogni uomo, ogni cittadino, resti un individuo nel suo alloggio, e che continui a fruire entro di esso un consumo individualisticamente organizzato: basta solo che ogni individuo possa disporre, oltre che dell’alloggio tradizionalisticamente inteso, anche di determinate quantità di aree destinate a usi comuni e pubblici.

È facile rendersi conto dell’insufficienza di una linea siffatta. Essa, in primo luogo, è una linea meramente riformistica, e come tale è per principio subordinata al sistema dato. Non abbiamo forse affermato che gli elementi pubblici sono concepiti - entro quella linea - solo come aggiunte e integrazioni? Ma allora, essi vengono inevitabilmente concessi unicamente laddove ( e nella misura in cui) il sistema può concederli, senza nulla modificare della propria sostanza. Per ciò appunto, la città che è possibile conformare secondo la “linea degli standards” non solo è una città nella quale i superamenti dell’individualismo sono sempre inevitabilmente parziali, hanno sempre un carattere meramente sussidiario, non solo è una città in cui ibridamente convivono elementi comuni e parti dominate dall’individualismo, ma è poi un insediamento nel quale quel tanto di elementi comuni, non più individualistici, che è stato concesso, può essere in ogni istante contraddetto e negato.

La “linea degli standards” è dunque anche una linea velleitaria. In effetti, in tutto il periodo in cui il processo dell’opulenza è ancora al suo inizio, la richiesta di dotazioni in aggiunta deve inevitabilmente venir respinta, perché la spesa che essa inevitabilmente comporta, mentre non appare oggettivamente necessitata, non corrisponde d’altra parte a una qualche riduzione di spesa (quindi a una liberazione di risorse) in un altro punto dell’assetto urbanistico e sociale.

Poi, a mano a mano che l’evoluzione opulentistica fa scomparire - nell’inutile abbondanza - ogni problema di risorse, e che diviene perciò economicamente possibile soddisfare la richiesta di quelle dotazioni in aggiunta, l’ibridismo tra elementi comuni e parti individualistiche d’1ll’insediamento viene fatalmente a risolversi nell’unico modo pienamente compatibile con l’opulentismo: con la fine cioè, con la scomparsa e la vanificazione, di quel tanto di elementi comuni che è riuscito a manifestarsi e a concretarsi, e con il trionfo di quell’insediamento disperso che segna evidentemente la fine di ogni linea legata all’espressione degli elementi comuni della città.

8. L ‘indispensabile punto di partenza

Disconoscere il carattere ambiguo dell’opulentismo impedisce di portare un contributo risolutivo alla crisi della città; si è infatti portati, inevitabilmente a una evoluzione del sistema sociale che è letale per la città, oppure - sottolineando esclusivamente ,gli aspetti negativi dello sviluppo opulento e impedendosi così di scorgere la potenzialità positiva che ambiguamente convive nella complessa realtà dell’opulenza - a vedere l’unica strada in un’astratta e velleitaria fuga in avanti. Ma non basta neppure - lo abbiamo visto - avvertire solo empiricamente la centralità della questione degli elementi comuni della città: che in tal modo non si giunge a comprendere il collegamento profondo che esiste tra il problema della rinascita della città e quello dello sviluppo della società, e si è condotti a oscillare tra le tentazioni tecnocratiche e demiurgiche e le ovvietà subalterne del riformismo.

Per superare effettivamente l’opulentismo (e, con esso, la minaccia che grava sulla città d’oggi) bisogna invero riconoscerlo innanzitutto come tale: bisogna assumere cioè piena consapevolezza della svolta che esso rappresenta rispetto all’ordinamento capitalistico-borghese e coglierne quindi, insieme, il limite erroneo e l’intrinseca potenzialità positiva. È solo in tal modo, è solo nel quadro di una reale e dispiegata comprensione dell’opulentismo e della concreta possibilità di superamento che in esso si manifestano, che possono oltre tutto acquistare un significato non velleitario ne generico alcune intuizioni che sono contenute nelle posizioni più interessanti della presente cultura urbanistica; è solo in tal modo che diviene possibile dare una ragione, un senso, una prospettività, una profondità storica a quelle concrete iniziative, oggi ancora vissute empiricamente, nelle quali i migliori urbanisti italiani dimostrano di saper cominciare a cogliere - almeno praticamente e nelle cose - la possibilità costituita dall’opulenza.

Per conto nostro, crediamo di aver dimostrato a sufficienza in che cosa risieda una simile possibilità; abbiamo anzi già accennato a una generale linea d’ azione (quella, in sostanza, che consiste nello sviluppo del consumo di tutti in consumo comune) attraverso cui quella possibilità può divenire effettuale. Ma come può cominciare a svo1gersi, concretamente e nei fatti, una simile linea d’azione? Come partire per cogliere l’occasione dell’opulenza e per dar principio a quel superamento dei limiti dell’opulentismo, che è indispensabile per liberare la città dalla minaccia che grava su di essa, e per darle anzi un volto pienamente estetico?

Occorre innanzitutto uscire dal chiuso dei discorsi strettamente settoriali e specialistici, e sforzarsi invece di legare la tematica urbanistica, nel suo complesso, alla concretezza, alla carne e al sangue della vita sociale: e precisamente alla vita di una società che, giunta ormai all’opulenza, è contraddistinta dalla piena affermazione del momento del consumo. Siamo così riportati al nostro primo problema: il problema di sviluppare, di rendere consapevole, di portare a piena conoscenza, quella volontà di conformare la città d’oggi secondo le esigenze del consumo comune. Una simile strada, può oggi esser effettivamente percorsa? Esiste insomma la possibilità che la società venga incontro agli urbanisti, e li strappi finalmente da quell’isolamento, da quell’amara e distaccata solitudine, in cui intristiscono le loro migliori intuizioni? La risposta, in linea di principio, non è davvero difficile, dopo tutto quel che abbiamo finora argomentato; anzi, ne discende direttamente e immediatamente.

E in effetti, poiché nell’assetto opulento si è affermato un consumo di tutti che pretende oggettivamente e inconsapevolmente di liberarsi dalle mistificazioni dell’individualismo, e aspira a svilupparsi in consumo comune, deve certamente esistere, nella società, un insieme di forze che sollecitano a tale sviluppo, e che vi sono anzi vitalmente interessate. È allora proprio nel collegamento con queste forze che l’urbanistica può trovare non solo il sostegno tattico, ma soprattutto l’alleanza strategica. Essa può ritrovarvi cioè, insieme con quel positivo condizionamento che le garantisca di evitare la tentazione demiurgica e velleitaria, anche quel radicamento di principio nella storia che le consenta di acquisire la base per l’esplicazione della propria autonomia.

Per individuare queste forze dovremo approfondire l’esame dell’opulenza, spostando però l’attenzione, dal terreno dei princìpi e dalle leggi di fondo, al terreno della concretezza storica e del processo attraverso il quale l’opulentismo si viene manifestando e affermando, soffermandoci in particolare sulle contraddizioni sociali che nel corso di quel processo si sviluppano.

I giovani, gli studenti dei paesi nei quali il processo opulento si è maggiormente sviluppato, i figli di quel medio ceto largamente parassitario e privilegiato che è il primo benefìciario dei consumi opulenti, sono stati tra i primi a esplodere e a ribellarsi. Ma la rivolta delle università è soltanto un avvertimento, è un segnale della tensione nascosta sotto le levigate apparenze della «società del benessere». In altri modi, per altre vie, lungo altre linee di frattura possono erompere e liberarsi quelle contraddizioni che lo sviluppo dell’opulenza viene man mano ad accumulare.

Quali sono però queste contraddizioni? Possono esse costituire la base materiale di una politica diretta alla fuoriuscita dai meccanismi dell’opulenza e alla fondazione di un differente sviluppo? Ci proveremo adesso a rispondere a entrambe queste domande.

Ciò che ci sembra di dover in primo luogo sottolineare è che lo sviluppo opulento, nella sua fase iniziale, non si presenta certamente come una realtà capace di superare in modo pieno, e quindi di risolvere effettivamente, le antiche contraddizioni: quelle cioè che in qualche modo costituiscono il risultato cumulativo degli errori, delle parzialità, dei limiti, da cui è stato contrassegnato il processo storico. Anzi, è facile vedere che l’opulenza, proprio per le intrinseche leggi che regolano il suo sviluppo, se certamente perviene a ridurre via via l’incidenza sociale e politica di quelle contraddizioni, può farlo soltanto emarginandole, congelandole, regalandole, per così dire, ai confini della realtà da essa più direttamente dominata: conservandole insomma come sacche, quasi perpetua testimonianza delle parzialità del suo stesso sviluppo.

Si rifletta, ad esempio, sulla grande contraddizione a scala mondiale tra i paesi del capitalismo maturo e i paesi della miseria e della fame: una contraddizione che pesa già gravemente sulle decisioni di politica internazionale dei paesi ricchi, e perciò sulle stesse condizioni del loro assetto interno. Ebbene, è anche troppo chiaro che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, quella contraddizione non può non permanere e non accentuarsi. Nulla invero, del meccanismo e della logica dello sviluppo opulento, può far prevedere che la grande contraddizione a livello mondiale dei nostri tempi possa venir risolta o riassorbita; tutto, anzi, indica il contrario, e precisamente l’inevitabilità, entro il quadro dell’opulenza, di un progressivo approfondirsi di quel pauroso abisso che già spacca l’umanità in due tronconi, con l’esplosione di nuovi eccidi, nuove catastrofi e nuovi massacri.

Si rifletta, ancora, su quella tipica contraddizione che si manifesta nella realtà del nostro paese (ma non solo del nostro), e che investe la campagna e il mondo contadino. È questa, certamente, una contraddizione tipica dello sviluppo capitalistico-borghese, e difatti già i primi utopisti e, più tardi, i fondatori del socialismo scientifico non mancarono di individuarla e di criticarla. Essa non viene però positivamente risolta dallo sviluppo opulento, e viene anzi tendenzialmente eliminata attraverso una secca eliminazione del mondo contadino, al quale oggi viene indicata come unica alternativa la dissoluzione e la definitiva scomparsa, in un processo tumultuoso e spontaneistico che condanna gli abitanti delle campagne a scegliere tra due sole soluzioni, entrambe socialmente e umanamente intollerabili, e perciò gravide di tensioni. Una è quella del restare in una campagna e in un’agricoltura sempre più immiserite ed emarginate; l’altra è quella dell’abbandono disperato della terra, delle tradizioni, della classe, delle abitudini, dei vincoli familiari e sociali -e infine del naufragio nelle squallide periferie urbane e nella condizione tragicamente subalterna del sottoproletario.

Si rifletta, infine, sulla contraddizione implicita nella presente condizione femminile: una contraddizione «classica» ormai nella realtà sociale, ma non ancora nella letteratura, ne nella critica e nell’azione politica. Su quest’ultima contraddizione gioverà soffermarsi con una certa ampiezza, e ciò non solo per la scarsa consapevolezza che per essa hanno finora dimostrato il personale politico e più in generale gli intellettuali nel loro complesso, e che quindi sollecita a un esame più ampio di quello necessario per altre «questioni» ormai entrate nella coscienza comune, ma anche perché nell’attuale condizione femminile è possibile rinvenire una sollecitazione particolarmente significativa a risolvere il problema della città nel modo omogeneo alle tesi che abbiamo dimostrato e alle ipotesi che abbiamo assunto.

2. La questione femminile

La tradizionale condizione femminile (quella condizione la cui presa di coscienza determinò il sorgere del movimento di emancipazione) ha una sua fondamentale caratteristica sociale nel fatto che tutti i consumi che si svolgono nell’ambito familiare vengono organizzati e gestiti dalla donna, la quale, privata di qualunque libertà nella scelta delle proprie opportunità di lavoro, è esclusivamente relegata al ruolo di erogatrice dei servizi necessari a fruire di tali consumi. Una simile situazione (che si risolve di fatto, quali che possano essere le coperture e le mistifìcazioni, in una piena servitù della donna) poteva comunque venir subita tranquillamente e quasi naturalmente, finché il lavoro femminile extra-domestico rimaneva un’eccezione; essa doveva però rivelare tutta la sua insopportabilità umana e sociale quando l’affermarsi della produzione capitalistica, con il suo progressivo allargarsi fino a investire l’ «esercizio di riserva» costituito dalla forza-lavoro femminile, conduceva all’ingresso di quest’ultima, in aliquote sempre più ampie, nell’attività produttiva.

In effetti, all’impiego capitalistico della forza-lavoro femminile non è venuta a corrispondere una sufficiente assunzione, da parte della società, dei compiti del lavoro casalingo. Di conseguenza, nel momento stesso in cui la donna, con il suo ingresso nel mondo del lavoro, ha dato inizio al processo della propria emancipazione, essa ha dovuto però pagare lo scotto d’essere sottoposta a un doppio lavoro: quello della fabbrica, o comunque delle sue mansioni nel processo produttivo al livello sociale, e quello casalingo della ‘gestione domestica.

È appunto per tutto questo, è appunto per liberare la donna dal peso inumano e insopportabile di un simile doppio lavoro, che i più consapevoli settori del movimento di emancipazione, mentre dovevano salutare, come un positivo portato allo sviluppo storico e come una sostanziale affermazione della libertà femminile, l’ingresso delle donne nella dimensione sociale della produzione, dovevano però, al tempo stesso, lottare perché le donne fossero affrancate dalla servitù dell’altro lavoro; perché dunque la custodia e l’istruzione della prole, la cura e la manutenzione degli alloggi, la preparazione dei pasti tutti gli aspetti, insomma, dell’”economia domestica” fossero progressivamente svolti sulla base, nelle forme e con l’efficienza di un vero e proprio lavoro, e non più attraverso la servile supplenza del «lavoro casalingo».

Ma uscire effettivamente dal «lavoro casalingo», organizzare come un vero e proprio lavoro i servizi tradizionalmente svolti dalla donna nell’ambito della famiglia, è evidentemente possibile solo se i consumi cui quei servizi sono ordinati mutano anch’essi radicalmente di segno; poiché è chiaro che i consumi domestici possono essere soddisfatti mediante l’erogazione di un lavoro che sia realmente tale ( di un lavoro cioè pienamente economico, nel senso di qualificato, efficiente, socialmente organizzato), soltanto se escono dall’individualismo che inevitabilmente li caratterizza finche vengono esclusivamente vissuti nell’ambito familiare, e si sviluppano in consumo comune.

Non è questa però - ormai lo abbiamo ampiamente argomentato - la strada seguita dal processo opulento; il consumo individualistico non si muta in consumo comune, ma viene anzi esaltato e sviluppato in modo parossistico e abnorme. Non si realizza perciò quella condizione necessaria, che sola può consentire alla donna di uscire dalla condizione inumana del “doppio lavoro”, senza nulla perdere della conquista raggiunta nel processo emancipatorio. Ma v’è di più. Nella società opulenta le donne non solo non vengono liberate dalla servitù casalinga; esse, mentre vengono ribadite nella loro condizione di erogatrici di servizi domestici, sono contemporaneamente sospinte ad abbandonare quell’unica e decisiva posizione che avevano raggiunto nella loro lotta emancipatoria. Le donne, infatti, vengono indotte dall’opulentismo a lasciare il mondo del lavoro e a chiudersi in quello di una “mistica femminile” nella quale rivivono, aggiornati e ammodernati, quegli antichi e mitici “valori femminili” che avevano mistificato e coperto la servitù casalinga della donna, presentandola come la connaturata e positiva prerogativa dell’ “angelo del focolare”.

Chiara è la ragione di ciò: non è forse il lavoro, nella società opulenta, economicamente inutile? E non sono ovviamente le donne le prime a essere sollecitate e praticamente costrette ad abbandonare quel mondo della produzione nel quale esse sono ancora, in definitiva, delle parvenues? È l’esperienza di questi anni, ormai, a dimostrarlo e a confermarlo in modo inoppugnabile.

3. Le dimensioni sovrastrutturali”

Le donne, i contadini, i popoli dell’area del sottosviluppo: ecco alcune corpose realtà sociali che l’opulenza abbandona alla crisi o al ristagno, alla disperazione o alla morte. E non sarebbe difficile dimostrare che altre realtà e dimensioni e istituti della vita sociale nei nostri tempi già stanno vivendo anch’esse (o incominciano a vivere) il momento di una loro crisi altrettanto grave e altrettanto carica di tensioni potenziali, o già in atto.

Già abbiamo accennato alla crisi e alla ribellione del mondo studentesco, in cui certamente si esprime la tipica contraddizione dell’opulenza: quella di un consumo (il consumo della scuola, dell’istruzione, della cultura), che è ormai diventato di massa, ma viene ancora organizzato, amministrato e gestito nelle forme omogenee all’individualismo aristocratico, ed è dispensato da un personale tenacemente arroccato nella difesa di un privilegio inconcepibile in una società ormai dispiegatamente entrata sotto il segno della democrazia.

E vogliamo accennare ancora a un momento che consideriamo particolarmente significativo ed emblematico della vita ideale: quello della vita religiosa. Per quanti non si rinchiudono entro una concezione teologica, che nel rapporto esclusivo e diretto tra ogni singolo uomo e la divinità esaurisce tutta la vita religiosa, quest’ultima deve naturalmente svolgersi nell’ambito non semplicemente di una riunione o di un’assemblea di individui, ma di una vera “società di fedeli”. Per la religione cattolica, in particolare, è massima la centralità e l’indispensabilità della piena dimensione comunitaria non solo nel momento, più evidentemente pubblico, del culto, ma anche - e in modo decisivo - nei momenti più intimi e profondi della vita religiosa: quelli della preghiera e della partecipazione sacramentale alla divinità.

Tutto ciò, crediamo, è sufficientemente noto, e ha cominciato d’altra parte a esser significativamente rivissuto - almeno nel cattolicesimo - a partire dagli anni del pontificato di Giovanni XXIII. Quello che però qui ci interessa di sottolineare è che un mondo integralmente dominato dall’individualismo - qual è quello determinato dallo sviluppo opulento - nega la stessa possibilità della vita religiosa; esso infatti non solo ostacola e frena l’esplicarsi di quella dimensione comunitaria che è indispensabile al pieno svolgimento della vita religiosa, ma semplicemente lo rende impossibile: dissolve quel tanto di comune, di corale, di ecclesiale, che ha potuto storicamente manifestarsi e sopravvivere; atrofizza e isterilisce infine quel che non può dissolvere.

Se dal piano dei momenti della vita ideale passiamo a quello degli istituti nei quali tali momenti si incarnano e si esprimono, non è forse evidente che le crisi “strutturali” cui lo sviluppo opulento dà luogo investono direttamente l’esistenza di questi istituti medesimi? È il caso, appunto, della Chiesa cattolica, che è posta in crisi dall’impietosa e drammatica liquidazione del mondo contadino, come dall’azione aberrante e deformatrice esercitata dall’opulentismo sulla famiglia, come infine - e soprattutto - da quella lacerazione dell’umanità in due tronconi, il cui perpetuarsi e drammatico aggravarsi non possono non suonare come una condanna per ogni realtà, per ogni istituto, che necessiti di un respiro pienamente universale.

4. Una contraddizione fondamentale del sistema opulento.

Si potrebbe osservare che tutte le contraddizioni che abbiamo finora elencate sono, per così dire, esterne all’opulenza. Esse vengono infatti patite da chi è territorialmente escluso dallo sviluppo opulento (come i popoli dell’area del sottosviluppo), o è economicamente marginale rispetto a tale sviluppo, e quindi ugualmente escluso da esso (come i contadini e le donne); oppure investono categorie che sono, almeno temporaneamente, non inserite nei ranghi del sistema (come gli studenti), e i cui componenti sono comunque suscettibili di abbandonare la loro posizione di critica e di ribellione man mano che, con il passar degli anni, vengano singolarmente a integrarsi nell’opulenza.

Nessuna delle contraddizioni anzidette, insomma, colpirebbe il sistema al suo cuore e nel suo centro, poiché nessuna delle forze sociali e delle dimensioni da esse investite è realmente indispensabile al proseguire dei meccanismi dell’opulenza. Di conseguenza, sebbene l’esistenza delle une e delle altre riveli indubbiamente la parzialità dello sviluppo opulento e ponga in luce il suo limite disumano, non potrebbe nascerne, però, una linea sufficiente di trascendimento di tale sviluppo ne una forza capace di affermare una linea siffatta.

Una simile obiezione coglie senz’altro un punto importante ed esatto. E in effetti, se certamente le contraddizioni, che abbiamo brevemente esaminate, dimostrano che c’è chi concretamente paga lo sviluppo opulento al prezzo della propria morte o della propria vanificazione, e se quindi esse rivelano l’esistenza di una serie di forze vitalmente interessate alla fuoriuscita dall’opulentismo, tali forze non sono tuttavia di per sé sufficienti a dar luogo a un positivo processo di liberazione della società dai limiti deformanti nei quali essa oggi minaccia di congelarsi. Ci sembra, però, che all’interno dello sviluppo opulento si annidi un’ulteriore e fondamentale contraddizione la quale, poiché interessa una classe che è essenziale al sistema, è senz’altro decisiva al fine del realizzarsi di quel processo di liberazione: è la contraddizione implicita nella presente condizione operaia.

5. La classe operaia

È indubbio che non solo oggi, non solo agli inizi del processo opulento, ma sempre, non può non essere soprattutto ed essenzialmente la classe operaia a pagare per l’affermarsi e lo svilupparsi dell’opulentismo. Essa viene conquistando, è vero, un progressivo ampliamento del proprio reddito, ma solo e sempre al prezzo di condizioni di lavoro e di vita assolutamente imparagonabili con quelle delle categorie e dei ceti sostanzialmente improduttivi (e comunque largamente parassitari) che costituiscono i veri usufruttuari del benessere e dell’opulenza. D’altra parte, sebbene i proletari vengano via via ad acquistare un maggior benessere, essi lo pagano con la perdita della loro stessa verità di classe, della loro funzione storica: di quelle ragioni e di quelle prospettive, insomma, che riscattano il proletariato dalla sua subalternità originaria e lo elevano, nell’interesse dell’umanità, a nuova forza sociale dirigente. Non ci sembra, questo, un punto sul quale sia necessario insistere e soffermarsi a lungo. Abbiamo infatti già sottolineato che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, la contraddizione cruciale tra i popoli ricchi e quelli poveri non può non permanere e accentuarsi, non può non trasformarsi in una lacerazione sempre più profonda e irreversibile. E non è forse evidente che in questa spaccatura mortale del mondo e dell’intera umanità, il proletariato viene fatalmente ad alienarsi nella sua necessità rivoluzionaria? Ove insomma le cose dovessero procedere secondo i meccanismi propri dei sistemi in atto, la classe proletaria finirebbe per perdere anch’essa (come la Chiesa cattolica) ogni possibilità di respiro universale; il suo stesso momento politico verrebbe a dissolversi, ad annullarsi, a scomparire senza residui.

Non solo, ma lo stesso interesse di classe del proletariato non postula forse, quale proprio obiettivo di fondo, il superamento della sua condizione di forza-lavoro, della riduzione di questa a capitale? E non è forse basato il sistema dell’opulenza appunto sul permanere di una simile riduzione, in una prospettiva indefinita e insuperabile?

Anche il proletariato, dunque, paga in modo insopportabile lo sviluppo opulento; anche il proletario è vitalmente interessato, di conseguenza, al superamento di tale sviluppo. Ma il proletariato non soltanto deve opporsi all’opulentismo: esso può anche farlo. La classe proletaria, infatti, è quella che ha storicamente battuto il suo avversario di classe: la borghesia. Ma - come abbiamo già osservato quando abbiamo esaminato il modo in cui si è giunti, nella storia, al manifestarsi dell’opulenza - se il proletariato, la classe dei detentori della forza-lavoro, ha mutato dall’interno i fondamentali e principali meccanismi economici del capitalismo, tuttavia ha lasciato sopravvivere i suoi fini e i suoi modi, consentendogli cosi di sopravvivere alla crisi della classe borghese come classe egemonica a livello mondiale. Il sopravvivere dell’economia capitalistica insomma, l’elusione della contraddizione catastrofica che era implicita nella sua forma borghese, sono stati consentiti soltanto dall’incremento della capacità di consumo dei produttori e questo, a sua volta, ha trovato unicamente nella tensione rivendicativa (e nella parallela lotta politica) del proletariato la propria causa efficiente.

Certamente e necessariamente ambigua è quindi la posizione del proletariato nella società opulenta. Questa è, in qualche modo, una sua creatura, pur essendo letale per i suoi destini. Depurando il capitalismo della sua contraddizione fondamentale, la classe operaia ha consentito che rimanesse in vita l’unico sistema economico, tra quelli oggi ipotizzabili e ipotizzati, capace di garantire lo svolgersi del processo produttivo a livelli d’efficienza sufficienti ad appagare il bisogno di beni di sussistenza per tutti; e però, poiché l’economia capitalistica è stata lasciata alla sua forma opulenta, poiché insomma, una volta battuta l’egemonia borghese, nessuna l’ha sostituita e il sistema si è venuto sviluppando secondo le sole reggi della propria spontaneità, ecco che le capacità produttive del capitalismo sono restate congelate all’interno di determinate aree, si sono sviluppate intensivamente (e in modo di necessità distorto), non hanno dato luogo a una generale uscita dell’umanità dalla povertà e dalla fame, ed ecco infine che si sono venute ad aggravare proprio quelle contraddizioni - di cui abbiamo più sopra discorso - che minacciano e compromettono la vocazione rinnovatrice e universale del proletariato.

Se cosi stanno le cose, ci sembra abbastanza evidente che è proprio il proletariato che ha tutte le carte per gestire un processo di fuoriuscita dall’opulentismo: un processo che non contesti (perche, allo stato degli atti, non è contestabile) la forma di produzione basata sulla riduzione del lavoro a capitale, ma ponga all’economia capitalistica degli obiettivi, delle regole, differenti - e anzi opposti - a quelli spontaneamente impressi dallo sviluppo opulento.

Il discorso, evidentemente, diviene qui propriamente politico. E in effetti, perché il proletariato possa gestire il sistema capitalistico in modo non subalterno a1l’opulentismo, è necessario in primo luogo che esso non si esaurisca in una azione meramente rivendicativa, redistributiva - consumistica, dunque -, in essa identificando e risolvendo quasi interamente l’azione politica vera e propria. Finche sarà così, evidentemente, il processo opulento potrà continuare indisturbato il proprio cammino, e l’oggettivo potenziale di rinnovamento costituito dalle forze sociali escluse dall’opulentismo - o da esso mortificate e uccise - resterà sterile e subalterno. Resterà, appunto, un mero potenziale, non diverrà un reale blocco di forze: la base sociale organica per la gestione del potere.

È necessario, quindi, che il proletariato si affermi compiutamente - nella sua dimensione di partito - sul terreno del potere, e che su tale terreno affronti e risolva il problema di una gestione dell’economia radicalmente diversa da quella peculiare all’opulentismo. Una simile gestione non può proporsi - già lo abbiamo accennato - di superare illico et immediate la forma capitalistica di produzione; e ciò non solo per la ragione, di per sé sufficiente, che a tale forma non è stato possibile opporre - sul piano della teoria come su quello della prassi economica - un’alternativa che non sia l’anarchia o la reazione, ma anche perché il modo capitalistico di produzione non ha ancora esaurito sufficientemente la sua funzione sociale di fondo: quella cioè di garantire la massima esplicazione del processo produttivo, e di portare così l’umanità intiera fuori dal bisogno dei beni della sussistenza.

Utilizzare sotto segno proletario la forma capitalistica di produzione, sviluppare l’economia del capitale fuori dall’esclusivismo nazionale e di classe della borghesia e al di là della stagnazione mortificatrice dell’opulentismo, significa dunque, per la classe operaia, “riconquistare stabilmente la sua alleanza fondamentale”, ricollegarsi “agli esclusi delle aree depresse (a coloro che sono oggi solo virtualmente i futuri proletari) in un processo di allargamento continuo su scala mondiale del suo nuovo potere”; ma significa altresì manifestare concretamente la propria piena libertà d’azione dal sistema dell’opulenza, affermare positivamente la propria egemonia politica e aprire perciò la prospettiva di una liberazione del lavoro dalla sua condizione di lavoro alienato, di lavoro ridotto a capitale.

Come è possibile però gestire, a livello dei tempi in cui viviamo, l’economia capitalistica in una prospettiva omogenea agli interessi di fondo della classe proletaria? Non possiamo evidentemente affrontare in modo esauriente questa decisiva questione, e rinviamo perciò il lettore alle pagine ora citate. Ci interessa comunque di sottolineare che il problema dell’organizzazione della città e, più in generale, quello di un “dispiegamento organico, e in prospettiva generalizzata, della forma sociale del consumo”, è una componente decisiva di una siffatta gestione, a egemonia proletaria, del capitalismo.

E in effetti, non solo una simile figura del consumo è antitetica - come abbiamo dimostrato - a quella propria al sistema opulento, e consente perciò al partito proletario di affermare la pienezza della propria autonomia da tale sistema. Non solo, poi, rivendicare consumi organizzati in forma pienamente sociale garantisce al proletariato di migliorare le proprie condizioni d’esistenza (e dunque di non sacrificare neppure i propri immediati interessi di classe). Ma, soprattutto, un’organizzazione sociale del consumo poiché riconduce quest’ultimo sotto una norma di efficienza e di risparmio, consente perciò di liberare risorse: consente dunque al proletariato di estendere - sotto la propria egemonia - il processo accumulativo, di ricondurre nell’ambito dell’economia e della civiltà moderna i popoli esclusi dal circuito della vita civile, sottraendoli così al loro destino di miseria e di fame; consente, infine, di indicare ai popoli del sottosviluppo e alle zone di arretratezza presenti nello stesso mondo dell’opulenza una concreta prospettiva di sviluppo civile, e di fondare così le nuove ragioni di un’alleanza storica, a livello mondiale, della classe proletaria.

6. Una domanda conclusiva

Condurre la società fuori dallo sviluppo opulento, quindi, è fin d’ora oggettivamente possibile, perché esistono le forze sociali interessate a farlo. E allora non è utopistica e astratta, non è velleitariamente eversiva una linea urbanistica che si proponga di sottrarre la città al destino cui l’opulentismo la condanna. Se gli urbanisti giungono a formulare e a concretare una simile linea, essi possono non essere soli: possono ritrovare, anzi, un legame profondo e organico con le forze decisive della società d’oggi, per camminare e lottare nella medesima direzione. Non solo, ma ci sembra - e lo abbiamo già in parte dimostrato - che una linea urbanistica di rinnovamento della città, fondata sulla trasformazione del consumo individualistico di massa in consumo comune, oltre a essere evidentemente omogenea a una linea di generale trascendimento dell’opulentismo, ne può essere addirittura una componente essenziale. Per vederlo meglio, gioverà comunque riprendere l’analisi della città dell’opulenza e svilupparla, esaminando brevemente alcuni più vistosi e rilevanti fenomeni dell’attuale crisi urbana, entrati oramai nell’esperienza di tutti (o, almeno, di quanti vivono nella parte del mondo già condizionata, in misura più o meno rilevante, dal processo dell’opulenza).

Quando abbiamo affrontato il tema della città di oggi abbiamo affermato che, ove si rimanga entro il quadro del modello opulento, la città si avvia verso la sua definitiva crisi lungo due direzioni: quella della congestione crescente e irrefrenabile, e quella della dispersione delle residenze sul territorio.

Ci sembra che due aspetti, due fenomeni, o se si vuole due momenti della crisi dell’odierna città, particolarmente signifìcativi ed emblematici, siano costituiti dalla questione del traffico e dalla tendenza a quella particolare forma d’insediamento che viene definito suburbio. Tali aspetti dell’attua1e problema urbanistico rappresentano infatti, con efficacia quasi simbolica, quelle due direzioni di cui or ora si diceva (e difatti il traffico è uno dei parametri più rilevanti della congestione urbana, e il suburbio è la forma dominante della dispersione delle residenze), ed entrambi rivelano e confermano, con sufficiente chiarezza, che la crisi già in atto nella città è direttamente riconducibile alla caratteristica di fondo del consumo nella società opulenta: quella cioè di esser divenuto consumo di massa, pur essendo rimasto nella millenaria forma individualistica. Non è soltanto per questi motivi però, non è solo per trovar conferma alle nostre tesi, che vogliamo ora esaminare brevemente il fenomeno del traffico e quello del suburbio, ma anche e soprattutto perché un’analisi più concreta e puntuale della città d’oggi (colta in alcuni suoi decisivi aspetti) ci potrà consentir di vedere chi paghi socialmente il prezzo della crisi della città, e quali siano la portata e il significato di quella crisi sul terreno economico; avremo così accumulato sufficiente materiale per dimostrare, in definitiva, la nostra tesi ultima e conclusiva: che cioè l’azione per il rinnovamento della città può essere una componente essenziale di una più generale linea anti-opulentistica.

7. Il problema del traffico

Che il traffico sia diventato un problema macroscopico delle nostre città non è cosa che occorra dimostrare. Stanno n a testimoniarlo, oltretutto, una grande quantità di rapporti, relazioni, documenti congressuali, articoli ,giornalistici; fiumi di interviste, dichiarazioni, discorsi; centinaia di iniziative tecniche e amministrative (sia pure generalmente parziali e settoriali). E non ha forse provocato, infine, il problema del traffico, riflessi spesso vistosi e clamorosi sul terreno delle lotte sociali e sindacali ? Quanti hanno messo anche soltanto un piede nelle città dell’”area sviluppata”, conoscono di persona quel problema: tutti sanno oramai che, nel momento stesso in cui il rapido sviluppo della tecnologia viene elaborando gli strumenti tecnici, sempre più raffinati ed efficienti, che consentirebbero di soddisfare l’esigenza della mobilità, quest’ultima viene invece appagata in modo sempre più precario, affannoso, mortificante, inumano, compromettendo in misura via via più diretta la stessa possibilità di circolare nelle città, di viverle, di conservarle perfino.

Le cause di una situazione siffatta sono indubbiamente molteplici, ma due soprattutto sono decisive e fondamentali: l’accrescimento tumultuoso, irrazionale, disorganico delle città maggiori, con il parallelo e contemporaneo spopolamento delle campagne e dei centri minori; la scelta della motorizzazione individuale (l’automobile), quale mezzo di gran lunga preminente per risolvere il problema della mobilità. Ora a noi sembra assai facile dimostrare, che non solo - com’è intuitivo - la seconda, ma anche la prima di queste cause ha la sua radice in quella caratteristica di fondo del consumo opulento di cui si diceva. L’accrescimento delle grandi città a spese del resto dell’insediamento ha infatti certamente la sua ragione nel fatto che all’aumentata necessità di rapporti e relazioni tra gli uomini e tra le varie sedi nelle quali si svolgono la vita e l’attività (le residenze, i luoghi di lavoro, le attrezzature collettive ), alla rottura, insomma, di quella situazione tradizionale che vedeva l’insediamento umano come la giustapposizione di mondi, quali più grandi e quali più piccoli, ciascuno chiuso in se stesso e in sostanza autosufficiente (quale che fosse il livello di vita in ognuno consentito ), non ha corrisposto una effettiva .presa di coscienza delle nuove esigenze e delle mutate condizioni, e perciò neppure una politica tendente a un’equilibrata dislocazione degli insediamenti sul territorio. In altri termini, quando ogni uomo ha cominciato a divenir consapevole della propria necessità (e del proprio diritto) di usufruire di determinate condizioni di vita e possibilità di lavoro, ciò non ha dato luogo a un processo di complessiva riorganizzazione degli insediamenti sul territorio, nell’ambito del quale si giungesse a infrangere - come tecnicamente è possibile - la cesura fra città e campagna, fra insediamenti maggiori, e perciò dotati di un sufficiente livello di attrezzature, e insediamenti minori.

L’esigenza di vivere in ambienti caratterizzati da condizioni “urbane”, insomma, anche quando è divenuta di massa, ha trovato una soluzione solo individualisticamente; ciascuno ha dovuto cercare singolarmente e spontaneisticamente la soluzione al suo proprio problema ( che era invece oramai un problema di tutti}, e l’ha fatto nell’unico modo possibile nella situazione data: affluendo cioè alla città, inurbandosi, accorrendo insomma là dove unicamente esistevano condizioni di vita e possibilità di lavoro vicine a quelle che oramai erano da tutti sentite come indispensabili.

Non solo la scelta della motorizzazione individuale, quale risposta dominante all’esigenza di massa della mobilità, ma anche l’abnorme e tempestivo accrescimento dei centri maggiori, ha dunque la sua radice nel fatto che un’esigenza di massa ha trovato un appagamento unicamente entro la logica di un consumo individualistico. Ed è allora l’intiero odierno problema del traffico che deve venir ricondotto alla caratteristica di base del consumo opulento.

8. Il suburbio”, insediamento tipico dell’opulenza

Minacciata dal congestionamento e dalla paralisi, resa inordinabile dal caos che la caratterizza (e che ha nel traffico una delle sue più evidenti manifestazioni, ma non certo l’unica), ecco che la città comincia ad apparire sempre di più una realtà nella quale è impossibile vivere. E non a caso, si viene via via affermando una tendenza, particolarmente omogenea all’opulenza, nell’ambito della quale, mentre i centri minori si svuotano e s’isteriliscono sempre di più, e mentre le grandi città ospitano soltanto le cosiddette “funzioni terziarie superiori” o “quaternarie” e i mostruosi “ghetti” nei quali vengono accatastati quanti ancora non sono assorbibili dall’opulenza, si sviluppa invece, in misura crescente e man mano più massiccia, un processo di fuga di massa dalla città. È, quest’ultimo, un processo che interessa le moltitudini festive dei cittadini delle metropoli dell’opulenza, i quali cercano periodicamente un’evasione illusoria e spesso intimamente disperata nell’esodo del week-end, ma è un processo che comincia già a dar luogo a insediamenti stabili e permanenti, a formare un nuovo modo di abitare e di vivere: si tratta, appunto, di quella mostruosità urbanistica che può divenir tipica dei nostri tempi: il suburbio.

Che cosa è il “suburbio”? È un insediamento caratterizzato da due elementi essenziali, tra loro strettamente collegati nel senso che il primo è condizione del secondo: la rarefazione estrema dei tessuti edilizi, ossia la dispersione delle residenze sul territorio; la concentrazione dei più essenziali servizi (soprattutto quelli commerciali) e la loro conseguente localizzazione in punti assai distanti gli uni dagli altri.

Il “suburbio” si basa, più precisamente, su una cellula generatrice che è l’alloggio individuale, costruito su di un lotto individuale anch’esso, e dotato - oltre che del suo brandello privato di verde - di tutta una serie di spazi e di ambienti, i quali servono allo svolgimento (nell’ambito della famiglia e, appunto, dell’alloggio) di funzioni e di compiti che non solo possono venir svolti e organizzati in forme sociali, ma che in parte già venivano concretamente svolti in tali forme.

La bassa densità edilizia risultante da una simile soluzione dell’alloggio comporta evidentemente una notevolissima rete stradale, e quindi rende praticamente impossibile una organizzazione collettiva del trasporto: l’automobile è perciò la regina del suburbio, e ogni famiglia deve possederne più d’una. E poiché l’estrema rarefazione impone che i servizi ineliminabili siano localizzati a grandi distanze reciproche (altrimenti non disporrebbero di una sufficiente “area di mercato”), ecco che viene ancor più scoraggiata ogni volontà di uscire frequentemente dall’alloggio per provvedersi di beni o servizi di uso quotidiano, ed ecco quindi che viene ribadita e ulteriormente esaltata la necessità di attrezzare la casa “di tutti quegli strumenti che rendono possibile l’autonomo e individualistico soddisfacimento dei bisogni altrimenti soddisfacibili collettivamente: la televisione, anzitutto, e poi l’indefinita proliferazione degli elettrodomestici”.

È evidente, perciò, che questo tipo d’insediamento comporta una notevolissima espansione dei consumi privati: non solo per il motivo generale che è l’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, ma anche per il motivo specifico che una residenza organizzata in un modo siffatto pretende un aumento dei consumi privati nella misura precisa in cui postula una rinuncia sempre più marcata a una organizzazione sociale dei servizi. Ed è appunto per questo, in definitiva, che gli unici elementi comuni i quali riescono a svilupparsi in un simile inferno urbanistico (e umano) sono quelli ordinati appunto all’approvvigionamento, il meno frequente possibile, dei beni di consumo privati: i giganteschi shopping centers, le efficienti stazioni di servizio automobilistiche, e, di conseguenza, le faraoniche costruzioni destinate ai parcheggi. Sono questi, insomma, i nuovi templi, i nuovi arenghi, le nuove piazze, le nuove cattedrali dell’insediamento proprio all’individualismo di massa.

9. Chi paga il prezzo della città opulenta?

Il rapido esame, che abbiamo compiuto, di due rilevanti aspetti della crisi dell’odierna città, non è certamente - né voleva essere - un’esauriente rassegna dei fenomeni nei quali si manifesta il disastro urbanistico nel quale viviamo; più di una volta però (lo confessiamo francamente al lettore) la penna avrebbe voluto correre per illustrare e denunciare altri aspetti, altri fenomeni, altre manifestazioni - che ogni giorno ci colpiscono - del decadimento e della dissoluzione dell’assetto delle nostre città e del nostro territorio. Se abbiamo resistito, se non ci siamo soffermati nel ricordare e nell’esaminare la dissipazione del territorio e del paesaggio divorati dall’anarchia dell’appropriazione individualistica, o la distruzione dei centri storici stravolti, oltre che dalla congestione, dal privilegio rozzo dei più ricchi e dalla miseria dei più poveri, o l’assurda bruttura dei panorami urbani determinati da un mostruoso agglomerarsi di miriadi di episodi singolari tra loro sconnessi e dissonanti, o la dispersione della vita negli alveari metropolitani e negli ischeletriti insediamenti della campagna e della provincia, ciò non è dipeso dal fatto che questi aspetti non ci sembrino tutti rilevanti. È che, così facendo, non avremmo aggiunto al nostro quadro null’altro di sostanziale: ci sembra, infatti, che le conclusioni, alle quali stiamo cercando di pervenire, non potrebbero trovare nell’esame di questi ulteriori aspetti un contributo diverso da quello di una conferma della loro validità. Avremmo corso il rischio, invece, di lasciarci travolgere dalla facile passionalità della mera denuncia e dell’invettiva, mentre ciò che soprattutto ci preme e c’interessa è di contribuire a far passare la cultura urbanistica dalla denuncia alla proposta consapevole, dalla protesta al lavoro, all’azione coerente e fiduciosa, critica - perché non può non esserlo - ma aperta alla speranza: pronta, perciò, a riconoscere le vie attraverso le quali passa il possibile, e a percorrerle.

Per individuare le “vie del possibile”, ci sembra che si debba in primo luogo comprendere che il problema della città non è cosa che interessa soltanto gli urbanisti: se così fosse, davvero disperata sarebbe la loro azione, condannata al velleitarismo ribellistico e protestatario, o all’astrazione sterile dell’utopia.

L’esserci brevemente soffermati sul problema del traffico e sulla tipologia del “suburbio”, ci consente intanto di vedere a questo punto, con sufficiente chiarezza, che la condizione degli uomini nella città d’oggi è realmente tale da non poter mancar di generare una carica d’insoddisfazione, di disagio, di protesta, quindi, e di ribellione, in tutti i suoi abitatori. La concreta situazione della città dei nostri giorni dimostra insomma che il prezzo dello sviluppo opulento è pagato, direttamente e quotidianamente, dagli stessi uomini che già vivono nel processo dell’opulenza, ne sono i protagonisti e gli usufruttuari.

Essi pagano un simile prezzo in quanto uomini, individualmente e singolarmente, ma lo pagano anche in quanto umanità associata, nei corpi e negli istituti e negli organismi in cui si esprime e si articola la dimensione comunitaria della società; ciò non solo per il motivo generale che la città dell’opulenza, poiché è dominata dall’individualismo, è incomponibile con una vita pienamente sociale, ma anche per una serie di motivi specifici, che nel primo hanno evidentemente la loro causa originaria, e che possono essere colti correttamente solo esaminando ciascuna delle distinte realtà sociali che nella città vivono. Su una di queste - che già abbiamo poco fa trattato - vogliamo ora brevemente ritornare quasi a titolo d’esempio, e soprattutto perché la consideriamo particolarmente legata alla realtà urbanistica: ci riferiamo alle donne.

10. Le donne e il suburbio

Nell’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, gli elementi decisivi -come abbiamo visto -sono l’esaltazione dell’individualismo della residenza e l’esaltazione del consumo, anch’esso individualisticamente concepito, organizzato e fruito. Più precisamente, sia la residenza che il consumo trovano nella famiglia (materialisticamente intesa e tradizionalisticamente fissata) l’istituto, il luogo, il momento, al quale si ordinano e in funzione del quale esclusivamente si organizzano.

Ma il consumo dei nostri tempi, e la residenza dei nostri tempi, non sono quelli dei tempi andati. Non sono più un consumo e una residenza di cui era difficilmente immaginabile -e invero storicamente non è stata immaginata -la forma collettiva, poiché appunto erano ridotti all’osso, contenuti nel minimo indispensabile per la sussistenza, ed erano infatti regolati dalla dura norma e dall’arte difficile e complessa del risparmio. Anzi, viviamo in una società nella quale (poiché vengono metodicamente, automaticamente scartate tutte le aperture verso forme collettive di gestione e di insediamento) la tendenza è quella di un esasperato individualismo residenziale e di una progressiva espansione dei consumi tradizionali, sorretta da una continua complicazione delle esigenze materiali.

Il consumo, perciò, si complica e si moltiplica, pur rimanendo un consumo individualistico, domesticamente gestito entro il chiuso alloggio familiare: basti pensare alla «indefinita proliferazione degli elettrodomestici», alle elaboratissime ricette culinarie che tornano in auge nei «paesi evoluti», alle frenesie consumistiche in cui paganamente si risolvono ( con una cospicua erogazione di forza-lavoro domestica) le feste tradizionali e quelle nuove, alle stesse rinverdite teorie pseudo-psicanalitiche sull’indispensabilità della fisica presenza materna per i bambini fino a due o tre o quattro anni. Chi dunque si occupa di un simile consumo e chi presiede a un simile modo di abitare non regola nulla, ma si abbandona al flusso delle cose; non risparmia, spende; non garantisce un ordine, galleggia su un’informe anarchia.

Di questo modo abnorme di consumare e di vivere, il suburbio è evidentemente, al tempo stesso, la condizione e il risultato. Ma nel concreto, chi è che deve occuparsi di tutto ciò? Chi è che deve gestire un simile consumo e occuparsi di una residenza siffatta? Né la logica né la storia hanno esitazioni nel rispondere: è ovviamente la donna, è l’antico «angelo del focolare», che deve farlo. È essa, infatti, che è sempre stata aggiogata alla famiglia ed alla casa, rimanendovi asservita anche quando finalmente è entrata nella produzione, nel mercato del lavoro.

Ma v’è di più; come già abbiamo visto, il processo di emancipazione della donna e il movimento emancipativo organizzato spingevano e spingono tuttora la società, oggettivamente e soggettivamente, a trasformarsi, a svilupparsi, e insomma ad adeguare faticosamente se stessa alla nuova situazione della donna che vuole affermare la propria umanità nella figura del libero produttore. Solo che, in un primo momento, la società non ha cambiato nulla di sostanziale su un così decisivo e primario terreno come è quello del consumo e dell’insediamento, e ha scelto quindi la via più tranquilla ed immediata: quella cioè di accogliere solo l’elemento tecnologico del progresso, e tenere in piedi - anche quando son divenute mortifere, anche quando occorre imbalsamarle e corromperle - tutte le vecchie abitudini, tutte le vecchie tradizioni e servitù, che non sono direttamente di ostacolo al processo tecnologico stesso.

In un secondo momento invece, con il meccanismo dell’opulenza, ha prevalso, sul piano stesso della rilevanza economica, la figura del consumatore rispetto a quella del lavoratore, e per ciò si è avuto sempre meno bisogno, sotto ogni aspetto, della forza-lavoro femminile, per cui se ne è favorito l’espulsione dal mondo del lavoro per riportarla esclusivamente alla sue antiche funzioni, adesso esaltate, ma anche alienate e distorte, dalla trionfale avanzata del consumismo di massa.

L’antico «angelo del focolare» si vien trasformando sotto i nostri occhi (senza perdere nulla del suo errore) nella moderna, «razionale», «efficiente» funzionaria del consumo. La donna abbandona sì la fatica oggettivamente rivoluzionaria del doppio lavoro, ma per divenire la nevrotica addetta a quella vera e propria mostruosità economica, sociale e umana che è la cosiddetta «azienda familiare»: l’azienda in cui si amministra, si organizza, si gestisce, si consuma ormai soltanto il superfluo, quello che è inutile in sé, e quello che è inutile consumare in quel modo.

La tendenza urbanistica del suburbio e quella del «ritorno a casa» della donna sono dunque davvero due fenomeni strettamente connessi, due facce di un’unica realtà: e sono infatti due modi, due momenti, due aspetti dell’identica operazione, messa in atto dallo sviluppo opulento, per aggiogare la donna a una moderna schiavitù.

11. Una prospettiva di rinnovamento della città.

Quale città è necessaria per consentire un’effettiva liberazione della donna?

È una città, evidentemente, in cui il rapporto tra alloggio e attrezzature collettive non dev’essere riformisticamente corretto, ma deve essere completamente rovesciato in modo rivoluzionario. È una città, concretamente, in cui l’alloggio non deve più essere un’isola, ma deve diventare parte di un complesso assetto della residenza in cui ogni singolo servizio, ogni consumo, vengano organizzati e gestiti in modo comune, sociale, collettivo. Se, per fare degli esempi, si estende il ruolo della scuola; se per ogni gruppo di alloggi si prevede uno spazio sorvegliato per i giochi dei bambini; se si sostituiscono le lavatrici individuali con impianti di caseggiato; se una fitta rete di ristoranti economici permette di evitare la corvée della spesa e della cucina e del rigoverno delle stoviglie; se la manutenzione e la pulizia degli alloggi vengono svolte, per tutti, da squadre specializzate; se tutte queste cose vengono fatte, allora effettivamente ci si avvia a organizzare la residenza in modo che consenta la liberazione della donna.

Ci si avvia, abbiamo detto. E infatti gli esempi ora elencati sono serviti solo a far comprendere meglio in che direzione sollecita la spinta di una determinata forza sociale; non pretendono certo di dare, sul piano urbanistico, un’immagine sufficiente della città quale dovrebbe essere e quale dovrà essere. Sono esempi che possono servire a dare una indicazione sul punto di partenza e sulla direttrice di marcia, non sul punto di arrivo.

È chiaro, comunque, che muovendosi da quel punto di partenza e lungo quella direttrice si comincia a costruire - sulla base di esigenze e di spinte sociali che già oggi si esprimono e ci sollecitano - una città che è dominata dal momento sociale, e che quindi non è più un aggregato di isole individualistiche, ma una struttura di elementi collettivi, comuni; una città in cui le case, gli alloggi, sono soltanto i prolungamenti delle attrezzature collettive, e che perciò, in definitiva, è proprio una città rivoluzionata: nel senso che è l’esatta antitesi, il puntuale rovesciamento di quella attuale, anche se realisticamente è dalle possibilità, dai germi, dagli inizi già presenti nella città di oggi, che si comincia a costruirla.

