C’è nel titolo di questa mia relazione un’ansia palese. Lo confesso.
E’ da quando, poco più di un anno fa, ho assunto la responsabilità dell’assessorato all’urbanistica che mi porto dietro quest’ansia e la sento crescere. Perché ho fatto di questo motto – urbanistica partecipata – l’essenza programmatica del mio impegno. E perché ho trovato enormi difficoltà nel praticare questo motto, fino al dubbio che esso sia un vuoto nominalismo in perfetto gergo assessorile.
Sono tentato di pensare che possa trattarsi di un ossimoro che svela un malcelato senso di colpa. Ovvero che possa trattarsi di una tautologia che svela un altrettanto malcelato eccesso di zelo.
Infatti:
- se per urbanistica intendiamo (come spesso è, purtroppo e necessariamente) la gestione quotidiana di singole operazioni tecnico-giuridiche che inseguono i guasti del territorio, che rincorrono fabbisogni pregressi, che seguono decisioni “altrui”, sempre in bilico tra “atto dovuto”, “sanatoria” ed “emergenza”;
-e se per partecipazione intendiamo (come quasi sempre è, malgrado le migliori volontà) le cosiddette assemblee popolari, talvolta stancamente deserte, altre volte tanto affollate quanto tumultuose, ma intrinsecamente “protestatarie”;
- se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero un ossimoro, cioè la combinazione di due concetti opposti e inconciliabili.
Invece:
- se per urbanistica intendiamo (come è giusto in questo contesto) la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti;
- e se per partecipazione intendiamo (come è ovvio in questo contesto) il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata;
se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia, cioè la ripetizione di due concetti analoghi.
Scelgo decisamente la seconda interpretazione cercando di depurarla dell’ansia e, nella piena consapevolezza della sua difficoltà, di riconfermarla programmaticamente. In questa chiave, proverò a declinare separatamente i termini della questione.
L’urbanistica è, in senso lato, la disciplina che si propone di governare le modalità insediative dell’uomo e dunque di governare i fenomeni di formazione e trasformazione della città, del territorio e dell’ambiente. In quanto tale l’urbanistica ha compiti che si collocano sull’incrocio problematico tra passato e futuro.
L’urbanistica dovrebbe, anzi deve, interpretare le tensioni trasformative della città e assecondarle con azioni di ri-modellamento dei sistemi insediativi e relazionali della comunità territoriale. Ma nella sua dimensione operativa (tecnica, giuridica, gestionale, ecc.), in quanto azione essenzialmente politico-amministrativa, l’urbanistica resta impaniata nelle dinamiche inerziali tipiche della gestione del presente: razionalizzazione di processi spontanei già in atto; correzione delle patologie manifeste; risoluzione dei fabbisogni arretrati; risposta alle emergenze;…
Domina, largamente e di fatto, il paradigma dell’a posteriori.
E’ come se fossimo condannati a rincorrere le situazioni già in atto e dovessimo consumarci unicamente nello sforzo di correggere storture già prodotte dalla spontaneità dei fenomeni sociali, dei processi economici e delle dinamiche territoriali.
E’ una condanna da cui l’urbanistica deve liberarsi.
Consapevole dei limiti intrinseci della sua dimensione operativa, l’urbanistica deve saper dispiegare la sua dimensione scientifica e culturale aumentando la sua capacità di interpretazione e di prefigurazione. Ciò significa uscire dalle strettoie del rapporto meccanicistico tra passato e futuro per ricollocarsi culturalmente sullo snodo problematico tra storia e progetto.
In questo quadro l’urbanistica deve, anche in sede amministrativa, aumentare la sua cifra progettuale aumentando la sua vocazione ad ispezionare gli scenari del territorio lavorando sui futuri probabili e sui futuri auspicabili.
Emerge chiaramente in questa prospettiva la contiguità dell’urbanistica con la politica. Una contiguità profonda ed ineliminabile, di cui sono portatori emblematici perfino i termini linguistici e i loro etimi. Urbs e polis definiscono la città, pur con accezioni diverse, rispettivamente per la cultura romana e per la cultura greca. Prevale nell’ urbs romana la fisicità e la funzionalità dell’organismo urbano; prevale nella polis greca il senso di comunità sovrana insediata nella città. Urbanistica e politica dunque, entrambe incardinate sulla città, in essa radicate e da essa generate, in una singolare fusione di destini sociali e fisici, civili e funzionali.
Programmare il futuro della città con l’urbanistica significa programmare il futuro della comunità che in essa vive. Organizzare e regolare le relazioni individuali e collettive dei cittadini con la politica, rispondendo ai bisogni e rispettando i diritti, significa organizzare e regolare la città come luogo di quelle relazioni.
In questo intreccio tra destini della comunità e destini della città irrompe il principio (e la pratica) della democrazia.
Si badi bene: la democrazia non è di per sé essenziale all’urbanistica. La storia ci mostra infiniti esempi di “urbanistica non democratica”. Mi riferisco all’urbanistica prodotta dai regimi dittatoriali. C’è addirittura una diabolica perfezione nell’urbanistica dei dittatori.
L’imperialismo romano ha disegnato il dominio sul Mediterraneo trasformandoin città i propri accampamenti militari. Le monarchie assolute hanno disegnato le grandi capitali europee attorno alle loro regge. Gli splendidi boulevard pariginisono il risultato dell’urbanistica controrivoluzionaria del prefetto di polizia Hausmann. L’imperialismo coloniale ha sigillato la modernità cospargendo gli altri mondi di capitali simil-europee. Il nazismo, il fascismo, lo stalinismo hanno ridisegnato intere città e ne hanno fondate altre ex-novo, con una maestria che spesso affascina gli studiosi per la grandiosità delle impostazioni, per la coerenza delle soluzioni, per la monumentalità delle opere.
C’è in questa urbanistica la semplificazione tragica di un potere assoluto che prescinde dai bisogni e dai diritti e celebra nella costruzione delle città il delirio della propria onnipotenza, il narcisimo della propria immagine e il delitto dell’oppressione.
E’ la democrazia che complica l’urbanistica!
La rende meravigliosamente imperfetta, perché nega i gesti megalomani dei dittatori e sottopone il progetto della città al consenso dei suoi cittadini e al difficile esercizio della conciliazione tra i diversi interessi, in quell’intrico di bisogni e di diritti che sono la naturale espressione di una società complessa in cui i cittadini sono sovrani e non sudditi.
E’ nel quadro della “democrazia politica” che si afferma necessariamente il principio della “urbanistica democratica”. Ed allora possiamo affermare che l’urbanistica democratica o è urbanistica partecipata o non è.
Ritornando alle nostre iniziali riflessioni etimologiche, ritroviamo dunque la pienezza del principio di democrazia espressa dalla polis greca come comunità autonoma di cittadini liberi e sovrani, dalla cui assemblea promana l’organizzazione della città.
Il riferimento simbolico alla polis non deve però cedere alla tentazione della semplificazione. La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie.
Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione.
Nella mia esperienza concreta di amministratore ho vissuto una serie di occasioni di partecipazione su cui vorrei brevemente riflettere.
Non le citerò concretamente, ma cercherò di estrapolarne alcune caratteristiche emergenti. Mi scuserete se in questa analisi tratterò soprattutto le mie “sensazioni negative”. Userò giudizi drastici e perfino paradossali, estremizzando le posizioni per chiarezza, ma senza nessuna acrimonia.
Ho sperimentato la prevalenza del dissenso.
Il cittadino partecipa attivamente e con vivacità solo quando non gradisce la proposta o l’intervento. Chi è d’accordo non si pronuncia, partecipa silenziosamente o addirittura non partecipa. Ciò costituisce una condizione di grave squilibrio tra dissenso esplicito e tacito consenso.
Ho sperimentato la sommatoria dei dissensi.
I cittadini dissenzienti esprimono una notevole varietà di obiezioni, spesso tra loro contrastanti e perfino antagoniste. Ma paradossalmente le obiezioni opposte, anziché elidersi, si sommano.
Ho sperimentato l’interesse personale come matrice della partecipazione
Non mi è mai capitato di assistere ad una partecipazione “gratuita e disinteressata”. Si riconosce solo l’interesse diretto. Si lotta per difendere il proprio cortile. Si universalizza il proprio bisogno singolare, il proprio diritto personale.
Ho sperimentato l’ostilità pregiudiziale verso le proposte.
L’amministrazione è vissuta come estranea, perfino nemica, comunque inefficiente. Mi coglie il sospetto che ci sia un istinto conservatore alimentato dalla paura del cambiamento.
Ho sperimentato l’incapacità negoziale.
Si oscilla tra l’indifferenza e la contrarietà assoluta. Stento a trovare quella saggezza negoziale che entra nel merito della soluzione proposta per implementarla con le proprie esigenze.
Potrei continuare a lungo ma mi accorgo che sono tutte critiche rivolte ai cittadini. E allora per farmi perdonare cambio bersaglio e chiudo con una critica radicale rivolta all’amministrazione, cioè a me stesso.
Ho sperimentato l’ipocrisia di spacciare per occasione di partecipazione la pura comunicazione di decisioni già assunte.
Credo che si possa qui trovare la chiave di volta, molto concreta e pratica, per tentare un approccio davvero costruttivo a nuovi percorsi di urbanistica partecipata: c’è bisogno di costruire la partecipazione attraverso un reale coinvolgimento dei vari soggetti lungo tutto il processo conoscitivo e decisionale delle scelte urbanistiche.
Ciò significa concretamente che:
1. deve essere offerta preliminarmente la conoscenza problematica della questione – partecipazione in fase istruttoria;
2. devono essere rese esplicite e riconoscibili le ragioni di metodo e di merito che delineano progressivamente la scelta dell’intervento – partecipazione in fase pre-progettuale;
3. devono essere definiti, laddove possibile, scenari alternativi descritti nei loro diversi effetti possibili, magari con la formulazione di appositi bilanci di costi e benefici, per orientare il processo decisionale – partecipazione in fase progettuale;
4. devono essere attivati processi di pronunciamento sulla decisione assunta – partecipazione in fase decisionale;
5. devono essere attivati processi di controllo sulle attuazioni conseguenti – partecipazione in fase attuativa.
Ho sperimentato questa procedura con lo studio di fattibilità per il recupero e la riqualificazione delle aree ferroviarie. Dalle reazioni delle assemblee ho capito quanta strada ci sia da percorrere: ho fatto molta fatica a farmi credere quando dicevo trattarsi solo di uno “studio di fattibilità a scenari aperti”. Tutti lo scambiavano per un progetto fatto e finito. Tutti erano convinti che fosse una decisione presa e molti la contestavano, in quanto tale.
Questa è stata per me una lezione importante: la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un opzional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza.
Per quanto mi riguarda l’urbanistica partecipata è una fatica su cui mi sento di rinnovare oggi il mio impegno.
Grande pittore olandese è anche Jan Vermeer (Delft, 1632 - ivi, 1675). A parte alcuni paesaggi, dipinse interni di vita borghese, prediligendo le scene domestiche più comuni, i piccoli avvenimenti della giornata di una donna. La sua caratteristica è quella di rendere la tranquillità dell'atmosfera da cui è circondato, con poche figure, spesso una sola, intenta alla lettura o a occupazioni casalinghe. Egli rappresenta con precisione la realtà. La tecnica è molto raffinata: colori inediti giocati sull'accostamento di toni caldi e freddi, una materia ora traslucida ora untuosa che rende l'impressione dell'oggetto, la pennellata è spesso in piccole gocce per rendere la superficie e la riflessione di luce. Caratteristica è la fonte luminosa che vivifica gli interni. Infatti nei suoi quadri c'è qualcosa di vibrante, che rende vivo l'ambiente pacato e silenzioso ove vivono le figure (la luce che penetra da una finestra, posta per lo più a sinistra o fuori dell'inquadratura. Una luce morbida, resa con piccole pennellate punteggiate).
http://www.globalarte.it/storia/vermeer.htm
(Delft 1632 - 1675)
Figlio di un mercante d'arte, Vermeer si formò a contatto con le opere antiche e dipinse per pochi intimi. Ritrasse soprattutto scene di vita domestica, spesso le attività quotidiane. La composizione delle scene è semplice: lo spazio è definito da pochi piani e da una luce intensa e radente; le diverse zone di colore sono usate in modo da contrapporre toni caldi a toni freddi. Il risultato finale è un'immagine che evoca il senso del mistero e una sorta di attesa che ci trasmette una straordinaria ricchezza emotiva. Dimenticato per circa 200 anni, Vermeer fu riscoperto nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Oggi è considerato uno dei più grandi maestri della pittura olandese.
http://www.educazionealimentare.net/at060000h.htm
La quadrata, esauriente relazione del Duca Caffarelli mi dispensa dal ripetere ciò che tanto brillantemente e con tanta dottrina egli ha detto sull'Urbanistica, e sul molto che in materia. di organizzazione si è fatto alI 'Estero, e sul poco che si è tentato da noi.
Inutile quindi abusare dell'attenzione e del tempo dei congressisti con preamboli più o meno fioriti, e utilissimo invece entrare subito nel vivo dell’argomento.
Quando, nel maggio 1926, al Congresso dell’Urbanesimo a Torino fu fatta la proposta di fondazione di un Istituto italiano di Urbanesimo e di altri studi municipali, fummo in parecchi ad opporci, perchè ci parve che in una materia così delicata un preciso voto impegnativo avrebbe potuto compromettere allora, una iniziativa non ancora matura.
Infatti, prima ancora di fissare le norme e l’ordinamento di una scuola sulla dottrina urbanistica, occorreva diffonderne nel Paese i concetti fondamentali, proprio per creare quella coscienza urbanistica della cui mancanza si sentivano e si sentono i danni.
E l’amico Caffarelli, ricordando con arguzia garbata gli equivoci ingenui sul nome e sulla sostanza, ci ha ricordato che le nostre preoccupazioni d’allora erano ben giustificate.
Ma del cammino se ne è fatto in due anni, e, almeno nelle nostre grandi città, si discute ormai di urbanistica come di una scienza e di un’arte che siano veramente, come sono, il midollo spinale delle applicazioni di edilizia cittadina.
Senonché altro è parlare di un così formidabile argomento e altro è essere ascoltati, compresi, seguiti.
Nel meraviglioso risveglio di attività edilizia che il Fascismo sta provocando in tutte le città italiane, quanti sanno e sentono che il cammino percorso nel recente passato deve essere abbandonato? e se talvolta il buon senso di un amministratore che bandisce un pubblico concorso o l’autorità personale di qualche architetto che si accinge ad una parziale soluzione edilizia riescono a salvare dalla rovina la bellezza o lo sviluppo avvenire delle nostre città, quanti esempi potremmo citare invece di situazioni irrimediabilmente compromesse?
Tuttavia chiari segni ci avvertono che anche in questo campo i tempi sono maturi, e che il complesso fenomeno urbanistico, dal punto di vista demografico, tecnico, artistico ed amministrativo, può essere affrontato con profitto, grazie ai sistemi di rapidità e di disciplina che il Regime ha instaurati.
L’Istituto proposto a Torino dall’Ardy, assai pesante anche per la pubblica finanza, sembrava in realtà più acconcio alla formazione di una eletta classe di funzionari comunali, che non alla creazione di un organo di propulsione, controllo e propaganda per la diffusione dei concetti fondamentali della dottrina urbanistica.
Noi vediamo, e parlo in nome di molti colleghi attratti del nuovo spirito che pervade gli studiosi di problemi cittadini, noi sentiamo che un Istituto d’urbanistica deve essere qualche cosa di più vivo, di più aderente alle contingenze della vita della città, e sopratutto dotato di una praticità immediata e realizzatrice.
Per questo le nostre simpatie furono volte subito al valoroso e battagliero Club degli Architetti Urbanisti di Milano, che in una bene affiatata collaborazione affrontavano con baldanza giovanile il problema edilizio della loro città, sia pure considerato solo dal punto di vista della viabilità e dell’architettura; per questo salutammo come lieto auspicio il fervore che animò un altro gruppo di giovani architetti, romani questa volta, che anche a Roma fondavano un’Associazione o Gruppo di Urbanisti, e con qualche conferenza e conversazione, e più con la partecipazione a pubblici concorsi, contribuivano alla diffusione e alla conoscenza dell’interessante argomento.
Mi limito a citare questi due esempi che sono tra i più tipici e più simpatici, ma non sono i soli tentativi dovuti a private iniziative; ricorderò anche una proposta, rimasta tale, di carattere quasi ufficiale, partita da Milano e facente capo ad un eminente studioso, l’Albertini ; e senza fare altre citazioni dei moltissimi che isolatamente o in gruppi hanno in questi ultimi tempi dimostrato con pubblicazioni, concorsi e progetti, quanto sia delicato e importante il problema dei Piani Regolatori e della edilizia cittadina, mi avvierò alla conclusione.
Ho detto che le nostre simpatie sono per i gruppi che del problema particolarmente studiano il lato tecnico e artistico; e non soltanto per affinità di ... mestiere e di sentimenti, ma perchè, pur convinti con l’amico Caffarelli che la dottrina urbanistica non sia se non un complesso inscindibile di cognizioni ... da enciclopedici, riteniamo che quella artistica sia la branca che tutte le assommi e le sovrasti.
Servizi di comunicazione e traffico, reti di fognatura ed impianti tecnici ed igienici, uffici di statistica e di amministrazione, centri assistenziali e istituzioni accessorie sono altrettante manifestazioni della vita delle moderne città, e nessuna può essere preposta ad un’altra, e nessuna può essere esclusa e sacrificata. Voi potrete però creare una città perfetta sotto tutti i punti di vista: dell’igiene e del traffico, della viabilità e della polizia, dei sistemi di fognature e di distribuzione dell’acqua e della energia elettrica; ma avrete tracciato le sue vie senza la visione di una bellezza. panoramica e prospettica, se avrete lasciato suddividere le zone di ampliamento e di espansione senza un concetto di equilibrio, direi quasi musicale, tra le masse dei fabbricati e le serene pause delle riserve verdi, se in una parola non avrete nella creazione delle nuove città lasciato, alla vostra fantasia di artisti e di poeti, alzato il volo verso una severa e nobile creazione di bellezza, voi avrete condannato per sempre alla inutilità ogni altra conquista raggiunta in campi diversi.
Ecco perchè, senza dire che quasi sempre le ragioni della bellezza portano spontaneamente alle soluzioni migliori per tutti i lati del complesso problema urbanistico, ecco perchè si è affermato che i valori estetici hanno la preponderanza quando si parla di una qualsiasi organizzazione urbanistica, specialmente in Italia; ed ecco perchè credo di poter ripetere qui quanto, pochi giorni addietro, con la sua alta autorità e con la spregiudicata imparzialità che gli è propria, affermava il prof. Giovannoni : essere cioè principalmente compito degli architetti lo studio dei Piani Regolatori; degli architetti che non più come nel passato devono compiere le funzioni di manuali tiralinee per esprimere graficamente fredde e spesso sbagliate concezioni altrui ; ma si devono essere i veri creatori delle belle città, dell’avvenire concepite in una sintesi di armonica grandiosità, adeguate alle esigenze della pratica e al ritmo possente della dinamica vita moderna che vuole la formazione di una città dell’oggi in funzione del suo divenire.
E quando si dice architetti s’intende naturalmente anche quegli ingegneri che, tali per titolo e per severità di studi scientificamente compiuti, sono però architetti per la raffinata sensibilità del loro temperamento artistico, e più ancora per quella peculiare caratteristica del vero architetto che deve concepire in sintesi la sua creazione, gradatamente scendendo al dettaglio dei particolari.
Ma un’altra affermazione è stata enunciata nel sommario di questa schematica relazione: la necessità che alla iniziativa di costituzione di un Ente romano di studi urbanistici partecipino principalmente i Sindacati Intellettuali che hanno la direzione e il controllo di tutto il movimento culturale dei professionisti.
Infatti oggi nello Stato italiano ad una istituzione di carattere tecnico e culturale che assommi e concili studi e interessi diversi, non possono, per l’importanza assunta dalla vita pubblica, restare estranei i Sindacati Intellettuali che raccolgono i professionisti, i tecnici e gli artisti che alla, testa dei lavoratori e dei produttori servono la Nazione secondo le nuovissime leggi della disciplina fascista.
Ente romano, abbiamo inizialmente detto, perchè qui nasce e si afferma la proposta della sua costituzione; qui, e in occasione di questa adunata di studiosi dell’inesauribile tema che Roma propone a tutto il Mondo.
Ma se per la universalità degli studi romani, se per calore di simpatia e di adesione al problema che sentiamo ormai maturato in ogni centro importante della vita edilizia italiana, se infine per il fatto stesso che della iniziativa si fanno banditori i Sindacati Fascisti degli Architetti, degli Ingegneri e degli Artisti che sono entità nazionali, noi superiamo le difficoltà formalistiche e proponiamo senz’altro la creazione di un Ente nazionale, nessuno, credo, potrà sollevare obiezioni: e la proposta, sarà salutata, come è, dal consenso del Congresso.
Come si chiamerà il nuovo Ente?
Mentre scrivevo queste parole lo sviluppo limpido e lineare della proposta si precisava alla mia mente, e mi portava alla conclusione che, impreveduta prima, mi appariva logica, naturale e conseguente. La fusione in uno sforzo comune di artisti e di tecnici, di igienisti e di industriali, di economisti e di scienziati inquadrati nelle rispettive Associazioni Sindacali, e la collaborazione autorevole e fattiva degli organi dello Stato e delle Amministrazioni comunali porta nello Stato Fascista al riconoscimento di una forma nuova, ma ben definita: la forma corporativa. Perché l’organismo che noi proponiamo non deve avere nulla di comune con le ordinarie Società a base elettorale, né con le Associazioni culturali che generalmente risolvono in accademie sterili la loro attività, anche se animata da nobilissime intenzioni; né, tanto meno, con le iniziative di carattere particolaristico che possono investire o nascondere interessi economici non armonizzati con il supremo interesse dello Stato.
Esso deve invece essere una cosa viva e posta al di sopra delle varie competizioni, perchè tutte le accoglie e le subordina; e in esso (e qui sta la forza che lo distacca da tutte le Associazioni consimili), in esso l’azione degli organi pubblici statali o comunali, non deve essere esercitata dal di fuori per dare una qualsiasi sanzione; ma deve al contrario essere parte integrativa e conclusiva dell’attività stessa. E così tipico del Regime potrà essere l’organismo che noi oggi proponiamo e che io spero di vedere presto tradotto in realtà concreta per volere del Capo che tutte le iniziative feconde sa animare del suo spirito formidabilmente creatore.
“ Unione Corporativa” dunque, che potrà estendere a tutto il Paese la sua zona d’influenza e porterà il suo contributo di competenza e il suo disinteressato concorso nelle grandi città o in quei piccoli centri che, per la divina impronta dell’arte e per la tipica bellezza naturale che Dio ha donato all’Italia, fanno della nostra terra la meta di tutti gli adoratori della bellezza.
Dovrà quindi l’Unione Corporativa farsi iniziatrice di concorsi, di esposizioni, di corsi di studio, di cicli di conferenze, per diffondere ovunque la cultura urbanistica e preparare tecnici ed amministratori adeguati alla delicatezza del loro nuovo compito; dovrà intervenire con il suo consiglio e, ove occorra, con la sua azione per preparare forme e progetti di sistemazione di piano regolatore, e dovrà finalmente farsi promotrice di leggi e di provvedimenti che valgano a rendere impossibile lo scempio che nel passato si è fatto delle nostre belle città, e diano mezzi e poteri agli amministratori cittadini per attuare, con chiara visione delle necessità dell’avvenire, quella politica di ampliamento e di sviluppo degli aggregati edilizi che risponda al cammino ascensionale dell’Italia Fascista.
Ritengo utile dare uno schema di Statuto per l’ ”Unione Corporativa”, schema che dovrà essere elaborato attentamente e sanzionato dal Governo, il quale dovrebbe anche, con apposita legge, regolare il funzionamento amministrativo dell’Unione.
Ho abbozzato questo schema con la speranza che su queste linee il Governo Nazionale vorrà dare la sua ambita e necessaria approvazione.
E noi vorremo e sapremo ottenerla, specialmente se il voto del Congresso sarà, come penso, sapientemente utilizzato dalla sua Presidenza, e se l’alta autorità del Governatore di Roma darà alla nostra iniziativa quel conforto e quell’aiuto che sarà necessario ad appoggiare l’opera che i Sindacati andranno tenacemente svolgendo.
UNIONE CORPORATIVA DELL’URBANISTICA
(Schema di Statuto)
Art. 1. - Sotto l’alto Patronato del Governatore di Roma e per iniziativa dei Sindacati Fascisti degli Architetti e degli Ingegneri, col voto unanime del Primo Congresso Nazionale di Studi Romani, è costituita in Roma l’ “Unione Corporativa dell’Urbanistica”.
Art. 2. - L’Unione Corporativa presiede e promuove tutto quanto valga a stimolare, disciplinare e controllare l’applicazione dei principi dell’attività urbanistica nello sviluppo e nel risanamento delle città italiane.
Essa quindi provvede:
ad organizzare cicli di conferenze di propaganda e corsi di studi specializzati;
a preparare mostre e bandire concorsi;
a raccogliere dati statistici;
a promuovere e disciplinare tutto il movimento inerente alla preparazione e allo sviluppo dei Piani Regolatori, all’impianto e al funzionamento dei servizi di una moderna città, e al coordinamento giuridico e amministrativo che sia per derivare dallo sviluppo dei servizi stessi.
Art. 3. - Fanno parte dell’Unione Corporativa, oltre le Associazioni Sindacali dei Professionisti e degli Industriali:
gli organi statali più direttamente interessati allo studio delle questioni urbanistiche;
i Comuni del Regno con popolazione superiore ai trentamila abitanti;
i grandi Enti edilizi;
le Aziende che provvedono ai pubblici servizi;
gli Istituti di cultura superiore;
le Associazioni culturali che si interessano specialmente di questioni attinenti alla urbanistica;
gli Istituti che facciano operazioni di credito edilizio.
Art. 4. - Al finanziamento dell’Unione Corporativa sarà provveduto, oltreché con la quota di partecipazione di tutti i componenti ed aderenti, con il provento di una tassa addizionale su tutti gli atti compiuti dai Comuni nell’interesse di Enti e di privati in materia di edilizia e di P.R., come compra-vendita di aree e di immobili, contratti di appalti, convenzioni o concessioni speciali, approvazioni di progetti e licenze di costruzione.
Art. 5. - L’Unione Corporativa è amministrata e diretta da un Consiglio generale costituito dalle rappresentanze degli aderenti, con le modalità che saranno fissate dal Regolamento, e da una Giunta esecutiva composta di 15 persone specialmente competenti in materia, scelte tra i rappresentanti designati dalle Associazioni sindacali, dal Governatorato di Roma, dai Comuni del Regno, e dai Ministeri competenti, e nominata con Decreto del Ministro delle Corporazioni.
Art. 6. - Tutte le cariche sono gratuite
Art. 7. - La Giunta esecutiva potrà costituire però una o più Segreterie amministrative e tecniche i cui componenti saranno retribuiti a norma di regolamento.
In questo testo, finalizzato ad una possibile riforma dei corsi di studio in materia urbanistica, Bardet riassume pregi e difetti dei sistema francese, dai primi anni del secolo alla seconda guerra mondiale. L’interesse particolare, tra l’altro, è l’enfasi posta sul ruolo della composizione, e insieme la piena accettazione di una figura complessa di urbanista, costruita sin dagli anni della formazione come «Equipe». La traduzione è di F. Bottini. Il testo sulla fondazione della “Ecole Des Hautes Etudes Urbaines”, cui Bardet si riferisce, è acquisibile qui.
L’insegnamento dell’urbanistica trova la sua culla al 29 di rue de Sévigné, nell’Hôtel Le Pelletier de Saint-Fargeau, Biblioteca della città di Parigi, dove nel 1903 un giovane archivista, Marcel Poëte, inaugura il corso di «Introduzione alla Città di Parigi» , grazie al quale si comincia a chiarire l’evoluzione di questa città, considerata come un organismo vivente. Ci troviamo uditori come Jaussely.
Dal 1907 al 1913, una serie di mostre sull’Arte Urbana a Parigi conduce al trasferimento, nel 1914, di questa iniziativa all’Ecole Pratique des Hautes Etudes presso la Sorbona, dove si svilupperà liberamente.
Nel 1916, un grande Prefetto, Delanney, ricorda che «la Biblioteca e i servizi storici» della città di Parigi si sono arricchiti di un Ufficio di informazioni storiche e bibliografiche, dell’insegnamento della Storia di Parigi e di Mostre annuali, il che conduce a trasformare questo Servizio in un vero e proprio « Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines», il quale, benché abbia come centro Parigi «non dovrà tuttavia restare strettamente limitato all’orizzonte di una sola città ... la scienza di Parigi non è che una parte della Scienza delle Città».
E non c’è da stupirsi se, quando nel luglio 1917 si apre la « Ecole Supérieure d’Art Public», sotto la presidenza di Georges Risler, questa si installa nei locali del nuovo Istituto.
Destinato a formare i Ricostruttori delle Regioni occupate, l’insegnamento è diviso in sei sezioni:
1° Teoria generale e regionale delle agglomerazioni: Insegnamento dell’urbanistica. Metodi di studio e realizzazioni urbanistiche;
2° Igiene urbana;
3° Architettura e Genio Civile, Costruzioni: Teorie della composizione, i suoi elementi, la tecnica, l’estetica. Tecnica della professione;
4° Economia politica, economia sociale, economia urbana;
5° Legislazione, Diritto amministrativo: Elementi costitutivi delle città, Demanio e servizi pubblici, Edilizia privata. Il problema speciale delle città in ricostruzione;
6° Estetica generale dell’Urbanistica. Estetica regionale.
Questo tipo di insegnamento, molto gerarchizzato, termina nel 1918, e l’Ecole d’Art Public, poco elegantemente fatto sloggiare, emigra al Collège des Sciences Sociales, poi si sgretola. Ritroviamo Monsieur Raoul de Clermont che continua a insegnare diritto amministrativo (5° sez.) al Musée des Arts Décoratifs, mentre Monsieur Agache, fino al 1933, terrà conferenze al «Collège des Sciences Sociales ». Dopo un ultimo sforzo da parte della Société Française des Urbanistes, questa scuola privata scomparirà.
Lo spazio lasciato dall’Ecole d’Art Public, rue de Sévigné, è immediatamente occupato dalla nuova « Ecole pratique d’Etudes Urbaines et d’Administration Municipale» creata ufficialmente, presso l’Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines della Città di Parigi, dal Conseil Général de la Seine, su impulso di Henri Sellier.
Titolo e programma rivelano alcune influenze dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes (Sorbona) e dell’Ecole Libre des Sciences Politiques.
Analizziamo il primo opuscolo informativo: l’oggetto dell’insegnamento «ha un triplo carattere, scientifico, utilitario e divulgativo. Bisogna innanzitutto fare scienza per trarne poi applicazioni per la vita di tutti i giorni, e bisogna divulgarla ampiamente perché possa esercitare più rapidamente e completamente la propria a zione benefica sull’esistenza umana».
«L’insegnamento in questione si indirizza dunque, sotto la forme scientifica, a coloro che hanno a cuore il progresso di una scienza che conferisce una particolare importanza al ruolo considerevole giocato dalla città nella civiltà contemporanea. Si rivolge, sotto la forma utilitaria, a tutti coloro che si preparano a carriere in posti di funzione amministrativa o tecnica, che necessitano la conoscenza delle applicazioni pratiche di questa scienza. Si indirizza, infine, sotto la forma divulgatrice, all’insieme del pubblico che ha bisogno di familiarizzare con nozioni che occupano uno spazio sempre più grande nella vita di ogni giorno».
«Ma, dato che in questo ordine di idee – almeno in Francia – le applicazioni della scienza sono singolarmente in ritardo sulla scienza stessa, c’é interesse a fornire innanzitutto la parte utilitaria e divulgatrice, senza tuttavia trascurare l’aspetto scientifico puro, fondamento di tutto» (beata epoca, quella in cui si credevano le applicazioni in ritardo sulla scienza!).
«È soprattutto l’aspetto utilitario, che si applica alle diverse professioni, municipali o altre, che non si sapranno esercitare senza queste conoscenze, che è esaminato nel programma di seguito».
Il programma dei corsi comprende:
1° L’Evoluzione delle città in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;
2° L’Arte Urbana in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;
3° L’organizzazione amministrativa delle città, della vita urbana in Francia in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;
4° L’Organizzazione sociale della vita urbana in Francia in generale, a Parigi e nell’agglomerazione parigina in particolare;
5° L’Organizzazione comparata della vita urbana all’estero.
I corsi si tengono alle 18, constano di una lezione settimanale ciascuno, a partire da novembre e fino a luglio.
«L’insegnamento dura due anni, alla fine di ciascuno dei quali si sostiene un esame davanti al Comité de perfectionnement, e al corpo insegnante. Il primo di questi esami ha l’effetto di ammettere al secondo anno, il secondo di essere ammessi a sostenere la prova finale che procura il diploma di licenza. Ciascuno dei due esami comprende delle composizioni scritte e delle interrogazioni orali, vertenti sulle materie dei corsi. Quanto alla prova finale, essa consiste in un lavoro personale (memoria, piano ecc ...) scelto dal Comité de perfectionnement e dal gruppo docente.
« L’esprit de l’enseignement» dichiara: «Ciascun corso comprende una esposizione teorica e dei lavori pratici. E dato che la scienza delle città è essenzialmente scienza di osservazione, escursioni di studio sono finalizzate a mostrare come conviene osservare, nelle sue diverse manifestazioni, il fenomeno urbano».
Ecco le «Carriere alle quali l’insegnamento prepara»: «In primo luogo ci sono gli impieghi amministrativi o tecnici dipendenti dalla Prefettura della Senna e Servizi annessi, così come l’impiego di rédacteur alla Prefettura di Polizia.
«Poi, c’è l’insieme delle carriere municipali (segretario generale comunale, architetti o ingegneri municipali, funzionari preposti alla Viabilità, alle acque, alle fogne, all’igiene, ecc ...) o alcune professioni speciali, come quella di architetto-paesaggista, potranno toccare l’arte urbana.
«Ci sono anche le diverse funzioni che toccano questioni sociali o economiche alle quali la città fa da cornice, o che determina (Società o Uffici pubblici per le case popolari, personale amministrativo o tecnico delle Camere di Commercio, ecc...)».
«Ci sono infine tutti i tecnici, architetti, ingegneri ecc., ai quali la legge del 14 marzo 1919, che prescrive alle città di redigere piani regolatori, di abbellimento e di ampliamento, apre vasti orizzonti e una nuova carriera piena di prospettive: la loro formazione a questo riguardo è precisamente uno degli obiettivi essenziali di questo insegnamento».
Le risorse per lo studio dell’Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines: collezioni, centro di documentazione, e come la nuova rivista La Vie Urbaine, sono messe a disposizione degli studenti.
Si ricorda, inoltre, che la Città di Parigi ha fondato all’Ecole Pratique des Hautes Etudes «un insegnamento che, nell’ambito della ricerca scientifica pura, completa l’insegnamento più propriamente utilitario di rue de Sévigné» e che porta, nel 1919-20, ai dati del piano urbano, prescritto dalla legge 14 marzo 1919, studiato dal punto di vista della Geografia urbana».
Non bisogna dimenticare lo «aspetto divulgativo dell’Insegnamento» che è stato troppo rapidamente abbandonato e che si propone:
«1° La divulgazione tramite la parola, sotto forma di conferenze pubbliche;
«2° La divulgazione per immagini, sotto forma di proiezioni cinematografiche o di altro tipo, destinate al pubblico generale o riservate a speciali gruppi, d’intesa col Secrétariat à l’Enseignement, oppure sotto forma di mostre pubbliche;
«3° La divulgazione tramite disponibilità per tutti, in forma istruttiva o educativa appropriata, di libri, riviste e giornali dedicati alle questioni urbane;
« 4° La divulgazione tramite opuscoli o periodici».
Questa scuola cambia quasi subito di nome, e diventa « Ecole des Hautes Etudes Urbaines».
Il programma dei corsi diventa più gerarchizzato, e si distinguono quattro corsi fondamentali:
1° Evoluzione delle città;
2° Organizzazione sociale delle città;
3° Organizzazione amministrativa delle città;
4° Arte Urbana.
Parallelamente a ciascuno di essi sono organizzate delle conferenze destinate allo studio approfondito di un determinato problema. Una serie generale di conferenze su «La Vita urbana all’Estero», infine un certo numero di proiezioni particolarmente destinate alla preparazione dei membri del personale della «Direction de l’Extension de Paris à la Préfecture de la Seine» completano l’insegnamento.
Ciascuna delle parti del programma comporta delle attività pratiche e si dettaglia come segue:
1° L’Evoluzione delle città – considerate come organismi viventi evolventisi nel tempo e nello spazio - comprende una serie distinta di corsi su «l’evoluzione dell’agglomerato parigino»;
2° L’Organizzazione sociale delle città, studia la popolazione metropolitana - specialmente il dipartimento della Senna – i suoi bisogni e le sue crisi, così come l’azione (preventiva, palliativa) resa necessaria da questa situazione, e comporta delle conferenze sul «Municipalismo» o «l’Interventismo» municipale, in Francia e all’estero, così come sulla «Igiene dell’Abitazione»;
3° L’Organizzazione amministrativa delle città comporta delle conferenze sulla «legislazione urbana del futuro»;
4° L’Arte urbana, comporta delle conferenze annesse su «l’Arte dell’ingegnere municipale».
Infine, la serie generale di conferenze «La vita urbana all’estero» comporta conferenze su «I principi della Città Giardino» e la loro applicazione in Inghilterra, che si gonfieranno esageratamente più tardi.
Bisogna notare particolarmente il desiderio di prevedere dei «Lavori pratici di insegnamento» sotto la direzione generale dei professori. «Dei locali speciali dove sono raccolte collezioni di opere, riviste, carte, piani, fotografie, grafici, ecc..., sono messi a disposizione.
Questi locali sono aperti tutti i giorni non festivi, dalle 10 del mattino alle 6 della sera, alle persone che seguono l’insegnamento, e che ci troveranno, oltre agli strumenti di lavoro necessari, aiuto e consiglio». Nei fatti, questo insegnamento pratico non ha funzionato.
Le condizioni dell’insegnamento sono precisate: «ciascun corso ha luogo, nei limiti di tempo che gli sono stati assegnati, una volta alla settimana». C’è una modifica delle prove: «un esame è sostenuto alla fine del primo anno, per passare al secondo. Una prova finale, consistente in particolare di un lavoro personale (memoria, piano, ecc...) scelto dal candidato d’accordo coi professori, e giudicato da una giuria designata dal Signor Prefetto della Senna (?) è prevista il secondo anno per ciascuno dei corsi fondamentali. Queste prove possono essere sostenute concorrentemente o separatamente, a scelta dell’allievo. Ciascuna di esse comporta l’attribuzione di un certificato: il possesso dei certificati concernenti le branche «Evoluzione delle Città» e «Arte Urbana» dà diritto al brevetto« Aménagement des Villes»; i certificati concernenti le branche «Organizzazione sociale delle Città» danno diritto al brevetto « Administration municipale». Il possesso dei due brevetti succitati darà luogo alla concessione del Diplôme d’urbaniste. È previsto che le note segnaletiche, sottoposte alle Commissioni di graduatoria incaricate di preparare le tabelle di avanzamento dei funzionari del Dipartimento, della Città di Parigi e dei Servizi assimilati, comporteranno l’indicazione dei certificati, brevetti, diplomi rilasciati dalla Scuola».
Il reclutamento mostra subito che è il caso di distinguere fra «Aménagement des villes» e «Administration municipale». Si vedrà più tardi una maggiore differenziazione.
L’Ecole des Hautes Etudes Urbaines è accorpata all’ Université de Paris nel 1920. Diviene, nel 1924, « Institut d’Urbanisme», costituito nella sua forma attuale, e transferito, da allora, alla Sorbona. Possiede, nel 1928, un Conseil de Perfectionnement e un Conseil d’Administration che non comprende alcun urbanista praticante ( savant o artiste), ma amministratori, giuristi e funzionari, benché si sia previsto «per lasciare ampiamente aperta la porta alle competenze, che il Consiglio potrà presentare al Rettore delle personalità che si saranno fatte conoscere per il loro lavoro o per l’interesse rivolto agli studi».
Se il programma fa notare, cosa esatta, « che contrariamente alle istituzioni simili all’estero, che per la maggior parte non esaminano che uno o alcuni aspetti dei problemi urbani», l’Istituto « comprende l’insieme dei problemi generalmente rappresentati dall’espressione: urbanistica», il Consiglio pare concepire assai male questo insieme.
È esatto che «non si può pensare che l’Urbanistica rappresenti il dominio esclusivo dell’architetto, dei costruttori di città, e meno ancora ammettere che si riassuma nell’elaborazione di piani di quartieri della città, di piani di città ... che non sono che la manifestazione delle rivendicazioni di igiene (?), di benessere, risultanti dallo sviluppo sconsiderato delle nostre città industriali moderne» ... «Il problema si estende a tutte le condizioni infinite e multiple dell’esistenza umana ... A questo titolo, appartiene anche all’amministrazione, a colui che, ad un titolo qualunque, è chiamato ad esercitare un’influenza o una missione la cui ripercussione ha eco nella vita comune».
Tuttavia, se non si parla più di una scienza «in anticipo sulle sue applicazioni», non sembra si sospetti esserci una scienza da fare, scienza innanzitutto d’osservazione e che non è fatta né di tecnica, né d’amministrazione, ma che si avvicina piuttosto alla geografia umana e alla morfologia sociale, e che – visto che si tratta di ruolo sociale, dell’essere umano – trae i suoi dati nello stesso tempo dalle leggi della vita e dalla psicologia collettiva.
LaSezione: Evoluzione delle città, grazie al suo fondatore Marcel Poëte, continua a restare la sola sezione ad cui si sprigiona lentamente una scienza di osservazione.
La Sezione: Organizzazione sociale delle città, diretta da Monsieur Fuster, comprende sempre, in aggiunta, delle conferenze sulla Igiene dell’Abitazione.
La Sezione: Organizzazione amministrativa delle città, professore Monsieur Jèze, si gonfia di conferenze su «l’Organizzazione dei grandi servizi pubblici nella banlieue parigina», tenute da Henri Sellier; su «Le questioni attuali di oganizzazione delle Capitali», tenute da Joseph Barthélémy; su «La vita municipale all’Estero», su «Il mantenimento dell’ordine nella città».
La Sezione: Organizzazione economica delle città,nuova nata, espone attraverso la voce di Monsieur Bruggeman i principi della città-giardino di Howard e si completa di conferenze sul «Municipalismo» tenute da Monsieur W. Oualid, in attesa di invertire questo ordine con il cambio di direttore.
La Sezione di Arte Urbana si è felicemente sviluppata. Comprende tre urbanisti professori: i Signori Bonnier, Gréber e Prost, che si ripartiscono l’insegnamento, così come le conferenze, su «l’Arte dell’ingegnere municipale». I corsi pratici sono intercalati da corsi teorici, il soggetto dell’esercitazione pratica è dato ciascun mese dal corso pratico del mese seguente.
Tutti questi studi sono sanzionati da un diploma, che si dichiara «assimilato (?) a quelli degli istituti di insegnamento superiore» e che dà accesso «ai concorsi di ammissione agli impieghi della Prefettura della Senna: Commissaire-répartiteur aggiunto alle imposte dirette della Città di Parigi ( ?), Ingegnere-geometra aggiunto al Piano di Parigi, Rédacteur alla Cassa di Credito Municipale di Parigi (?), Rédacteur all’Assistenza pubblica (?), Segretario amministrativo (?) all’Ufficio pubblico di igiene sociale, ecc... » altrimenti detto: a tutto, salvo alla professione di urbanista.
Per il reclutamento, in difetto di veri diplomi, «Francesi e stranieri potranno produrre tutti i certificati attestanti (?) che il candidato ha una cultura generale sufficiente per seguire l’insegnamento» (controllo per i meno insufficienti).
«L’esame conclusivo degli studi comprende:
« a) Delle prove orali;
« b) La redazione e discussione di una memoria».
L’allievo che ha concorso con successo ha il titolo di « Diplôme de l’Institut d’Urbanisme». Ricordiamo che alla costituzione della «La Société des Diplômés de l’Institut d’Urbanisme», è stato precisato che i diplomati non potevano avere il titolo di «Urbaniste-Diplômé».
Dopo speciale deliberazione del Giurì, un diploma di «Lauréat de l’Institut d’Urbanisme» può essere rilasciato, inoltre, al Diplomato «che è stato giudicato degno della distinzione precedente e che ha ottenuto una borsa di viaggio a causa delle modalità particolarmente brillanti con cui ha sostenuto la propria tesi».
Nel 1939, ritroviamo l’Institut d’Urbanisme nei locali dell’Institut d’Art et d’Archéologie, dove è emigrato nel 1933, ma senza grandi cambiamenti, mentre invece la scienza urbanistica e le sue applicazioni si sono considerevolmente evolute. In particolare, non è più solo questione di città, ma di regioni e agglomerazioni rurali; si parla correntemente, quali che siano i pericoli di questi neologismi, di urbanistica rurale, regionale, nazionale, o superurbanistica.
Dopo il 1934, un afflusso considerevole di architetti, la diffusione delle idee, l’avvento alla moda della parola urbanistica, la necessità di creare dei professionisti dell’urbanistica, hanno condotto i migliori allievi, o antichi allievi, a chiedere sweri ritocchi all’insegnamento. Questo d’altronde senza alcun risultato: il direttore, malato, in Belgio, non vedeva più in là delle città-giardino inglesi. D’altra parte, il successo finanziario dell’insegnamento presso le amministrazioni comunali e prefettizie faceva dimenticare, ancora, il bisogno urgente di educare dei «creatori».
Andiamo quindi a tentare di esporre come dovrebbero organizzarsi le cinque grandi divisioni che non si possono, al momento, modificare.
Ciascuna di esse dovrà presentare un fascio di Scienze pure, di Applicazioni e di Lavori pratici.
Così, la prima Sezione: Evoluzione delle Società o delle agglomerazioni umane, e non semplicemente delle città, comporterà alla base qualche nozione essenziale di biologia generale e di psicologia collettiva, che mostri come si possano sviluppare una serie di osservazioni metodiche di carattere universale. Dopo questa si svolgerà il quadro della formazione ed evoluzione degli agglomerati umani nelle diverse civiltà.
Il Corso fondamentale di Evoluzione delle Società Umane potrà essere accompagnato da Lavori pratici aventi come obiettivo la costituzione di schemi visuali, sintetizzanti l’insieme dei dati materiali e spirituali analizzati nel corso, per una data agglomerazione (vedere gli schemi di «Parigi, la sua evoluzione creatrice», attivato all’Ecole Pratique des Hautes Etudes; Titolo V. pp. 187-199).
La seconda Sezione: Organizzazione sociale degli agglomerati, dovrà iniziare con qualche conferenza di morfologia sociale applicata allo stato sociale contemporaneo. A questo insegnamento teorico seguiranno le importanti applicazioni pratiche della statistica all’analisi sociale, ma queste applicazioni dovranno essere studiate non da un giurista o un amministratore, ma da un geografo, che non consideri le cifre per sé stesse, ma come rappresentazione sul terreno di qualcosa di concreto. Pensiamo ai lavori di geografia statistica come lo «Atlas National de Géographie».
I lavori pratici potrebbero portare in rappresentazione visiva le funzioni della città, mirando, da un lato, a riportare quelli che abbiamo chiamato i profili psicologici delle agglomerazioni e che, mentre gli schemi della prima sezione avevano come scopo di mostrare l’evoluzione e le tendenze dell’agglomerazione in movimento, spaccati e momenti dati; d’altra parte, scoprire le cellule sociali, in particolare le comunità di luoghi completamente dimenticate, mentre lo spirito comunitario è alla base di ogni raggruppamento sociale.
Le «conferenze di Igiene» annesse, saranno delimitate e, soprattutto coordinate con quelle sulla «Arte dell’Ingegnere Municipale».
Non bisogna dimenticare, infatti, che numerosi allievi dell’Institut d’Urbanisme hanno già seguito gli insegnamenti dello «Institut de Technique Sanitaire», dove quest’ultimo soggetto è molto sviluppato, e che non mancano lavori disponibili su questo argomento. All’inizio, non si dovrà sviluppare nel corso di un insegnamento complementare, come quello dell’I.U., quello che gli allievi possono apprendere, da soli, nelle opere classiche.
La terza Sezione: Organizzazione economica degli agglomerati, non ha, di fatto, avuto sinora un titolo. È indispensabile dotarla di un corso fondamentale sull’organizzazione economica, che vada dalla fattoria alla regione, e che dovrà essere tenuto da un geografo-economista. Come applicazione, un certo numero di conferenze sulla «Città Giardino di Howard e i suoi risultati» e sul «Municipalismo».
I lavori pratici potranno esercitarsi su mappe o profili come nella prima e seconda Sezione.
Sottolineiamo che la necessità di associare i geografi alle nostre ricerche è dimostrata dai fatti: la costituzione, nel 1936, alla Sorbona, di un «Centro di Géografia Fisica e di Geologia dinamica applicato all’Urbanistica» che è servito al perfezionamento di un certo numero di Diplomati dell’Institut d’Urbanisme, saenza parlare dei Corsi esistenti all’estero, a Amsterdam o a Utrecht.
La quarta Sezione: Organizzazione amministrativa degli agglomerati, dovrà evidentemente adattarsi alle riforme in corso. È la sola sezione dove i giuristi occupano tutto lo spazio. Essa dovrà riversare il suo troppo-pieno nella « Ecole Nationale d’Administration Municipale» creata presso 1’I.U. Là ancora, non si dovrà scordarsi che gli amministratori, allievi dell’Institut d’Urbanisme, hanno innanzitutto, per la maggior parte, già seguito i corsi dell’E.N.A.M. e che inoltre le opere edite abbondano. È dunque inutile caricare il numero di ore dei corsi già così ristretto dell’I.U.: circa 150 all’anno, di quanto si può leggere a casa propria in otto ore. È difficile, al momento attuale, precisare il senso delle riforme da farsi.
La quinta sezione sembra essere la sezione eminentemente pratica, il coronamento delle analisi precedenti, dato che conduce alla materializzazione dei concetti. Di fatto, dovrà comportare, anch’essa, un insegnamento dogmatico.
Non bisogna dimenticare, in effetti, che fra tutti i corsi su settori dell’urbanistica, non c’è un Corso di Urbanistica, o corso di sintesi, che permetta agli allievi di includere la parte di ciascuna delle differenti discipline nella scienza propria dell’urbanistica.
Allo stato attuale di questa scienza all’inizio, non si può agire oltre qualche conferenza, ma esse sono fondamentali se le giudichiamo sperimentalmente, dopo dieci anni, attraverso le riflessioni degli allievi.
Questa rapida rivista dovrà essere seguita da un Corso teorico di Costruzione degli agglomerati del quale i professori attuali si divideranno l’onere. Uno sarà professore di teoria, gli altri si incaricheranno sia della composizione di elementi separati, sia della composizione di insieme. I lavori pratici qui saranno fondamentali e dovranno essere accuratamente controllati.
Accade che numerosi allievi di origine amministrativa sono incapaci di eseguire questi lavori, perché non conoscono i principi elementari del disegno e della composizione. Essi fanno frequentemente eseguire i loro compiti da tecnici esterni. A questo trucchetto, nefasto per tutti, parrebbe più giudizioso sostituire onestamente delle équipes (analoghe a quelle del concorso delle tre Arti, all’Ecole des Beaux-Arts, che comprendono: un architetto, un pittore, uno scultore). Per formare questi gruppi si assoceranno liberamente: un amministratore, uno o due tecnici (architetti o ingegneri), e infine un «artiste cultivé» che analizzi particolarmente l’evoluzione del soggetto. Ciascun gruppo presenterà collettivamente un progetto completo.
Dal punto di vista psicologico, tanto è utile insegnare agli amministratori a «leggere un piano», quanto è pericoloso lasciar loro supporre di saper usare una matita e progettare – visto che ci si mettono dieci anni per impararlo alle Beaux-Arts preparandosi al concorso di Roma. Ogni architetto che ha avuto «clienti che hanno fatto del disegno» sa cosa gli è costato.
A questa sezione saranno ricongiunte le conferenze sulla «Arte dell’Ingegnere Municipale», che dovranno studiare non solo i Servizi Municipali, ma molto precisamente l’incidenza di questa arte dell’ingegnere sulle strutture degli agglomerati. Comprendono, dopo poco, e per fortuna, alcune esercitazioni pratiche.
Scientificamente riorganizzate le grandi divisioni fondamentali dell’insegnamento, il livello dell’I.U. ne uscirà rinforzato se si controllano seriamente le acquisizioni degli allievi. È dunque indispensabile, non non solo procedere al controllo individuale delle presenze, ma ancora, al momento degli esami, giungere realmente alla pratica delle prove scritte, alla fine del primo e secondo anno, per i corsi fondamentali.
Gli allievi che avranno superato questi due esami saranno titolari di un Certificat de fin d’études. Questo dovrà essere rilasciato dopo il secondo esame superato. Si verificano, infatti, parecchi abusi di titolo; prendono il nome di «Anziani Allievi dell’I.U.» dei giovani che hanno frequentato, raramente, e non hanno punto superato esami. Il possesso del certificato permetterà un controllo agevole e aiuterà la lotta contro gli abusi.
Per le tesi, converrà precisare per quanto possibile il loro scopo e cosa dovranno comportare. Gli studenti presentano spesso dei soggetti troppo vasti per dar luogo a qualcosa di diverso dal generico; all’interno di ciascun argomento di insieme, dovrà essere accuratamente delimitato un punto di dettaglio pour scoprire le qualità di osservazione del candidato; d’altro canto, alcuni soggetti sono ripresi a un’epoca troppo ravvicinata, senza visibile progresso. Non bisogna dimenticare che la scienza urbanistica necessita la costruzione di monografie precise, e che le buone tesi dell’I.U. sono le rare fonti di questo genere di lavori.
Realizzata questa messa a punto della struttura attuale, l’Insegnamento dell’Instituto resterà ancora insufficiente per la categoria degli Architectes-Urbanistes, Directeurs de Plan, così come li definisce la circolare ministeriale del 1921. Per questi ultimi, bisogna considerare un terzo anno di perfezionamento. Per questi ultimi soltanto, perchè come abbiamo detto gli amministratori provengono, per la più parte, dall’.E.N.A.M. (Ecole Nationale d’Administration Municipale) e i geometri e ingegneri dall’Institut de Technique Sanitaire; la regolamentazione della professione di architetto condurrà a conferire ai soli architetti diplomati il diritto di dirigere piani urbanistici, «a condizione che detti architetti diplomati abbiano seguito studi complementari di urbanistica all’Institut d’Urbanisme».
Tutti gli allievi che abbiano completato i primi due anni e presentato con successo la loro tesi porteranno, come avviene attualmente, il titolo di diploma, o meglio- per evitare ogni confusione – quello di Breveté de l’Institut d’Urbanisme.
Gli architetti già diplomati a una Scuola di Architettura e brevettati dell’I.U. porteranno, dopo il terzo anno terminato con successo, il titolo di Urbaniste-Diplômé par l’Etat, titolo che potrà essere assimilato, seriamente stavolta, a quello delle Grandes Ecoles.
Questo terzo anno non si può concepire che sotto la forma di «Atelier», la sola che si addice all’insegnamento artistico della grande composition.
Di fronte all’indifferenza ufficiale mostrata prima della guerra per questo insegnamento pratico indispensabile, abbiamo dovuto aprire un Atelier libero, nel quale degli studenti si sono riuniti – di loro propria volontà, e non per ottenere un pezzo di carta. Il successo è stato sanzionato allo stesso tempo dal Grand Prix du Salon des Urbanistes vinto collettivamente, come risultato di un anno di funzionamento, e dalle posizioni occupate attualmente dai vecchi partecipanti.
Per l’ottenimento del diploma, ci si può ispirare all’esempio di Liverpool – uno dei migliori dal punto di vista professionale – che richiede la preparazione di almeno due progetti urbanistici completi per zone assegnate: uno studio per la ricostruzione di una zona esistente e un progetto di risoluzione di un delicato problema urbanistico sotto determinate condizioni: gestione urbana, architettura urbana, decoro urbano.
Il soggetto sarà definito dai professori di teoria, e potrà essere lo stesso per tutti, o meglio, adattato alla nazione, alla regione, all’agglomerazione del candidato. Potrà essere, ancora, lo sviluppo grafico di una memoria che abbia gia ottenuto il brevetto. Riguarderà sempre una applicazione professionale, conformemente ai regolamenti esistenti, e non potrà essere un fatto di anticipazione utopica. Sarà giudicato dai suddetti professori su schizzi, poi a piccola scala, e infine su elaborato completo. L’esecuzione del lavoro avrà luogo nell’atelier, dove ognuno approfitterà dell’ambiente e dei consigli pratici del Chef d’Atelier.
Infine, dato che gli urbanisti sono chiamati ad occupare alte funzioni di organizzazione o pianificazione regionale, gli Urbanistes-Diplômés, che saranno inoltre Lauréats (a titolo indicativo, ne esiste attualmente una dozzina) saranno ammessi a candidarsi al grado di Urbaniste-Docteur (analogo a quello di Ingénieur-Docteur) secondo i regolamenti universitari. Il che permetterà, inoltre, di formare un corpo insegnante per l’urbanistica.
L’Institut d’Urbanisme comprenderà, allora, non solo un insegnamento completo dal punto di vista della teoria e delle sue applicazioni, ma un vero e proprio laboratorio di attività pratiche, dal qual soltanto si possono sviluppare i principi della scienza urbanistica. La gerarchia: Ecole Nationale d’Administration Municipale, Breveté de l’I.U., Urbaniste-Diplômé de l’Etat, Lauréat de l’I.U.,Urbaniste-Docteur metterà ciascuno al suo posto, come in una composizione di Le Nôtre.
Parigi, 3 novembre 1940.
Nel 1944,dopo i violenti attacchi di Monsieur Roux-Spitz, su l’Architecture Française, e i suggerimenti della Commission d’Urbanisme della S.A.D.G., un terzo anno comincia ad avviarsi. Nel frattempo, le nomine di René Maunier al corso di organizzazione sociale ed economica delle città, del dottor Hazemann al corso di igiene sociale, del geografo Clauzier, hanno davvero risolto lo squilibrio causato dal corso di Diritto.
Ma la formazione dei tecnici dell’Urbanistica resta da intraprendere, congiuntamente al Ministère de l’Urbanisme.
This memorandum attempts to express “the sense of the meeting” growing from the Italo-American City and Regional Planning and Housing Seminar conducted on the island of Ischia, June 20-30, 1955 under the sponsorship of the Italian “Ministero dei Lavori Pubblici”, the “Comitato Nazionale per la Produttività”, and the “Istituto Nazionale di Urbanistica”, with the cooperation of U.S.O.M.
The Seminar was attended by governmental officials, practicing town planners, architects and other professional people closely allied to planning, by professors of planning in Italian and American universities, and by editors of seven professional magazines in the fields of city and regional planning, housing and architecture. Many of these individuals made valuable contributions to the discussions out of which the present notes have been distilled.
At the beginning of the meetings, papers were presented by the following responsible Italian officials: Prof. Cesare Valle for the Ministero dei Lavori Pubblici; Dr. Francesco Curato for the Cassa per il Mezzogiorno; Ing. Camillo Ripamonti for other public housing agencies.
During the Seminar, discussion was focused on eleven papers which had been prepared by the American participants, and by prepared comments on the subjects of these papers by their eleven Italian counterparts. These papers, their authors and their Italian commentators were the following.
Howard K. Menhinick, The South in the U.S.A. Commentator: Manlio Rossi Doria.
Albert M. Cole, The United States Housing Program.Commentator: Camil1o Ripamonti.
Girard Davidson, Regional Resource Planning by the Federal Government.Commentator: Giovanni Astengo.
Oskar Stonorov, The Coming Reconstruction of American Cities. Commentator: Luigi Piccinato.
Lawrence K. Frank, The Human Dimensions of Planning.Commentator: Angela Zucconi.
Frederick Gutheim, Plans for Today and Tomorròw. Commentators: Ugo La Malfa and Ernesto Nathan Rogers.
Edmund M. Bacon, Philadelphia's Planning Program. Commentator: Ludovico Quaroni.
Vernon De Mars, Choice as an Objective in Planning. Commentator: Adriano Olivetti.
Douglas Haskell, Roadtown U.S.A. Commentator: Bruno Zevi.
Robert B. Mitchell, Transportation in Contemporary City Planning. Commentator: Vincenzo Di Gioia.
Paul Opperman, Central City Planning in a Metropolitan Context. Commentator: Gino Pollini.
Planning processes at the national, regional ;and local levels need to be inter-related. They should include programs for economic development and for social services and social adjustment as well as schemes for the physical adaptation of physical arrangements and facilities. No single element, such as an economic program or a physical design should be undertaken in isolation. The continuous practice of the process of planning requires a form of organization which can be related to government. It should be responsible for the synthesis of the contributions of citizens and public officials as well as its technical staff toward the preparation of plans and programs. Many American city planning commissions are examples of such an institution, which might be useful for adaptation in other circumstances.
Out of these discussions there came awareness of many common problems and opportunities shared by planners in the two countries. In the midst of varying points of view on techniques and methods of application, certain principles came through clearly. In the conversations the participants were trying to define these problems and opportunities rather than to devise universally applicable formulae. The central and continuing problem; was seen to be that of translating human needs and aspirations into a fitting environment for modern life, and of developing methods and practices so that planning can become a progressively more useful instrument of democratic choice.
It is clear that urban and regional planning is entering a new phase all over the world. In this new phase a humanistic approach, which tries to adjust man's environment to these changing needs and resources, will supersede a preoccupation with types of urban structure. Planning will emphasize not static schemes of physical arrangement but schemes of development to guide the “creative evolution” of communities.
This new planning requires the development of a more profound method and enlarged scientific knowledge of communities and regions. It is our hope that through its humanistic approach and with the aid of greater knowledge and improved method, planning can produce more suitable and useful designs of arrangement in the physical sense.
We believe that planning is a new democratic function. The institutions of planning must have a functional continuity.
Planning represents a technical, social and human service to the community which requires a competence in the formulation and the implementation of long-term programs, beyond day-to-day decisions which may be dictated by political expediency.
We believe that with the increasing social responsibility of the technical planning process the work of the politician and the administrator will be placed in a broader context and will be facilitated.
Regional planning for the wise conservation and utilisation of all of the resources of a territory was recognized as a most important device for raising the standard of living of the people, especially in depressed areas. The development of all of the resources of a region in a unified manner, with active participation of the people directly affected, to produce “not a planned region but a planning region” has been successfully demonstrated.
The reconstruction, conservation and preservation of central cities is a matter of high importance, and the conditions of modern life give it an urgent status in the community, its public administration, its economic productivity are concentrated in these centers.
Reconstruction must be based upon a sensitive respect for cultural treasures of past generations to conserve that which may be maintained and fitted to the life of the present and new uses of the land areas of such communities.
The relation of “core city” to the metropolitan area, ought to meet requirements of the numbers of the inhabitants to be served, and their economic purposes. The scale and character of the community as a whole, likewise, should receive an appropriate architectural design to create worthy cultural symbols of the qualities and purposes of the people.
The need for a sense of community both functionally and visually was felt desirable by the representatives of both countries. Some felt that the need for center or focus of neighborhood living at the human scale is one of the major problems of our times. At this scale, the possibility of a variety of choices on the part of the individual as to how he wishes to live is a positive objective of planning; not a mere accidental by-product.
In the whole field of housing, some major problems of housing credit and finance, were identified and the door opened for further exploration of Federal Housing Administration mortage insurance and of other type of financing to meet the special problems of Italy.
Furthermore, it, was agreed upon that in housing programs it is necessary to adopt, measures under which a part of the allocations goes toward the establishment and operation of collective social services, because such services constitute an integral and essential part of a program for the elevation of the living standard of low-income people.
We have identified specific planning techniques which should be further explored to adapt and introduce them into the planning structure and practice of our respective countries. Among these are the advance acquisition of sites for community facilities and public works through reservation and dedication procedures as well as by direct purchase, the preparation of capital programs and budgets on the basis of detailed study of planning offices in collaboration with operating departments of local governments, and processes of “mandatory referral” to insure that specific project proposals will be judged in the context of general plans. Other examples could be cited.
In the important field of planning education, major shortages of qualified personnel exist in both countries. Current developments in the two countries are complementary to each other.
In Italy every young architect is given training in community planning. Many engineering schools also teach courses in planning. This has resulted in a high level of housing and neighborhood design not generally achieved in the United States, where such a policy of planning training does not exist in all architectural schools. The United States might emulate Italy in this respect.
In the United States the profession of planning is recognised as a subject in its own right. Within the structure of twenty American universities, post-graduate courses in planning have been established, leading to a Master’s degree. While the contribution of many disciplines, including architecture, engineering, economics and sociology has been recognized, the planning instruction is carried on independent of domination by any of these specialities. The training is designed to produce persons competent to carry on planning as a broad correlative force, bringing into play the full potential of the many contributory professions. This concept of planning education may present suggestions which Italian universities might want to consider.
In both countries, close relationships between practitioners in planning and planning schools should be encouraged, and the student exchange program should be strengthened.
In conclusion, we regard this Seminar and its results as a distinct success. We have built a bridge of friendships and understanding among a group of students of two nations. We have laid the foundation for future cultural collaboration. As an institution, the Seminar has proven to be a communications device which, properly conceived and utilized, has great utility. As such it should be further exploited. We believe that future regional and town planning work and housing programs in both our countries will be enriched by the understanding which these conversations have given us.
Questa dichiarazione tende ad esprimere lo spirito dell’incontro italo-americano sulla pianificazione urbana e regionale tenuto ad Ischia dal 20 al 30 giugno 1955, e che, sotto il patrocinio dell’INU, è stato organizzato dal Comitato Nazionale della Produttività, per incarico del Ministero Italiano dei Lavori Pubblici, con la cooperazione dell’U.S.O.M.
All’incontro hanno partecipato funzionari governativi, urbanisti professionisti, architetti ed altri studiosi strettamente interessati alla pianificazione, professori di urbanistica nelle università d’Italia e d’America ed i direttori di sette riviste di architettura e di urbanistica.
Molte di queste persone hanno portato notevoli contributi alla discussione, dalla quale sono state tratte le presenti note.
All’inizio dell’incontro, sono state presentate relazioni dai seguenti rappresentanti ufficiali italiani: prof. ing. Cesare Valle per il Ministero dei LL.PP., dr. Francesco Curato per la Cassa del Mezzogiorno. Ha inoltre parlato il Dr. Giorgio Sebregondi per la SVIMEZ.
Durante il Seminario le discussioni hanno avuto per base le undici relazioni che erano state preparate dai partecipanti americani ed i commenti elaborati sul tema di tali relazioni da undici controrelatori italiani.