E non è proprio una simile città, d’altra parte, quella che è omogenea alla intuizioni degli utopisti come alle indicazioni più positive e promettenti della moderna cultura urbanistica? Non è in una siffatta direzione che si può riprendere un fruttuoso collegamento con l’eredità storica della città, con le ragioni stesse della sua nascita, con l’esperienza dei momenti più fecondi della sua evoluzione? Veramente ambigua e complessa è la realtà dell’opulenza: convivono e si intrecciano al suo interno i meccanismi che sospingono alla dissoluzione dell’organismo urbano, e le tensioni e le forze che già indicano la strada per una rinascita della città, per il suo sviluppo.

12. Lo spreco della città.

Certo, nessuno, oggi, si rende conto di quanto costa una città organizzata individualisticamente, nessuno -o quasi - avverte e denuncia lo spreco della città. Ma perché? In primo luogo, nessuno è oggi costretto a rendersene conto: c’è ancora qualcuno che è mistificatamente sfruttato, c’è ancora qualcuno che sfacchina senza essere pagato, ci sono appunto le donne, le casalinghe, gli «angeli del focolare» che lavorano senza retribuzione. C’è ancora oggi, insomma, una spesa invisibile, una erogazione gratuita e dissimulata di forza-lavoro femminile, in cui sta proprio una delle cause che consentono la sopravvivenza di una città anarchica e antieconomica.

In secondo luogo, poi, nessuno se ne rende conto perché tutti sono oggi alienati, almeno nel senso che tutti sono condizionati dal sistema, dall’assetto dell’opulenza, in cui sono socialmente inseriti. In che cosa precisamente si manifesti un simile condizionamento, perché esso conduca a una siffatta alienazione e impedisca di prender coscienza del costo di una città individualistica, può esser ormai facilmente compreso.

Il sistema dello sviluppo opulento ha bisogno della spinta dell’individualismo consumistico proprio per i suoi interni equilibri, e trova anzi in quella spinta la condizione essenziale perché i suoi automatismi possano esplicarsi. Quel consumo superfluo che è caratteristico dell’individualismo di massa, e che intrinsecamente altro non è se non puro spreco, è insomma indispensabile per la sopravvivenza del sistema: per esso, quindi, non è uno spreco, ma diviene una precisa norma economica.

Ecco quindi perché e in qual senso oggi si è tutti alienati; ecco perché, nella misura in cui si è condizionati da questo sistema e si rimane idealmente entro di esso, è impossibile concepire una città organizzata in modo diverso; ed ecco infine perché, fino a quando il sistema in atto è questo determinato sistema entro il quale viviamo, realizzare una città conforme alle esigenze degli urbanisti è addirittura impossibile. Bisogna convenire che lottare oggi per una città diversa, per una città nella quale il consumo di massa si sviluppi nel consumo comune e possa perciò esser sottoposto a una norma economica, significa cogliere l’occasione dell’urbanistica per contestare e rovesciare - in una serie di punti concreti, su questioni che vitalmente interessano forze sociale decisive - lo sviluppo opulento, le sue leggi, le sue necessarie regole economiche.

Per farlo, non è certamente necessario un atto demiurgico degli urbanisti, un porsi dei «tecnici della città» come supremi ed esclusivi regolatori dell’assetto urbanistico; serve, anzi, esattamente l’opposto. Serve cioè che gli urbanisti, sfuggendo a quella tendenza all’esclusivismo che è destino di ogni disciplina che si separi dalle altre, intreccino la propria ricerca e la propria azione con quelle delle discipline, e delle forze che sono direttamente e peculiarmente ordinate all’intervento sul terreno del sistema sociale. E serve poi, d’altra parte, che le forze sociali decisive - e quindi, prima fra tutte, quella proletaria - comprendano il ruolo fondamentale che la questione urbanistica può oggi assumere per iniziare il processo di fuoriuscita dall’opulentismo: quel processo cioè che, attraverso l’eliminazione di ogni parassitismo (quale quello preborghese della rendita fondiaria), di ogni spreco economico, di ogni dissipazione di risorse, consenta di gestire politicamente il meccanismo capitalistico negli interessi dello sviluppo, a scala mondiale, di una nuova egemonia rivoluzionaria della classe proletaria nell’ambito di un nuovo «blocco storico» di alleanze.

13. Conclusione

Gli urbanisti si lamentano spesso dei fallimenti a cui vanno incontro. Essi, però, sogliono dimenticare altrettanto spesso che le idee camminano, si concretano, si traducono in leggi e poi in edifici e spazi e città, solo quando incontrano le forze capaci di comprenderle, di verificarle nei propri interessi immediati,e perciò di farle proprie e di battersi per esse. Abbiamo voluto dimostrare, in quest’ultimo capitolo, che questo incontro è possibile, oltre che necessario, e dobbiamo ormai considerare conclusa questa nostra ricerca.

Non nel senso, beninteso, che essa ci abbia condotto a un qualche traguardo sul quale si possa sostare nell’attesa che le cose proseguano il loro sviluppo; ma, almeno, nel senso che abbiamo potuto trarre, da una prima indagine a grandi linee , sulle origini storiche e sulle cause di principio che determinano l’attuale condizione della città, alcune direttrici di studio e d’azione. E se siamo stati condotti a dover riconoscere, nella città contemporanea, la minaccia d’una crisi distruttrice e mortale, abbiamo però potuto individuare il segno esplicito di una speranza di rinnovamento.

Certamente, le radici di quella crisi - lo abbiamo intravisto - sono profonde, complesse, antiche; esse affondano in una concezione dell’uomo, del lavoro, dell’economia, della società, che è antica come la storia e che pesa sul nostro futuro. Rimuoverle interamente, concretare quindi definitivamente quella speranza per la città, è dunque impresa alla quale gli urbanisti, da soli, non possono ovviamente accingersi. Essi però - è questo il senso del nostro lavoro - non più da solitari scienziati e quindi da «profeti disarmati», ma in operosa alleanza con una serie di forze della società civile, possono portare il loro contributo, sullo specifico terreno della loro disciplina, alla soluzione comune dei problemi del nostro tempo.

Ogni periodo storico ci ha lasciato il ricordo di grandi opere pubbliche, impressesi nel paesaggio in seguito a piani più o meno chiaramente preordinati.

Trascurando le creazioni urbanistiche, proprie a tinte regioni fino da una remota antichità, si può ricordare per esempio che l’Egitto dei Faraoni regolava la disposizione dei canali irrigatori derivati dal Nilo e degli insediamenti adiacenti. Altrettanto facevano i Romani con la centuriazione delle regioni colonizzate, mentre gli Incas sapevano favorire lo sviluppo di determinate zone altimetriche, acclimatandovi piante e abitanti di provenienza esterna. Dal Medioevo ad oggi, infine, si sono moltiplicate in Europa e altrove le trasformazioni agrarie, le bonifiche, le colonizzazioni demografiche, ad opera di sovrani, di ordini religiosi e di enti vari.

In tutti questi casi si è di fronte, in un certo senso, ad un tipo di pianificazione parziale del territorio, la quale cioè contempla singoli elementi del paesaggio umano. Essa oggi è più attiva che mai perchè in uno stesso Paese possono coesistere enti diversi, che sovraintendono rispettivamente all’opera di bonifica, alla conservazione del suolo, all’amministrazione del manto boscoso, alla regolazione dei corsi d’acqua, allo sviluppo delle vie di comunicazione, a quello dei centri abitati, ecc. dando luogo coi loro sforzi ad una modificazione anche intensa del paesaggio nel suo insieme. Il fatto, però, che i singoli piani parziali possono essere in contrasto l’uno con l’altro mostra la necessità di un loro coordinamento generale, al quale si ispira la pianificazione territoriale propriamente detta, o integrale, che considera non già uno o più elementi del paesaggio, ma tutto il paesaggio nel suo complesso.

Essa si propone, come scopo essenziale, di organizzare un determinato territorio ai fini della vita della collettività. Perciò tutti i fatti umani relativi all’insediamento, alla produzione agricola e industriale, ai trasporti, ecc. vi sono localizzati, tenendo presenti sia la loro reciproca coordinazione e subordinazione, sia le condizioni che a ciascuno di essi sono offerte dall’ambiente naturale. Se la regione così organizzata risulta funzionalmente sana, il suo paesaggio sarà armonico (Gutersohn).

Il primo piano territoriale, ispirato a questi concetti, è in un certo senso quello del distretto carbonifero della Ruhr, risalente al 1920, seguito nel 1923 da quello della “Côte Varoise” in Francia. Contemporaneamente si iniziava il lavoro preparatorio, su scala più vasta, negli Stati Uniti d’America, imitati nel 1928 dalla Gran Bretagna e nel 1935 dalla Germania coi suoi organi preposti al “Raumordnung” (ossia letteralmente all’ordinamento dello spazio).

Dopo la seconda guerra mondiale il fenomeno ha avuto un ulteriore incremento. In Gran Bretagna, per esempio, il “Town and Country Planning Act” del 1947 ha posto le basi della pianificazione dell’intero territorio nazionale, mentre sulla stessa strada sono più o meno decisamente avviati gli altri Paesi europei e parecchi di quelli extra europei.

In Italia la legge, che ha istituito i piani di coordinamento territoriale, risale appena al 1942. Il primo progetto, relativo al Piemonte, è stato autorizzato nel 1948; quello per la Liguria è ancora allo studio, mentre per la Sicilia ed il Veneto si è nella fase preliminare. Ci manca, tuttavia, finora quella concezione integrale della pianificazione territoriale, che domina oggi nel mondo.

L’ampiezza dei singoli piani territoriali è varia perchè va dalla grande regione naturale al piccolo comune amministrativo. Tuttavia nel fissarne i limiti, in luogo dei confini fisici o amministrativi, si ricorre talvolta ad altri criteri, come nel caso dell’attuale progetto per la regione di Oporto (Portogallo), per la cui delimitazione è stata proposta la curva isometrica di almeno 200 abitanti per kmq. In ogni modo v’è una tendenza a dare ai piani limiti funzionali (come risulta anche da quanto è stato scritto per il progetto relativo al Veneto), il che può interessare il problema della revisione delle circoscrizioni amministrative interne.

Come uno dei più classici esempi di pianificazione territoriale può essere citato quello del bacino del Tennessee negli Stati Uniti, diventato ormai un modello del genere. Nel 1933 fu istituita la “Tennesse Valley Authority”, un ‘impresa volta inizialmente allo sfruttamento delle risorse idroelettriche della regione, che in seguito, però, assunse il carattere di un ente rivolto alla pianificazione totale del territorio, con un’autorità superiore a quella dei singoli Stati posti nel suo ambito e con lo scopo del benessere generale della Nazione. Non soltanto il fiume fu regolato e reso navigabile, ma sulle sponde dei 15 laghi artificiali costruiti si svilupparono alcune città coi relativi porti. Inoltre la presenza di energia elettrica a basso prezzo agevolò la fondazione di industrie (in particolare dell’alluminio e dei fosfati), mentre nel campo dell’agricoltura le fattorie dimostrative (in cui vive il 10% degli abitanti) diedero un mirabile sviluppo alla produzione, favorita anche dal rimboschimento del territorio.

Il paesaggio umano della valle del Tennessee è oggi completamente trasformato rispetto a 20 anni or sono. Tuttavia la pianificazione non implica in ogni caso un’intensa modificazione del paesaggio perchè varie possono essere le condizioni dei luoghi e le finalità dei progetti.

Chi confronti, infatti, al piano del Tennessee o a quelli - progettati oggi a sua somiglianza per lo Zambesi-Okowango in Africa o per il Murray in Australia - il progetto del piano per una regione di elevato ed antico sviluppo economico come per esempio il Piemonte, comprende facilmente che in questo caso più che ad una trasformazione del paesaggio si arriverà ad una sua riorganizzazione. Sotto questo aspetto, dunque, l’intensità dei risultati di un piano è in rapporto inverso con quella che il Deffontaines chiama la “densità” del paesaggio umano.

È dunque indispensabile nella fase preparatoria - per ripetere le parole di Isaiah Bowman – “un’interpretazione geografica degli elementi dell’ambiente da parte di esperti”, i quali distinguano quelli da lasciare inalterati da quelli da modificare e valutino sopra tutto i loro rapporti con la vita sociale. Il Dudley Stamp, facendo ciò per la Gran Bretagna, dispone tali elementi secondo un ordine gerarchico, che è il seguente: industrie, insediamenti, agricoltura, ricreazione, comunicazioni, difesa. Va da sé che questa graduatoria varierà non solo da Paese a Paese, ma anche in rapporto all’indirizzo che la pianificazione intende dare alla regione.

Alcuni esempi possono illustrare la varietà degli aspetti con cui la pianificazione si è manifestata sulla superficie terrestre. Essi si riferiscono sia alla pianificazione integrale che a quella parziale, come pure ai riflessi provocati nel paesaggio umano dalla pianificazione economica generale di un determinato Paese, la quale - iniziatasi nel 1928, col primo piano quinquennale sovietico - oggi è diffusa in numerosissimi stati (dalla Jugoslavia a Ceylon, dall’Iran alla Rodesia settentrionale), qualunque sia il loro attuale indirizzo politico.

Anzi tutto, nel campo dell’agricoltura, la commassazione o ricomposizione della proprietà fondiaria frazionata, che ha qualche riflesso anche in Italia, ha lasciato notevoli tracce nel paesaggio agrario della Francia e della Svizzera, dov’essa è praticata fin dal 1885 e fa parte oggi di un piano generale di miglioramento agricolo e idraulico.

Molto interessante è pure il riflesso avuto in tal senso dalla riforma . agraria. in quei Paesi, come la Cecoslovacchia, che hanno recentemente sostituito alla proprietà privata le cooperative comunali. Ivi la commassazione ha dato origine ad appezzamenti più estesi e regolari, che hanno favorito il lavoro meccanico e, di conseguenza, la produzione.

Anche le opere di conservazione del suolo lasciano una speciale impronta nel paesaggio agrario. Negli Stati Uniti, per esempio, un apposito servizio consiglia agli agricoltori le coltivazioni più adatte ai diversi terreni e cambia la disposizione e la forma delle particelle secondo la pendenza, il deflusso delle acque e le altre condizioni locali.

Nelle regioni di bonifica e colonizzazione recenti, come per esempio le ex-paludi pontine o il Gebel cirenaico, spicca nel paesaggio la tipizzazione dei fabbricati agricoli, la quale più che per il loro aspetto colpisce per la loro distribuzione uniforme. Ciò è evidente anche nell’U.R.S.S., dove la diffusione dell’economia colcosiana, ha, dato origine a forme di insediamento analoghe da un estremo all’altro del territorio anche se in questo variano logicamente i materiali di costruzione e lo stile degli edifici.

E’ superfluo, infine, ricorda,re gli influssi della pianificazione sulla, localizzazione delle industrie (come nei “Kombinat” sovietici), sullo sviluppo dei centri abitati, sul sistema delle comunicazioni mediante la distinzione tra strade d’importanza nazionale, regionale, locale, e via di seguito.

Gli esempi testé ricordati sono comuni, come si è detto, sia, alla pianificazione parziale che a quella integra,le. A questa, invece, è peculiare la, suddivisione del territorio in un certo numero di aree, ciascuna delle quali è adibita ad una funzione diversa: industriale, agricola, residenziale, ecc. Si tratta in sostanza del principio dello “zoning” proprio all’urbanistica, nella differenziazione dei vari quartieri cittadini e da questa passato nel più vasto ambito regionale.

Benché, poi, la, pianificazione territoriale non abbia tra i suoi scopi, eminentemente economici, quello estetico o scientifico, possono essere comprese nella, sua azione anche le aree sottoposte a tutela paesistica, in quanto che appartengono al patrimonio turistico, nonché i parchi nazionali perchè s’ispirano a un criterio di conservazione economica.

A questo punto merita osservare che il paesaggio pianificato (sottoposto cioè ad una pianificazione integrale) non differisce affatto nel suo aspetto complessivo dal paesaggio più semplicemente antropogeografico, di cui esso stesso fa parte. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, infatti, la pianificazione porta solo raramente uniformità e geometricità di aspetti.

La vera peculiarità del paesaggio pianificato di fronte al paesaggio umano normale sta, come si è detto, nella più efficace localizzazione dei varii fatti umani e, conseguentemente, nella più netta individuazione delle diverse aree funzionali.

Ciò non significa tuttavia, che la pianificazione raggiunga, o intenda raggiungere ciò che si potrebbe definire la critstallizzazione del paesaggio.

Se è vero, infatti, che la pianificazione di certi elementi del paesaggio (come p.e. la conservazione del suolo) mira a stabilizzarne l’aspetto attuale, ciò non ostante il carattere utilitario della pianificazione stessa, fa sì che, mutandosi i bisogni ed i mezzi di sfruttamento da parte dell’uomo, possano modificarsi anche la funzione e l’aspetto del paesaggio. Sotto il punto di vista agrario, per esempio, solo i terreni ottimi e quelli cattivi hanno la probabilità di restare adibiti sempre alla stessa qualità di coltura, mentre quelli intermedi sono più facilmente soggetti a cambiamenti, dettati dalla ricerca della loro sistemazione migliore. Non possono essere ignorate, infine, le conseguenze che, anche in una regione già pianificata, può avere un mutamento della politica economica governativa, favorendo per esempio una coltura rispetto ad un’altra, come sta avvenendo in Svizzera, dove - a fini autarchici - si riduce l’area delle foraggere a favore di quella dei cereali.

Insomma, come il paesaggio antropogeografico in generale cosi quello pianificato è - per usare l’espressione del Sestini - una forma di equilibrio tra l’azione di forze diverse, non solo - però - tra quelle della natura da un lato e dell’uomo dall’altro, ma anche tra le diverse forze dell’economia, che la pianificazione cerca appunto di armonizzare reciprocamente.

Ciò, credo, può spiegare l’eco che il fenomeno suscita nella letteratura geografica in vista non tanto delle possibilità d’impiego pratico quanto dei motivi d’interesse scientifico, che esso offre al geografo.

BIBL1OGRAFIA SOMMARlA

H. GUTERSOHN : Harmonie in der Landschaft. Wesen und Ziel der Landesplanung, Eidg. Techn. Hochschule Zürich, Arbeiten aus dem Geogr. Institut, Nr. 4, Solothurn, 1946.

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G. ASTENGO, voce Piano di coordinamento territoriale, Enciclopedia Italiana, appendice II, :vol. I-Z, p. 544-45, Roma, 1949.

I. BOWMAN: Geographical interpretation, Geographical Review, 1949 (p. 356-70).

L. DUDLEY STAMP, The Land of Britain. Its use and misuse, London, 1948.

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A. SESTINI: Il paesaggio antropogeografico come forma d’equilibrio, Boll. Soc. Geogr. It., 1947.

Pianificare è una parola dalle molte definizioni; e anche coloro che sono coinvolti con le sue particolari applicazioni ai problemi della città e del territorio, all’interno del sistema posto in essere in Gran Bretagna nel 1947, non possono essere etichettati come membri di una professione interamente definita. Ci sono molte persone che, senza usare nessuna altra arte o scienza che non sia il buon senso, occupano un ruolo guida nelle questioni urbane e rurali, e contribuiscono tanto quanto qualunque specialista al miglioramento della vita in città e in campagna.

Ma, come dimostra questo manuale, c’è un ambito di studi che si va gradualmente definendo attraverso la pratica e l’esperienza, come il particolare campo di coloro che interpretano quelle che possiamo chiamare le “leggi urbanistiche”. Questo campo può non avere confini fissi, visto che è ancora in espansione; ma ha un centro riconosciuto e una funzione riconosciuta; e questa funzione è l’ordinata riunione – o pianificazione – di tutti i fili che determinano la forma e colore e caratteristiche del nostro ambiente fisico, in modo da creare uno schema o progetto che sia piacevole ed efficace, e corrisponda a quell’intimo senso di adeguatezza e comprensività che sono sempre state parte dello spirito progressista. La verifica di efficacia di questo complesso e civile processo di pianificazione, sarà uno schema risultante riconoscibile come miglioramento dello stato delle cose così come sarebbero esistite senza di esso. Le case e le fabbriche devono essere costruite per gli scopi primari di riparo e produzione; i trasporti devono esistere altrimenti gli scambi ne morirebbero; e le persone troveranno divertimento, in un modo o nell’altro, non importa quali parchi o edifici vengano loro forniti dall’iniziativa pubblica. Tutte le attività di cui la pianificazione urbana e territoriale si interessa continuerebbero comunque; la questione semplicemente rimane se esse siano rese più facili, lisce, migliori o più giuste a causa di essa. L’intero valore dell’urbanistica – distinta dalle esecuzione dei piani – dipende dalla conoscenza delle condizioni passate e presenti, dall’abilità creativa di progettare miglioramenti, e dalle risorse amministrative per avviarne l’attuazione. In termini urbanistici queste tre parti del processo sono chiamate Analisi, Piano, e Programma.

Essenzialmente, l’urbanista è chi sa come istruire un caso. Quello che l’avvocato ottiene tramite la giurisprudenza, lo scienziato attraverso la ricerca, e l’architetto disegnando progetti, l’urbanista lo deve ottenere usando tutti e tre i metodi in una volta. Questo non significa che lui, o lei, debbano essere ugualmente esperti in sociologia, ingegneria, progettazione del paesaggio, o diritto, ma che i risultati del lavoro di chi è formato alla ricerca in questi campi siano usati come obiettivi per chi è formato alla progettazione, e le conclusioni di entrambi presentate con i limiti imposti dall’economia e dalle leggi. L’urbanistica è pianificazione architettonica estesa nei campi del governo a scala regionale, è sociologia espressa in tre visibili dimensioni.

Anche se la frase è usata di sovente, non c’è, davvero, una cosa come lo “specialista in urbanistica”. Ci sono (fortunatamente per l’urbanista) specialisti in analisi dei suoli, in forniture idriche, in gestione edilizia, in microclimatologia, in ingegneria stradale, in progettazione fognaria, in finanza locale, e in molti altri elementi dell’urbanistica. Ma la pianificazione in se stessa è un processo di coordinamento, un’operazione combinata su molti fronti per volta. L’analogia fra urbanistica e strategia è molto stretta, eccetto il fatto che la seconda è più immediata in termini di tempo. La distinzione fra il gruppo di pianificazione e le unità esecutive è comunque simile in entrambi i casi.

Si dice spesso che l’urbanistica non è niente di nuovo, che architettura e agricoltura sono esistite da quando si ricorda l’inizio della civiltà, e che i sistemi geografici, di contabilità, di governo locale, sono quasi altrettanto vecchi. In un certo senso ciò è vero; e quindi vale la pena fin dal principio di distinguere quello che è nuovo, nella presente situazione, quello che per esempio richiede l’esistenza di un manuale come questo.

Le cose nuove sono sia particolari che generali. Quelle particolari, principalmente, sono avanzamenti tecnici. I principi rimangono costanti, ma la loro applicazione a particolari problemi varia notevolmente; è ciò è stato particolarmente vero negli ultimi cento anni. La congestiona da traffico, per esempio, era un problema nell’antica Roma e anche nella Londra elisabettiana, ma una soluzione contemporanea deve mettere nel conto le velocità di spostamento sulle strade, rapide e pericolose come quelle di una ferrovia, e la risposta data dall’urbanista oggi, deve essere in termini molto diversi da quelle proposte nel passato. La difesa è un’altra richiesta che ha modellato la forma delle nostre città e dei nostri edifici, ma in modo molto meno diretto e ovvio che nei giorni delle sommità di collina fortificate e dei castelli con fossato. Gli aeroplani, le strutture in acciaio, la refrigerazione, la distribuzione di energia elettrica, le ferrovie sotterranee, la radio e la fissione nucleare, tutte tendono a cambiare l’aspetto fisico della nostra vita quotidiana; mentre alcuni elementi fondamentali, come la luce del sole e l’aria pura, la conformità e comodità fisica, l’armonia, i contrasti, proporzioni e linee, la natura del terreno e della vegetazione, il fatto che l’occhio umano adulto è normalmente a sessantatre pollici (m. 1,60) sopra il livello del terreno e può vedere il una sola direzione per volta – tutte queste sono costanti, e immutate.

La situazione generale, comunque, è molto alterata, particolarmente in Gran Bretagna e negli altri paesi dove è operativo un sistema generale di controllo urbanistico e edilizio. Nel passato, la costruzione della città ha raramente tentato di andare oltre ciò che era immediatamente vantaggioso o ciò che veniva ordinato. Lo stesso valeva in larga misura per la campagna. Gli edifici erano raccolti insieme per rifugio e difesa, alcuni si elevavano in palazzi o erano consacrati templi. La agorà greca o luogo di incontro raccoglieva attorno a sé in un lungo termine di anni gli edifici e monumenti che contribuivano alla memoria della sua vita dalle molteplici facce. Gli accampamenti romani o municipia erano organizzati secondo ordinati gruppi di edifici, qualche volta ornati magnificamente, spesso dimostravano immaginazione e abilità nella progettazione di un sito. Le abbazie medievali e i giardini rinascimentali contribuirono all’arte del progetto urbano; e i principi della chiesa così come gli aristocratici terrieri crearono “tenute”che ci hanno lasciato molto da ammirare, e molto da adattare ai nostri scopi moderni.

Nondimeno, dalla metà del secolo scorso, la popolazione del mondo conosciuto è più che raddoppiata, e ora cresce ad un tasso di circa l’1% annuo; la dimensione delle grandi città in Europa e negli Stati Uniti è aumentata oltre ogni proporzione rispetto ai loro precedenti ritmi di crescita; si sino sviluppati nuovi sistemi sociali; economie pianificate a livello nazionale hanno spianato la strada ad altre operazioni pianificate. Una di queste nuove operazioni è stata il controllo nell’uso del suolo, con tutto ciò che implica in termini di necessarie restrizioni nella libertà dei singoli di fare esattamente ciò che vogliono del loro terreno, degli alberi, degli edifici. Quello che rende la nostra nuova urbanistica diversa dalla vecchia non è solo il cambiamento di scala, dal patrocinio di pochi al servizio di milioni di lavoratori, ma anche il fatto che stiamo facendo un consapevole e concertato sforzo di controllare il nostro ambiente. Siamo, di fatto sottoposti ad una volontaria, autoimposta disciplina. La critica secondo la quale questa forma di controllo non ha ancora prodotto una più grandiosa architettura civica, né conseguito una più bilanciata distribuzione di popolazione industriale nella campagna, può essere esatta, ma è anche ingiusta. Perché stiamo tentando, con questo nuovo metodo, qualcosa di molto più difficile della pianificazione sotto un potere assoluto, o dentro i confini di terreni circoscritti, o attraverso un’economia schiavista. E per renderla un successo, anche parziale, è necessaria un considerevole grado di organizzazione e lavoro cooperativo. I paragrafi che seguono delineano un cento numero di argomenti dei quali il pianificatore deve essere consapevole prima di formulare dei giudizi o fare proposte concrete. Egli deve conoscere le possibilità e i limiti di ognuno di essi, e riconoscere lo stadio al quale sono necessari i consigli degli esperti. Anche se è egli stesso esperto in uno dei campi, non può sperare di controllarli tutti, eccetto nei casi più semplici. Il valore della formazione preliminare in quelle che le Università chiamano facoltà, di arte, scienza, ingegneria, economia o diritto, consiste nell’apprendimento di un metodo, e nell’abilità di capire rapidamente i vari tipi di processi, nell’analisi e nel progetto.

Analisi: Economica, Sociale e Geografica

Probabilmente, l’approccio più fondamentale ai problemi dell’urbanistica è quello del geografo; e il primo ambito di analisi che deve essere investigato è abitualmente il terreno: cosa c’è su di esso, e sotto di esso, che movimenti di persone hanno avuto luogo in esso. La geografia e geologia fisica sono gli studi di base, dato che le geologie degli stati solidi e alluvionali introducono a molto altro, come le caratteristiche dei suoli, i rilievi, la disponibilità di acque, materiali da costruzione e minerali da estrazione, ecologia, paesaggio, idrologia.

Un altro soggetto geografico è il clima, che include elementi di interesse per il pianificatore come le precipitazioni piovose, la nebbia, il soleggiamento, temperature e umidità, le più ampie variazioni regionali e le piccole locali, e i loro effetti sulle coltivazioni e gli allevamenti.

Le branche della geografia umana ed economica si avvicinano ancora di più ai problemi quotidiani dell’urbanistica. Per primo lo studio delle risorse naturali, la storia delle loro applicazioni all’industria e alla produzione, la distribuzione attuale dei centri di estrazione, trasformazione e scambio; e quindi lo studio della crescita e distribuzione della popolazione, sia sull’intera nazione, che regionalmente, o in una particolare località. Una conoscenza delle ragioni dell’insediamento umano in differenti tempi e luoghi, i fattori che hanno portato a mutamenti demografici – in particolare tra città e campagna – e i modi in cui si sono sviluppate le comunicazioni e diffusi i servizi, è ovviamente di primaria importanza nella pianificazione di una città nuova, o nella grande espansione di una vecchia.

Due altre estensioni degli studi geografici sono di grande valore per l’urbanista, una nell’ambito economico, l’altra nel campo del governo. La prima interessa le scienze dell’uso del suolo, che in effetti determina le migliori utilizzazioni economiche alle quali, nelle circostanze presenti, può essere dedicato il terreno. La difficile decisione che si pone una nazione industrializzata, se per esempio una particolare parte di territorio moderatamente piana e ben drenata dovrebbe essere usata per una fabbrica o per un insediamento residenziale o per l’agricoltura, può essere presa più obiettivamente alla luce di questa branca di conoscenze, meglio che di qualunque altra. Un tempo la proprietà e le intenzioni del proprietario sarebbero stati il fattore decisivo; ma l’elemento più significativo del nuovo sistema di pianificazione in Gran Bretagna è la distinzione fra uso del suolo e proprietà del suolo, e la quasi universale necessità di un permesso urbanistico per un cambio di uso. L’altra faccia dello studio scientifico e tecnico del terreno, è il contributo del geografo alla delimitazione di aree amministrative e di servizi. Questo è essenziale per una vera comprensione del sistema di governo centrale e locale. Ogni funzionario urbanistico lavora entro un’area definita; può riconoscere molto presto che la sua area amministrativa non corrisponde a una regione geografica, o anche a una completa comunità urbana. Egli deve comprendere, quindi, sia la storia che la geografia dei confini di governo locale, e di quelli creati da aree di fornitura dei vari servizi tecnologici e sociali.

Un altro importante campo di studi che non è stato ancora pienamente inquadrato dall’urbanista, è quello della sociologia. È spiegato nel quarto capitolo di questo manuale, come certi fatti sociali possano essere usati come basi certe della pianificazione, e non lasciati all’intuizione ispirata – o poco ispirata – del funzionario urbanista. È vero, naturalmente, che nel campo delle relazioni umane il grado di elaborazione delle tecniche impiegate deve essere proporzionato al tipo di lavoro. I ricercatori sociali formati sono rari, e si può non potersi permettere statistici e demografi, una squadra di ricercatori sul campo, ed esperti di economia, antropologia sociale, assistenza pubblica, solo per analizzare un villaggio o un distretto rurale stabile, dove ragionevolmente non si prevedono cambiamenti o sviluppi per un tempo considerevole. Ma l’urbanista, prima di poter rispondere a questa domanda, deve almeno poter sapere in termini generali quali tecniche usano i sociologi, e quali informazioni sono in grado di fornire come base di lavoro per la formazione di un piano. Per valutare i cambiamenti di popolazione in un certo periodo di tempo, per capire i bisogni economici e sociali (e quindi territoriali) dei singoli, delle famiglie e dei gruppi di attività, per imparare a risparmiare tempo arrivando dritti agli elementi essenziali di una analisi di piano, evitando un cumulo di questioni irrilevanti, pregiudizi e sensazioni che non hanno peso nel caso specifico, l’urbanista deve essere costantemente consapevole di cosa sta avvenendo nel campo degli studi sociali. In due modi, in particolare, deve mantenersi in contatto. Primo, seguendo i risultati di indagini campione, analisi di piano e studi sociali condotti con l’esplicito scopo di stabilire fatti e standards da utilizzare nel piano, o meglio ancora, che mirano a perfezionare metodi di accertamento dei fatti in casi simili, se possibile con meno dispendio di risorse umane e costi.

Il secondo modo, è quello di consultare un esperto economista o analista degli aspetti di analisi essenziali per scopi di piano, e che non possono essere affrontati con successo dal personale dell’ufficio urbanistico. Per fare questo è ovviamente necessario formulare molto chiaramente le questioni a cui si richiedono risposte. Esse possono riguardare la dimensione e distribuzione delle istituzioni sociali, la composizione delle famiglie e delle abitazioni, redditi e spese, occupazione, spostamenti per lavoro, abitudini di acquisto. Qualunque sia l’argomento, il sociologo restituirà, in aggiunta ai dati, una buona quantità di informazioni sui gradi di mutamento, e sulle relazioni fra un gruppi di statistiche sociali e l’altro; in altre parole, si inizierà a tracciare uno schema. Deve essere ricordato che questo è uno schema esistente, creato dalla storia e dall’esperienza passata. Per poter sviluppare tendenze per il futuro e fare previsioni per esse nel piano, non basta semplicemente scrutare mappe, tabelle statistiche e rapporti; essi devono essere spiegati e interpretati dagli stessi sociologi. Sia nelle grandi analisi che in quelle piccole, dunque, è indispensabile all’urbanista una conoscenza generale dei metodi e degli obiettivi degli studi sociali.

L’importanza per il pianificatore di quella che può essere chiamata in senso lato la scienza delle analisi tecniche, è qualcosa di leggermente diverso. C’è la stessa necessità per una conoscenza delle possibilità e limitazioni del soggetto; altrimenti l’urbanista è alla mercé degli specialisti, e può non sapere come valutare e usare le informazioni che essi gli danno: men che meno i relativi spunti che ne derivano. Ma è molto difficile per lo studente di oggi imparare con profitto più di una di tali e tanto avanzate scienze, come la matematica e statistica, l’analisi catastale e fotogrammetrica, la chimica dei suoli, la genetica dei vegetali, o le discipline strutturali edilizie e di ingegneria.

C’è comunque una grande valore formativo nell’acquisire un approccio scientifico, e qualche conoscenza di metodologia scientifica, attraverso lo studio di un particolare soggetto entro il campo di interesse. Quale, può dipendere sia dall’occasione che dall’inclinazione. Quello che è certo, è che il pianificatore urbano e territoriale sarà più rispettato se sarà sia maestro in una disciplina, sia familiarizzato con molte.

L’importanzadel progetto

C’è una linea molto sottile, fra l’analisi e il piano, o detto in altre parole fra l’assemblaggio e tabulazione dei dati, l’emergere di conclusioni basate su di essi, e la stesura di linee guida per lo sviluppo futuro. Ci sono alcuni tipi di analisi che convincono, insieme, l’opinione tecnica e quella corrente, sulla necessità di intraprendere una certa linea di azione – o nessuna azione – oppure che debba essere compiuto un radicale mutamento di politiche. Più comunemente le analisi sociali, economiche, geografiche o di uso del suolo servono a introdurne un’altra: l’analisi architettonica o ingegneristica, che è lo stato formativo iniziale nella costruzione del progetto. La parola “piano” a questo stadio è portatrice di un significato leggermente diverso; sta per specificazione di un lavoro da sviluppare per realizzare una organizzazione planimetrica, un gruppo di edifici, un progetto di ingegneria civile o un brano di architettura del paesaggio. Questo processo è chiamato talvolta pianificazione “creativa”, talvolta pianificazione “pratica”, come se le altre parti dell’operazione non fossero creative, o solo teoriche. Quello che significa, in realtà, è che si richiede un altro ambito di capacità, incluso il giudizio estetico e quella di risolvere numerosi problemi spaziali, artistici e strutturali, attraverso il progetto. Qualcosa di nuovo, a tre dimensioni, deve essere sviluppato, e porterà con sé l’impronta della personalità del progettista nel caso di un singolo, o l’obiettivo comune nel caso di un gruppo.

Il progetto può essere per una strada o un sistema stradale, un singolo edificio o una composizione urbana, un ponte o un quartiere residenziale, un vicinato, un parco, una città nuova. I risultati sono visibili, e conseguentemente soggetto di critiche estetiche, sia che fossero previste o no. A una estremità della graduatoria ci sono strutture utilitarie come le reti fognarie, le stazioni di autobus, l’arredo stradale; all’altra le principali opere di architettura e progettazione del paesaggio.

In questo campo lo studente che non ha preventiva formazione tecnica ha bisogno di due simultanei metodi di approccio; il primo è una conoscenza generale dei fatti tecnici in sé e delle relative fonti di informazione che li riguardano. Bisogna sapere come determinare, per esempio, la capacità dei servizi, i bisogni del traffico, il volume e rapporto di copertura degli edifici, e i tipi di alberature più adatti per particolari suoli e situazioni.

Il secondo è la valutazione degli elementi invarianti del progetto: scala, proporzioni, armonie e contrasti, sagome, colori, bellezza di linee e contorni, e non ultima la qualità quasi indefinibile dell’unitarietà, che consiste nella relazione tra le parti e il tutto.

Il processo di progettazione deve essere sperimentato. Anche coloro da cui non ci si aspetta un ruolo attivo nel progetto all’interno di un piano devono essere in grado di valutare i contributi di chi lo fa. Leggere e ascoltare conferenze in questo caso rappresenta solo la semplice introduzione; il passo successivo è la valutazione critica di edifici, planimetrie e progetti di paesaggi attraverso l’osservazione personale, e talvolta il vero e proprio rilievo. Il taccuino dell’urbanista diventerà alla fine il suo più utile libro di consultazione; in particolare se contiene, in aggiunta a dati, bibliografie, note, il tipo di diagrammi e schizzi planimetrici e fotografie (con le dimensioni essenziali e statistiche allegate) che richiamano il reale significato dell’opera. Il tipo di riferimento più utile all’urbanista in quanto progettista, sono cose come i gruppi di case di vari tipi e dimensioni, incroci stradali in scala, diagrammi schematici delle planimetri di fabbriche e aziende agricole, esempi di piantumazioni arboree interessanti, arredi stradali e sistemazione dei servizi in una via, progetti di ponti e infrastrutture, sezioni di piazze e spazi aperti, sistemazione di monumenti, e molti altri elementi la cui funzione e aspetto sono stati pensati come insieme nel progetto originale.

Negli aspetti tecnici, intesi come opposti a quelli sociali o economici, dell’industria e produzione energetica, il ruolo dell’urbanista è spesso quello di intelligente ascoltatore. Anche questo richiede preparazione. Un funzionario urbanista che convince la sua Amministrazione a rifiutare o modificare lo sviluppo di un’applicazione industriale, sta prendendo una decisione economica e non può sfuggire completamente alla responsabilità del successo o fallimento economico del progetto, per quanto dipende da quella decisione. Per questo motivo la conoscenza generale delle risorse minerali e manifatturiere, che è parte degli aspetti economici e geografici della su formazione, deve essere integrata da ulteriori conoscenze generali sulle lavorazioni, sui problemi nello smaltimento dei rifiuti, le forniture d’acqua, i trasporti, l’energia, la manodopera nelle principali industrie e attività. L’elemento di progetto qui di solito è fornito da specialisti; il ruolo dell’urbanista ascoltatore può diventare più attivo solo quando ha colto i possibili effetti degli sviluppi proposti riguardo ad altri luoghi e popolazioni, ed è in una posizione tale da poter dire se la proposta è accettabile o no nel contesto. Se non lo è, egli deve essere in grado di suggerire ragionevoli varianti o siti alternativi, che non siano impossibili dal punto di vista dell’impresa.

I grandi servizi pubblici, i lavori minerari, e la localizzazione industriale, sono quindi tre soggetti nei quali l’urbanista deve essere in grado di trovare un proprio ruolo.

Un Programma per il Piano

Infine, c’è lo studio dell’autorità e delle procedure attraverso le quali l’urbanista agisce. Questa è la regione del diritto, del governo, dell’amministrazione, della economia politica, della finanza, dell’organizzazione. Ci sono, naturalmente, professioni e specializzazioni interamente dedicate a uno o più di questi aspetti della vita di una società civile. Ancora una volta, dunque, l’urbanista ha principalmente bisogno di afferrare limitazioni e possibilità, insieme ad una conoscenza più dettagliata delle particolari branche del diritto e dell’amministrazione che interessano direttamente la sua materia. Queste branche sono, in primo luogo la legislazione urbanistica stessa, incluse le leggi sulle New Towns e altri regolamenti correlati; in secondo luogo, le leggi e regole edilizie che governano la costruzione della città, e la legge sull’Agricoltura e altri provvedimenti che hanno un diretto effetto sullo sviluppo rurale.

È nel campo amministrativo, che l’urbanista più facilmente si perde in questioni fuori del suo controllo; ed è in questo campo, anche, che un manuale generalista può dare le informazioni meno esatte. Ci sono molti libri dedicati a commenti e analisi del corpo di leggi, e non pochi sulle teorie economiche e politiche, o su vari aspetti dell’organizzazione. Ma l’urbanista necessariamente si avvicina a questi problemi con un altro retroterra e da una direzione piuttosto diversa da quella dell’avvocato, del politico o dell’economista. Il suo obiettivo non è solo di analizzare, ma di preparare. Egli deve convincere le persone ad accettare un progetto o una campagna prima che venga messa in atto; e conseguentemente si cura di mantenere le condizioni più soddisfacenti per la sua esecuzione. Quindi deve conoscere profondamente i suoi poteri e quelli della sua Amministrazione, ed essere consapevole del generale funzionamento del governo nazionale e locale attraverso i quali questi poteri sono esercitati. Se tutte le consulenze all’urbanista in materia legale ed economica dovessero essere condensate in una sola frase, suonerebbe più o meno così: non fare nessun piano che dipenda da sviluppi che non puoi né avviare né controllare.

La pianificazione della città e del territorio è, come dice il suo nome, essenzialmente una attività “locale”; e il suo esercizio ufficiale è in larga parte una funzione del governo locale. In Inghilterra e Galles, le autorità di piano sono le contee e county boroughs; ma c’è una storia di pianificazione da parte di altre agenzie, con cui ogni funzionario e consulente deve avere familiarità. Essi devono anche avere familiarità con la struttura esistente del governo centrale e locale, e della magistratura. Uno dei principali aspetti di responsabilità è quello finanziario. Ora si dice spesso che l’urbanistica in sé non è una operazione costosa. Nondimeno gli sviluppi che anticipa, crea o controlla sono una voce molto considerevole nei bilanci nazionali e locali di spesa iniziale e manutenzione. Se un particolare progetto propone l’esproprio di terreni su larga scala, seguito da urbanizzazioni che devono essere pagate con le tasse, l’urbanista deve conoscere i limiti ai suoi poteri, la capacità di spesa della sua Amministrazione, e la quota di aiuto che il suo progetto può ottenere dal Tesoro, attraverso un ceto numero di Ministeri. In modo simile, se un progetto presuppone sviluppi secondo linee concordate con i proprietari dei terreni, gli industriali, iniziative commerciali e di servizio, e l’impresa privata in generale, allora non dovrà essere sbilanciato sul versante della domanda e dell’offerta, in altre parole con il mercato.

La legge urbanistica del 1947, tentando di rimuovere gli effetti inibitori della difficoltà a pagare risarcimenti per restrizioni nell’uso del suolo, su quanto può essere chiamato “pianificazione di comunità”, ha teso a rimuovere il libero mercato dal bene più importante: la terra. La valutazione, da sempre questione per esperti, concerne ora non solo il mercato, ma anche i “valori di comunità”; ed è troppo presto per giudicare gli effetti sul clima finanziario dell’urbanistica in Gran Bretagna del mutamento radicale avvenuto con l’avvento del Central Land Board. Quello che è importante, comunque, per gli studiosi dell’argomento, è conoscere il ruolo giocato dal valutatore, dal legale, dal manager, nell’approvare o respingere un piano, e successivamente nell’orientarlo verso un coerente processo amministrativo.

È a questo stadio che l’urbanista che è solo progettista si scoraggia di più. I rinvii nell’acquisizione o messa a disposizione dei terreni sono inevitabili vista la lunga storia di gestione fondiaria in questo paese. Anche quando un piano è stato reso pubblico, le obiezioni in campo sociale ed economico devono essere ascoltate; devono essere convinti molti Ministeri, che le proposte sono non soltanto adeguate, ma convenienti alla politica amministrativa dei loro dipartimenti; ci si riferisce ai tribunali nei casi di discriminazione o scorretta interpretazione; e le questioni parlamentari, più facili da porre che da risolvere, sono portate davanti alla Camera dei Comuni. L’approvazione a quello che può sembrare per il sociologo o l’architetto un’ovvia e semplice linea di azione, può quindi impiegare molto tempo ad arrivare, e l’urbanista che non capisce come funziona il processo democratico, può facilmente gettare la spugna prima che la battaglia sia vinta.

Una consolazione resta, allo studente, nel suo tentativo di misurarsi con tutto questo; ed è che solo la pratica, l’esperienza e la ricerca forniscono il manuale per questi ultimi stadi delle operazioni di piano, e tutti gli urbanisti – studenti, professionisti, funzionari centrali e locali nello stesso modo – stanno ancora sperimentando, stanno ancora costruendosi la strada verso un metodo realistico di realizzare in dettaglio il programma attuativo di un Piano Regolatore. Non solo nel paese, ma anche nei Dominions e nelle Colonie, si stanno testando sistemi di pianificazione. Nessuno di essi ha molte speranze di successo a meno che uomini e donne con ampie prospettive culturali e un forte senso sociale, si facciano carico di padroneggiare non solo la massa di conoscenze generali, ma anche gli intricati dettagli dell’amministrazione urbanistica, e questo solo darà loro il diritto di dire a tutti noi in quale tipo di ambiente noi e i nostri discendenti possiamo sperare di vivere.

Questo saggio tratta la storia e le moderne tendenze dell’urbanistica.

Storia

L’urbanistica è probabilmente vecchia tanto quanto la civiltà. Nel momento in cui l’uomo iniziò a costruire insediamenti permanenti, sorsero problemi che richiedevano di pensare ai futuri usi del suolo, e di stabilire garanzie per quegli usi. L’accesso comune e senza ostacoli alle fonti d’acqua fu con ogni probabilità il primo e più importante di questi bisogni. La sorgente non era di proprietà di nessun individuo, ma della comunità, e i sentieri e strade che vi conducevano erano nello stesso modo proprietà comune. Alcuni appezzamenti di terreno divennero proprietà di individui, i cui diritti sul suolo richiesero descrizione e definizione. Riconciliare i due tipi di uso, pubblico o privato, formò le basi primitive dell’urbanistica. Il fatto fisico e lo stato legale crebbero insieme.

La crescente complessità degli insediamenti permanenti fa emergere il fatto che certe decisioni, ovvero decisioni urbanistiche, devono essere state prese in ogni città mai esistita. Il grado di sviluppo a cui l’urbanistica era portata variava, e senza dubbio dipendeva in gran parte dal gradi di organizzazione nella civiltà che la produceva. Certe città molto antiche mostrano un alto livello di pianificazione, mentre altre evidenziano solo rudimentali schemi stradali.

L’accumulazione di ricchezza nelle città rese la difesa contro gli attacchi delle bande di predatori un’altro motivo di pianificazione; a ben vedere la protezione offerta dalle città fu una delle ragioni della loro crescita. Man mano le nazioni crescevano in potenza, e le guerre diventavano meglio organizzate e pianificate, aumentava l’importanza dell’urbanistica difensiva. La maggior parte delle città, oltre ad essere fonte di bottino, erano anche collocate strategicamente rispetto alle vie naturali di commercio. Esse erano cresciute naturalmente in quei punti, perché gli scambi erano la loro funzione primaria. Parlando in termini generali, si svilupparono due tipi di città. Una era la città in cima alla collina, il cui potere difensivo era concentrato nella compatta cittadella a picco su una rupe, con la città vera e propria protetta solo parzialmente. L’altro tipo era la città nella pianura, abitualmente circondata da mura. L’organizzazione urbanistica era orientata, nel primo caso, a permettere agli abitanti di rifugiarsi rapidamente nella cittadella; nel secondo, era mirata a far loro raggiungere i posti di combattimento sulle mura.

Dunque l’accessibilità dei suoli per usi e funzioni pubbliche, la definizione degli usi privati dei terreni, e la difesa di entrambi, furono i problemi chiave da cui ebbe inizio l’urbanistica. All’epoca in cui ebbero sviluppo le grandi città classiche, era apparso un altro elemento di grande importanza: l’orgoglio civico. I governanti delle antiche città volevano lasciare dietro di sé monumenti al proprio potere e beneficenza. Né le grandi città governate da aristocratici, o oligarchi, o democratici, avevano niente da invidiare a quelle controllate da re o tiranni, per quanto riguardava l’attenzione ai programmi edilizi di bellezza o utilità. Sorsero grandi edifici e opere d’arte, che richiedevano splendide sistemazioni: piazze e fori per gli incontri pubblici e le sfilate della potenza militare; templi, palazzi, colonnati e basiliche. L’urbanistica era architettura, e l’architettura era urbanistica. Quanto strettamente correlate fossero queste due arti, appare chiaro nei resti dell’Acropoli di Atene, nelle rovine di Persepoli, a Roma, e in quanto rimane di ogni città antica in ogni parte del mondo.

L’idea della città pianificata fu diffusa in Europa dalle legioni romane, i cui campi erano costruiti secondo quadrati, in una logica militare che deve essere stata molto simile a quella con cui sono costruiti i moderni campi dell’esercito: abbattimento di tutti gli alberi e disposizione di tutte le strutture in regolare allineamento, con ampie strade per la concentrazione delle truppe.

Questo impianto romano sta alla base di molte città continentali e britanniche, sebbene nella maggior parte dei casi l’originaria regolarità sia andata persa nella confusione medievale di vie strette e case densamente affollate. Lo schema medievale era piuttosto diverso da quello romano, perché diverso era il metodo di guerra. Le legioni romane altamente organizzate scomparvero dopo la caduta di Roma, e la guerra su vasta scala diretta da un centro non riapparve fino ai tempi del primo Rinascimento. Le città del Medio Evo erano molto piccole, molto compatte, poco più che grumi di case attorno alla base di una fortezza. Anche le grandi città, come Parigi o Londra, erano di estensione limitata, e il terreno all’interno delle mura era utilizzato fino all’ultimo piede quadro. Nondimeno, anche la città medievale era pianificata nei suoi elementi principali. Il principio dell’accessibilità per la difesa era ancora di gran lunga il più importante, ma non si dimenticava quello dell’uso pubblico degli spazi. Gli aspetti visivi della chiesa o della cattedrale erano le principali preoccupazioni estetiche.

La transizione alla città del Rinascimento, con la sua ariosità, l’enfasi sull’aspetto terreno dell’esistenza, è naturalmente parallela ai cambiamenti sociali, mercantili e di governo. Aumentava la ricchezza, aumentava la sicurezza personale, mentre i governi diventavano più forti e centralizzati. Più importante forse di tutto, le nuove scoperte nel campo della matematica, della fisica e della chimica portarono in uso nuovi metodi nella guerra, di cui la polvere da sparo e il cannone divennero le nuovi armi di attacco, micidiali prodotti di un grande e duraturo mutamento tecnologico. Le conseguenze per la città furono l’abbassamento delle mura, visto che l’alta parete di mattoni, così efficace contro archi e frecce, così come contro gli attacchi corpo a corpo, era priva di senso contro il cannone e il fucile. Fu escogitato un nuovo tipo di fortificazione, e con essa un nuovo tipo di città, che rispondeva al bisogno di mobilitazione di truppe su vasta scala: ampi viali, grandi piazze. Visto che i governanti volevano ancora commemorare se stessi, furono disegnati edifici pubblici e palazzi alla scala dei grandi, ampi viale. Furono costruite città interamente nuove, completamente pianificate, funzionali e autosufficienti, molte di esse magnifiche nella concezione e nella realizzazione. Alcune, è interessante notare, erano operazioni speculative da parte dei principi: case e attività dentro ad esse erano offerte in vendita in termini tanto enfatici e ingannevoli quanto quelli delle lottizzazioni moderne.