Ecco l’elenco dei titoli e degli autori delle relazioni e dei nomi dei controrelatori italiani:
Howard K. Mehinick, Il Sud degli Stati Uniti ( Controrelatore: Manlio Rossi Doria)
Albert M. Cole, Il programma edilizio degli Stati Uniti ( Controrelatore: Camillo Ripamonti)
Girard Davidson , Pianificazione delle risorse regionali da parte del Governo Federale ( Controrelatore: Giovanni Astengo)
Oskar Stonorov, La futura ricostruzione delle città americane ( Controrelatore: Luigi Piccinato)
Lawrence K. Frank, Le dimensioni umane della pianificazione ( Controrelatore: Angela Zucconi)
Frederick Gutheim, Piani per oggi e domani ( Controrelatori: Ugo La Malfa, Ernesto Rogers)
Edmund M. Bacon, Programma urbanistico di Philadelphia, ( Controrelatore: Ludovico Quaroni)
Vernon De Mars, La scelta come obiettivo della pianificazione ( Controrelatore: Adriano Olivetti)
Douglas Haskell, La città strada negli Stati Uniti, ( Controrelatore: Bruno Zevi)
Robert B. Mitchell, I trasporti nella pianificazione urbana contemporanea, ( Controrelatore: Vincenzo Di Gioia)
Paul Oppermann, Sistemazione del nucleo urbano centrale nell’ambito metropolitano ( Controrelatore: Gino Pollini)
Hanno inoltre partecipato ai lavori, su invito del Comitato Nazionale della produttività, i seguenti esperti: Arch. Leonardo Benevolo, Prof. Federico Biraghi, Prof. Edoardo Caracciolo, Dott. Giorgio Ceriani Sebregondi, Ing. Giuseppe Ciribini, Prof. Carlo Cocchia, Dott. Francesco Cuccia, Dott. Francesco Curato, Prof. Luigi Dodi, Prof. Ignazio Gardella, Ing. Marcello Grisotti, Sig. Raffaele La Serra, Prof. Vincenzo Minchilli, Prof. Giuseppe Vaccaro, Ing. Cesare Valle.
I processi di pianificazione ai livelli nazionali, regionali e locali, dovranno essere tra loro interrelati: essi dovranno comprendere i programmi per lo sviluppo economico, per i servizi sociali e per il riordinamento sociale, come pure gli interventi per l’assetto territoriale delle attrezzature e delle opere pubbliche. Nessuno di questi singoli interventi, sia esso un programma economico o una progettazione di opere, dovrà essere intrapreso come un fatto a sé stante.
L’esercizio continuativo del processo di pianificazione richiede una forma di organizzazione in stretta relazione con l’amministrazione pubblica. Tale organizzazione sarà responsabile della sintesi fra i contributi dei cittadini e dei pubblici funzionari, come pure i suoi organi tecnici lo saranno nei riguardi della preparazione dei piani a lunga scadenza e dei programmi di attuazione.
Molte planning commissions di città americane costituiscono esempi di questo tipo di istituzione che potrà essere utilmente adattato ad altre circostanze.
Da queste discussioni è sorta la consapevolezza di molti altri problemi e possibilità comuni agli urbanisti dei due paesi. Pur nella varietà dei punti di vista sulle particolari tecniche e sui mezzi di applicazione, , sono stati chiariti alcuni principi fondamentali. Nelle conversazioni i partecipanti hanno cercato di definire questi problemi e queste possibilità piuttosto che ideare formule universalmente applicabili. Si è visto così che problema centrale rimane quello di tradurre i bisogni e le aspirazioni umane in un ambiente adeguato alla vita moderna, e di elaborare una tecnica ed una metodologia tali che la pianificazione possa diventare uno strumento sempre più utile di scelta democratica.
È chiaro che in tutto il mondo la pianificazione, sia regionale che urbana, sta entrando in una nuova fase, nella quale una istanza umanistica, che cerca di adeguare l’ambiente umano alle mutate necessità e risorse, prenderà il posto della ricerca tipologica delle strutture urbane.
La pianificazione metterà in rilievo non schemi statici di sistemazione territoriale delle opere pubbliche, ma linee di sviluppo per guidare la “evoluzione creatrice” delle comunità.
Questa nuova pianificazione richiede lo sviluppo di un più approfondito metodo e una più larga conoscenza scientifica delle comunità e delle regioni. È nostra speranza che, attraverso questa impostazione umanistica e con l’aiuto di più vaste conoscenze e di un metodo perfezionato, la pianificazione possa produrre più adeguati ed utili progetti di concrete sistemazioni territoriali.
Noi crediamo che la pianificazione sia una nuova funzione democratica e che i suoi organi debbano avere una continuità funzionale.
La pianificazione è un servizio tecnico, sociale ed umano per la collettività, che richiede quindi adeguate competenze nella formulazione e nell’attuazione di programmi a lunga scadenza, , i quali consentano di superare le decisioni alla “giornata” che possono essere dettate dalle contingenze politiche. Noi crediamo che, con la crescente responsabilità sociale del processo di pianificazione in sede tecnica, l’opera dei politici e degli amministratori si svolgerà in un quadro più ampio e ne sarà agevolata.
La pianificazione regionale per una saggia conservazione e utilizzazione di tutte le risorse di un territorio è stata riconosciuta come il più importante mezzo per innalzare il livello di vita della popolazione, specialmente nelle aree depresse. La discussione ha dimostrato che lo sviluppo di tutte le risorse di una regione secondo un concetto unitario, con l’attiva partecipazione della popolazione direttamente interessata allo scopo di attuare “non una regione pianificata ma una regione pianificante” è un metodo di pianificazione che può condurre a felici risultati.
Il riassetto, la conservazione e la preservazione dei centri delle città più importanti, sono problemi di grande rilievo sia per le moderne condizioni di vita, sia per il fatto che le pubbliche amministrazioni e le forze economiche e produttive sono in essi concentrate.
Il loro riassetto deve basarsi sul rispetto, pieno di sensibilità, verso i tesori culturali delle passate generazioni, al fine di conservare quanto può essere mantenuto ed adattato alla vita d’oggi ed ai nuovi usi del suolo di tali comunità.
Il rapporto tra la città e la sua zona di influenza e quella del centro direzionale con la città, che esso serve, deve basarsi su programmi a lunga scadenza al fine di soddisfare le necessità degli abitanti e le loro attività economiche. Le dimensioni ed il carattere della comunità nel suo complesso dovrebbero pure estrinsecarsi in appropriate architetture, al fine di creare una valida espressione delle qualità e del carattere della popolazione.
Le delegazioni dei due paesi hanno ritenuta necessaria questa caratterizzazione, sia funzionale che formale. Alcuni ritengono che la necessità di un centro focale delle unità residenziali, alla scala umana, sia uno dei maggiori problemi del nostro tempo. Essi pensano inoltre che, a questa scala, la possibilità da parte degli individui di scegliere un proprio modo di vivere sia un obiettivo concreto della pianificazione, non un sottoprodotto puramente accidentale.
Nel campo dell’ housing, sono stati identificati alcuni dei maggiori problemi riguardanti il credito e il finanziamento della costruzione di abitazioni ed è stato gettato il seme per promuovere esperimenti di assicurazione ipotecaria tipo Federal Housing Administration e di altri tipi di finanziamento per risolvere particolari problemi italiani.
È stata inoltre concordemente riaffermata l’esigenza che, nel quadro dei programmi edilizi, siano sviluppate le misure dirette a riservare un’aliquota dei finanziamenti all’impianto e al funzionamento dei servizi sociali a carattere collettivo, perché tali servizi costituiscono un’integrazione essenziale per l’elevazione del livello sociale ed umano delle classi meno abbienti.
Noi abbiamo identificato delle tecniche di pianificazione specifiche che dovranno esser ulteriormente studiate per adattarle ed introdurle nelle strutture e nell’attività di pianificazione dei rispettivi paesi. Tra queste sono l’anticipata acquisizione delle aree per le attrezzature collettive e per le opere pubbliche sia attraverso procedure di imposizione di vincoli e di diritto di prelazione che a mezzo di acquisto diretto; la preparazione dei programmi principali e dei bilanci preventivi sulla base di studi dettagliati di uffici di pianificazione in collaborazione con gli organi esecutivi delle autorità locali e processi di “ mandatory referral” per assicurare che proposte di progetti particolari siano esaminate nel contesto dei piani generali. Altri esempi potrebbero essere citati.
Nell’importante campo della preparazione degli urbanisti, esiste in ambedue i paesi una notevole scarsità di personale qualificato. La situazione attuale nei due paesi presenta caratteri complementari.
In Italia ogni studente di architettura riceve una istruzione urbanistica. Molte scuole di ingegneria civile hanno corsi di urbanistica. Ciò ha prodotto un alto livello nella progettazione di quartieri di case popolari, livello che non è stato generalmente raggiunto negli Stati Uniti dove l’insegnamento dell’urbanistica non esiste in tutte le scuole di architettura.
Da questo punto di vista gli Stati Uniti possono imitare l’Italia.
Negli Stati Uniti la professione del pianificatore è stata riconosciuta come una professione indipendente. Nella struttura didattica di 20 università americane sono stati costituiti corsi di specializzazione urbanistica che si concludono con il titolo di “ master” in urbanistica.
In essi convergono i contributi di molte discipline, incluse l’architettura, l’ingegneria, l’economia e la sociologia, ma l’insegnamento dell’urbanistica è indipendente dal predominio di alcuna di queste specializzazioni. L’insegnamento è diretto a formare professionisti competenti a esercitare la pianificazione come una più ampia attività di coordinamento, in cui confluiscano, con il più ampio apporto, le professioni specializzate.
Questo concetto dell’insegnamento della pianificazione può costituire un utile suggerimento per le università italiane.
In ambedue i paesi lo stretto contatto tra i professionisti della pianificazione e le scuole di urbanistica dovrebbe essere incoraggiato ed il programma di scambio tra studenti dovrebbe essere rafforzato.
Noi consideriamo questo Seminario ed i suoi risultati come un positivo successo.
Abbiamo costruito un ponte di amicizia e di comprensione tra due gruppi di studiosi di due nazioni. Abbiamo messo le fondamenta di una futura collaborazione culturale. L’incontro è stato uno strumento di comunicazione che si è dimostrato molto utile, ben concepito e sfruttato. Come tale, questo tipo di incontro dovrebbe dare ulteriori frutti.
Noi crediamo che il futuro lavoro di pianificazione regionale ed urbana e i programmi edilizi delle nostre due nazioni saranno arricchiti dalla comprensione che si è stabilita tra noi attraverso questo scambio.
Di fronte alla rottura dell’equilibrio espresso dalla forma classica e medioevale della città, la nascente cultura urbanistica moderna (così come veniva appunto delineandosi, nei suoi interessi pratici e nelle sue motivazioni ideali, agli albori del secolo del trionfo pieno del capitalismo), ha avanzato due posizioni distinte e anzi, in linea di principio, addirittura antitetiche. La prima di tali posizioni è fondata sul convincimento (per adoperare i termini di uno dei più noti studiosi italiani dell’argomento, il Benevolo) “di dover ricominciare da capo, contrapponendo alla città esistente nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, ed è sostenuta dai “cosiddetti utopisti - Owen, Saint Simon, Fourier, Cabet, Godin, - che tuttavia non si limitano a descrivere la loro città ideale, come Moro, Campanella e Bacone, ma s’impegnano a metterla in pratica”. La seconda si concreta nel “tentativo di risolvere separatamente i singoli problemi e di rimediare ai singoli inconvenienti, senza tener conto delle loro connessioni e senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino” ; ad essa possono ricondursi “gli specialisti e i funzionari che introducono nella città i nuovi regolamenti igienici e i nuovi impianti e [... ] danno inizio, di fatto, alla moderna legislazione urbanistica”.
Gli utopisti che sono a cavallo tra settecento e ottocento sono certamente - come giustamente sottolinea il Benevolo - per così dire, di un’altra specie, rispetto ai Moro, Campanella, Bacone, ed è questo un punto che non ci sembra debba essere trascurato o sottovalutato, poiché consente di cogliere immediatamente il nucleo fondamentale della concezione comune ai fondatoti del socialismo utopistico. Invero, si può senz’altro affermare che l’interesse critico dei pensatori del Rinascimento è volto essenzialmente all’individuazione di quelli che ormai cominciano a configurarsi come i nodi dello sviluppo della civiltà; appunto per questo motivo, nel loro ragionamento e nella loro ricerca, essi si attengono strettamente al terreno della filosofia - e quindi al terreno sul quale indubbiamente quei nodi sembravano poter esser colti e risolti nella loro più profonda e reale essenza -, mentre le loro “utopie”, le loro avveniristiche descrizioni di una Nuova Atlantide odi una Città del Sole o di una Utopia, servono soprattutto per illustrare e colorire, con la tinta immediatamente polemica della contrapposizione al presente, le convinzioni e le tesi che essi andavano formulando con gli strumenti propri al discorso filosofico. In altri termini, e rovesciando il senso dell’affermazione del Benevolo, ci sembra di poter asserire che i Moro, Campanella, Bacone non si sono mai illusi di poter “mettere in pratica” una loro città ideale, proprio perché intuivano la profondità e l’ampiezza della crisi che cominciava allora a discoprirsi; viceversa, quelli che possono sembrare a taluni i loro più efficienti epigoni, si limitavano a tentar di realizzare, hic et nunc, il loro “modello insediativo”.
È fuor di dubbio, infatti, che a sollecitare e a commuovere gli utopisti, a sospingerli verso l’invenzione e la sperimentazione di nuove forme d’insediamento, erano essenzialmente quelle conseguenze che il tumultuoso avvento della produzione capitalistica aveva comportato per le condizioni di vita degli uomini. Gli utopisti vedevano soprattutto, e quasi esclusivamente, lo sradicamento degli antichi costumi e la mancanza di un nuovo ordine, la scomparsa delle idilliache “condizioni di natura” e la devastazione causata dalla “città industriale”, l’enorme sviluppo della tecnologia produttiva e l’asservimento degli uomini al profitto, l’incremento impetuoso dei beni prodotti e il parallelo immiserimento delle masse lavoratrici. Essi coglievano, insomma, gli aspetti più immediatamente disumani, mortificanti e insopportabili, intrinsecamente legati alla tempestosa avanzata di quel complesso e profondo rivolgimento di tutta la tradizione ideologica e culturale, di tutta la vita sociale, politica ed economica dell’Occidente cristiano, che essi avvertivano pressocché esclusivamente nei termini epidermici e descrittivi della “rivoluzione industriale”. Appunto per questo, se gli utopisti del XIX secolo certamente avvertivano - per quel che più direttamente ci interessa - tutto il disordine, tutta la negatività che il capitalismo aveva comportato sul piano della città, essi non riuscivano tuttavia a vedere, dietro il fumo maleodorante delle Coketowns, sotto l’esplosione urbana delle micidiali concentrazioni dei tuguri e degli “alveari” nei quali trovava ricovero la popolazione operaia, né l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico, né la potenzialità positiva implicita, per 1a città, nel carattere sociale del capitale. Essi non comprendevano che l’avvento della produzione capitalistica e della classe borghese aveva costituito l’unica soluzione possibile, nelle condizioni storicamente date, alla crisi del mondo signorile. E per ciò stesso, mentre il carattere astrattamente utopistico della loro costruzione veniva continuamente ribadito e riconfermato, si scopriva via via il limite reazionario della loro posizione.
II numero rigidamente limitato e concluso degli abitanti dei “parallelogrammi” oweniani o dei falansteri minuziosamente descritti da Fourier; il ritorno a forme arcaiche di sfruttamento del suolo agrario e il ripristino di un’economia basata essenzialmente sulla produzione agricola; la Isostanziale autosufficienza delle unità sociali e urbanistiche; e insomma tutte queste ricorrenti caratteristiche delle utopie ottocentesche non sono forse il segno evidente di un rifiuto acritico e immediato di ogni novità implicita nel capitalismo? Non costituiscono esse, cioè, l’indice eloquente di una inarrestabile tendenza a tornare verso il passato, per ritrovare, in un sostanziale ripiegamento verso l’autoconsumo, il paradiso perduto di un ordine organico, di una dimensione limitata e dunque ancora vicina alle condizioni originarie dell’uomo, nel mantenimento di un contatto immediato con la natura elaborata sì e incivilita, ma non artificialmente deformata dal lavoro umano ?
Se lo sguardo è volto all’indietro, se il presente è vissuto come secca e irrimediabile negatività (e come tale è coerentemente rifiutato nella sua interezza), non è certamente consentito di cogliere, nel presente, ciò che in esso si viene manifestando come positiva potenzialità. Gli utopisti non possono dunque certamente individuare, nel carattere sociale della produzione capitalistica, l’oggettivo e progressivo portato dello sviluppo storico, né, tanto meno, essi possono cogliere in un simile carattere la condizione materiale di base che giustifica e legittima la sopravvivenza della città, fornendo un possibile punto d’avvio per ritrovare un ordine autonomo, una configurazione sufficiente, una forma peculiare e giusta.
Sicché, in definitiva, l’utopismo dei primo Ottocento non può risolvere la crisi della città del capitalismo, non può fare i conti con quest’ultima: esso deve proporsi di liquidarla. In effetti, non soltanto “le soluzioni spaziali” che gli utopisti “propongono si collocano fuori dalle città”, non soltanto i loro insediamenti “ammettono un ulteriore sviluppo solo nella ripetizione in estensione dell’organismo elementare”, quantitativamente delimitato e conchiuso ed economicamente autosufficiente, ma essi giungono addirittura, come Filippo Buonarroti, a profetare esplicitamente la scomparsa della città, o, come Fourier, a pianificarne razionalisticamente la fine.
2. La validità di un’intuizione degli utopisti: il consumo comune acquista una dimensione nuova.
L’indubbio interesse che la posizione utopistica ancor oggi riveste non deriva soltanto dalla carica di denuncia e di protesta che è alla sua radice; se così fosse, se l’unico frutto che gli Owen e i Fourier, i Godin e i Saint Simon hanno saputo concretamente dedurre dalla critica alle condizioni della città capitalistica, fosse il frutto disperato della rinuncia al presente, le loro vicende potrebbero essere tranquillamente abbandonate nelle mani degli archivisti, per nutrire le accademiche gioie dei filologi. Sta di fatto che l’interesse dimostrato in questi ultimi anni per la posizione utopistica da alcuni dei più attenti studiosi italiani di problemi urbanistici, non ci sembra affatto casuale e gratuito, né riteniamo privo di significato il fatto che tale interesse è dimostrato soprattutto da quanti, con maggiore impegno, si adoperano nella ricerca di un esatto rapporto tra i problemi urbanistici della nuova città e i suoi necessari contenuti civili. In realtà, negli utopisti v’è indubbiamente l’intuizione di un aspetto centrale e decisivo, che costituisce la base dell’ordinamento formale della città e dunque - come potremo vedere più diffusamente nel seguito della nostra ricerca - il fondamentale punto di partenza per giungere a una città sufficiente.
In quanti si misurarono con le disumane insufficienze e con le contraddizioni mortificanti e oppressive della città della borghesia trionfante, in quanti tentarono di opporre, alla “crisi della città industriale”, quelle “nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, è sempre presente un’attenzione minuziosa, una cura amorevole, una instancabile premura per l’organizzazione sociale, comune, collettiva, della soddisfazione dei bisogni degli uomini. Gli edifici e i locali per l’istruzione e l’educazione comune di tutti i bambini e i giovani; i luoghi per lo svolgersi comune delle attività religiose, civili, culturali, ricreative; le cucine pubbliche e i refettori comuni per i membri della collettività: questi sono, nelle proposte e negli schemi, come nei tentativi di realizzazione, i nuclei ordinatori degli insediamenti utopistici.
Non solo: ma la stessa residenza assume, nelle idee, nei programmi e nelle esperienze degli utopisti, un evidente carattere comune. E infatti, anche quando l’esigenza di un concreto ancoraggio nella realtà pone un freno alle sbrigliate avventure della fantasia, e la famiglia è riconosciuta e garantita come un ineliminabile istituto della vita sociale; anche quando, di conseguenza, l’alloggio familiare conserva la sua natura di cellula elementare dell’insediamento, gli alloggi sono strettamente integrati al complesso dei servizi comuni, sono concepiti come cellule private di un insieme comune e costituiscono in definitiva essi medesimi, nel loro complesso, un servizio comune. Nell’insediamento utopistico anche la famiglia, in altri termini, vive e consuma il momento della sua realtà privata nell’ambito e con il sostegno di una comune organizzazione.
Si può affermare dunque che esiste indubbiamente un evidente punto di contatto tra l’impostazione utopistica e quella che aveva presieduto al tradizionale schema urbanistico della città della borghesia nascente: nell’un caso come nell’altro, sono infatti le esigenze e gli interessi della comunità, sono i consumicomuni degli abitanti a costituire il nucleo ordinatore dell’insediamento. Ma ci sembra che nel caso degli utopisti vi sia, rispetto all’impostazione tradizionale, l’iniziale ma esplicito manifestarsi di una svolta, di una positiva e feconda novità.
Come abbiamo visto, nella prima fase della città, in tanto esisteva e si manifestava una dimensione comunitaria, in quanto venivano concretamente vissuti e fruiti come consumo comune quei valori d’uso, quelle qualità che, già presenti nel mondo signorile, avevano potuto sussistere (in quest’ultimo) solo entro la sfera meta-economica della libera attività del signore e che, nella città della borghesia nascente, mentre restavano ancora sostanzialmente estranei alla dimensione dell’economia, potevano essere assunti e avvertiti soltanto come una spesa. Appunto per questo, quando abbiamo dovuto definire quei valori e li abbiamo definiti consumi comuni, abbiamo dovuto sottolineare però che solo allusivamente e impropriamente potevamo adoperare il termine “consumo”, e difatti gli conferivamo un significato che costituisce certamente un’estrapolazione del senso che esso ha finora avuto nello stretto contesto del discorso economico (al quale la categoria del consumo legittimamente appartiene).
In modo radicalmente diverso si manifestavano invece le esigenze e gli interessi della comunità nel quadro della concezione utopistica. La caratteristica fondamentale dell’impostazione degli utopisti consiste nel fatto che le esigenze e gli interessi classici della comunità investono ormai, decisivamente ed essenzialmente, la sfera dei consumi: di quei consumi, cioè, che sono realmente e propriamente tali nell’ambito del discorso economico così come si è storicamente determinato. E in realtà, sono la residenza, l’alimentazione, l’educazione (da un lato, quindi, due decisivi aspetti della sussistenza, e dall’altro l’aspetto della formazione delle capacità professionali dei produttori) a divenire la materia e la base della vita comunitaria: sono gli stessi valori d’uso di cui si sostanzia il consumo produttivo che vengono ormai, nell’insediamento proposto dagli utopisti, vissuti e fruiti in modo comune.
Da una simile svolta discendono allora due conseguenze di singolare importanza, attraverso le quali la posizione utopistica definisce e conclude il proprio discorso. Da un lato, la comunità è divenuta arbitra del proprio consumo di sussistenza e di riproduzione. Essa lo ha sottratto cioè alla legge esclusiva, al dominio del processo accumulativo, e può estenderlo, allargarlo a proprio piacimento, o meglio in tutta quella misura che sia consentita dall’esigenza di mantenere la possibilità di un “impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”. E naturalmente viene a cadere ogni distinzione, o almeno ogni separazione e contrapposizione, tra consumo produttivo e improduttivo.
Dall’altro lato, continua certamente a sussistere, anche nella città, anche nei chiusi modelli societari degli utopisti, l’esigenza di vivere e di assumere quei valori d’uso, propriamente e massimamente umani, di cui, come si è visto, già si alimentava la libera e meta-economica attività del signore; ma siffatti valori d’uso, adesso, possono essere regolati e commisurati dalla comunità in stretta proporzione alle proprie possibilità produttive, alle proprie risorse, possono essere riportati insomma, nel modo più rigoroso e diretto, alle leggi del lavoro. E la spesa per tali consumi, se rimane pur sempre una spesa, viene però stabilita, determinata e ripartita; da tutti, su tutti, e nell’interesse di tutti. Cade così evidentemente, nella “nuova armonia” dell’insediamento utopistico, ogni prevaricazione borghese della produzione, come ogni prevaricazione signorile della libertà dell’uomo sul lavoro.
Si può senz’altro affermare, pertanto, che la “città ideale” si risolve, in definitiva, nel grande tentativo di colmare quella frattura fra i valori, il momento della comunità e la sfera dell’economia, che era stata la causa della crisi dell’autonomo ordinamento formale delle città. Solo che la nostra esposizione peccherebbe di unilateralità e potrebbe facilmente essere accusata di acritica benevolenza nei confronti degli uomini dell’utopia, se trascurassimo di precisare e di porre in evidenza i limiti che condizionano tutto l’insieme della loro posizione, e quindi anche il loro tentativo d’inquadrare l’intera sfera economica, e particolarmente la dimensione del consumo, sotto il segno comunitario.
3. Le ragioni del fallimento storico degli utopisti
I filologi e gli studiosi, siano essi critici demolitori e avversari, o sostenitori ammirati della tesi e delle esperienze utopistiche, paiono tutti concordare su un punto. Quale che sia il “valore permanente di stimolo” del loro impulso rinnovatore, quale che sia la carica di “generosità e di simpatia umana” che sprigiona dalle loro città ideali, quale che sia l’intrinseca validità del “gran serbatoio di idee” II che essi hanno raccolto, certo è che gli Owen, i Fourier, i Godin, sono stati impietosamente consegnati, dalla storia, nel ghetto dell’utopia. Invero, è assai facile e immediato osservare che le loro intuizioni non si sono mai organizzate in una visione complessiva e realistica del mondo cui pur dovevano applicarsi, cioè non sono mai state sorrette da un disegno di trasformazione della società e della città storicamente date. Basta infatti limitarsi a descrivere la posizione degli utopisti, per rendersi conto che essi non hanno saputo mai cogliere pienamente, nel sistema e nella città, i nodi decisivi da sciogliere, i fulcri su cui far leva per modificare l’assetto dell’uno e dell’altra. La nuda cronaca dei fatti, in altri termini, è già sufficiente a mostrare come le indubbie anticipazioni che punteggiano la loro storia siano rimaste congelate nello schematismo minuzioso, e in definitiva un po’ folle, dei “modelli” elementari, delle astratte “città ideali”, o, al più, siano rimaste immiserite nel ritaglio solo fittiziamente concreto di sporadici insediamenti, irripetibili e chiusi in sé medesimi, e per ciò effimeri e caduchi.
Ma tutto ciò ammesso e registrato, resta ancora da domandarsi - se veramente ci si vuol dar ragione dei limiti della posizione utopistica - perché essi possano essere descritti in un modo siffatto, perché essi abbiano dunque subito il destino dell’utopia.
Per conto nostro, possiamo adesso cercare di fornire una risposta, che ci sembra esauriente, a un simile interrogativo. Dal momento che non vedevano la inevitabilità storica del capitalismo, gli utopisti non solo non scorgevano, entro quest’ultimo, la peculiare potenzialità positiva rappresentata, per la città, dal carattere sociale della produzione, ma divenivano poi del tutto incapaci di comprendere realmente il capitalismo e di analizzarlo nella sua vera e profonda natura, e quindi, per ciò stesso, di criticarlo in modo sufficiente; di conseguenza, data la presenza massiccia e l’inevitabile affermazione del sistema capitalistico-borghese, essi non potevano far altro che patirlo, accettandolo nella sostanza e, al tempo stesso, ribellandovisi moralisticamente e astrattamente. È allora proprio per questi aspetti più intrinsecamente negativi, ma decisivi e determinanti, della loro posizione, che gli utopisti dovevano rivelare la loro incapacità di sviluppare pienamente e di rendere effettuali le loro stesse intuizioni più valide. Il loro limite e il loro errore sono immediatamente individuabili, a ben vedere, in quel medesimo processo logico attraverso il quale essi giungono alle positive e feconde intuizioni che abbiamo più sopra sottolineato.
Si rifletta, ad esempio, sul modo e sui motivi per i quali un Owen perveniva ad affermare la necessità di ordinare l’insediamento nella maniera che si è descritta, superando cioè la cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Il suo punto di partenza non è costituito dal tentativo di uscire, in modo criticamente adeguato, dall’esclusivismo produttivo del sistema capitalistico; egli non vede che, per superare ‘le contraddizioni alle quali pur si ribellava, occorreva criticare alle radici il concetto di produzione, di economia, di lavoro, che è alla base di quel sistema e della stessa ideologia borghese. Egli è invece preoccupato, sconcertato e indignato, dalle mere conseguenze del vizio intrinseco (che a lui rimane ignoto) del capitalismo, e si propone perciò essenzialmente di costruire un sistema nel quale, pur rimanendo inalterate le condizioni di base esistenti, vengano però superate e risolte, o meglio eliminate, tutte le loro più urtanti manifestazioni. Così, nel concreto, ciò che soprattutto lo sollecita è la considerazione che “la causa immediata della disoccupazione attuale va [...] cercata in un eccesso di produzione di ricchezze d’ogni genere, che tutti i mercati del mondo non bastano ad assorbire”. E poiché per lui è obiettivo essenziale - e anzi, come già si è detto, norma di base della società – “trovare un impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”, poiché insomma tra i suoi scopi sta quello di evitare le “crisi di sottoconsumo” cui il sistema sembrava inevitabilmente condannato, non vede altra uscita se non quella di creare “un mercato interno all’apparato produttivo, aumentando la retribuzione dei lavoratori per renderli consumatori dei beni prodotti, e non solo strumenti della produzione”.
Owen, in definitiva, se è sospinto a dedicare la sua cura e la sua attenzione al consumo dei produttori, a estenderlo e a organizzarlo quindi con maggiore ampiezza e secondo una “più umana giustizia”, e se in questo suo tentativo giunge poi ad intuire delle novità di notevole rilevanza, è mosso però sostanzialmente dall’esigenza di dar fiato al sistema produttivo esistente, al quale non contrappone nessuna reale alternativa.
È interessante osservare, a questo proposito, il singolare parallelismo tra la sua posizione e quella di T. R. Malthus. Come quest’ultimo, Owen configura il destino del capitalismo in termini di “crisi di sottoconsumo”, e come Malthus, egli non vede altra soluzione se non quella di allargare la domanda dei consumi, lasciando immutata la struttura produttiva. Certo, a differenza di Malthus, egli non vede la soluzione nella tesi, oltretutto politicamente reazionaria, della indispensabilità di una “classe improduttiva”, la cui funzione consisteva appunto - per l’autore del Saggio sulla popolazione - nel consumare senza produrre per garantire uno sbocco sufficiente all’eccedenza produttiva. Egli, anzi, rovescia decisamente la tesi malthusiana, nel senso che, precorrendo in certo qual modo le moderne posizioni dell’”economia del benessere”, sostiene la tesi (socialmente, politicamente ed economicamente opposta) dell’incremento dei consumi dei produttori. Ed è proprio attraverso il rovesciamento della posizione malthusiana che Owen giunge poi alla conclusione della quale abbiamo più volte sottolineato la positività: a riconoscere cioè, come decisivo per l’insediamento umano, il superamento della cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Ma in ogni caso resta pur sempre il fatto che il suo limite, mutatis mutandis, è il medesimo di Malthus: è il limite, cioè, peculiare a tutti coloro i quali si propongono di sottrarre il sistema alle sue contraddizioni, senza criticarne le radici, e anzi implicitamente accettandole.
4. Dissoluzione della posizione utopistica
Il limite di principio della posizione utopistica spiega le ragioni per cui l’utopismo ha perduto, nel corso del processo storico, la sua stessa autonomia ideale; le ragioni, cioè, per cui si può affermare che non esiste più una posizione culturale che si riallacci direttamente e immediatamente alle tesi, alle concezioni, agli ideali dell’utopismo. In realtà, nel concreto della storia, a mano a mano che il capitalismo si è venuto ad affermare in modo sempre più palese e massiccio, irreversibile e irrefrenabile, a mano a mano che si è venuta a rivelare inconfutabile l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico borghese, la posizione utopistica si è parallelamente avviata verso la propria dissoluzione, lungo due strade diverse, e anzi opposte e divergenti.
Da un lato, infatti, nella misura in cui ha voluto conservare la carica di ribellione radicale ai necessari modi di sviluppo del sistema; nella misura in cui, in nome dell’antica protesta contro le negatività del capitalismo, ha continuato a volersi opporre a quest’ultimo, la posizione utopistica si è venuta sempre di più a scontrare frontalmente con la dura lex sed lex dell’affermazione capitalistico-borghese. Troppe disillusioni, troppi fallimenti, troppi tentativi vanifìcati dalla dura realtà delle cose si dovevano ormai segnare sul bilancio dell’esperienza - e di una esperienza circoscritta oltretutto nel breve cerchio di poche decine di “colonie” -, perché si potesse ancora rimanere ciechi al cospetto dell’evidenza: il mondo, il potere, l’economia, gli uomini medesimi, tutto era nelle mani del “sistema industriale”. Diveniva allora naturale - per quanti almeno, nell’ambito della posizione utopistica, non volevano dimettere l’abito della protesta e della ribellione - cercar la rivalsa nella profezia apocalittica di una crisi catastrofica alla quale il sistema avrebbe dovuto giungere, in una prospettiva ravvicinata, per virtù delle proprie leggi di sviluppo, e alla quale restavano affidate in definitiva tutte le carte e le possibilità di una liberazione della città e dell’uomo dai “mali della rivoluzione industriale”.
Ma in tal modo la posizione utopistica finiva per perdere ogni sua autonomia. Essa difatti, poiché a suo modo ammetteva ormai la fine del sistema, veniva necessariamente a confluire in quella posizione - la proletaria e marxista - nella quale la critica al sistema capitalistico aveva indubbiamente raggiunto una coerenza ed una robustezza che la rendeva di gran lunga superiore a quella che poteva venir formulata dall’utopismo. E allora, inevitabilmente, o l’utopismo era riassorbito dal marxismo e in esso si annullava, o, seppure voleva nutrirsi ad altri ideali, riferirsi ad altri principi, interpretare altre esigenze e altri interessi, finiva comunque per subire l’egemonia della posizione proletaria.
Se viceversa, dall’altro lato, si abbandonava l’empito della carica ribellistica per cercar di sottrarre, hic et nunc, la maggior parte possibile degli abitanti della città capitalistica almeno ad alcune delle più insopportabili conseguenze delle “disfunzioni” del sistema; se insomma ci si voleva mantener fedeli al vecchio imperativo utopistico dell’impegno immediato, e ci si proponeva quindi di cercar di garantire una qualche soddisfazione alle esigenze comuni dei cittadini, non si poteva tuttavia, anche in questo caso, far a meno di riconoscere quell’inevitabilità dell’affermazione capitalistica, che si era ormai rivelata nei fatti. Ma si doveva allora, necessariamente, rinunciare alla lotta contro l’insieme delle “conseguenze negative del sistema industrialistico” ; si doveva cioè coltivar l’illusione che errori e insufficienze si annidassero soltanto in questo o in quell’altro dei suoi aspetti marginali, suscettibili come tali d’esser corretti senza perciò dover porre il problema, in qualche modo globale, degli “eccessi dell’industrialismo”. Così, nel concreto, si finiva in sostanza per rinchiudersi entro le maglie del sistema, limitandosi alla difesa di quel tanto di consumo comune che era via via consentito dallo sviluppo e dalla logica del capitalismo.
Certo, anche un simile tentativo, oltre a costituire un’evidente abdicazione dalle originarie impostazioni dell’utopismo, sarebbe stato senza dubbio condannato al fallimento, se le leggi del sistema si fossero manifestate nella pienezza del loro rigore; in tal caso, infatti, nessun consumo sarebbe stato consentito se non quello strettamente produttivo e dunque, per sua propria essenza, necessariamente non comunitario. Ma sta di fatto che (come vedremo meglio in seguito) già sul finire del secolo scorso la società capitalistico-borghese si era venuta ad allontanare in modo considerevole dalla rigorosa logica del suo modello. Lo squilibrio di fondo tra potenzialità produttiva e capacità di consumo non era più soltanto un’ipotesi di questo o di quel “teorizzatore”: cominciava ormai a configurarsi come una realtà avvertibile nelle cose, alla quale si doveva tentare di por riparo anche ampliando, su scala di massa, le occasioni di consumo, per garantire in tal modo alla produzione sbocchi più larghi di quelli compatibili con la stretta logica capitalistica.
Ecco dunque perché le rivendicazioni degli epigoni degli utopisti, nella misura in cui venivano depurate dalla loro carica di ribellione al sistema, non solo potevano venir sopportate da quest’ultimo, ma cominciavano a divenire addirittura necessarie alla sua sopravvivenza: anche se, evidentemente, il grado della loro sopportabilità (e della loro utilità) era via via direttamente correlato al grado di maturità raggiunto dal sistema capitalistico.
Possiamo dunque concludere che l’utopismo, nel momento in cui rinuncia alla tensione protestataria per impegnarsi invece esclusivamente nel compito di correggere gradualmente questa o quella deficienza del sistema capitalistico-borghese, non solo si subordina a quest’ultimo, ma finisce poi per servirne il processo evolutivo, accelerandone la maturazione. Ed è allora evidente che, lungo una simile direzione, la posizione utopistica assume tutte le caratteristiche peculiari al riformismo; essa perde perciò ogni speranza di costruire la “città del futuro”, e si riduce a un mero strumento per l’organizzazione, nella città, di maggiori occasioni di consumo.
5. I funzionalisti: il “braccio urbanistico”del sistema borghese
Il trionfo storico del capitalismo condanna dunque la posizione utopistica a disperdersi lungo due direzioni antitetiche: a subordinarsi di fatto all’ideologia e alla prassi della rivoluzione proletaria, oppure a stemperarsi nella pratica del riformismo. Dai proudhoniani fino ad Ebenezer Howard e ai più recenti propugnatori dell’ideologia comunitaria, la storia dell’urbanistica è intessuta, nell’ultimo secolo, da mille episodi che testimoniano come la seconda scelta (la riformistica) sia stata quella che più vistosamente si è manifestata e che ha potuto condurre, ma sul solo terreno immediato dell’azione empirica, ai successi più numerosi ed evidenti. In realtà, la scelta riformistica, se portava a smarrire ogni possibilità di misurarsi con le cause effettive della crisi cui si voleva porre riparo, consentiva almeno di conservare un qualche contatto immediato, diretto, quasi fisicamente avvertibile, con le più urgenti e quotidiane esigenze degli uomini. Ma lungo una simile direzione l’utopismo finiva per incontrare - fino a dissolversi praticamente in essa - la seconda delle posizioni cui abbiamo più sopra accennato: quella degli specialisti, dei funzionari, di quanti tentano “di risolvere i singoli problemi [...] senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino”; insomma, la posizione di quelli che sempre più si manifesteranno come i concreti e fattivi operatori urbanistici. È appunto su questa seconda posizione che vogliamo ora brevemente soffermarci.
Quali che fossero le motivazioni ideali dalle quali muovevano, quali che fossero gli impulsi da cui erano sollecitati a intervenire, certo è che gli uomini che si adoperavano nel tentativo di correggere, a una a una, le mille forme in cui si esprimeva e si rispecchiava l’insufficienza della città capitalistica, potevano raggiungere un obiettivo soltanto: l’obiettivo di rendere urbanisticamente più efficiente e razionale l’insediamento umano, di conferirgli insomma una funzionalità. Tuttavia, qual’era la legge, il principio, il criterio fondamentale in funzione del quale si volevano ordinare, razionalmente ed efficientemente, i molteplici momenti e aspetti dell’organismo urbano? Invero, una posizione meramente funzionalistica non ha mai - non può mai avere - in sé medesima la propria ragione; essa è definita, può divenire operante, solo in relazione a un fine che è, per principio, esterno ad essa. In realtà, poiché la posizione di cui ci stiamo ora occupando è appunto caratterizzata non solo dall’assenza di una critica globale del sistema economico-sociale esistente, ma, anzi, dalla convinzione di una sua generale positività, poiché nel quadro di tale posizione si considera addirittura il sistema capitalistico-borghese come l’unico possibile, e poiché infine, proprio per tutto questo, si ritiene che nell’ambito di un siffatto sistema (e sia pure con le necessarie “correzioni”) resti pur sempre possibile sanare singolarmente quei mali che in esso indubbiamente si presentano, ecco che, inevitabilmente, si giunge per ciò stesso ad accettare e ad assumere, come proprio fine, quello peculiare al sistema medesimo.
Si deve allora convenire su di un punto fondamentale. Gli specialisti e i funzionari che si affannano a riportare ordine nei vari settori della città dell’Ottocento, gli uomini che propongono nuove soluzioni .per i servizi tecnici e la viabilità, che iniziano la prassi della regolamentazione edilizia e gettano le basi della moderna legislazione urbanistica - i nuovi tecnici dell’urbanistica - possono senza dubbio raggiungere il risultato di ridurre al massimo le diseconomie e le incongruenze che vengono via via a manifestarsi nella città, per l’assenza di una sua forma autonoma. Essi, cioè, possono certamente rendere la città, in questo o in quell’altro suo aspetto, sempre più rispondente alla funzione che deve assolvere nel quadro del sistema capitalistico, e possono anzi continuamente impedire che l’insediamento urbano precipiti definitivamente nel disordine, per ricondurlo invece, volta per volta, entro quell’ordine, quella razionalità, quell’efficienza, che sono indispensabili al corretto funzionamento di una città a misura del processo produttivo capitalistico. Essi possono operare come strumenti tecnici per il continuo ripristino delle condizioni che fanno della città l’insediamento tendenzialmente omogeneo al rigore della produzione capitalistica: poiché questo, e non altro, è il compito che il sistema ha loro assegnato.
Quella materiale e generica capacità ordinatrice che la produzione capitalistica - come più sopra si è detto - ha potuto rivelare nei confronti della città, e grazie alla quale si è potuto sottrarre quest’ultima alla prospettiva cui era condannata dalla perdita della propria forma autonoma, ha avuto insomma nei funzionalisti i suoi più organici intrepreti. Ma è allora chiaro che costoro, mentre si affannano a rincorrere e a risolvere, uno per uno, gli innumerevoli problemi che via via scaturiscono nel processo di crescita dell’organismo urbano e di sviluppo del sistema, non possono però mai raggiungere la soluzione del problema della città. Così, la città che essi costruiscono (o, più esattamente, la città che essi volta per volta aggiustano e adeguano, con successivi ritagli e ricuciture) è una città sempre più appiattita sul momento produttivo; e anzi, a mano a mano che essi riescono a ricondurre entro l’ordine funzionale del sistema, singole parti e zone e settori della città, questa viene per ciò stesso ribadita nella sua condizione alienata: poiché l’ordine entro cui viene regolata, la forma che le viene impressa, non costituiscono l’espressione autonoma delle sue proprie leggi, ma sono direttamente dettati e imposti dalle leggi della produzione.
6. Impotenza del funzionalismo
Prima di concludere il discorso sulla posizione funzionalista, è necessario però rispondere ancora a un interrogativo. Se tale posizione ha effettivamente costituito l’espressione piena e coerente del sistema capitalistico, se il sistema ha dunque riconosciuto negli uomini del funzionamento (esplicitamente o di fatto) il suo organico e conseguente braccio urbanistico, ciò significa, forse, che nella città del capitalismo trionfante (o in quella del capitalismo già maturo e prossimo all’opulenza) è possibile raggiungere quella pienezza di rigore, d’ordine, d’efficienza, che sembrerebbe dovere costituire per principio l’obiettivo del funzionalismo medesimo? E se a una simile domanda si deve poi dare una risposta negativa, qual’è dunque la ragione di ciò, qual’è insomma il motivo per cui il funzionalismo non riesce a dominare e a regolare interamente la città capitalistica?
La realtà concreta dei fatti già fornisce, nella sua immediatezza, una risposta univoca alla prima delle questioni che abbiamo ora formulato; poiché i fatti, fuor d’ogni dubbio, sono quelli di una borghesia che, quand’anche riesce a determinare in alcune città (e il caso più tipico ed esemplare è la Parigi di Haussmann) una “struttura a grandi maglie”, che rivela caratteristiche di funzionalità e d’efficienza, risolve poi l’insieme del tessuto urbano “a brani” a pezzi, con una serie d’interventi dispersi, la cui sostanziale casualità manifesta proprio l’incapacità di raggiungere compiutamente e in modo generalizzato -persino in quelle città nelle quali il funzionalismo ha concentrato i suoi sforzi - l’ordine e l’efficienza peculiari alle leggi della produzione.
Ma le cose, la nuda realtà dei fatti, se possono mostrarci quel ch’è stato e quel che non è stato, se possono insomma farci vedere e quasi toccar con mano la limitata incidenza che storicamente ha avuto, sulla città capitalistico..borghese, la posizione funzionalista, e se possono dunque fornire una sufficiente risposta al nostro primo interrogativo, non sono poi ovviamente capaci di far comprendere le ragioni per cui ciò è dovuto accadere.
Per cercar d’individuare tali ragioni, osserveremo in primo luogo che nessun sistema economico-sociale, sino a oggi, si è mai storicamente realizzato nella sua rigorosa pienezza. In particolare poi, come abbiamo già marginalmente rilevato, la classe borghese non avrebbe mai potuto pervenire a confermare a sua immagine e somiglianza l’intera società; e di fatto, nel concreto storico, ha potuto affermare la propria egemonia solo pagando il prezzo di sostanziali compromessi con le realtà politiche, economiche e sociali a essa preesistenti o a essa estranee: in definitiva, le è stato evidentemente impossibile estendere all’intero edificio sociale le rigorose leggi della produzione capitalistica.
Le conseguenze di questa vera e propria incapacità della borghesia sono, nell’insediamento umano, abbastanza palesi, e consentono di vedere con sufficiente chiarezza come l’opera dei funzionalisti, appunto per quel motivo, fosse condannata a rimaner circoscritta entro l’ambito di quelle porzioni del tessuto sociale e territoriale nelle quali la rivoluzione borghese aveva potuto agire più a fondo e più dispiegatamente. Così, mentre (a causa del permanere dei modi di produzione precapitalistici nella quasi totalità del settore agrario) l’antico equilibrio tra borgo e contado si arrovesciava nella contraddizione tra città e campagna, e impediva dunque che tutta la residenza dell’uomo divenisse città; mentre i numerosi insediamenti urbani nei quali la produzione industriale conseguiva uno sviluppo limitato, o addirittura nullo, restavano congelati nelle forme che avevano assunto durante l’età medievale; mentre infine il compromesso tra profitto e rendita cominciava a porre delle pesanti remore alla funzionalità delle sistemazioni urbanistiche negli stessi centri in rapida espansione, accadeva, in definitiva, che fossero quasi esclusivamente le maggiori città - e spesso solo le capitali - a permettere e a utilizzare l’opera dei tecnici funzionalisti.
In secondo luogo, in quelle stesse città alle quali la borghesia riesce a imprimere più efficacemente il suo volto (e ciò accade negli Stati e nelle regioni e nei centri in cui la classe capitalistica giunge ad affermare in modo più dispiegato le leggi della “produzione sociale”), l’insediamento non è reso ugualmente funzionale per tutti i produttori, e dunque in tutte le sue parti. I produttori, infatti, sono divisi e contrapposti in proletari e proprietari; e poiché solo questi ultimi possono liberamente garantirsi dei liberi consumi, la città del capitalismo deve necessariamente ordinarsi, in modo tendenzialmente esclusivo, al servizio dei consumi dei borghesi, dei proprietari, dei non controllati e non controllabili funzionari dell’accumulazione: al servizio, dunque, di una soltanto delle due classi, quella dominante anche se numericamente più esigua.
Ecco dunque perché, come si rileva in numerosi esempi, mentre il rapporto tra i quartieri borghesi e le zone della produzione e dello scambio diventa il fulcro funzionale della città capitalistica, i quartieri della residenza operaia (negli antichi rioni dei “centri storici” o nelle caotiche espansioni periferiche) vengono abbandonati a se stessi; ecco perché nasce l’idea - e si afferma la prassi - di una “città centrata attorno a taluni percorsi (assi stradali, linee di traffico e d’affari), che condizionano l’intelaiatura dell’intera struttura urbana, lasciando ampie zone grigie”, per cui si può addirittura sostenere che “la città borghese è (si realizza e si esprime) nella continuità stradale, come elemento funzionale e rappresentativo e come garanzia per ignorare le zone subalterne”; ed ecco, infine, perché quei “percorsi divengono uguali - cioè a scacchiera - solo dove l’intervento edilizio è in gran parte o del tutto destinato alla residenza borghese”.
Nel quadro capitalistico-borghese la posizione che abbiamo definito funzionalista incontra dunque un costante ostacolo alla propria pretesa di una piena esplicazione. La sua storia, se da un lato, e nel migliore dei casi, è la storia delle soluzioni meramente tecniche (e perciò sempre parziali, sempre insufficienti, sempre inadeguate a risolvere i reali problemi dell’organismo urbano), non è poi, dall’altro lato, che la storia dei continui tentativi di recuperare le “zone grigie”, di imprimere a posteriori un ordine e una regolarità seccamente funzionali a quelle porzioni del tessuto urbano che volta a volta, nel corso del continuo processo d’espansione e d’intensificazione produttiva della vita sociale che si svolge nella città, divengono essenziali per il corretto funzionamento della “macchina urbana”; ed è dunque, al tempo medesimo, la storia impietosa e funesta delle demolizioni, degli sventramenti, della liquidazione insomma delle vestigia del passato.
7. Il marxismo: una soluzione rigorosamente capitalistica
Come la posizione utopistica, così anche quella funzionalista non ha quindi potuto fornire una risposta sufficiente ai problemi che si sono manifestati nella città del capitalismo trionfante; e la città, difatti, si è sviluppata, nel corso del XIX secolo, nel modo che tutti conosciamo, e che ha condotto al generale riconoscimento di una sua crisi. Ma la nostra analisi della città capitalistica, e dei tentativi che sono stati intrapresi per riempire le sue insufficienze e per dominare il suo sviluppo, non potrebbe certo considerarsi compiuta - neppure nei limiti di una ricerca, per così dire, “a grandi linee”, qual’è la nostra -, e sarebbe anzi gravemente manchevole, se trascurassimo di soffermarci, sia pure brevemente, intorno a una terza posizione, che è venuta emergendo nella seconda metà del secolo scorso sulla base della robusta critica di Carlo Marx: la posizione, appunto, d’ispirazione proletaria e marxista.
All’interno della posizione d’origine marxista ci sembra che si possano individuare due tematiche chiaramente distinguibili. La prima, alla quale abbiamo già accennato a proposito dell’utopismo, concerne le prospettive che dovrebbero dischiudersi alla città -o più esattamente all’insediamento umano - nel “libero futuro” della società comunista; sono dunque, essenzialmente, le prospettive dell’eliminazione dell’antitesi tra città e campagna, e della parallela dissoluzione della città come forma dell’insediamento umano, che trovano in Engels il loro profeta, pur smaliziato e prudente. Ma la tematica che qui più direttamente ci interessa (poiché è l’unica che ha, sul piano della teoria, un senso e un significato reali nei confronti della città capitalistica, e che perciò ha potuto avere, in pratica, un’incidenza concretamente rilevabile), è la tematica più immediatamente radicata alla lotta per l’affermazione, in termini di potere, del proletariato.
Dobbiamo dunque cercar di vedere e di comprendere, in sostanza, quale configurazione assuma per la posizione marxista il problema della città, in quella fase di “passaggio dal capitalismo al comunismo [che] abbraccia un’intiera epoca storica”. Inquali termini, secondo quali criteri viene affrontato questo problema, nel quadro e nel corso del processo rivoluzionario che deve condurre la classe operaia dalla presa di coscienza del proprio ruolo storico, e attraverso la lotta contro il dominio capitalistico-borghese, alla definitiva rottura di quest’ultimo? Come il marxismo ha inteso fare i conti con la questione urbanistica, in attesa del giorno in cui, grazie al definitivo “affrancamento della classe oppressa”, fosse divenuta possibile “la creazione di una società nuova”, della “società comunista”, e dunque la fondazione di un insediamento anch’esso radicalmente nuovo e diverso da quanti altri mai si sono succeduti lungo il cammino della storia?
È ben noto quale sia, per il marxismo, la forma che caratterizza l’assetto sociale e politico, nel passaggio dalla fase capitalistica a quella della comunistica “società senza classi”: è la forma della dittatura rivoluzionaria del proletariato. Per comprendere la soluzione che il marxismo fornisce, sul terreno concreto della storia, al problema della città, bisogna dunque vedere, in primo luogo, come si configuri la società governata dalla dittatura proletaria: quella società “appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx chiama ‘la prima fase’, la fase inferiore della società comunista”, o, come verrà generalmente definita soprattutto nel periodo staliniano, la società socialista.
Nella società socialista, innanzitutto, è cessato il dominio politico della classe dei proprietari di capitale, che è stato appunto sostituito dalla dittatura del proletariato; la proprietà dei mezzi di produzione è divenuta pubblica, e quindi omogenea al carattere sociale del capitale; il processo produttivo, infine, è direttamente gestito in funzione e al servizio degli interessi della classe proletaria: di quella classe, cioè, dalle cui mani scaturisce tutto il sovrappiù - il plusvalore - realizzato nel corso del processo produttivo medesimo.
Ma la “prima fase”, la “fase inferiore” della società comunista, la fase contrassegnata dalla legge politica e sociale della dittatura proletaria, è appunto, nella concezione marxiana, una “fase”, una tappa, un periodo transitorio, caratterizzato dal fatto che lungo il suo corso si devono preparare le condizioni materiali e politiche che consentano il salto “dal regno della necessità al regno della libertà”; che consentano, cioè, di raggiungere la “fase più elevata della società comunista”. “Dopo che con lo sviluppo generale degli individui [saranno] cresciute anche le forze produttive, e tutte le sorgenti della ricchezza sociale [ scorreranno] in tutta la loro pienezza”, quella società potrà “scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Appunto per questo (così almeno sostiene Lenin, portando a logica coerenza il testo marxiano che abbiamo ora citato), durante la fase socialista, il processo produttivo - e l’intera economia - dev’essere ferreamente indirizzato alla massima intensificazione dell’accumulazione; tutto dev’essere ordinato, cioè, all’allargamento delle basi della produzione, alla crescita del capitale, in modo che venga raggiunta, al più presto, quella generalizzata capacità di produrre con abbondanza tutti i beni necessari a garantire la libertà dell’uomo dal lavoro, che costituirà il segno visibile - ed è insieme la condizione necessaria - del passaggio alla comunistica “pienezza dei tempi”. Ma bisogna allora che, nel concreto, venga negata e respinta la tesi secondo la quale “l’operaio riceve in regime socialista il ‘frutto non ridotto’ o il ‘frutto integrale del proprio lavoro’”; bisogna che sia invece affermata e propugnata la inderogabile necessità di detrarre, dal prodotto del lavoro sociale, la quota indispensabile alla continua estensione e alla crescita impetuosa delle forze produttive.
È allora evidente perché, nel corso di tutto il periodo della dittatura proletaria, “i socialisti [ reclameranno] dalla società e dallo Stato il più rigoroso controllo della misura del lavoro e della misura del consumo”; è solo tirando la cinghia, è solo conformando l’intera società come “un grande edificio o una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”, è solo insomma estendendo a tutto l’edificio sociale la proletaria “disciplina da ‘officina’”, e imprimendo dunque ad ogni momento della vita civile e sociale la rigorosa legge economica del consumo produttivo, che si potranno allargare rapidamente le basi del processo di produzione, accelerare i tempi della “fase transitoria” e toccar finalmente con mano il libero destino della società senza classi.
8. Una città a misura del proletario
Diviene chiaro, a questo punto, come debba configurarsi, nella posizione marxista, il problema della città nella fase storica del socialismo. La città, in tale fase, è una città proletaria: una città sottratta all’arbitrio della libera volontà dei borghesi; una città egualitaria che esprime e garantisce le esigenze di tutti i produttori, ed è organizzata in funzione degli interessi di quei proletari che costituiscono “l’enorme maggioranza della popolazione”. Essa è dunque in tal senso (e propriamente) una città democratica.
Ma poiché, d’altra parte, il proletario, oltre a essere evidentemente - nella sua espressione politica - l’egemone di quella faticosa costruzione della società comunista cui si è sopra accennato, costituisce poi soprattutto - nella sua immediata realtà economica - la figura sociale da cui dipende l’accumulazione e che è definita e definibile solo in funzione della propria attività produttiva; e poiché quindi il suo massimo interesse politico e di classe sta nell’efficienza e nell’intensificazione del processo accumulativo (nel quale esso vede, al tempo medesimo, la condizione di base per il raggiungimento della piena “libertà comunista” e, nell’immediato, la garanzia della propria sussistenza e della propria attività), ecco che la città proletaria si configura altresì, e decisivamente, come quell’insediamento che, più d’ogni altro, dev’esser funzionale alla produzione.
Il proletario, però, non soltanto deve (per i suoi interessi politici ed economici) costruire una città funzionale alla produzione; esso può anche costruirla. E invero, dal momento che la dittatura proletaria consente di portare fino in fondo l’incompiuta rivoluzione borghese, sbarazzando così il terreno da ogni residuo pre-moderno, da ogni posizione di rendita, da ogni sopravvivenza - ormai anche storicamente del tutto arbitraria - di remore signorili che intralcino la funzionalità della produzione sociale, ecco che nella società socialista si può compiere quella operazione cui la borghesia aveva potuto soltanto dar inizio (avviluppata com’era nei compromessi, politicamente indispensabili, con le realtà sociali ed economiche ad essa preesistenti), ed ecco che nella città proletaria si può raggiungere quell’obiettivo, che i funzionalisti d’osservanza borghese avevano rincorso, ma non avevano potuto mai conseguire a causa dell’insufficienza del sistema capitalistico-borghese.
Di fatto (non a caso, ma anzi proprio per tutto quel che finora s’è detto) la posizione urbanistica di radice o d’ispirazione proletaria e marxista può far divenire norma generale quella “facoltà preziosa già concessa alla città” dalla borghesia, e poi non solo limitata, ma sempre contraddetta e negata: la facoltà di disporre liberamente, negli interessi della comunità, del suolo urbano. La città proletaria, infatti, è liberata dalla servitù della rendita fondiaria.
Così, sul suolo finalmente e definitivamente affrancato dall’individualismo proprietario, possono venir progettate e costruite città più razionali ed efficienti, pienamente e rigorosamente funzionali nei riguardi della produzione, e immediatamente ordinate al servizio dei produttori, di tutti i produttori. E poiché sono gli stessi produttori a gestire il proprio consumo, si può cominciare concretamente a organizzare quest’ultimo - ovviamente, entro i limiti rigorosi e invalicabili segnati dalla necessità di estendere al massimo grado socialmente consentito il processo accumulativo - con razionalità.
La città proletaria è dunque, in primo luogo ed essenzialmente, una città di produttori: lo è, anzi, per definizione. Perciò, quando il proletario giunge al potere e costruisce la propria città, costruisce un insediamento “connesso con tutti i suoi fili, con tutta la sua vita materiale, produttiva, spirituale, all’industria socialista”; e sebbene “formalmente le aziende industriali non [ siano] responsabili della situazione e del carattere dei lavori architettonici e urbanistici realizzati nella loro città [...] , in pratica, essendo esse i centri economici fondamentali di quest’ultima, sovente determinano in misura decisiva il processo della formazione della città, la sua compattezza o frammentarietà, l’elevato o deficiente livello dei suoi servizi”.
Quando il proletario gestisce il potere, la forma della città è strettamente determinata dalle leggi della dimensione produttiva; “la logica, conseguente zonizzazione della città socialista è completamente in funzione della produzione industriale, alla cui importanza corrispondono per dimensione e ubicazione le altre zone”. E i medesimi consumi che avvengono nella città e che si concretano nelle “attrezzature collettive”, costituendo i nuclei della struttura e dell’ordine interno delle zone residenziali, vengono ad assumere questa loro forma comunitaria solo perché sono concepiti e rea1izzati essenzialmente come “i mezzi di educazione e di stimolo per realizzare quel collettivismo dell’economia domestica che può rendere atto ai lavori produttivi il 30 per cento in più della popolazione”. In altri termini, la stessa forma comune di consumo, in tanto viene prevista (e avaramente realizzata) in quanto consente di sostituire con forme più efficienti quella “economia domestica” cui è stata tradizionalmente affidata la gestione del consumo, ma che, proprio per la sua peculiare natura, mentre sfugge ad ogni rigorosa valutazione economica, comporta una indebita e inefficiente erogazione di lavoro.
Organizzare e gestire comunemente il consumo dei proletari (dunque il consumo produttivo), determina tuttavia, inevitabilmente, la necessità di riconoscere al consumo - e sia pure in modo soltanto implicito - una sua autonomia, una qualche libera e distinta presenza nella dimensione economica. Ma un consumo cui, di fatto, venga riconosciuta una propria autonomia nella sfera economica, tende poi invisibilmente a crescere, ad espandersi, a rompere e a superare gli argini del consumo strettamente produttivo; ed è per ciò che nella fase del socialismo, della dittatura proletaria, della preminenza esclusiva dell’accumulazione, le attrezzature collettive vengono realizzate, in pratica, con la parsimonia imposta dalla necessità di destinare tutte le risorse agli investimenti, e di concedere quindi il minimo possibile a un consumo che deve rigorosamente rimaner produttivo.
Quel che è certo, comunque, è che nella fase socialista le attrezzature cittadine vengono essenzialmente concepite, sul piano del consumo, come uno strumento per la soddisfazione delle più elementari esigenze della forza-lavoro, dei proletari in quanto tali. Sicché, in definitiva, si deve necessariamente concludere che la città, nell’ambito della posizione proletaria e marxista, se può certamente raggiungere una funzionalità incomparabilmente superiore a quella consentita nel quadro del dominio borghese, non può tuttavia vedere la soluzione del suo peculiare problema. Essa cioè non viene ordinata secondo una sua propria autonoma forma, ma resta - come la città della borghesia trionfante - ordinata alla produzione, e dunque ad altro da sé: resta, insomma, alienata.
9. Verso la città opulenta
Nessuna delle tre posizioni, che si sono concretamente misurate con la città del capitalismo, ha potuto risolvere la crisi del suo autonomo ordinamento formale, e sostituire alle qualità e ai valori d’uso che si erano espressi nella spesa del consumo comune dei cittadini, delle nuove qualità, dei nuovi valori - compiutamente autonomi, eppure radicati nella dimensione economica - che fossero capaci di sostanziare una nuova forma urbana. Però, mentre i primi critici moderni della “società industriale” (gli Owen, i Saint Simon e i loro seguaci ed epigoni) dovevano restar confinati, per la loro incapacità di comprendere realmente il sistema capitalistico-borghese, nel regno astratto dell’utopia; mentre gli operosi specialisti e agguerriti tecnici al servizio della borghesia dovevano limitarsi ad accompagnare lo sviluppo di quest’ultima, scontrandosi contro le sue contraddizioni; mentre infine gli antagonisti e gli “affossatori” del capitalismo borghese appiattivano la città, nel modo più rigoroso, sulla stessa dimensione produttiva capitalistica; mentre insomma, per un verso o per l’altro, la città restava inevitabilmente ridotta ad una mera “sovrastruttura” della produzione, la storia - il processo di sviluppo del sistema sociale proseguiva invece il suo cammino. Il sistema capitalistico - quale sistema rigorosamente finalizzato all’accumulazione del sovrappiù - compiva fino in fondo la sua evoluzione, e riducendo via via, nella caduta delle sue finalità, le proprie leggi a meri meccanismi tecnici, trapassava gradualmente nel sistema dell’opulenza.
Non vogliamo sostenere con questo che gli urbanisti siano pervenuti a una piena consapevolezza della reale consistenza di quel mutamento, della sua esatta natura, del suo peculiare significato storico. Ma se gli urbanisti adoperano il più delle volte - salvo dunque rare eccezioni - quei termini che abbiamo sopra elencato senza criticare in alcun modo la sostanza ch’essi ricoprono (accettandola, anzi, come un indiscutibile dato di fatto, sociologicamente registrato e subito), ci sembra comunque interessante e significativo che, nell’ambito della cultura urbanistica, si cominci a prendere coscienza del fatto che non ha più senso, oggi, parlare della città del presente come della città del capitalismo borghese, e che ci troviamo di fronte a una città ben diversa da quella con la quale si misurarono, nel secolo scorso e nei primi decenni del nostro, gli utopisti, i funzionalisti e i marxisti.
È appunto della città di oggi, della città contemporanea, che dobbiamo ora occuparci. Ma prima di entrare decisamente nel merito, ci converrà descrivere le peculiari caratteristiche dell’assetto economico-sociale nel quale oggi viviamo. Crediamo infatti che sia impossibile affrontare il discorso strettamente urbanistico sulla città, se prima non si è acquistata una sufficiente consapevolezza delle fondamentali connotazioni che caratterizzano l’ordinamento sociale, del quale l’insediamento umano costituisce in ultima analisi - come ha sempre costituito - un decisivo aspetto.
2. Tre modelli economico-sociali entro una determinata concezione del lavoro
Sulla base di quella determinata concezione del lavoro che domina universalmente anche ai nostri giorni, è possibile ipotizzare tre distinti modelli - che si sono effettivamente concretati nella realtà della storia - dell’assetto economico-sociale: il modello signorile, quello capitalistico-borghese e, infine, quello che ormai viene generalmente definito come modello opulento. Ci siamo già occupati, nei capitoli precedenti, dei primi due; ma ci sembra utile richiamarne qui le caratteristiche essenziali e di principio, sia per riepilogare brevemente quel tanto delle considerazioni già svolte che ci serve per procedere nella nostra analisi, sia perché un esame parallelo dei tre modelli può consentirci di comprendere più chiaramente quello sul quale dovremo più a lungo soffermarci per affrontare il tema della città contemporanea: il modello dell’opulenza.
Ma dobbiamo preliminarmente precisare qual’è quella determinata concezione del lavoro che si pone alla radice e alla base dei modelli signorile, capitalistico-borghese e opulento, come dei concreti assetti economico-sociali nei quali essi si sono espressi e manifestati storicamente. Riassumendo le tesi sostenute da Claudio Napoleoni, si può affermare in sostanza che quella concezione rispecchia la riduzione del lavoro, da strumento universale per il conseguimento di fini umani via via d’ordine superiore, a strumento particolare per il raggiungimento di un fine circoscritto e definito, stabilito una volta per tutte: quello del soddisfacimento del bisogno di sussistenza fisica dell’uomo.
Però quanto qui si deve soprattutto sottolineare è che, da quando il lavoro è stato innaturalmente ridotto da strumento universale a strumento particolare - ed è stato in tal modo alienato - l’aumento della sua produttività non ha potuto più tradursi organicamente in un arricchimento dei fini. Esso ha dato luogo invece a una “libera” eccedenza, che perdendo ogni relazione con lo sviluppo e la crescita dell’operazione umana, può subire destinazioni diverse, ma tutte in qualche modo arbitrarie e disumane. È appunto la diversa destinazione di tale eccedenza a costituire l’elemento caratterizzante e distintivo dei tre modelli di cui si diceva.