Il XVII e XVIII secolo sono il punto più alto dell’urbanistica europea, fino al primo XX secolo, sia in qualità che in quantità. Da qui vengono gli eccellenti piani spagnoli per Città del Messico, Lima, Città del Guatemala, Antigua, e molte altre città dell’America Latina; e attraverso altri canali i bei piani di molte città coloniali del nord e di alcuni occasionali casi di eccellenza nel sud come Savannah, Augusta e Williamsburgh.

Con l’inizio del XIX secolo l’intero retroterra tecnologico delle città è cambiato dalla Rivoluzione Industriale. Le città pre-industriali erano il prodotto di civiltà dove, anche se ricchezze e benessere non erano disdegnati, veniva conferita grande importanza alla vita oltre gli aspetti strettamente materiali. Le città riflettevano ciò in una varietà di modi: nell’offrire amenità alla vita quotidiana, nell’alta considerazione dei valori estetici, nelle relazioni dell’impianto urbano con il paesaggio rurale. Molto di questo era inconsapevole; era una fedele immagine dello spirito dei tempi. La città industriale era tutt’altro che un’immagine. La crescita nell’uso del denaro, da mezzo di scambio nei primi stadi di sviluppo dei commerci internazionali al completo dominio della mente e dello spirito dell’uomo occidentale a metà del XIX secolo, è parallela alla degenerazione delle città, e a una deliberata degradazione dell’idea urbana, delle risorse naturali, degradazione del contadino e dell’artigiano ad abitatore di slum. Fumo, vapore e slums furono i doni della Rivoluzione Industriale alle città.

In generale l’urbanistica delle prime città americane era stata eccellente. Le colonie settentrionali seguivano la tradizione di basare l’economia delle proprie città sull’uso del suolo. Le abitazioni erano raccolte attorno a terreni comuni, le fattorie erano adiacenti. Una volta terminata la colonizzazione, non c’era bisogno di mura, e le città crebbero spaziose. Quando una comunità diventava troppo grande per adeguate comunicazioni interne, venivano fondate nuove città. La tradizione meridionale era leggermente diversa, dato che derivava non da un retroterra democratico, puritano, agricolo, ma da tradizioni aristocratiche e liberali su cui si era innestata la schiavitù. La differenza fra Litchfield, Connecticut, e Williamsburg, Virginia, per esempio, illustra tutto questo. Comunque, l’influenza delle tradizioni meridionali fu limitata, mentre quelle settentrionali si diffusero attraverso la Western Reserve e i territori adiacenti.

Una terza influenza divenne importante dopo che la città di Washington fu progettata dal Maggiore Pierre l’Enfant. Qui si trattava di tradizione del tardo Rinascimento, basata sull’efficace collocamento di edifici pubblici, e la connessione di punti focali attraverso ampie arterie radiali. Buffalo e Detroit mostrano tracce di questa influenza.

Quando gli Stati Uniti iniziarono effettivamente ad espandersi, e la marcia verso l’ovest dell’industria cominciò a seguire le ferrovie attraverso i territori selvaggi, furono pianificate a centinaia nuove città. Erano disegnate da geometri e deliberatamente pianificate per una espansione speculativa. Lo schema a griglia delle strade si prestava facilmente a questo scopo. In primo luogo, è rapido e facile da mappare, dato che è tutto linee diritte e angoli retti, e questo fatto della velocità non è di poco conto. C’erano pochi geometri e molto lavoro da fare. In secondo luogo, questo forniva il metodo più semplice di descrizione del lotto per la vendita e registrazione. Terzo, provvedeva un sistema di strade indifferenziato, un vantaggio perché nessuno sapeva per cosa il terreno potesse essere utilizzato – residenza, affari, industria. Per almeno 50 anni questa tradizione da geometri fu la dominante nell’urbanistica delle città americane. Questi furono gli anni dell’espansione. Non solo il numero delle città aumentava, ma le città più vecchie raddoppiavano e triplicavano la popolazione da un censimento all’altro. Le città gonfiate divennero soffocate dagli slums, costruiti per alloggiare i lavoratori immigrati, e alcune di esse, in particolare New York e Chicago, si trasformarono in tali luoghi di malattia, crimine e miseria umana, da suscitare sforzi di riforma. Fu questo rivoltarsi contro lo slum, che portò la questione delle abitazioni e gli aspetti sociali dentro la moderna urbanistica.

Un’influenza più diretta, per l’urbanistica, fu l’effetto cumulativo delle visite in Europa dei ricchi e influenti industriali, e insieme del “bossismo” politico. I “bosses” dovevano avere i lavori pubblici da poter utilizzare come fonte ideale di guadagno illecito. Molti dei nostri più bei parchi e edifici pubblici si devono ai personaggi più squalificati. Come Giulio Cesare, essi miravano a blandire il pubblico con il dono di parchi e luoghi di pubblico divertimento. Gli industriali, di ritorno dalla Parigi di Haussmann, da Vienna, da Roma, avvertivano l’insufficienza dello schema a griglia e dei monumenti di ghisa, come espressione di una grande e prospera nazione. Nel 1893 la White City a Chicago mostrò al popolo degli Stati Uniti cosa poteva essere fatto. Il movimento “City Beautiful” iniziò il suo cammino. Questo movimento durò fino ai primi anni del XX secolo. L’enfasi era sull’aspetto esteriore delle città, i centri civici, i viali, le piazze, i gruppi di strutture importanti, la localizzazione dei monumenti. L’ispirazione variava, dal “grand plan” di influenza francese al villaggio di cottages dell’Inghilterra. Si ignorava completamente l’aspetto economico dell’urbanistica, e non c’era consapevolezza delle implicazioni sociali. Nondimeno, si sollevò l’interesse di un grande numero di persone preparando così la strada per l’urbanistica più incisiva che doveva venire.

Negli anni ’90 si verificarono importanti sviluppi all’estero, che in seguito dovevano esercitare una forte influenza sulla teoria e la pratica americane. Camillo Sitte pubblicò il suo libro L’Arte di costruire le Città, e Sir Ebenezer Howard pubblicò To-morrow, a Peaceful Path to Real Reform (più tardi reintitolato La Città Giardino del futuro). Il libro di Sitte qui ebbe effetto solo indiretto. Fu tradotto dall’italiano in francese e circolava normalmente in Inghilterra, ma fino al 1945 non fu tradotto in inglese e fatto circolare negli Stati Uniti. Fu attraverso la pratica europea e inglese che le sue teorie vennero diffuse. Howard ebbe successo non solo in teoria: due “città giardino”, Letchworth e Welwyn, furono costruite secondo le linee suggerite dal suo libro. Entrambi i libri, con diversa intensità, enfatizzano il fatto che l’urbanistica deve essere per la vita, e le considerazioni economiche e sociali sono di primaria importanza. Sul benessere del cittadino e della sua famiglia, poggia tutto il resto: il suo benessere dipende dalla sua capacità di guadagnarsi da vivere e di mantenere la sua famiglia in un ambiente sano e decoroso; questo è il tema di Howard. Sitte sviluppa l’organizzazione della città medievale in quanto organismo sociale-fisico; la sua unità estetica deriva direttamente dalla vita delle persone.

Il primo decennio del XX secolo vede l’inizio dell’urbanistica moderna. Come ha notato il professor Frederick J. Adams, il 1909 è un anno chiave. Fu in quell’anno che si approvò il primo Housing and Town Planning Act britannico; fu in quell’anno che il Commercial Club di Chicago pubblicò il grande piano di Burnham; e fu in quell’anno che si tenne la prima conferenza nazionale sull’Urbanistica a Washington, D.C., alla quale i partecipanti posero forte enfasi sul bisogno di studi economici in urbanistica, e sull’importanza di un approccio comprensivo e coordinato ai problemi urbani.

Nel 1916 il sovraffollamento dei terreni nel centro di New York raggiunse proporzioni così gravi da far approvare la prima legge sullo zoning che regolava l’altezza, il rapporto di copertura, l’uso dei suoli. Il piccolo colpo finale, che spezzò la schiena agli interessi immobiliari, fu l’Equitable Building, la cui dimensione e mole erano un’evidente minaccia per tutti gli edifici nella parte sud di Manhattan, e per l’uso fisico delle strade e dei mezzi di trasporto. Era tipico, che tutti gli sforzi per regolamentare l’uso del suolo e stabilire efficaci controlli fallissero, se mettevano a repentaglio gli interessi commerciali. Nondimeno, si stabilì la validità dello zoning come metodo generale di controllo. Fu il primo passo per dare alle città poteri di pianificazione adeguati.

La prima guerra mondiale vide l’applicazione delle idee inglesi alle città industriali di guerra, sotto la guida di architetti-urbanisti come Electus D. Litchfield, Frederick L. Ackerman, Clarence S. Stein, Henry Wright e altri. Questo lavoro spianò la strada per Radburn, N.J., la prima comunità pianificata riconoscendo pienamente il fatto che l’automobile era una cosa destinata a durare. Così, in una ventina d’anni, l’urbanistica ha compiuto i grandi passi verso la maturità in entrambe le sue branche: il controllo del suolo nelle città esistenti, e la progettazione di comunità interamente nuove.

L’urbanistica oggi

L’urbanistica a metà del XX secolo non si occupa semplicemente degli aspetti fisici. Per quanto importanti essi siano, sono guardati come la conclusione logica di un complesso di fattori. Per dirla in un altro modo, la città fisica tridimensionale è concepita come mezzo per conseguire fini sociali, piuttosto che come fine in se stessa. Dal punto di vista pratico, lo stato economico di una città deve essere incluso nell’urbanistica, visto che la struttura sociale poggia su una base economica. Una città in bancarotta può fare poco per aiutare se stessa; una città nuova, senza base economica, è condannata al fallimento.

Il processo di pianificazione per le città esistenti differisce ampiamente dalla progettazione di città nuove. Le città esistenti devono essere oggetto di miglioramento. L’enfasi sta nel cercare che ogni successivo mutamento nella struttura urbana sia parte di un piano di lungo periodo per il miglioramento generale della comunità nel suo insieme. Le condizioni esistenti sono analizzate ed elencate in una sorta di inventario civico, e si sviluppa un programma che, si spera, possa a tempo debito venir realizzato, almeno in parte. Nel pianificare città nuove l’urbanista è relativamente libero di usare le idee più recenti, e tecniche conformi al programma del committente.

Il problema, nelle città esistenti, mentre varia ampiamente nei dettagli, è generalmente simile nelle categorie. Strade congestionate, slums e degrado, zone commerciali in decadenza, impianti pubblici deteriorati, una forte tendenza al decentramento, e la minaccia di una virtuale bancarotta, sono le questioni principali. Questi mali risultano da una varietà di cause interrelate, la maggior parte delle quali nascono dai cambiamenti tecnologici che hanno avuto luogo da quando le città furono progettate. I principali tra questi cambiamenti, o meglio invenzioni, sono il motore a combustione interna e l’elettronica. Ci sono forti probabilità che le trasformazioni tecnologiche connesse alla fissione atomica si dimostreranno una causa non secondaria di obsolescenza. Il cinema, la radio, la televisione, aggiunti al telefono, hanno liberato la gente dalla necessità di stare in una città per l’istruzione o il divertimento o per mantenere contatti sociali e di lavoro. Forse ugualmente importante è il più alto standard di vita, che ha portato molti a credere che i loro figli possono avere un migliore ambiente fisico di quello offerto dalla città congestionata. Nella grande città la corruzione politica e la banalizzazione della scuola devono essere sopportati. Il suburbio, più piccolo e a misura d’uomo, offre migliori opportunità al singolo di partecipare alla politica locale e al controllo della scuola.

La congestione da traffico e il sovraffollamento dei suoli, ovvero l’eccessiva densità di popolazione, sono sia una causa che un effetto. Non c’è, virtualmente, nessun limite tecnologico al sovraffollamento del terreno. Quando, con un dato schema di capacità limitata, la congestione diviene economicamente intollerabile, inizia una tendenza al decentramento e l’area congestionata inizia a deteriorarsi. Allora si fanno sforzi frenetici per risolvere il problema del traffico. Questi sforzi sono, in genere, senza speranza, perché il problema del traffico non è per niente un problema di traffico, ma di densità, di popolazione. Qualunque vera soluzione è esclusa, a causa dell’enorme investimento in terreni e edifici, a causa dei conseguenti alti valori fondiari, e a causa del fatto che la base fiscale della città dipende proprio dal mantenimento di questi valori, non importa quanto fittizi. Redistribuire industrie e popolazione sembrerebbe una soluzione, e anche questo è in linea con le tendenze storiche del mutamento tecnologico.

Il problema dell’urbanista è di confrontarsi con questi temi meglio che può.

Nel nostro quadro democratico, il pianificatore ha vari metodi di approccio e vari strumenti, che sono stati creati da decisioni legali durante un lungo periodo di tempo.

Il primo ed efficace strumento, come menzionato prima, è lo zoning. Questa autorità si poggia sul potere di polizia da parte dello stato e dipende totalmente dalla discrezionalità delle corti nell’interpretare il concetto di “salute e benessere”. Lo zoning non è ben consolidato, anche se l’ampiezza dei suoi poteri varia da una giurisdizione all’altra. Ampiamente considerato come un attrezzo per mantenere lo status quo nei valori fondiari e negli usi del suolo, recenti tentativi degli urbanisti per dargli un uso più dinamico sembrano guadagnare terreno in molte città.

In qualche modo simile allo zoning, è il controllo di lottizzazione, che è uno strumento per controllare l’assetto dei terreni non suddivisi. L’allineamento delle strade, la fornitura di servizi (come l’acqua, le fognature per acque nere e acque piovane), la dimensione dei lotti, la previsione di posti di parcheggio, e questioni simili, sono controllati per il fatto che ogni lottizzazione deve avere l’approvazione dell’ufficio urbanistica prima che il progetto possa essere accettato.

Sia lo zoning che il controllo di lottizzazione cadono sotto la giurisdizione dell’ufficio urbanistica. Le variazioni di zoning, tuttavia, sono di solito gestite da un ufficio di appello, o aggiustamento, i cui poteri sono limitati alla “variante” o “aggiustamento” nel quadro della legge di zoning. I cambiamenti di legge sono, naturalmente, una cosa che riguarda l’azione legislativa locale, di solito su indicazione dell’ufficio urbanistica.

Sia lo zoning che il controllo di lottizzazione soffrono l’ignoranza della generalità dei funzionari preposti ad amministrarli. Gli uffici di appello per lo zoning sono propensi a cedere alle pressioni locali e spesso vanno oltre i propri poteri istituzionali nel garantire “varianti” che in realtà non sono per niente varianti, ma cambiamenti nella legge, che dovrebbero essere compito solo del corpo legislativo locale. In teoria c’è la possibilità di ricorso in tribunale, per queste azioni illegali, in pratica però il costo dei procedimenti è proibitivo, eccetto nei casi più flagranti di abuso di potere.

La debolezza del controllo di lottizzazione è che non controlla né le quantità né la localizzazione della suddivisione. L’abuso di questo privilegio da parte degli speculatori più irresponsabili ha avuto come risultato letteralmente centinaia di migliaia di lotti gettati sul mercato, rimasti invenduti, e alla fine diventati inadempienze fiscali.

Gli uffici urbanistici, in generale, derivano la propria autorità dal corpo legislativo locale, nel quadro di una legge dello stato che autorizza le municipalità, e talvolta le contee, a creare un tale ufficio. I membri sono nominati, e in genere non sono pagati, eccetto a New York City. Perché siano efficaci, ci deve essere una struttura di personale pagato e competente nel campo della professione urbanistica. Se l’ufficio diviene politicamente confutabile, i fondi sono ritirati e la struttura diventa non operativa. La funzione dell’ufficio è in gran parte consultiva, eccetto nei luoghi dove ha considerevole potere attraverso il controllo di lottizzazione. La principale attività è la preparazione di un piano regolatore generale, o piano comprensivo, che si intende serva come guida allo sviluppo della comunità. In alcuni stati questo piano può essere adottato dall’ufficio dopo udienze pubbliche e, quando adottato, diventare vincolante per il corpo legislativo locale e i settori municipali, che devono comunicare per l’approvazione all’ufficio tutte le proposte di trasformazione. Se l’ufficio non approva, si richiede una maggioranza qualificata (abitualmente tre quarti) del corpo legislativo per scavalcarlo.

Il piano regolatore generale una volta era considerato il principale obiettivo dell’urbanistica. Ora non è più ritenuto tale. Molte città nel passato si dotavano di un piano, e qui la pianificazione finiva. La pratica attuale tende a vedere il piano generale solo come un passo preliminare verso la pianificazione. È un passo altamente necessario, perché dà un quadro del presente e degli obiettivi da raggiungere all’oggi. Ma la pianificazione è un processo dinamico; la città cresce e cambia, e ciascuna azione municipale ha conseguenze di lunga portata. Il vero scopo dell’ufficio urbanistico quindi dovrebbe essere – ed è, nelle comunità dove l’urbanistica è presa sul serio – di servire come un corpo di ricerca per l’esecuzione. La pianificazione “pura”, la pianificazione coerente alla teoria, è una pratica impossibilità, perché ogni decisione attuativa è l’equilibrio di molti fattori politici, opportunità, finanza, pressioni locali. Un coscienzioso corpo legislativo ed esecutivo, nondimeno, può essere grandemente sostenuto nel prendere decisioni, se informato pienamente delle implicazioni a scala urbana, e delle varie alternative.

A causa dei poteri limitati, gli uffici urbanistici devono lavorare in stretto rapporto con i settori municipali e cercare di coinvolgerli negli obiettivi generali di piano come parte dei loro progetti settoriali. Il problema del traffico coinvolge, per esempio, il settore strade, quello di polizia, e molto spesso settori della contea, dello stato, dipartimenti e uffici federali. Questi corpi possono avere, e spesso hanno, idee confliggenti, e i dati generali dell’urbanista possono avere effetti significativi sulle loro decisioni. Ognuno di essi è incline ad affrontare uno specifico problema con pregiudizi professionali, ad escludere qualunque effetto collaterale sulla struttura economica o sociale della città. Gli ingegneri stradali, per esempio, hanno poca conoscenza e nessuna considerazione degli effetti economici o sociali dei loro allineamenti. È affare dell’urbanista prendere in considerazione, per quanto è possibile, tutti gli elementi rilevanti, e presentarli imparzialmente.

Nelle questioni che riguardano l’abitazione e il risanamento dei quartieri degradati, si coinvolgono il dipartimento sanitario e quello per le case popolari, se ce n’è uno. La selezione di aree da risanare e l’incidenza statistica delle malattie, dei reati, della criminalità, sono tutti elementi di importanza per entrambi gli uffici. La densità proposta per i nuovi quartieri popolari, la loro relazione con le arterie di traffico e i trasporti, la fornitura di strutture commerciali, e l’esistenza o non esistenza di scuole e aree per il tempo libero sono di primaria importanza nello schema della città così come ipotizzato dal piano regolatore generale. È per questa ragione, e perché le abitazioni sono il fattore più potente nella realizzazione di un “piano”, che l’approvazione di nuovi quartieri invariabilmente richiede uno stretto collegamento fra l’autorità per le case popolari e i funzionari dell’urbanistica.

Gli uffici scolastici sono di solito corpi autonomi, e di conseguenza gelosi del loro status. La cooperazione fra ufficio scolastico e ufficio urbanistica è quindi altamente desiderabile; le linee guida del piano regolatore relativamente alla crescita di popolazione, la localizzazione di nuove strade e altri cambiamenti nei trasporti, sono particolarmente rilevanti per i programmi di costruzione dell’ufficio scolastico.

Con lo sviluppo degli interventi residenziali su larga scala da parte di istituzioni come le compagnie assicurative, un numero crescente di stati ha adottato leggi che estendono il diritto di esproprio a beneficio di queste imprese. Nella maggior parte di queste leggi, l’ufficio urbanistico ha il potere di modificare localizzazione, densità, e altri elementi dei progetti proposti. Qui, ancora, l’obiettivo è di salvaguardare lo sviluppo della città secondo le linee del piano regolatore generale.

In alcune città, e in particolare a New York City, l’ufficio urbanistico esamina la disponibilità di capitali disponibili. Esattamente a New York la commissione di piano (così si chiama in quella città) prepara un piano di capitali quinquennale e invia il bilancio dell’anno corrente all’ufficio preventivi, che può togliere ma non aggiungere. Questa procedura è rara; in genere gli uffici di piano sono confinati alla revisione e a fare raccomandazioni, oppure al silenzio.

L’efficacia degli uffici di piano è cresciuta a partire dal 1940 sia nell’influenza sui politici, che sono responsabili della gestione delle città, sia nel campo legale. Le decisioni delle corti a favore dello zoning, per i quartieri residenziali, per autorità competenti ai parcheggi, e recentemente dei provvedimenti di riurbanizzazione (che tratteremo poi), hanno dato loro poteri crescenti su una sfera sempre più ampia di questioni.

Sul versante sociale il cosiddetto concetto di “vicinato” è stato uno dei principali sviluppi. Questa idea fu formulata chiaramente per la prima volta da Clarence Perry, ed è basata sulla pianificazione di vicinati dentro insediamenti esistenti, ognuno centrato attorno ad una scuola e con una popolazione grande a sufficienza per giustificarla. Ogni vicinato ha il suo centro commerciale e strutture per il tempo libero, e preferibilmente è un’entità geograficamente separata da altri vicinati da corsi d’acqua, strade importanti, viali o altre barriere. Fa parte del concetto generale, che questi vicinati siano d’aiuto a risolvere il problema della dimensione urbana, ripristinando così, in qualche modo, l’iniziativa dei singoli nelle cose locali, e recuperando il senso di “appartenenza” che accompagna la partecipazione. Le obiezioni a questo concetto, se interpretato troppo letteralmente, sono che la popolazione necessaria a sostenere una scuola è di gran lunga troppo grande per il senso di vicinato propriamente inteso, che l’area di simili distretti è troppo piccola per una pianificazione soddisfacente, che la maggior parte dei distretti scolastici non sono correlati ad entità geografiche e, più importante, che non c’è evidenza che questo tipo di pianificazione realizzi gli obiettivi sociali che ci si immagina.

Di fatto, si può dire che le scienze sociali sinora hanno dato pochi contributi all’urbanista. Ci sono stati studi di certi particolari problemi, su scala limitata, del compianto professor Edward Lee Thorndike, del professor Stuart Chapin, del professor Svend Riemer, e di alcuni altri, ma sono stati rivolti più verso la questione delle abitazioni che verso l’urbanistica. I sociologi dovrebbero sviluppare nuove tecniche per lo studio degli effetti sociali di cose come lo schema fisico delle comunità rispetto alle attitudini sociali, o la relazione fra lavoro e residenza, la carenza di alberi e aree verdi, il generale distacco da senso dei cicli naturali, se le strutture comuni di vicinato alterano o meno lo schema sociale.

C’è la necessità di studi concernenti le cause della crescita urbana e delle aree urbanizzate. Ci sono studi sulla crescita di popolazione del professor John Q. Stewart di Princeton e dello scomparso professor George K. Zipf di Harvard, che tentano di analizzare i fattori demografici sulla base di una massa di dati statistici. Questi studi sono promettenti, ma sono necessari una più ampia ricerca e molta più interpretazione perché essi possano essere di valore per l’urbanista impegnato su specifici problemi, dato che, come tutti i dati aggregati, essi diminuiscono di valore man mano l’applicazione diviene particolare.

Studi nei campi sociale e demografico saranno i benvenuti, perché la crescita di quella che il Dr. Don Bogue ha chiamato la “comunità metropolitana” è un fatto di sempre crescente importanza. L’influenza della città centrale sulla regione circostante è sempre più potente, nonostante il fatto che per molti versi la città centrale si stia disintegrando. Il risultante conflitto fra gli obiettivi di piano non può essere risolto razionalmente finché le forze all’opera non siano state sottoposte ad una analisi assai più ravvicinata, e le loro reali implicazioni siano state portate almeno alla forma di ipotesi di lavoro. Fin quando tale ipotesi non sia stata formulata e verificata, non esiste una base su cui il pianificatore possa decidere se il processo di decentramento debba essere accettato come inevitabile e se la riurbanizzazione, termine che correntemente si usa, abbia o non abbia senso.

È probabile che questa assenza di dati sociali, correlati alla pianificazione fisica, sia la ragione per la mancanza di un consolidato approccio filosofico all’urbanistica in generale, e spiega il fallimento della pianificazione, di questi tempi, nell’essere qualcosa più di una serie di espedienti.

Mancando di qualunque base più vasta di quella del miglioramento, i problemi dell’urbanista possono essere rozzamente elencati nel seguente ordine di importanza:

Traffico e Trasporti – È il problema principale di ogni città. Gli sforzi per misurarsi con esso consistono in allargamenti di strade, separazione del traffico di attraversamento e degli autocarri da quello locale specializzando alcune direttrici, proibizione o limitazione al parcheggio. Più drastiche e recenti misure, sono state di costruire autostrade urbane di attraversamento in modo da evitare intersezioni; acquisizione e gestione da parte della municipalità di spazi a parcheggio; richiesta, tramite lo zoning, ai nuovi generatori di traffico di provvedere a spazi diversi dalla strada per carico/scarico e parcheggio. L’impennata nella produzione di automobili e dei viaggi pro-capite dei possessori di automobili, l’incremento di popolazione, e il mancato riconoscimento della relazione fra traffico e uso del suolo, fanno abortire la maggior parte di questi tentativi. Nelle città molto grandi la mancanza di qualunque correlazione fra luoghi di residenza e luoghi di lavoro è un fattore aggiunto alle difficoltà di trasporto, e l’incremento di pendolarismo sta rapidamente creando problemi virtualmente insolubili di tracciamento delle linee ferroviarie per pendolari.

Risanamenti e case popolari – Gli slums sono considerati un male sia sociale che economico. Le aree di slum e degrado nella maggioranza delle città hanno raggiunto proporzioni che eccedono di molto quelle che la città è in grado di affrontare: da qui l’accettazione dell’intervento pubblico per le case popolari, come passo verso il miglioramento civico. Comunque sia, né le abitazioni pubbliche possono iniziare ad utilizzare tutte le aree che necessitano di risanamento, né le città possono affrontare l’acquisto e la demolizione. È dubbio se si possa fare un uso economicamente intensivo di tutti i terreni che necessitano di riurbanizzazione. Nuovi concetti di densità, tassazione, e schemi urbanistici devono nascere prima che possa essere trovata una risposta a questo problema.

Tasse e disponibilità finanziaria – Le città stanno trovando sempre più difficile la raccolta di fondi sufficienti per i servizi municipali. La domanda per servizi sociali di vario tipo continua ad aumentare, dovuta largamente all’incremento nello standard di vita e al fatto che, man mano la nostra civiltà diviene più altamente tecnologica e specializzata, sempre più cose prima fornite da singoli o famiglie per se stessi non possono più esserlo, e diventano un problema del governo. Accoppiato a questo c’è il declino della base di contribuenti dovuto all’abbandono di persone, attività e industrie della città centrale. È abbastanza evidente che il metodo convenzionale di tassazione dei terreni non può misurarsi con questo problema.

Servizi pubblici – Con questo intendiamo i servizi urbani di base delle fognature di acque nere e piovane, acqua potabile, strade, raccolta dei rifiuti e, in alcune città, gas e elettricità. Il costo di espandere questi servizi è una voce di capitale importanza se correlato all’espansione incontrollata delle città. In molte, anche la manutenzione è un problema serio a causa del logoramento, dei guasti, dell’obsolescenza. In generale, comunque, i servizi idrici di solito forniscono un profitto, come fanno talvolta quelli elettrici e di gas. Il pianificatore quindi si occupa principalmente di controllo dell’espansione, e con lo scopo di assicurare una proporzionata crescita di strade e fogne senza dover attraversare ampie aree prive di popolazione.

Sviluppo industriale – L’adeguata previsione di aree adatte all’espansione industriale è parte importante della pianificazione urbana. Nel passato, l’industria in primo luogo si impadroniva dei fronti sull’acqua, e seguiva le ferrovie. Con i primi provvedimenti di zoning, fu relegata su qualunque area non considerata buona per nient’altro. Come conseguenza dell’uso degli autocarri a motore, dell’energia elettrica e della tecnica a catena di montaggio, l’industria non è più legata alla ferrovia; non è più generatrice di polvere e fumo; e richiede più spazio orizzontale. La riorganizzazione delle aree industriali correlata ai luoghi di residenza, alle principali strade di comunicazione e alla disponibilità di spazi per la crescita degli impianti e i parcheggi, è ora riconosciuta.

Scuole e tempo libero – Il carattere delle scuole sta cambiando rapidamente. La scuola a un piano correttamente orientata rispetto al sole, commisurata alla scala del bambino, e con vasti spazi di gioco all’aperto, sta soppiantando il “monumento” a tre piani con un cortile asfaltato. C’è un uso crescente della scuola per l’istruzione degli adulti e per usi comunitari. Urbanisti e educatori stanno comprendendo l’importanza di acquisire siti vasti molto in anticipo sulla crescita di popolazione, e in questo il pianificatore può consigliare l’ufficio scolastico sulle tendenze e sui piani di generatori di popolazione come nuove autostrade o localizzazioni industriali. Parchi e campi da gioco, solitamente di competenza di un ufficio cittadino separato, sono in qualche modo della stessa categoria e spesso vengono gestiti in cooperazione con le strutture scolastiche.

Aeroporti – La localizzazione degli aeroporti richiede molto studio. Hanno bisogno di grandi estensioni di terreno; le aree libere per le linee di atterraggio e decollo creano problemi di zoning. Deve essere garantito un trasporto rapido verso il centro città, spesso con nuove strade. L’effetto del rumore degli aeroplani sui valori delle proprietà, o i rischi di un incidente, non sono stati ancora determinati ad un grado ragionevole. Sembra probabile, vista la certezza di grandi miglioramenti tecnici negli aeroplani, che qualunque cosa si pianifichi oggi sarà obsoleta nel prossimo futuro. A ben vedere, la maggior parte dei nostri aeroporti sono già obsoleti.

Zoning e controllo di lottizzazione – Questi sono attrezzi che l’urbanista deve continuare a tener affilati, e che i vari gruppi di pressione continuano a smussare. Il suo problema è quello di convincere il pubblico e il consiglio comunale che essi non sono strumenti di repressione, ma di governo della crescita di popolazione e per la distribuzione dei vari, principali usi del suolo, e conseguentemente aiutano il funzionamento economico di tutta la città.

Pubbliche relazioni – L’urbanistica, per essere efficace, non deve solo essere accettata, ma anche compresa e sostenuta dalle persone più influenti della città. Idealmente, i membri dell’ufficio urbanistico stesso, o almeno il presidente, dovrebbero essere coloro che instaurano relazioni col pubblico tramite la stampa e le organizzazioni civiche. Troppo spesso però essi tendono a delegare questo ruolo al direttore o al personale tecnico, il cui mestiere dovrebbe essere l’urbanistica, non l’oratoria.

Riurbanizzazione – Di questo si parlerà più avanti nel saggio.

Città Nuove

Non meno importante per il futuro, è il crescente interesse per ciò che gli Inglesi chiamano il movimento delle “New Towns”. Anche qui, esiste un retroterra storico. Come già accennato, l’espansione degli scambi e le guerre internazionali a metà del XVII secolo vedono la fondazione di un grande numero di nuove comunità, e il rimodellamento di molte altre per la difesa contro le nuove armi dell’epoca. Alcune delle città erano eccezionalmente belle. C’erano libri sulla teoria e la pratica urbanistica, basati su una varietà di concetti, sia estetici che militari, di solito derivati da formule matematiche o geometriche. A causa dei limiti tecnologici, in gran parte nel campo dei trasporti, della logistica, e di altre considerazioni militari, queste città erano contenute per dimensione. Molte esistono ancora, ma nella maggior parte dei casi sono affondate nel pantano dei quartieri industriali, hanno scavalcato i propri limiti, e hanno perso il carattere originale.

Il moderno movimento per le New Towns può dirsi iniziato con la pubblicazione di To-morrow, di Sir Ebenezer Howard. C’erano naturalmente dei predecessori, almeno nella teoria sociale generale. Robert Owen nel primo XIX secolo fu uno di questi predecessori, così come lo furono i fondatori delle varie utopie, come le colonie Fourieriste, la colonia Oneida, e altre. Fu Howard, comunque, che per primo espose integralmente la teoria della città satellite, pianificata per la vita e il lavoro, limitata nelle dimensioni da una inviolabile cintura di verde agricolo, adeguatamente collegata con sistemi di trasporto ad altre città dello stesso genere, e tutte alla città centrale. I tempi erano maturi per una impresa di questo tipo, c’era diffusa repulsione per gli orrori degli slums dell’Inghilterra industriale, contro lo sporco e la fuliggine che pervadeva tutto tranne i quartieri più ricchi. Due città, Letchworth e Welwyn, furono costruite durante il periodo di entusiasmo per le idee di Howard, sotto la direzione tecnica di Louis De Soissons e Sir Raymond Unwin.

Il movimento fu portato negli Stati Uniti da un gruppo di uomini, guidati da Alexander M. Bing, un investitore immobiliare di New York. Il risultato finale fu Radburn, N.J., per cui gli urbanisti e architetti furono Henry Wright e Clarence S. Stein, insieme a Frederick L. Ackerman. Radburn, progettata come un autosufficiente satellite di New York, segnò l’inizio della comprensione pubblica di come una città potesse essere progettata per i modi di vita a trasporto moderni.

C’erano state molte comunità autosufficienti, in maggioranza costruite per o vicino a una grande industria, ma si era omesso di prendere in considerazione l’automobile come il fattore principale da affrontare. Il villaggio di Yorkship, vicino a Camden, N.J., costruito per gli operai dei cantieri navali durante la prima guerra mondiale e progettato da Electus D. Litchfield, era uno dei migliori. Altri erano Longview, nello Stato di Washington; Alcoa, Tennessee; Kingsport, Tennessee; Kohler, Wisconsin; Mariemont, Ohio; e altri, più piccoli, semplici “company towns”.

Radburn, come il suo prototipo inglese, fallì l’obiettivo dei suoi promotori, di diventare una comunità completamente autosostenuta. L’industria tardava ad arrivare, e divenne una città-dormitorio. Le sue caratteristiche urbanistiche, tuttavia, si dimostrarono valide, in particolare il “superblock”, i sistemi stradali a cul-de-sac e la stretta strada di traffico residenziale a “nodo”, gli spazi comuni per il tempo libero e quelli sicuri per i bambini.

Contemporaneamente si stavano sviluppando altre esperienza, in Germania guidate da Ernst May a Francoforte, in Olanda con J.J.P. Oud, Arie Keppler e altri. Le Corbusier (vero nome Charles Jeanneret) stava cominciando in Francia ad elaborare le sue teorie della Ville Radieuse, città di grattacieli ampiamente spaziati, un concetto altamente meccanicistico che doveva avere una grande influenza sul pensiero della generazione più giovane di architetti e urbanisti americani.

La depressione economica dei primi anni ’30 fece fare grandi passi in avanti. L’enfasi sui quartieri pubblici di abitazioni popolari a grande scala introdusse il concetto di “comunità pianificata” non solo presso il pubblico, ma, cosa egualmente importante, presso gli architetti. Mostrava chiaramente cosa c’era di sbagliato nelle nostre città e spazi di vita, e provava che erano possibili altri e miglior modi di organizzarli. La dimostrazione fu nel campo delle New Towns, con la costruzione di tre città con cintura di verde: Greenbelt, Maryland; Greenhills, Ohio, Greendale, Wisconsin. Erano progettate e realizzate dalla Resettlement Administration come parte del programma del New Deal. Queste tre città portavano l’idea di Howard molto più in là di quanto era stato possibile fare a Radburn, e tecnicamente continuavano e sviluppavano ulteriormente la “idea di Radburn”.

La seconda guerra mondiale portò le tecniche della nuova urbanistica nei numerosi interventi e città connessi alla difesa, molti di natura temporanea, in tutta la nazione. Anche se attraverso tipi di edifici temporanei, furono utilizzati i principi urbanistici necessari alla buona circolazione, sicurezza, relazioni sociali, e anche soddisfazione estetica. Si imparò molto.

Ora, a metà del XX secolo, il problema è il conflitto fra il bisogno di modernizzare le nostre città esistenti, e quello di controllare la dispersione disorganizzata che è il risultato sia della spinta verso l’esterno della città, sia della grande crescita delle aree metropolitane per migrazione dalle campagne. Se la soluzione ideale, probabilmente, sarebbe una serie di autocontenute, correlate, bene organizzate città satellite o “New Towns”, ciò sembra improbabile da realizzare. Sono stati suggeriti altri tipi di riorganizzazione, ma finché esiste terreno a buon mercato da sfruttare, qualunque sforzo concertato di organizzare e controllare lo sviluppo si dimostrerà vano. Questo non per minimizzare l’entità del problema; la dispersione urbana molto probabilmente sarà considerata, nel futuro, come il nostro peggior crimine, nello spreco delle risorse naturali urbane e regionali.

Riurbanizzazione

Mentre permettiamo che le nostre aree suburbane diventino gli slums di domani, ci sforziamo per trovare qualche modo di risistemare gli slums e il degrado lasciato dai nostri predecessori. Le porzioni centrali della maggior parte delle città iniziarono a deteriorarsi anche prima dell’avvento dell’automobile, quando il trasporto di massa elettrificato rese accessibili le aree limitrofe. L’automobile accelerò il processo e, mentre il tempo passava e il numero di automobili aumentava, il problema della congestione da traffico e del parcheggio portava nuovo degrado. Commercianti intraprendenti compresero che il centro commerciale esterno, costruito per le automobili come Radburn, poteva portare profitti. L’incredibile successo di questi centri, piccoli e grandi, iniziò ad avere il suoi effetti sugli affari del centro città. Anche l’industria, confinata nei settori più indesiderabili della città, impossibilitata ad espandersi, il flusso di materie prime rallentato dal traffico, comprese che le zone esterne erano spazi più soddisfacenti di localizzazione. Gli effetti di questi vari movimenti erano interattivi e cumulativi. Le città furono lasciate con aree edificate ma obsolete, dentro cui nessuno avrebbe investito denaro perché nessun singolo investimento poteva invertire la tendenza. Non solo c’erano valutazioni dei terreni molto alte – paradossalmente spesso le aree più malamente degradate erano quelle più valutate – ma la molteplicità dei piccoli proprietari rendeva l’acquisizione di ampi lotti una virtuale impossibilità.

Era ovvio che avrebbero dovuto essere elaborati incentivi per attrarre investimenti di capitale. Le grandi compagnie di assicurazione, desiderose di investire grandi somme con rischio minimo, furono le prime a sviluppare un possibile metodo di azione. Il successo del programma di abitazioni popolari a dividendo limitato di New York indicò la via. Le prime leggi sulle imprese di riurbanizzazione furono emanate per permettere di realizzare i grandi progetti residenziali a dividendo limitato con il denaro delle compagnie di assicurazione. Le leggi davano anche diritto di esproprio, esenzione fiscale per le opere di miglioria, possibilità di concordare con il municipio la chiusura di strade. In cambio, gli affitti erano contenuti.

Presto leggi di riurbanizzazione vennero approvate in altri stati, più ampie negli obiettivi di quella di New York. Alla fine, dopo due anni di dibattito, il Congresso approvò l’Housing Act del 1949. Il Titolo I di questa legge tratta la riurbanizzazione a scala nazionale. Si prevede un fondo da cui possono essere ottenuti prestiti e sussidi da parte delle città per l’acquisto di terreni, demolizione di vecchie strutture, rilottizzazione e vendita o affitto per gli scopi previsti. Il terreno può essere venduto per il suo “valore d’uso”, e due terzi di qualunque perdita sono coperti dal governo, il rimanente terzo sostenuto dalla municipalità. Lo scopo dichiarato è la demolizione e riurbanizzazione degli slums e aree degradate, ma ci sono possibilità anche per prestiti, ma non sussidi, per nuove realizzazioni su terreni non urbanizzati. L’obiettivo era duplice: principalmente di provvedere fondi per costruire i necessari e richiesti alloggi per le famiglie private delle loro abitazioni, e in parte fungere da leva per aprire la possibilità alla creazione di nuove città. La legge chiede: (1) creazione da parte dello stato di agenzie locali di riurbanizzazione, o assunzione del carico da parte del corpo legislativo locale; (2) conformità a un piano generale approvato ufficialmente per lo sviluppo futuro della città; (3) responsabilità dell’impresa privata di portare a termine la riurbanizzazione. I poteri federali sono conferiti ad una speciale di visione della Housing and Home Finance Agency. L’intento della legge è che tutta la promozione ed esecuzione siano a livello locale.

Le opportunità aperte da questa legislazione sono enormi. Resta da vedere quanto sarà fatto, e quanto bene. Ci sono alcune evidenti difficoltà, di cui le principali sono se l’incentivo all’impresa privata si dimostrerà sufficiente, se il mercato dei terreni possa assorbire la nuova offerta a livelli economici, se le municipalità potranno coprire anche solo un terzo della spesa. Queste, naturalmente, sono questioni economiche; per l’urbanista la difficoltà sarà se ripianificare secondo le linee che richiedono l’era dell’automobile e dell’elettronica per vivere e lavorare adeguatamente, oppure se sarà obbligato alla ripetizione di schemi ad alta densità, che saranno già obsoleti prima che i lavori abbiano inizio, dalle direttive di un consunto sistema di pratiche immobiliari speculative, e di una struttura fiscale antiquata.

Il successo o fallimento finale della riurbanizzazione sarà il banco di prova delle moderne tecniche urbanistiche. A Philadelphia sembra esserci una forte e convinta tendenza a farcela. Per un periodo di diversi anni, vari settori municipali e il pubblico in generale sono stati convinti della necessità di azione. Gruppi di cittadini in varie zone degradate sono stati incoraggiati a impegnarsi nel determinare il futuro del proprio quartiere. Sono stati condotti dettagliati e validi studi sulle condizioni sociali e commerciali. A Chicago sembra avere successo un altro metodo. In quella città il Micheal Reese Hospital, un tempo favorevolmente localizzato nel South Side, si trovò isolato in una vasta zona di slum e degrado. Invece di spostarsi, cercò di essere più utile tentando di riqualificare l’ambiente. Organizzò un gruppo urbanistico allo scopo, usando il proprio programma di espansione come punto di partenza. Ora, insieme ai programmi di espansione dell’Illinois Institute of Technology e della Chicago Housing Authority, è iniziato un piano esteso e comprensivo per la ricostruzione di un vasto segmento del South Side.

San Francisco, Los Angeles, Detroit, Indianapolis, Providence e molte altre piccole città hanno intrapreso programmi di ripianificazione. Solo New York City, fra le grandi, ha fatto poco eccetto effettuare varianti di routine allo zoning. Comunque, nel 1950 era stato quasi completato uno studio comprensivo inteso a rifare completamente lo zoning, e inaugurando un’era di maggior attività pubblica. I problemi di New York City sono, naturalmente, più complessi di quelli delle altre città; d’altra parte la sua commissione di paino ha maggiori poteri di quelle delle altre città e, se possono essere superati le difficoltà politiche, l’inerzia pubblica e l’opposizione di potenti interessi, ci si possono aspettare grandi cose dalla ricostruzione continua della metropoli.

Progressi professionali

Questi anni di crescita dell’urbanistica hanno visto l’emergere di una nuova professione, quella dell’urbanista. I primi pianificatori moderni erano generalmente reclutati dalle professioni dell’architettura, dell’arte del paesaggio, o dell’ingegneria civile. La crescente complessità del lavoro ha dimostrato il bisogno di una specifica formazione. Si richiede una conoscenza da numerose discipline: architettura, ingegneria, sociologia, economia, diritto, pubblica amministrazione e pubbliche relazioni. L’urbanista non è, e non può essere, competente in tutti questi campi; è necessario, comunque, che abbia conoscenza dei loro contenuti generali, delle loro specifiche applicazioni all’urbanistica, e della loro correlazione reciproca per quanto riguarda le questioni civiche. Ci sono ora corsi che conferiscono un titolo in urbanistica in molte delle principali università. Si tratta abitualmente di corsi di specializzazione; la tendenza recente è di ammettere laureati in una delle discipline correlate, invece di richiedere, come avveniva prima, che lo studente avesse un titolo in architettura o ingegneria.

Anche le organizzazioni legate all’urbanistica si sono moltiplicate. L’American Institute of Planners è la principale organizzazione professionale e pubblica un’ottima rivista. Gli amministratori e professionisti sono rappresentati insieme dalla American Society of Planning Officials, una influente organizzazione che fornisce servizi informativi e di ricerca; ci sono molte organizzazioni di tecnici locali o regionali. In più ci sono organizzazioni locali di gruppi di cittadini interessati, in quasi ogni grande città. Questi gruppi svolgono servizi di pubbliche relazioni, agiscono come validi comitati e gruppi di pressione,e spesso avviano studi su specifici problemi. Il crescente interesse per la pianificazione regionale delle aree metropolitane si manifesta con il crescente numero di organi ufficiali e semiufficiali che si organizzano per affrontare questi problemi inter-comunitari. La più antica e meglio conosciuta è la Regional Plan Association di New York, un’organizzazione privata responsabile del primo piano veramente comprensivo per New York City e il circondario, e che continua a sviluppare la cooperazione fra le varie comunità nella regione metropolitana.

Consuntivo

Dunque l’urbanistica oggi non è come quella del passato. Si occupa di ampi obiettivi in molti campi, non solo dell’aspetto fisico. Forse il pendolo è oscillato troppo in là, e la trascuratezza del presente per il lato estetico dell’urbanistica potrà dimostrarsi dannosa, in futuro. L’orgoglio civico è un fattore importante nella psicologia di qualunque comunità, e l’orgoglio civico si evidenzia nella qualità tridimensionale della città fisica. È in questo campo che l’architetto deve recuperare quello che, al pianificatore specializzato di oggi, sembra essere un grado sproporzionato di controllo del processo di piano, particolarmente nella fase di esecuzione. Per la maggior parte, comunque, la pianificazione è lavoro di coordinamento e guida anziché di esecuzione o amministrazione. Nella nostra società democratica questa lascia spesso l’urbanista frustrato, perché non esiste un modo diretto di conseguire grandiosi obiettivi, nel modo in cui il Barone Haussmann li raggiungeva a Parigi, o il Papa Sisto V e Mussolini a Roma. Il progresso si fa lentamente. Si è guadagnata velocità, nondimeno, e l’Housing Act del 1949 indica la strada per ulteriori azioni. Si accelererà ancora se peggiorerà lo stato delle città e diventerà imperativa la necessità di riurbanizzare. Gli obiettivi dovranno essere chiariti, e questo è uno dei compiti principali della nuova professione. Deve essere incoraggiata l’accettazione pubblica e privata del controllo. Devono prendere piede nuovi strumenti legali, e una riorganizzazione economica. Il risultato dovrebbe essere quello di avere sia le città esistenti ricostruite secondo nuovi schemi, sia nuove città invece della dispersione suburbana. La base finanziaria dovrebbe essere la difficoltà minore, visto che ricostruiamo gli Stati Uniti continuamente. È una questione, principalmente, di progettare per il bene comune invece di consentire una crescita casuale per il beneficio temporaneo di pochi. Una tale azione deve venire dal popolo; non può essere imposta dall’alto. L’urbanistica oggi è, quindi, parte integrante del processo democratico.

Tecnica relativa al coordinamento costruttivo nella creazione delle zone di insediamento demografico, allo scopo di realizzare le condizioni più favorevoli alla vita e alle attività produttive degli abitanti

G.Devoto, G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana

In senso stretto attività di creazione e sistemazione dei centri urbani. Disciplina (sorta come scienza autonoma alla fine del ‘700 in seguito alla rivoluzione industriale) che ha per oggetto l’analisi del territorio in generale e la messa a punto dei mezzi tecnici, amministrativi, legislativi, politici, finalizzati alla progettazione o all’adeguamento a nuove esigenze, sia di centri urbani che di infrastrutture, che si avvale dell’apporto delle scienze economiche, statistiche sociali e tiene conto delle modificazioni che le nuove strutture generano nell’ambiente,

Vocabolario della Lingua Italiana: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani , Roma

il complesso delle attività di studio, ricerca e progettazione, che ha per fine la creazione di zone di insediamento demografico, nelle quali la vita degli individui e le loro attività produttive si svolgono nelle più favorevoli condizioni possibili

Dizionario enciclopedico italiano, Istituto della enciclopedia italiana, G. Treccani, 1970

Disciplina che si occupa di disporre e organizzare razionalmente ed esteticamente gli aggregati urbani, utilizzando ed equilibrando ad un tempo cognizioni e norme scientifiche, artistiche e sociali.

Dogliotti M., Rosiello L., Lo Zingarelli 1998 Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1998

Disciplina che studia la formazione, la trasformazione e il funzionamento dei centri abitati e ne progetta il rinnovamento e la crescita.

Zingarelli N., Lo Zingarelli: Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1997 (12 ed)

L’arte di organizzare razionalmente ed esteticamente mediante piani regolatori gli aggregati urbani, dotandoli di tutte le comodità, di tutti i servizi d’igiene, dei trasporti ecc.

Novissimo Dizionario della Lingua Italiana, Palazzi, edizione a cura di Gianfranco Folena, Fratelli Fabbri editori, Milano, 1979

Disciplina che si occupa dell'analisi e della pianificazione dello sviluppo dell'insediamento urbano. L'urbanistica elabora i piani generali di trasformazione del territorio, i piani di circolazione stradale dei veicoli pubblici e privati, le strategie di recupero delle zone depresse e delle aree rurali e i piani di protezione ambientale.

Enciclopedia multimediale Encarta 2000, Microsoft

Disciplina che studia le condizioni, le manifestazioni e le esigenze di vita e di sviluppo delle città al fine pratico di attrezzare entità urbane e territoriali in funzione della vita della collettività nelle migliori condizioni. L’u. prende in considerazione tutti gli aspetti della vita di un organismo urbano tenendo soprattutto presente il decentramento, la viabilità, lo scorrimento, la zonizzazione, la funzione insostituibile del verde pubblico, le aree pedonali.

Compact, Enciclopedia Generale, De Agostini, Novara 1993

Disciplina che si occupa dello studio, della progettazione e della trasformazione delle aree urbane secondo criteri razionali; termine che indica sia l’analisi dell’ambiente insediativo dell’uomo, sia la sua progettazione. la stabilizzazione di un determinato gruppo umano in un ambito geografico precisato, per esercitarvi l’agricoltura, costituì l’elemento catalizzatore dei primi fenomeni urbani. Tecnica ed arte del progettare e costruire centri urbani, quartieri residenziali nei quali la vita possa svolgersi nelle più favorevoli condizioni possibili. Questa disciplina opera studi scientifici sulla città e sul territorio, che convergono nella “ pianificazione fisica”, che si occupa dell’utilizzazione ottimale delle risorse territoriali ed urbane. L’urbanistica ricorre ai contributi di altre discipline, come le scienze ambientali, biologiche, sociali, etiche, psicologiche; il metodo di indagine da essa utilizzato, l’analisi quantitativa, le teorie dei sistemi, le indagini territoriali a scala ampia, quelle sugli usi del suolo vengono sottoposti ad un’interpretazione critica che tende a chiarire quali siano le dimensioni fondamentali del progetto urbanistico; i principali strumenti di quest’ultimo sono le norme giuridiche, i regolamenti edilizi, la composizione urbanistica e la zonizzazione, cioè la suddivisione del territorio in ambiti omogenei dal punto di vista funzionale.

Enciclopedia dell’architettura Garzanti, Garzanti Editore 1996 (???)

È’ la disciplina che studia e regola i processi di antropizzazione del territorio. Nata come arte e tecnica dello sviluppo urbano ( e fra arte e tecnica si è sempre posta, attratta ora dall’una ora dall’altra, senza avere mai una chiara e conclusa definizione dei suoi strumenti di azione ) ha ormai assunto in Italia, prima nella forma e nelle intenzioni con la legge urbanistica del 1942, ed ora man mano nella realtà – sia pure tra ritardi ed ostacoli – il ruolo di disciplina del territorio, essendo ormai chiaro che lo sviluppo edilizio non è certo l’unico fenomeno che determina l’assetto del territorio e che l’abitare, il risiedere, il lavorare ha per luogo non solo la casa e la città, ma il territorio nel suo insieme. L’urbanistica ha per strumenti di conoscenza l’analisi, per mezzi di intervento gli strumenti urbanistici e per oggetti una vasta gamma di realtà territoriali, da quelle corrispondenti a parti di città o di territori oggetti di piani attuativi, a quelle del territorio regionale oggetto di piani di inquadramento. Il significato del termine non è quindi più quello letterale, essendo l’operatività dell’urbanistica ormai ampliata a realtà non solo urbane. Per comodità, ma senza una stretta divisione di compiti, l’urbanistica può suddividersi in pianificazione territoriale e pianificazione urbana.

R. Barocchi, Dizionario di urbanistica, F.Angeli, Milano 1982

Complesso di nozioni e metodologie a base scientifica, ma con larga matrice sociale, inerenti alle problematiche di conoscenza e governo razionale e pianificato delle strutture territoriali e specie urbane, nei termini di un approccio eminentemente interdisciplinare.

D. Borri, Lessico urbanistico annotato e figurato, Dedalo, Bari 1985

PREFAZIONE

“I nostri figli sapranno un giorno fabbricare case e città in modo che d’aria ve ne sia in abbondanza per tutti e che sia sempre di prima qualità”. Così scrisse molti annior sono quell’illustrazione scientifica italiana che è il venerando Senatore Prof. Mantegazza.

Non credo d’esser io quel tale che sappia insegnar quanto occorra a raggiungere il desideratum dell’Illustre Maestro: con questo mio primo lavoro, che è un assieme di studi concernenti la costruzione di tutto ciò che costituisce una città - fabbricati pubblici e privati; strade e piazze; servizi municipali (fognature, acque, illuminazione, ecc.) - intendo presentare un saggio e molto modesto che potrà, come lo è, essere perfettibile e perfezionarsi da altri più valenti di me che per primo con un programma abbastanza largo, esco in campo.

Dalla critica degli specialisti domando un giudizio nel quale sia tenuto a calcolo la deficienza di pubblicazioni italiane concernenti, argomenti d’ingegneria sanitaria urbana - scrivendo per il nostro paese bisogna adattar tutto al suo clima, agli usi dei suoi abitanti: da oltre le Alpi, da oltre l’Oceano molto può essere a noi insegnato ma non tutto può essere accettato.

L’AUTORE

[...]

CAPITOLO XV

Le città, i borghi, le ville. Le città operaie. L’estetica e l’igiene

1. L’origine dell’igiene pubblica - Noi qui non intendiamo tesser al benevolo lettore l’istoria dell’igiene pubblica, solo dare a lui un cenno del come nacque.

L’uomo fino dai primi tempi nei quali cominciò a sentire il bisogno di viver in società, cercò di stabilire la sua capanna, la sua tenda, la sua casa vicina a quella d’altri uomini ai quali comuni fossero ed i bisogni della vita ed i dolori e piaceri di questa. Le particolari attitudini hanno fatto sì che variamente si aggruppassero gli esseri umani.

Datosi l’uomo col tempo all’agricoltura troviamo che questa a sé lo lega, ed in breve lo troviamo unito in società per interesse e difesa di sé e dei proprii averi. Crescendo i bisogni, complicandosi gli interessi, ingrandendosi l’industria, s’inizia una gerarchia sociale. Si elevano città, si cingono queste di mura a difesa di possibili aggressioni da parte di altri uomini, sotto un potere che rappresenta, che personifica il diritto e gli interessi comuni.

Interviene col tempo la religione a vivificare il sentimento della fratellanza, a cementare l’associazione fra gli uomini. Ma con lo stringersi l’uomo in società s’incominciò a constatare in essa dei malori fisici e morali in causa del formatosi agglomeramento. È in questo tempo che l’igiene, la quale non presiedette alla formazione delle città, che cominciò a far sentire la propria influenza per toglier di mezzo le cause dei molteplici mali che andavano sviluppandosi; essa intervenne infine quando si ebbero a constatare danni per la formazione dell’umana società.

Nell’ignoranza di ogni elementare principio d’igiene si formarono centri abitati nei quali oggidì, a scienza più progredita, troviamo tutto da riformare.

Certo che la rigenerazione sanitaria di un paese domanda un forte dispendio ed il soccorso forse dei secoli ma ciò non deve intimidire chi è preposto alla salute pubblica giacché deve tener presente che risanare un abitato vuol dire prolungare la vita media dei suoi abitanti.

2. Le diverse esposizioni dei centri abitati. - Nel caso di dover studiare un piano regolatore di un centro abitato vi sono tre problemi da studiare, cioè :

Quello dell’esposizione del centro abitato;

2° Quello della sua situazione;

Quello della forma per lui più conveniente.

Per stabilire la esposizione si esigono molteplici osservazioni nei riguardi:

a) della composizione dell’atmosfera locale ;

b) delle condizioni meteorologiche locali ;

c) del clima locale;

d) della natura, della configurazione, dei prodotti del suolo;

e) della estesa delle acque nella località in esame.

Di tutti questi elementi di studio vedremo a suo tempo.

Scelta della situazione dei centri. -Non è possibile stabilire in modo assoluto il grado disalubrità di un dato centro abitalo, costrutto o da costruirsi in pianura.

Esso varia in rapporto della natura del terreno, dei venti predominanti, delle vicinanze naturali (foreste, paludi, ecc.); di ognuna di queste parleremo a suo tempo.

Certo intanto è che un centro abitato che corona luoghi elevati si fa rimarcare per un’aria viva, non inficiata, di frequente rinnovellantesi.

La ubicazione delle città imprime poi alle medesime caratteri igienici differenti.

Infatti chi non trova una differenza notevole - in punto d’igiel1e, di umidità atmosferica, ecc. - fra le città di pianura, di vallata, di litorale, fluviali, lacustri?

Col notare le differenze notevoli per le varie specie di città, noi verremo mano mano ad indicare le condizioni speciali in cui si trovano varie città d’Italia, tanto per far maggiormente conoscere quanto si ha da notare per il nostro paese nel quale questo genere di studii comincia solo oggidì a farsi strada.

Nelle fig. 39, 40, 41 presentiamo intanto in piccola scala le piante di tre città italiane e forse le più tipiche in Italia, Venezia, Peschiera e Mantova, quali città che possono annoverarsi fra le lacustri e palustri e di qualcheduna delle quali diremo le conseguenze per tale ubicazione poco elevata sul livello del mare.

3. Città fluviali. - Una parte delle città italiane sono costruite sulle rive di fiumi o sono dai medesimi, suddividendosi anche, attraversate. Le acque dei fiumi di mano in mano che dalle sorgenti scendono a mare si caricano, portano in sospensione materie organiche vegetali ed animali e particelle di terreno. È ovvio che le città attraversate da fiumi quanto più sono vicine alle sorgenti di questi e tanto più vedranno scorrere più limpide le acque, avranno acqua con migliori qualità. Quando la velocità di queste si rallenta, come avviene presso la foce dei fiumi, i corpi in sospensione si depositano, una mota ricca di materie organiche si forma allora - le sostanze organiche nel verno restono coperte dalle acque e non putrefano. Se poi il fiume va soggetto a magre estive, restando scoperti affatto siffatti fatali sedimenti ai fianchi del letto del fiume, circondati dall’umido e dall’aria e riscaldati dai raggi solari, passano in putrefazione e sviluppano gas deleterei.

Di più i fiumi col movimento delle loro acque determinano un movimento dell’atmosfera che viene a contatto colle medesime, di qui la possibilità di trascinar da un paese all’altro un’aria che per qualche ragione, per il fatto dell’uomo o per ragioni locali si fosse resa inficiata. Le nebbie nelle città attraversate da grossi corpi d’acqua, nella stagione invernale vi fanno spesso comparsa; l’umidità dell’atmosfera della città è sempre in ragion diretta dello specchio d’acqua che la attraversa.

4. Forma più vantaggiosa per una città. - Dovendo studiare la pianta di un futuro cenlro devesi aver presente che la pianta più vantaggiosa in linea d’igiene è quella nella quale le abitazioni, i fabbricali pubblici abbiano la maggior distanza fra loro possibile, disposti lungo le vie o strade che sieno percorse da correnti d’aria che agevolino il movimento dell’aria delle strade secondarie che in quelle sboccano. Bisogna che la rete stradale sia ortogonale o quasi in modo che qualunque dei venti cardinali spiri, vi sia sempre richiamo d’aria in tutta la rete stradale.

5. Sistema radiale - Sistema triangolare -Sistema quadrilatero. - Non sono encomiabili quei centri che presentano una pianta nella quale sieno raggruppate in uno spazio, più o meno ristretto, circolare, nel quale le vie sono disposte a raggi partenti dal centro, dove i quartieri centrali sieno soffocati, per modo di dire, da una cintura di quartieri .. perimetrali e dove è ineguale la ventilazione delle strade. - Amsterdam è un semicircolo per citare una città di tale forma; Cittadella in provincia di Padova, ha la forma elittica, tutta cinta di mura con quattro porte alle estremità degli assi, ecc.

Nel sistema triangolare due maggiori vie partono da un centro o piazza mentre un’altra, una terza gran via con le due prime circoscrive uno spazio triangolare, delle vie trasversali le congiungono. È una migliore disposizione inquantoché si può aver un lunghissimo sviluppo della linea perimetrale e quindi una maggior esposizione di fabbricati con uno spazio libero sul davanti.

Rotterdam, per citare un esempio, è un triangolo equilatero.

La forma quadrilatera, a quattro lati, con una rete stradale ortogonale interrotta da piazze è quella che più si presta nei riguardi del soleggiamento dei fabbricati e della ventilazione delle strade. L’Aja, capitale dell’Olanda, è un quadrato; Torino (fig. 42) e Trieste, se non affettano propriamente la forma quadrilatera, hanno però una magnifica rete ortogonale di strade. Rovito, in provincia di Cosenza, è diviso in tre vie come tre raggi, Palmanova,in Friuli, ha la forma di una croce d’onore ; Aranjuez in Spagna ha una rete ortogonale di strade; la città La Valletta nell’isola di Malta, come Torino e Trieste.

6. Città italiane di litorale. - Per l’azione moderatrice del mare - che modera il freddo nel verno ed il caldo nell’estate - ciò che rende più mite il clima delle città marittime, sono preferibili quest’ultime a quelle dell’interno.Però in esse il clima va accompagnato da una continua mobilità nell’atmosfera. Ci sono correnti dal mare alla terra nell’estate e viceversa.

Questa mobilità può essere nociva agli organismi ammalati ma nei sani stimola l’appetito, attua le funzioni di respirazione plastica. Purezza - serenità di cielo - altezza di temperatura media invernale - ricchezza di calorico, di luce - poca frequenza di pioggie - ricchezza di ozono nell’ aria - ecco i pregi delle città marittime. Mentone, Alassio, Nizza, Sanremo, Bordighiera e le altre molte città lungo le coste dell’italica penisola sono già celebri come stazioni di cura, balneari, ecc.

7. Le città di pianura. - Il maggior numero delle città di pianura in Italia l’abbiamo nella vallata del Po, in quella regione che presso a poco da Monfalcone a Cattolica si spinge a sera, fra l’ Appennino e le Alpi, con forma presso a poco triangolare. L’altezza di tale regione sul livello medio dei mari varia da 0 m. a 200 m.

In generale l’aria atmosferica di queste città è meno ricca di ozono - a cui si attribuisce in parte la qualità stimolante dell’aria delle città del litorale - ed è meno ricca quanto più le città sono internate.

Più che dal mare ci allontaniamo e più le variazioni di temperatura sono più grandi.

8. Scelta di una città. - Chi vuole un clima umido, eguale, inverni temperati, notte relativamente calde, deve scegliere una città di litorale. Chi desidera invece un’atmosfera più viva deve scegliere una città molto elevata sul livello del mare.

9. Numero delle piazze - Lunghezza e larghezza delle vie. - Fu ben detto che le piazze funzionano come magazzini di luce e di aria. Quanto è maggior il loro numero in una città e tanto ci guadagna l’igiene della medesima.

La loro ubicazione dovrebbe stabilirsi sul percorso delle strade più importanti delle città, per movimento di persone e veicoli, per lunghezza e larghezza di via. Non devono mancare però, anche se di modeste dimensioni, nei centri d’abitato secondarii.

Bisogna che il numero delle piazze stia in armonia e con la superficie del caseggiato e con la popolazione per chilometro quadrato.

La superficie del caseggiato, trattandosi di un piano ex-novo è facilmente calcolabile; in caso di ampliamento di un centro abitato lo è pure; in caso di uno sventramento lo è anche; qual’è il rapporto tra la superficie del caseggiato e quella delle strade e delle piazze fra il caseggiato? È questo un problema intorno al quale affaticano gli studiosi e che non fu ancor risolto. Bisogna accontentarsi per ora di fare un confronto col numero che ne esiste in altre città in proporzione del numero degli abitanti, per chilometro quadrato.

Seguendo il principio di scender dal generale al particolare, crediamo ora non essere privo d’interesse quello di mostrare come stiamo nei riguardi delle nostre città, rispetto ai principi d’igiene che andiamo sempre premettendo.

Le strade lunghe hanno il vantaggio di favorire le correnti d’aria che mettono in movimento quella delle strade secondarie che nelle principali sboccano. Le strade più lunghe nelle città d’Italia sono:

La Stesicoro-Etnea in Catania lunga m. 2800

Il Corso Vittorio Emanuele in Catania m. 2000

La Via Garibaldi a Messina m. 2000

Il Corso di Torino m. 2500

Sono da menzionare ancora: la strada che attraversa Napoli (fig. 43) da est ad ovest detta lo Spacca-Napoli; il Corso che mette a Piazza Popolo e la Via Nazionale a Roma (fig. 44) ; a Palermo i corsi che formano il quadrivio dei Quattro Cantoni (fig. 45); a Milano (fig. 46) il corso di Porta Romana e via discorrendo.

Larghezza delle strade. - Le maggiori ampiezze di vie, in Italia, le troviamo nelle seguenti città :

Napoli metri 35

Avellino metri 32

Pozzuoli metri 25

Sora metri 24

Castellamare di Stabia metri 21

La larghezza delle strade deve, in generale, essere in rapporto con la loro orientazione, coll’altezza delle case frontiste. Si ammette dagli igienisti altezza case eguale alla larghezza delle strade od al doppio di quest’ultima.

10. Che cosa è una piazza. - Tanto nei tempi antichi che in quelli del medio evo e del rinascimento si ammise sempre la necessità di larghi spazi nell’interno delle città, in rapporto della vita pubblica del paese e dell’importanza dell’ambiente. Riunire in tali spazi le opere più belle, i monumenti, gli edifici più insigni per architettura fu cura dei più vecchi fondatori di città. Si distinsero sempre però gli spazi destinati per monumenti, per edifici architettonici, per edifici pubblici da quelli destinati ai mercati, alla mostra delle merci.

Vediamo nelle vecchie città che quando questi spazi mancarono i templi, gli edifici pubblici si incastrarono nel corpo dei fabbricati, degli isolati, o si eressero nei punti morti delle piazze.

Nelle piazze tutto deve essere armonico: grandezza e forma della piazza in relazione coll’altezza dei fabbricati che circondano la piazza e col punto di vista dell’osservatore.

Forma delle piazze. - La forma più moderna è la rettangolare, però la elittica con gli assi eguali ailati d’un rettangolo fa risparmiar del terreno sì costoso nelle città per il caso di un sventramento.

11. Succinta rivista delle condizioni nei riguardi della forma planimetrica, della orientazione delle strade, del numero delle piazze più importanti e dei corsi d’acqua, di 87 città italiane. - Presentiamo una breve nota, desunta e da conoscenza di molte città d’Italia e dalla ispezione delle più recenti carte topografiche delle medesime, e da notizie desunte da pubblicazioni locali, dello stato in cui si trovano 84 città italiane rispetto alla forma, all’orientazione delle vie, al numero delle piazze più importanti, ai corsi d’acqua che le attraversano per tirarne poi una qualche conclusione.

Interessa avvertire il benevolo lettore che nei riguardi di designare la forma delle varie città ci siamo attenuti a quella forma che più approssimatamente le varie città affettano; così pure nel determinare la orientazione delle strade abbiamo esaminate le strade nel loro complesso, nella loro maggioranza per le orientazioni segnate nella rivista, tanto da poter dare un’idea dell’orientazione in generale. (Vedi tabelle alle seguenti pagine 194 a 202).

Conclusione della rivista. - Le conclusioni alle quali ci conduce la rivista ora esposta sono:

I. che pochissime sono le città italiane, delle quali ci siamo occupati, che presentino nettamente una forma geometrica regolare sia essa rettangolare, triangolare, radiale; nella maggior parte delle città italiane predomina l° la forma polilatera, (figura chiusa a più lati, irregolare); 2° la forma quadrilatera irregolare (non rettangolo, non quadrato, non trapezio, ecc.) 3° la forma triangolare irregolare (approssimantesi alla forma triangolare) ; 4° la forma di un pentagono irregolare (zona di terreno racchiusa o da potersi racchiudere da 5 lati); 5° la forma avvicinantesi alla forma esagonale; 7° la forma rettangolare irregolare (zona di terreno da 4 lati, a due a due presso a poco eguali ed incontrantisi ad ogni angolo retto; 8° la forma elittica, ottagona, dodecagona.

II. Che in quasi tutte le città citate le strade non sono esattamente orientate col meridiano e col parallelo astronomico ; predomina le orientazioni NE-SO; SO-NE.

III. Che il numero delle piazze ha un massimo nel numero di 34 a Napoli per scendere a 31 a Milano e che vi sono n. 7 città che hanno piazze dal n. 30 al n. 20; che vi sono n.5 città che contano da 10 a 20 piazze; tutte le altre città hanno un numero inferiore di piazze al n. 10.

IV. Che la forma delle piazze è svariata: essa varia dalla forma circolare alla semicircolare, elittica, quadrata, rettangolare, triangolare, quadrilatera, polilatera, con prevalenza però la forma rettangolare.

V. Che quasi la metà delle città indicate sono o attraversate da corsi d’acqua o collocate sulle rive di fiumi.

VI. Che la maggior parte delle città indicate sono chiuse da mura di cinta, da fortificazioni.

12. Altre note sulle città indicate. - Da rilievi, informazioni risulta che la larghezza delle strade, in generale, nelle città del mezzodì è minore di quella delle città del settentrione, trovando ragione questo fatto forse nel desiderio d’aver nei paesi del nord più sole, più luce; nei paesi del sud più ombra, l’ombra projettata da fabbricati che procura un fresco delizioso, che allontana il disseccamento delle materie pulverulenti del suolo stradale, ma però con incomoda circolazione dei carri e dei pedoni e con difficoltà di aerazione.

Una seconda nota la si ha sull’altezza dei fabbricali in generale che nei paesi meridionali si trova minore che nei paesi settentrionali, forse ciò sta in ragione della poca larghezza delle strade e del di verso clima.

13. Utilità dei centri aperti. - Ai centri abitati, chiusi da cinta di mura, sono sempre preferibili i centri aperti perchè in questi più facilmente si fa sentire l’influenza salutare dei venti destinali a rinnovare l’atmosfera miasmatica della città; perchè in questi più facilmente fa sentire la sua influenza la luce solare che corregge l’umidità e stimola la vita. Di più nei centri abitali non chiusi da cinta di mura, coll’aumento della popolazione si ha il vantaggio di non avere fabbricati di grande altezza: quanto meno è disponibile area fabbricabile in una città e tanto più si ha un aumento di altezza nei fabbricati.

La speculazione, coi prezzi elevatissimi dei terreni fabbricabili, si rivale coll’altezza dei fabbricati.

14. Il numero delle case. - Una città è composta di un certo numero di abitazioni private e di edifici destinati ad liso collettivo.

La salubrità di una città intiera è data dalla salubrità di tutte le abitazioni private e delle strade.

Conoscere il numero degli abitanti che andranno a popolare un dato centro d’abitazioni in progetto, in ispecie se non debba essere cinto da mura, non è possibile allo studioso di determinare, certo che il numero delle case deve essere in proporzione del numero degli abitanti e delle aperture o fori nelle case (finestre e porte). Un edificio ad uso abitazione non deve contenere più di un abitante per ogni 10 metri quadrali di superficie coperta e lo spazio scoperto tra le case non deve essere minore della quarta parte della superficie delle facciate dei muri che lo ricingono; ogni stanza almeno deve avere almeno otto metri quadrati di superficie e 25 m3 di volume per ogni persona che l’occupa. Il numero degli abitanti di una casa non dovrebbe essere mai il doppio del numero delle stanze.

Certo che per la ventilazione naturale e per la illuminazione naturale sono preferibili le case dalle maggiori aperture.

15. L’indice della salubrità di un paese. - È dato dalla somma di tutte le abitazioni private e di tutte le strade e piazze. Per stabilire tale indice è necessario adunque di esaminare le abitazioni in rapporto a tutto ciò che contengono, a tutto ciò che le circonda.

La relazione fra le case ed il numero degli abitanti è da noi tosto studiata al n. 16; le relazioni fra le case e le strade; fra le case, i venti dominanti ed il sole; fra le case, il suolo ed il sottosuolo sono da noi toccate ai capitoli Suolo e Strade.

16. Densità della popolazione. - Non occorrono per il benevolo lettore dimostrazioni per provare che per l’addensamento di popolazione e per l’inficiamento del suolo vi ha alterazione nella composizione dell’aria.

È noto a tutti che la mortalità nelle campagne è minore che nelle città, ciò è dovuto al fatto della minor densità della popolazione campagnuola in confronto di quella cittadina.

Se noi poi consideriamo la mortalità di una intiera nazione e quella delle città capitali troviamo maggiore mortalità in quest’ultime come quelle nelle quali l’addensamento della popolazione è maggiore di quello dell’intera nazione.

Naturalmente la mortalità varia, dato pure il medesimo addensamento di popolazione per più centri, a seconda delle condizioni di clima, d’igiene, di giacitura.

La media annuale mortalità poi è ancora in rapporto col numero degli abitanti delle case.

Adunque la maggiore mortalità nelle città deve dipendere e dipende principalmente dalla alterazione dell’aria da parte dell’uomo. L’uomo, a mezzo della perspirazione polmonale e la traspirazione cutanea manda nell’aria una sostanza animale sciolta in vapore acqueo. Che sia questa sostanza non indaghiamo, sappiamo certamente che la constatiamo in un odor speciale che ci viene dato di sentire nei locali a lungo chiusi, nei dormitori ecc. È questo quello che si chiama il miasma umano. A questo va aggiunto, come altra causa d’inficiamento dell’aria, il miasma putrido dovuto alla quantità ed all’azione delle sostanze gasose o gas prodotti dalla decomposizione delle sostanze organiche prive di vita, che introdotte nell’organismo umano, producono, in certa dose, la morte. Il contagio e l’epidemia non v’ha chi nol veda come maggiori debbano essere nei centri maggiormente abitati.

Ma questi non si possono distruggere, né si può costringere l’uomo al suo completo isolamento perchè, dato ciò, l’uomo andrebbe incontro a tanti disagi che gli produrrebbero maggiori danni di quelli che a lui potrebbe arrecare lo addensamento di popolazione.

Né ci pare che la civiltà possa cedere tanto all’igiene da poter aver città estesissime, per superficie fabbricabile o come altri dicono fabbricata, con poca popolazione, e tutto per evitare un forte addensamento di popolazione. Ma allora non sarebbe più possibile l’impianto di certe industrie, che esigono la mano d’opera di migliaja e migliaja di operaj, che non possono trovarsi altro che nelle grandi città.

Possono i civici amministratori opporsi alla formazione dei grandi centri abitati? Non lo si crede, è come limitare la libertà di associazione, della quale solamente possono essere regolatori.

L’igiene non potendo combattere nella sua origine l’addensamento della popolazione, deve solo curarne i suoi particolari: la lunghezza, la larghezza delle strade, l’altezza delle case, ecc.

La poca densità della popolazione poi ha con sé delle conseguenze che hanno un certo peso.

Una città con popolazione poco densa e con una superficie estesa fabbricabile porta con sé che quanto meno abitanti ha per chilometro quadrato, tanto minore sarà l’introito delle imposte da essi ritraibile, restando medesime le spese per i servizi municipali (manutenzione delle strade, illuminazione, ecc.). Quanto meno densa è poi la popolazione e di tanto è arrestata l’altezza dei fabbricati: veggasi ciò che avviene nelle grandi città, nelle quali l’area fabbricabile è salita a prezzi elevatissimi e per il qual fatto lo speculatore si rifà coll’altezza dei fabbricati, erigendo elevatissime case.

Da tutto quanto abbiamo esposto, devesi dedurre che nel considerare la densità di popolazione si deve tener presente più il numero medio dei piani delle case, il volume d’aria assegnato in esse ad ogni individuo che alla superficie della città.

Devesi ritenere come media densità della popolazione delle principali città d’Italia, quella di 57.000 abitanti per chilometro quadrato trovando la media del numero dei piani delle case che non vorrebbesi oltre al n. 4, si trova il numero degli abitanti per piano e per chilometro quadrato: da qui l’area coperta occupata da ogni abitante, il volume dell’aria di cui può disporre, ecc.

17. Piani regolatori. - Un piano regolatore di una città può riflettere il presente od il futuro della medesima.

La sistemazione di una città da farsi in breve tempo e per ragioni igieniche, esige quello che si chiama piano di sventramento; se tale sistemazione deve farsi entro il periodo di 25 anni, domanda allora quello che dicesi piano regolatore.

La coordinazione e l’aggiustamento della città futura si fanno mercé piani diampliamento.

Ciò premesso, a seconda si tratti di lavori inerenti a piani regolatori, a piani di sventramento è da farsi un’importante osservazione circa la precedenza dei varii lavori. Egli è evidente che sono opere d’interesse generale quelle relative alle acque, alla fognatura delle quali nessun quartiere di una città può mancare; che sono opere d’interesse locale quelle determinate dalle coperture stradali, dai quartieri. Trattandosi di risanare un dato centro abitato è logico di dover far precedere le opere d’interesse generale come quelle anche che occupano il sottosuolo della città e poi pensare alla sistemazione stradale. Nei riguardi della sistemazione dei quartieri necessita ugualmente se dipenda da piani regolatori, che abbia precedenza l’esecuzione delle opere di interesse generale.

Se si trattasse poi di opere di sventramento, è necessario prima procedere all’abbattimento dei fabbricati, all’apertura delle nuove strade e poscia ai servizi del sottosuolo, perchè tale abbattimento è un efficace risanatore, portando luce ed aria e procedendo con più celerità delle opere riflettenti le acque e la fognatura.

18. La. circonvallazione. - Ho esaminato più progetti di ampliamento di centri abitati ed il più delle volte ho trovato che, nei riguardi dell’espropriazione dei terreni e dei fabbricati da demolirsi, l’espropriazione e la demolizione si fermano alla sola zona nella quale dovevano svilupparsi le nuove strade e le piazze. Ci pare che tale limitazione sia nocevole tanto dal lato igienico che estetico. Chiusi i vecchi fabbricati dalle nuove fabbriche sorgenti al lembo delle nuove strade periferiche dei centri abitati, continueranno detti fabbricati - se vecchi abituri - ad essere un centro d’infezione chiuso entro una bella e nuova cinta di fabbricati - adunque vantaggio non c’è dal lato igienico.

Coll’apertura di nuove strade, col taglio più o meno obbliquo dei vecchi fabbricati, avremo nella parte centrale degli informi fabbricati per pianta irregolarissima, per piccolissime dimensioni, per prospetti di pochi metri, che per la loro scomparsa ci vuoI il soccorso di molti e molti anni.

Espropriando in massa invece, oltre la zona nella quale devono innalzarsi i nuovi quartieri - si può giungere a svellere fino dalle radici il male igienico - l’espropriazione sarà più costosa, è vero, ma dopo l’apertura di nuove strade però il terreno fabbricabile acquista un maggior valore, che data una vendita, compensa l’importo delle demolizioni.

Nei quartieri poveri poi essendo generalmente più ricchi di stradelle, avviene che col loro abbattimento una gran parte dell’area stradale diviene area fabbricabile, diviene quindi una sorgente nuova di compensi.

19. I quartieri operaj. - La salute è la vita del lavoratore non solo ma di tutti gli esseri viventi, la conservazione della quale è dovuta in sommo grado alla salubrità della casa dove si passa in gran parte la nostra vita. Il secolo nostro umanitario non poteva restar indifferente al miglioramento delle classi operaje fin qui trascurate e governo e municipii e società infatti si sono interessate e s’interessano onde creare abitazioni salubri ed a buon prezzo per gli operai. Io qui non vi vengo a parlare né del miglior tipo di case economiche, né del loro aggruppamento, rimando il lettore per quanto sopra ad altro capitolo. Solo mi preme far osservare come nello studio d’ampliamento di centri abitali ci venne dato di osservare ripetuto un errore che giova con tutte le forze combattere.

L’errore consiste nell’accentramento in un solo grande abitato od in varii grandi isolati, della classe operaja.

In tali accentramenti egli è certo che, oltre le malattie, regna l’immoralità che non può essere repressa mancando gli esempi, il contatto colle classi più educate. Qualcheduno obbietterà che i grandi fabbricati vengono a costare meno in rapporto all’area: ma allora si fa questione di speculazione nella fabbricazione di case operaje, ciò che non deve essere. Per aver terreno a buon mercato è sempre da consigliarsi la campagna, i dintorni della città e per adottare, in luogo dei grandi fabbricati, le piccole abitazioni con qualche vantaggio economico, si può ricorrere alla riduzione dello spessore dei muri, senza però nocumento della solidità dei medesimi, e della loro funzione in linea d’igiene nei riguardi della trasmissione del calore, dell’azione meccanica dei venti, ecc.

Perché la costruzione delle case operaje viene ostacolata. - Da parte dei privati proprietari viene ostacolata:

1° Dalla poca attrazione di impegnare i propri capitali dal 4,5 al 5 %, come si dovrebbero, per poter stabilire un interesse piccolo;

2° Dagli sventramenti praticati nelle grandi città per i quali - senza prima aver provveduto di abitazioni per la classe meno agiata - le aree disponibili per la costruzione di case operaje vanno a confinarsi alle parti periferiche delle città per cui, date le distanze dal centro di queste, viene offerto un fitto sempre minore in ragione delle distanze;

3° L’accenno sempre crescente di un aumento di prezzo di questi terreni alla periferia delle grandi città;

4° Le prescrizioni dei regolamenti locali d’igiene non tutte le volte inspirate a conciliare l’utile - in linea d’igiene - con l’economia - tante volte essendo ispirate a vedute troppo teoriche;

5° L’ aumento dei prezzi dei materiali e della mano d’opera;

6° La noja delle esazioni degli affitti, a rate settimanali ormai che si vanno richiedendo dagli operaj,

20. Legislazione sociale a favore di buone abitazioni. Concorso dello Stato, dei comuni, degli istituti di previdenza, di beneficenza, delle industrie, di associazioni della beneficenza privata. - Da più di un secolo i governi dei paesi più civili cominciarono a prender a cuore la costruzione delle case operaje.

Infatti in Francia si ebbe un primo embrione di leggi sulle abitazioni operaje nel 1790, ma fu solo nel 1831 è più specialmente nel 1849 che Napoleone III imperatore dei Francesi, allora solo presidente della Repubblica francese, che diede il suo nome alla prima città operaja.

Nel 1852 stanziò con un suo decreto 10 milioni di lire per migliorare le case degli operaj.

Nell’Inghilterra fino dal 1838, s’incominciò a studiare la questione e nel 1844 si fondò, auspice la Regina, la Società per il miglioramento della classe operaja; nel 1845 con capitale di 2 milioni e mezzo si costituì l’associazione metropolitana per il miglioramento delle abitazioni delle classi industriali.

Nel 1848 si conferì alle autorità il potere di far eseguire i miglioramenti alle case con rivalsa sul proprietario.

Nel 1875 si aggiunse la facoltà di impedire l’uso di una abitazione riconosciuta dannosa.

L’Italia vi provvide colla legge sulla tutela della sanità pubblica nell’anno 1888.

Nel Belgio una legge del 1822 concede esenzione di contribuzioni alle abitazioni dei più poveri purché vengano migliorate.

Nel 1838 altra legge si occupa pure di case; nel 1848 una legge concede 2 milioni da spendersi per il bene della classe operaja; nel 1849 si apre un concorso per un progetto di abitazioni per operaj.

L’act 28 giugno 1871 in Inghilterra permette alle autorità di costruire esse stesse le case operaje a mezzo di prestito tratto sopra terreno di immobili insalubri espropriati o demoliti o di affittare tali terreni coll’obbligo di costruire case sane a buon mercato.

In Francia con legge 30 nov. 1894 si esonera dalle prediali per 5 anni i fabbricati, da dispensa dalle tasse di registro la costituzione delle associazioni ad hoc, si autorizzano le casse dei depositi e prestiti ad impiegare fino ad 1/5 del loro patrimonio per ogni abitazione costrutta.

I comuni concorsero essi pure in tale gara in Francia con dar premi alle Società edificatrici per ogni abitazione costrutta ; nel Belgio sottoscrivendo azioni e facendo prestiti; in Italia idem; in Inghilterra comperando case vecchie, demolendole, ricostruendone di sane; idem in Germania.

Concorsero gli istituti di previdenza e di beneficenza negli Stati Uniti d’America, nell’Austria, nella Francia, nell’Italia. Così pure i proprietarii delle grandi industrie francesi, inglesi, belghe, olandesi, tedesche, russe, svizzere e italiane. Le associazioni cooperative e filantropiche nei precitati paesi non mancarono; in una colla beneficenza privata di venir in aiuto nella santa opera di procurare un alloggio sano alla classe lavoratrice.

Vedremo ad altro capitolo sulle case economiche a caserma, sui familisteri, sui tipi collettivi, sulla città operaia di Mulhouse, di Menier, sulle città a case operaje individuali, sui borghi operaj, ecc.

21. Genesi dell’endemia tifica a Venezia ed a Mantova. - Bisogna farsi un’idea esatta del come proceda la bisogna nei riguardi dei sistemi di fognatura così pubblici che privati e studiare sopratutto di conoscere i rapporti di questi sistemi col sottosuolo per poter spiegare l’influenza delle febbri tifoidee che da anni regnano a Venezia ed a Mantova.

Dai brevi cenni che seguono e che sono dedotti da studi superlocali e da pubblicazioni di studi fatte in varie circostanze, onde poter concretare un piano di risanamento delle due città, si vedrà come stretto sia il legame fra i sistemi di fognatura e la natura del soprasuolo, del sottosuolo, i movimenti dell’acqua freatica e come vi sia il caso di dover adottare la fognatura statica che è soggetta a tanti appunti, in luogo della fognatura dinamica.

Né credesi fuor di luogo accennare, come causa generale atta a promuovere lo sviluppo dell’endemia tifica, i lavori nel sottosuolo che in molte città si fanno. Valga il fatto di Venezia per la costruzione del suo acquedotto. In 38.000 metri di tubulazione nell’interno della città, furono innumerevoli le difficoltà tecniche incontrate; stante le peculiari condizioni del suo sottosuolo si dovette mettere allo scoperto talvolta per qualche settimana delle cloache ripiene di materie fecali, provenienti da cessi privati e mettere eziandio sottosopra il terreno circostante, cangiato in fetidissimo letame. In tali manomissioni sarebbe un errore ammettere una delle tante cause atte a promuovere lo sviluppo dell’endemia tifica?

Venezia. - Questa città fabbricata sopra circa 70 isolette, divise da due maggiori e 147 minori canali e riunite da 306 ponti, presenta l’aspetto di una città galleggiante.

Essa è congiunta alla terraferma con un ponte, meraviglia d’arte, che partendo dall’isola di S. Lucia in punta della Sacca (deposito di muriccia) di questo nome arriva alla barena (fondo della laguna che rimane allo scoperto durante la bassa marea) di S. Giuliano, ove incomincia la strada ferrata. Questo ponte misura la lunghezza di 3.600 metri ed è costituito da 222 archi: per la sua costruzione, che costò sei milioni di austriache furono impiegati e costrutti :

Pali di larice per le fondazioni, 80.000

Grigliato, m2 10.000

Escavazione di terra, m3 30.000

Muratura a pietra perduta, m3 7.000

Terrapienamento, m3 30.000

Ferramenta, kg. 110.000

Turre, metri lineari 8.000

Mattoni cotti, milioni 21.000

Pietra d’ Istria, m3 5.000

In questa incantevole città numerosi sono i campi (piazze), i campielli (piazzette), le corti, solo riservando a quella di S. Marco per antonomasia il nome di piazza. Numerose e variamente orientate sono le calli (strade), le callette (stradicciuole), le salizzade che la suddividono; non mancano però dei bellissimi e larghi corsi; delle lunghe passeggiate a mare (rive, le fondamenta). Tutte le abitazioni e stabilimenti pubblici che sorgono lungo i rivi e canali, meno forse qualche eccezione, immettono in quei rivi e canali le dejezioni umane e le acque immonde delle cucine.

Dato pure un correttivo nell’acqua marina è pur vero che la quantità di materia immessavi ed il moto lento dell’acqua di riflusso non possono che dar luogo ad un inquinamento dell’acqua stessa e ad un innalzamento del fondo dei canali e dei rivi. Una prova la si ha di questo inconveniente nel periodo di bassa marea (quando questa scenda al di sotto di m. 1.00) quando si percorrono i varii rivi, là dove i condotti verticali dei cessi hanno le loro sboccature, si vede il fondo notevolmente elevato e persino ostruita in parte la sboccatura.

Scendendo la bassa marea al di sotto del limite suaccennato; in tutti gli alvei si vede una spiaggia saliente dal mezzo di essi che va ad appoggiarsi alle fabbriche.

Tutte le altre abitazioni non sorgenti lungo i rivi e canali hanno in piccolissimo numero cloache proprie; il numero maggiore immette le dejezioni e le acque immonde, mediante condotte verticali, in collettori che corrono lungo le calli e che si chiamano Conduttori comunali. Questi conduttori sono murati a calce comune, senza alcun intonaco, non a tenuta di gas né manco di liquido; sono sempre ingombri di materia per cui è necessario, ogni tanti anni, procedere al loro espurgo, all’esporto di materia indurita, l’acqua inquinata avendo trapelato dai muretti e dalla platea ad infettare il terreno sottoposto e circostante.

Questo espurgo dà luogo a sviluppo a gas svolgentisi dalle materie fecali raccolte. Le bussole (caditoje, chiusini ecc.) per le quali scorre l’acqua dalle vie al conduttore permettono continuamente che le esalazioni si spandano nell’aria. Le cloache private sono della medesima costruzione ed ammorbano l’aria dei locali terreni ed anco superiori: l’infezione quindi resta anche dopo espurgata la fossa.

Sono circa 13.600 le abitazioni che immettono le dejezioni umane e le acque luride nei condotti comunali che percorrono 97 chilometri di calli, dove è possibile ammetterne l’esistenza; non meno di 2.400 le immettono nei canali che misurano circa 36 chilometri e solo circa un migliaio in cloache private.

Vi sono circa 537 pisciatoj inoltre che immettono le feccie liquide, nella minima parte nei rivi e canali; nella massima nei condotti sotterranei.

Acqua di flusso e riflusso. - L’acqua di flusso e di riflusso scorre sul fondo della laguna, dei rivi e dei canali ma sopra uno strato di acque che rimane anche dopo cessato il riflusso. A questo strato è comunicata una parte sola del moto delle acque, che diminuisce però in rapporto alla profondità delle acque, le maree sono poco elevate, la velocità quasi o forse del tutto si estingue il più delle volte presso il fondo.

Velocità della marea. - La marea ha una velocità in laguna di 1 metro per 1” ed anche meno e non supera questo limite se non nell’alta marea, accidentata per venti.

Velocità nei canali, nei rivi. - L’acqua entrando nel Canal Grande e nei rivi perde man mano del suo moto. Abbiamo infatti :

Marea in laguna. Velocità superficiale m. 0.80 al l"

Marea in Canal Grande. Velocità superficiale m. 0,40 al 1"

Marea nei rivi. Velocità superficiale m. 0,20 e meno

Ne conseguita che al fondo non si ha tanta forza da far ruzzolare leggiere molecole di materia qualunque. Lo prova il fatto che l’acqua della marea è limpida mentre dovrebbe essere torbida e nerastra. Ogni 30-40 anni poi occorre espurgare i rivi fino alla profondità di 2 metri sotto la comune alta marea.

Esistenza dell’ammoniaca. - Da tale materia che si deve di tratto in tratto, a lunga scadenza, scavare è chiaro che debbano svilupparsi ammoniaca, gas acido solfidrico, l’odore di ammoniaca a Venezia è facilmente avvertibile a bassa marea lungo i canali; nelle case è comune l’annerimento degli oggetti d’argento. Ma la prova più manifesta della presenza dell’ammoniaca nel suolo si è che i tubi del gas hanno in Venezia una durata minore che nelle altre città d’Italia; l’ammoniaca li intacca.

La fognatura nera stradale a Venezia. - La fognatura bianca. - Le acque pluviali delle strade, delle piazze, s’immettono nei collettori a mezzo delle bussole (caditoje, musine) s’inquinano ed attraversano la platea ed i muri dei collettori, platea e muri in muratura a calce comune e senza intonaco. Questi conduttori a brevi intervalli devono essere espurgati giacché le materie portate dalle acque pluviali vi si arrestano causa anche una deficienza di pendenza, si fanno più compatte nullostante le acque pluviali che di tratto in tratto vi scolano dentro. Queste e le acque di flusso che vi entrano due volte al giorno in quella quantità che loro permette l’altezza nei collettori delle materie, non giungono a spingerle nei rivi e le materie si dispongono a scarpa dall’interno allo sbocco.

Le acque di pioggia delle doccie che entrano per le bussole nei collettori perdono ogni loro velocità. Quelle che cadono dalle doccie delle case a mezzo di tubi verticali, nei collettori possono sommuovere alquanto le materie e ridurle allo stato di poltiglia allo sbocco dei tubi verticali, ma dette materie là ristagnano e filtrano attraverso la platea e muri dei collettori; Le acque dai rivi e canali entrano con la velocità con la quale scorrono nei rivi; poco sciolgono delle materie compatte, ristagnano finché il flusso dura e per il riflusso tornano più inquinate e più pesanti dell’acqua dei rivi e canali.

Collettore Via Garibaldi. - Il collettore di Via Garibaldi, costrutto coll’intendimento di conservare in comunicazione delle acque fra il rivo di S. Anna e la laguna è uno dei più grandi di Venezia. Esso ha una larghezza di circa 5 metri e la sua profondità dall’intradosso della volta che lo copre alla platea è circa 3 metri. Nullostante questa capacità è d’uopo procedere al suo spurgo ogni 30 anni. Gli sbocchi in laguna e nel rivo di S. Anna si trovarono sempre per metà ostruiti, nessun movimento di acque effettuandosi tra la Laguna ed il rivo e viceversa. La materia spinta dalle acque pluviali a mezzo delle bussole, dai tetti fu sempre trovata distesa nel condotto o collettore, elevandosi fino ad ostruire le sboccature dei cessi delle case. Ciò mostra che se un collettore di tanta ampiezza non ha potuto conservare il moto alterno dell’acqua di marea e si è ostruito tanto da doverlo espurgare, più non può cader dubbio sull’inefficacia dell’acqua di riflusso a scaricare i condotti minori che corrono sotto le calli.

Da quanto abbIamo sommariamente esposto sulla fognatura. della città di Venezia allo stato presente devesi conchiudere per questa città quanto non si dovrebbe conchiudere per le città di terraferma e cioè:

1°che non potendosi disporre di una grande massa d’acqua dotata di grande velocità si da cacciare lontano le materie dai collettori generali, questi dovrebbero essere eliminati.

2° che sopprimendo le cloache, conservando ed aumentando anche i collettori generali non sarebbe possibile asportare da essi con mezzi pneumatici le materie, sia per la lunghezza dei conduttori sia per la compattezza delle materie.

3° che sono da escludersi le fogne mobili per il numero loro straordinario, per il servizio del loro trasporto a distanze grandissime, alla terraferma, per la loro vuotatura, ecc.

4° che è il caso per Venezia di studiare cloache a tenute di liquido e di gas.

La città di Mantova. - Mantova giace in una posizione assai depressa, il punto più elevato di essa trovandosi alla quota 25,71 ed il più depresso alla quota di m. 19,33 sul livello del mare. La città è circondata ad Est-Ovest e Nord dai Laghi Superiore, di Mezzo ed Inferiore formati dal fiume Mincio; è cinta a mezzodì dalle fosse militari, dalle valli denominate Valsecchi e di Pajolo. Il bacino determinato dalle fosse militari, e dalla Valletta Valsecchi serve a raccogliere le acque di piena del canale Rio, che attraversa la città, derivando l’acqua dal Lago Superiore convogliandola in quello Inferiore. Quando la fortezza di Mantova viene posta in istato di difesa, tanto le fosse militare e la Valletta, quanto la Valle di Pajolo vengono completamente allagate; con acqua che si deriva a mezzo di due chiaviche aperte in fregio al Lago Superiore.

Un tempo la città andava soggetta all’allagamento per effetto delle piene del Lago Superiore combinate con quelle del Mincio le cui acque vengono rigurgitate da quelle del Po quando questo è in piena: oggi, mediante opportune difese, detti allagamenti non avvengono più.

Queste infelici condizioni idrauliche non permisero finora di attuare a Mantova una fognatura a scarico naturale per mancanza di un bacino che permettesse la libera e costante sfociatura del liquame. Esiste una rete di tombini stradali destinati allo scolo delle acque meteoriche ma è incompleta sempre in causa delle accennate deplorevoli sue condizioni idrauliche.

La fognatura domestica è costituita da fogne nere ma ancora, nullostante i regolamenti municipali, in tale stato da inquinare le acque dei pozzi ordinari, in ispecialità in causa delle sensibili oscillazioni del pelo freatico dovute alle forti variazioni di livello dei laghi circostanti. La poca elevazione sul livello del mare della città di Mantova, posta fra tre laghi non sempre a livello costante ed attraversata da un canale pure soggetto a frequenti oscillazioni di livelli delle sue acque, la natura del sottosuolo assai poroso, la falda d’acqua sotterranea poco profonda, facile pur essa alle oscillazioni di livello; le acque stagnanti nei fossati che circondano le fortificazioni attorno alla città, il letto limaccioso dei laghi che resta in buona parte scoperto nei periodi di magra estiva nel Mincio, sono altrettante cause atte a favorire lo sviluppo della malaria a Mantova come di fatto vi domina. Il sottosuolo di Mantova ricoperto di un grosso strato superficiale, humus, è formato da terreno di riporto e da strati profondi di sabbia completamente permeabili, soggetti a sensibili e frequenti oscillazioni del livello della falda acquifera, onde si ha un sottosuolo umido nel quale, dato che penetrino germi morbosi, essi trovano condizioni più che favorevoli per svilupparsi.

22. L’estetica e l’igiene.- Piazze. -Nei secoli scorsi ed ancor oggidì in molte città le maggiori e più centrali piazze hanno servito e servono da gran mercati. Nelle città moderne però ed in quelle antiche che si vogliono adattare alle esigenze della vita moderna non ha più importanza questo mercato centrale, di qui questa minor necessità porta con sé che la circolazione, le strade non hanno più tante esigenze centralizzatrici, non convergono al centro della città, al gran mercato come in tante città dei paesi nordici dove troviamo in questo centro il centro municipale, il municipio, gli uffici, ecc. Oggi se si apre una piazza è ben con altri intendimenti che la si apre. La si apre per mettere in vista un monumento, un palazzo, una chiesa; oppure la si apre, la si allarga per dar un po’ di ristoro a qualche quartiere della città. In ciò l’estetica viene in aiuto all’igiene urbana, la quale considera i larghi e lepiazze come magazzini di aria e di luce nei quali viene a mescolarsi l’aria percorrente le strade che nelle piazze sboccano. È per questa ragione che essa igiene suggerisce caldamente la costruzione di mercati coperti in luoghi adatti, in più punti delle città dove per di più la vigilanza igienica sulle derrate, sugli erbaggi, sulle carni può essere ed è più accurata da parte dei vigili addetti agli uffici municipali d’igiene.

Una grande piazza infine si spiega quando sia su un crocevia di grandi arterie perchè serve ad agevolare la circolazione: una piazza che non ha un fine pratico è triste, è deserta.

Strade -La lunghezza delle strade. "- Abbiamo detto al capitolo Strade che la lunghezza delle strade non interessa l’igiene, interessa invece questa la larghezza. Qualora però questa lunghezza fosse eccessiva presenta più inconvenienti, in ispecialità per le strade diritte, per i rettifili: che esse strade si perdono nella nebbia se troppo lunghe; che si rendono nojose a guardare perché le facciate delle case si confondono in una prospettiva fuggente; che sono faticose a percorrere.

Bisogna distinguere le vie da passeggio da quelle per la circolazione.

Delle prime non ci occupiamo, per le seconde diremo che nelle città moderne si domanda che sieno larghe tanto che vi possano passare i trams che congiungano le stazioni ferroviarie con i varii quartieri delle città.

In dette strade si richiedono dalle esigenze della vita moderna che si debbano trovare chioschi da giornali, stazioni di trams, colonne per avvisi, vespasiani, avvisatori di incendi, lampioni per la illuminazione, cassette postali, ecc.

Nello sventramento di una città non si esiti poi dal deviare dalla inflessibile linea retta quando si tratti che deve venir rispettato un edificio venerabile od un palazzo antico.

La pianta a reticolato di una città se nei riguardi dell’igiene, data una buona orientazione stradale, non merita appunto alcuno, per l’estetica lascia desiderare. I quartieri moderni col loro aspetto geometrico, con le loro vie che tagliano ad angolo retto dei gran blocchi rettangolari, sono monotoni: hanno il carattere di una cristallizzazione artificiale arida e matematica.

Icavi aerei. - Per i grandi viali, per le vie e per le piazze pittoresche, è propriamente da interdire il sistema dei cavi aerei come bisogna sotterrare l’apparecchio di trazione dei trams elettrici, come si fa a Bruxelles, come a Milano per i fili, credo, telefonici, in piazza del Duomo.