3. Le due “classiche”utilizzazioni del sovrappiù: il modello signorile ...
Decisivo ed essenziale, prima e forse più d’ogni altro, sul piano della storia come su quello dei principi, è il modello signorile. Esso, come abbiamo visto, è caratterizzato dall’operazione sociale ed economica dello sfruttamento, la quale consiste fondamentalmente nel fatto che il lavoro degli uni (i servi)viene violentemente ordinato alla libertà dal lavoro di un altro (il signore). Naturalmente, perché l’operazione dello sfruttamento abbia luogo, è necessario che la produttività del lavoro sia tale da garantire non solo la sussistenza fisica del lavoratore (la ricostituzione e la riproduzione della forza-lavoro), ma la disponibilità di un sovrappiù. È solo nell’atto dello sfruttamento, e attraverso quest’atto, che il sovrappiù - distaccandosi in tal modo dal lavoro e presentandosi per la prima volta nella storia in quanto tale - viene violentemente destinato alla soddisfazione dei bisogni della sussistenza fisica di un altro, che non partecipa al processo produttivo.
Il modello signorile è contrassegnato dal fatto che l’eccedenza che si manifesta alla fine di un ciclo produttivo, grazie all’attività servile dei produttori, è appropriata con violenza da un individuo il quale può, in tal modo, uscire dalla necessità del lavoro e consumare senza produrre. Il genere umano è dunque spaccato per la prima volta in due tronconi; le uniche figure socialmente ed economicamente riconosciute - intorno alle quali pullula la moltitudine indistinta e assolutamente superflua dei poveri - sono costituite dal servo e dal signore. Il primo, ridotto dallo sfruttamento a mero lavoro alienato, diviene lo strumento subalterno della libertà del secondo, mentre quest’ultimo, il signore, poiché è uscito dalla necessità del lavoro, e si è posto anzi come il fine e la ragione del lavoro altrui, è uscito per ciò stesso da qualsiasi legge comune. Tutto l’edificio sociale è pertanto ordinato alla libera attività individualistica del signore; e poiché costui si pone al di sopra e al di fuori della prima e immediata legge comune concretamente operante nell’assetto economico e sociale - quella del lavoro -, il modello signorile è per principio incompatibile con l’organismo comune della città.
Come abbiamo ampiamente dimostrato, se è vero che l’ordinamento signorile dà luogo a un insediamento concentrato, un tale insediamento si configura poi come un mero agglomerato di residenze, servili e cortigiane, nelle quali l’unica legge in qualche modo operante è quella tirannica del soggiogamento alla libera volontà del signore.
4. ... e il modello borghese
Con il modello capitalistico-borghese, la destinazione dell’eccedenza muta radicalmente di segno. Essa non è più sottratta al ciclo produttivo, ma rimane entro quest’ultimo per allargarlo sempre di più; il suo fine cessa di essere costituito dal consumo del signore, e risiede invece nell’indefinita intensificazione dell’accumulazione del sovrappiù. Nella storia, il modello capitalistico-borghese si realizza quando si afferma una nuova classe: la classe dei borghesi, la classe che sorge dagli antichi gestori del sovrappiù signorile e dallo sviluppo di quei patres familias che, usciti dall’autoconsumo, sono rimasti liberi detentori del sovrappiù prodotto dalla propria attività.
La borghesia, però, può affermarsi - e di fatto si afferma nella storia - unicamente interpretando e utilizzando la tensione di rivolta dei servi contro il signore, ed eliminando quest’ultimo in quanto figura economicamente, socialmente e politicamente dominante. Avendo “ucciso il signore”, la rivoluzione borghese esprime soltanto le esigenze e gli interessi delle classi che sono sempre state - i servi - o che sono divenute -i borghesi - le protagoniste dell’attività produttiva; perciò, da una parte, il lavoro viene a porsi come legge universale dell’assetto economico-sociale (la stessa finalizzazione dell’eccedenza all’accumulazione si configura come la garanzia per la sempre più vasta occupazione del lavoro umano), e dall’altra, questo stesso lavoro, questo lavoro affrancato dalla propria subordinazione al consumo e alla libertà signorili e ordinato ormai a sé medesimo, resta pur sempre consegnato entro quella forma nella quale è stato ridotto dallo sfruttamento. Esso resta, insomma, lavoro alienato, lavoro esclusivisticamente concepito e vissuto come strumento per la produzione di una categoria particolare di beni.
Due rilevanti conseguenze comporta allora (come abbiamo già visto) il modello borghese sul terreno dell’insediamento umano. Da un lato, infatti, poiché la legge comune del lavoro è divenuta ormai norma universale della società, poiché il consumo è vigorosamente determinato - per tutti, almeno nel modello - dalla legge della massima intensificazione accumulativa (è stato ridotto a consumo produttivo), poiché infine, sempre nel modello, è stato eliminato lo sfruttamento e tutti sono ormai egualmente alienati, ugualmente servi dell’accumulazione, ecco dunque che la città può trovare una dimensione sociale, comune nella quale sorgere e affermarsi. Ma dall’altro lato poi, dato che la fuoriuscita dall’ordinamento s1gnorile si è realizzata come secca e radicale eliminazione di tutte le qualità, le dimensioni, i valori di cui si nutriva la libera attività individuale del signore, dato che di conseguenza tutto l’assetto sociale e la vita civile sono esclusivisticamente finalizzati all’economia - la quale è ridotta a produzione di sovrappiù da accumulare - ecco che la dimensione produttiva, nell’atto stesso in cui fa sorgere la città, nega contemporaneamente ogni autonomia al suo ordinamento formale e la aliena.
5. La tendenza catastrofica del modello borghese
La descrizione del modello capitalistico-borghese non sarebbe tuttavia completa e esauriente - sia pure nella sua necessaria brevità - se mancassimo di soffermarci su quella che è indubbiamente una sua caratteristica decisiva e di principio. Ci riferiamo a quel tendenziale catastrofismo che è implicito nella struttura medesima del modello capitalistico-borghese, che ha decisivamente condizionato il crollo clamoroso e sanguinoso dell’assetto sociale in cui tale modello si è espresso, e che ci interessa ora particolarmente di sottolineare per un motivo ben preciso: perché è proprio analizzando tale tendenza che si può cogliere più efficacemente la ragione per cui il sistema sociale ha dovuto uscire dal suo assetto capitalistico-borghese e approdare all’opulenza e, insieme, il modo in cui il modello opulento - l’ultimo, dunque, dei modelli ipotizzabili entro quella determinata concezione del lavoro di cui s’è detto -si è venuto a concretare e a manifestare storicamente.
In realtà, il modello capitalistico-borghese, mentre ha il suo essenziale nucleo di principio e il suo peculiare significato storico nell’invenzione e nell’esaltazione del momento accumulativo, incontra poi fatalmente la propria classica contraddizione proprio nell’incapacità di proseguire il processo di accumulazione del capitale: ed è una contraddizione appunto che si manifesta ed agisce nel cuore stesso del modello, nel suo punto decisivo e centrale. Il sistematico sottoconsumo, conseguente al fatto che l’accumulazione è il fine esclusivo e diretto dell’ordinamento capitalistico-borghese; l’individualismo - l’anarchismo - dominante nel meccanismo del mercato, il quale rende praticamente impossibile tener conto di una domanda nella quale la quota per investimenti diviene sempre più decisiva: questi sono i due aspetti, strettamente intrecciati tra loro, nei quali si esprime la contraddizione dell’assetto capitalistico-borghese, già contenuta nel suo modello. Ma converrà ora esaminarli rapidamente nel loro intreccio, poiché è proprio dalla contraddizione che in essi si rivela e dalla carica catastrofica che da essi si sprigiona, che nasce - ove si rimanga, come si è rimasti, entro quella concezione di lavoro di cui s’è detto - la necessità del realizzarsi del modello opulento.
In un ordinamento economico in cui il fine esclusivo e immediato è costituito dall’accumulazione del sovrappiù, il consumo è necessariamente ridotto a consumo produttivo; esso, in altri termini, non può essere visto, non può esser considerato e commisurato, che come consumo strettamente necessario alla ricostituzione e alla riproduzione della forza-lavoro impiegata nel processo produttivo. A mano a mano che l’accumulazione procede e che aumenta la produttività del lavoro, mentre oltretutto diminuisce progressivamente la quantità di forza-lavoro necessaria alla produzione di una determinata quantità di beni, si aggrava sempre più il divario tra merci effettivamente consumabili e merci prodotte. E poiché d’altra parte il processo accumulativo, per potersi concretamente svolgere, ha bisogno che al suo termine vi sia una sufficiente domanda, ecco dunque che si profila il primo dei due aspetti contraddittori di cui sopra si diceva; ecco che si manifesta nell’ordinamento capitalistico-borghese, a contrastare la possibilità di una domanda adeguata, una strutturale insufficienza del consumo: la minaccia della crisi di sottoconsumo.
Potrebbe a prima vista sembrare che, anche rimanendo entro un quadro strettamente capitalistico-borghese, sia tuttavia possibile sfuggire a una simile crisi. E in effetti, a quanto abbiamo fin qui sostenuto si potrebbe obiettare che quel che conta perché l’accumulazione possa proseguire, è che vi sia al suo termine una adeguata domanda globale, sicché, in definitiva, seppure la domanda per consumi decresce in senso relativo, basta - perché l’accumulazione possa svilupparsi - che aumenti in proporzione la domanda per investimenti. poiché quest’ultima condizione è certamente soddisfatta in un sistema caratterizzato, come quello borghese, dal fine dell’espansione accumulativa, non avrebbe senso parlare, entro un tale sistema, di crisi di sottoconsumo.
A questo punto, contro una siffatta obiezione, si inserisce tuttavia il secondo aspetto della contraddizione insita nel modello capitalistico-borghese. Invero l’unico strumento, pienamente compatibile con quel modello, mediante il quale è possibile misurare l’entità della domanda (e dunque tenerne concretamente conto), è il mercato concorrenziale. Ma quest’ultimo, per definizione, è caratterizzato dall’individualismo, e per ciò stesso, se è in grado di registrare la domanda di beni di consumo, è del tutto inefficiente - com’è d’altronde ormai largamente dimostrato - per valutare la domanda di beni d’investimento, la quale richiede capacità di previsione e d’attesa ben diverse da quelle di cui possono essere dotati i singoli e individuali imprenditori che compongono il mercato, e che per di più sono mossi essenzialmente e principalmente dalla prospettiva di un profitto immediato e diretto.
Da tutto questo consegue che, se il processo accumulativo rimanesse ancora intieramente gestito - a un certo stadio del suo sviluppo - dalla classe borghese, esso perderebbe catastroficamente ogni possibilità di proseguire. La contraddizione, di cui abbiamo ora descritto ambedue i termini, mina alle sue stesse radici, nella sua basilare funzione economica e sociale, la figura medesima del borghese. Costui infatti, da un lato, se vuole poter proseguire - in quanto membro della classe dei gestori del capitale - il processo accumulativo, deve consentire e anzi sollecitare e promuovere l’allargamento del consumo; e dall’altro lato però, poiché - in quanto individuale e privato proprietario del capitale - non può nemmeno concepire una riduzione del proprio profitto e una distrazione di risorse dal fine esclusivo e immediato cui è ordinata tutta la sua attività, un simile allargamento gli ripugna in modo invincibile.
6. Sconfitta del dominio borghese su scala mondiale
Eludere la minaccia della crisi di sottoconsumo, evitare il tendenziale catastrofismo dell’ordinamento capitalistico-borghese, è dunque possibile solo a condizione di uscire dalla rigorosa logica del modello. Difatti, quando Malthus, svelando per la prima volta l’intima, insanabile contraddizione già in atto nel capitalismo dei suoi anni, proponeva alla classe borghese di utilizzare, per sopravvivere, il sostegno fornito dal consumo improduttivo dei ceti parassitari, egli - con malizioso e lucido pessimismo - altro non faceva, in ultima analisi, che ammonire sull’illusorietà delle loro speranze e sulla vanità dei loro tentativi quanti ritenevano possibile proseguire ad infinitum lo sviluppo di un capitalismo borghese ferreamente fedele al proprio modello.
La linea malthusiana era, indubbiamente, l’unica linea che poteva consentire alla borghesia di tamponare gli effetti della crisi di cui era la portatrice, e di conservare al tempo stesso la propria egemonia. Non erano forse già definitivamente battuti -politicamente, socialmente ed economicamente - quei ceti parassitari ai cui consumi oziosi bisognava far ricorso? E però, proprio perché erano già battuti e virtualmente liquidati, proprio perché non costituivano ormai che delle pure sopravvivenze del passato - la polvere della storia -, essi dovevano venir perdendo via via (solo che la classe borghese potesse esprimere con pienezza la sua funzione egemonica) ogni consistenza e persino ogni parvenza di realtà: anche il sostegno meramente passivo ch’essi potevano fornire allo sviluppo del sistema, mascherandone e coprendone la natura contraddittoria, doveva rapidamente vanificarsi.
A mano a mano allora che le posizioni parassitarie e di rendita, sopravvissute all’ ancien regime, tendevano a scomparire; a mano a mano che il capitalismo, con la sua logica inconsapevole, dissolveva i puntelli che gli consentivano di procrastinare l’esplodere della propria contraddizione, quest’ultima doveva per ciò stesso ripresentarsi con tutta la virulenza della sua carica distruttrice. Ed è appunto per tutto questo che è divenuto a un certo momento inevitabile - seppur non si voleva, nelle condizioni storiche date, giungere alla paralisi del processo economico e, di conseguenza, alla catastrofe dell’intero ordinamento sociale - il manifestarsi di una nuova linea: è divenuto addirittura necessario che il dominio di classe della borghesia venisse negato e sconfitto, e che determinate carte, peraltro decisive, passassero nelle mani dell’avversario storico del borghese: nelle mani del proletariato. Il proletariato, infatti, costituisce a ben vedere l’unica classe che, forzando e mutando a suo favore il meccanismo distributivo, pretendendo dosi sempre più larghe di beni di consumo, lottando contro le rigorose barriere del consumo produttivo, può - seguendo la propria stretta logica di classe condurre a quell’allargamento del consumo che è indispensabile per sostenere e proseguire il processo accumulativo capitalistico. È evidente che in tale modo, mentre si esce dalla tendenza catastrofica dell’assetto borghese e dalla logica del suo modello, si esce anche dal dominio di classe che è loro omogeneo: è chiaro, insomma, che il dispiegarsi dell’azione proletaria ha condotto a una svolta di portata storica.
Senza dubbio - e non certamente a caso, ma proprio perché la logica dei principi si realizza puntualmente nella concretezza delle cose - l’affermazione di classe del proletariato e la sconfitta del dominio borghese si sono verificate attraverso un succedersi di crisi e di lacerazioni profonde, in cui si è riflessa e si è ripercossa la disperata volontà della borghesia di non perdere il proprio dominio sulla società mondiale, e si è manifestato il segno, si è determinata la misura, dell’entità della svolta che si veniva producendo. Tuttavia, come abbiamo visto, quel drammatico passaggio di poteri dalle mani della classe borghese a quelle del suo storico antagonista, non era semplicemente il portato di una soggettiva volontà del proletariato e delle sue avanguardie: esso era anche preteso dal tendenziale catastrofismo implicito nel modello capitalistico-borghese.
Così infatti, nella storia, alla fine rovinosa del capitalismo borghese come sistema mondiale maturatasi appunto attraverso una guerra (quella del 1914-1918), ha corrisposto subito - in una parte del globo - il sorgere e l’ affermarsi di un assetto sociale a piena egemonia proletaria che poteva quindi proporsi, quale proprio fine, “l’abbondanza per tutti i lavoratori”. Così - nell’altra parte del mondo - attraverso tutta una serie di nuove crisi culminate nella II guerra mondiale, si è avuto il progressivo estendersi di una prassi politica, sociale ed economica sempre più condizionata dall’azione proletaria e che, proprio per questo, ha finito per trovare nella “democrazia del benessere” il suo più caratterizzante obiettivo. Da un lato e dall’altro di quella linea di frattura il cui manifestarsi, dividendo il mondo in due schieramenti contrapposti, ha segnato la definitiva scomparsa del dominio "borghese sul piano mondiale, si è venuto insomma a sviluppare via via un nuovo assetto, nel quale la prospettiva (o l’immediato realizzarsi) di un allargamento del consumo, si presenta come la diretta conseguenza del ruolo nuovo e determinante che ormai giocano le classi lavoratrici.
7. Consumo opulento dei produttori e tempo libero
Fine del dominio borghese e affermazione proletaria; progressivo allargamento del consumo dei produttori: questi sono dunque gli aspetti che caratterizzano, sul piano della storia, la fuoriuscita dall’ordinamento borghese e l’approdo all’assetto opulento del sistema economico-sociale. Ma possiamo provarci ormai a definire il modello dell’opulenza nelle sue connotazioni essenziali e di principio. È chiaro intanto, in primo luogo, che, come il modello capitalistico-borghese costituisce il rovesciamento di quello signorile, così il modello opulento rappresenta una svolta radicale, e quasi una puntuale antitesi, del modello capitalistico-borghese. Mentre quest’ultimo ha infatti nella produzione il suo momento centrale e decisivo, e mentre in esso la massima quota possibile di sovrappiù viene reinvestita nel processo accumulativo per allargarne sistematicamente le basi, il modello opulento è invece decisivamente caratterizzato dalla destinazione di quote sempre più larghe di eccedenza all’allargamento del consumo dei produttori, il quale diviene la realtà dominante. Si rovescia dunque il rapporto tra accumulazione e consumo; quest’ultimo non è più rigorosamente definito e contenuto entro i limiti del consumo produttivo, in modo da consentire la massima possibile formazione di sovrappiù accumulabile; è invece il processo accumulativo medesimo che viene a pretendere e a sollecitare - per poter concretamente aver luogo - la destinazione di una parte crescente di sovrappiù all’allargamento del consumo.
Poiché tuttavia il lavoro è rimasto alienato, e poiché quindi, nel trapasso dal capitalismo borghese all’opulenza, il bisogno umano ha continuato a restar racchiuso nella cerchia dei bisogni della vita fisica, ecco che l’allargamento del consumo può avvenire solo attraverso la progressiva e indefinita complicazione dei modi in cui viene soddisfatta quella particolare categoria di bisogni, cui è stata ridotta e cristallizzata tutta la dimensione e la realtà del bisogno umano: ecco, insomma, che il consumo diviene appunto opulento.
Il consumo opulento, proprio per questa sua connotazione definitoria, proprio perché è un consumo contrassegnato e definito dall’essere un modo via via più complicato e arbitrario di soddisfare il medesimo bisogno, se può crescere in modo indefinito, non può svilupparsi però al di là di ogni limite, in modo infinito. Esso, in altri termini, poiché non ha alcuna legge interna che ne determini lo sviluppo - è infatti un consumo superfluo - si accresce, è vero, e si espande progressivamente senza che si possa in alcun modo prevedere quando il suo ampliarsi incontrerà il suo limite; e tuttavia un siffatto limite indubbiamente deve, a un certo punto, essere raggiunto, perché la soddisfazione di un determinato bisogno, per quanto ci si possa studiare di presentarla in modo via via più artefatto e complicato, deve necessariamente giungere al momento della propria saturazione. Accade allora, inevitabilmente, che a mano a mano che si arriva al limite, al punto di saturazione opulenta dei vari particolari bisogni che compongono, nel loro assortimento, il bisogno di sussistenza dell’uomo, si giunge per ciò stesso all’indebolirsi e al contrarsi e, via via, allo spegnersi definitivo del processo di allargamento del consumo opulento. Poiché d’altra parte l’aumento della produttività del lavoro rende necessario un ammontare progressivamente decrescente di forza-lavoro, per assicurare il soddisfacimento di quel bisogno che ha ormai raggiunto la propria saturazione opulenta, ecco che il problema dell’accumulazione perde di continuo la propria rilevanza e si manifesta indispensabile la contrazione dell’impiego produttivo del lavoro umano. Ecco che si afferma, con evidenza sempre più ampia e dispiegata, la necessità del tempo libero.
Come il consumo opulento, così anche il tempo libero non può estendersi però, in quanto tale, all’infinito. E difatti, dal momento in cui il bisogno dell’uomo è rimasto fissato e congelato nel modo che più volte si è detto, risulta impedito il processo naturale e organico di sviluppo dell’operazione umana: quel processo di cui il lavoro, il consumo, il bisogno costituiscono, in linea di principio, i momenti successivi tra loro correlati e via via progressivamente crescenti. Inaltre parole, l’uomo non ha trovato nello sviluppo dei propri bisogni i fini, di tipo via via superiore, ai quali ordinare il proprio lavoro, mentre l’aumento della produttività di quest’ultimo, d’altra parte, non si è tradotto - attraverso il consumo - in un continuo e parallelo arricchimento del bisogno.
È appunto per questo motivo, in ultima analisi, che il lavoro - cessata inevitabilmente la deformatrice mediazione del signore - è rimasto ordinato a sé medesimo, e che il mondo umano si è risolto esclusivamente nel lavoro dell’uomo, mentre l’uomo si è racchiuso e ridotto entro la figura dell’homo faber. L’uomo, insomma, può ancora sussistere e riconoscersi come tale solo nella propria dimensione di lavoratore: in una dimensione, tuttavia, che si presenta come inevitabilmente alienata, poiché è sottratta a ogni organica relazione con gli altri decisivi momenti della sua vita. Da tutto ciò consegue altresì che all’uomo - sebbene egli debba, nell’ordinamento dell’opulenza, allargar di continuo il proprio consumo, e tale allargamento non richieda più ulteriori dosi di lavoro - è rimasto un unico titolo per poter continuare a esistete in quanto soggetto economico, e per poter fruire del consumo opulento: quello d’esser, almeno formalmente, un lavoratore.
Ecco perché, nel concreto della vita sociale, il tempo libero non può estendersi oltre ogni limite; ecco perché si presenta, sempre più spesso, nella forma del lavoro superfluo, di un’attività umanamente ed economicamente priva di scopo e di significato. L’espandersi, oltre ogni necessità e ragione, delle “attività terziarie”; l’ipertrofico gonfiarsi degli “intellettuali integrati”, dei “tecnici della persuasione”, dei professionisti della “mediazione culturale”; il progressivo complicarsi degli apparati distributivi e pubblicitari; il medesimo ripiegamento verso forme individualistiche di produzione artigianale nell’ambito di un processo produttivo altamente socializzato e industrializzato (il bricolage, il build it yourself); non sono forse, tutti questi fenomeni e aspetti della vita contemporanea, anche la prova evidente di una vera e propria mistificazione del tempo libero, di una dissimulazione di quest’ultimo nelle forme coperte e surrettizie di un lavoro privo di qualunque reale contenuto e concreta necessità economica? Non trovano forse, queste varie incarnazioni del lavoro superfluo, la loro vera ragione di fondo nella necessità per l’uomo di conservare -sia pure soltanto formalmente, sociologicamente o addirittura psicologicamente la qualifica di produttore?
8. Novità del modello opulento
Possiamo ritenere a questo punto di aver sufficientemente sintetizzato, nelle sue caratteristiche essenziali, il modello dell’opulenza e il relativo assetto del sistema sociale. Quest’ultimo dunque - vogliamo sottolinearlo conclusivamente - è fondamentalmente caratterizzato e definito, nella sua fase opulenta, dall’intreccio di due realtà assolutamente nuove nella storia: il consumo opulento dei produttori, e il tempo libero, diretto o mascherato che sia. E si deve allora convenire che l’uomo, nel quadro della società opulenta, anziché esser visto come un lavoratore che consuma per poter continuare a produrre (che consuma, cioè, solo nella misura necessaria ad assicurare la libertà dal lavoro del signore, o a fornire quelle risorse che il borghese gestirà nel senso di garantire la massima esplicazione possibile del processo accumulativo), è visto come un consumatore che deve consumare sempre di più, lavorando sempre di meno. Questo è il modello, l’assetto del sistema economico-sociale, cui gli urbanisti di fatto si riferiscono o a cui alludono quando parlano di “società dei consumi” o di “opulentismo” o di “terziarizzazione”, o quando adoperano altre consimili espressioni. E crediamo che sia ormai chiara la ragione per cui, nell’iniziare questo capitolo, abbiamo sottolineato l’interesse del fatto che l’attuale cultura urbanistica comincia ad avvertire il mutamento che si è prodotto nell’ambito del sistema sociale.
Quel mutamento, infatti, si configura nei termini di una svolta radicale, profonda, irreversibile, che investe e trasforma tutti gli aspetti, le dimensioni, i valori, le categorie della vita della società e dell’uomo. Essa non può dunque mancar di riflettersi, in modo decisivo, sulla condizione e sui destini della città. Questa è certamente divenuta - poiché vive in un nuovo orizzonte sociale, politico, economico - una realtà che non può più esser compresa ne sviluppata mediante il semplice prolungamento di operazioni e ragionamenti pedissequamente ancorati alle posizioni anteriori alla svolta dell’opulenza.
Entro il quadro capitalistico-borghese, la produzione in tanto poteva imprimere un ordine all’insediamento urbano, in quanto essa costituiva il momento decisivo e culminante, il fine esclusivo e l’unica legge del processo economico, il quale era divenuto a sua volta - con la rivoluzione borghese - il cuore, il centro, lo scopo dell’intero ordinamento sociale. Poiché, in altri termini, ogni valore, realtà, qualità, dimensione della società civile aveva dovuto subordinarsi all’economia (o era stato impietosamente emarginato), e poiché all’interno di quest’ultima la produzione aveva assunto un ruolo di esclusivo predominio, ecco che il momento produttivo era venuto per ciò stesso a configurarsi inevitabilmente, per qualsiasi aspetto dell’attività dell’uomo, e dunque anche per la città, come l’unica sorgente d’ogni possibile regola.
Una simile regola, poi, benché comportasse ovviamente per la città (come per ogni altro organismo o istituto o dimensione della società civile) l’appiattimento sulla dimensione produttiva, non era tuttavia vissuta e patita come secca e arbitraria negatività da nessuna delle figure sociali decisive: da nessuno, quindi, dei cittadini. Non lo era infatti dal borghese, che era, appunto, l’organico rappresentante e protagonista dell’esclusivismo della dimensione economica e dell’attività produttiva (e aveva comunque poi sempre la facoltà di ritagliarsi una zona d’evasione signorile dalle leggi del sistema); ma non lo era neppure dal proletario, poiché il fine del continuo allargamento delle basi del processo produttivo si presentava per costui come la massima garanzia per l’occupazione della propria forza-lavoro, e dunque come la condizione necessaria per il mantenimento delle esigenze elementari della propria esistenza. Orbene, è facile vedere che nella città opulenta la produzione perde entrambe queste caratteristiche: che essa, cioè, non è più capace di ordinare l’insediamento umano, ne è più la portatrice di un’oggettiva ed elementare necessarietà sociale e umana.
Nell’ordinamento dell’opulenza, infatti, la dimensione produttiva non è più - lo si è già sottolineato - il momento centrale e decisivo, la ragione e il fine esclusivo dell’economia e dell’intera vita sociale. Essa è, invece, non solo strettamente condizionata all’indefinita e opulenta espansione del consumo, ma è anzi, in ultima analisi, subordinata a quest’ultimo; di fatto, è soltanto l’allargamento del consumo che conferisce un qualche fine al processo produttivo, il quale, tendenzialmente e al limite, perde addirittura ogni funzione economica amano a mano che si giunge - come non si può non giungere - alla saturazione del consumo opulento. D’altra parte, poiché, quando si giunge all’opulenza, i bisogni dell’esistenza fisica dell’uomo sono stati ormai certamente soddisfatti, per definizione, nella loro essenzialità; e poiché anzi - mentre non è più indispensabile allargare il processo produttivo per garantire la fruizione dei consumi relativi ai bisogni immediatamente e necessariamente comuni lo stesso problema dell’occupazione si viene a rovesciare in quello del tempo libero e del lavoro superfluo, ecco dunque che la produzione smarrisce anche quel carattere di necessarietà sociale ed umana che rendeva il suo esclusivo predominio - agli occhi del proletario come di ogni membro della società - storicamente giustificato, e quindi concretamente sopportabile.
La produzione, insomma, come non ha più alcuna ragione economica che possa consentirle di porsi come il momento decisivo e centrale dell’assetto economico-sociale, così non ha più alcun senso umano ed organicamente civile e sociale; e così appunto viene direttamente e insofferentemente avvertita dall’uomo moderno.
2. Insufficienza urbanistica del consumo opulento.
Se la produzione, perdendo l’una e l’altra caratteristica su cui fondava la sua capacità ordinatrice, non è più in grado, nell’assetto opulento, di porsi come regola per l’insediamento urbano, forse una capacità ordinatrice analoga può esser trovata nell’altro momento della dimensione economica, nel consumo?
Potrebbe sembrare, a prima vista, che a un tale quesito debba rispondersi positivamente. Infatti non abbiamo sostenuto che la società opulenta costituisce una svolta radicale rispetto a quella borghese proprio perché il consumo è divenuto il momento centrale e decisivo, la categoria dominante a cui ogni altro aspetto dell’attività economica è, in un modo o nell’altro, subordinato? Non ha insomma, in tal senso, il consumo soppiantato e sostituito la produzione? E non deve discendere quindi da tutto ciò che il consumo viene necessariamente ad assumere, entro il modello opulento, anche quel ruolo ordinatore sul piano urbanistico che la produzione manifestava nei confronti della città borghese?
Le cose, tuttavia, non sono così semplici né così schematiche. Bisogna anzitutto sottolineare che il consumo peculiare al modello opulento non è certamente - come abbiamo già osservato - un consumo legato a una effettiva e organica necessità umana. Esso infatti, nella stretta logica del modello (ma perciò anche nelle tendenze concretamente in atto), non è che consumo di dosi sempre più ampie di beni destinati ad un bisogno che, nella sua sostanza naturale, è ormai generalmente e abbondantemente soddisfatto; in definitiva è un consumo che si allarga, di continuo e all’indefinito, nella totale assenza dello sviluppo del bisogno umano, e anzi coprendo e mistificando il fatto decisivo che il bisogno della sussistenza fisica è ormai pienamente soddisfacibile e soddisfatto. Perciò il consumo opulento resta inevitabilmente contrassegnato dalla superfluità, e dunque dalla gratuità e dall’arbitrio. Ora, già per tutto questo, il consumo opulento non può apparire a nessuno come il portato di una oggettiva necessarietà umana e sociale che convalidi e giustifichi un suo ruolo egemonico e dominante nella città e nella società; ed è questo, crediamo, un primo motivo per cui bisogna concludere che il consumo non può esercitare una capacità ordinatrice nell’insediamento urbano.
Ma c’è un’altra caratteristica del consumo opulento che conferma e ribadisce la nostra tesi, e che conduce anzi a dover addirittura riconoscere la presenza di una radicale incompatibilità tra un reale ordine della città e il consumo pienamente omogeneo all’assetto opulento. Tale consumo infatti, nonostante la sua complicazione e il suo carattere capriccioso e sofisticato, è pur sempre consumo di beni ordinati al bisogno della vita fisica. Esso è dunque, per ciò stesso, legato e riferito esclusivamente a una determinata categoria di bisogni (quelli appunto della vita fisica dell’uomo) che può esser considerata pienamente umana solo se costituisce un gradino di una scala di bisogni continuamente crescente, e che invece, quando viene assolutizzata e vissuta come l’unica forma del bisogno umano, può caratterizzare soltanto un’esistenza ridotta a mero e materiale animalismo.
Una simile esistenza, infine - e la questione, come vedremo, è di decisiva importanza - è necessariamente contrassegnata dall’individualismo: in altre parole, il consumo opulento si presenta inevitabilmente come un consumo che può esser vissuto dall’uomo soltanto come esasperato e chiuso particolarismo, e che perciò, come tale, non può costituire, di per sé stesso, un sufficiente supporto alla necessaria dimensione sociale della città, e può anzi unicamente negarla e dissolverla.
3. Una città inordinabile, ma liberata dall’alienazione all’economia
Né la produzione né il consumo - entro la stretta logica del modello opulento - sono dunque in grado di imprimere un ordine alla città. Ed è allora evidente che deve entrare definitivamente in crisi quella posizione funzionalistica che, nella città dell’Ottocento, costituiva il “braccio urbanistico” del dominio della borghesia e che, interpretando e traducendo in concreti schemi organizzativi la materiale e generica capacità ordinatrice della produzione capitalistico-borghese, perveniva a dare una qualche forma, sia pure alienata e parziale, alla città. Non vogliamo sostenere con questo che l’affermarsi dell’opulenza venga a dissolvere la posizione funzionalistica anche nella sua sostanziale radice ideologica. Infatti, è pur sempre possibile proporsi di appiattire la città al dato, al mero esistente; in tal senso, evidentemente, anche nel quadro dell’opulenza può manifestarsi e può operare una posizione funzionalistica. Però quel che certamente il funzionalismo smarrisce, nel passaggio dall’assetto capitalistico-borghese a quello opulento, è la propria capacità di conformare la città in funzione e al servizio di una legge rigorosa, derivata e desunta da una dimensione e da una realtà eterogenea, come quella dell’economia, all’organismo urbano.
Ma se le regole, se i meccanismi della dimensione economica del sistema non sono più in grado di fornire una struttura alla città e se, di conseguenza, la linea funzionalistica deve rivelare, alla fine, la propria impotenza, significa ciò forse che la storia, alla lunga, ha dato ragione agli epigoni catastrofici dell’utopismo? Erano forse degli illuminati profeti quanti predicavano l’incompatibilità assoluta e totale tra sviluppo dell’ordinamento capitalistico e sviluppo della città? E colgono il vero quegli studiosi moderni della città che pongono al centro dell’attenzione “i sinistri particolari della vita quotidiana”?
Da quanto abbiamo fin qui argomentato e descritto scaturisce con chiarezza, ci sembra, e in tutta la sua gravità, l’aspetto negativo che la svolta dell’opulenza comporta nei confronti della città. Quest’ultima, infatti, dal momento che non ha più nella dimensione economica una base che le consenta di trovare una qualche ragione per il proprio ordinamento, dal momento insomma che ha perso ogni possibilità di conservare, nel rapporto alienante con l’economia, una regola capace di conferirle una struttura e una forma, tende ormai a divenire, entro il modello opulento, una realtà che non è più in alcun modo ordinabile.