Edifici pubblici e privati: - È stato ben detto che l’architettura deve essere il vivo riflesso della civiltà in mezzo alla quale si svolge: che dire adunque di certi edifici esotici, per modo di dire, con stili improntati ad altre razze che possono avere altri bisogni, altri ideali?

Bisogna adattare i moti vi tolti dall’architettura nazionale ai fini dell’edificio e non si crea di proposito deliberato un nuovo stile - gli stili architettonici sono sorti lentamente, conformandosi alle esigenze del materiale, degli usi e del clima.

Le Chiese. - Diremo al capitolo Templi e chiese perchè l’igienista amerebbe vederle isolate non incastrate nell’abitato, non circondate da strette strade.

Qui torna acconcio far una distinzione perchè sia giustificato quanto si trova nel precitato capitolo.

Distinguo le chiese dallo stile settentrionale, gotico, da quelle di stile classico, preferito dalla razza latina.

Le chiese gotiche perdono il loro carattere di slancio verticale quando restano isolate o si mostrano troppo di lontano. Se il monumento apparisce troppo di lontano crescendo a poco a poco, lo spettatore lo coglie con l’occhio insensibilmente e l’effetto di emozione non si otterrebbe più.

Gli edifici di stile classico, per contrario, richiedono una vista più aperta perchè si dispongono orizzontalmente e le loro dimensioni simmetriche o per meglio dire euritmiche si gustano meglio da lontano. Isolare però, in generale, un colosso è un rimpicciolirlo.

Alcuni mesi or sono, in occasione della inaugurazione della Mostra permanente di attività comunale, recentemente organizzata dal Comune di Milano, si accennò da taluno alla opportunità di creare presso gli Istituti di Istruzione Superiore ed Universitaria milanesi un centro di studi urbanistici, inteso all’esame metodico e razionale ed alla volgarizzazione di quel sempre più complesso insieme di materie che riguardano la conoscenza del fenomeno “città”, il suo sviluppo, la sua estetica, la sua organizzazione amministrativa, economica, sociale.

La “città” è un vero e proprio organismo vivente, e dell’organismo vivente ha le leggi ed i bisogni.

Sullo studio delle leggi della vita umana si formano la dottrina e la pratica del medico - che non sia un puro empirico – sullo studio metodico dei fenomeni della vita urbana devono formarsi i tecnici dell’urbanismo.

Ciò ha tanto maggiore importanza in questo momento che è, per certi aspetti, una “età critica” nello sviluppo delle nostre città, età per la quale più attenta si richiede l’opera del medico, più profonda la sua cultura.

L’organismo da studiare non è semplice; gli elementi materiali non sono in esso scindibili da quelli sociali: le funzioni economiche e sociali comandano gli organi.

Da taluni il problema urbanistico viene troppo unilateralmente circoscritto al campo della sistemazione e dell’estetica cittadina. Esso ha invece una portata ben più generale per chi vi veda lo studio nel passato di tutti i fenomeni e la ricerca per l’avvenire di tutti i progressi che risultano, o possono risultare, dalla costituzione delle agglomerazioni umane.

Se nell’ultimo secolo l’urbanizzazione ad oltranza - provocata dallo sviluppo prodigioso dell’industria - ha concentrato l’attenzione sulla necessità di un migliore ordinamento tecnico delle città, non ne risulta per altro che la nostra attenzione debba distogliersi da tutti gli altri problemi derivati dal fatto che l’uomo non può vivere solo.

Dal giorno in cui due o più uomini conducono vita in comune essi hanno delle necessità e dei bisogni comuni da soddisfare. Questa soddisfazione darà origine a delle regole, a delle convenzioni che altro non sono che l’origine del diritto, e cioè l’ordine e l’organizzazione, segni della civilizzazione. Più l’agglomerazione cresce più le relazioni fra individui si moltiplicano, più si afferma la necessità di regolare queste relazioni e più complessa si presenta la difficoltà di stabilire l’ordine in tutti i campi.

In ogni epoca, per ogni civiltà, presso ogni razza è sorta questa necessità: ciò che ha fatto dire che l’abbondanza della regolamentazione è una delle manifestazioni della civilizzazione.

Non si può dunque concepire l’Urbanismo come un dominio esclusivo dell’architetto o del costruttore di città, meno ancora si può ammettere che esso si esaurisca nell’elaborazione di piani di quartieri urbani o di piani di città, nella organizzazione perfetta dei servizi pubblici o nella elegante delineazione di progetti di abbellimento o di risanamento, che non sono che la manifestazione di rivendicazioni estetiche od igieniche e di esigenze di decoro o di benessere, soffocate dall’inconsiderato sviluppo delle nostre città industriali moderne.

Il problema è più vasto, si estende a tutte le condizioni infinite dell’esistenza umana, e principalmente - ma non esclusivamente - nelle agglomerazioni sovrapopolate e pulsanti che l’industria sviluppa sotto i nostri occhi.

Lo studio dell’ordine nelle agglomerazioni, delle sue manifestazioni nel passato e delle sue forme attuali costituisce dunque la base delle discipline urbanistiche, che hanno inoltre una immediata finalità pratica: ricercare gli elementi e le forme dell’ordine futuro.

Questa materia di studio interessa quindi - sotto la forma scientifica - quanti hanno cura di far progredire una dottrina che deriva una sua particolare importanza dalla funzione essenziale che la “città” esercita nella vita contemporanea.

Essa interessa - sotto l’aspetto utilitario - a quanti si preparano alla carriera degli uffici amministrativi o tecnici, che curano le applicazioni pratiche di questa scienza.

Essa interessa infine - sotto la forma volgarizzatrice - al grosso pubblico che ha bisogno di famigliarizzarsi con nozioni che occupano un posto sempre più grande nella vita quotidiana, e che ha il dovere e la convenienza di conoscere le condizioni di esistenza della comunità per rendere migliori le proprie.

È possibile dalla fusione del programma scientifico sopra enunciato colle finalità pratiche immediate ed evidenti, che se ne ricavano, trovare gli elementi per la creazione di un centro di studi a triplice aspetto: scientifico, utilitario, volgarizzatore?

Noi lo crediamo, confortati da autorevoli esempi di Istituzioni analoghe ormai sorte e vitali all’Estero.

Particolarmente interessante ci sembra l’esempio dell’Institut d’Urbanisme sorto in seno all’Università di Parigi, come quello che ha maggiori affinità di concezione colle direttive che abbiamo esposto, e come il più organico nella sua visione di insieme in confronto di altri Istituti che perlopiù non considerano che alcuni degli aspetti o tecnici, o amministrativi, o sociali del problema.

Il piano di studi dell’Istituto parigino costituisce una vera sintesi dell’organizzazione della città, partendo dalla ricerca degli esempi del passato, per constatare lo stato presente e indicare le soluzioni del futuro.

Sorto dapprima su deliberazione nel 1919 del Conseil Géneral de la Seine come Ecole des Hautes Etudes urbaines et de l’Administration Municipale esso non tardò a richiamare l’attenzione dell’Università che vide l’importanza del nuovo centro di coltura nel dominio delle scienze politiche, amministrative, economiche e sociali.

L’indirizzo, al quale sempre più si accostano le Università, di promuovere, col contributo e la collaborazione degli Enti locali e dei privati, all’infuori ed a fianco del quadro rigido degli insegnamenti tradizionali, larghe correnti di studi specializzati e differenziati da sede a sede secondo le speciali condizioni locali - indirizzo dal quale sta per derivare una nuova floridezza all’insegnamento superiore - ha trovato subito in Francia una pratica applicazione nel caso degli studi urbanistici.

Nessuna città meglio di Parigi, che costituisce una delle agglomerazioni più formidabili del mondo, poteva porsi il problema di creare in seno alla sua antica Università un vero laboratorio urbanistico dove fossero anatomizzati i fenomeni della vita di una grande città moderna.

Crediamo di non andare errati se pensiamo che lo stesso compito possa e debba assolvere, in Italia, Milano.

Gli accordi felicemente conclusi nel 1924 fra il Conseil General de la Seine e l’Università permisero la trasformazione dell’Ecole des Haules Etudes nell’attuale Institut d’Urbanisme de l’Université de Paris.

La fusione coll’Università non ha modificato il programma di studi già organicamente concepito, e suddiviso in cinque sezioni:

Evoluzione delle città.

Organizzazione sociale delle città.

Organizzazione amministrativa.

Organizzazione economica.

Arte e tecnica della costruzione delle città.

L’Istituto ha conservalo pure, une sezione di perfezionamento amministrativo, particolarmente dedicata ai funzionari degli Enti pubblici dipartimentali e comunali, che vi affluivano e vi affluiscono numerosi, in ciò agevolati dalle Amministrazioni, che in qualche caso contribuiscono nelle spese.

La popolazione scolastica complessiva dell’Istituto è stata per il 1924 di 153 studenti.

Nel quadro schematico delle cinque sezioni di insegnamento appare nettamente delineato il campo di azione dell’Istituto.

La conoscenza delle leggi di evoluzione delle città, di cui si occupa la prima sezione del programma didattico dell’Istituto, è infatti alla base stessa dell’urbanismo.

Una città nella sua vita passata e nella moderna non rappresenta due esseri diversi, bensì un solo essere vivente: in costante evoluzione, che conviene studiare nel suo passato per accertarne il grado di sviluppo.

Questo studio fornisce la spiegazione della città che si va formando sotto i nostri occhi.

La fisionomia di una agglomerazione è la risultante delle sue condizioni di esistenza, esprime la sua natura reale, come venne plasmata nel corso dei secoli.

Il succedersi degli anni crea il vincolo di solidarietà: nel passalo è il germe del presente e del futuro.

Da questi principi scaturiscono la ragione ed il metodo di questo particolare corso di ricerche.

Lo studio dell’organizzazione sociale di una città nella sua origine, nella sua composizione, nelle sue caratteristiche offre a sua volta la chiave per la conoscenza dei suoi bisogni e delle sue crisi, e dei mezzi per soddisfare i primi, per risolvere le seconde.

Tema vastissimo al quale si ricollega l’azione sociale che spetta agli Enti pubblici nel campo igienico, economico, morale, culturale.

Lo studio dei problemi politici ed amministrativi sollevati dal fenomeno della concentrazione della popolazione trova posto invece nella sezione della organizzazione amministrativa. Problemi per la massima parte nuovi sorti col secolo XIX a seguito della rivoluzione industriale e politica.

Il meccanismo amministrativo, le risorse finanziarie, il funzionammo dei grandi servizi pubblici di una. città costituiscono i capitoli fondamentali di questo insegnamento, al quale si riallacciano le indagini comparative sui differenti metodi di reclutamento e di organizzazione delle autorità locali, sulle loro attribuzioni, sulla loro libertà di azione nel campo amministrativo e finanziario, sulla concezine delle autonomie comunali presso i diversi paesi, e sulla particolare organizzazione propria delle città capitali.

Corollario indispensabile dell’organizzazione amministrativa è l’organizzazione economica delle città, la determinazione delle cause economiche d’ordine generale che spiegano la continua evoluzione e le trasformazioni dell’organismo urbano, e l’influenza di queste sull’attività economica degli Enti locali.

La città appare come un essere collettivo di svariati bisogni, di esigenze sempre più numerose e raffinate, suscettibili di essere soddisfatte dai processi moderni perfezionati della regia interessata, dell’economia mista, dell’azionariato municipale, della politica fondiaria.

Affiorano allora i problemi delle municipalizzazioni e delle possibilità di intervento degli enti pubblici nel campo industriale e commerciale, nei domini cioè considerati come di pertinenza della iniziativa privata.

Affiorano i problemi della politica fondiaria dei Comuni, lo studio dei danni risultanti da una utilizzazione irrazionale delle terre e dei vantaggi che una gestione economica del suolo può portare alla città: le relazioni fra lo sviluppo cittadino e l’incremento dei valori fondiari, e gli ostacoli che a sua volta questo incremento pone allo sviluppo dei grandi centri: le soluzioni che si propongono per risolvere questa situazione, le nuove direttive decentratrici e limitatrici nello sviluppo della città.

Finalmente nella quinta sezione del programma di discipline dell’Istituto trovano posto gli argomenti riguardanti l’arte e la tecnica della costruzione delle città, e cioè la manutenzione, il miglioramento, l’abbellimento e l’estensione degli aggregati urbani.

Si tratta di un vero corso formativo di chi è chiamato alle funzioni tecniche di una amministrazione cittadina. Anche se, per i limiti imposti dalla economia generale del programma di studi, questo corso non può avere evidentemente né lo scopo, né la possibilità di approfondire tutte le nozioni artistiche, tecniche o scientifiche che sono alla base degli studi corrispondenti, esso cerca soprattutto di mettere in evidenza i caratteri fondamentali di ognuno di questi problemi e di ricavarne le soluzioni teoriche e pratiche meglio appropriate alle direttive moderne.

Sono così passati in rassegna i problemi della sistemazione generale e dell’estetica cittadina: piani regolatori, piani di ampliamento, disciplina della edificazione, estetica urbana, valorizzazione delle note tradizionali ambientali, organizzazione degli spazi liberi, giardini, piantagioni, argomenti tutti intimamente connessi fra di loro e nei quali si rende sempre più evidente la stretta relazione che deve stabilirsi fra l’urbanista ed il tecnico municipale nel loro studio.

Sono pure esaminati i problemi del suolo e del sottosuolo, quelli della viabilità e della circolazione, quelli importantissimi ed onerosissimi della manutenzione stradale e della nettezza urbana intimamente legata alla pubblica igiene.

Altri poderosi argomenti di studio costituiscono i pubblici servizi di trasporto, tanto dal punto di vista del primo impianto che da quello dell’esercizio, la distribuzione dell’elettricità, del gas e dell’acqua, le fognature ed i metodi di allontanamento e di depurazione dei rifiuti liquidi e solidi cittadini.

Un insieme di argomenti di questa natura, trattato non dal puro punto di vista teorico, ma con costanti riferimenti pratici ed economici è suscettibile di interessare non solo gli Ingegneri degli Uffici comunali, ma ogni amministratore coscienzioso ed ogni categoria di funzionari pubblici a qualunque servizio appartengano.

Le notizie che abbiamo riportato sulla organizzazione dell’Institut d’Urbanisme parigino ci sembrano abbastanza chiare per tracciare a grandi linee il quadro dell’azione che dovrebbe proporsi da noi una istituzione analoga, anche se non identica.

Sopra tutto sembra il caso di insistere sulla opportunità dell’intima fusione dei tre elementi: teorico (ricerche ed indagini di assieme), pratico (corsi formativi e di perfezionamento pei funzionari degli Enti pubblici), volgarizzatore (opera di propaganda per la formazione di una coscienza urbanistica nel grosso pubblico o per lo meno nei pubblici amministratori ed in chi per una ragione qualunque è chiamato ad esercitare una influenza od una missione che abbia qualche ripercussione sulla vita comunale).

Sulla necessità della formazione di una cultura e di una coscienza urbanistica chi ha avuto occasione di reggere uffici pubblici può certamente far fede.

Pochi sono i veri competenti che sanno assurgere ad una visione organica e di assieme di questi problemi.

Molti volenterosi sono animati dai migliori propositi, ma, assai spesso l’eccessiva unilateralità di giudizio, frutto di appassionato attaccamento alle discipline colle quali si ha maggiore famigliarità, limita il campo visivo.

Un centro di ricerche, di studi e di discussioni, che rafforzi la preparazione dei tecnici e degli esecutori ed indirizzi il pubblico verso una più esatta percezione e conoscenza dell’argomento, darà maggiore organicità e sicurezza di direttive, forgerà le armi ed i mezzi perchè la “città italiana”, che ha così gloriose tradizioni nel passato, si trovi ben preparata e pronta ad affrontare le nuove necessità di vita dei tempi moderni, seguendo il suo genio, senza perdere cioè le sue antiche caratteristiche e senza snaturarsi con mal comprese imitazioni di spesso sorpassati modelli ultra montani, od ultra oceanici.

Noi ci auguriamo che il nuovo centro milanese di Studi superiori prenda nella dovuta considerazione questo interessante argomento e trovi i mezzi e le vie per dar vita ad una “Scuola” italiana di urbanismo degna di gareggiare colle consorelle dell’estero nello studio dei più attuali ed assillanti problemi della vita collettiva moderna.

Dopo che i rappresentanti italiani al recente Congresso del Comitato internazionale per l’architettura razionale, tenuto ad Atene e dedicato alla città funzionale, hanno avanzato l’idea di studiare non solo piani regolatori per le città e per le regioni, ma piani regolatori estesi a tutto il territorio delle varie nazioni, non sarà inopportuno riprendere e sviluppare questo concetto, già enunciato due anni or sono a Berlino, in occasione del XIII Congresso internazionale dei piani regolatori, e che sotto vari aspetti viene oggi considerato non soltanto dai tecnici ma dagli economisti e dagli uomini di governo dei diversi paesi.

Il tema è di attualità: anche al 25° Congresso americano dei piani regolatori, svoltosi a Baltimora ai primi di ottobre, esso ha formato oggetto di una relazione.

Problemi attuali

In anni di assestamento economico, di riforme politiche e sociali, di protezionismo a oltranza ed in contrasto con la enorme evoluzione scientifica e industriale della civiltà contemporanea, i problemi dell’avvenire dei popoli vengono esaminati non più soltanto nelle tradizionali forme politico-legislative, ma anche secondo nuovi orientamenti di natura tecnica ed economica.

Quest’ordine di idee caratterizza storicamente il nostro tempo; raggiunta e consolidata la compagine unitaria, maturati gli orientamenti legislativi e costituzionali, i grandi Stati detentori della civiltà occidentale traversano un periodo di valorizzazione territoriale e di attrezzamento tecnico.

Il sorprendente contributo recato all’attività umana dai progressi della tecnica, e la facilità delle iniziative, hanno fatto sì che quest’opera di organizzazione e di attrezzamento ha potuto procedere solo sotto l’impulso delle forze spontanee, eccedendo in alcuni campi le reali possibilità di applicazione; dove ciò è accaduto, è subentrata la dolorosa reazione della crisi industriale.

Ecco dunque iniziarsi la revisione, sorgere dei nuovi problemi e rifiorire programmi proposti all’imponente intraprendenza degli uomini; ma soprattutto emergere, dalle esperienze compiute, la coscienza di un ordine, la necessità di coordinar gli sforzi, di regolare e dirigere ad un fine prestabilito le varie iniziative e le varie attività.

Città, regione, nazione

Il mezzo tecnico che prestabilisce lo sviluppo dei lavori e la valorizzazione di un territorio più o meno vasto ai fini del benessere sociale, è un piano regolatore. Poiché nel passato l’attività civile si è concentrata nelle città, per esse si è determinato il bisogno di disciplinare quelle forme di sviluppo che più da vicino interessavano il benessere della collettività e la libertà dei singoli, vale a dire le vie di comunicazione e lo sviluppo edilizio e perciò si sono studiati per primi i piani regolatori delle città. Nell’avvenire la civiltà ed il lavoro saranno talmente propagati sulla superficie della Terra, che uguali necessità nasceranno per territorii e si studieranno piani regolatori i cui limiti potranno essere segnati soltanto dall’estensione dei problemi da risolvere.

Le condizioni della vita italiana, la nostra organizzazione politica e civile ci portano oggi a considerare questi tre successivi stadii di sviluppo: la città, la regione, lo Stato.

Ritenuto che il concetto urbanistico di città, e conseguente piano regolatore, sia ormai sufficientemente noto, sarà conveniente esporre alcuni concetti intorno alla “regione” come premessa indispensabile di quella maggiore compagine politica che è lo Stato.

La regione è una nuova unità di natura geografico-economica nata dalla nostra organizzazione civile. Essa si estende ai territori dove certe affinità di ambiente e di lavoro hanno imposto un regime alla vita degli abitanti e dove le condizioni della economia richiedono che il progresso sociale si sviluppi con direttive unitarie.

Hanno contribuito alla sua formazione il rapido addensamento della popolazione in determinati punti e l’incessante sfruttamento delle risorse naturali e di posizione: le hanno conferito i caratteri della modernità, l’organizzazione industriale e l’impiego estensivo delle macchine a ogni mezzo di trasporto e di comunicazione, che hanno permesso alle azioni individuali e collettive di spaziare in campi sempre più vasti, in tempi sempre più brevi.

In opposizione alle tradizionali suddivisioni territoriali la “regione”, come oggi si intende dal punto di vista urbanistico, prescinde dai vecchi confini dei Comuni e delle Provincie, e tende a stabilirne dei nuovi, in base a leggi puramente economiche.

E’ per questo che, mentre per il passato non conoscevamo se non problemi cittadini, e abbiamo studiato piani regolatori per le nostre città, oggi dobbiamo affrontare problemi più complessi, i problemi regionali, e prepararci ad applicare dei piani regolatori a delle intere regioni: l’urbanista vede oggi aprirsi alla sua esplorazione degli orizzonti sconosciuti e, pur nel travaglio della continua esperienza, deve ampliare i propri compiti in rapporto ai progressi della vita sociale.

Se per le loro caratteristiche di natura e di cultura sono da studiarsi anche le ragioni prettamente industriali e quelle rurali, negli ultimi anni la nostra attenzione è stata rivolta a quel tipo di regione che ci presenta col maggiore rilievo i problemi più gravi, perché assomma in sé i diversi caratteri industriali, residenziali e di traffico: la regione “urbana”, cioè il territorio circostante alle grandi città, che comprende le zone della loro influenza diretta.

Il piano regolatore regionale, dato che la regione urbana si estende il più delle volte ben oltre i confini amministrativi del Comune principale, si trova di fronte a una prima gravissima difficoltà, quando si tratta di riunire gli interessi e la buona volontà di diversi enti locali agli scopi unitarii del comune benessere.

In Italia si è opportunamente ricorso al sistema delle annessioni dei piccoli comuni al maggiore; così il territorio di una città veniva ad ingrandirsi fin dove lo richiedevano le esigenze della sua espansione edilizia, mentre i numerosi piccoli comuni circostanti rinunciavano di buon grado a una autonomia più formale, oramai, che reale, essendo stati da tempo assorbiti nell’orbita economica della grande città e vivendo del suo stesso respiro.

Le annessioni hanno portato inoltre agli abitanti dei cessati comuni il beneficio di molti servizi pubblici che le esigue risorse dei bilanci locali non avrebbero mai consentito, e le grandi città hanno veduto finalmente aprirsi il varco a una più libera, disciplinata espansione.

Tra le città italiane che raggiungono un milione di abitanti, vi è Napoli, che negli ultimi anni si è aggregata 9 comuni, e Milano che ne ha aggregati 11; Roma per condizioni speciali ha intorno a sé spazio più che sufficiente per i suoi futuri ampliamenti; Genova, che conta quasi 700.000 abitanti e per la posizione sulla costa montuosa è stata sempre ristretta tra il mare e il monte, si è aggregata ben 19 comuni, estendendosi sul litorale per quasi 30 km.; e Venezia, pur non superando i 300.000 abitanti, si è aggregata 7 comuni per formarsi un entroterra commerciale e industriale, uscendo dal secolare raccoglimento delle sue isole.

La politica delle annessioni, mediante una serie di provvedimenti legislativi, ha portato dunque le nostre maggiori città a realizzare il primo passo verso il piano regolatore regionale; ad esse è ormai consentito un esame sereno e sistematico delle proprie risorse e delle proprie possibilità, mentre gli studi dei tecnici gli sono indirizzati alla visione complessiva del problema regionale.

Ma come la città, col processo di espansione, ha trovato nella regione il proprio entroterra, così i mutui rapporti che sorgono dalla vita delle diverse regioni ci inducono a riflettere su problemi anche più vasti e complessi di quelli che abbiamo studiato finora; la tendenza dello Stato a regolare le varie manifestazioni della vita nazionale con unità di scopi e organicità di metodi, ci porta analogamente a vedere nell’avvento dei piani regolatori regionali una fase di preparazione al piano regolatore nazionale.

Esigenze della vita collettiva

Siccome gli inevitabili sviluppi del progresso sociale rendono sempre più imperiose le esigenze della vita collettiva, è necessario cercare nella disciplina urbanistica delle azioni comuni la migliore salvaguardia della nostra personalità, la migliore tutela delle libertà individuali: come la nostra attività si svolge generalmente nell’ambito della vita cittadina, regionale e nazionale, così l’indagine e la organizzazione tecnica dovranno essere rivolte a questi tre campi di azione.

Il piano regolatore nazionale poggia su principi molto generali di economia e di politica e comprende nelle sue vaste maglie i piani regionali: questi rappresentano l’elemento intermedio, il più esatto al grado attuale della civiltà e della mobilità umana, e sono teatro della esperienza odierna, i piani regolatori dei centri urbani rappresentano infine l’elemento più piccolo, ma certamente il più evoluto, del sistema complessivo.

Sarebbe errato immaginare il piano nazionale come una estensione dei piani regolatori delle città, come oggi li conosciamo, con la rigida struttura dei vincoli e la conseguente tassativa disciplina regolarmente: esso deve intendersi come un programma di grande massima dello sviluppo nazionale, dotato della necessaria elasticità per secondare le diverse esigenze locali e adattato a seguire di tempo in tempo gli inevitabili mutamenti delle finalità collettive.

Il piano regolatore nazionale, nella sua più semplice espressione, ha per oggetto di determinare gli usi più appropriati da assegnare alla terra e alle risorse naturali, col dovuto riguardo per le tendenze e i fatti antecedenti (già, in Germania gli schemi dei piani regolatori regionali vengono chiamati “piani economici”).

La complessità dei problemi richiede la collaborazione di tutte le iniziative e la previsione delle conseguenze che un determinato ordine di provvedimenti potrà avere rispetto ai bisogni dell’avvenire. L’esperienza compiuta nello studio dei piani regolatori delle città porta a concludere che in passato si è generalmente peccato di imprevidenza; un esempio tra i molti basta a provarlo: lo sviluppo degli impianti ferroviarii, non coordinato con i piani regolatori delle città, complica oggi enormemente i problemi urbanistici e obbliga ad adattamenti onerosi, molti dei quali avrebbero potuto essere risparmiati se a suo tempo le prerogative ferroviarie fossero state armonizzate con i prevedibili ampliamenti delle città.

Ogni coordinamento di programmi e di opere compiuto con finalità unitaria, rientra quindi nel quadro di un piano regolatore nazionale e perciò sarà da assegnarsi a un unico rodine di idee tanto l’impianto di aeroporti o di campi di fortuna, la sistemazione di una rete stradale, lo spostamento di un tronco ferroviario e l’apertura di un canale navigabile, quanto la sistemazione idraulica e forestale di un bacino montano, o la creazione di una nuova borgata rurale, o la soppressione di una casa che deturpi il paesaggio di un località di valore turistico e panoramico.

Organizzazione unitaria

E’ interessante osservare che in Italia il piano regolatore nazionale si delinea fin d’ora attraverso alcuni aspetti caratteristici della nostra organizzazione tecnica e legislativa, mentre l’opera del Regime tende ad accentuare sempre più questi caratteri unitarii del lavoro e della struttura organizzativa nazionale.

Mentre infatti la nostra rete ferroviaria è stata da tempo unificata, da qualche anno la rete delle maggiori arterie stradali è stata unificata, e posta sotto la gestione di un solo organo statale che estende il suo controllo e la sua opera a tutto il territorio nazionale.

Ma anche più convincenti e significativi ci sembrano i diversi provvedimenti adottati dal Governo Fascista per frenare l’inurbamento delle popolazioni rurali, la Legge per la bonifica integrale e il programma di emigrazione interna, oggi in piena attuazione: convincenti perché in essi vediamo applicati con pieno successo quei principii di distribuzione demografica, di economia territoriale, di bene inteso sfruttamento delle risorse naturali, che sono fondamento del piano nazionale, ai fini superiori della prosperità economica e del progresso civile dell’intera Nazione.

Gli organi e i servizi di questo movimento sono operanti nella vita italiana e fanno capo a un solo centro: lo Stato.

L’Azienda Autonoma Statale della Strada, compirà quest’anno il primo sessennio di attività con 6.000 chilometri di sistemazioni e pavimentazioni stradali, oltre alla manutenzione dell’intera rete e la costruzione delle case cantoniere; per quanto riguarda la soppressione di passaggi a livello, nei soli primi due anni di gestione, sono state predisposte le opere necessarie per 60 di tali lavori.

La politica agraria del Regime per la valorizzazione della terra e la maggiore coscienza della vita rurale, raggiunge il massimo sforzo con la Legge sulla bonifica integrale, che prende il nome dal Duce (Legge Mussolini - 24 dicembre 1928): gli organi di questo poderoso congegno sono il Sottosegretariato per le Bonifiche ed i Comitati tecnici provinciali - che, unitamente ai Consorzi, realizzano l’armonica coesistenza della funzione pubblica e dell’interesse privato.

Coordinamento di opere

Oltre che il risanamento delle terre palustri, la costruzione dei canali irrigui, di strade, di acquedotti, di fabbricati rurali, questa organizzazione assicura la sistemazione dei bacini montani, il rimboschimento, il miglioramento dei pascoli e in genere la trasformazione fondiaria delle zone di più arretrato progresso agricolo: vera e propria “zonizzazione”economica in attuazione per ogni plaga d’Italia.

La funzione di regolare la distribuzione demografica nel territorio nazionale è affidata al Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, dipendente direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’esuberanza di popolazione, specialmente agricola, nell’Italia settentrionale, la chiusura degli sbocchi alla emigrazione all’estero e la necessità di riequilibrare all’interno la richiesta e l’eccesso della mano d’opera hanno fatto sorgere il Commissariato, la cui eccezionale importanza sarà accresciuta nei prossimi anni con la continua attuazione della Bonifica Integrale.

L’opera del Commissariato si esplica nel cercare i territorii da colonizzare, nello scegliere le famiglie fisicamente e organicamente adatte alla migrazione e alla colonia, nello stipulare condizioni di lavoro favorevoli ai nuovi colonizzatori, nel trasportare delle famiglie nei fondi bonificati o trasformati a nuove culture, nell’Agro romano e pontino, in Campania, nella Maremma toscana, in Sardegna, nella Libia. Inoltre il Commissariato distribuisce premi per la costruzione di case coloniche, dà sussidi e sovvenzioni alle famiglie migrate: l’Opera Nazionale Combattenti e il Sottosegretario per le Bonifiche cooperano con il Commissariato in quest’opera.

Se questi sono da considerarsi i capisaldi del piano regolatore nazionale, altri aspetti potranno anche scorgersi nell’attività e nelle provvidenze del Regime nei varii campi, dai provvedimenti prefettizi, che limitano l’accrescimento della popolazione residente nelle città. (Legge 24 dicembre 1928) alle cure rivolte dalla Milizia Forestale al mantenimento del patrimonio montano, per frenare la tendenza allo spopolamento della montagna, alle previdenze per la protezione della maternità e dell’infanzia e alla campagna demografica, tutrice dell’avvenire della razza.

Gli anni avvenire ci mostreranno a qual punto possano arrivare le conseguenze di questa immensa opera di costruzione nazionale, cui tutti diamo il nostro contributo: per ora guardino, specialmente i tecnici, all’avvenire e comprendano la vastità del compito che li attende: ingegneri, architetti, agronomi, economisti, giuristi.

Mussolini ha indicato le mete e ha promosso il piano regolatore nazionale: ha rivolto all’interno le correnti emigratorie, ha denunciato i pericoli dell’inurbamento, promosso il ritorno alla terra, migliorate le condizioni della vita rurale: le bonifiche, le comunicazioni, l’edilizia, i nuovi centri sono la conseguenza.

Ma non dimentichiamo che la condizione indispensabile di tutto ciò era uno Stato forte: questa è stata la prima base della restaurazione fascista, e oggi vediamo che sull’esempio dell’Italia altre nazioni mirano a una nuova fase di lavoro e di organizzazione economica incominciando dalla restaurazione dei poteri centrali.

Bibliografia:

Mussolini - Scritti e discorsi sulla politica agricola e sulla campagna demografica. Discorso inaugurale di Littoria.

Franklin D. Roosevelt - Looking forwards. 1933.

Atti del XIII Congresso Internazionale dei piani regolatori - Berlino 1931.

Arthur C. Comey - What is National Planning? in City Planning oct. 1933.

Cyrus Hehr - A Nation Plan - N.Y. 1926.

What about the year 2000? An economic summary - Harrisburg 1930.

Quadrante 5 - Milano, settembre.

Camerati,

Credo che voi non vi aspettate da me un vero e proprio discorso inaugurale, perché io non ho nessuna competenza specifica nella materia intorno alla quale voi state per aprire dibattiti certamente fecondi. La mia antica, ormai, qualità di amministratore di una grande città mi ha conferito questo compito, che ho mantenuto, pur nel mutare delle mie funzioni. Ma la sorte ha voluto, che, anche nelle mie nuove funzioni, avessi qualche ragione di presiedere a questo Congresso che vuol dare un apporto, e certamente lo darà, alla formazione di una nuova scienza, che prenda posto sempre più preciso, con caratteri sempre più chiari, fra le altre scienze. Noi possiamo domandarci, dovete soprattutto, domandarvi voi, urbanisti di ogni parte e di ogni provenienza, o ingegneri, o architetti, o giuristi, o sociologhi, se intorno a questo nuovo concetto di urbanistica sia per avventura venuto a cessare quel certo senso di sfiducia, di cui, in un non dimenticato saggio, di un paio d’anni fa, parlava S.E. Giovannoni, che gli urbanisti italiani ritengono uno dei loro maestri, se non il maggiore dei loro maestri. Fu al Congresso del Progresso delle Scienze, se non erro, nell’ottobre del 1935, che, riferendo intorno ai progressi compiuti dall’urbanistica italiana negli ultimi anni, S.E. Giovannoni notava un certo senso di sfiducia nelle stesse classi dirigenti intorno all’urbanistica.

Ebbene, voi dovete confessarvi, senza perdervi in ottimismi, che questo senso di sfiducia non è ancora cessato. Da che cosa dipende?

Dipende probabilmente da alcune impostazioni pratiche errate date a taluni problemi di urbanistica in Italia.

Non voglio esemplificare, perché non sono qui per questo. Ma, probabilmente, certi piani regolatori concepiti in modo sproporzionato alle reali esigenze di alcune città, il non chiaro senso del rapporto tra le necessità delle costruzioni cittadine e le necessità della vita rurale del Regime, certi lussi, certe dispendiosità eccessive hanno fatto ritenere che l’urbanistica mirasse a una specie di inflazione cittadina. Di qui, quella sfiducia delle classi dirigenti verso certi teorizzatori dell’urbanesimo che non tenevano sufficiente conto delle leggi ferree poste dalle necessità politiche, economiche e sociali di un Paese.

Ma, a creare questa sfiducia, ha concorso anche un mancato chiarimento dottrinale preciso: direi quasi di formule, di metodi, e di enunciazioni di questa nuova scienza.

Non mancano, né tra gli urbanisti né tra i politici gli orecchianti: quelli, cioè, che capiscono le cose a orecchio. Sia alcuni urbanisti di seconda mano, sia alcuni politici di seconda, terza o quarta mano, hanno, ad orecchio, derivato urbanistica da urbe; e poiché anche urbanismo deriva da urbe, hanno, attraverso la simiglianza etimologica, assimilato l’urbanistica all’urbanesimo. Di modo che voi potete sentire, talvolta, delle obbiezioni partire da alcuni uomini, anche dirigenti di amministrazioni cittadine, contro l’urbanistica, come se essa fosse, necessariamente, la scienza per l’ingrandimento delle città.

Ora, se io potessi, per spiegare meglio, fare un paragone, direi che l’urbanesimo sta all’ urbs, come la tisi sta al corpo sano dell’uomo; ma l’urbanistica sta all’urbanesimo come la tisiologia sta alla tisi, il che vale a dire, che l’urbanistica non solo non è urbanesimo, ma è l’antidoto dell’urbanesimo: deve essere il rimedio opposto dalla nostra volontà all’urbanesimo, all’espansione patologica delle città.

Bisogna, dunque, impostare, chiaramente ed esplicitamente, dinanzi alla coscienza del Paese, e soprattutto nella coscienza degli amministratori, l’urbanistica come antiurbanesimo, come antidoto all’urbanesimo. Mi piace, a tal proposito, ricordare ancora quel saggio di Giovannoni, a cui mi riferivo prima, che è intitolato: l’urbanistica e la deurbanizzazione; d’altra parte, in una relazione presentata al Congresso del Sindacato degli Ingegneri, mi pare dall’Ingegnere Camerata Civico, questi notava come l’urbanistica fascista ci porti perfino alla formula dell’urbanistica rurale che può sembrare un contro senso, ma non è, perché esprime proprio quello a cui noi vogliamo arrivare nello stabilire un nuovo senso di rapporti tra la funzione della città e la funzione della campagna.

Nell’ urbs dobbiamo mirare, soprattutto, alla civitas, alla cittadinanza; nell’ urbs, che vi dà soprattutto, il senso del muro costruito, bisogna mirare all’uomo, che vive dentro questo muro; bisogna mirare all’elemento popolazione.

Il che ci porta a concepire l’urbanistica quasi come una scienza della popolazione, come un aspetto della scienza della popolazione. E’ la scienza che studia i modi di raggruppamento della popolazione nella città, nei centri rurali, il modo di formarsi e trasformarsi delle aggregazioni urbane, dalle maggiori alle minori. Perciò è la scienza che ne studia le condizioni di ambiente e di clima, di economia e di socialità. Di qui, la necessità di mirare, sopratutto, alle condizioni politiche e sociali, in cui una determinata attività urbanistica deve essere impostata e svolta.

L’urbanistica, scienza giovanissima, anzi ancora in formazione, è la meno astratta, fra le scienze più condizionate della vita politica del paese, in cui si svolge. Come scienza della popolazione, anzi l’urbanistica è, essa stessa, una politica (e non è senza una ragione, che la stessa ricerca etimologica ci porta ad avvertire come politica ed urbanistica derivino da polis e da urbs; cioè derivino tutte e due dalla città, poiché tendono tutte due alla regola, al governo, alla disciplina della città). Bisogna portare, decisamente l’urbanistica sul piano della politica. L’ urbs, la città, deve essere considerata come elemento funzionale della Nazione. Bisogna studiare, quale in una determinata Nazione, in un determinato momento storico, sia la funzione da assegnarsi alla città, ed anche qui, distinguere città da città. Perché è vero, ad esempio, che l’orientamento generale del Regime Fascista è contro l’urbanesimo, ma è anche vero che il Regime spesso, attraverso la parola stessa del suo Capo si è compiaciuto di vedere la città di Roma accrescersi.

Questo perché noi riconosciamo alla città di Roma una funzione di Capitale, che si estrinseca anche attraverso la forza del suo numero. Quindi, mentre possiamo desiderare che il fenomeno dell’urbanesimo dilagante si arresti per certi centri del nostro Paese, non possiamo non desiderare che la città di Roma acquisti anche quella forza di numero, quel peso nella vita nazionale, che la metta veramente in grado di assolvere alla sua funzione di Capitale.

Basterebbe citare, come esempio, quale, nella formazione storica della nazione francese, sia stata l’importanza di Parigi; cioè quale contributo alla unità francese abbia dato la grande città di Parigi; e domandarci, se, per caso, il ritardo nella formazione unitaria del nostro Paese dalla Marcia su Roma nel settembre 1870 alla Marcia su Roma del 1922 non sia stato dovuto anche al fatto, che Roma rimanesse, anche numericamente, una città di secondo ordine fra le altre città italiane, che prendevano numericamente il sopravvento sopra di essa. Ciò dimostra la necessità di impostare i problemi urbanistici, sempre, sul piano politico.

L’urbanistica fascista determinata dalla politica del regime, esige, come politica di potenza e di unità, che si conferisca sempre maggiore importanza urbanistica alla città di Roma, che se ne perfezioni l’attrezzatura come Capitale, che si voglia, che Roma - come Capitale - abbia tutti i requisiti della grande città moderna, perché possa assolvere all’interno la sua funzione di Capitale moderna e possa, domani, assolvere a quella funzione, che tutti noi auspichiamo, di Capitale del mondo moderno.

La politica di autarchia economica porta l’urbanistica ad affrontare i problemi della formazione e dello sviluppo dei grandi centri industriali del Paese, dei grandi centri commerciali e marittimi.

La politica rurale la induce a studiare il problema della casa rurale, dei raggruppamenti di case rurali, dove la vita delle popolazioni contadine possa svolgersi con dignità e decoro.

Nel fondo di questa politica, bisogna anche prospettarsi la funzione dei nuovi organismi, nati dalla vita politica del Regime. Sempre gli edifici pubblici hanno avuto una funzione nella formazione delle città e dei centri urbani, una funzione di coesione. Intorno al Municipio, alla Scuola, alla Chiesa, al Palazzo di Giustizia, le città, come intorno ad un nodo vitale, si formano, si accrescono, si dispongono. Oggi, vi sono anche altri nuovi istituti: il Fascio, il Sindacato, l’Ufficio di collocamento, il Dopolavoro. Ecco, altrettanti elementi dell’urbanistica fascista intorno a cui si determina la formazione della città moderna italiana, della città fascista! Voi, certamente, li tenete presenti, perché ne ho visti i segni nelle relazioni che avete presentato al Congresso.

E’ un orientamento politico dunque, che deve animare la vostra coscienza e il vostro intelletto. Attraverso l’urbanistica italiana noi vogliamo dare alla Nazione italiana le città di cui ha bisogno: vogliamo darle la campagna organizzata di cui ha bisogno. A questa nazione, che, sotto la guida del Duce, ascende verso più alti destini.

I vocaboli che nelle varie lingue designano l’ «arte di costruire le città» non sono, a rigor di termini, sinonimi. Il tedesco Städtebau e l’inglese townplanning esprimono propriamente il fatto materiale dell’edificazione urbana: studio di un piano, sistemazione degli spazî liberi, costruzioni stradali ed edilizie. E tale era anche il significato di edilizia cittadina e quello de l’art de batîr les villes in uso specialmente alla fine del sec. XIX. Il vocabolo francese urbanisme e il corrispondente italiano urbanistica hanno invece un significato più vasto, comprendendo non solamente il fatto materiale del piano regolatore, ma tutto il complesso delle discipline che hanno per oggetto i varî aspetti della vita degli agglomerati urbani. L’ urbanistica dunque si potrebbe definire come «lo studio generale delle condizioni, delle manifestazioni e delle necessità di vita e di sviluppo delle città» (cfr. il programma de La vie urbaine). Il fine pratico cui tende l’urbanistica è quello di dettare le norme per l’organizzazione e il funzionamento di una vita urbana che sia a un tempo bella, sana, comoda ed economica.

Tale fine pratico è raggiunto mediante il piano regolatore sostenuto da regolamenti, da leggi e da organizzazioni amministrative. È appunto attraverso il «piano regolatore» che l’architetto urbanista si esprime, ricomponendo in sintesi gli elementi analizzati attraverso lo studio, Nel piano regolatore è espressa, quindi implicita, la conoscenza di tutte le discipline che contribuiscono allo studio della vita urbana: discipline che porgono e offrono il materiale di lavoro per la «composizione» urbanistica rappresentata dal piano regolatore.

L’urbanistica in generale guarda dunque all’evoluzione della città nella sua totalità, poiché la città si può considerare come un essere vivente in continua trasformazione, sottomesso a influenze che è facile studiare isolatamente, ossia analizzare, ma che non agiscono che in massa, ossia per sintesi.

Le materie e gli elementi che l’urbanistica principalmente assume a base di studio e che offrono all’architetto urbanista le forze operanti per la composizione del piano regolatore, si possono riassumere, oltre che nella specifica cultura tecnica, architettonica ed edilizia, nelle seguenti:

- lo studio analitico storico dei piani delle città;

- l’igiene urbana;

- la statistica;

- la legislazione;

- la tecnica dei servizî pubblici;

- l’economia e la politica

Per quanto riguarda il fatto materiale delle applicazioni dell’urbanistica vedi CITTÀ; PIANO REGOLATORE; PIAZZA; STRADA ecc., qui è utile riassumere le posizioni fondamentali raggiunte dalla moderna urbanistica nello studio teorico di alcune delle materie suaccennate.

Studio analitico storico dei piani delle città

Nello studio e nell’analisi dei piani l’urbanistica moderna pone anzitutto una chiara distinzione tra origine del piano e origine della città: il primo può trarre la sua forma e la sua struttura da ragioni del tutto diverse, e anche talvolta opposte, da quelle che hanno determinato la seconda. Le determinanti del tracciato di un piano dipendono da quattro cause:

1. intervento volontario dell’uomo;

2. dati materiali della topografia;

3. funzione urbana;

4. teoria.

Nei riguardi della 1a determinante, l’urbanistica fa una prima importante distinzione tra città a «formazione spontanea» e città «create». Questa distinzione non coincide affatto con l’altra (assunta specialmente dagli studiosi dello scorso secolo) di città «a piano irregolare» e «città a piano regolare» poiché la regolarità o l’irregolarità del piano non bastano per fare ammettere o far negare l’intervento volontario dell’uomo. Esistono infatti città a piano regolare di formazione spontanea (per es., le città generate da crocevia) e altre irregolari ma create secondo un piano preordinato (per es., Pergamo).

Nei riguardi della seconda determinante, i dati topografici, l’urbanistica ricerca attraverso l’analisi del piano, la «generatrice» la quale può essere di vario carattere: una «visuale» (per es., la visuale di un monumento come a Strasburgo o come in moltissime composizioni del Rinascimento in Italia); la strada (esistono infatti città a generatrice stradale di vario tipo: a spina di pesce, a fuso, a emisfero, a meridiani); un fiume (qui la generatrice può essere o la riva del fiume il cui andamento si riproduce in quello delle strade, per s. Berna, oppure il ponte il quale motiva la generatrice stradale, per es., Verona); il mare (spiaggia rettilinea, generatrice di scacchiera, per es., Fiume; concava, generatrice di sistema radiale, per es. Galata a Costantinopoli); il monte (città ad acropoli, per es., Chianciano); monumenti; castelli; mercati, ecc.

Nei riguardi della terza determinante, la funzione urbana, l’urbanistica studia il piano come risultante di tutte le forze politiche, religiose, economiche, ecc., le quali costituiscono una «dinamica urbana». Così le determinanti funzionali possono essere: militari (città-fortezze); politiche (città capitali, residenze di corti, ecc.); intellettuali (città universitarie); economiche (città industriali, commerciali, carovaniere).

Nei riguardi infine della quarta determinante, la teoria, l’urbanistica studia nel piano il processo informativo dominante di una teoria preconcetta nella distribuzione del piano regolatore. Ogni epoca storica infatti ha posto a base di creazioni urbanistiche i postulati di veri e proprî sistemi teorici preconcetti. Essi sono rintracciabili fin nella più remota antichità e si possono riassumere nelle due fondamentali concezioni del sistema della scacchiera e del sistema radio-concentrico. Questi sistemi rappresentano due posizioni tipiche le quali sembrano percorrere il cammino di tutta la storia dell’urbanistica.

Il sistema a scacchiera trova la sua origine negli «allineamenti orientati» delle capanne della civiltà preistorica ed è portato a compiuto sviluppo dagli Egizî, dai Greci, dagli Etruschi, dai Romani.

Il sistema radiocentrico si riallaccia alle impostazioni circolari e anulari di alcuni popoli primitivi orientali, trova la sua prima espressione compiuta nelle città circolari degli Hittiti e degli Assiri finchè nel Medioevo viene posto a base di molte creazioni urbane dell’Asia Minore, della Francia, dell’Italia, della Germania. Nel Rinascimento infine diventa sistema fondamentale per i trattatisti italiani e francesi per cedere nuovamente il posto, nel sec. XIX, al sistema a scacchiera delle città americane.

Accanto a questi due schemi principali potrebbe trovar posto qualche altra teoria, quale quella tipica dovuta a Léon Lalanne (1863) il quale, partendo dalla considerazione che, sia nel sistema a scacchiera sia in quello radiocentrico, i percorsi stradali in diagonale (secondo l’ipotenusa) mancano, esistendo invece solo quelli più lunghi secondo i cateti, pensò di realizzare uno schema a percorsi brevissimi adottando un sistema esagonale. Questa disposizione permette effettivamente di mettere in comunicazione tutti i punti della figura attraverso percorsi o diretti rettilinei oppure a tratti rettilinei disposti secondo un angolo di 120°.

Più o meno aderenti a questi principali schemi teorici o da questi derivati sono i «sistemi» urbani ideali i quali, anche quando sembrano allontanarsene notevolmente, pure ad essi possono sempre essere ricondotti quando se ne riduca la struttura a semplice schema.

Igiene urbana

Nei riguardi dell’igiene urbana la tecnica moderna è giunta a importantissime conclusioni le quali da sole sono state sufficienti (a parte ogni altra questione inerente ai problemi del traffico e a quelli edilizî) a trasformare, per non dire addirittura a rivoluzionare, la struttura dei piani regolatori. Uno sforzo costante dell’urbanistica nel campo igienico è diretto a diminuire in ogni modo la mortalità, la morbilità e tutte le cause che possono perturbare una vita cittadina sana, silenziosa, tranquilla. Lo scopo viene raggiunto anzitutto adottando i tipi edilizî «aperti» anziché quelli «chiusi» o per lo meno sostituendo alla tipica edilizia residenziale del secolo scorso basata su costruzioni intensive a cortile chiuso, una edilizia composta di elementi lineari (quindi senza cortili) orientati secondo l’asse eliotermico o all’incirca da N. a S. per le costruzioni a corpo di fabbrica triplo; da E. a O. per le costruzioni a corpo di fabbrica doppio. Il distanziamento di detti corpi di fabbrica lineari non dovrebbe in nessun caso essere minore dell’altezza dell’edificio; meglio se doppio dell’altezza stessa. Alcuni regolamenti edilizî moderni giungono fino a prescrivere un distanziamento quadruplo dell’altezza ossia un angolo compreso tra i 25° e i 18° (Stoccolma e Budapest) per la «diagonale stradale». In secondo luogo l’igiene urbana (congresso di igiene di Dresda, 1929) tende ad aumentare la percentuale di zone verdi (campi sportivi, campi di giuoco, prati per i bambini, giardini per scuole, ecc.) spettanti ad ogni abitante. Attualmente la tecnica prescrive che le zone libere (campi sportivi, cimiteri, campi di aviazione, giardini, boschi, ecc.) siano commisurate in ragione di circa 30 mq. per ogni individuo contro la cifra di 7-10 mq. in uso al principio del secolo. Tutte queste zone verdi vengono ora concepite sistematicamente e distribuite nella compagine edilizia come una gigantesca rete in cui le varie maglie verdi, distando non più di 400-500 m. l’una dall’altra, penetrino dalla periferia al centro urbano, senza essere disturbate dalle arterie di traffico. Questa notevolissima quantità di aree libere che la compagine edilizia deve contenere, ha portato come conseguenza un necessario ingigantirsi della superficie urbana, ossia un’opportuna rarefazione della densità della popolazione: questa, secondo le moderne norme (congresso di Berlino, 1931) non dovrebbe essere superiore ai 100 ab. per ettaro di superficie urbana totale (200 ab. per ettaro di superficie edilizia propriamente detta).

Infine queste norme di spaziamento edilizio tendono a risolvere la città in un complesso urbano policentrico composto di quartieri staccati residenziali (ted. Siedlungen) a grande distanza l’uno dall’altro, i quali fanno capo poi al centro amministrativo e a quello degli affari; ossia la città risolve nella regione (piani regionali).

Statistica

La statistica compone oggi, al servizio dell’urbanistica, il quadro più ampio e più sintetico nello stesso tempo, della vita urbana. I dati che la statistica moderna raccoglie a questo scopo sono disposti con criterî del tutto speciali per rispondere appunto alle domande che la tecnica urbana rivolge.

La popolazione viene classificata: secondo le professioni e le arti, in relazione al tipo di abitazione; secondo l’affollamento (abitanti per vano) e la densità (abitanti per ettaro cittadino, abitanti per costruzioni, abitanti per territorio); secondo il tipo di composizione di vani; secondo il numero dei piani, ecc. L’andamento della natalità, mortalità, morbilità ecc. viene rivelato, e, ridotto in percentuali, esso mostra l’efficacia dei provvedimenti presi o denunzia l’urgenza e la necessità di altri. Così, ad esempio, la statistica ha confermato la bontà del sistema edilizio a decentramento con spaziatura per mezzo delle zone libere, rivelando la notevolissima diminuzione della mortalità nelle città con minore densità edilizia.

Le città della Germania che hanno messo in atto la politica delle zone verdi hanno visto calare di 6 e anche di 10 punti la mortalità relativa a 1.000 abitanti. In Italia la minore mortalità è presentata da La Spezia col 10‰, città a bassa densità e costruita prevalentemente con edilizia a corpi di fabbrica lineari orientati: mentre la massima mortalità è presentata col 17‰ da Napoli città mancante quasi del tutto di zone libere e sovraffollata in maniera notevole. Tra le città europee i posti più favorevoli sono occupati da Stoccarda e da Oslo; quelli favorevolissimi dalle città giardino inglesi con l’indice del 6‰.

Speciali criterî di classifica adotta poi la statistica nei confronti dei dati relativi a superfici edilizie; traffico stradale, ferroviario, portuario, ecc.; industrie, agricoltura, produzioni, ecc. ricchezza e tributi; ecc. Tutti i risultati dell’indagine statistica vengono ordinariamente riassunti ed espressi in quadri o diagrammi spesso topografici i quali rendono molto chiara ed efficace la rappresentazione del problema.

Legislazione

Potente ausilio all’urbanistica porge la legge, la quale dà senz’altro l’arma per disciplinare, guidare e sorreggere il piano regolatore.

La legislazione urbanistica ha raggiunto in questi ultimi anni importantissime posizioni tendenti tutte a disciplinare e guidare l’edilizia in un quadro unitario, quello previsto dal piano regolatore. In questo quadro l’interesse del singolo appare sempre più subordinato all’interesse collettivo e in questo anzi tende a risolversi. Naturalmente, se da un lato l’uso della proprietà privata ne risulta sempre più limitato, dall’altro la proprietà privata trova nel piano regolatore un mezzo di valorizzazione del quale si avvantaggia la collettività e quindi anche il singolo.

In Italia la legislazione urbanistica è ferma ancora alla legge (priva di regolamento) del 1865 e quindi purtroppo, ancora in attesa di una necessaria completa riforma, non può essere di grande ausilio all’urbanista; negli altri paesi invece sono state da tempo dettate norme di legge rispondenti appieno alla necessità dei progressi della tecnica urbanistica.

In particolare l’Inghilterra gode del Town and Country Planning Act del 1932 il quale ha sostituito il Town Planning Act del 1925. Questa legge autorizza la compilazione di piani regolatori anche regionali; assicura la protezione delle zone verdi, dei monumenti e delle bellezze panoramiche; impone tributi ai proprietarî; facilita gli acquisti dei terreni per le città giardino. L’espropriazione avviene con valutazione di indennità per mezzo di arbitri. I piani regolatori possono essere di massima ed esecutivi. Speciali norme vietano gli sviluppi edilizî in zone o regioni in cui si reputi che ciò sia antieconomico per la collettività.

La Francia ha importanti leggi, le più recenti delle quali sono quelle del 14 marzo 1919, del 19 luglio 1924 e 19 maggio 1932. Queste leggi dispongono: che i piani siano formati solo da esperti in urbanistica e che l’esame e l’approvazione dei piani siano affidati a un organo consultivo unico. Esse disciplinano l’edilizia dando all’urbanistica la facoltà di limitare gli sviluppi urbani e di guidarli nelle sole zone adatte vietando le costruzioni nelle zone che richiedono servizî antieconomici. Esse vincolano le aree destinate ai pubblici edifici e servizî e facilitano l’opera dell’urbanista dandogli facoltà di imporre le zone edilizie, le classi edilizie e i regolamenti edilizi.

La Prussia possiede un importante corpo di leggi urbanistiche le cui principali sono: la legge del 1875 (Fluchtliniengesetz), quella del 1902 (Lex Adickes) e quelle del 1922 e del 1931. I concetti principali seguiti in queste importanti leggi sono quelli di autorizzare (oltre alle norme generali per la formazione dei piani) l’allineamento duplice delle costruzioni (Strassenfluchtlinie e Baufluchtlinie), ossia un allineamento edilizio indipendente da quello stradale, e la ricomposizione o rifusione (Umlegung) delle parcelle edilizie (Lex Adickes).

Più importante ancora delle suddette legislazioni è la legge sassone del 20 luglio 1932 che rappresenta finora il complesso organico di norme più perfetto e più unitario che esista in Europa. Con essa si autorizzano due tipi di piani: il piano generale di distribuzione (Flachenaufteilungsplan) e il piano edilizio e regolatore (Bebauungsplan). Questa legge dà facoltà di fissare e determinare un vero e proprio zoning, di prescrivere gli allineamenti sia stradali sia edilizî, di rifondere e ricomporre le parcelle, di imporre il proporzionamento tra area coperta e scoperta nelle varie classi edilizie. Essa inoltre detta importanti e minuziose norme edilizie e precisa tipi edilizî.

Accanto a questa moderna legislazione urbanistica va posta quella dei paesi minori che ad essa hanno ispirato i proprî recenti provvedimenti legislativi. Così la Iugoslavia con le disposizioni del 1925 e con la legge del 1931; così la Turchia con la legge del 1927; la Svezia con quella del 1931. Comunque lo spirito di tutte queste leggi straniere moderne è:

- di concedere all’urbanista la più ampia libertà nel fissare e stabilire le zone edilizie, impedendo invece l’edificazione dove egli non lo reputi opportuno;

- di rifondere e ridistribuire le parcelle della proprietà privata in vista di una migliore e più bella utilizzazione;

- di riservare alla comunità le aree destinate all’uso pubblico e agli edifici pubblici;

- di imporre gli allineamenti agli edifici privati prescrivendo per essi anche i tipi, le altezze, la forma e l’uso;

- di dettare, in materia di edilizia, norme circa l’igiene, l’estetica, la sicurezza;

- di vincolare ampiamente la proprietà privata dettando nel contempo le norme per l’espropriazione.

Tecnica dei servizî pubblici

La tecnica moderna dei servizî pubblici, e specialmente quella dei trasporti collettivi, consente all’urbanista di guardare alla città non più come a un sistema limitato, conchiuso e, in un certo senso, inerte. Con la possibilità di realizzare facilmente lo spostamento rapido di grandi masse di cittadini e con quella di offrire a questi, in zone anche lontane dai grandi centri, tutte le comodità di vita che la tecnica moderna può permettere, l’urbanista può oggi infatti guardare alla città come a un vastissimo organismo aperto verso la campagna e, praticamente, senza limiti.

Queste possibilità hanno dunque distrutto il vecchio concetto di «città» quale organismo limitato contrapposto alla «campagna» e gli hanno sostituito quello moderno di «regione» nel quale il primo tende a risolversi. L’intera regione può oggi partecipare alla vita urbana, disponendo di varî centri di vario carattere collegati tra loro mediante le maglie del piano regolatore stradale. Cosicchè, al limite, la città moderna si può considerare composta da un sistema di nuclei urbani a carattere residenziale, distanziati tra loro da zone libere e disposti in modo da poter servire i varî centri di produzione: il centro degli affari; il centro amministrativo; il centro industriale; il centro portuale e commerciale; il centro dello studio, ecc.

Il mezzi di trasporto collettivo, che alla fine del secolo scorso favorirono così prepotentemente il concentramento con la loro azione centripeta, oggi, grandemente sviluppati e potenziati, rappresentano il migliore mezzo per il decentramento urbano. E se le grandi metropoli del secolo scorso hanno dovuto ricorrere a mezzi di fortuna per le rapide comunicazioni foranee (ferrovie sotterranee, metropolitane), oggi, la città moderna, dispone a priori i grandi mezzi rapidi di comunicazione regionale in superficie, riservando per essi nel piano regolatore apposite strisce di terreno libero destinate allo svolgersi delle linee in superficie. I trasporti automobilistici e filoviarî hanno poi portato un grandioso contributo avvicinando tra loro i centri delle regioni urbane.

Economia e politica

Quanto abbiamo succintamente esposto offre un quadro sintetico delle posizioni generali raggiunte dalla tecnica urbanistica in varî settori: in questo quadro gli antichi canoni dell’arte di costruire le città appaiono sostituiti dai nuovi che consentono, anzi impongono, una struttura urbana diversa dall’antica. Va da sé che anche gli antichi concetti amministrativi (politici ed economici) che presiedevano a detta struttura ne risultano sovvertiti e sostituiti da altri più aderenti al moderno «fatto urbanistico».

In una città moderna ad espansione regionale il limite amministrativo risulta notevolmente ampliato poiché, oltre che nell’interesse della città, si deve tener conto delle necessità degli altri centri regionali. Ecco perché la tendenza dell’urbanistica moderna nel campo amministrativo è quella di dare vita a un organo tecnico superiore, il quale dia norma urbanistica a varî centri amministrativi equilibrando i varî interessi in vista di un vantaggio generale. In Italia in questo senso poco è stato fatto: alcune grandi città hanno assorbito i comuni vicini, in altri casi alcuni comuni finitimi sono stati fusi in uno solo dando vita ad un unico e più grande organismo urbano. All’estero invece sono stati favoriti i consorzî di comuni, ai quali è stato imposto un superiore ufficio tecnico incaricato di organizzare la loro vita urbana in rapporto alle necessità generali della regione. Fondendo più organismi amministrativi in un solo si addiviene, in fondo, a una concentrazione; con i consorzî, molto più opportunamente, si conserva l’aspetto policentrico amministrativo, concentrando solo i poteri tecnici.

Comunque, nell’urbanistica moderna le forze politiche, quelle amministrative e quelle tecniche influiscono potentemente sulla economia della città. L’economia infatti, nella città moderna, tende a risolversi in un certo senso in quella della regione stessa e a coincidere con questa, sicché non è facilmente pensabile oggi un organismo urbano vivente fuori del quadro di un’economia nazionale o, quanto meno, regionale. L’urbanista può regolare e disciplinare i valori edilizî molto più efficacemente di quanto non lo potesse in passato, sia predisponendo zone di sfruttamento edilizio, sia creando nuovi impianti che possono diventare centri di lavoro e di produzione, sia favorendo decentramenti in determinate direzioni mediante predisposti trasporti collettivi. Ma oggi più che mai, l’urbanista deve tener conto del quadro nel quale agisce e dell’economia della regione nella quale egli opera.

In Italia (come del resto all’estero) l’urbanistica ha fatto grandissimi progressi specie nell’ultimo ventennio, per il grande risveglio edilizio succeduto alla guerra mondiale. Ma mentre la tecnica dell’urbanistica ha raggiunto notevoli posizioni, la relativa legislazione italiana è rimasta invece ferma alle prescrizioni della metà dello scorso secolo , togliendo così all’urbanistica la possibilità di operare modernamente indirizzando gli sviluppi urbani, regolando le trasformazioni delle antiche città, disponendo i valori edilizî secondo una più moderna e più economia distribuzione.

Così, accanto a una tecnica progredita, manca finora in Italia una forza amministrativa capace di secondarla e di realizzarne i postulati.

L’insegnamento dell’urbanistica viene impartito dal 1921, con l’istituzione delle facoltà di architettura nelle università. L’insegnamento è biennale e consta di due corsi: il primo contempla la storia dell’urbanistica e le istituzioni della tecnica edilizia, il secondo la composizione e lo studio dei piani regolatori, lo studio generale della legislazione e quello dell’igiene urbana. Esiste inoltre presso l’università di Roma una scuola di perfezionamento in urbanistica per i laureati delle facoltà di architettura e d’ingegneria civile. Ha sede a Roma anche un Istituto nazionale di urbanistica il quale pubblica una rivista e ha per scopo la propaganda della cultura e della conoscenza dei problemi urbanistici.

Non era forse la mancanza di conoscenza a impedire l’applicazione dei principi urbanistici, forse era venuto il momento ... di rettificare il tiro ascoltando le sollecitazioni che venivano dai più giovani e che erano emerse esplicitamente a Siena durante un convegno sull'insegnamento dell'urbanistica nel novembre 1951.

I docenti delle diverse facoltà di architettura - alcuni dei quali sono tuttora ancorati alle tradizioni disciplinari precedenti - profilano una figura culturale e professionale dell'urbanista coerente con l'opinione consolidata: egli deve avere «da un lato la capacità di risalire ad una sintesi dall'analisi; dall'altro la capacità di operare questa sintesi in termini di espressione (in senso estetico)». e «se non c'è la base di una società che sappia esprimere i suoi bisogni, è compito dell'urbanista il suscitare questo programma prima che sia formulato con esattezza, poiché l'uomo urbanista è anche uomo politico in quanto antevede, intuisce, induce».

I giovani, partendo da questa stessa ottica, rilevano una contraddizione di fondo: se l'urbanista - osserva Novella Sansoni - è anche e soprattutto un operatore sociale, allora occorre che nella scuola gli si diano gli strumenti necessari a comprendere la dialettica del sociale; mentre «l'insegnamento quale è impartito oggi è parziale, nel senso che ignora le radici profonde dei mali del nostro tempo ed i rapporti economici, politici e sociali che hanno determinato questa situazione ».

Il colpo va a segno, nel senso che queste osservazioni inducono a una vivace discussione con evidenti sfumature autocritiche i docenti più sensibili, avvio - o occasione di maturazione - di un processo di ripensamento sui moduli interpretativi fino ad allora adottati, che qualche anno dopo entreranno effettivamente in crisi ma con un evidente ritardo.

È difficile valutare fino a che punto questo ritardo sia dovuto in concreto alla prepotente influenza di Bruno Zevi sull'Istituto nazionale di urbanistica, del quale era diventato segretario generale nel 1950. Questa influenza non si esplica tanto a livello di contributo teorico - anche perché Zevi ha formazione di storico - quanto con una mostruosa capacità organizzativa: i congressi dell'istituto del 1952 e del 1954, più volte citati, sono preparati con un intenso lavoro svolto in collaborazione con i quadri dirigenti del ministero dei lavori pubblici e dei più grandi comuni italiani, sono introdotti eseguiti dai ministri in carica e dalle più alte autorità amministrative delle diverse città, richiamano migliaia di architetti e urbanisti da ogni parte d'Italia, forniscono una quantità sterminata di documentazione - sotto forma di opuscoli, di mostre, di conferenze - sullo stato della pianificazione urbanistica in tutto il paese, sono occasione di dibattito sullo stato dell'arte, ma anche di vermouth d'onore e di escursioni per le gentili signore. Mi sembra difficile che - in questo clima di ampia collaborazione - potesse prosperare una linea di critica approfondita e serrata alle istituzioni politiche e culturali come quella profilatasi a Siena, sicché la crisi ideologica serpeggia per molti anni sotto i trionfalismi dei discorsi ufficiali senza esplodere, e si esprime comunque anche in seguito ... in forme che tengono sempre conto di quest'ottica conciliativa con il gruppo dominante.

Postilla n. 1Proprietà e proprietà

In realtà le cose sono un po’ più complicate. Bisogna tener conto del fatto che il regime proprietario è stato diverso nelle diverse epoche e nelle diverse civiltà. Per restare in Europa e nel nostro millennio, altro è il regime proprietario nei paesi dominati dal sistema giuridico romano, altro è nei paesi del Centro e Nord Europa.

Nell’area del sistema romano il diritto del padrone ( jus dominis) sulla terra era diritto di usare e abusare ( jus utendi et abutendi), e si estendeva da tutto ciò che c’era sotto il suolo e a tutto ciò che c’era sopra ( ab inferis ad astra); negli altri sistemi giuridici europei i diritti erano più articolati, e ai diritti del proprietario si sovrapponevano quelli dei diversi attori del sistema feudale e quelli della comunità. Per avere un’idea di sistemi giuridici diversi da quello romano, e dei loro effetti sul suolo urbano, basta leggere le pagine di Hans Bernoulli. Ma anche il sistema veneziano della Magistratura al piovego, cui fa riferimento Frederic Lane, è indicativa di sistemi giuridici che attribuivano ai poteri pubblici penetranti potestà, conformative e non solo regolative, nell’uso del suolo urbano.

La necessità di porre “al centro dell'azione per il possesso della terra quale mezzo delle trasformazioni territoriali e urbane”, lo strumento della “'espropriazione per pubblica utilità” diventa quindi necessaria, in quei sistemi giuridici, solo più tardi: quando la borghesia, finalmente affermatasi sull’ antico regime, dissolve le regole dei sistemi giuridici feudali e si impadronisce della proprietà fondiaria (anche di quella dei suoli urbani). Nasce allora, nel sistema capitalistico-borghese, contraddizione tra l’appropriazione individualistica di ogni bene, e la necessità (per la stessa sopravvivenza del sistema economico sociale) di imporre alcune volontà d’interesse generale: quella, ad esempio, di realizzare infrastrutture, o di risanare quartieri urbani particolarmente degradati. La contraddizione tra la necessità dell’intervento d’interesse generale (meglio, di interesse per il sistema economico capitalistico) e il dominio della concezione individualistica della proprietà, è risolta, appunto, con lo strumento dell’espopriazione per pubblica utilità. Uno strumento nel quale il prevalere della decisione pubblica sulla volontà privata è temperato e corretto dal sistema delle garanzie procedurali ed economiche (le rigide regole che determinano le procedure espropriative e la relativa indennità). Ma sul carattere dell’esproprio nel sistema capitalistico.borghese mi sembra che le considerazioni di Francesco Ventura siano chiare e condivisibili.

Postilla n. 2La Corte costituzionale e il suolo urbano

In realtà la Corte costituzionale ha sempre sostenuto che “il diritto di proprietà include il diritto di edificazione” solo perché così dispone la legislazione vigente. Essa però non ha mai negato che il Parlamento potesse modificare, anche radicalmente, i contenuti del diritto di proprietà. A volte si è spinta a suggerire le possibili vie di una riforma del regime degli immobili. Basta ricordare la famosa vicenda delle sentenze costituzionali n. 55 e 56 del 1968, e il dibattito che ne seguì. Già dal testo delle sentenze emergeva chiaramente il possibile percorso di una riforma, ma la dottrina della Corte fu ulteriormente esplicitata dal suo presidente, Aldo Sandulli.

La sentenza aveva affermato che

il principio della necessità dell’indennizzo non opera nel caso di disposizioni le quali si riferiscano a intere categorie di beni (e perciò interessino la generalità dei soggetti), sottoponendo in tal modo tutti beni della categoria senza distinzione ad un particolare regime di appartenenza. Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale regime il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure può imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione. Ma tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che è naturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico. Al di là di tale confine, essa assume carattere espropriativo.

La Corte, in altri termini, sostiene che il legislatore potrebbe anche porre limitazioni pesantissime alla proprietà (quale quella, ad esempio, di stabilire che tutte le aree non sono edificabili dai proprietari), a tre condizioni: che la norma sia stabilita in relazione a tutte le proprietà appartenenti a una determinata “categoria di beni”, senza discrezionalità; che questo derivi da una esigenza d’interesse generale; che la limitazione non annulli il valore economico del bene. In caso contrario, la limitazione è legittima, ma va indennizzata.

Aldo Sandulli, presidente della Corte costituzionale, e primo ispiratore della sentenza n. 55, rilasciava un’intervista (“L’astrolabio”, n. 27, luglio 1968) , sostenendo che la sentenza n. 55 non aveva affatto accordato prevalenza all’interesse privato su quello pubblico. La sua interpretazione era la seguente:

In sostanza la Corte ha affermato: libero il legislatore di stabilire, per categorie, quali cose possono essere di proprietà privata e quali no, e di fissare i limiti di godimento della proprietà; ma, una volta stabilito che una certa categoria di beni (nella specie, il suolo) può formare oggetto di proprietà privata, e che per essa una certa utilizzazione (nella specie, quella edilizia) rientra tra le utilizzazioni consentite in via di principio al proprietario, non può poi il legislatore disporre legittimamente che solo questo o quel proprietario venga privato senza indennizzo del diritto di utilizzare un certo bene della medesima categoria in modo conforme a quella utilizzazione, tanto più quando si tratti della utilizzazione tipica della categoria. È chiaro che queste affermazioni della sentenza lasciano aperta la strada a tutte le scelte, anche le più radicali. L’effettuazione delle scelte, è perciò compito del legislatore e non della Corte.

Le soluzioni possibili in sede legislativa - proseguiva il presidente della Corte costituzionale - sono numerose, “ dalle più temperate alle più radicali”. (Vedi, più ampiamente: V. De Lucia, E. Salzano, F, Strobbe, Riforma urbanistica 1973, Edizioni delle autonomie e dei poteri locali, Roma 1973; E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma-Bari, 20024).

Successivamente Sandulli presentò ufficialmente (non era più membro della Corte costituzionale) diverse soluzioni della questione del regime degli immobili, tra le quali quella della separazione dello jus aedificandi dalla proprietà e della sua attribuzione ai pubblici poteri.

P.S.-Ho trattato ampiamente la questione dei vincoli urbanistici nella giurisprudenza italiana nello scrittoForse che il diritto impone di compensare i vincoli?

Caro autore,

ti scrivo per due ragioni: una occasionale e dunque pretestuosa; l’altra reale e legata alla mia condizione di lettore particolare. Non ha importanza che te le enunci poiché vorrei che fossi tu stesso a dare priorità a quel che ti parrà più rilevante nel mio discorso. Se riuscirò a titolare nella maniera giusta i singoli capitoletti, potrai anche cercare un altro ordine alle cose ed è per questo che si dice che da cosa nasce cosa

1. Dalle parti dei premi letterari

Mi va di renderti noto il mio, si spera temporaneo, stato di tristezza, dovuta ad un fatto sicuramente transitorio, ma che non so quanto potrebbe durare: quanti secoli passarono tra gli ultimi capolavori della letteratura greco-latina e la "Divina Commedia"?

Non irrigidirti, ti prego: il problema dal quale dipende il mio attuale stato d'animo non ha quel peso che la domanda potrebbe implicare, anche se poi, a ben vedere…

Il fatto è, caro autore, che per ragioni che forse un giorno ti racconterò, nell'ultima settimana mi sono venuti sotto mano diversi libri brutti. O meglio, "brutti" non sarebbe il termine esatto. Sono scritti "in italiano" e l'autore mostra anche di saper cavarsela almeno con l'inglese; contengono riferimenti e citazioni in quantità e qualità tali da incutere un minimo di soggezione; perseguono l'obiettivo di dare dignità universale e macro a vicende particolari e micro, ecc. Roba non mal fatta eppure mancante di qualcosa. Hai presente la differenza tra Dante e Lapo Gianni? Tra Petrarca e un petrarchista del Cinquecento? Tra Boccaccio e Masuccio Salernitano? Tra Marcel Proust e tutti coloro che dopo di lui hanno intrapreso la circumnavigazione del proprio ombelico? Forse mi son fatto capire…

E tuttavia, se qualcuno in casa editrice ha pensato che quel libro dovesse uscire con quel formato e quel prezzo, evidentemente avrà fatto qualche calcolo e avrà valutato pro e contro, all'interno di un ambito complessivo nel quale ci saranno entrate anche spintarelle o incentivi. Ma insomma non si mette in libreria qualcosa che ti faccia sfigurare.

E allora questa roba brutta? Non sarò mica io di gusti "difficili", di pretese incontentabili o semplicemente di carattere tignoso, come tanti intellettuali che sembrano vergognarsi se mai gli scappasse un'espressione di entusiasmo?

Gli è che l'estate - come tu sai, caro autore, - è la stagione dei premi letterari e questa volta, anziché attendere la proclamazione del vincitore per acquistare il libro, ho deciso di dare una sbirciatina in giro ai concorrenti.

Qualcosina ho comprato, ma spero che tu e il tuo editore non vi montiate la testa pensando che un lettore comune possa acquistare libri per un paio di centinaia di euro al mese. Perché poi ci sono i dischi, i film, c'è da andare a vedere qualche mostra in un'altra città… [Magari anche mangiare, senza voler essere troppo corporei!] Avete un bel che dire che in Italia si legge poco! Sarà così, ma è anche vero che un uomo di cultura deve aver molto "rubato", nel senso che ha comprato molto meno di quello che ha letto, ascoltato o visto; per ragioni ovvie ma che non si vogliono ammettere.

2. Chi sono e perché

E adesso mi presento. L'anagrafe non è importante quanto la condizione.

Sono un ladro; non sono pentito e non ho intenzione di restituire quanto ho rubato: sono però seriamente intenzionato a far circolare i frutti buoni di quanto ho indebitamente preso.

Vengo da una famiglia povera; e qui tu ti aspetteresti una mia arringa a giustificazione per fame di chi ruba la classica mela. Ma non è di questo che voglio parlarti e per di più il paragone non terrebbe: non si acquista buona salute nutrendosi soltanto di mele rubate…

Ciò che da piccolo mi impediva, non già di leggere ma di leggere quel che volevo, non era la povertà ma la cecità.

Fossero dipesi da me i destini dell'universo mondo, avrei dato retta a Platone e ai suoi discorsi sul rapporto tra memoria e scrittura (contenuti nel "Fedro"). E, stando al governo, avrei promosso provvedimenti del tipo: chi conosce a memoria un libro ha diritto alla restituzione del prezzo e a un compenso quando ne propaga il contenuto. Ma, paradossi a parte, posso dire che una fetta dell'umanità, quella che la natura - madre di parto e di voler matrigna - ha penalizzato nel senso della vista, è rimasta per secoli emarginata da una cultura che aveva scelto l'occhio come organo prevalente di rice-trasmissione.

Quando poco meno di due secoli or sono Louis Braille in Francia inventò l'omonimo metodo di scrittura/lettura per i ciechi, basandosi sull'uso del tatto, sembrò che frontiere sconfinate si aprissero per questa categoria di persone. Successivamente si realizzò la possibilità di una vera e propria stampa in Braille e i ciechi cominciarono a studiare su libri veri e propri.

In Francia ci sono strade e piazze dedicate a Louis Braille; in Italia i più ne ignorano la biografia e talvolta ne pronunciano il nome all'inglese: Breil. Ma questa è un'altra storia…

3. «Ma com’era cominciato tutto?»

La mia carriera di ladro, sia pur giustificata dalla cecità, cominciò prestissimo.

Correvano gli anni Cinquanta, e già questa sarebbe una ragione per scriverci sopra un romanzo. Che te ne sembra del corsivo come incipit? Allora continuo.

[…]

Come nei monasteri, di cui erano una copia non conforme ma pur sempre conformista, nei collegi l’assunzione dei pasti avveniva secondo precise ritualità. C’era innanzitutto una grande sala chiamata ‘refettorio’, termine che oggi nessuno userebbe più per definire una mensa. Ma, mentre in una mensa la gente entra, mangia, talvolta paga e se ne va senza criterio alcuno, una tale anarchia di comportamenti in un refettorio non è ammissibile. Nel nostro refettorio si entrava tre volte al giorno per i pasti canonici ad orari fissi. A un ordine della direttrice si diceva la preghiera e solo a quel punto era permesso sedersi e iniziare a mangiare. Neppure alzarsi e uscire rientrava nei nostri poteri poiché anche l’andata in giardino a giocare doveva avvenire collettivamente, come dire in fila.

[…]

«Il primo furto non si scorda mai», cantava stupendamente Enzo Jannacci; ma io quale sia stato il primo davvero non riesco a ricordarmelo. Forse dipende dal fatto che una vera e propria coscienza di rubare a quel tempo non l’avevo. Ero piccolo e quello che facevo o era perché me lo dicevano i grandi o era per far dispetto ai grandi. I miei atti - direbbe un filosofo accademico - erano eteronomi.

[…]

Che voi sappiate, è meglio rubare prima o dopo i pasti? Io - questo me lo ricordo bene - lo facevo per lo più dopo cena; ed ecco come.

Immaginate una fredda serata invernale. La preghiera era stata detta, la cena era stata consumata, per andare a letto c’era ancora tempo. A questo punto la direttrice in persona o un’assistente (non è che ho sbagliato l’apostrofo, è che erano tutte signorine) prendeva un libro e cominciava a leggere.

Editori ed autori, arrabbiatevi pure ma ormai non ci potete far niente: sono passati più di quarant’anni da allora e il reato è prescritto.

Reato? E quale reato? Non fate finta di non capire: con una copia e una voce quei libri li leggevamo in quaranta/cinquanta! Avete presente quanto ci avete perso?

E volete dei titoli a riscontro di ciò che affermo? “Cuore” di De Amicis, “Pinocchio” di Collodi e financo “I ragazzi della via Paal” di Molnár.

E già lo vedo quello tra voi che da una vita fa il muro di gomma pur di non apparire retrogrado. Egli sosterrà che bene facevano i nostri educatori poiché in questo modo creavano futuri lettori.

[…]

(Dal frammento di un romanzo che mai scriverò su carta, ma in Internet, chissà!…)

4. «Chi so’ io e chi si’ tu”

Qui, caro autore, s’interrompe bruscamente la mia performance letteraria. Tanto per chiarirci, l’autore sei tu; io sono il lettore…

E allora? Non dici niente? Non reagisci? Non fai una piega? Neanche una domanda? Neanche mezza curiosità su come diavolo faccio a leggere? Possibile che tu dia tutto per scontato, compreso il fatto che io ti legga pur essendo cieco? O forse tu dai per scontata un’altra cosa: cioè che io le tue poesie, le tue storie, le tue riflessioni o esposizioni non le leggo e non le leggerei comunque? E se ti dicessi che a certe condizioni le posso leggere, la cosa t’interessa o no?

Procediamo un poco nella storia.

5. Il nastro di partenza

Ad un certo punto - erano gli anni Sessanta - fecero la loro comparsa sul mercato i registratori a nastro, seguiti anni più tardi dai registratori a cassetta.

Magari inventori, realizzatori e venditori pensavano a tutt’altro. Sta di fatto però che per i ciechi questo costituì una specie di rivoluzione, e comunque un balzo in avanti per lo studio e la lettura. Una voce che legge o che tiene una conferenza può essere fissata su un supporto magnetico e rivisitata ogni volta che se ne ha necessità.

Nacquero allora le nastroteche che andarono ad affiancare le meno flessibili biblioteche Braille; e questo, nella mia carriera di ladro, se non corrispose proprio all’invenzione della lancia termica, mi procurò quanto meno un più potente attrezzo da scasso: mi bastava un complice, disinteressato o prezzolato, ed il libro era mio…

6. Chi copia legge, chi non legge non copia

Caro autore, il tema di questa mia ti sarà chiaro solo quando mi avrai letto fino in fondo. Ma fin da ora ti anticipo che le radici storiche del discorso che stiamo facendo si situano proprio qui, nell’irruzione del nastro magnetico nel mondo dei libri. Il termine audiolibri verrà inventatomolto più tardi, ma ecco che, sia pure in una nicchia molto ristretta e specifica come quella dei ciechi, la trasmissione del testo si dimostra possibile anche spostandosi dal visuale all’uditivo (al tattile si è già fatto cenno). Non solo, ma registratori su un versante e fotocopiatrici sull’altro, consentendo la duplicazione abusiva (?) dei libri, ne cambiano sia pure in parte i connotati, secondo lo schema di Walter Benjamin [autore che cito doverosamente per accreditarmi presso di te come intellettuale del mio tempo] quando vede la modernità come l’epoca in cui l’arte muta la sua funzione sociale grazie agli strumenti tecnici che la rendono riproducibile.

7. Libro, quanto mi costi!

Intanto io crescevo, facevo l’università e intraprendevo una professione con il mio registratore, che poi divennero due per poter duplicare, con la mia musicassetta a doppia piastra e sempre con i libri presi a prestito dalle biblioteche o da amici.

Intendiamoci, in libreria dei soldi ce li ho lasciati, come dimostrano le pareti di casa mia; ma mai e poi mai avrei potuto comprare tutto ciò che mi è servito per studiare, laurearmi e andare a fare l’insegnante nelle scuole pubbliche.

Quanto costa un libro registrato su cassetta?

Be’, fa’ conto che in un’ora di registrazione ci stiano una ventina di pagine e che il lettore o la lettrice accettino di farsi pagare con i parametri di una colf, quanto si spende per trecento pagine?

Comprenderai ora l’assurdo della situazione. Venendo a costare dieci volte tanto, un libro registrato avrà bisogno di esser condiviso da una decina di utenti che, duplicandolo in spregio a qualsiasi norma amministrativa e fiscale, arriveranno figurativamente a pagarlo a un prezzo simile a quello di copertina. Nondimeno autori ed editori non percepiranno alcun guadagno da questo che è pur sempre un esborso. Altro che gioco a somma zero! Qui si precipita tutti verso la comune rovina!

Per fortuna c’è lo stato il quale, anche quando non è “sociale”, mette pur sempre a disposizione dei più miseri fra i suoi cittadini certe risorse pecuniarie a condizione che ci sia un rientro in termini di consenso. A gestire il consenso ci sono spesso istanze filantropiche o associative che amministrano questo flusso di denaro approntando servizi talora meritori, ma difficilmente in forma snella e dinamica.

Torniamo a me nella mia fase di confine tra l’infanzia e l’adolescenza. C’era allora e c’è ancora a Monza la Biblioteca Italiana per i Ciechi “Regina Margherita”, che trascriveva libri e li prestava come una qualsiasi altra biblioteca. Alla regina, o meglio a coloro che lavoravano nel suo nome, devo il piacere che mi procurò la lettura di Jules Verne ed Emilio Salgari, nonché la mia giovanile passione per il romanzo giallo che, nata intorno alla biblioteca di Monza, si alimentò successivamente grazie ai nastri del Centro del Libro Parlato. Leggere leggevo, ma di comprare nemmeno a parlarne: non avevo una lira che battesse contro l’altra e per di più lo stato coltivava in me con un certo rigore scientifico quella propensione al vivere a scrocco che in queste righe sto raccontando come propensione al furto continuato e aggravato. In effetti in collegio, dove studiavo, avevo a disposizione i libri di scuola e i lettori per registrarli. Biblioteche e nastroteche mi davano di che passare piacevolmente le ore serali. Di cosa mi sto lamentando? Di nulla: avete mai conosciuto un ladro che si lamenta?

È oggi, riflettendo sul passato e avendo compreso che il ladro non ero io e che anzi era a me che rubavano qualcosa; è oggi, dicevo, che sono in grado di dire con certezza cos’è che non andava. Ma lo dirò più avanti…

8. “Occhi di ragazza”

Ora mi rivedo negli anni Ottanta, seduto accanto ad una ragazza e sul tavolo uno o due pacchi di compiti d’italiano da correggere attraverso i suoi occhi. Spaesante, non trovi? Immagino che tu, pur essendo magari un po’ miope ma non cieco come me, a fatica assoceresti l’idea degli occhi di una ragazza a quella di un pacco di temi scritti contro voglia da adolescenti spesso poco ferrati e ancor meno motivati…

Non essendo propriamente accessibili il mondo degli sguardi e quello della scrittura, a quel tempo e in quelle circostanze professionali mi procuravo in qualche modo un ubi consistam camminando in equilibrio sulla stretta fascia d’intersezione fra i due mondi. E intanto notizie vaghe provenienti dalla solita America parlavano di nuove strade per rendere possibile la lettura ai ciechi, utilizzando l’elettronica e poco più avanti l’informatica. E io sognavo situazioni fantascientifiche nelle quali un robot mi avrebbe consentito in qualche modo di bypassare l’ostacolo principale tra me e il pianeta della scrittura da vedere.

Nella realtà invece - a proposito di volontà politiche presenti o latitanti - la scuola è stata l’unica istituzione sociale che non si è avvalsa degli obiettori di coscienza in servizio civile per supportare persone o situazioni in difficoltà. Risultato: chi mi ha prestato i suoi occhi lo ha fatto disinteressatamente o a pagamento, ma sempre in ambito privato, mentre il pubblico: Laissez faire, laissez passer… Laissez tomber…

9. Caro autore ti scrivo; tu non ti distrarre un po’

Caro autore, ti sto scrivendo queste righe non in Braille, ma digitando sulla tastiera standard di un computer. Lettere, parole, righe, frasi che dal mio cervello passano alle mie dita e ai tasti vanno a collocarsi virtualmente e contemporaneamente in tre luoghi: la finestra di Word sullo schermo che io ovviamente non vedo, un display Braille, ridotto rispetto allo schermo ma che posso toccare, e infine una voce sintetica che me le dice e me le ripete solo che io lo voglia.

Dunque in questo momento io sono un po’ come te per quel tanto che l’essere può identificarsi col fare. Hai presenti le nottate che hai passato davanti al video per rispettare le scadenze imposte dall’editore? Be’ fa conto di vedere me nella stessa posizione - anche di notte, perché no? - davanti ad un ordigno in tutto e per tutto simile al tuo nella posa di compiere l’atto complementare al tuo… Tu fai nottata perché l’editore preme e il tuo conto in banca piange; io perché - come direbbe Massimo Troisi- voi a scrivere siete tanti mentre io a leggere sono solo…

10. La bit generation

Ma di che sto parlando? Devi dunque sapere che la grandezza di Louis Braille è sì consistita nell’aver inventato una scrittura tattile, ma soprattutto nell’aver utilizzato un codice assolutamente informatizzabile. Il puntino in rilievo è un 1 in codice binario, un bit, mentre la casella di sei punti al cui interno binariamente si compongono lettere, numeri e punteggiature, funziona come un byte. Quando si comprese ciò, divenne possibile tradurre in Braille il codice ASCII solo accrescendo i punti di una casella dagli originari 6 agli attuali 8.

«Elementare, Watson», avrebbe detto qualcuno; ma è davvero un peccato che la Chiesa non consideri la pura e semplice intelligenza come requisito per la canonizzazione post mortem; poiché, se così fosse, qualche cero io prima o poi dovrei andare ad accenderlo!

«Per così poco?», tu mi dirai. E non è mica poco! Da lì in poi tutto diventa un problema soltanto tecnico. Si costruisce uno scanner, poi si scrive un programma di OCR ed ecco che ciò che è scritto sulla carta lo possiamo tradurre in bytes, memorizzare e tradurre nel nuovo Braille ad 8 punti. Se poi aumentiamo la memoria e la prestazione delle macchine, allora le operazioni si possono fare in tempi assolutamente accettabili e si può anche sonorizzare il tutto e renderlo quindi ascoltabile.

11. Benjamin e la Finanza, ovvero «In galera li panettiere!»

«Geniale!», ma perché stiamo parlando se il problema è o risolto o in via di soluzione? Già, ma qual è il problema?

In linea teorica il problema c’era anche prima ed era quello della riproducibilità tecnica del libro, del che ho chiamato a testimoni Walter Benjamin e i produttori di macchine e supporti per la duplicazione. Potrei chiamare anche a testimoniare qualche agente della Guardia di Finanza di quelli che ogni tanto vanno a fare una perquisizione in copisteria allo scopo di pizzicare chi, duplicando, evade i diritti di autore e di editore. Ed ecco che il problema comincia a vedersi. Nel campo della musica la situazione è andata molto avanti mentre nel libro una vera e propria esplosione non c’è ancora stata, se eccettuiamo un certo brulicar di fotocopie in ambiente scolastico ed universitario. Il mondo dei lettori normali, diciamo così, resta ancora relativamente immune da questa colpa, la quale consisterebbe nel mangiar pane senza pagare il panettiere.

Tu, autore, e il tuo editore, che vi considerate una sorta di panettieri dell’anima, non mandate giù l’idea che possa esistere una macchinetta nella quale io metto acqua, farina e lievito e mi vien fuori pane fresco anche la domenica! Vi arriva notizia che la macchina in questione è stata inventata e la si comincia a vendere? Ed ecco che le vostre associazioni di categoria cominciano a tampinare governo e autorità: vogliamo una royalty sulla farina, sul lievito e anche sull’acqua che vada a compensare il nostro mancato guadagno!

«Geniale anche questa, però!…»

E già, caro autore. Pagando io le royalties in ogni caso, ti basterà avere una panetteria per percepire qualcosa e la paura di non guadagnare un ghello perché il tuo pane è pessimo non ti perseguiterà la notte. È già capitato ad una certa editoria che, finanziata con i soldi pubblici, si è deresponsabilizzata rispetto ai contenuti e alla loro accettazione da parte del lettore. È pur vero che il libro con la L maiuscola si sforza ancora di mantenere una certa dignità; ma noto in giro movimenti che non mi piacciono e tuttavia non è di questo che voglio parlare.

12. Roba da levargli il Nobel!… 

Parlo invece di quel che mi accadde negli anni Novanta quando ebbi la possibilità di acquistare un computer, uno scanner e relativo software. Con una mossa dello stesso tipo di quella che fa lo studente universitario quando va a fotocopiarsi i capitoli della costosissima pubblicazione i cui contenuti costituiranno materia d’esame, magari con tempi un pochettino più lunghi, iniziai ad importare pagine stampate in files digitali sul mio hard disk.

Per avventura uno dei primissimi libri che misi sotto fu Auto-da-fé di Elias Canetti, e questa è una vera e propria denuncia di cui mi sento fiero. Il fatto è che Kien, il protagonista del romanzo, tra le altre cose è ossessionato dal timore di diventare cieco. Immerso com’è nel mondo dei libri, riterrebbe la perdita della vista come una vera e propria morte. Suo riferimento è Eratostene, antico bibliotecario di Alessandria, il quale, avendo perduto l’uso degli occhi ad ottant’anni, per questo si tolse la vita.

«Caro Canetti, adesso ti ho fregato», pensai leggendo. M’illudevo infatti di aver imboccato la strada giusta. Da quel momento - pensavo - sarei diventato un insegnante molto più bravo: avrei letto un sacco di più e anche la produzione e riproduzione dei materiali didattici mi sarebbe risultata più agevole. Persino l’obiettivo di correggere personalmente senza intermediari i compiti dei ragazzi mi appariva più a portata di mano.

Bisognerebbe sentire in giro se come insegnante in quel tempo diventai effettivamente più bravo; ma certo posso dire che come lettore ebbi un salto di qualità notevole. Un po’ era in gioco la quantità; ma soprattutto ebbi finalmente modo di praticare la libertà.

13. «Libertà vo cercando ch’è sì cara», economicamente parlando

Fino a quel momento, date le difficoltà a cui ho fatto cenno, non potevo sempre permettermi di aprire il titolo che desideravo e facevo un po’ quel che fanno i frequentatori delle biblioteche di quartiere: mi facevo portare dal catalogo e leggevo quel che c’era o che era disponibile in quel momento.

Pensa, caro autore, al potere che ha un produttore o riproduttore di libri in regime di monopolio! Fino all’avvento dell’OCR, il software che consente la traduzione delle immagini in testo, i ciechi sono stati nelle mani di un pugno di persone che, decidendo cosa far loro leggere o non leggere, ne hanno condizionato gli orientamenti e lo sviluppo. Naturalmente non c’è regime al quale non ci si possa in qualche modo ribellare ed opporre, ma, quando per fare scelte proprie bisogna disporre di ingenti mezzi finanziari, allora anche le clamorose eccezioni non sono capaci di invertire le tendenze dominanti.

Prima di giungere alla condizione odierna, sono passato attraverso tre fasi: nella prima rubavo senza sapere di farlo; nella seconda ero convinto di rubare perché certo di non avere alternative; nella terza ho scoperto che quelle cose che io credevo di rubare in realtà mi venivano messe lì davanti a bella posta in modo da condizionare le mie scelte. Non ero io a rubare libri: erano altri che mi rubavano la libertà di scegliere le mie letture.

14. Quel Natale tutti furono più buoni… Tranne gli editori

Caro autore, quest’anno è stato dedicato dall’Unione Europea alle persone disabili e dal momento che in giro ci sono soldi e visibilità, alcuni colleghi tuoi e del tuo editore hanno acconsentito a prestare le loro opere a progetti che agevolassero la lettura delle persone in difficoltà. Non posso che gioirne, sia pure molto parzialmente, se penso che solo due anni e mezzo fa, verso la fine del 2000, i più grossi editori italiani, mediante i loro avvocati intimarono a www.cavazza.it/telebook e a www.galiano.it di chiudere immediatamente le biblioteche digitali che avevano messo online ad uso, sia pur non esclusivo, dei ciechi.

Perché in certi palazzi milanesi si decise allora di dare una spallata persino alla compassione, negando a brutto muso il diritto di leggere ad una fascia di cittadini piuttosto debole contrattualmente? Questo non è mai stato chiarito. Solerzia di legali rampanti e dirigenti di seconda fila con aspirazioni di carriera? Possibile. Tentativo di enclosure sui nuovi territori scoperti con la rivoluzione digitale? Astratto ma possibile. Razzismo alla vecchia maniera? Non da escludere a priori. Ignoranza crassa, pur trattandosi di intellettuali? Non sarebbe la prima volta.

La giustificazione che se ne diede da quella parte non mancò di una vena comica. Sembrerebbe che qualcuno abbia prelevato dai siti anzidetti (invece di procedere con il proprio scanner) del materiale che ha poi stampato e rivenduto, evadendo il copyright. Ed ecco finalmente emersa la parolina magica, il centro di tutte le questioni: il diritto di qualcuno a veder tutelate certe sue prerogative materiali ed immateriali.

15. Il paradosso dell’inaccessibilità

Immaginandoti più o meno mio coetaneo oppure anche più giovane, so che probabilmente tu hai iniziato la tua carriera consegnando in casa editrice il tuo manoscritto che in realtà era già un dattiloscritto. Chi ha preso in consegna i tuoi lavori, li ha trattati in qualche modo e li ha poi portati in tipografia dove tecnici esperti hanno realizzato l’oggetto libro. Diciamo che se tu avessi voluto raggiungere migliaia di persone grazie alla tua sola macchina da scrivere - della penna non ne parliamo neppure -, sarebbe stata impresa grama… L’editore aveva dunque un senso in quanto amplificatore della tua opera. Consegnato il mano/dattiloscritto, dovevi solo attendere che scelte altrui - quelle degli editori/venditori e dei letto­ri/acquirenti - facessero affluire verso di te notorietà e denaro.

Quante volte, caro autore, le tue aspettative sono andate deluse! Magari si sapesse in anticipo quel che piacerà o non piacerà e a chi! E se tu riuscissi ad avere un contatto diretto e non mediato con il tuo lettore, non pensi di riuscire ad introdurre nel tuo lavoro degli elementi di dinamismo redazionale che oggi non ti sono consentiti?

Ragioniamo. Tu oggi lavori al computer e quando consegni, non consegni carta e inchiostro bensì un certo numero di bytes racchiusi in un file più o meno formattato. Se il tuo rapporto col pubblico s’insediasse in questo punto della catena, potrebbero verificarsi tante cose tra le quali una m’interessa particolarmente: io, cieco, potrei leggerti. Al contrario, passando il tuo scritto in casa editrice e di lì in tipografia per diventare definitivamente libro, eccolo assumere una forma per me non più direttamente accessibile. D’accordo: ho il mio computer, il mio scanner e il mio OCR; ma il risultato del mio lavoro null’altro sarebbe se non una sorta di ripristino, un ritorno ad una forma antecedente mai pura al 100%, considerato uno scarto di errore dovuto in parte all’OCR e in parte al mio procedere alla cieca.

Trovi logica questa sorta di gioco dell’oca? Trovi ammissibile che ciò che è nato come accessibile (il file di testo) smetta di esserlo nei passaggi successivi? Te li ricordi quei grandi magazzini di un tempo in cui con la scala mobile si poteva solo salire e per scendere te la facevi a piedi per le scale? E se una persona con problemi alle gambe, giustamente esaltata per le possibilità offerte dalla moderna tecnica, se ne saliva da sola al secondo piano, poi come gliela raccontavano che di scendere non era cosa?

16. Lo spazio nuovo del digitale

Caro autore, … Guarda che io sto parlando della possibilità più favorevole per te: quella che il tuo lavoro vada a buon fine, poiché non è affatto escluso che le tue righe e le tue pagine non arrivino mai sugli scaffali delle librerie, non necessariamente per tuo demerito. Se io a leggere sono solo mentre voi a scrivere siete tanti, è evidente che non potete superare, come autori e come libri e riviste, un certo numero, pena il collasso del sistema, il quale si regge pur sempre sulla legge della domanda e dell’offerta. Ed ecco la svolta consentita dal digitale e dalla rete: tu potresti affidare al mare la tua bottiglia, ma con una probabilità assai più alta che essa arrivi sotto gli occhi o sotto le mani - diventa il caso di dire - di qualcuno che la apre, legge il tuo messaggio e magari ti risponde o ti prosegue in qualche modo.

In un mondo così io come cieco sarei certamente meno in difficoltà nel leggerti. Analogamente a tutti noi lettori - indipendentemente dalle nostre condizioni fisiche o sensoriali - sarebbe consentito di entrare ed uscire dai libri altrui, rendendoci conto di ciò di cui parliamo. Oggi è impensabile che, volendo farmi un’idea dei libri che concorrono allo Strega o al Campiello, io metta mano al portafogli, oltre tutto per pagare anche le copie di coloro che i libri li ricevono gratis per promozione. Una disponibilità del libro in forma digitale renderebbe anche più trasparenti i meccanismi di promozione e circolazione del libro.

17. Clandestino non è tanto bello

So di averti quasi convinto, ma se adesso mi allargassi un po’ e ti facessi la proposta di spedire via e-mail il tuo prossimo lavoro a mille persone, tu ti irrigidiresti. Sento l’obiezione: «E mica posso lavorare gratis!»

Sul problema del copyright e dei diritti connessi alla proprietà intellettuale si discute parecchio in giro per il mondo e non ho certo io l’autorità per dire una parola sensata in merito. La rete, come ogni territorio nuovo, va esplorata e resa civile attraverso la definizione concordata dei meccanismi giuridici che possano regolare i rapporti al suo interno. Ma questo non è il mio problema. Comunque si deciderà di regolare i rapporti economici all’interno della realtà digitale, so che, per quanto non facile al primo colpo, non si potrà né dovrà garantire diritti ad alcuni penalizzando altri: in tal modo non si potrebbe parlare di diritti ma solo di privilegi. I diritti degli autori hanno senso poiché sull’altro lato della strada ci siamo noi lettori che ne abbiamo altri di diritti.

18. E se ci provassimo?

Caro autore, in conclusione di questo mio testo balzano, vorrei tentare di socializzare le mie contraddizioni con le tue per vedere di saltarci fuori assieme, avendo io bisogno di te come tu di me. Tu pensi di avere il diritto di scrivere oltre che la libertà di farlo. Poi finisce che scrivi quando altri te lo lasciano fare per arrivare non necessariamente a coloro cui tu miravi. C’è fra me e te un sistema editoriale che crede di disporre a piacimento dei nostri sentimenti e delle nostre pulsioni pur di far profitti. Quegli editori senza i quali nel XVIII secolo non si sarebbe diffusa la nuova cultura scientifica, oggi sono la corda stretta attorno al collo di chi vuol leggere e di chi vuol scrivere.