L’antica polis armoniosamente adagiata, tra la pianura e il mare, a presidio dei suoi porti e delle sue campagne, organicamente inserita nella natura, ordinatamente disposta attorno ai suoi templi e alle sue agorà; l’urbs e la civitas dei romani, cerniere e punti di forza di una geniale struttura politica e amministrativa, fuochi di un sistema di relazioni e di reciproche influenze che imprimevano un ordine e una forza a tutto il territorio lavorato dall’uomo; il borgo e la città del medioevo cristiano, luoghi nei quali i servi divenivano liberi, i liberi resistevano alla soggezione e alla violenza del signore, e gli uni e gli altri si riconoscevano uguali raccogliendosi negli edifici comuni della religione e del culto, della politica, del commercio, della vita civile; la stessa prodigiosa metropoli dell’Ottocento borghese, strutturata in funzione degli interessi, esclusivistici ma storicamente progressivi, di una classe che si disponeva a dominare il mondo, invadendolo con le merci prodotte nelle operose officine, e regolando i destini della società internazionale secondo le intese e i disegni intessuti nelle fastose e civili capitali; tutto quel che la storia dell’uomo ha faticosamente elaborato nello sforzo millenario di dare alla società un luogo nel quale ordinatamente vivere e riconoscersi, distinguendosi dall’immediatezza della natura, pare dunque irrimediabilmente finire. Tutto ciò tende a mutarsi, come il Mumford esattamente descrive, in “una massa informe e continua, qui gonfia di edifici, là interrotta da una macchia verde o da un nastro di asfalto”, che “continua a crescere inorganicamente, e anzi cancerosamente, con la continua decomposizione dei vecchi tessuti e lo sviluppo eccessivo dei nuovi”, e che trova infine la sua forma solo nella “sua informità, come la sua meta [in] una espansione senza meta”.
E però, riconosciuto e accettato tutto ciò, accolta insomma quella empirica verità che indubbiamente è sottesa alla denuncia appassionata dei più illustri epigoni dell’utopismo, non si può comunque trascurare di porre in evidenza anche il rovescio, positivo implicito nella nuova configurazione che è venuto ad assumere, con l’opulenza, il rapporto della città con la dimensione economica storicamente data.
Quel rapporto, infatti, che nel quadro dell’assetto capitalistico-borghese si era inevitabilmente tradotto nei termini di un’alienazione dell’ordinamento formale della città, è ora praticamente dissolto. Ma ciò significa allora che, con l’opulenza, la città si è liberata dal legame con un’economia che, mentre ne aveva consentito - e anzi preteso - la nascita, e mentre poi aveva potuto conferirle un ordine, l’aveva peraltro, nell’atto medesimo, alienata. E sebbene nell’ambito del modello opulento un simile affrancamento della città possa esprimersi soltanto in termini negativi è comunque certo che ormai, dal momento che è divenuta impossibile l’alienazione all’economia dell’ordinamento formale della città, è divenuta invece oggettivamente possibile la nascita di una reale, compiuta, dispiegata autonomia dell’organismo urbano.
4. Scomparsa dell’individualismo borghese dalla sfera della produzione.
Il primo termine dell’ambiguità presente nella città capitalistico-borghese - l’alienazione del suo ordinamento formale - si è dunque rovesciato, nell’opulenza, in possibilità oggettiva di autonomia, in potenziale positività. Ma come si è trasformata e modificata a sua volta quella potenzialità positiva per la città, che avevamo potuto individuare, entro l’ordinamento borghese, nel carattere “sociale” della produzione (il secondo termine, dunque, della ambiguità di cui si diceva)?
Fin dall’inizio della formazione del processo opulento, il carattere “sociale” della produzione si afferma in modo via via più massiccio, sino a divenire una connotazione decisiva e incontrastata dell’attività produttiva, e a costituirsi come la forma universale di quest’ultimo. Per comprendere con sufficiente chiarezza la ragione e il significato di un simile pieno affermarsi della “socialità” della produzione, occorre ricordare che nell’ordinamento borghese il carattere “sociale” dell’attività produttiva incontrava il proprio limite - invalicabile in linea di principio - nel privatismo proprietario peculiare alla figura sociale ed economica del borghese. E in realtà, la giustificazione e la relativa insuperalbilità di un limite siffatto derivavano sostanzialmente dalla circostanza che nella società capitalistico-borghese (in cui tutto è esclusivisticamente ordinato all’accumulazione) solo il borghese, il capitalista, poteva essere - il linea di principio come in linea di fatto - l’unico e indiscusso gestore, l’incontrastato garante, l’arbitro supremo e inappellabile dell’intero sistema.
Nella società opulenta, viceversa, mentre l’accumulazione perde il suo ruolo di dimensione centrale e decisiva dell’intero ordinamento economico e sociale, il gestore del processo produttivo viene via via a dimettere, per così dire, l’abito del borghese. Egli invero, poiché la sua attività è ormai, se non immediatamente diretta, certo strettamente condizionata all’allargamento del consumo dei produttori, e poiché anzi la sua tipica operazione non è più il fine esclusivo della vita economica e sociale, cessa di essere l’arbitro incontrastato dell’intero sistema, mentre si avvia a perdere in modo definitivo la sua antica capacità d’incidere individualisticamente e soggettivamente, in maniera pienamente libera e arbitraria, nella condotta della stessa attività produttiva. In realtà, se in una prima fase del processo opulento egli conserva ancora un residuo di quel carattere socialmente dominatore che era peculiare al privatismo borghese, deve perdere anche questa sua ultima possibilità, a mano a mano che il consumo opulento raggiunge i suoi limiti e perviene alla sua saturazione: l’imprenditore si trasforma allora a sua volta, definitivamente e totalmente, in generico e anonimo funzionario del processo produttivo.
Il crollo del dominio borghese sulla società mondiale e la parallela affermazione economica, sociale e politica della classe proletaria; la crisi definitiva dell’“economia di mercato” e il progressivo ampliarsi di quegli interventi che determinano l’economia programmata: non costituiscono, forse, questi decisivi momenti dello sviluppo storico contemporaneo, altrettanti colpi mortali inferti all’individualismo e al privatismo connaturati alla figura del borghese?
5. Una città che non può più essere bella per pochi
Se nella società opulenta la zona del privatismo viene via via a ridursi - nel campo dell’attività produttiva - in misura sempre maggiore, e se, parallelamente e di conseguenza, il carattere “sociale” della produzione capitalistica si libera del proprio limite borghese, tutto ciò non significa che si sia sviluppata, che abbia acquistato maggior peso e rilevanza quella potenzialità positiva che, per la città, è costituita, in linea di principio, dalla “socialità” della produzione. Infatti, benché la dimensione produttiva sia ormai - come si è detto - pressoché totalmente caratterizzata da quella natura “sociale” che è propria al capitale, sta comunque di fatto che la stessa dimensione produttiva è venuta a perdere via via - come abbiamo più sopra osservato - la propria centralità: il ruolo decisivo che essa svolgeva nell’ordinamento capitalistico-borghese è stato soppiantato e sostituito, nell’ordinamento dell’opulenza, dal consumo.
Ciò significa che il decadere del privatismo nella attività produttiva non provoca, nella città, alcuna positiva conseguenza? Certamente, i contrapposti effetti dell’allargamento della “socialità” della dimensione produttiva e del parallelo ridursi della centralità e dell’importanza di quest’ultima si vengono, per così dire, a sommare algebricamente fino ad annullarsi l’un con l’altro. C’è tuttavia una conseguenza rilevante e positiva, che discende dalla tendenziale liquidazione del privatismo borghese. Quella liquidazione comporta infatti, sul piano della città, la fine di una serie di mistificazioni che agivano pesantemente nella città capitalistico-borghese e che, condizionando l’opera razionalizzatrice dei funzionalisti, facevano della città il luogo dei “liberi consumi” e, soprattutto, dell’importanza sociale di una soltanto delle classi che vi risiedevano: della classe borghese.
I borghesi potevano infatti ordinare la città al servizio di quei “liberi consumi”, di tipo sostanzialmente signorile, che a loro, e solo a loro, erano permessi e garantiti dal privilegio proprietario, e con cui si manifestava e si celebrava la centralità dominatrice della loro funzione sociale. Ora invece, nella società opulenta, poiché quel privilegio ha perso ogni ragione, ogni senso e ogni riflesso egemonico, poiché il borghese si viene anzi a mutare e a ridurre in semplice e subordinato funzionario del processo produttivo, poiché, quindi, gli è impedito ormai di erigersi singolarmente e individualisticamente in signore, deve per ciò stesso scomparire, nella città, ogni aspetto fastoso ed esclusivo, ogni simbolo e ogni struttura conformati per celebrare il potere, la libertà (e il peculio) dei membri della classe dominante. Scompare, dunque, la possibilità di dissimulare l’anarchia, il disordine, la bruttura dei tessuti residenziali destinati ai proletari dietro le facciate costruite e adornate per la signorilità dei borghesi; scompare ogni copertura di qualità signorili, fondate sul privilegio e sulla divisione; scompare insomma, definitivamente, l’illusione che la città possa essere bella senza esserlo per tutti.
6. Esiste nella città opulenta una speranza per il futuro?
Ma se tutta la positività presente nella città opulenta fosse costituita dalla fine dell’alienazione all’economia e dalla liquidazione dell’importanza sociale del privilegio proprietario - e fosse dunque esprimibile unicamente in termini negativi -, bisognerebbe allora concludere che la pessimistica e disperata denuncia degli epigoni dell’utopismo è, nonostante tutto, un atteggiamento pienamente legittimo e giustificato. Nella città del nostro tempo, infatti, se le cose stanno soltanto come fino a ora le abbiamo descritte, non sarebbe consentito di individuare un appiglio dispiegatamente positivo, un germe non illusorio di speranza, e soprattutto una realtà dalla quale muovere e su cui far leva per costruire, sopra le ceneri delle negatività antiche, liquidate dall’opulenza, una città pienamente e creativamente padrona di se stessa e capace di darsi, perciò, un autonomo ordinamento formale. Ma c’è un punto, di fondamentale importanza, sul quale dobbiamo ancora soffermarci; c’è una tesi decisiva che dobbiamo dimostrare, prima di poter considerare esaurito - sia pure nelle linee di fondo - il nostro esame della città opulenta. Dobbiamo trarre cioè una conseguenza dal fatto (che assume per la città, come vedremo, un massimo rilievo) che nell’assetto opulento il consumo di tutti i produttori diviene la dimensione centrale dell’ordinamento sociale ed economico.
Su di una circostanza è tornata sovente la nostra attenzione; sul fatto cioè (da noi individuato nell’ambito di un ragionamento di tipo storico) che la possibilità di esprimere una forma autonoma dell’insediamento umano è stata sempre condizionata dalla presenza di determinate qualità. Tali qualità erano già presenti, ed erano state anzi elaborate, nel mondo signorile, ma non potevano esser utilizzate come base dell’ordinamento formale di un insediamento definibile come città, perché erano vissute dal signore come libera e individualistica attività meta economica, e venivano perciò fruite mediante un “consumo” che, mentre era meramente particolaristico e individuale, rimaneva riservato esclusivamente ai membri di quella classe “dei pochi e degli eletti” che, quasi per diritto divino, si elevava al di sopra della moltitudine comune dei servi.
Esse, invece, sono state utilizzate come matrici per una forma autonoma della città solo quando, nel borgo e nella primitiva città borghese in lotta con il “castello”, si sono manifestate come consumo comune dei cittadini. E tuttavia, a causa della sostanziale meta-economicità di tale consumo comune, le qualità che lo nutrivano dovevano (nell’ordinamento capitalistico-borghese, esclusivamente finalizzato alla produzione del sovrappiù) rapidamente dissolversi, o venir emarginate e spazzate via. Appunto per questo, appunto per la fragilità di principio di uno schema urbano fondato su di un consumo comune ma metaeconomico, l’autonomo ordinamento formale della città classica e medievale doveva conoscere la propria rovina nel corso della crisi storica che ha condotto al pieno affermarsi dell’assetto capitalistico-borghese.
Orbene, già da quello che abbiamo più sopra osservato circa il ruolo che il consumo di tutti i produttori svolge nella società opulenta, si può facilmente intuire come la storia, nel condurre il sistema sociale dall’assetto signorile e da quello capitalistico-borghese a quello dell’opulenza, sia venuta ad accumulare le ragioni per un radicale salto di qualità dell’organismo urbano; come la storia, cioè, sia venuta a porre in essere una situazione in cui, mentre è sempre possibile che continui il dissolversi della città in un insediamento amorfo e inordinabile, sono però presenti le condizioni per un definitivo trascendimento dei limiti che hanno impedito, da sempre, il manifestarsi di una solida e dispiegata autonomia dell’ordinamento formale della città: le condizioni positive, dunque, per la costruzione di una città realmente e pienamente tale.
7. Centralità del consumo nella città e nel modello opulento
Un primo elemento sul quale dobbiamo soffermarci per svolgere la nostra argomentazione, è costituito da una caratteristica che - come già si è detto - si pone come una connotazione essenziale e di principio della società opulenta: il fatto, cioè, che in tale società il consumo, sebbene rimanga pur sempre ordinato a un bisogno cristallizzato e definito nella forma del bisogno della vita fisica dell’uomo, diviene comunque il momento decisivo e centrale della dimensione economica e dell’intera società civile. Il consumo, in altri termini, non è più definito come una funzione esclusiva della produzione, come il semplice costo della forza-lavoro necessaria a sviluppare il processo produttivo. Esso diviene invece, per la produzione medesima, da mero strumento (quale è inevitabilmente un consumo ridotto a consumo produttivo), reale problema: non si presenta forse il consumo, già dal primo affermarsi dell’opulenza, come una realtà che è indispensabile indurre per poter continuare a espandere l’attività produttiva? Non è comunque l’espansione produttiva ormai strettamente condizionata a un indefinito allargamento del consumo?
Quest’ultimo insomma, il consumo, acquista nella società opulenta un peso e un’incidenza decisivi e determinanti indipendentemente dal fatto di essere un input della produzione, un suo momento interno; esso si afferma e si sviluppa con una sua specifica autonomia, e dunque, in definitiva, proprio in quanto consumo. Tutto ciò significa allora - ed è questo che soprattutto ci interessa sottolineare - che una categoria, di cui abbiamo riconosciuto la decisività per l’operazione urbanistica, acquista ora, con l’opulenza, una dimensione assolutamente nuova. Quel consumo che, manifestandosi nel borgo e nella città primigenia come meta-economica fruizione comune delle qualità religiose, politiche, civili, estetiche, consentiva il sorgere di una forma autonoma dell’insediamento urbano; quel consumo, che la vittoria capitalistico-borghese sull’assetto signorile doveva invece asservire seccamente alla produzione, alienando per ciò stesso l’ordinamento formale della città; quel consumo, infine, di cui i padri dell’urbanistica moderna (gli Owen, i Fourier, i Godin) dovevano intuire la fondamentale importanza per la città, ponendolo al centro e al cuore dei loro utopistici insediamenti, quel medesimo consumo si è ora trasformato, nell’assetto opulento, in una realtà economica e sociale dalla quale non si può prescindere.
8. Il rischio dell’opulenza.
Certo, il consumo può - anzi, nelle condizioni storiche date, deve - rimanere opulento, e dunque necessariamente arbitrario e individualistico: questa infatti è la tendenza connaturata allo sviluppo evolutivo del sistema in atto. E in tal caso, come si è già osservato, il consumo, poiché è arbitrario, non è capace di fornire il sostegno di alcuna legge alla città, e poiché è individualistico, tende anzi a dissolverla, eliminandone la radice sociale. Se il consumo rimane quindi strettamente caratterizzato dall’opulenza, l’insediamento umano ripercorre all’indietro il proprio cammino: esso si riduce a una dispersione anarchica e casuale, o a una mera e informe aggregazione di residenze, simile a quella che era costituita dall’insediamento peculiare all’età delle “pompose Babilonie”. La città, in tal caso, non solo decade, ma giunge alla propria catastrofe. Dal momento che tutti, o per meglio dire che ciascun abitante dello insediamento opulento può - e addirittura deve - allargare all’indefinito i propri consumi, e dal momento che una simile indefinita espansione non ha alcuna regola realmente comune che possa consentire di conferirle un qualche ordine, ecco che la città si avvia alla propria definitiva crisi lungo due direzioni alternative.
Da un lato, infatti, la proliferazione disorganica dei consumi individuali conduce - ove e finché si rimanga nell’ipotesi di un insediamento concentrato - a una crescente e irrefrenabile congestione, che porta - in una prospettiva di cui siamo già in grado di conoscere e di patire, nelle nostre odierne metropoli - l’iniziale manifestarsi -a una completa e insanabile paralisi della vita urbana. Dall’altro lato, a mano a mano che le condizioni d’esistenza entro un simile convulso aggregato si rivelano umanamente insostenibili, non esistendo più alcuna ragione di rimanere vicini gli uni agli altri per fruire degli individualistici consumi opulenti, si è sollecitati e sospinti alla dispersione delle residenze. Ciascuno tende sempre più, o almeno per un maggior tempo, a insediarsi singolarmente e isolatamente in questa o in quell’altra parte del territorio, in una inconsapevole e grottesca restaurazione dell’insediamento dell’autoconsumo. In definitiva, la città si dissolve.
Questo è dunque il destino che è riservato alla città se il fatto nuovo, costituito dall’affermarsi del consumo, rimane entro la stretta logica del modello opulento. Ma ciò significa allora che esiste dal punto di vista dell’urbanistica un massimo di necessità e di urgenza di superare la fase opulenta. La disciplina urbanistica, in altri termini, può sviluppare la propria operazione solo a patto di impegnarsi, sul suo specifico terreno, nello sforzo di contribuire a dar vita a uno sviluppo della città - entro un generale sviluppo della società - che sia radicalmente diverso da quello che è peculiare al modello dell’opulenza. E del resto, precisamente a causa del particolare ruolo svolto, nell’assetto opulento, dal consumo di tutti i produttori, e proprio in ragione della decisività di quest’ultimo per l’operazione urbanistica, si presenta oggi anche un massimo di possibilità di utilizzare le condizioni, il terreno, la situazione storica dell’opulenza, per iniziare la costruzione di una città nuova; di una città, in altri termini, che colga l’occasione dell’opulenza per superare i limiti e le alienazioni antiche e, insieme, le odierne minacce.
9. L ‘occasione dell’opulenza.
In effetti esiste, nel concreto, la possibilità di far giocare il consumo in modo diverso da come è comportato nell’opulenza. Tale possibilità è insita in una contraddizione di fondo implicita nel consumo opulento. Abbiamo visto che l’ordinamento dell’opulenza è caratterizzato - in linea di principio e in linea storica - dal fatto che in esso acquista un massimo di centralità e di decisività il consumo di tutti i produttori. Anzi, poiché la qualifica di produttore, di lavoratore, tende sempre più a risolversi in un attributo formale, in una giustificazione sociologica, o addirittura nel sostegno e nell’alibi psicologico di un’esistenza umana che, fuori del lavoro, non riesce a trovare una propria regola; poiché insomma, per quei motivi che abbiamo più sopra largamente accennato, l’esser produttore si avvia in sostanza a divenire, per l’uomo, solo un titolo per poter consumare, si può quindi affermare senz’altro, e decisamente, che nell’ordinamento dell’opulenza la realtà centrale e dominante è costituita dal consumo di tutti gli uomini.
Ma d’altra parte (e anche su questo punto ci siamo già soffermati) il consumo di tutti viene poi, nel quadro dell’opulenza, individualisticamente fruito, per la ragione fondamentale che è rimasto esclusivamente consumo di beni necessari alla soddisfazione del bisogno della vita fisica: di quel bisogno, cioè, che, ove sia assolutizzato e vissuto come l’unico possibile, non postula, per il proprio appagamento, alcuna realtà comune e sociale.
Ecco, dunque, i termini della potenziale contraddizione implicita del consumo opulento. Da un lato, esso è consumo di tutti; è un consumo generalizzato, egualitario, democratico, che come tale pretende di trasformarsi in consumo comune: che pretende, cioè, d’esser fruito dagli uomini in quanto membri di una comune società. Ma dall’altro lato, esso è un consumo vissuto nella forma individualistica; è un consumo, perciò, che incontra nell’individualismo non solo l’insuperabile limite per la piena esplicitazione della sua tensione comunitaria, ma la vera ragione del suo permanere in amorfo consumo di massa.
Ora è proprio nel nodo costituito dalla contraddizione latente nel consumo opulento che l’azione degli urbanisti può inserirsi; è proprio incidendo in tale contraddizione e contribuendo a risolverla che la loro opera può raggiungere una sua positiva efficacia. Ed è allora evidente che l’operazione urbanistica viene ad agire, in tal modo, entro una linea d’azione che comporta la prospettiva del definitivo trascendimento dell’opulentismo e del suo vizio di fondo (la riduzione del bisogno umano ai bisogni della sussistenza fisica dell’uomo), ma che nello stesso tempo, poiché è una linea d’azione che può cominciare a realizzarsi nell’immediato, costituisce già, per ciò stesso, un inizio concreto di superamento dei limiti, degli errori, delle mistificazioni dell’opulenza.
Lo abbiamo già affermato: ci sembra che l’attuale cultura urbanistica non sia ancora pervenuta a formulare un’analisi sufficiente della città opulenta, e che, per questo motivo, essa non abbia potuto individuare chiaramente e coerentemente le radici e le cause dell’attuale situazione della città, né, di conseguenza, le prospettive e le speranze che possono schiudersi al suo futuro. E poiché l’opulenza costituisce ormai l’innegabile realtà di fatto, la cultura urbanistica - quando non si oppone disperatamente e velleitariamente a tutte le condizioni date, com’è il caso, già da noi esaminato, del neo-utopismo - finisce inevitabilmente per patire la logica dell’ordinamento dell’opulenza e per subordinarvisi: il che accade sia quando si aderisce e ci si adegua piattamente al portato dello sviluppo storico, accettandolo acriticamente in tutti i suoi aspetti, sia quando si tenta di distinguersi da esso e di criticarlo, senza però aver maturato una sufficiente consapevolezza della sua ambiguità, e quindi dell’occasione storica che essa costituisce.
L’atteggiamento di acritica adesione all’opulentismo costituisce a sua volta il comune substrato di due differenti posizioni: una subisce l’opulenza come processo in atto, ed è quindi contraddistinta da una visione della realtà ancora dinamica, irrequieta, apparentemente anticipatrice; l’altra accetta l’opulenza come l’unica realtà possibile, come il dato indiscutibile e assiomatico, in nessun modo valutabile e criticabile.
Gran parte della cultura urbanistica italiana è dominata, ci sembra, dalla prima di tali posizioni; e ciò non è davvero casuale o inspiegabile, ma è invece strettamente legato alle generali condizioni della nostra società. In Italia, infatti, l’opulenza è indubbiamente un processo in atto, il quale, nella misura in cui è anche il portatore di valori storicamente positivi (la fuoriuscita dalla miseria e dalla fame, l’affermazione proletaria, la pacificità della democrazia, la liquidazione dell’importanza sociale dei privilegi lbol1ghesi e di quelli pre-moderni), e nella misura in cui, per converso, è frenata e ritardata dalle resistenze opposte dai residui del passato, sollecita e sospinge a una partecipazione attiva al suo realizzarsi.
Naturalmente, dato che una simile posizione non è fondata su di una consapevolezza delle autonome esigenze di sviluppo della città e su di una conseguente critica dell’opulentismo, ed è anzi contraddistinta da una inconsapevole ma globale accettazione di quest’ultimo, fuori da ogni capacità di distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi, si giunge ad assumere come valori anche gli aspetti più inquietanti ed erronei dello sviluppo opulento, e si è portati a rivivere e a ribadire quell’impostazione che abbiamo definito funzionalistica. Ecco, insomma, che la città viene considerata e riguardata come una mera e subordinata funzione dell’assetto opulento del sistema.
Necessariamente, contro e malgrado ogni buona intenzione, si concepisce allora l’urbanistica come un semplice strumento per la lotta dell’opulentismo contro le remore e gli impacci che ne ostacolano lo sviluppo. E poiché, in quanto urbanisti, si può partecipare a questa lotta solo conformando la città secondo il modello di riferimento adottato (quello, appunto, dell’opulenza), si giunge, nel concreto, a ideare e a progettare degli insediamenti i cui punti di forza sono costituiti dall’esaltazione e dalla celebrazione delle più vistose conseguenze dell’opulentismo: l’ipertrofia delle attività terziarie, nelle quali viene vissuto il lavoro superfluo; il dinamismo irrequieto, che deriva dalla mancanza di ogni regola umanamente accettabile; la ,genericità dei valori e dei contenuti, in cui si esprime la gratuità e l’arbitrarietà del consumo opulento; infine, la fuga solitaria verso la natura, che costituisce la evasione estrema, e necessariamente individualistica, da una città ridotta a congestionata “conurbazione”.
2. L’astrazione sociologistica di Kevin Lynch
Una identica impostazione funzionalistica caratterizza la seconda delle posizioni cui abbiamo accennato: quella che, identificando empiricamente l’esistente con l’assoluto, accetta la condizione dell’opulenza come l’unica realtà possibile. Crediamo che questa posizione possa essere efficacemente illustrata da alcune tesi che sono alla base delle ricerche del noto studioso statunitense, Kevin Lynch.
Il Lynch si propone di analizzare la città e di individuarne gli elementi caratterizzanti attraverso la percezione che i suoi abitanti ne hanno; “dobbiamo considerare la città -egli dice non come un oggetto a sé stante, ma nei modi in cui essa viene percepita dai suoi abitanti”. L’inchiesta diretta, il test orale e grafico, le “battute di rilevamento” condotte da squadre di esperti, la costruzione infine di una “sintesi” mediante la sovrapposizione delle diverse impressioni sulla città ricavate dagli “uomini della strada” che in vario modo hanno collaborato all’impresa: questi sono gli strumenti (l’armamentario tecnico della sociologia più ammodernata) dei quali Lynch si giova per la sua analisi dell’ambiente urbano. Una simile analisi, tuttavia, non resta per il Lynch fine a se stessa. Dallo studio e dall’elaborazione del materiale in essa raccolto, dall’indagine accurata e minuziosa delle sensazioni che i mille oggetti di cui è composta la città (vie, case, insegne, quartieri, alberi, argini, fiumi, monumenti, arredi, parchi) sollecitano e suscitano negli abitanti, lo studioso americano intende desumere le leggi che consentano di costruire ambienti urbani dotati dell’attributo che più lo interessa: dotati cioè di figurabilità, ossia di quella “qualità che conferisce a ogni oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore una immagine vigorosa”.
Crediamo di vedere, sottese all’impostazione di Lynch, due esigenze la cui validità ci sembra incontestabile, e che è tanto più interessante porre in rilievo, in quanto esse trapelano da un contesto d’idee e di convinzioni che a nostro avviso è viziato (come subito vedremo) da gravissimi limiti. Ci.sembra intanto, in primo luogo, che l’interesse dimostrato per la figurabilità possa alludere (certo ambiguamente) all’esigenza di ricondurre l’attenzione dell’urbanista su quello che è il suo più pertinente e peculiare campo d’azione: la forma della città, i valori estetici che in essa devono esprimersi. Ci sembra poi, in secondo luogo, che nel proposito di vedere e di studiare la città attraverso gli occhi dei suoi abitanti, si nasconda in qualche modo la esigenza di assumere l’uomo come punto di partenza dell’operazione urbanistica.
Ma quale uomo? I limiti della posizione di Lynch divengono subito palesi. “Pragmatismo e sociologismo americano costituiscono il sostrato culturale a cui va ricondotto il suo pensiero”, e di conseguenza l’uomo è per lui, ovviamente, l’uomo dato, l’uomo di Boston o di New Jersey o di Los Angeles, così come può esser colto secondo i metodi e con “le distinzioni della psicologia sperimentale”. È un uomo “metastorico e metaculturale”, nel senso di una disumana e alienante astrazione: non nel senso cioè che possa e sappia giudicare e criticare la cultura e la storia per utilizzarle e rinnovarle, ma nel senso che, concepito ormai come “un organismo biologico legato alle sensazioni elementari e alle necessità pratiche”, vive, di necessità, solo nel presente e, distaccandosi da ogni legame con qualsivoglia tradizione, si è identificato con quel solo momento della sua storia che è appunto, con le sue ideologie, con la sua cultura, la società opulenta.
La generica forza di convinzione delle “immagini” urbane; la mera “percezione visiva” suscitata nel singolo individuo (e sia pure nelle “centinaia di migliaia di individui” statisticamente sommati) dai vari e disparati elementi della città di oggi; la “capacità d’orientamento” che quest’ultima richiede all’uomo che in essa s’avventura: questi sono i fenomeni che interessano il Lynch. E allora, fatalmente, mentre l’esigenza di ricondurre l’attenzione sui problemi della forma si dissolve in uno sterile formalismo psicologico-emozionale, la sua totale indifferenza per una definizione intrinsecamente autosufficiente e non contraddittoria della città lo rende pienamente disponibile per l’opulentismo, Nella patria del Lynch, d’altronde, la società opulenta non si identifica forse, quasi senza più residui, con quella situazione data che nella concezione e nell’ideologia dell’empirismo neopositivistico esaurisce ogni possibilità?
È chiaro dunque perché, sulla base della posizione del Lynch, la città è un fenomeno al quale non è possibile conferire alcun ordine. Essa non è il luogo di una cittadinanza, non è il luogo in cui risiede e opera una società; è soltanto e semplicemente l’ asilo (e la sorgente dei godimenti “visivi” o”percettivi”) di una moltitudine di individui, i quali vivono la loro libertà in modo meramente singolare e particolaristico. Non vi sono quindi - non possono esservi - leggi capaci di regolarla, né ideali comuni che possano darle una ragione.
3. La critica di un comunista.
Il processo dello sviluppo opulento non viene tuttavia tranquillamente accettato dall’insieme dell’attuale cultura urbanistica. Oltre alle due posizioni delle quali ci siamo ora occupati, e che possono venire entrambe riportate a un’identica matrice funzionalistica, esiste infatti - come abbiamo accennato - una terza posizione, caratterizzata dal fatto di avvertire l’estensione e la gravità della crisi cui è giunta l’intera vita sociale nella svolta dal capitalismo borghese all’opulenza, e di opporsi alle conseguenze che tale crisi comporta sul terreno dell’urbanistica, senza individuare peraltro in tutta la sua ambiguità - e dunque anche nella sua potenzialità positiva - la portata di quella svolta.
Una simile posizione è sostanzialmente espressa da un noto urbanista italiano d’orientamento marxista, Carlo Aymonino. Appunto per questo motivo, appunto cioè perché ci sembra che l’Aymonino possa essere considerato un significativo esponente della posizione che ora ci interessa esaminare, ci soffermeremo brevemente sulle sue tesi.
All’Aymonino, senza dubbio, non sfuggono le negatività presenti nell’attuale condizione della città, ma cade nell’errore (di utopistica radice) di un’apodittica negazione di tutta la realtà storica. L’informità della “città terziaria” e il suo carattere parassitario e superfluo; la dissoluzione della città, da “concentrazione stabile produttiva e culturale [...] in una concentrazione temporanea che tende sempre più ad assolvere il solo compito dello sviluppo forzato dei consumi”; la “marcata accentuazione di taluni consumi individuali che divengono “fine a se stessi” e che finiscono per condizionare “l’intera struttura urbana”; infine, “la generale tendenza alla fuga dalla città, verso un territorio che sempre più assume anch’esso gli “aspetti , alienati ‘ della città stessa”, tutti questi fenomeni, che indubbiamente e palesemente caratterizzano la città dell’assetto opulento, sono colti e enumerati (e naturalmente condannati) con una sensibilità critica e una decisione che derivano allo studioso dalla sua esperienza comunista. Tuttavia, l’Aymonino si limita a enumerare semplicemente tali fenomeni, descrivendoli con una certa sommarietà: egli non li analizza e non tenta di individuarli nelle loro cause. La realtà è che egli non intuisce il fatto che la crisi, di cui pur egli coglie tutti gli aspetti negativi,costituisce una svolta effettiva nel processo storico: poiché precisamente l’approdo opulento è senz’altro una novità, una fuoriuscita dall’ordinamento capitalistico-borghese.
I due modelli (quello capitalistico-borghese e quello opulento ), non vengono neppure distinti.. La situazione attuale - la situazione dell’opulenza - è presentata, fuori da ogni sua ambiguità, come un mero deterioramento di quella borghese; la città contemporanea è semplicemente il prodotto di alcune “trasformazioni”, sia pure “notevoli”, della città capitalistico-borghese: e non a caso, sembra talvolta che “l’elemento determinante” di tali trasformazioni debba esser visto unicamente nella “tendenza, da parte delle imprese industriali [ ...] a lasciare la città”.
Ne consegue che l’Aymonino identifica il superamento dell’assetto opulento (il quale tuttavia, et pour cause, non è mai definito come tale dall’Autore) nel rovesciamento dell’assetto capitalistico-borghese - in realtà, come tale, già storicamente finito - e nell’approdo più rapido possibile alla soluzione rivoluzionaria prevista e preconizzata dal marxismo; la quale però, poiché l’avversario che combatteva è stato ormai liquidato dall’opulenza, non si presenta più con le caratteristiche di quella mordente incisività sulla realtà storica che così a lungo ha sostenuto il movimento operaio e ne ha determinato la coscienza e la capacità di lotta, ma deve ormai dispiegarsi, nel vuoto, in tutto il suo astratto contenuto ideologistico, e dunque come salto qualitativo assoluto. Non a caso l’Aymonino, lungi dal partire da una differenziata analisi critica della città di oggi, e insomma da un esame che permetta di rilevare l’ambiguità e di distinguere la potenzialità positiva della città opulenta, dirige sostanzialmente il suo sforzo a dedurre, da una ideale città del futuro, quelle regole che l’urbanistica dovrebbe adoperarsi a imporre al magma confuso e caotico della megalopoli moderna.
E qual’è poi “l’idea generale”, qual’è “la nuova condizione umana, di valore universale”, che in tali regole dovrebbero esprimersi? Di necessità, l’una e l’altra non possono non essere quanto mai indeterminate e vaghe: “la molteplicità delle scelte” per “la più completa libertà sociale” è infatti, per l’Aymonino, quel contrassegno decisivo della società di domani, che nella città d’oggi bisogna prepararsi a esprimere “in termini formalmente compiuti”.
La scarsa chiarezza di tali formulazioni - che l’Autore d’altra parte riconosce di dover “verificare con una ricerca più approfondita” - giustifica il tentativo d’interpretarle. E l’interpreteremo secondo una chiave che l’Aymonino medesimo, con una sua citazione conclusiva di un brano di Marx, sembra suggerire e legittimare: secondo una chiave marxiana.
Ma prima di accingerci a questo tentativo, vogliamo osservare che il brano di Marx citato dall’ Aymonino - soprattutto se letto nel suo contesto - non ci sembra particolarmente calzante con l’”ipotesi di ricerca” alla quale lo studioso comunista vuole riferirlo. Marx sostiene infatti che “la natura della grande industria porta con se variazioni del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Si è visto - prosegue Marx - come questa contraddizione assoluta elimini ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell’operaio, e minacci sempre di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale; e come questa contraddizione si sfoghi nell’olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale. Questo è l’aspetto negativo. Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l’effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell’operaio come legge sociale generale della produzione e l’adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita e di morte. Per essa diventa questione di vita e di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l’un con l’altro.
Marx coglie quindi una contraddizione tra la “grande industria” e la “sua forma capitalistica”, e riconosce nell’”individuo totalmente sviluppato” un obiettivo che si raggiungerà solo con l’”inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia”. Ma ci ‘sembra chiaro che un simile obiettivo è, nella dottrina comunista e marxista, soltanto un obiettivo storico, intermedio; un obiettivo che si colloca pur sempre all’interno di quella “sfera di produzione materiale vera e propria” da cui è indispensabile uscire per raggiungere, nella sua pienezza, il “regno della libertà”. Ci sembra in definitiva che sia a una siffatta “libertà”, e non a quella direttamente e quasi tecnologicamente legata alla “grande industria”, che l’ Aymonino si riferisca: ci stupirebbe, oltretutto, che la nuova condizione umana di valore universale, cui l’ Aymonino allude, fosse esclusivamente legata a una determinata “forza produttiva”, quale la “grande industria” indubbiamente rimane.
4. Città comunista e città opulenta: due prospettive coincidenti?
In realtà, come è sufficientemente noto, nella posizione marxiana e marxista la condizione umana di piena libertà, quella condizione che comporta il salto qualitativo dal “regno della necessità” al “regno della libertà”, si viene a realizzare e a concretare nella fuoriuscita dal lavoro: e cioè da quel momento insostituibile della vicenda dell’uomo, da quel fondamentale aspetto della sua operazione, che nel marxismo è vissuto come contingente - o meglio storica - alienazione, e nel cui superamento pienamente si identifica il punto di discrimine tra un’esistenza umana determinata “dalla necessità e dalla finalità esterna”, e un’esistenza vissuta invece, finalmente, come libero e dispiegato “sviluppo delle capacità umane”.
Non ci sembra una pretestuosa forzatura delle tesi dell’Aymonino, né un’avventata estrapolazione di esse, sostenere - come sosteniamo - la coincidenza tra la città in cui sarà verificata “la più completa libertà sociale” e la società che sarà marxianamente pervenuta al “vero regno della libertà” uscendo dalla necessità del lavoro. C’è dato allora di cogliere il perché della insufficienza e dell’astrattezza dell’ “ipotesi” dell’Aymonino, nella sua pretesa di essere proposta risolutrice dei problemi della città d’oggi. Bisogna infatti convenire che, per la posizione di cui ci stiamo ora occupando, la città dell’avvenire, la città della “molteplicità delle scelte” e della “più completa libertà sociale” - quella città da cui pur debbono trarsi le regole per ordinare la realtà urbana di oggi - è vista e prefigurata come la città in cui si è raggiunta quella “condizione fondamentale” per l’avvento del “vero regno della libertà” che Marx vedeva in una massima “riduzione della giornata lavorativa”, e in cui perciò l’estensione generalizzata del tempo libero è divenuta la condizione comune di una umanità affrancata dall’alienazione del lavoro.
Ma pur tralasciando ogni considerazione di principio sulla validità umana di una simile prospettiva, dobbiamo peraltro necessariamente sottolineare che entro una tale ipotesi la tensione rivoluzionaria del comunismo finisce inevitabilmente per identificarsi con la realtà storica dell’opulenza. È stato proprio uno studioso di formazione marxista, Herbert Marcuse, a cogliere con singolare acutezza il fatto che, nella realtà della società opulenta, viene esclusivamente a concretarsi proprio quella tesi marxiana “secondo cui il regno del lavoro non può che restare il regno della necessità [ ...] , mentre il regno della libertà può svilupparsi unicamente al di fuori e al di sopra del regno della necessità”. Afferma infatti ancora il Marcuse:
“Io credo che qui dovremmo discutere se nella società industriale ad alto sviluppo questa concezione possieda ancora un valore in generale, ed è probabilmente questo il punto più cruciale di tutta la questione: amiamo tutti i concetti di piena realizzazione di ciascuno, di libero dispiegamento delle capacità individuali, a tutti sta a cuore l’eliminazione dell’alienazione, però oggi dobbiamo domandarci: che senso ha una cosa del genere? Che senso ha, se nella società tecnologica di massa il tempo lavorativo, il tempo lavorativo socialmente necessario, è ridotto al minimo e il tempo libero quasi tocca le proporzioni di un tempo pieno? Che fare allora? Se ancora indulgiamo a espressioni venerande come “lavoro creativo” o “sviluppo creativo”, non verremo a capo di nulla. Che senso ha oggi quella vecchia istanza? Vuol dire che tutti andranno a pesca o a caccia, che scriveranno tutti poesie o dipingeranno e via elencando? So bene che è facilissimo tirare al ridicolo in queste cose, e in questo momento mi esprimo in modo provocatorio, giacché proprio questo è per me uno dei più seri problemi del marxismo e del socialismo, e penso non di questi soltanto. Proprio su questo punto dobbiamo acquisire concretezza, e non limitarci più a discorrere di autodispiegamento dell’individuo e di lavoro non alienato, ma porci la domanda: che senso ha una cosa del genere? Perché la progressiva riduzione del lavoro necessario non è più un’utopia, bensì una possibilità molto reale”.
Allora la città del futuro, la città nella quale ci si illude di trovar la legge per superare le negatività presenti nella città contemporanea, viene a coincidere, praticamente senza residui, con la città dell’opulenza. Infatti, come abbiamo dimostrato, il tempo libero non è altro che il portato naturale dell’evoluzione del sistema in cui il lavoro è ridotto - sulla base della originaria operazione dello sfruttamento - a capitale; di quella evoluzione, precisamente, che ha nell’assetto opulento il suo punto terminale e invalicabile.
Quindi affrontare oggi il problema della città entro la prospettiva di una libertà realizzata come uscita dal lavoro, conduce, di fatto, semplicemente a proseguire lo sviluppo opulento dell’insediamento urbano, venendo a porre oggettivamente in crisi ogni volontà rivoluzionaria di rinnovamento; sicché, seppur si vuole salvare quest’ultima, seppur si vuole rimanere fedeli, si è necessariamente sollecitati alla fuga in avanti nell’utopia e nell’estremismo. In realtà, proprio dalle posizioni come quelle dell’Aymonino si sprigiona spesso una tensione ad accelerare ed estremizzare quel processo di trasformazione opulenta della città che - lo abbiamo visto - porta alla fine, inevitabilmente, l’insediamento urbano al suo destino di crisi: a quel destino, cioè, che vede l’unica possibile uscita dalla congestione metropolitana (e dalla conseguente paralisi della vita urbana) nella dispersione delle residenze e nella dissoluzione dell’organismo cittadino.
Ma c’è di più: poiché il limite della piena uscita dal lavoro e della generale affermazione del tempo libero rimane semplicemente un limite, poiché in altri termini non si raggiunge mai, per i motivi che abbiamo più sopra enunciati, la piena e definitiva uscita dalla forma (fenomenologica, sociologica, psicologica) del lavoro e il tempo libero viene invece largamente vissuto come lavoro superfluo, ecco che la posizione della quale ci stiamo ora occupando deve rivelare, come necessario contrappunto all’estremismo, anche il proprio velleitarismo. Ed ecco allora che, mentre da un lato, come prima s’è visto, si è dovuta far propria la prospettiva e la tendenza dello sviluppo opulento, dall’altro lato, ogni qual volta ci si propone di far concretamente i conti con le cose, si è costretti ad accettare la realtà dell’opulenza così come questa storicamente si presenta. Ci si riduce, perciò, in definitiva, accantonando la critica e l’opposizione alle conseguenze dell’opulentismo, a rimaner subalterni a quest’ultimo anche nell’immediato: ad accettare in sostanza questa città così come il processo opulento la va configurando, e a celebrarne gli aspetti più caratterizzanti e negativi: il “problema” del tempo libero, la centralità delle attività terziarie, la genericità e la fungibilità dei valori e dei contenuti.
Non ci sembra dunque casuale se nell’attuale pratica professionale degli urbanisti italiani si rileva spesso una chiara tendenza formalistica, dalla quale non è esente chi, come l’ Aymonino, pur partendo dalla premessa della necessità di un impegno nell’analisi e nella trasformazione della società, e cogliendo poi una serie di importanti aspetti della nostra realtà sociale e urbanistica, non raggiunge però una sufficiente consapevolezza dei problemi e delle prospettive del nostro tempo. Una prova significativa di tale tendenza formalistica è costituita, crediamo, dalla fortuna che ha incontrato - proprio tra gli urbanisti più vicini alla posizione che abbiamo ora analizzato - la tematica non priva d’interesse, ma certo ambigua, dei contenitori. Questi sono infatti presentati e concepiti spesso come organismi urbanistici e architettonici nei quali è possibile svolgere, indifferentemente, una serie di funzioni estremamente varie e diverse (commerciali, residenziali, burocratiche e amministrative, artigianali, scolastiche, ricreative e così enumerando), senza che nessuna di esse conferisca un qualche carattere distintivo all’edificio nel quale vien svolta. Il contenitore, in altri termini, si configura come una struttura edilizia e urbanistica massimamente fungibile e ”poli-funzionale”, disponibile per qualunque contenuto, e ridotta quindi tendenzialmente a pura forma, ossia a mera empiricità generica.
5. La questione delle “attrezzature collettive”
C’è un tema, fra tutti quelli che oggi costituiscono argomento di studio e di discussione tra gli urbanisti, che nonostante la sua apparente settorialità e il modo in cui finora è stato affrontato, ci sembra comunque - per tutto quello che abbiamo fin qui i sostenuto - particolarmente interessante e merita senz’altro di essere preso in considerazione: è il tema delle cosiddette “attrezzature collettive”. È chiaro il motivo di questa nostra affermazione: le “attrezzature collettive” costituiscono, infatti, i luoghi, le aree, gli edifici predisposti e organizzati per la soddisfazione di una serie di esigenze di carattere pubblico e comune; esse costituiscono dunque, per ciò stesso, un momento urbanistico legato a quella realtà del consumo comune di cui abbiamo ribadito più volte l’importanza e la decisività.
Le attrezzature scolastiche e per l’infanzia, le chiese e i centri parrocchiali, le attrezzature sanitarie e quelle ricreative e sportive, i centri culturali e le biblioteche, le attrezzature per l’esercizio dei diritti democratici, i centri sociali e quelli civici, i centri commerciali e le attrezzature collettive domestiche: queste sono - in una delle classificazioni correnti - le principali categorie di “attrezzature urbanistiche” oggi riconosciute. E non è forse evidente che esse costituiscono una sorta di prolungamento di quei luoghi e quegli edifici (l’acropoli, la rocca, l’agorà, il foro e l’arengo, il tempio e la cattedrale) che nella città classica e in quella medievale costituivano i punti focali della vita cittadina e i nuclei dell’ordinamento formale dell’organismo urbano? Non sono esse forse lo sviluppo di quei servizi collettivi che Owen e Fourier ponevano al centro delle New Harmony o dei Falansteri? Tutto ciò è talmente ovvio e palese che non merita certo di soffermarvisi più a lungo. Ma quel che vogliamo ora sottolineare è che la questione delle “attrezzature collettive”, ove sia posta al centro dell’interesse e dell’impegno di quanti si occupano del destino della città contemporanea, se consente di cogliere, nell’immediato, l’occasione dell’opulenza, costituisce anche un iniziale superamento dei suoi limiti.
In effetti, dato che l’assetto opulento è caratterizzato dal fatto che, nel suo ambito, il consumo di tutti è divenuto la dimensione centrale e decisiva dell’intera vita economica e sociale, e che esso può -e addirittura deve - crescere ed espandersi con una propria autonomia, ecco che esiste oggi la possibilità concreta di cogliere l’occasione dell’opulenza non solo per soddisfare, in modo via via più ampio, i bisogni che vengono oggi avvertiti, ma per porre anzi, dispiegatamente, il consumo di tutti - nella sua nuova autonomia - come la realtà centrale e ordinatrice dell’organismo urbano: di porre perciò le “attrezzature collettive” come l’elemento decisivo della città.
D’altra parte, dal momento che il limite dell’opulentismo è soprattutto ed essenzialmente costituito, nei confronti della città, dall’individualismo che è intrinsecamente connesso al modo opulento di fruire il consumo, è chiaro che ogni sforzo orientato a consolidare o a inventare, a proporre o a sostenere forme comuni di consumo, è uno sforzo che, per ciò stesso, tende a porsi in opposizione alla logica del modello opulento, a contraddirla e a negarla e, infine e in prospettiva, a pretenderne e a prepararne il rovesciamento e la sostituzione. La questione delle “attrezzature collettive” potrebbe allora effettivamente costituire il fulcro di un’azione volta a restituire un ordinamento autonomo alla città; a operare dunque per la città di domani, cominciando a costruirla nel presente. E poiché una tale questione è stata già da tempo affrontata, dalla cultura e dalla prassi urbanistica, si tratta di vedere adesso in che modo gli urbanisti abbiano saputo lavorare su di un simile tema.
Occorre innanzitutto rilevare, a questo proposito, che negli ultimi anni si è manifestato nel nostro paese un rinnovato interesse per il problema delle “attrezzature collettive”, e che un primo frutto di tale interesse può esser già oggi individuato in alcuni parziali approfondimenti di quel problema, i quali, pur senza costituire delle clamorose novità -e, soprattutto, senza aver condotto ancora a un organico e complessivo sviluppo della questione delle “attrezzature” -, indicano tuttavia una positiva tendenza della cultura urbanistica, che ci sembra interessante sottolineare per due motivi particolari.
Innanzitutto perché, dal momento che quegli approfondimenti non nascono da un tentativo di individuare le ragioni di principio dell’operazione urbanistica, e sono invece essenzialmente sollecitati dalle esigenze della pratica, essi - se sono ancora, appunto per tale motivo, precari e insufficienti - costituiscono però una prova ulteriore di un fatto al quale abbiamo già accennato: del fatto, cioè, che è la medesima realtà d’oggi, la realtà dell’opulenza, a pretendere ( e a consentire) un più largo e impegnato interesse al tema delle attrezzature urbanistiche. In secondo luogo, perché nella capacità dimostrata dagli urbanisti (o, almeno, dai migliori di loro) di avvertire e registrare la sollecitazione che scaturisce dalla concreta realtà sociale (quella sollecitazione per uno sviluppo del consumo di tutti, di cui s’è detto), si può scorgere un confortante segno di speranza per una loro più matura presa di coscienza.
La necessità di superare la tradizionale separazione tra “residenze” e “attrezzature”, e la conseguente concezione dello sviluppo della città come una continua “aggiunta” di unità integrate, in cui le parti tradizionalmente “residenziali” costituiscono solo un aspetto, inscindibile dagli altri; la proposta di realizzare un “telaio” di “attrezzature collettive” come struttura ordinatrice dell’organismo urbano, e dell’intero territorio, al quale è tendenzialmente esteso “l’effetto città”; l’esigenza di sottrarre “le attrezzature collettive” ai criteri strettamente funzionalistici o fisiologici che, nell’impostazione tradizionale, ne regolavano avaramente il dimensionamento, e la tendenza invece a stabilire degli “standards” fondati sulla previsione di un più largo affermarsi della dimensione sociale della vita dei cittadini , queste sono, tra le nuove acquisizioni dell’urbanistica italiana, quelle che ci sembrano più interessanti e promettenti. In esse, infatti, comincia a manifestarsi empiricamente non solo una generale tendenza a estendere quantitativamente il peso delle “attrezzature collettive” e a precisare e ad affinare i metodi per una loro migliore determinazione, ma, soprattutto, una iniziale e positiva volontà: la volontà di rompere le barriere che separano il consumo pubblico dal consumo privato e di vivere ogni momento della “residenza” come consumo pubblico; la volontà di ricondurre un tale consumo al suo ruolo di elemento centrale e ordinatore della città; di valutare e misurare l’efficacia dell’operazione urbanistica in base al grado di fruibilità del consumo comune assicurato a ogni cittadino dalle sistemazioni urbanistiche stesse; di trovare infine, proprio sul terreno del consumo pubblico e comune, il decisivo e peculiare punto d’incontro tra l’urbanistica e la realtà sociale.
6. L ‘ipotesi del “modello nucleare”
Certo, una siffatta volontà, proprio perché per ora è generalmente vissuta come empirica approssimazione, proprio perché non è ancora sufficientemente fondata ne su di una chiara ed esplicita consapevolezza dei principi peculiari alla disciplina urbanistica né su di una rigorosa analisi del processo storico contemporaneo, rischia di stemperarsi nella ovvietà del praticismo - o addirittura di dissolversi nelle frivolezze brillanti di una moda -, e minaccia contemporaneamente di risolversi in una mera velleità tecnocratica.
Già altre volte la tendenza tecnocratica e il velleitarismo demiurgico hanno pesato sulle migliori intenzioni e sulle intuizioni più promettenti degli urbanisti. È il caso, che qui particolarmente ci interessa ricordare, di quella concezione “nucleare” della città che, pur costituendo un primo tentativo moderno di conformare 1’insediamento umano sulla base di una determinata organizzazione delle attrezzature, si traduceva poi in uno schema razionalisticamente e astrattamente precostituito dei modi della convivenza sociale, il quale non trovava alcuna effettiva corrispondenza nella realtà della società civile, e tentava perciò di sovrapporsi a quest’ultima come una soffocante camicia di Nesso oppure - più sovente - veniva da essa anarchicamente rifiutato e infranto.
Non vogliamo affermare con questo che non abbia, in linea di principio, alcun senso la tesi secondo cui la società (e dunque anche la città) debba trovare la propria più peculiare e armonica organizzazione in una gamma via via crescente di organismi e istituti e livelli associativi, che dall’iniziale nucleo sociale della famiglia si allarghino a mano a mano fino a comprendere l’intera umanità. In questo senso, anzi, ci sembra che i propugnatori del “modello nucleare” abbiano colto, sia pure implicitamente e con tutti i limiti di un’approssimazione astrattamente sociologica, una importante verità di principio, che sarebbe del tutto erroneo negare seccamente, respingendo la vita sociale ai suoi poli estremi: l’individuo e l’umanità.
Resta tuttavia indiscutibile il fatto che oggi, nella concreta situazione della nostra epoca, la vita sociale non è organizzata - né è immediatamente organizzabile - secondo i moduli ipotizzati nel “modello nucleare” della città. Così, mentre l’esclusivizzata astrattezza di un tale modello conduceva i suoi sostenitori a esaltare gli ipotetici elementi di coesione entro i vari “livelli associativi” da essi previsti (e a trascurare di conseguenza le relazioni tra i diversi “livelli” ), la loro preoccupazione di valorizzare una sociologica “scala umana” li portava a dissolvere tendenzialmente l’unitarietà dell’intero organismo sociale e urbano in nome di una velleitaria - o soffocante - compattezza dei “livelli” elementari (le “unità di vicinato”, le “comunità”, i”quartieri”). E perciò appunto, essi erano inevitabilmente condannati a raggiungere, con la loro azione, due sbocchi pratici entrambi negativi.
Da un lato, infatti, nella misura in cui le loro schematiche teorie riuscivano a trovare una qualche concreta applicazione, essi potevano ancorarsi, entro il sistema sociale storicamente dato, a un unico punto di riferimento, a una sola struttura organizzativa: quella costituita dalla dimensione produttiva. Nascevano così i”quartieri operai”, o le “comunità” strettamente e funzionalmente asservite - in modo più o meno paternalistico - a questa o a quell’altra fabbrica; nascevano, insomma, le unità residenziali pienamente e direttamente appiattite alle leggi e agli interessi aziendali, segregate e rinchiuse nel cerchio angusto di una realtà produttiva prevaricatrice e alienante. Ma dall’altro lato, nella misura in cui la vita sociale rifiutava di farsi imprigionare negli schemi razionalistici e nelle tecnicistiche astrazioni dei propugnatori del “modello nucleare”, quest’ultimo veniva semplicemente vanifìcato e dissolto dall’incontro con la concretezza delle cose, e rivelava tutto il suo velleitarismo. La forza spontanea della vita sociale operante nella città - di una vita sempre più dominata dal dispiegarsi del consumo opulento -, sebbene priva di un suo ordine sufficiente disgregava le tecnocratiche illusioni dei pianificatori, e svuotava di contenuto e di significato i loro tentativi e i loro progetti.
7. La “linea degli standards”
A un destino analogo va incontro chi, senza rendersi conto della reale portata e della potenzialità di rinnovamento che è sottesa al tema delle “attrezzature collettive”, vede in esso unicamente il problema di assicurare ai cittadini, in aggiunta alle dotazioni edilizie di cui già possono disporre (case, alloggi, stanze), “adeguate” dotazioni urbanistiche di verde attrezzato, di aree ed edifici scolastici, e così enumerando.
È esattamente ciò che accade nell’ambito di quella che può esser definita la “linea degli standards urbanistici”. Infatti entro questa linea si perviene, è vero, a comprendere che il problema della città può esser risolto solo se si pone l’accento sugli elementi pubblici, comuni, collettivi: ma questi ultimi non vengono visti come l’elemento ordinatore dell’intero insediamento umano, come il principio stesso della città, come il momento decisivo di quest’ultima e di ciascuna delle sue parti. Gli elementi pubblici vengono considerati invece unicamente come delle aggiunte , come delle integrazioni, che devono completare un assetto delle città che può, in definitiva, restare quello tradizionale.
Poco importa in altri termini, agli assertori della “linea degli standards”, che la porzione volumetricamente più consistente della città (quella costituita dagli edifici destinati alla residenza) resti sostanzialmente immodifìcata, e perciò dominata da una concezione individualistica dell’abitare. Poco importa che ogni uomo, ogni cittadino, resti un individuo nel suo alloggio, e che continui a fruire entro di esso un consumo individualisticamente organizzato: basta solo che ogni individuo possa disporre, oltre che dell’alloggio tradizionalisticamente inteso, anche di determinate quantità di aree destinate a usi comuni e pubblici.
È facile rendersi conto dell’insufficienza di una linea siffatta. Essa, in primo luogo, è una linea meramente riformistica, e come tale è per principio subordinata al sistema dato. Non abbiamo forse affermato che gli elementi pubblici sono concepiti - entro quella linea - solo come aggiunte e integrazioni? Ma allora, essi vengono inevitabilmente concessi unicamente laddove ( e nella misura in cui) il sistema può concederli, senza nulla modificare della propria sostanza. Per ciò appunto, la città che è possibile conformare secondo la “linea degli standards” non solo è una città nella quale i superamenti dell’individualismo sono sempre inevitabilmente parziali, hanno sempre un carattere meramente sussidiario, non solo è una città in cui ibridamente convivono elementi comuni e parti dominate dall’individualismo, ma è poi un insediamento nel quale quel tanto di elementi comuni, non più individualistici, che è stato concesso, può essere in ogni istante contraddetto e negato.
La “linea degli standards” è dunque anche una linea velleitaria. In effetti, in tutto il periodo in cui il processo dell’opulenza è ancora al suo inizio, la richiesta di dotazioni in aggiunta deve inevitabilmente venir respinta, perché la spesa che essa inevitabilmente comporta, mentre non appare oggettivamente necessitata, non corrisponde d’altra parte a una qualche riduzione di spesa (quindi a una liberazione di risorse) in un altro punto dell’assetto urbanistico e sociale.
Poi, a mano a mano che l’evoluzione opulentistica fa scomparire - nell’inutile abbondanza - ogni problema di risorse, e che diviene perciò economicamente possibile soddisfare la richiesta di quelle dotazioni in aggiunta, l’ibridismo tra elementi comuni e parti individualistiche d’1ll’insediamento viene fatalmente a risolversi nell’unico modo pienamente compatibile con l’opulentismo: con la fine cioè, con la scomparsa e la vanificazione, di quel tanto di elementi comuni che è riuscito a manifestarsi e a concretarsi, e con il trionfo di quell’insediamento disperso che segna evidentemente la fine di ogni linea legata all’espressione degli elementi comuni della città.
8. L ‘indispensabile punto di partenza
Disconoscere il carattere ambiguo dell’opulentismo impedisce di portare un contributo risolutivo alla crisi della città; si è infatti portati, inevitabilmente a una evoluzione del sistema sociale che è letale per la città, oppure - sottolineando esclusivamente ,gli aspetti negativi dello sviluppo opulento e impedendosi così di scorgere la potenzialità positiva che ambiguamente convive nella complessa realtà dell’opulenza - a vedere l’unica strada in un’astratta e velleitaria fuga in avanti. Ma non basta neppure - lo abbiamo visto - avvertire solo empiricamente la centralità della questione degli elementi comuni della città: che in tal modo non si giunge a comprendere il collegamento profondo che esiste tra il problema della rinascita della città e quello dello sviluppo della società, e si è condotti a oscillare tra le tentazioni tecnocratiche e demiurgiche e le ovvietà subalterne del riformismo.
Per superare effettivamente l’opulentismo (e, con esso, la minaccia che grava sulla città d’oggi) bisogna invero riconoscerlo innanzitutto come tale: bisogna assumere cioè piena consapevolezza della svolta che esso rappresenta rispetto all’ordinamento capitalistico-borghese e coglierne quindi, insieme, il limite erroneo e l’intrinseca potenzialità positiva. È solo in tal modo, è solo nel quadro di una reale e dispiegata comprensione dell’opulentismo e della concreta possibilità di superamento che in esso si manifestano, che possono oltre tutto acquistare un significato non velleitario ne generico alcune intuizioni che sono contenute nelle posizioni più interessanti della presente cultura urbanistica; è solo in tal modo che diviene possibile dare una ragione, un senso, una prospettività, una profondità storica a quelle concrete iniziative, oggi ancora vissute empiricamente, nelle quali i migliori urbanisti italiani dimostrano di saper cominciare a cogliere - almeno praticamente e nelle cose - la possibilità costituita dall’opulenza.
Per conto nostro, crediamo di aver dimostrato a sufficienza in che cosa risieda una simile possibilità; abbiamo anzi già accennato a una generale linea d’ azione (quella, in sostanza, che consiste nello sviluppo del consumo di tutti in consumo comune) attraverso cui quella possibilità può divenire effettuale. Ma come può cominciare a svo1gersi, concretamente e nei fatti, una simile linea d’azione? Come partire per cogliere l’occasione dell’opulenza e per dar principio a quel superamento dei limiti dell’opulentismo, che è indispensabile per liberare la città dalla minaccia che grava su di essa, e per darle anzi un volto pienamente estetico?
Occorre innanzitutto uscire dal chiuso dei discorsi strettamente settoriali e specialistici, e sforzarsi invece di legare la tematica urbanistica, nel suo complesso, alla concretezza, alla carne e al sangue della vita sociale: e precisamente alla vita di una società che, giunta ormai all’opulenza, è contraddistinta dalla piena affermazione del momento del consumo. Siamo così riportati al nostro primo problema: il problema di sviluppare, di rendere consapevole, di portare a piena conoscenza, quella volontà di conformare la città d’oggi secondo le esigenze del consumo comune. Una simile strada, può oggi esser effettivamente percorsa? Esiste insomma la possibilità che la società venga incontro agli urbanisti, e li strappi finalmente da quell’isolamento, da quell’amara e distaccata solitudine, in cui intristiscono le loro migliori intuizioni? La risposta, in linea di principio, non è davvero difficile, dopo tutto quel che abbiamo finora argomentato; anzi, ne discende direttamente e immediatamente.
E in effetti, poiché nell’assetto opulento si è affermato un consumo di tutti che pretende oggettivamente e inconsapevolmente di liberarsi dalle mistificazioni dell’individualismo, e aspira a svilupparsi in consumo comune, deve certamente esistere, nella società, un insieme di forze che sollecitano a tale sviluppo, e che vi sono anzi vitalmente interessate. È allora proprio nel collegamento con queste forze che l’urbanistica può trovare non solo il sostegno tattico, ma soprattutto l’alleanza strategica. Essa può ritrovarvi cioè, insieme con quel positivo condizionamento che le garantisca di evitare la tentazione demiurgica e velleitaria, anche quel radicamento di principio nella storia che le consenta di acquisire la base per l’esplicazione della propria autonomia.
Per individuare queste forze dovremo approfondire l’esame dell’opulenza, spostando però l’attenzione, dal terreno dei princìpi e dalle leggi di fondo, al terreno della concretezza storica e del processo attraverso il quale l’opulentismo si viene manifestando e affermando, soffermandoci in particolare sulle contraddizioni sociali che nel corso di quel processo si sviluppano.
I giovani, gli studenti dei paesi nei quali il processo opulento si è maggiormente sviluppato, i figli di quel medio ceto largamente parassitario e privilegiato che è il primo benefìciario dei consumi opulenti, sono stati tra i primi a esplodere e a ribellarsi. Ma la rivolta delle università è soltanto un avvertimento, è un segnale della tensione nascosta sotto le levigate apparenze della «società del benessere». In altri modi, per altre vie, lungo altre linee di frattura possono erompere e liberarsi quelle contraddizioni che lo sviluppo dell’opulenza viene man mano ad accumulare.
Quali sono però queste contraddizioni? Possono esse costituire la base materiale di una politica diretta alla fuoriuscita dai meccanismi dell’opulenza e alla fondazione di un differente sviluppo? Ci proveremo adesso a rispondere a entrambe queste domande.
Ciò che ci sembra di dover in primo luogo sottolineare è che lo sviluppo opulento, nella sua fase iniziale, non si presenta certamente come una realtà capace di superare in modo pieno, e quindi di risolvere effettivamente, le antiche contraddizioni: quelle cioè che in qualche modo costituiscono il risultato cumulativo degli errori, delle parzialità, dei limiti, da cui è stato contrassegnato il processo storico. Anzi, è facile vedere che l’opulenza, proprio per le intrinseche leggi che regolano il suo sviluppo, se certamente perviene a ridurre via via l’incidenza sociale e politica di quelle contraddizioni, può farlo soltanto emarginandole, congelandole, regalandole, per così dire, ai confini della realtà da essa più direttamente dominata: conservandole insomma come sacche, quasi perpetua testimonianza delle parzialità del suo stesso sviluppo.
Si rifletta, ad esempio, sulla grande contraddizione a scala mondiale tra i paesi del capitalismo maturo e i paesi della miseria e della fame: una contraddizione che pesa già gravemente sulle decisioni di politica internazionale dei paesi ricchi, e perciò sulle stesse condizioni del loro assetto interno. Ebbene, è anche troppo chiaro che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, quella contraddizione non può non permanere e non accentuarsi. Nulla invero, del meccanismo e della logica dello sviluppo opulento, può far prevedere che la grande contraddizione a livello mondiale dei nostri tempi possa venir risolta o riassorbita; tutto, anzi, indica il contrario, e precisamente l’inevitabilità, entro il quadro dell’opulenza, di un progressivo approfondirsi di quel pauroso abisso che già spacca l’umanità in due tronconi, con l’esplosione di nuovi eccidi, nuove catastrofi e nuovi massacri.
Si rifletta, ancora, su quella tipica contraddizione che si manifesta nella realtà del nostro paese (ma non solo del nostro), e che investe la campagna e il mondo contadino. È questa, certamente, una contraddizione tipica dello sviluppo capitalistico-borghese, e difatti già i primi utopisti e, più tardi, i fondatori del socialismo scientifico non mancarono di individuarla e di criticarla. Essa non viene però positivamente risolta dallo sviluppo opulento, e viene anzi tendenzialmente eliminata attraverso una secca eliminazione del mondo contadino, al quale oggi viene indicata come unica alternativa la dissoluzione e la definitiva scomparsa, in un processo tumultuoso e spontaneistico che condanna gli abitanti delle campagne a scegliere tra due sole soluzioni, entrambe socialmente e umanamente intollerabili, e perciò gravide di tensioni. Una è quella del restare in una campagna e in un’agricoltura sempre più immiserite ed emarginate; l’altra è quella dell’abbandono disperato della terra, delle tradizioni, della classe, delle abitudini, dei vincoli familiari e sociali -e infine del naufragio nelle squallide periferie urbane e nella condizione tragicamente subalterna del sottoproletario.