La situazione illegale in cui vengono a trovarsi i ciechi nel momento in cui, anche acquistando il libro in libreria, lo duplicano, contravvenendo al noto avvertimento che compare su quasi tutte le pubblicazioni, è solo la punta di un iceberg. Sotto c’è tanto altro che dovremo pur dirci prima o poi in qualche modo.

19. Minori e maggioranze

Se mi sono rivolto a te come a un poeta minore, non è affatto per sottovalutarti. È che oggi la condizione di minorità ci accomuna tutti. Se mi fossi rivolto solo ai poeti maggiori e se anche tutti costoro fossero stati ad ascoltarmi, avrei raggiunto davvero poche persone. E poi non credo di essere io il problema di un autore maggiore che vende comunque con o senza di me. Così come non è lui un problema per me, in quanto il suo libro, di riffa o di raffa, riesco comunque a leggerlo.

Mi chiedo anche se oggi esistono lettori maggiori, nel senso che sono capaci di stare su un libro il tempo necessario per andare in profondità. Io non presumo tanto di me: sono certamente un lettore minore pur essendo uscito, tecnicamente parlando, dalla condizione di lettore minorato. Vorrei intanto uscire da questa sorta di clandestinità alla quale le leggi vigenti mi costringono, ma che viene benignamente tollerata dagli aventi causa in virtù del mio status di disabile, una persona, meglio una categoria, alla quale si è tentato e si tenta di insegnare non la coscienza dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma la gratitudine per le briciole gettate giù gratis dalla tavola del ricco.

Ciò che ti sto chiedendo sono due cose:

- continuare a scrivere e batterti per il tuo diritto e farlo, sapendo che dietro di te ci siamo anche noi lettori;

- spingere il tuo sguardo di scrittore al di là delle tue stesse parole, dove ci siamo noi lettori con tutta la nostra incasinatissima molteplicità.

Possono coesistere il diritto di scrivere e il diritto di leggere?

La scommessa non solo va fatta, ma va anche vinta. Perché non la facciamo assieme?

A rileggerci

Carlo Loiodice

Se qualcuno nelle pagine precedenti avesse rinvenuto parole di sospetta provenienza, è autorizzato a darne notizia ai proprietari. La cosa dovrebbe gratificarli poiché di solito non si rubano cose senza valore.

Enrico Franceschini,

Quel piccolo segno ha 500 anni

perché la punteggiatura torna di moda

Da Manuzio a Internet come cambia la scrittura - Un libro inglese sulla interpunzio vende 700 mila copie e diventa un caso. Parla l´autrice - In che modo quei simboli inventati in Italia ci possono aiutare a pensare e a scrivere meglio

Lynne Truss aveva fatto un po´ di tutto nel mondo della carta stampata: correttore di bozze, redattore letterario, giornalista sportivo, critico televisivo, columnist, scrittrice. I suoi tre romanzi avevano venduto, mediamente, 3 mila copie ciascuno. Non si aspettava più di diventare un´autrice di best-seller. Ancora meno avrebbe immaginato di dovere il successo alle virgole. Quelle che, piazzate nei punti sbagliati, danno un senso assurdo al titolo del volume che le ha dato la fama: Eats, shoots & leaves (alla lettera, Mangia, spara e se ne va ? per il significato esatto, con le virgole al posto giusto, continuare a leggere). E più in generale, le virgole che, insieme ai punti e virgola, ai due punti, agli apostrofi, ai punti esclamativi e interrogativi, costituiscono l´argomento della sua opera: un manuale, per l´appunto, di punteggiatura.

Pubblicato da una piccola casa editrice londinese, la Profile Books, il libro della Truss è il caso dell´anno in Inghilterra. Ha venduto 700 mila copie e continuano le ristampe. Sta per uscire in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Ha provocato recensioni entusiastiche, decine di interviste, una scia di dibattiti. Un fenomeno editoriale, forse non solo editoriale: la scoperta che la gente, nell´era di Internet, ha una smodata passione per la punteggiatura, potrebbe significare qualcosa.

Cosa, signora Truss?

«Confesso che all´inizio non trovavo una risposta. Il successo è stato del tutto inaspettato. Avevo tenuto un programma sulla punteggiatura alla radio. Il mio editore mi ha suggerito di trarne una specie di guida. Sulle prime ho risposto di no. Poi l´idea mi ha suggestionato e siamo partiti. Ma certo senza pensare di fare un best-seller».

Aveva qualche esperienza in materia?

«Non ho mai insegnato, ma è una vita che mi occupo di come si scrive. Ho avuto qualche buon maestro e un´ottima scuola nei manuali di stile che il Times distribuiva un tempo ai suoi redattori. Ammetto però che la punteggiatura non è era la mia ossessione».

E allora?

«Pensando al libro, mi è parso che la gente stesse disimparando a scrivere. Scrivere senza le virgole al posto giusto, o trascurando accenti e apostrofi, significa scrivere senza ritmo, senza tono, senza voce. Significa non sapersi esprimere correttamente. Non saper comunicare».

Qualcuno dirà che lei esagera.

«Prendiamo il titolo del libro. E´ ricavato da una storiella. Un panda entra in un bar, ordina da mangiare, spara una pistolettata in aria e torna da dove è venuto. Il barista gli corre dietro per avere spiegazioni e l´animale gli mostra un dizionario dalla punteggiatura sbagliata, dove alla voce ?panda´ si legge: ?Simile all´orso, nativo della Cina. Mangia, spara e se ne va´. Ma basta togliere quella virgola, e la frase assume il significato autentico: ?Mangia germogli e foglie´. E´ solo un esempio. Basta guardarsi intorno per cogliere le innumerevoli distorsioni, gli errori, le storpiature della punteggiatura e della grammatica, causate dalla pubblicità, dalla televisione, dai giornali».

Non è antiquato scrivere con un eccesso di virgole?

«Troppe, non piacciono neanche a me. Ma non va bene nemmeno troppo poche. C´è un anneddoto meraviglioso sulle discussioni tra il direttore del settimanale New Yorker e un suo redattore. Ad esempio, il redattore insiste per scrivere ?i colori della bandiera americana sono rosso bianco e blu´: altrimenti, sostiene, quella bandiera, appesantita dalle virgola dopo ?rosso´, non riuscirebbe a sventolare come si deve. Il direttore, a sua volta, si impunta per scrivere ?dopo cena, gli uomini si trasferirono in salotto´, sostenendo che quella virgola dopo la parola ?cena´ serve a dare loro il tempo di alzarsi in piedi e scostare la sedia, prima di andare nell´altra stanza. In sostanza: una virgola in più o in meno ha un peso considerevole».

Come definirebbe la virgola?

«Il cane da guardia delle parole. Il pastore che ne prende un gruppo, le fa stare insieme, separandole da un altro gruppo».

Il punto e virgola?

«Un´interruzione molto elegante, che sta purtroppo andando in disuso. L´avvertimento che un discorso sta prendendo una nuova direzione».

E i due punti?

«Ormai, almeno qui in Inghilterra, vengono usati quasi esclusivamente nella titolazione. Invece sono un mezzo insostituible per fare una pausa teatrale, drammatica, ed aggiungere qualcosa al discorso».

Cosa pensa delle e-mail e dei messaggi sms trasmessi con i telefonini cellulari, due modi di scrivere praticamente senza punteggiatura?

«Non mi reputo la sacerdotessa delle virgole, anche se qualcuno ora mi fa passare per tale. Capisco benissimo che il linguaggio si evolve, ed è giusto che sia così. E´ paradossale, tuttavia, che la gente smetta di scrivere correttamente proprio nel momento in cui sorgono due mezzi, e-mail ed sms, che incoraggiano di nuovo a usare la parola scritta. Il telefono sembrava avere ucciso la corrispondenza scritta. Ora e-mail e sms l´hanno rilanciata, al punto che molti, per comunicare a un amico, a un collega, al proprio amore, preferiscono scrivere un sms che parlare al telefono. Eppure mi domando se questo modo sgrammaticato di scrivere non avrà un´influenza negativa, a lungo andare, sulla comunicazione umana in senso assai più ampio».

Cosa vuol dire?

«Vede, la punteggiatura nacque praticamente in Italia, all´epoca dell´invenzione dei caratteri a stampa. Era necessario separare tutti quei caratteri, dare un ritmo alle parole. Così si svilupparono la virgola e poi via via tutti gli altri segni di interpunzione. Nel corso dei secoli, quei segni sono diventati la nostra grammatica interiore: indirizzano e stabiliscono il modo in cui parliamo, in cui ragioniamo, in cui pensiamo. Ecco, mi chiedo se riusciremmo lo stesso a pensare, nella stessa maniera di prima, se un po´ alla volta scomparissero le virgole dal nostro discorso scritto».

Da qualche parte sono già scomparse, senza danneggiare il pensiero umano. Non le piace il capitolo finale dell´Ulisse di Joyce, quel "flusso di coscienza" di settanta pagine di seguito senza un punto o una virgola?

«Il monologo di Molly Bloom è un capolavoro. Ma datemi retta: non scrivete così, se non siete James Joyce».

Stefano Bartezzaghi Un esercito di formiche dà il ritmo alle parole

Qualche tempo fa una puntata di Porta a Porta fu annunciata con le seguenti parole: «La tratta delle ragazze dell´Est costrette a prostituirsi nel talk show di Bruno Vespa. In studio don Oreste Benzi, Ramona Badescu, Elisabetta Gardini, Stefano Zecchi...». Trattandosi anche per quella puntata del solito talk show e non di un innovativo peep show quello che andò in onda fu la nota minestra di parole. Proprio per questo non avrebbe certo nuociuto una diversa formulazione dell´annuncio, o perlomeno una piccola virgola a separare il predicato verbale «prostituirsi» dal complemento «nel talk show di Bruno Vespa». Scansare gli equivoci è sempre una buona norma.

Una virgola; cos´è, una virgola? La mano scende sul pavimento della riga e accenna a una minima torsione: il segno che ne esce rappresenta, nella partitura della lingua scritta, quello che nell´esecuzione orale sarebbe un fiato, una pausa. Ma non è questione di riposarsi dalle fatiche del parlato, tutt´altro: la virgola è uno strumento per l´organizzazione di quella macchina da guerra che è il discorso.

Esagerava il Tommaseo: «Buona parte di logica potrebbe ridursi a un trattato delle virgole», e infatti a volte basta abolire la lingua per sospendere il senso del discorso. Esempio massimo, l´antico oracolo «Ibis redibis non morieris in bello». Il suo senso non si può decidere se non ponendo una virgola dopo «redibis» (Andrai e ritornerai, non morirai in guerra»), oppure dopo «non» (Andrai e non ritornerai, morirai in guerra). Chissà il soldato, ma l´oracolo se l´è certamente cavata benissimo.

Un esempio di ambiguità del genere è poi passato in proverbio: «Per un punto Martin perse la cappa». Secondo l´aneddoto, il monaco Martino non divenne priore perché, trascrivendo l´iscrizione posta sulla porta del convento: «Porta patens esto nulli claudatur honesto», che significa «Stia aperta la porta, non si chiuda a nessun uomo onesto», mise un punto dopo la parola «nulli», dando alla frase un significato del tutto differente. L´iscrizione infatti divenne: «La porta non si apra per nessuno e si chiuda per l´uomo onesto».

Ecco allora che questo esercito di formiche inchiostrate, virgole, punti, punti e virgole, trattini, pare animarsi, sciamare ovunque e pretendere che siano riconosciuti i suoi diritti. Il surrealista Max Aub afferma «Punti, virgole, lineette, parentesi, asterischi: quanti crimini si commettono in vostro nome!» e coerentemente considera i segni di interpunzione come oggetti vistosi del trovarobato necessario per la messa in scena del discorso («?Empalarle en un signo de admiración! Impalarlo in un punto esclamativo!»).

Non sono le muffe che crescono negli interstizi del discorso, i piccoli elementi di polistirolo che attutiscono i colpi in un imballaggio, elementi intermedi a distribuzione stocastica («dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara», disse Gadda). Il loro nanismo grafico e la loro (apparente) afasia acustica non sono i sintomi di una funzione accessoria rispetto alla magniloquenza della parola piena. Il discorso non è una catena, è un arco, e la punteggiatura ne regola la tensione. Anche leggendo senza pronunciare, se nient´altro fa sospettare che la frase è interrogativa (saggezza della nobile lingua spagnola, che lo segnala fin da subito) incontrare proprio sul finire un inaspettato punto di domanda ha un che di disfattista e di derisorio: e il più delle volte costringe a rileggere la frase daccapo, per capirla.

Anche i sobbalzi e i rivolgimenti della stilistica sono visibili dalla punteggiatura. Un secolo letterario separa l´incipit di Gabriele d´Annunzio «L´anno moriva, assai dolcemente», da quello, di diversa soavità, di Aldo Nove: «L´amore, ha lo stesso meccanismo del Gratta e vinci», anche se la virgola deviante fra soggetto e predicato verbale ha una sua onorata storia (Carlo Dossi: «Il gallo, canta»).La professoressa Bice Mortara Garavelli, autrice del recente e impeccabile Prontuario di punteggiatura (Laterza), potrebbe forse preparare qualche test per i suoi studenti, e stabilire la riconoscibilità di un autore a partire dalla sua distribuzione: senza arrivare alle oltranze di Giuseppe Garibaldi, che nel suo romanzo Clelia ovvero il Governo dei Preti sostituisce la maggior parte delle virgole e dei punti fermi con trattini che deliziarono Alberto Arbasino («E´ questo poi amore? - E´ questo quel passatempo - che i mortali succhiano come l´arancia - scaraventano poi nel letamajo?»), è evidente il passaggio della prosa letteraria e saggistica dalle fioriture barocche a quella sorta di pointillisme interpuntivo più recente che spezza le frasi in segmenti, una corrente capeggiata dal sociologo Ilvo Diamanti («Venezia dopo Genova. Città di mare. Con una storia lunga. E importante. Di autonomia.», eccetera).

Bisogna però stare attenti a una questione. E´ molto facile, sul piano del costume linguistico, tirare le conclusioni a cui si rifaceva l´eccentrico critico linguistico Leo Pestelli già decenni fa: «Sta bene che i retori posero che il periodo lungo si affà all´animo tranquillo e il breve all´agitato; ma non siamo poi tutti e sempre in convulsioni noi moderni». Andatelo a dire a Proust, cosa si «affà all´animo tranquillo»! Provate a vedere quanto è convulso e ritmato un periodo di Aldo Busi rispetto a una ordinaria raffica di punti fermi post-hemingwayani...

Pensare che la scrittura contemporanea faccia a meno delle virgole per esprimere tensione e ritmo sarebbe come affermare che per rappresentare pittoricamente la malinconia sia necessario usare solo colori scuri. La convulsione postmoderna inclina alla costruzione di labirinti testuali a cui lo scrittore Garibaldi e il suo apparato di trattini potevano ambire solo in via involontaria. La tendenza a semplificare la punteggiatura è indubbia: ma nel prenderla in considerazione non dobbiamo semplificare persino la tendenza medesima.

Bice Mortara Garavelli La storia moderna fra virgole e punti

Prendiamo un testo antico, manoscritto o a stampa. La punteggiatura, se c´è, risponde a criteri in tutto o in parte differenti da quelli che adotteremmo oggi per lo stesso testo: diversa dunque la funzione, e anche la forma tipica dei segni, se si tratta di un manoscritto. Perfino la separazione delle parole può non corrispondere a quella che è in uso oggi. Ne abbiamo esempi dall´antichità classica alla fine del Cinquecento, in Italia. Per darne un solo campione: Michelangelo usava solo due segni, una sbarra obliqua semplice e una doppia, ignorava accenti e apostrofi e separava le parole mescolando criteri morfologici e fonetici. Come si vede in questo verso di uno dei suoi sonetti: «Di nanzi misallunga lachorteccia» (Dinanzi mi s´allunga la corteccia). Ci sono scritture dove le parole non sono mai distaccate l´una dall´altra da spazi bianchi o da altri elementi divisori: in questo caso siamo di fronte alla scriptio continua, largamente praticata nell´antichità, greca e latina, e ancora prevalente, secondo gli antropologi della comunicazione, in molte tradizioni grafiche attuali. Ma rimaniamo nell´ambito delle lingue europee. In principio ci furono «segni critici», alcuni dei quali funzionarono poi come interpunzioni. Segni critici sono, ad esempio, i tratti verticali uniti a puntini che distinguevano unità brevi del discorso in iscrizioni greche anteriori al V secolo a. C., o la lineetta orizzontale detta paragraphé "scritta a lato", che in papiri del sec. IV a. C. indicava l´inizio o la fine di un argomento. I primi segni di punteggiatura furono accorgimenti per la lettura ad alta voce; pochi di numero: i maggiori filologi ellenistici (III-II sec. a. C.) ne usarono solo due, mentre molti erano i segni critici da loro introdotti nelle edizioni di testi classici. A Roma, Cicerone diffidava delle interpunzioni segnate dai copisti: sosteneva, e quest´idea fece scuola, che per modulare nel modo giusto le cadenze del discorso si doveva fare assegnamento non su segnali esterni al testo, ma sulla comprensione della sua struttura, sintattica e ritmica.

Tre erano le «posizioni» classiche (in latino positurae o distinctiones) per le rispettive sezioni del discorso: per la minore (comma), la subdistinctio, indicata da un punto in basso; per la mediana (colon), la media distinctio, con un punto a metà altezza; per la maggiore (periodus), la distinctio, segnata da un punto a varie altezze. Grosso modo, le tre funzioni corrispondevano a quelle che sarebbero poi state attribuite, rispettivamente, alla virgola, al punto e virgola, e al punto. L´analogia è trasparente nella nomenclatura inglese, dove i tre segni conservano il nome delle partizioni antiche: comma (,) colon (:) e semicolon (;) period (.) detto anche full stop. Nei periodi tardo antico e medioevale variarono le denominazioni e soprattutto i segni grafici. Ancora più instabili furono per secoli le pratiche interpuntorie; fra i primi a introdurre una punteggiatura nella Bibbia fu San Gerolamo (tra il IV e il V sec.). Alla fine del sec. XIII l´inventario dei segni si è allungato: ha fatto la sua prima apparizione il punto interrogativo, qualche decennio dopo compare anche il punto ammirativo o esclamativo o enfatico. Ma nella pratica le interpunzioni normalmente usate o sono poche o differiscono l´una dall´altra secondo le abitudini degli scrittori o dei copisti: la difformità è la regola, non l´omogeneità delle forme e delle relative funzioni. Nel manoscritti del Canzoniere di Petrarca le interpunzioni sono ridotte a tre o quattro: il punto, una sbarra obliqua (detta virgula suspensiva) per la virgola, un punto intersecato da una virgula o posto sotto a questa per gli incisi. Oltre a questi, nell´autografo del Decameron troviamo il punto e virgola e i due punti come segno di pausa lunga, il semipunto per indicare interruzione di parola, il punto di domanda e qualche altro accorgimento grafico. L´uniformità nelle convenzioni interpuntive entrerà in gioco solo con l´avvento della stampa. È il grande stampatore veneziano Aldo Manuzio a dare origine a un sistema pressoché moderno nelle edizioni di opere di Pietro Bembo (a cominciare dal 1496): virgola nella stessa forma odierna, punto e virgola per una pausa minore di quella segnata dai due punti, punto fermo in chiusura di periodo e «punto mobile» alla fine di frasi interne al periodo, apostrofo e accento. Nel corso dei secoli il punto e virgola, o puntocoma, ha avuto attribuzioni problematiche: dall´introdurre il discorso diretto all´essere anteposto al pronome relativo, al racchiudere incisi. Con quest´ultimo valore è ancora usato da Leopardi.

Dal Cinquecento in poi fioriscono i trattati sul «modo di puntare» gli scritti; si complica la nomenclatura e si moltiplicano proposte che hanno scarso riscontro nella pratica degli scrittori, anche dei più grandi, come Machiavelli e Guicciardini. Ariosto, pur conoscendo i principali segni, li adopera pochissimo nello scrivere abituale. Nel Seicento di fa strada l´idea di una «punteggiatura per l´occhio», adatta a segnare non solo la durata delle pause nella lettura e le cadenze che danno colore al senso, ma anche a chiarire i nessi tra gli elementi del discorso: ciò che si intende per «punteggiatura logica». Le due funzioni, ritmica e logica, coesistono ancora, e spesso si scontrano, fonte di incoerenze tra gli usi indotti dalla prima e le norme suggerite dalla seconda. Nel Settecento la moda dello stile spezzettato in frasi brevi favorisce l´interpungere ritmico. Più che i contributi della trattatistica dal Sette al Novecento interessano le prese di posizione degli scrittori: Leopardi teorizza e applica una grande parsimonia interpuntiva, Manzoni, ugualmente accurato, abbonda specialmente nell´uso della virgola: la mette anche tra soggetto e verbo, quando dà informazioni del tipo «in quanto a...» («di tante belle parole Renzo, non ne credette una») oppure mette a fuoco il soggetto: «Voi, mi fate del bene...» (= siete voi che...). Nemico delle (troppe) virgole fu D´Annunzio; radicali nel sovvertire ogni tradizione interpuntoria i futuristi. Assenza o ridondanza di punteggiatura caratterizzano i movimenti letterari nel Novecento e oltre.

Viva la guerra! E zia Giannina mi rimprovera

Avevamo le serrande avvolgibili, di legno, nella casa del Corso. Il sole entrava a strisce, faceva strani disegni sulle pareti e i mobili. Una porta filtrante per la luce, da fuori a dentro. Da dentro a fuori filtrava i miei sguardi, il mio cercare il mondo. Anche comunicare con il mondo, nella mia fantasia. Come quella volta, nel giugno 1940, quando sentimmo alla radio che l’Italia era entrata in guerra. Il discorso del Duce, dal balcone su Piazza Venezia, le parole bellicose ed entusiasmanti, le ovazioni del popolo Mi sentivo riempito anch’io di sacro furore. Ritagliai in piccole striscioline un foglio di carta, su ciascuna scrissi “Viva la Guerra”, le ripiegai e mi accingevo a gettarle per strada, tra le stecche della persiana, per comunicare al mondo la mia partecipazione. Mi sorprese Zia Giannina, mi fulminò con lo sguardo gelido e mi spiegò che non si inneggia mai alla guerra. Nelle sue parole si esprimeva la cultura cattolica.

Nonostante la sostanziale partecipazione al fascismo della mia famiglia, nonostante gli ascendenti militari, la guerra non entusiasmò nessuno. Certo, le vicende sui diversi fronti erano seguite con partecipazione: ricordo come si ascoltava, con attenzione ed emozione, il quotidiano bollettino di guerra alla radio, all’una. Ricordo un’atmosfera più di attesa, di sospensione, che di tifo. Forse la famiglia aveva cominciato la revisione critica del fascismo. Un episodio che dovette aiutare, in questa direzione, fu certamente la partenza di Maria Simon.

La mia Schwester era ebrea. Quando il Führer venne in Italia, nel 1938, papà fu avvertito dalla Questura che, se non avessimo provveduto ad allontanare Schwester Maria, sarebbe stata messa in camera di sicurezza insieme a tutti gli altri ebrei stranieri. Non serviva che essa avesse un genitore ariano, che fosse cristiana protestante. La soluzione che fu concordata fu di mandarla per qualche giorno a Foggia, dove papà aveva una casa. Qualcosa mi turbò, di questo episodio, più di quanto mi entusiasmassero i portali di cartone, le gigantesche bandiere, i fasci e le svastiche eretti lungo il percorso che Hitler e Mussolini avrebbero compiuto salutando, dall’automobile scoperta, la folla inneggiante.

All’inizio della guerra papà fu richiamato alle armi. Non aveva fatto il servizio militare, così cominciò dalla gavetta, soldato semplice. All’inizio stava alla caserma di fanteria al Corso, verso Mergellina. Sul muro verso la strada c’era una grande scritta: “Fu il Fante il seme e la Vittoria il fiore”. Dopo l’addestramento, da sottotenente e poi tenente, andò in Grecia e in Jugoslavia: ricordo una cartolina di saluti da Mostar, con il ponte distrutto in questi anni dalla guerra dei serbi..

La raccolta delle schegge

Cominciarono i bombardamenti. Prima sporadicamente, poi tutte le notti. Era diventato un rito: andando a letto ci si preparava sulla sedia il maglione, le calze, il cappotto con il quale ci si sarebbe coperti appena avesse suonato la sirena d’allarme. Nei primi tempi, si correva in una stanza appositamente attrezzata in cantina. Travi di legno puntellavano pareti e soffitto, e sacchi di sabbia avrebbero dovuto riparare dalle schegge. Tutti i vetri di casa erano rigorosamente decorati di larghe strisce di carta gommata, per impedire che gli spostamenti d’aria delle esplosioni rompessero i vetri minacciando l’incolumità dei passanti.

La nonna, Nannina, zia Giannina recitavano il rosario, gli uomini, negli intervalli tra un bombardamento e l’altro, andavano in strada per fumare una sigaretta e guardare le sventagliate dei riflettori, i fuochi degli incendi dove le bombe erano cadute, le ultime raffiche dell’antiaerea. Ma dopo un po’, si capì che, se una bomba fosse caduta sulla nostra casa, il rifugio non avrebbe costituito riparo sufficiente. Subito al di là di via Tasso c’erano (e ci sono ancora) due alberghi, il Britannique e il Parker, entrambi appartenenti alla stessa famiglia. Dagli alberghi, attraversando le cucine e i magazzini, si raggiungevano immense caverne scavate nella montagna di tufo che si alzava verso il Vomero. In quelle caverne erano stati organizzati dei giganteschi rifugi, ben più sicuri della nostra fragile cantina.

Furono presi i necessari accordi. Diventammo frequentatori abituali del rifugio del Britannique. Là c’erano bambini, si poteva giocare e girare. C’erano anche le nostre amiche Lölingher, Maria Antonia d’Ayala Valva e i suoi fratellini Inigo e Diego, Eddy Perriello, Leonetto Levi de Leon e altri. Quando si prevedeva che i bombardamenti fossero molto prolungati, la nonna e noi piccoli dormivamo direttamente in albergo, per essere pronti a scendere nel rifugio al primo allarme.

La mattina dopo i bombardamenti la città era piena di novità. Non erano novità le automobili con i fari tappati da maschere di carta, né i piccoli bunker costruiti all’entrata dei rifugi; queste erano diventate componenti normali della città, come le grandi strisce di carta incollate sulle vetrine e sulle lastre delle finestre. La novità effimera erano le schegge: le tracce che avevano lasciato i bombardamenti della notte prima, e che noi ragazzi facevamo scomparire ogni mattina per arricchire le nostre collezioni. Schegge piccole e grandi, d’alluminio, di rame e di leghe sconosciute, proiettili dell’antiaerea e spolette dei razzi traccianti, pezzi dalla cui curvatura si poteva comprendere se provenivano dall’esplosione di una bomba grande o di una di pochi chili.

Privilegiati nella raccolta di schegge erano gli scugnizzi, che si svegliavano presto la mattina ed avevano la strada come loro residenza abituale, e i bambini dotati, come me, di una grande terrazza, luogo riservato di raccolta. Era una strana emozione salire, la mattina, in terrazza, cercare per terra e trovare questi strani pezzi di metallo, dalle forme stravaganti foggiate dall’esplosione.

Vacanze a Fiuggi

Era forse il primo anno di guerra quando andammo in vacanza a Fiuggi. Forse perché era un luogo più vicino a casa e più lontano dagli insicuri confini, rispetto alla consueta Val Gardena. Avevo una bicicletta, con le ruote di legno marca Ballon, che facevano ridere i miei nuovi amici: mi sentivo preso in giro, e la mia timidezza ne veniva ribadita. Diventai amico di un ragazzo Campello, non ricordo il nome. Organizzammo insieme una specie di festicciola a pagamento, in una sala del grande albergo dove abitavamo, con le sorelline che ballavano addobbate da grandi.

Con il ragazzo Campello progettammo a lungo una “fuga”, che avremmo intrapreso appena attrezzati. Raccoglievamo oggetti che potevano servirci. Non se ne fece nulla. Eravamo dei chiacchieroni.

Conobbi la prima barzelletta sporca. Era la risposta alla domanda: quante palle ci sono sul campo se c’è una squadra di undici giocatori? La risposta era: ventitré. Ci misi un bel po’ a capirla. E mi innamorai di una nuova bambina: si chiamava Eva, aveva dei bellissimi boccoli biondi, mi sembra che fosse di origine ungherese. Naturalmente non si accorse di me.

Da Fiuggi tornammo a Napoli. La guerra non accennava a concludersi. Si continuava ad andare a scuola, a raccogliere le schegge dopo i bombardamenti, a passare le notti al rifugio del Britannique. L’anno dopo andammo in villeggiatura a Sorrento. Di lì, la notte, si vedevano i bombardamenti da lontano: sembravano fuochi d’artificio, accompagnati da un cupo rombo. La guerra era diventata ormai una cornice permanente della nostra vita. Un bambino mio coetaneo (abitava con noi all’Hotel Vittoria) era noto come “Tonino bollettino”. Aveva una memoria formidabile e l’impiegava per imparare a memoria il bollettino di guerra, che ogni giorno veniva trasmesso dall’Eiar in apertura del giornale radio dell’una: da quel momento era in grado di ripeterla a memoria a chiunque glie lo chiedesse.

Renato e Riccardo

Una fotografia ci ritrae in terrazza, al Corso. Avevamo forse una dozzina d’anni. Era quindi durante la guerra, gli ultimi tempi prima dello sfollamento a Roccaraso. Eravamo tre amici inseparabili.

Riccardo Tomacelli era figlio di un’amica di mammà, molto simpatica, e di un signore un po’ noioso che era lettore d’italiano in una università di Dublino (o lo divenne dopo, non ricordo). Era un ragazzino con capelli lisci, pettinati con cura. Era legato a una vasta parentela, che frequentai anni dopo: i Del Balzo di Presenzano, possessori e inquilini di una bellissima villa sul mare, a Posillipo, dove da piccolo Schwester Maria mi aveva insegnato a nuotare.

Renato era figlio d’una famiglia della tranquilla borghesia napoletana. Suo zio era un importante personaggio della Dc napoletana, Leopoldo Rubinacci, che lo prese sotto la sua protezione e, più tardi, lo avviò alla carriera diplomatica. Renato ne percorse tutti i gradini, poi diventò “ministro degli esteri” della Fiat, ministro del commercio estero nel governo [ES1] , poi presidente del Trade World Office. Lo rividi ai primi passi della sua carriera: era Primo consigliere (o qualcosa del genere) a Stoccolma. Mi parlò solo dei nuovi tipi di preservativi che si usavano lì.

Sfollati a Roccaraso

Quando i bombardamenti divennero più intensi un certo numero di famiglie prese la difficile decisione di “sfollare”: si radunarono armi e bagagli e ci si trasferì a Roccaraso, un paesino d’Abruzzo dove qualche volta si andavano a passare le vacanze di Natale. I marchesi Santasilia con i loro bambini, Enzo Strongoli e la bella moglie, i principi D’Avalos, i cugini Carignani, tutti ci trasferimmo tra le montagne abruzzesi. Ogni cosa i miei portarono con sé: bauli e bauli contenenti tutta la biancheria, personale e di casa, i vestiti e le pellicce, i gioielli e le scarpe, casse contenenti i 150 chili d’argenteria di famiglia, libri, e ricordi preziosi, come una delle due copie del Bollettino della Vittoria vergato dalla mano di nonno Armando. Tutto si cercò di salvare dai bombardamenti: gli oggetti portandoli in Abruzzo, i mobili, i quadri e i tappeti sistemandoli in una villa a Ottaviano, un paesone tra Napoli e Caserta, nella villa di amici.

La nostra vita cambiò. Non in peggio. Abitavamo in un appartamento costruito sulla rocca che dominava il paese, e da cui esso trae il nome. (Rocca raso, rocca di raso, si poteva pensare, e i prati erbosi che circondavano il paese giustificavano il toponimo; solo dopo compresi che era anche una premonizione: rocca rasata, come la storia volle). Sotto di noi abitavano i Santasilia. Una grande stufa di terracotta, della ditta Becchi di Forlì, riscaldava splendidamente la casa.

Si giocava più di quanto si studiasse; lo studio, del resto, era affidato prevalentemente alla buona volontà del parroco, il quale disponeva pure d’una bibliotechina circolare alla quale attingevamo i libri di Fantomas e altri polizieschi per ragazzi. Fino ad allora le mie letture si erano limitate alla traduzione per bambini delle grandi storie della letteratura romantica nella collana della Scala d’Oro, e all’amato Emilio Salgari (Jules Verne, di cui ricordo uno splendido Le pays des fourrures, rilegato e con incisioni d’autore, mi piaceva molto meno).

Nel paio d’anni che trascorremmo a Roccaraso le mie amicizie cambiavano, a seconda delle stagioni e delle passioni. Soprattutto nel primo periodo passavo le giornate con i bambini del paese, i “roccolani”. La cosa che mi entusiasmava di più erano le gite in montagna. Si partiva la mattina presto, con una pentola o una padella che qualcuno aveva trafugato, una mezza bottiglia d’olio, un pacco di pasta. Per strada si scavavano un po’ di patate da qualche campo. Arrivati sulle brulle montagne a pochi chilometri dal paese so completava la costruzione di una “casola”, iniziata alla gita precedente: una costruzione rozzamente messa su con muri a secco, e coperta da rami di pino. Si cucinava, si mangiava, i più abili davano la caccia agli scoiattoli con le fionde, sapientemente costruite da un legno a forcella e due pezzi di camera d’aria legati da una toppa di pelle, o addirittura con le frombole nelle quali il sasso, adagiato all’interno di un attrezzo di corda e pelle, veniva scagliato dalla forza della rotazione del braccio.

In questo, come negli altri giochi d’abilità e di forza, non solo non eccellevo ma neppure mi cimentavo volentieri. E invidiavo la capacità dei miei amici paesani a giocare a “mmazza e piuze”, con un bastone lungo che percuoteva, lanciandolo lontano con mira precisa, un bastoncello più corto, rastremato alle due estremità, dopo averlo sollevato da terra con un appropriato colpo su una delle punte. Così come invidiavo la loro bravura nel precipitarsi giù sui campi di neve, avendo ai piedi due tavole di legno grezzamente foggiate, o due doghe di botte, e correndo più veloci degli sciatori di città calzati con gli sci di marca accuratamente trattati con la specifica sciolina.

Naturalmente anch’io sciavo, ma senza fare grandi prodezze. Sono arrivato, al massimo della mia carriera di sciatore, a fare dei buoni “spazzaneve” e qualche assaggio di “christiania”. I miei genitori erano bravissimi, invece, specialmente la mamma. A volte affittavamo una slitta trainata da cavalli e salivamo alla Piana dell’Aremogna, dove noi piccoli facevamo campetti e i grandi percorrevano passeggiate di fondo, con le splendide pelli di foca (che qualche volta anch’io adoperai, con notevole fatica e imbarazzo).

Altre gite le facevano in primavera e in autunno. In queste occasioni a un certo punto si apriva una grande tovaglia, sulla quale venivano adagiate grandi frittate di maccheroni (in genere erano sia rosse, con gli spaghetti preliminarmente conditi con la salsa di pomodoro, sia bianche, con gli spaghetti conditi con burro e parmigiano). Una direzione tipica per le gite erano le pendici del Monte Tocco, dove prima delle feste di Natale di andava a raccogliere il vischio parassitariamente abbarbicato sui vecchi alberi del querceto. A volte Raggiungevamo Pietransieri: Un paesino poverissimo, dove la vita scorreva cento anni più antica di quella che si svolgeva nella stazione turistica di Roccaraso, distante pochi chilometri. Pastori, contadini e taglialegna erano i mestieri di questo paese (diventerà presto tragicamente famoso), dove ancora l’eliminazione degli escrementi avveniva vuotando per strada, all’ora serale annunciata dal banditore, i domestici vasi.

Nuovi amori

In quegli anni gli amori, da fantasmi infantili, diventarono sentimenti quasi istituzionalizzati da una sorta di riconoscimento sociale. Ancora infantile era il sentimento che m’ispirava Mimma Chiarini, snella bionda dagli occhi celeste, sorella di Paolo e Carlo (più tardi famoso germanista l’uno, noto architetto l’altro; Mimma sposò Vito Laterza, editore in Bari come suo padre e suo nonno). Pienamente adolescenziale fu l’amore per Annamaria Sepe, sorella anche lei di amici romani, incontrati e conosciuti a Roccaraso con il solito tramite dei genitori. Annamaria, che era amica delle sorelle, ricevette anche, turbata quanto me, un fuggevole bacio. Mi regalò (o sottrassi a qualcuno) una sua fotografia. E mi arrabbiavo molto, fino alle lacrime, quando i miei amici un po’ più grandi, primo fra tutti mio cugino Luigi, mi prendevano in giro. Ancora ricordo quando, dopo una rissa, mi strapparono di tasca la fotografia che, nella colluttazione, finì in un mucchio di patate: “Annamaria tra le patate!” fu l’urlo di guerra, per me profondamente offensivo.

Un ulteriore amore di quel periodo, quando i Sepe partirono per l’Alta Italia, fu per Maria Stella Signorini. Era una bambina più piccola di noi (di me e del cugino Luigi, che insieme a me le faceva la corte). La madre era una donna bellissima, siciliana credo. Il padre Renato faceva (si diceva) deliziose statuette d'oro; ma non era uno scultore, era proprietario di un grande albergo a Via Veneto, il Flora.

Con Maria Stella, e la sua bambinaia inglese, lunghe passeggiate nei prati autunnali raccogliendo crochi viola e bianchi. La rividi qualche mese più tardi a Roma, dove per incontrarla andavo a Piazza di Siena, luogo dei suoi giochi. Non so come, avevo scoperto questa sua abitudine. La sfruttavo, acquistando così un vantaggio rispetto a Luigi. Aspettavo lei (e l’immancabile governante) seduto sul prato, le spalle appoggiato a uno degli alti pini a ombrello, leggendo un libbriccino trafugato dalla biblioteca di zia Irene: Baudelaire, Les Fleurs du mal. Ma questo successe, come dicevo, qualche mese più tardi. A Roccaraso accaddero altri eventi, nuovi e drammatici, inaspettati nel loro svolgimento.

La caduta del fascismo e la fuga dei giovani

A luglio, nel 1943, cadde il fascismo. Mussolini fu chiamato da Vittorio Emanuele III e portato via con un’ambulanza, verso il domicilio coatto dell’Albergo Campo Imperatore, sul Gran Sasso. In tutto il paese furono abbattuti i simboli del fascismo: i fasci, gli emblemi del Duce. All’inizio fu, anche a Roccaraso, una gran festa. Tutti quelli che avevano ascoltato Radio Londra clandestinamente, con le radioline a galena, uscirono trionfanti e diventarono dei leader. Si discuteva di politica. Parole inusitate (come Partito d’Azione, socialisti e comunisti, Comitato di liberazione nazionale) entrarono nel nostro linguaggio.

Nel frattempo, sulle montagne e sugli altipiani era cominciata (e si sviluppo in modo consistente dopo l’8 settembre e il tentativo dell’Italia di uscire dalla guerra) un’azione clandestina di soccorso ai paracadutisti atterrati dagli aerei abbattuti, ai prigionieri inglesi e americani evasi dai campi di concentramento, ai primi partigiani che nelle boscaglie dell’Abruzzo s’erano arroccati. Ci fu, probabilmente, anche qualche colpo di mano contro i militi fascisti o le scarse truppe tedesche. Cominciarono le rappresaglie. Come sapemmo più tardi Pietransieri, colpevole d’aver dato asilo a prigionieri e partigiani, fu distrutta, la popolazione trucidata.

I giovani e gli uomini adulti erano fuggiti suoi monti. Ogni tanto, pattuglie tedesche guidate da qualche fascista immarcescibile facevano rapidi rastrellamenti. Ma una volta l’azione avvenne in grande stile. La ricordo ancora, con precisione.

Rastrellamenti e nascondigli

Ci eravamo appena seduti a tavola. A casa nostra si era preparata una splendida minestra di pasta e fagioli, con le cotiche di maiale. Mangiavano con noi i Santasilia. Papà e Gino Santasilia, dopo un periodo di permanenza alla macchia erano tornati alla base: avevano entrambi assolto gli obblighi militari, credevano d’essere al sicuro. Arrivano in paese due camion tedeschi, da cui scendono correndo pattuglie di SS, brandendo mitra minacciosi, con i cinturoni guarniti di bombe a mano. Una pattuglia salì correndo le scale, irruppe nella nostra casa. Eravamo tutti atterriti. Mia mamma andò incontro agli SS e, parlando in tedesco, con grande tranquillità chiese loro se potevano aspettare che avessimo finito di mangiare e che papà avesse potuto preparare la valigia. Questo atteggiamento fugò in noi ogni paura.

La valigia era pronta. Gli uomini furono scortati fuori, in piazza. Alcuni camion li portarono via, nella direzione di Rivisondoli, Sulmona, Roma, il Nord. Il giorno dopo sapemmo che non li avevano portati al Nord: si erano fermati a Rivisondoli. Le SS li avevano affidati alla milizia territoriale tedesca, a un corpo del Genio. Erano accantonati un una scuola, dormivano per terra su mucchi di paglia. Dovevano scavare trincee.

Trascorsi alcuni giorni alcuni cominciarono ad avanzare ragioni e pretesti per essere esentati da quella corvée. Il primo fu mio zio Franz Carignani: aveva l’ernia. Con lui tornò a casa Enzo Strongoli. Poi a papà fu riconosciuto un vizio cardiaco. In realtà non producevano molto. Non che battessero la fiacca, ma come manovali non valevano un gran che. Solo Gino Santasilia rimase lì, a Rivisondoli e nei dintorni, a scavar trincee contro le armate degli Alleati. Il lavoro lo prendeva sul serio, ci dava dentro con energia.

La vita proseguì. Continuarono le gite, Luigi ad io accompagnavamo Maria Stella a raccogliere crochi, con la governante inglese. Il cibo non mancava. Mammà aveva barattato un paio di stivali da cavallo con mezzo maiale. Fu grande festa e gran lavoro quando fu macellato, quando le carni e le frattaglie furono trasformate in salsicce, lardo, prosciutto, sugna colata nelle vesciche e nei barattoli. E poi c’erano le patate, i fagioli, certi mastelli di marmellata di paese (alla quale attingevamo di nascosto, le sorelle ed io, intingendo indice e medio appaiati nel mastello). Finché non fummo sfollati: non deportati come accadde, in quegli anni, in tanti altri luoghi, ma sfollati, forzosamente. Cacciati da Roccaraso, che doveva essere rasa al suolo.

Cacciati verso Roma

Un giorno arrivarono di nuovo le SS. Questa volta il messaggio era diverso. Tutti gli abitanti di Roccaraso dovevano andar via in due giorni. Avrebbero potuto portare con sé una valigia a testa. Autobus e camion requisiti dai tedeschi li avrebbero portati via, non si sapeva dove.

L’evento fu traumatico. In due giorni bisognava decidere e fare. Si decise di privilegiare la sussistenza: poiché non si sapeva dove i tedeschi ci avrebbero trascinati, si decise di riempire le valigie di cibi. Il resto, in un’accorta operazione notturna, fu nascosto. Gli uomini avevano scoperto, sotto la cantina della Rocca, scavata nella roccia, un’ulteriore cavità, raggiungibile dalla cantina con una botola. Lì furono nascoste le ricchezze nostre, e delle famiglie amiche. Anche una parte consistente del tesoro della chiesa. Nella cavità sotto la cantina fu poi scavata un’ulteriore buca, dove furono nascosti i gioielli: all’ultimo minuto mammà tirò fuori i suoi, non si sentiva di abbandonarli. La buca dei gioielli, il pavimento della cantina furono cementati: entrambi i pavimenti furono rifatti e sporcati con polvere di carbone.

I gioielli di mia mamma furono dissimulati all’interno di grandi gomitoli di lana di pecora, con i quali mammà lavorava

Gli autobus targati Roma che i tedeschi avevano requisito vennero puntuali a prelevarci. Passando con le nostre valigie tra sue file di militari con i mitra puntati fummo caricati e partimmo, per destinazione ignota. Il viaggio non dovette essere traumatico, visto che non ne ricordo nulla. Ricordo solo che ci scaricarono a Sulmona, accampati in una scuola. Quanto tempo saremmo rimasti lì? Nessuno poteva immaginarlo.

Nonna Sara stava a Roma. Come vedova di un ex ministro della guerra aveva ancora dei privilegi, e delle conoscenze. Riuscì ad ottenere che un’automobile del ministero, con autista, venisse a prelevarci a Sulmona. Con le nostre valigie piene di carne di porco un viaggio di molte ore ci portò a Roma. Tutti, eccetto papà: lui e Gino Santasilia erano rimasti a Sulmona, a trenta chilometri dai nostri beni sepolti nella rocca, pronti a tornare lì e recuperarli quando la tempesta fosse passata.

Miseria e nobiltà

Arrivammo a Roma che doveva esser passata almeno una settimana dall’esodo forzoso da Roccaraso. Faceva evidentemente già caldo, perché i resti del mezzo maiale barattato contro un paio di stivali, e lungamente lavorato, erano marciti: si dovette buttare tutto.

Ci sistemammo, non male, a casa di Nonna Sara: il primo villino di via Giambattista Vico, affacciata su Piazzale Flaminio. La nonna aveva ricavato un appartamentino tutto per noi. Il bagno era separato dalla stanza di stiro da una tramezza vetrata. Stavo nella vasca quando, pochi mesi dopo il nostro arrivo a Roma, improvvisamente arrivò papà, con sei o sette sacchi di stracci: erano tutto ciò che era rimasto del nostro patrimonio domestico, dei corredi di nozze e dei regali accumulati. Scoppiò irrefrenabile il pianto della mamma.

Poi papà ci raccontò. I tedeschi avevano raso al suolo Roccaraso (ecco la nuova ragione del toponimo) per fare terra bruciata su di un probabile direttrice dell’avanzata delle truppe alleate. Ma prima avevano cercato i tesori, che certamente le famiglie abbienti avevano dovuto lasciare. Sette giorni di ricerche e di sondaggi avevano impiegato. Poi, alla fine, forse aiutati dalla spiata di qualche roccolano, avevano scoperto le cantine murate. Tutto avevano portato via: compreso l’autografo del Bollettino della Vittoria. Erano rimasti solo i sacchi di stracci, accuratamente raccolti e portati a casa da papà. Eravamo diventati quasi poveri. Ancora non sapevamo che nella villa di Ottaviano, dove erano stati depositati i mobili, i quadri, i tappeti (l’altra parte del patrimonio domestico) erano state accantonate le truppe marocchine che con gli alleati risalivano lo stivale. Faceva freddo, non c’era di meglio per riscaldarsi che bruciare quella legna stagionata. Così finirono le suppellettili della casa del Corso. Così finirono i nostri beni.

La nostra vita cambiò di nuovo. Ripresi gli studi regolari: prima al Collegio San Giuseppe Demerode, a piazza di Spagna, poi al Ginnasio Liceo Tasso, di grande fama. Al Demerode mi ricordo un singolare episodio di convivenza conflittuale. Tra gli studenti interni c’era un ragazzo che si chiamava Zamboni: in realtà era un ragazzo ebreo, il cui nome (forse Zabban) era così camuffato per nasconderlo ai fascisti. Lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche un ragazzino fascista che, a causa del suo essere fascista, veniva rincorso e svillaneggiato nelle ore di ricreazione. Non fece mai la spia. Del Tasso mi ricordo l’amicizia con un ragazzino molto intelligente, amante della musica classica e della letteratura, figlio del chirurgo Cerletti. Ricordo anche un’atmosfera di sommesso antifascismo, che trapelava dalle lezioni di qualche nostro maestro.

Due benefattori

Nutrirci era diventato difficile, e anche coprirci. Ricordo due risorse che si rivelarono essenziali, una in alto e una in basso nella gerarchia sociale, ma entrambe preziose: il Cardinale Maglione di Casoria e Maria Ruocco di Venafro.

Il Cardinale Maglione era Segretario di Stato del Vaticano. Era molto influente. Tra l’altro, era l’uomo che aveva imbastito e concluso i Patti Lateranensi, che avevano assicurato la convivenza, e nella sostanza l’alleanza, tra Fascismo e Vaticano. Era un uomo potente. Era nato a Casoria, nel paese d’origine della mia famiglia. Papà lo conosceva bene: era un vecchio amico di famiglia. Tramite suo fu concesso a papà di andare talvolta ad approvvigionassi allo spaccio del Vaticano: alcuni bellissimi tagli di stoffa, zucchero, torroncini di fichi secchi, sigarette, a volte qualche tavoletta di cioccolata: tutto questo costituiva il dono che, di tanto in tanto, arrivava grazie all’intercessione del Cardinale Maglione.

Maria Ruocco era la moglie, sfiancata dalla fatica e dai parti, di un manovale di Venafro che aveva lavorato con papà quando l’impresa svolgeva un appalto di strade e ponti in quella zona. Era arrivata a Roma con i figli, il marito era sperduto in qualche fronte della guerra. Mammà la incontrò accampata in una scuola dove si raccoglievano gli sfollati poveri, che le buone signore per bene assistevano. Non sapeva dove andare. Nella casa di via Giambattista Vico c’erano delle stanze nello scantinato dove Maria con i suoi figli (uno dei quali lattante) furono sistemati. Maria ogni tanto andava in campagna, dai contadini, a scambiare merci cittadine (o soldi) con olio, farina, a volte carne, uova: era la “borsa nera”. Una parte di queste merci preziose venivano da noi, contribuivano a nutrirci. Ancora più prezioso diventò l’aiuto di Maria quando arrivarono gli americani, e la borsa nera divampò con ricchezza.

Piccoli tesori della casa della nonna

La casa della nonna era una miniera di oggetti e di ricordi. Adoperavo spesso la scrivania a calatoia che era stata di nonno Armando: nei cassettini c’erano ancora i suoi pennini, fermagli, francobolli, monetine, piccoli blocchetti riempiti di appunti. C’era uno strano accendino, costruito con due bossoli di proiettile, d’ottone. Veniva a darmi ripetizione di matematica il fratello più grande del mio amico Maurizio Lucidi (che poi diventò un regista cinematografico abbastanza noto). Era un giovanottone allampanato, con cravatta e scarpe lucide. L’accendino gli piacque moltissimo. Faceva il gesto: “Signorina, permette che le accenda?”. Non mi ricordo che cosa mi promise purché glielo regalassi, ma resistetti.

In una vetrina (una specie di grande sarcofago di vetro) c’erano i trofei di guerra: le medaglia, le fotografie con il Capo Crow, i regali di Clemenceau e di Wilson, il Collare dell’Annunziata e così via. Sotto, in una cassa foderata di velluto rosso, c’era la sciabola di Maresciallo d’Italia.

Quello che mi piaceva di più, e che mi teneva avvinto per ore, erano i libri di zia Irene: la sorella di mammà che, sposata con l’ingegner Pierino Parisi, aveva lasciato lì parte della sua adolescenza. Così entrai in un mondo nuovo: da Via col Vento alla Saga dei Forsyte, da Cronin a Dos Passos, da Steinbeck a Maurois, cominciai a conoscere la realtà del mondo attraverso i romanzi. Cominciò allora anche il mio amore per la poesia, e il romanticismo. Tra i libri di zia Irene avevo scoperto una serie di minuscoli libriccini, rilegati di stoffe provenzali. I Fleurs du mal, che leggevo per far colpo su Maria Stella, facevano parte di quella serie.

Tra i tesori collocherei Angelina, la vecchia cuoca della nonna. Era di un paesino della Sabina. Cucinava bene, ma soprattutto aveva dei grandi barattoli di vetro sempre pieni di caramelle, che le regalava un suo nipote proprietario d’una drogheria, al paese. Credo che fosse Angelina la produttrice della migliore marmellata d’arance che abbia mai mangiato. Le arance venivano bucherellate, poi stavano per ore e ore sotto un filo d’acqua, nel piccolo acquaio di marmo nel corridoio della cucina. Una volta spurgate dell’amaro più forte venivano tagliate, con la buccia, a striscioline sottili e lungamente cotte con lo zucchero. Era squisita.

Via Rasella dall’hotel Imperiale

Nonna Carmela e zia Giannina, con i miei cugini Carignani, soggiornavano in quel periodo all’Hotel Imperiale, nell’ultimo tratto di Via Veneto verso piazza Barberini. Spesso andavo lì per giocare con Luigi. L’albergo era molto frequentato da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci affacciammo alla finestra. I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barberini, alcuni seguiti da cani lupi; motociclette con sidecar arrivavano e ripartivano. Tutto quel chiasso ci stupì. Più tardi sapemmo che a via Rasella, una traversa di piazza Barberini, i partigiani avevano fatto esplodere una bomba al passaggio d’un plotone di soldati nazisti.

Dopo uno o due giorni la tragedia esplose in molte famiglie: si sparse subito la voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato dieci prigionieri prelevati in fretta e furia, più qualcuno per aggiungere peso alla minaccia. Anche i miei genitori avevano amici a Regina Coeli o nella tremenda prigione di Via Tasso. Mia mamma era andata qualche volta in quest’ultima prigione, camera di tortura delle SS (come si seppe dopo), a cercare notizie di Filippo di Montezemolo, suo amico, ufficiale monarchico antifascista, arrestato e torturato. E’ uno di quelli che furono trucidati, all’indomani dell’attentato, prima del proclama, pubblicato con evidenza sul Messaggero, con cui si intimava agli attentatori di autodenunciarsi, minacciando di fare ciò che era già stato consumato.

L’arrivo degli alleati

Era giugno. L’aria era tiepida, le finestre aperte. Quelle della casa della nonna davano su piazzale Flaminio; erano al primo piano. C’era attesa. Da tempo si diceva che gli Alleati, bloccati a Nettuno da mesi, sarebbero entrati a Roma stasera, no, domani, no, fra una settimana al massimo. Avevamo sentito colonne di camion tedeschi andare verso la Flaminia, attraversando il piazzale oppure scorrendo dal lungotevere. Poi, un lungo silenzio. Si cominciò a veder arrivare dal viale del Muro Torto una fila di soldati diversi, con gli elmetti a padella rovesciata: inglesi o australiani. Alcune camionette con la stella bianca (americani) arrivarono da Piazza del Popolo, quando un camion tedesco scese all’impazzata da Villa Borghese. Un ritardatario. Scoppi, raffiche: una scaramuccia proprio sotto casa. Ci fecero buttare per terra, dietro il avanzale.

La mattina dopo, gli alleati erano entrati a Roma, l’avevano liberata. Tripudio. Ricordo la folla a piazza del Popolo che assaliva le jeep e i camion con la stella bianca cerchiata, abbracciava i soldati in uniforme cachi che buttavano sigarette e razioni di guerra.

La carestia era finita. Gli Alleati portavano ogni ben di Dio. Le prime cibarie con cui festeggiammo la fine della fame erano delle scatolette incerate, di cartone verdognolo, nelle quali c’erano scatolette di ham and eggs, minestre in polvere, tavolette di cioccolata, pacchettini di sigarette: erano la quotidiana razione di guerra, di cui i soldati, giunti nella grande città, si liberavano senza rimpianto. Poi cominciarono le porzioni più grosse. Le scatole di minestra di piselli secchi in polvere diventò il cibo più diffuso: la pea soup divenne un sapore ricorrente: interessante all’inizio (sfamava, ed era diverso) insopportabile dopo alcuni mesi.

Cominciai a fumare, di nascosto. Sigarette, cioccolata e liquori erano i prodotti più diffusi alla borsa nera. E Maria di Venafro, con i suoi numerosi figli, era ben inserita nel commercio clandestino. Le novità erano i sapori, ma anche le confezioni: c’erano decine e decine di tipi diversi di pacchetti di sigarette, americane inglesi australiane francesi indiane. Mio cugino Luigi ed io ne facevamo collezione, raccogliendole per strada.

Appare la politica

Nel linguaggio corrente entrò la politica. C’era stata la breve stagione tra la caduta del fascismo e l’8 settembre 1943, poi l’occupazione tedesca aveva rigettato la politica nella clandestinità, e la preoccupazione dominante era divenuta la sopravvivenza. L’unica abitudine “politica” era l’ascolto clandestino di Radio Londra, che trasmetteva strani messaggi in cifra, comprensibili solo agli oscuri militanti della lotta antifascista, e dava notizie sui fronti di guerra: a noi, ovviamente, interessava la lenta risalita dal sud dell’esercito alleato.

Dopo l’arrivo delle truppe alleate scoprii che la politica era vicina: mio cugino Alberto (il fratello maggiore di Luigi) era nella Resistenza come liberale o azionista, non ricordo. I miei genitori erano vicini ad esponenti della clandestinità antifascista monarchica. Ma papà diventò (o si scoprì) socialdemocratico: cominciò a partecipare alle riunioni, le assemblee, i comizi. Peppino Galasso mi raccontò molti anni dopo (quando lo conobbi come ministro per i Beni culturali) che mio padre era stato il primo che l’aveva avvicinato alla politica, portandolo al Teatro Eliseo ad una manifestazione alla quale partecipavano Togliatti e Nenni, Ruini e De Gasperi.

Ma per noi ragazzi la politica restava una cosa estranea, lontana. Non ne capivamo nulla. Non coglievamo il fermento che agitava la Capitale, in quei mesi che separarono il giugno del 1944 (la liberazione di Roma, ad opera dell’armata alleata) dall’aprile 1945 (la liberazione, ad opera dei partigiano del Comitato di liberazione italiana). A Roma, del resto, la mia famiglia ci rimase poco: appena fu possibile tornammo a Napoli, dove erano la nostra casa, i nostri averi residui, l’impresa di papà.

Il viaggio a Napoli e l’arrivo

Per tornare a Napoli fu necessario aspettare il turno su di un camion. Le strade erano interrotte, le ferrovie non funzionavano. Non so come, mediante quali canali i miei genitori riuscissero a organizzare quel viaggio. Era un camion scoperto, sul quale erano accumulate le masserizie di alcune famiglie e, sopra, i passeggeri. Del viaggio non ricordo gran che; ricordo l’arrivo a Napoli. La strada era un canyon, tra due alte rive di macerie, alte quasi quanto lo erano le case demolite dai bombardamenti.

Andammo ad abitare a Palazzo Ottaviano, un palazzo nobile all’inizio di via Chiaia, dove c’era, e c’è ancora, la famosa pasticceria Caflisch: di ottocentesca origine svizzera, come di origine olandese o belga erano le altre famose ditte di cioccolata e dolci di Van Bol & Feste e Gay & Odin. Era un appartamento di amici (Fernanda Del Balzo di Presenzano, nota per la passione per il gioco, che soddisfaceva a Montecarlo), molto bello e grande, al primo piano, con una gigantesca terrazza a livello. Aveva un solo inconveniente: una stanza era stata attraversata da una bomba fortunatamente non esplosa, che però con il suo peso aveva sfondato tetto e pavimento: si poteva attraversare la stanza solo sullo stretto spazio addossato alle pareti. Ma aveva una gigantesca terrazza, aperta su Via Chiaia, proprio sul centro elegante della città.

La casa del Corso era stata veduta, non ricordo se prima del nostro arrivo a Napoli o subito dopo. Per 10 milioni. E si scoprì che l’impresa di papà praticamente non esisteva più: la guerra aveva travolto tutto. Rimanevano le terre, che poco a poco furono vendute.

Il Pontano, balletti e il tennis

Cominciai a conoscere amici nuovi: ragazzi e ragazze che erano diventati adolescenti come me negli anni della guerra. Oltre agli amici d’un tempo (con Riccardo e Renato prendemmo la prima gigantesca sbornia di vin santo), i primi amici nuovi li conobbi a scuola: al Ginnasio-Liceo Pontano, dove completai la confusa formazione degli anni della guerra. Ammiravo un intelligentissimo e coltissimo ragazzo ebreo, Gianni Eminente, con cui gareggiavo nell’indovinare gli autori dei brani di musica classica e nel risolvere indovinelli colti. Ricordo Nello Ajello, con cui non ci frequentavamo molto ma che condivideva con me il ruolo del migliore della classe in italiano (i nostri temo venivano premiati col massimo dei voti, che era il 7, e che ci obbligavano a portare il giorno dopo confetti a tutta la classe); Nello è diventato un famoso giornalista, una delle migliori penne delle pagine culturali di Repubblica. Ricordo i fratelli Marino: Paolo, sordo e ottimo violinista, Angelo spigliato rubacuori: sulla scia (e con le risorse) dei loro genitori, sono diventati facoltosi commercianti di abbigliamento maschile, con negozi nelle strade eleganti di Chiaia e Toledo. E Franco Persico, e Lello Pagliarulo, vocianti e grezzi adolescenti senza pensieri, con i quali condividevamo le fughe da scuola, per sfuggire a un’interrogazione difficile rifugiandoci nei cinemetti in Galleria o evadendo, nella buona stagione, verso le scogliere di Posillipo.

Le ragazze si incontravano ai balletti: festicciole, con aranciate e dischi suonati sul fonografo a manovella: cominciavano appena ad apparire quelli elettrici, e i primi dischi a 33 giri, i V-Disc dell’esercito USA. Attraverso i dischi cominciai ad imparare l’inglese: Frank Sinatra fu un maestro molto migliore da quella signora, non ricordo come si chiamava, dove andavo una volta alla settimana a leggere Oscar Wilde, The importance of being Ernest. Lo sport che praticavo (un poco) era il tennis. Su Via Caracciolo era stato riaperto, con aiuti degli Alleati, la nuova sede del Circolo del Tennis, uno dei luoghi di ritrovo dell’aristocrazia napoletana.

Né lo sport né i balletti mi guarivano dalla mia timidezza. Ricordo l’imbarazzo quando, per far colpo, mi presentai a un balletto dalla nipotina di benedetto Croce con il maglione e le scarpe da tennis. Credevo di far colpo, mi sentii sprofondare quando mi resi conto (o immaginai) che gli altri mi guardavano con disprezzo dall’alto dei loro abiti eleganti.

Un’estate a Capri

Un’estate andammo a Capri. Era la prima volta che andavo in quest’isola, che ogni giorno per dieci anni - quando abitavamo a Corso Vittorio Emanuele 130 - avevo visto dalla finestra della mia stanza, a chiudere la visuale del Golfo. Eravamo in un piccolo albergo vicino alla Strada Krupp. Pochi ricordi mi rimasero impressi, ma tutti con molta forza.

Un concerto per pianoforte in una villa a Tragara, una grande terrazza a strapiombo sul mare, con i Faraglioni immersi in una intensa luce lunare. Fu lì forse che conobbi Perla Cacciaguerra, una ragazza di poco più grande di me, poetessa. Mi insegnò ad amare Rabindranath Tagore, un poeta indiano. Un ingegnere che incontravamo nel ristorante dell'albergo, sapeva tutto d'ogni cosa: non c'era evento, piccolo o grande, che non sapesse spiegare. Forse è allora che sognai di diventare ingegnere.

E fu a Capri che conobbi una ragazzina bionda con gli occhi celesti, di cui m'innamorai. Caterina Galli si chiamava. Figlia di amici dei miei genitori, amica delle mie sorelline. La rividi a Roma. Le feci la posta negli ombrosi corridoi della casa a Monte di Dio 18, dove ci eravamo trasferiti, le strappai un esitante umido bacio. E qualche volta andavamo a passeggio per le stradine di Posillipo, vicino al Mausoleo Virgiliano ('a tomba 'e Schilizzi, la chiamavano i napoletani, dal nome del signore che volle costruirvi il suo mausoleo, poi fallì prima di morire e potervi essere sepolto). Ci scrivemmo lettere d'amore che ho perduto.

Estati a Sorrento

Un luogo che frequentavo spesso, d'estate, era Sorrento. Eravamo andati lì in villeggiatura i primissimi anni di guerra, all'Hotel Victoria, il più bello e lussuoso. Un insopportabile bambino, di cui ho subito dimenticato il nome, recitava a memoria, appena erano stati letti dall'annunciatore dell'Eiar e fino al giorno dopo, i bollettini di guerra. Dalle terrazze dell'albergo vedevamo, di notte, i fuochi dell'artiglieria contraerea senza sentirne i rumori, mentre come lontani boati ci giungevano gli annunci delle bombe esplose sui quartieri del porto e della zona industriale.

Dopo la guerra andavo a Sorrento da solo, da amici che avevano una bellissima villa decadente, a Piano di Sorrento: i principi di Fondi. Un grande giardino pensile si apriva sul mare. Una fotografia che mi è rimasta ricorda una ragazza bionda, Giuliana Silvestri, che corteggiavo in gara con il mio amico Renato Ruggiero. Ma ciò che soprattutto mi rimane nella memoria sono le semplici prime colazioni, costituite da una scodella di caffellatte, sapide fette di ottimo pane e meravigliose noci schiacciate in grandi quantità.

I boy scout

Prima del fascismo c'erano a Napoli i boy scout. Lo era stato mio padre. Dopo la guerra un gruppo di amici decise di ricostituire l'antica organizzazione, fondata dopo la guerra dei Boeri da lord Baden Powell. Ci organizzavano e portavano in giro due amici di mio padre, l'ingegnere Luigi Cosenza e il signor Cavallo, un simpatico e distinto commerciante di tessuti. Cominciammo con una gita alle pendici del Vesuvio. Rimasi indietro, perché a uno dei piccoli figli di Cosenza (non ricordo se Giulio o Giancarlo) scoppiò un febbrone. Fummo lasciati in un campo, tra le stoppie, dall'imbrunire alla notte, mentre gli altri raggiungevano il luogo dell'accantonamento, finché il padre tornò a prenderci e ci riportò in città.

Eravamo un gruppo molto disordinato: una compagine del tutto diversa rispetto a quello che poi i boy scout divennero più tardi: irreggimentati e tirati a lustro. Vestivamo uniformi raccogliticce: pochi fortunati avevano l'uniforme e il cappello del padre (ricordo solo Franco Cavallo), gli altri si arrangiavano con ciò che trovavano. Con grande impegno trasformammo in cappelli con la tesa, tipici del boy scout, i feltri verdi di avanguardista sottratti ai padri o ai fratelli maggiori: scoprimmo che bastava bagnarli e stirarli, aiutandosi con una pignatta a mo’ di forma e un ferro caldo.

La nostra pattuglia (gli Scoiattoli) era comunque la più organizzata. Ci eravamo dotati di fazzoletti da collo bordeaux, "nastrini omerali", fischietti col cordoncino, bastoni regolamentari e temperini robusti. La domenica facevamo gite ai Camaldoli accompagnati da Luigi Cosenza. In quegli anni, appena superate due file di isolati da Piazza Sannazzaro, al Vomero, si entrava in aperta campagna. Ai pochi casolari abitati da famiglie contadine seguivano rapidamente boschi di castagni, fino a quello che avvolgeva l'Eremo e nel quale ci accampavamo.

A volte pernottavamo nelle tende messe su alla meglio. All’inizio erano vecchie coperte prese a casa, legate con funicelle e spaghi; poi qualche ufficiali degli Alleati, che vedevano di buon occhio la sostituzione dei Balilla fascisti con la democratica istituzione scoutistica, ci regalarono qualche avanzo della guerra. La notte facevamo rigorosi turni di guardia. I due di turno vigilavano accanto a un fuoco di bivacco, accuratamente alimentato. Più dei vagabondi, il timore erano i lupi che - si diceva - erano scappati con la guerra dallo Zoo della Mostra d'Oltremare, ai piedi della Collina dei Camaldoli.

Luigi Cosenza

Luigi Cosenza era un personaggio davvero singolare. Piano piano (e soprattutto qualche anno dopo) conobbi la sua storia. Generoso e irruente quando ci organizzava e accompagnava (ricordo un suo a corpo a corpo con due giovinastri che ci minacciavano, nelle campagne tra il V’omero e i Camaldoli), queste caratteristiche presiedevano tutta la sua vita. Comunista, era stato amico di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del PC d'Italia, ingegnere come lui. Negli anni del fascismo aveva abbracciato la scuola razionalista, e costruito alcune pregevoli architetture a Napoli, con il famoso Rudofsky.

Era una delle figure eminenti dell'ala intellettuale del PCI a Napoli. Un altro che ricordo, ma che non conobbi di persona, era il grande matematico Renato Caccioppoli. Geniale nel suo mestiere, grandissimo musicologo e musicista, era legato da vincoli familiari all'anarchico Michele Bakunin. Quando lo ricordo insegnava ancora all'Università (ma non ho frequentato i suoi corsi), e si aggirava la sera nelle strade di Napoli avvolto in un impermeabile bianchiccio, vacillante per l'alcool e la droga.

Cosenza non era matematico, ma ingegnere: portato alla pratica più che alla teoria, dunque. Dicono che quando fu incarcerato a Poggioreale (capeggiava una grande dimostrazione contro la visita in Italia di Ike Eisenhower, preludio all'ingresso nella NATO, repressa dalla polizia) convinse il direttore del carcere che le condizioni erano intollerabili e ottenne l'incarico di studiare il progetto per un carcere moderno e razionale.

Invece del carcere progettò la nuova sede della facoltà d'ingegneria, a Fuorigrotta, e la bella sede della Olivetti a Pozzuoli. Abitava in una casa con una splendida terrazza, a Mergellina. Sulla terrazza scorrazzavano gli animali che volta per volta amava. Una volta aveva avuto un leoncino, che nel tempo era cresciuto. Si racconta che una volta chiese agli ingegneri della Olivetti, con cui doveva andare a vedere il cantiere a Pozzuoli: "Vi dispiace se passiamo un momento alla Mostra d'Oltremare, che porto Leo a giocare con i suoi amici?". Pensando che si trattasse di un cane gli ingegneri risposero: "Senz’altro, la macchina è grande": si spaventarono molto quando scoprirono che Leo era il nome di un leone.

Aveva un fratello più giovane di lui, Carlo. Più giovane e più mondano. Era infatti nel giro dei miei genitori. Era innamorato di una ragazza, la cui bellezza ancora mi rapisce: Carlottina Del Pezzo, si chiamava. Un giorno si ammazzò, per amore si disse.

I campeggi liberi

Dopo l'esperienza dei boy scout prendemmo l'abitudine di andare a fare dei campeggi per conto nostro. Allora era molto diverso da adesso: poche cose sono più distanti dei campeggi come li ho vissuti in quegli anni dai camping che costellano le coste del Mediterraneo.

Si partiva con robusti sacchi e, per le gite più lunghe, grandi rotoli in cui erano stretti i teli delle tende e le coperte. Scatolette, qualche pentola, indumenti caldi, lampade a petrolio e ferramenta varia erano d'obbligo. A volte un mulo ci accompagnava per i fardelli più pesanti e i sentieri più impervi. Una volta raggiunto il punto dell'accampamento, si passava la giornata ad accudire al campo, giocare a carte, esplorare i dintorni. Ogni due o tre giorni una passeggiata di corvée al paese più vicino per comprare la pagnotta fresca e qualche alimento.

L'intelligenza era di scegliere un posto riparato, tra ombra e luce, vicino a vegetazione da usare per ammorbidire il suolo sotto il fondo della tenda, non distante da una sorgente dove approvvigionarsi per bere e cucinare, lavare i panni e le stoviglie (che strofinavamo con cenere e terra).

Ricordo un campeggio a Sant'Angelo ai Tre Pizzi, nei Lattari, tra la Costiera amalfitana e quella sorrentina. Le tende erano sulle pendici di una sella, al limitare del bosco, su un pendio coperto di morbide felci. Ero di guardia accanto a un fuoco ormai ridotto a poche braci rosseggianti. L'alba ancora non appariva e la luna era appena scomparsa, ma la sua residua luce rivelava i brandelli di nebbia sul fondo della sella. All'improvviso delle luci più forti, l'abbaiare dei cani, e un certo numero di uomini con i fucili a tracolla animarono il paesaggio: cacciatori, in marcia d'avvicinamento. Non ci videro. Dopo qualche istante il silenzio e la nebbiolina lattiginosa ripreso il dominio. La rapida scena, e l'emozione, mi sono rimaste impresse.

Villa Pavoncelli

A quei tempi Napoli era anche, per i suoi abitanti, una stazione balneare. Gli scugnizzi d'estate si gettavano in mare dalle scogliere prospicienti Via Caracciolo (ma a noi, ragazzi per bene, era proibito: già si diceva che non fosse igienico). Uno stabilimento frequentato era però il Sea Garden a Mergellina, proprio dove dalla strada litoranea si stacca la collina di Posillipo. Noi andavamo a mare più su, a Posillipo, dove grandi e intricate ville occupano il costone verdeggiante tra la strada e il mare.

Palazzo Donn'Anna, l'antica residenza di Giovanna La Pazza, non aveva spiaggia, ma una discesa a mare attraverso i diruti saloni dove il tufo delle rocce e quello dei muri si sfaldavano. Le ville che frequentavamo di più erano più avanti: villa Pavoncelli, Villa Carunchio, Villa D'Avalos. La prima soprattutto, abitata da alcune famiglie dell'aristocrazia napoletana molto legate alla mia: i Del Balzo di Presenzano e i Pavoncelli.

Da Via Posillipo si scendeva per una scaletta, vigilata dal portiere. Si attraversavano corridoi umidi, a volte aperti sul mare, terrazze, ballatoi, scalette e atri, finché si giungeva a una spiaggetta protetta da una breve scogliera. Prima dell'ultima rampa una umida stanza scavata nella roccia era il luogo dove ci si cambiava e si lasciavano gli abiti e, al ritorno, si poteva fare la doccia. Sulla spiaggetta si apriva un'ampia grotta, deposito di innumerevoli scafi.

Miei amici erano soprattutto i Pavoncelli. Famiglia di nobiltà recente (si diceva, con una certa sufficienza, che fossero diventati marchesi con l’unità d’Italia), la loro ricchezza veniva dalle terre in Puglia, a Cerignola (il paese del grande sindacalista contadino Giuseppe Di Vittorio, che contribuì poderosamente a portare nella democrazia repubblicana i mezzadri e i braccianti del Sud). Avevano un'azienda molto ben condotta che produceva, tra l'altro, ottimi vini. Dei due figli maschi (Giuliana, la sorella, era un po' più grande di noi) Nico era già orientato verso l'azienda familiare. Fraternizzavo più con Giuseppe, che fu per me un magister elegantiarum (ma l' imprinting me l'avevano dato i geni e l'esempio paterni). Naturalmente le gite per comprare le cravatte da Marinella, il negozietto alla Torretta poi diventato famoso, erano d'obbligo: per noi, allora, non c'era altro chic se non quello. Per ciascuno di noi il signor Marinella conservava la forma per tenere in piega la cravatta, e ci avvertiva quando era arrivata una nuova partita di pezze..

Il Circolo Italia e il farmacista

Un altro luogo della buona società napoletana dove sport e mondanità s'intrecciavano erano i circoli nautici. Ve n'erano diversi: il Savoia, il Napoli, l'Italia. Comuni a tutti erano le attività nautiche (di giorno) e il gioco d'azzardo (la sera). Il Circolo del remo e della vela Italia era il più su, nella gerarchia sociale: il Savoia era frequentato soprattutto da commercianti, e al Napoli prevalevano i nuovi ricchi. All'Italia solo molto tardi, ai rentiers e ai professionisti, si tollerò l'aggiunta dei commercianti. Anzi, c'è una storiella che dipinge bene l'atmosfera.

Un commerciante, un farmacista, era appena stato ammesso al Circolo: uno dei primissimi. Una sera perde, molti milioni. Il giorno dopo non si presenta. Il Presidente è informato, cerca subito i due presentatori. "Non ti preoccupare - rispondono - vedrai che sta male o s'è rotto una gamba, non ha trovato nessuno per venirci a informare. Adesso andiamo noi".

Si precipitano a casa del farmacista. Bussano, il cameriere apre. "Come sta 'u signorino?", chiedono. "Benissimo", risponde il cameriere, e chiama il padrone. "Ue', ma tu qua stai? Stai bene" fanno stupiti. "E ch'aggio 'a tene'?", esclama il farmacista, facendo gli scongiuri. Qui il dibattito diventa intenso.

"Ma come, non ti ricordi che l'altro ieri sera hai perso 15 milioni?"

"Certo che mi ricordo. Non vuoi che mi ricordo una puttanata e una scalogna così grossa. M'ero proprio infognato"

"E allora? Non sai che i debiti di gioco si pagano entro le 24 ore?"

"Ah si? Davvero si devono pagare entro le 24 ore?"

"Ma certo, mille volte te l'abbiamo detto"

"E se uno non paga che succede?"

"Come che succede: ti affiggono", rispondono costernati i soci presentatori.

"Ah, mi affiggono. E che vuol dire?"

"Come che vuol dire? Vuol dire che scrivono il tuo nome su in foglio, con la cifra che non hai pagato, e lo mettono nella bacheca all'ingresso!"

"Ah, se non pago 15 milioni mettono il mio nome su un foglio e lo mettono nella bacheca?"

"Certo, si, proprio così!"

"Vabbuo' - fa il farmacista - e a me che me ne fotte?"

Guardandosi negli occhi, i due presentatori rispondono a una voce:

"Farmaci', tu si' 'nu ddio!"

Nessuno dei soci dell'Italia si sarebbe permesso di violare una regola così severa. Ma certo si permettevano di sorridervi sopra. E la battuta "Farmaci', tu 'si 'nu ddio" rimase a contrassegnare chi svelava l'incoerenza che si nascondeva sotto uno stereotipo.

Dell'Italia mio padre era socio influente. Per un certo periodo ne fu l'amato vicepresidente. Io ero di casa, quindi. Di giorno, come tutti i ragazzi. Ma non praticavo il remo: non volli mai vogare su quegli esili scafi lucidissimi, dove selezionate squadre ogni anno si allenavano per alcune famose regate, le cui coppe vinte ornavano il salone del circolo. Preferivo la vela, più adatta a un pigro come me.

La domenica c'erano le gite sociali. I soci e le loro famiglie s'imbarcavano la mattina su alcune barche a vela (i "monotipi"), generalmente guidate da uno dei marinai salariati, e si allontanavano verso baie vicine (come la Cala di Trentaremi, al Capo di Posillipo) o più lontane (come la scogliera di Puolo, al Capo di Sorrento, o alla Marina Grande di Capri). Si mangiava a bordo: le frittate di maccheroni portate da casa, o i taralli "'nzogna e pepe" offerti da barcaioli stazionanti nei punti di maggior afflusso. Si chiacchierava e si prendeva il sole, ancorata la barca si facevano i tuffi e i più coraggiosi (mia mamma era tra questi) sommozzavano e pescavano i ricci, poi al ritorno si prendevano ancora il sole e il vento. Dipingono bene l'atmosfera di questa gite alcuni versi di Ernesto Murolo:

L'arberatura schioppa…'E vele sbanneno,

ruciulèa sottoviento nu binocolo…

'O cottero va "orza"…

Nu poco ancora…N'atu ppoco ancora…

Pare c'affonna, pare

Cu 'a murata 'int'all'acqua e a chiglia 'a fore…

…Che viento frisco!

…e quant'è bello, 'o mare,

ca fragne a poppa e sciaqquettèa p''a prora…

Ecco, tra le emozioni della mia giovinezza ritrovate nei poeti questa è forse tra le prime. Sento ancor oggi “quant’è bello, 'o mare, che fragne a poppa e sciaqquettea p''a prora”.

Ernesto Murolo era padre di Roberto, il famoso e bravissimo cantante di canzoni napoletane (la sua filologica Antologia della canzone napoletana, edita da Ricordi, è molto bella), Massimino, gran giocatore di carte e amico dei miei genitori, e Maria, con cui mio padre ebbe un flirt, intessuto di gite in barca a vela: forse in quelle stesse occasioni cui il poeta si riferisce, nella sua poesia "'O viento".

Isabella Mosca e Francesca Sersale

Nel giro di Villa Pavoncelli e del Circolo Italia conobbi due ragazze di cui divenni inseparabile amico, innamorandomi prima dell’una e poi dell’altra: Isabella Mosca e Francesca Sersale. Isabella abitava a via Monte di Dio, la strada dove abbiamo abitato alcuni anni. Un vecchio palazzo nobiliare, del quale occupavano un appartamento, devastato dalle bombe e reso vivibile da drappi appesi alle pareti a nascondere i muri rattoppati alla meglio, arricchito da una grandissima terrazza a livello. Adoravo le donne della famiglia: la vecchia nonna Giordano, la mamma che nel salotto modesto ed elegante, dopo il tea, mi leggeva le carte interrompendo i suoi solitari, la sorellina Schatzy, spiritosa e turbolenta.

Per Isabella ebbi un breve trasporto d’amore, che subito si trasformò in intensa amicizia. Di Francesca Sersale invece, sua amica e “fidanzata” di Peppe Pavoncelli, mi innamorai perdutamente. Era molto bella e gaia, di una semplicità ingenua e spensierata. Corpo esile e lunghissime gambe, lunghi capelli castani e occhi intensi, a volte sorridenti a volte gravi. Non ho mai capito il suo flirt con Peppe Pavoncelli: lei aveva una profondità di pensieri e di sentimenti che doveva sfuggire alla fatuità di Peppe, cui interessava molto pavoneggiarsi ( nomen, omen) con la ragazza più bella del giro.

Francesca aveva molti fratelli (di uno era perdutamente innamorata Isabella), e la sua famiglia viveva nell’angosciato lutto per la scomparsa, in Russia, del fratello maggiore, dato per disperso. Da questo evento era nato nella famiglia (soprattutto negli anziani genitori, ma con riverberi anche sui figli) un aspro anticomunismo.

La politica? Non c’era

Non ero comunista allora. Di politica si parlava poco, e meno ancora vi si pensava. Se avessi dovuto definirmi, avrei detto che ero socialdemocratico: una sinistra sentimentale e “per bene”. È per il partito di Saragat che votai infatti, al mio primo esercizio di democrazia.

Della politica mi arrivavano solo gli echi lontani, attraverso le poche persone che, in qualche modo vicine al mondo della politica, raggiungevano con qualche loro dimensione il mondo delle frivolezze, delle buone maniere e dell’estetica, al quale appartenevo, sia pure con un crescente distacco. La dimensione politica che c’era dietro Luigi Cosenza o Renato Caccioppoli, oppure dietro Leopoldo Rubinacci (il sottosgretaruio democristiano, zio e protettore del mio amico Renato Ruggiero), la compresi molto più tardi.

Una volta, tra il 1946 e il 1948, intuii che c’era un’altra dimensione, sconosciuta e potente, fonte di timore e soggezione. Fu dall’alto del Ponte di Chiaia che vidi passare, giù in strada, un grande e compatto corteo di operai delle fabbriche di Fuorigrotta: una folla silenziosa, muta, dai volti chiusi più dei pugni, colorata del blu delle tute. Una realtà che incuteva, insieme, paura e rispetto.

Un’estate a Colle Isarco

Fu forse dopo la licenza liceale, quindi nel 1948, che andammo in villeggiatura a Colle Isarco. Ricordo quella vacanza per la conoscenza, fugace, di un gruppo di emiliani di cui faceva parte una ragazza che mi piaceva molto, e che si faceva distrattamente accarezzare, e per la frequentazione di un singolare personaggio: Chinchino Compagna.

Ch’inchino era il rampollo d’una famiglia di nobili calabresi, ricchissimi e (a quanto si diceva) altrettanto rozzi: vera nobiltà borbonica. La loro ricchezza era prodotta dai cafoni dei latifondi calabresi. Non si era trasformata né in cultura né in lusso. Si diceva ( horresco dicens!) che a tavola loro si mangiasse il formaggio con le mani.

Oggi definiremmo forse il Chinchino degli anni Quaranta un giovane teppista. Era certamente ignorante e maleducato: famoso rimase un sonoro pernacchio col quale salutò il presidente dell’elegante Circolo del Tennis, alla festa per la sua inaugurazione. Quando lo conobbi era in una fase di profonda trasformazione. Aveva frequentato casa Croce (non so se ve lo condusse mio padre), e aveva scoperto l’esistenza dei libri. Leggere gli aveva cambiato la testa, in pochi mesi. Ricordo le signore amiche di mia mamma, tutte rigorosamente monarchiche, che dicevano scandalizzate: “Capisci, è diventato repubblicano perché ha letto duecento libri!”, meravigliandosi del fatto che si potesse cancellare una fede, così saldamente impressa, come quella monarchica, semplicemente perché si era fatto l’esercizio frivolo e un po’ stravagante della lettura!

A Colle Isarco, dove era con la giovane ed esile moglie Licia, partecipava con comodo alle gite che facevamo, ma la sua attività preferita era la lettura, fin dalla mattina presto. Le cameriere che facevano le pulizie nei saloni dell’albergo lo trovavano già a leggere la mattina all’alba.

Chinchino alimentò la mia passione per la poesia regalandomi un libro di cui gli fui molto grato: il primo volume di una bellissima rivista di poesia (la testata era, appunto, Poesia, ed era diretta da Enrico Falqui). Con una bellissima dedica:

Un modesto ricordo, un sincero augurio, una certa speranza di sicuri successi in una vita serena, rischiarata da caldi affetti, il mio compreso.

Lo persi di vista. Per meglio dire, lo seguii a distanza: era diventato un uomo pubblico. Con i soldi dei cafoni calabresi fondò una rivista, Nord e Sud, che riuniva gli intellettuali meridionali e meridionalisti di area repubblicana e socialdemocratica. Lo ritrovai molti anni dopo, bravo ministro per i Lavori pubblici. Morì a Capri, sulla spiaggia sotto il Palazzo di Tiberio, per un infarto, d’improvviso.

L’università

All’università, in quegli anni, non mi impegnavo molto. Mi ero iscritto a Ingegneria senza una vera ragione. Gli argomenti che mi convinsero erano due: al liceo andavo bene in matematica, mio padre aveva (ancora per poco) un’impresa di costruzioni. Se avessi potuto seguire le mie inclinazioni, avrei scelto mestieri “poetici”. Ma carmina non dant panem.

Dell’università di quegli anni ricordo ben poco. La mesta cerimonia della “matricola”, consistente in una grande abbuffata di paste offerte agli amici della lista Bacco Tabacco e Venere; le aule sovraffollate e i professori inavvicinabili nell’immenso palazzo tra il Rettifilo e Via Mezzocannone. Non ricordo come diedi gli esami, meno ancora come mi preparai nelle difficili materie che farcivano il biennio. I miei interessi erano altrove.

Carlo Frezza, il cinema e Benedetto Croce

Non ricordo come conobbi Carlo Frezza. La comune passione per il cinema? Forse. A quei tempi si frequentava un circolo del cinema a Via Martucci, dove finalmente vedemmo film diversi da quelli dell’infanzia (Capitano Blood o Stanlio ed Ollio), e dalle “americanate”, tipo Bellezze al bagno, che si proiettavano dal dopoguerra al cinema Della Palme o al cinema Corona. De Sica ed Eisenstein, Pudovkin e Rossellini, Autant–Lara e Dreyer erano le nostre scoperte e i nostri entusiasmi.

Carlo apparteneva a una famiglia della piccola borghesia intellettuale: notai o avvocati. Mi introdusse nella politica universitaria. Ero appena iscritto a Ingegneria, e mi chiese di partecipare a una lista diversa da quelle legate ai partiti, dal titolo goliardico, e un po’ qualunquista, di Bacco Tabacco e Venere. Aveva un programma culturale impegnativo: Carlo avrebbe dovuto dirigere il Centro universitario teatrale e, nell’ambito di questo, mi chiese di mettere su una nuova Sezione cinema. Accettai. La lista ottenne una rappresentanza nel parlamentino universitario. Con grande fatica organizzai una splendida rappresentazione di un bellissimo film, cha a Napoli nessuno aveva ancora visto: Breve incontro, di David Lean, con Trevor Howard e Sheila Johnson (mi sembra): due eccezionali attori drammatici. Grandissimo successo: la sala del Cinema Santa Lucia, che avevamo affittato per l’occasione, era gremita, il pubblico attento e silenzioso. Ne ero così entusiasta che, da allora, Francesca Sersale mi chiamava Eddy Lean.

Ricordo le lunghe serate, con Carlo, a discutere di cinema, di arte, di poesia. Il tema in voga, nel mondo che frequentava i circoli del cinema, era “lo specifico filmico”: se ne discuteva sulle riviste che leggevamo (Bianco e Nero, Cinema, Cinéma d’Aujourd’hui), se ne dibatteva in sala alla fine delle proiezioni. Dopo il cinema io accompagnavo lui fino al portone, poi lui riaccompagnava me, poi ancora e ancora. In quei mesi uscì un articolo di Benedetto Croce, in cui sosteneva che il cinema è Prosa e non Poesia. Eravamo entrambi crociani: in quegli anni, a Napoli, o si era crociati o si era comunisti: non c’erano alternative per i giovani intellettuali. La presa di posizione ci turbò moltissimo: non eravamo affatto d’accordo con il Maestro, per noi il cinema era Poesia con quattro maiuscole, sebbene non fosse ancora chiaro se lo “specifico filmico” risiedesse nel montaggio (come era nostra opinione), o altrove.

Mammà e papà entrano in crisi

Abitavamo a Via Monte di Dio 18, nel bel palazzo della baronessa Barracco, amica dei miei genitori. Una casa molto grande, che girava attorno a un cortile adorno di piante. Vecchi e solidi arredi. Ricordo il nostro bagno, con vasca e lavandini di marmo massiccio, ornati da zampe di leone e attrezzati con una consunta rubinetteria inglese di ottone brunito dal tempo.

Una fuga di stanze: per raggiungere la mia dovevo attraversare quelle di rappresentanza, dove a volte incontravo gli amici dei genitori, ascoltavo brevemente i loro discorsi. La musica era molto presente. Sui frequentava il San Carlo, ma soprattutto i concerti del Conservatorio di San Pietro a Maiella. Fu lì che catturai l’autografo di Rubinstein, ed è lì che i miei genitori conobbero il maestro Franco Caracciolo, che frequentava la nostra casa e a volte suonava al pianoforte.

I confini tra mondanità e cultura erano praticamente inesistenti: si scivolava dall’una all’altra con grande leggerezza. Si discuteva dell’immortalità dell’anima e del paradiso, ad esempio, e la battuta più convincente era quella del marchese Agostino Patrizi, che diceva

Pe ‘mme ‘o Paraviso è quel posto che, se quando sei vivo ti piacevano le sfogliatelle, mangi tutto il giorno sfogliatelle

Una visione un po’ maomettana. Ma questo lo penso adesso: allora l’immagine, e la prospettiva, mi colpirono.

Dal cortile si accedeva al nostro appartamento, che era al primo piano, da una scala a una rampa interna, con una larga guida. Fu lì che mio padre si sparò un colpo di rivoltella: un incidente, fu detto. L’impressione che ne ebbi fu quella di una storia d’amore con una signora amica di famiglia (una storia che forse proseguiva dagli anni di Roccaraso), e di una crisi profonda nei rapporti tra i miei genitori. Il fatto è che, di lì a poco, mia mamma e le sorelline si trasferirono a Roma, mio padre rimase a Napoli in un appartamentino ammobiliato a Via Carducci, per badare agli affari (quali, non so, visto che l’impresa si era dissolta e le terre via via vendute). Rimasi con lui, per finire il biennio all’Università.

Per me, la vita continuò come prima.

A man was crossing a road one day when a frog called out to him and said, "If you kiss me, I'll turn into a beautiful princess."

He bent over, picked up the frog, and put it in his pocket.

The frog spoke up again and said, "If you kiss me and turn me back into a beautifull princess, I will be your loving companion for an entire week."

The man took the frog out of his pocket, smiled at it, and returned it to his pocket.

The frog then cried out, "If you kiss me and turn me back into a princess, I'll stay with you for a year and do ANYTHING you want."

Again the man took the frog out, smiled at it, and put it back into his pocket.

Finally, the frog asked, "What is the matter? I've told you I'm a beautiful princess, that I'll stay with you for a year and do anything you want. Why won't you kiss me?"

The man said, "Look, I'm a Software Engineer. I don't have time for a girlfriend, but a talking frog is cool."

«Silvio Berlusconi muore e va difilato all'inferno, dove Belzebù lo sta aspettando.

«Non so cosa fare» esordisce il Diavolo «sei nel mio elenco ma non ho più posto per te; d'altro canto tu devi obbligatoriamente stare qui».

Dopo averci pensato un po' su il Diavolo prosegue: «Sai che cosa faccio? Ho due o tre persone che non sono state cattive quanto te. Ne lascerò andare una e tu ne prenderai il posto; anzi, ti lascio addirittura scegliere quale liberare».

A Silvio la proposta sembra accettabile e così il Diavolo apre una prima porta.

Lì dentro, in una grande piscina, nuota Craxi che si immerge ripetutamente tentando di portare in superficie un immenso sfavillante tesoro, ma riemergendo sempre e desolatamente a mani vuote. E si immerge e riemerge, e ancora, e ancora. Questo è il suo destino, all'inferno.

«No» dice il Cavaliere «non ci siamo, non sono un gran nuotatore e poi a mani vuote io non posso restare; non potrei fare questo per l'eternità».

Il Diavolo allora lo conduce nella stanza successiva dove trovano Francesco Cossiga che con un enorme piccone deve frantumare giganteschi massi di pietra durissima; e poi altri ed altri ancora.

«No, ho un problema alla spalla; mi farebbe male picconare in continuazione per l'eternità».

Il Diavolo apre la terza porta. All'interno, l'ex presidente degli U.S.A. Bill Clinton, sdraiato sul pavimento, con le braccia dietro la nuca e le gambe larghe. China su di lui c'è Monica Lewinsky intenta all'ormai famosa attività.

Berlusconi osserva e dopo un po' dice: «Sì, si può fare».

«OK» dice allora il Diavolo «Monica, puoi andare!»

300ml water

250 g sugar

(bring to boil then allow to cool in fridge)

300g mango pulp (best to use the really smelly ripe ones)

juice of half a lemon

Mix all the above together and pour into an icecream maker,

rotate for about 15 minutes,

and then you have the most delicious, refreshing, divine mango sorbet,

which you have on the back verandah in the heat,

with the sky above you and the bats squawking

in the pawpaw trees;

very Queensland.

You can also add the sorbet

to a quantity of vanilla icecream.

One sunny day a rabbit came out of her hole in the ground to enjoy the weather. The day was so nice that the rabbit became careless, a fox snuck up and caught her.

"I am going to eat you for lunch!", said the fox.

"Wait!", replied the rabbit, "You should at least wait a few days !"

"Oh yeah? Why should I wait?" He replied.

"Well, I am just finishing my Ph.D. thesis."

"Hah, that's a stupid excuse. What is the title of your thesis anyway?"

"I am writing my thesis on 'The Superiority of Rabbits over Foxes and Wolves.'"

"Are you crazy? I should eat you right now! Everybody knows that a fox will always win over a rabbit."

"Not really, not according to my research. If you like, you can come to my hole and read it for yourself. If you are not convinced, you can go ahead and have me for lunch."

"You are really crazy!" But since the fox was curious and nothing to lose, he went with the rabbit into its' hole. The fox never came out.

A few days later, the rabbit was again taking a break from writing and sure enough, a wolf came out of the bushes and was ready to eat her.

"Wait!", yelled the rabbit,"you cannot eat me right now."

"And why might that be, you fuzzy appetizer?"

"I am almost finished writing my Ph.D. thesis on 'The Superiority of Rabbits over Foxes and Wolves."

The wolf laughed so hard that it almost lost its hold on the rabbit.

"Maybe I shouldn't eat you, you really are sick in the head, you might have something contagious," the wolf opined.

"Come read for yourself, you can eat me after that if you disagree with my conclusions." So the wolf went to the rabbit's hole and never came out.

The rabbit finished her thesis and was out celebrating in the lettuce fields.

Another rabbit came by and asked, "What's up? You seem to be very happy."

“Yup, I just finished my dissertation."

"Congratulations! What is it about?"

"It is titled 'The Superiority of Rabbits over Foxes and Wolves"

"Are you sure? That doesn't sound right."

"Oh yes, you should come over and read it for yourself."

So they went together to the rabbit's hole. As they went in, the friend saw a typical graduate student abode, albeit a rather messy one after writing a thesis. The computer with the the controversial dissertation was in one corner, on the right, was a pile of fox bones, on the left, a pile of wolf bones and in the middle was a large, lip-licking lion.

The moral of the story is: The title of your dissertation doesn't matter. All that matters is who your thesis advisor is.

Berlusconi, scivola, cade e muore. Arriva alle porte del Paradiso,dove l'attende paziente San Pietro:

"Benvenuto in paradiso, eccellenza.Prima di farla accomodare,devo purtroppo anticiparle che abbiamo un piccolo problema da risolvere.

Vede, è molto raro che un politico d'alto rango arrivi qui,e la verità è che non sappiamo cosa fare con lei.Così abbiamo deciso di farle trascorrere un giorno all'inferno e uno in paradiso,cosicché lei possa scegliere liberamente dove trascorrere la sua eternità.

San Pietro accompagna il nuovo arrivato all'ascensoree questi scende, scende fino all'inferno.

Si apre la porta e Berlusconi si trova in mezzo ad un verdissimo campo di golf.In lontanaza intravede un lussuoso club house;

davanti, tutti i suoi amici politici che avevano lavorato con lui.Gli corrono incontro e lo abbracciano commossi,ricordando i bei tempi andati,quando tutti insieme si arricchivano alle spalle degli italiani.

Decidono di fare una partita a golfe poi cenano tutti assieme al club house con caviale e aragosta.Alla cena partecipa pure il diavolo,che in realtà si dimostra essere una persona molto simpatica, cordiale, e divertente.

Berlusconi si diverte talmente tantoche non si accorge che e' già ora di andarsene.

Tutti gli si avvicinano e prima che parta gli stringono calorosamente la mano,lasciandolo triste e profondamente commosso.L'ascensore sale, sale e si riapre davanti alla porta del paradiso,dove San Pietro lo sta aspettando.

Berlusconi passa le successive 24 ore saltellando di nube in nube,suonando l'arpa, pregando e cantando.Il giorno e' lungo e noioso, ma finalmente finisce.

Si presenta finalmente San Pietro che gli chiede:

"Eccellenza, ha trascorso un giorno all'inferno e uno in paradiso,ora può scegliere democraticamente dove trascorrere l'eternità"

Berlusconi riflette un momento, si gratta la crapa e dice:"Beh, mi consenta, in paradiso è stato tutto molto bello,però credo che sia stato meglio all'inferno".

Allora San Pietro scrolla le spalle e lo accompagna all'ascensore...Scendi, scendi, giunge all'inferno.

Quando le porte si aprono,si ritrova in mezzo ad una terra deserta e piena di immondizie sparse dappertutto.Vede tutti i suoi amici in tuta da lavoro

che raccolgono il pattume e lo depositano in sacchi neri di plastica.

Il diavolo gli si avvicina e gli mette un braccio attorno al collo,in segno di benvenuto.

"Non capisco...", balbetta Berlusconi,"... mi consenta, ieri qui c'era un campo da golf e un club house,e abbiamo cenato a base di aragosta e caviale, e ci siamo divertiti un sacco.Ora la terra é solo un deserto pieno di spazzatura e i miei amici sembrano dei miserabili".Il diavolo lo guarda, sorride e gli dice:

"Amico mio, ieri eravamo in campagna elettorale.Oggi, hai già votato per noi"

INGREDIENTI (per 6 persone)

Per i garganelli:

5 uova, 500 g di farina 00.

Per il condimento:

600 g di broccoli,

un pizzico di bicarbonato,

2 spicchi d'aglio,

olio extravergine d'oliva di Brisighella (dop),

2 cucchiai di scalogno tritato,

1 piccolo peperoncino,

sale q. b.

  1. Impastate la farina con le uova e un pizzico di sale, tirate una sfoglia piuttosto sottile. Tagliatela a quadrotti di 2,5 centimetri di lato. Prendete ciascun quadrato per una punta e arrotolatelo attorno a un bacchetto di legno premendo leggermente sull'apposito attrezzo, denominato pettine, per formare la rigatura. Occorrono tempi velocissimi per evitare che la pasta si secchi prima di formare il garganello.
  2. Lavate accuratamente i broccoli. Sminuzzateli dividendo i fiori dai gambi, che vanno pelati e tagliati a tocchetti. Sbollentate in acqua salata con il bicarbonato, per mantenere il colore brillante, prima i gambi per 7-8 minuti, poi i fiori per 4-5 minuti. Toglieteli dall'acqua con un mestolo forato.
  3. Saltate in padella l'aglio, sbucciato e schiacciato, con l'olio. Fate rosolare leggermente poi eliminatelo. Unite lo scalogno e continuate la cottura per pochi minuti, facendolo stufare. Aggiungete i broccoli, il peperoncino, un mestolo d'acqua di cottura dei broccoli e mescolate il tutto per pochi minuti, regolando di sale.
  4. Nel frattempo cuocete i garganella per 5 minuti circa in abbondante acqua salata, scolateli e saltateli in padella con il condimento. Accertatevi che non siano troppo asciutti e servite.

Vegetariano - Senza latticini Calorie per porzione 410 (kJ 1720)

A little old lady went into the Bank of Canada one day, carrying a bag of money. She insisted that she must speak with the president of the bank to open a savings account because, "It's a lot of money!"

After much hemming and hawing, the bank staff finally ushered her into the president's office (the customer is always right!).The bank president then asked her how much she would like to deposit. She replied, "$165,000!"and dumped the cash out of her bag onto his desk.

The president was of course curious as to how she came by all this cash, so he asked her, "Ma'am, I'm surprised you're carrying so much cash around. Where did you get this money?"

The old lady replied, "I make bets."

The president then asked, "Bets? What kind of bets?"

The old woman said, "Well, for example, I'll bet you $25,000 that your balls are square."

"Ha!" laughed the president, "That's a stupid bet. You can never win that kind of bet!"

The old lady challenged, "So, would you like to take my bet?"

"Sure," said the president, "I'll bet $25,000 that my balls are not square!"

The little old lady then said, "Okay, but since there is a lot of money involved, may I bring my lawyer with me tomorrow at 10:00 am as a witness?"

"Sure!" replied the confident president.That night, the president got very nervous about the bet and spent a long time in front of a mirror checking his balls, turning from side to side, again and again. He thoroughly checked them out until he was sure that there was absolutely no way his balls were square and that he would win the bet.

The next morning, at precisely 10:00 am, the little old lady appeared with her lawyer at the president's office. She introduced the lawyer to the president and repeated the bet: "$25,000 says the president's balls are square!"

The president agreed with the bet again and the old lady asked him to drop his pants so they could all see.

The president complied. The little old lady peered closely at his balls and then asked if she could feel them. "Well, Okay," said the president, "$25,000 is a lot of money, so I guess you should be absolutely sure."

Just then, he noticed that the lawyer was quietly banging his head against the wall.

The president asked the old lady, "What the hell's is the matter with your lawyer?"

She replied, "Nothing, except I bet him $100,000 that at 10:00 am today, I'd have The Bank of Canada's president's balls in my hand."

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