Si rifletta, infine, sulla contraddizione implicita nella presente condizione femminile: una contraddizione «classica» ormai nella realtà sociale, ma non ancora nella letteratura, ne nella critica e nell’azione politica. Su quest’ultima contraddizione gioverà soffermarsi con una certa ampiezza, e ciò non solo per la scarsa consapevolezza che per essa hanno finora dimostrato il personale politico e più in generale gli intellettuali nel loro complesso, e che quindi sollecita a un esame più ampio di quello necessario per altre «questioni» ormai entrate nella coscienza comune, ma anche perché nell’attuale condizione femminile è possibile rinvenire una sollecitazione particolarmente significativa a risolvere il problema della città nel modo omogeneo alle tesi che abbiamo dimostrato e alle ipotesi che abbiamo assunto.
2. La questione femminile
La tradizionale condizione femminile (quella condizione la cui presa di coscienza determinò il sorgere del movimento di emancipazione) ha una sua fondamentale caratteristica sociale nel fatto che tutti i consumi che si svolgono nell’ambito familiare vengono organizzati e gestiti dalla donna, la quale, privata di qualunque libertà nella scelta delle proprie opportunità di lavoro, è esclusivamente relegata al ruolo di erogatrice dei servizi necessari a fruire di tali consumi. Una simile situazione (che si risolve di fatto, quali che possano essere le coperture e le mistifìcazioni, in una piena servitù della donna) poteva comunque venir subita tranquillamente e quasi naturalmente, finché il lavoro femminile extra-domestico rimaneva un’eccezione; essa doveva però rivelare tutta la sua insopportabilità umana e sociale quando l’affermarsi della produzione capitalistica, con il suo progressivo allargarsi fino a investire l’ «esercizio di riserva» costituito dalla forza-lavoro femminile, conduceva all’ingresso di quest’ultima, in aliquote sempre più ampie, nell’attività produttiva.
In effetti, all’impiego capitalistico della forza-lavoro femminile non è venuta a corrispondere una sufficiente assunzione, da parte della società, dei compiti del lavoro casalingo. Di conseguenza, nel momento stesso in cui la donna, con il suo ingresso nel mondo del lavoro, ha dato inizio al processo della propria emancipazione, essa ha dovuto però pagare lo scotto d’essere sottoposta a un doppio lavoro: quello della fabbrica, o comunque delle sue mansioni nel processo produttivo al livello sociale, e quello casalingo della ‘gestione domestica.
È appunto per tutto questo, è appunto per liberare la donna dal peso inumano e insopportabile di un simile doppio lavoro, che i più consapevoli settori del movimento di emancipazione, mentre dovevano salutare, come un positivo portato allo sviluppo storico e come una sostanziale affermazione della libertà femminile, l’ingresso delle donne nella dimensione sociale della produzione, dovevano però, al tempo stesso, lottare perché le donne fossero affrancate dalla servitù dell’altro lavoro; perché dunque la custodia e l’istruzione della prole, la cura e la manutenzione degli alloggi, la preparazione dei pasti tutti gli aspetti, insomma, dell’”economia domestica” fossero progressivamente svolti sulla base, nelle forme e con l’efficienza di un vero e proprio lavoro, e non più attraverso la servile supplenza del «lavoro casalingo».
Ma uscire effettivamente dal «lavoro casalingo», organizzare come un vero e proprio lavoro i servizi tradizionalmente svolti dalla donna nell’ambito della famiglia, è evidentemente possibile solo se i consumi cui quei servizi sono ordinati mutano anch’essi radicalmente di segno; poiché è chiaro che i consumi domestici possono essere soddisfatti mediante l’erogazione di un lavoro che sia realmente tale ( di un lavoro cioè pienamente economico, nel senso di qualificato, efficiente, socialmente organizzato), soltanto se escono dall’individualismo che inevitabilmente li caratterizza finche vengono esclusivamente vissuti nell’ambito familiare, e si sviluppano in consumo comune.
Non è questa però - ormai lo abbiamo ampiamente argomentato - la strada seguita dal processo opulento; il consumo individualistico non si muta in consumo comune, ma viene anzi esaltato e sviluppato in modo parossistico e abnorme. Non si realizza perciò quella condizione necessaria, che sola può consentire alla donna di uscire dalla condizione inumana del “doppio lavoro”, senza nulla perdere della conquista raggiunta nel processo emancipatorio. Ma v’è di più. Nella società opulenta le donne non solo non vengono liberate dalla servitù casalinga; esse, mentre vengono ribadite nella loro condizione di erogatrici di servizi domestici, sono contemporaneamente sospinte ad abbandonare quell’unica e decisiva posizione che avevano raggiunto nella loro lotta emancipatoria. Le donne, infatti, vengono indotte dall’opulentismo a lasciare il mondo del lavoro e a chiudersi in quello di una “mistica femminile” nella quale rivivono, aggiornati e ammodernati, quegli antichi e mitici “valori femminili” che avevano mistificato e coperto la servitù casalinga della donna, presentandola come la connaturata e positiva prerogativa dell’ “angelo del focolare”.
Chiara è la ragione di ciò: non è forse il lavoro, nella società opulenta, economicamente inutile? E non sono ovviamente le donne le prime a essere sollecitate e praticamente costrette ad abbandonare quel mondo della produzione nel quale esse sono ancora, in definitiva, delle parvenues? È l’esperienza di questi anni, ormai, a dimostrarlo e a confermarlo in modo inoppugnabile.
3. Le dimensioni “sovrastrutturali”
Le donne, i contadini, i popoli dell’area del sottosviluppo: ecco alcune corpose realtà sociali che l’opulenza abbandona alla crisi o al ristagno, alla disperazione o alla morte. E non sarebbe difficile dimostrare che altre realtà e dimensioni e istituti della vita sociale nei nostri tempi già stanno vivendo anch’esse (o incominciano a vivere) il momento di una loro crisi altrettanto grave e altrettanto carica di tensioni potenziali, o già in atto.
Già abbiamo accennato alla crisi e alla ribellione del mondo studentesco, in cui certamente si esprime la tipica contraddizione dell’opulenza: quella di un consumo (il consumo della scuola, dell’istruzione, della cultura), che è ormai diventato di massa, ma viene ancora organizzato, amministrato e gestito nelle forme omogenee all’individualismo aristocratico, ed è dispensato da un personale tenacemente arroccato nella difesa di un privilegio inconcepibile in una società ormai dispiegatamente entrata sotto il segno della democrazia.
E vogliamo accennare ancora a un momento che consideriamo particolarmente significativo ed emblematico della vita ideale: quello della vita religiosa. Per quanti non si rinchiudono entro una concezione teologica, che nel rapporto esclusivo e diretto tra ogni singolo uomo e la divinità esaurisce tutta la vita religiosa, quest’ultima deve naturalmente svolgersi nell’ambito non semplicemente di una riunione o di un’assemblea di individui, ma di una vera “società di fedeli”. Per la religione cattolica, in particolare, è massima la centralità e l’indispensabilità della piena dimensione comunitaria non solo nel momento, più evidentemente pubblico, del culto, ma anche - e in modo decisivo - nei momenti più intimi e profondi della vita religiosa: quelli della preghiera e della partecipazione sacramentale alla divinità.
Tutto ciò, crediamo, è sufficientemente noto, e ha cominciato d’altra parte a esser significativamente rivissuto - almeno nel cattolicesimo - a partire dagli anni del pontificato di Giovanni XXIII. Quello che però qui ci interessa di sottolineare è che un mondo integralmente dominato dall’individualismo - qual è quello determinato dallo sviluppo opulento - nega la stessa possibilità della vita religiosa; esso infatti non solo ostacola e frena l’esplicarsi di quella dimensione comunitaria che è indispensabile al pieno svolgimento della vita religiosa, ma semplicemente lo rende impossibile: dissolve quel tanto di comune, di corale, di ecclesiale, che ha potuto storicamente manifestarsi e sopravvivere; atrofizza e isterilisce infine quel che non può dissolvere.
Se dal piano dei momenti della vita ideale passiamo a quello degli istituti nei quali tali momenti si incarnano e si esprimono, non è forse evidente che le crisi “strutturali” cui lo sviluppo opulento dà luogo investono direttamente l’esistenza di questi istituti medesimi? È il caso, appunto, della Chiesa cattolica, che è posta in crisi dall’impietosa e drammatica liquidazione del mondo contadino, come dall’azione aberrante e deformatrice esercitata dall’opulentismo sulla famiglia, come infine - e soprattutto - da quella lacerazione dell’umanità in due tronconi, il cui perpetuarsi e drammatico aggravarsi non possono non suonare come una condanna per ogni realtà, per ogni istituto, che necessiti di un respiro pienamente universale.
4. Una contraddizione fondamentale del sistema opulento.
Si potrebbe osservare che tutte le contraddizioni che abbiamo finora elencate sono, per così dire, esterne all’opulenza. Esse vengono infatti patite da chi è territorialmente escluso dallo sviluppo opulento (come i popoli dell’area del sottosviluppo), o è economicamente marginale rispetto a tale sviluppo, e quindi ugualmente escluso da esso (come i contadini e le donne); oppure investono categorie che sono, almeno temporaneamente, non inserite nei ranghi del sistema (come gli studenti), e i cui componenti sono comunque suscettibili di abbandonare la loro posizione di critica e di ribellione man mano che, con il passar degli anni, vengano singolarmente a integrarsi nell’opulenza.
Nessuna delle contraddizioni anzidette, insomma, colpirebbe il sistema al suo cuore e nel suo centro, poiché nessuna delle forze sociali e delle dimensioni da esse investite è realmente indispensabile al proseguire dei meccanismi dell’opulenza. Di conseguenza, sebbene l’esistenza delle une e delle altre riveli indubbiamente la parzialità dello sviluppo opulento e ponga in luce il suo limite disumano, non potrebbe nascerne, però, una linea sufficiente di trascendimento di tale sviluppo ne una forza capace di affermare una linea siffatta.
Una simile obiezione coglie senz’altro un punto importante ed esatto. E in effetti, se certamente le contraddizioni, che abbiamo brevemente esaminate, dimostrano che c’è chi concretamente paga lo sviluppo opulento al prezzo della propria morte o della propria vanificazione, e se quindi esse rivelano l’esistenza di una serie di forze vitalmente interessate alla fuoriuscita dall’opulentismo, tali forze non sono tuttavia di per sé sufficienti a dar luogo a un positivo processo di liberazione della società dai limiti deformanti nei quali essa oggi minaccia di congelarsi. Ci sembra, però, che all’interno dello sviluppo opulento si annidi un’ulteriore e fondamentale contraddizione la quale, poiché interessa una classe che è essenziale al sistema, è senz’altro decisiva al fine del realizzarsi di quel processo di liberazione: è la contraddizione implicita nella presente condizione operaia.
5. La classe operaia
È indubbio che non solo oggi, non solo agli inizi del processo opulento, ma sempre, non può non essere soprattutto ed essenzialmente la classe operaia a pagare per l’affermarsi e lo svilupparsi dell’opulentismo. Essa viene conquistando, è vero, un progressivo ampliamento del proprio reddito, ma solo e sempre al prezzo di condizioni di lavoro e di vita assolutamente imparagonabili con quelle delle categorie e dei ceti sostanzialmente improduttivi (e comunque largamente parassitari) che costituiscono i veri usufruttuari del benessere e dell’opulenza. D’altra parte, sebbene i proletari vengano via via ad acquistare un maggior benessere, essi lo pagano con la perdita della loro stessa verità di classe, della loro funzione storica: di quelle ragioni e di quelle prospettive, insomma, che riscattano il proletariato dalla sua subalternità originaria e lo elevano, nell’interesse dell’umanità, a nuova forza sociale dirigente. Non ci sembra, questo, un punto sul quale sia necessario insistere e soffermarsi a lungo. Abbiamo infatti già sottolineato che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, la contraddizione cruciale tra i popoli ricchi e quelli poveri non può non permanere e accentuarsi, non può non trasformarsi in una lacerazione sempre più profonda e irreversibile. E non è forse evidente che in questa spaccatura mortale del mondo e dell’intera umanità, il proletariato viene fatalmente ad alienarsi nella sua necessità rivoluzionaria? Ove insomma le cose dovessero procedere secondo i meccanismi propri dei sistemi in atto, la classe proletaria finirebbe per perdere anch’essa (come la Chiesa cattolica) ogni possibilità di respiro universale; il suo stesso momento politico verrebbe a dissolversi, ad annullarsi, a scomparire senza residui.
Non solo, ma lo stesso interesse di classe del proletariato non postula forse, quale proprio obiettivo di fondo, il superamento della sua condizione di forza-lavoro, della riduzione di questa a capitale? E non è forse basato il sistema dell’opulenza appunto sul permanere di una simile riduzione, in una prospettiva indefinita e insuperabile?
Anche il proletariato, dunque, paga in modo insopportabile lo sviluppo opulento; anche il proletario è vitalmente interessato, di conseguenza, al superamento di tale sviluppo. Ma il proletariato non soltanto deve opporsi all’opulentismo: esso può anche farlo. La classe proletaria, infatti, è quella che ha storicamente battuto il suo avversario di classe: la borghesia. Ma - come abbiamo già osservato quando abbiamo esaminato il modo in cui si è giunti, nella storia, al manifestarsi dell’opulenza - se il proletariato, la classe dei detentori della forza-lavoro, ha mutato dall’interno i fondamentali e principali meccanismi economici del capitalismo, tuttavia ha lasciato sopravvivere i suoi fini e i suoi modi, consentendogli cosi di sopravvivere alla crisi della classe borghese come classe egemonica a livello mondiale. Il sopravvivere dell’economia capitalistica insomma, l’elusione della contraddizione catastrofica che era implicita nella sua forma borghese, sono stati consentiti soltanto dall’incremento della capacità di consumo dei produttori e questo, a sua volta, ha trovato unicamente nella tensione rivendicativa (e nella parallela lotta politica) del proletariato la propria causa efficiente.
Certamente e necessariamente ambigua è quindi la posizione del proletariato nella società opulenta. Questa è, in qualche modo, una sua creatura, pur essendo letale per i suoi destini. Depurando il capitalismo della sua contraddizione fondamentale, la classe operaia ha consentito che rimanesse in vita l’unico sistema economico, tra quelli oggi ipotizzabili e ipotizzati, capace di garantire lo svolgersi del processo produttivo a livelli d’efficienza sufficienti ad appagare il bisogno di beni di sussistenza per tutti; e però, poiché l’economia capitalistica è stata lasciata alla sua forma opulenta, poiché insomma, una volta battuta l’egemonia borghese, nessuna l’ha sostituita e il sistema si è venuto sviluppando secondo le sole reggi della propria spontaneità, ecco che le capacità produttive del capitalismo sono restate congelate all’interno di determinate aree, si sono sviluppate intensivamente (e in modo di necessità distorto), non hanno dato luogo a una generale uscita dell’umanità dalla povertà e dalla fame, ed ecco infine che si sono venute ad aggravare proprio quelle contraddizioni - di cui abbiamo più sopra discorso - che minacciano e compromettono la vocazione rinnovatrice e universale del proletariato.
Se cosi stanno le cose, ci sembra abbastanza evidente che è proprio il proletariato che ha tutte le carte per gestire un processo di fuoriuscita dall’opulentismo: un processo che non contesti (perche, allo stato degli atti, non è contestabile) la forma di produzione basata sulla riduzione del lavoro a capitale, ma ponga all’economia capitalistica degli obiettivi, delle regole, differenti - e anzi opposti - a quelli spontaneamente impressi dallo sviluppo opulento.
Il discorso, evidentemente, diviene qui propriamente politico. E in effetti, perché il proletariato possa gestire il sistema capitalistico in modo non subalterno a1l’opulentismo, è necessario in primo luogo che esso non si esaurisca in una azione meramente rivendicativa, redistributiva - consumistica, dunque -, in essa identificando e risolvendo quasi interamente l’azione politica vera e propria. Finche sarà così, evidentemente, il processo opulento potrà continuare indisturbato il proprio cammino, e l’oggettivo potenziale di rinnovamento costituito dalle forze sociali escluse dall’opulentismo - o da esso mortificate e uccise - resterà sterile e subalterno. Resterà, appunto, un mero potenziale, non diverrà un reale blocco di forze: la base sociale organica per la gestione del potere.
È necessario, quindi, che il proletariato si affermi compiutamente - nella sua dimensione di partito - sul terreno del potere, e che su tale terreno affronti e risolva il problema di una gestione dell’economia radicalmente diversa da quella peculiare all’opulentismo. Una simile gestione non può proporsi - già lo abbiamo accennato - di superare illico et immediate la forma capitalistica di produzione; e ciò non solo per la ragione, di per sé sufficiente, che a tale forma non è stato possibile opporre - sul piano della teoria come su quello della prassi economica - un’alternativa che non sia l’anarchia o la reazione, ma anche perché il modo capitalistico di produzione non ha ancora esaurito sufficientemente la sua funzione sociale di fondo: quella cioè di garantire la massima esplicazione del processo produttivo, e di portare così l’umanità intiera fuori dal bisogno dei beni della sussistenza.
Utilizzare sotto segno proletario la forma capitalistica di produzione, sviluppare l’economia del capitale fuori dall’esclusivismo nazionale e di classe della borghesia e al di là della stagnazione mortificatrice dell’opulentismo, significa dunque, per la classe operaia, “riconquistare stabilmente la sua alleanza fondamentale”, ricollegarsi “agli esclusi delle aree depresse (a coloro che sono oggi solo virtualmente i futuri proletari) in un processo di allargamento continuo su scala mondiale del suo nuovo potere”; ma significa altresì manifestare concretamente la propria piena libertà d’azione dal sistema dell’opulenza, affermare positivamente la propria egemonia politica e aprire perciò la prospettiva di una liberazione del lavoro dalla sua condizione di lavoro alienato, di lavoro ridotto a capitale.
Come è possibile però gestire, a livello dei tempi in cui viviamo, l’economia capitalistica in una prospettiva omogenea agli interessi di fondo della classe proletaria? Non possiamo evidentemente affrontare in modo esauriente questa decisiva questione, e rinviamo perciò il lettore alle pagine ora citate. Ci interessa comunque di sottolineare che il problema dell’organizzazione della città e, più in generale, quello di un “dispiegamento organico, e in prospettiva generalizzata, della forma sociale del consumo”, è una componente decisiva di una siffatta gestione, a egemonia proletaria, del capitalismo.
E in effetti, non solo una simile figura del consumo è antitetica - come abbiamo dimostrato - a quella propria al sistema opulento, e consente perciò al partito proletario di affermare la pienezza della propria autonomia da tale sistema. Non solo, poi, rivendicare consumi organizzati in forma pienamente sociale garantisce al proletariato di migliorare le proprie condizioni d’esistenza (e dunque di non sacrificare neppure i propri immediati interessi di classe). Ma, soprattutto, un’organizzazione sociale del consumo poiché riconduce quest’ultimo sotto una norma di efficienza e di risparmio, consente perciò di liberare risorse: consente dunque al proletariato di estendere - sotto la propria egemonia - il processo accumulativo, di ricondurre nell’ambito dell’economia e della civiltà moderna i popoli esclusi dal circuito della vita civile, sottraendoli così al loro destino di miseria e di fame; consente, infine, di indicare ai popoli del sottosviluppo e alle zone di arretratezza presenti nello stesso mondo dell’opulenza una concreta prospettiva di sviluppo civile, e di fondare così le nuove ragioni di un’alleanza storica, a livello mondiale, della classe proletaria.
6. Una domanda conclusiva
Condurre la società fuori dallo sviluppo opulento, quindi, è fin d’ora oggettivamente possibile, perché esistono le forze sociali interessate a farlo. E allora non è utopistica e astratta, non è velleitariamente eversiva una linea urbanistica che si proponga di sottrarre la città al destino cui l’opulentismo la condanna. Se gli urbanisti giungono a formulare e a concretare una simile linea, essi possono non essere soli: possono ritrovare, anzi, un legame profondo e organico con le forze decisive della società d’oggi, per camminare e lottare nella medesima direzione. Non solo, ma ci sembra - e lo abbiamo già in parte dimostrato - che una linea urbanistica di rinnovamento della città, fondata sulla trasformazione del consumo individualistico di massa in consumo comune, oltre a essere evidentemente omogenea a una linea di generale trascendimento dell’opulentismo, ne può essere addirittura una componente essenziale. Per vederlo meglio, gioverà comunque riprendere l’analisi della città dell’opulenza e svilupparla, esaminando brevemente alcuni più vistosi e rilevanti fenomeni dell’attuale crisi urbana, entrati oramai nell’esperienza di tutti (o, almeno, di quanti vivono nella parte del mondo già condizionata, in misura più o meno rilevante, dal processo dell’opulenza).
Quando abbiamo affrontato il tema della città di oggi abbiamo affermato che, ove si rimanga entro il quadro del modello opulento, la città si avvia verso la sua definitiva crisi lungo due direzioni: quella della congestione crescente e irrefrenabile, e quella della dispersione delle residenze sul territorio.
Ci sembra che due aspetti, due fenomeni, o se si vuole due momenti della crisi dell’odierna città, particolarmente signifìcativi ed emblematici, siano costituiti dalla questione del traffico e dalla tendenza a quella particolare forma d’insediamento che viene definito suburbio. Tali aspetti dell’attua1e problema urbanistico rappresentano infatti, con efficacia quasi simbolica, quelle due direzioni di cui or ora si diceva (e difatti il traffico è uno dei parametri più rilevanti della congestione urbana, e il suburbio è la forma dominante della dispersione delle residenze), ed entrambi rivelano e confermano, con sufficiente chiarezza, che la crisi già in atto nella città è direttamente riconducibile alla caratteristica di fondo del consumo nella società opulenta: quella cioè di esser divenuto consumo di massa, pur essendo rimasto nella millenaria forma individualistica. Non è soltanto per questi motivi però, non è solo per trovar conferma alle nostre tesi, che vogliamo ora esaminare brevemente il fenomeno del traffico e quello del suburbio, ma anche e soprattutto perché un’analisi più concreta e puntuale della città d’oggi (colta in alcuni suoi decisivi aspetti) ci potrà consentir di vedere chi paghi socialmente il prezzo della crisi della città, e quali siano la portata e il significato di quella crisi sul terreno economico; avremo così accumulato sufficiente materiale per dimostrare, in definitiva, la nostra tesi ultima e conclusiva: che cioè l’azione per il rinnovamento della città può essere una componente essenziale di una più generale linea anti-opulentistica.
7. Il problema del traffico
Che il traffico sia diventato un problema macroscopico delle nostre città non è cosa che occorra dimostrare. Stanno n a testimoniarlo, oltretutto, una grande quantità di rapporti, relazioni, documenti congressuali, articoli ,giornalistici; fiumi di interviste, dichiarazioni, discorsi; centinaia di iniziative tecniche e amministrative (sia pure generalmente parziali e settoriali). E non ha forse provocato, infine, il problema del traffico, riflessi spesso vistosi e clamorosi sul terreno delle lotte sociali e sindacali ? Quanti hanno messo anche soltanto un piede nelle città dell’”area sviluppata”, conoscono di persona quel problema: tutti sanno oramai che, nel momento stesso in cui il rapido sviluppo della tecnologia viene elaborando gli strumenti tecnici, sempre più raffinati ed efficienti, che consentirebbero di soddisfare l’esigenza della mobilità, quest’ultima viene invece appagata in modo sempre più precario, affannoso, mortificante, inumano, compromettendo in misura via via più diretta la stessa possibilità di circolare nelle città, di viverle, di conservarle perfino.
Le cause di una situazione siffatta sono indubbiamente molteplici, ma due soprattutto sono decisive e fondamentali: l’accrescimento tumultuoso, irrazionale, disorganico delle città maggiori, con il parallelo e contemporaneo spopolamento delle campagne e dei centri minori; la scelta della motorizzazione individuale (l’automobile), quale mezzo di gran lunga preminente per risolvere il problema della mobilità. Ora a noi sembra assai facile dimostrare, che non solo - com’è intuitivo - la seconda, ma anche la prima di queste cause ha la sua radice in quella caratteristica di fondo del consumo opulento di cui si diceva. L’accrescimento delle grandi città a spese del resto dell’insediamento ha infatti certamente la sua ragione nel fatto che all’aumentata necessità di rapporti e relazioni tra gli uomini e tra le varie sedi nelle quali si svolgono la vita e l’attività (le residenze, i luoghi di lavoro, le attrezzature collettive ), alla rottura, insomma, di quella situazione tradizionale che vedeva l’insediamento umano come la giustapposizione di mondi, quali più grandi e quali più piccoli, ciascuno chiuso in se stesso e in sostanza autosufficiente (quale che fosse il livello di vita in ognuno consentito ), non ha corrisposto una effettiva .presa di coscienza delle nuove esigenze e delle mutate condizioni, e perciò neppure una politica tendente a un’equilibrata dislocazione degli insediamenti sul territorio. In altri termini, quando ogni uomo ha cominciato a divenir consapevole della propria necessità (e del proprio diritto) di usufruire di determinate condizioni di vita e possibilità di lavoro, ciò non ha dato luogo a un processo di complessiva riorganizzazione degli insediamenti sul territorio, nell’ambito del quale si giungesse a infrangere - come tecnicamente è possibile - la cesura fra città e campagna, fra insediamenti maggiori, e perciò dotati di un sufficiente livello di attrezzature, e insediamenti minori.
L’esigenza di vivere in ambienti caratterizzati da condizioni “urbane”, insomma, anche quando è divenuta di massa, ha trovato una soluzione solo individualisticamente; ciascuno ha dovuto cercare singolarmente e spontaneisticamente la soluzione al suo proprio problema ( che era invece oramai un problema di tutti}, e l’ha fatto nell’unico modo possibile nella situazione data: affluendo cioè alla città, inurbandosi, accorrendo insomma là dove unicamente esistevano condizioni di vita e possibilità di lavoro vicine a quelle che oramai erano da tutti sentite come indispensabili.
Non solo la scelta della motorizzazione individuale, quale risposta dominante all’esigenza di massa della mobilità, ma anche l’abnorme e tempestivo accrescimento dei centri maggiori, ha dunque la sua radice nel fatto che un’esigenza di massa ha trovato un appagamento unicamente entro la logica di un consumo individualistico. Ed è allora l’intiero odierno problema del traffico che deve venir ricondotto alla caratteristica di base del consumo opulento.
8. Il “suburbio”, insediamento tipico dell’opulenza
Minacciata dal congestionamento e dalla paralisi, resa inordinabile dal caos che la caratterizza (e che ha nel traffico una delle sue più evidenti manifestazioni, ma non certo l’unica), ecco che la città comincia ad apparire sempre di più una realtà nella quale è impossibile vivere. E non a caso, si viene via via affermando una tendenza, particolarmente omogenea all’opulenza, nell’ambito della quale, mentre i centri minori si svuotano e s’isteriliscono sempre di più, e mentre le grandi città ospitano soltanto le cosiddette “funzioni terziarie superiori” o “quaternarie” e i mostruosi “ghetti” nei quali vengono accatastati quanti ancora non sono assorbibili dall’opulenza, si sviluppa invece, in misura crescente e man mano più massiccia, un processo di fuga di massa dalla città. È, quest’ultimo, un processo che interessa le moltitudini festive dei cittadini delle metropoli dell’opulenza, i quali cercano periodicamente un’evasione illusoria e spesso intimamente disperata nell’esodo del week-end, ma è un processo che comincia già a dar luogo a insediamenti stabili e permanenti, a formare un nuovo modo di abitare e di vivere: si tratta, appunto, di quella mostruosità urbanistica che può divenir tipica dei nostri tempi: il suburbio.
Che cosa è il “suburbio”? È un insediamento caratterizzato da due elementi essenziali, tra loro strettamente collegati nel senso che il primo è condizione del secondo: la rarefazione estrema dei tessuti edilizi, ossia la dispersione delle residenze sul territorio; la concentrazione dei più essenziali servizi (soprattutto quelli commerciali) e la loro conseguente localizzazione in punti assai distanti gli uni dagli altri.
Il “suburbio” si basa, più precisamente, su una cellula generatrice che è l’alloggio individuale, costruito su di un lotto individuale anch’esso, e dotato - oltre che del suo brandello privato di verde - di tutta una serie di spazi e di ambienti, i quali servono allo svolgimento (nell’ambito della famiglia e, appunto, dell’alloggio) di funzioni e di compiti che non solo possono venir svolti e organizzati in forme sociali, ma che in parte già venivano concretamente svolti in tali forme.
La bassa densità edilizia risultante da una simile soluzione dell’alloggio comporta evidentemente una notevolissima rete stradale, e quindi rende praticamente impossibile una organizzazione collettiva del trasporto: l’automobile è perciò la regina del suburbio, e ogni famiglia deve possederne più d’una. E poiché l’estrema rarefazione impone che i servizi ineliminabili siano localizzati a grandi distanze reciproche (altrimenti non disporrebbero di una sufficiente “area di mercato”), ecco che viene ancor più scoraggiata ogni volontà di uscire frequentemente dall’alloggio per provvedersi di beni o servizi di uso quotidiano, ed ecco quindi che viene ribadita e ulteriormente esaltata la necessità di attrezzare la casa “di tutti quegli strumenti che rendono possibile l’autonomo e individualistico soddisfacimento dei bisogni altrimenti soddisfacibili collettivamente: la televisione, anzitutto, e poi l’indefinita proliferazione degli elettrodomestici”.
È evidente, perciò, che questo tipo d’insediamento comporta una notevolissima espansione dei consumi privati: non solo per il motivo generale che è l’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, ma anche per il motivo specifico che una residenza organizzata in un modo siffatto pretende un aumento dei consumi privati nella misura precisa in cui postula una rinuncia sempre più marcata a una organizzazione sociale dei servizi. Ed è appunto per questo, in definitiva, che gli unici elementi comuni i quali riescono a svilupparsi in un simile inferno urbanistico (e umano) sono quelli ordinati appunto all’approvvigionamento, il meno frequente possibile, dei beni di consumo privati: i giganteschi shopping centers, le efficienti stazioni di servizio automobilistiche, e, di conseguenza, le faraoniche costruzioni destinate ai parcheggi. Sono questi, insomma, i nuovi templi, i nuovi arenghi, le nuove piazze, le nuove cattedrali dell’insediamento proprio all’individualismo di massa.
9. Chi paga il prezzo della città opulenta?
Il rapido esame, che abbiamo compiuto, di due rilevanti aspetti della crisi dell’odierna città, non è certamente - né voleva essere - un’esauriente rassegna dei fenomeni nei quali si manifesta il disastro urbanistico nel quale viviamo; più di una volta però (lo confessiamo francamente al lettore) la penna avrebbe voluto correre per illustrare e denunciare altri aspetti, altri fenomeni, altre manifestazioni - che ogni giorno ci colpiscono - del decadimento e della dissoluzione dell’assetto delle nostre città e del nostro territorio. Se abbiamo resistito, se non ci siamo soffermati nel ricordare e nell’esaminare la dissipazione del territorio e del paesaggio divorati dall’anarchia dell’appropriazione individualistica, o la distruzione dei centri storici stravolti, oltre che dalla congestione, dal privilegio rozzo dei più ricchi e dalla miseria dei più poveri, o l’assurda bruttura dei panorami urbani determinati da un mostruoso agglomerarsi di miriadi di episodi singolari tra loro sconnessi e dissonanti, o la dispersione della vita negli alveari metropolitani e negli ischeletriti insediamenti della campagna e della provincia, ciò non è dipeso dal fatto che questi aspetti non ci sembrino tutti rilevanti. È che, così facendo, non avremmo aggiunto al nostro quadro null’altro di sostanziale: ci sembra, infatti, che le conclusioni, alle quali stiamo cercando di pervenire, non potrebbero trovare nell’esame di questi ulteriori aspetti un contributo diverso da quello di una conferma della loro validità. Avremmo corso il rischio, invece, di lasciarci travolgere dalla facile passionalità della mera denuncia e dell’invettiva, mentre ciò che soprattutto ci preme e c’interessa è di contribuire a far passare la cultura urbanistica dalla denuncia alla proposta consapevole, dalla protesta al lavoro, all’azione coerente e fiduciosa, critica - perché non può non esserlo - ma aperta alla speranza: pronta, perciò, a riconoscere le vie attraverso le quali passa il possibile, e a percorrerle.
Per individuare le “vie del possibile”, ci sembra che si debba in primo luogo comprendere che il problema della città non è cosa che interessa soltanto gli urbanisti: se così fosse, davvero disperata sarebbe la loro azione, condannata al velleitarismo ribellistico e protestatario, o all’astrazione sterile dell’utopia.
L’esserci brevemente soffermati sul problema del traffico e sulla tipologia del “suburbio”, ci consente intanto di vedere a questo punto, con sufficiente chiarezza, che la condizione degli uomini nella città d’oggi è realmente tale da non poter mancar di generare una carica d’insoddisfazione, di disagio, di protesta, quindi, e di ribellione, in tutti i suoi abitatori. La concreta situazione della città dei nostri giorni dimostra insomma che il prezzo dello sviluppo opulento è pagato, direttamente e quotidianamente, dagli stessi uomini che già vivono nel processo dell’opulenza, ne sono i protagonisti e gli usufruttuari.
Essi pagano un simile prezzo in quanto uomini, individualmente e singolarmente, ma lo pagano anche in quanto umanità associata, nei corpi e negli istituti e negli organismi in cui si esprime e si articola la dimensione comunitaria della società; ciò non solo per il motivo generale che la città dell’opulenza, poiché è dominata dall’individualismo, è incomponibile con una vita pienamente sociale, ma anche per una serie di motivi specifici, che nel primo hanno evidentemente la loro causa originaria, e che possono essere colti correttamente solo esaminando ciascuna delle distinte realtà sociali che nella città vivono. Su una di queste - che già abbiamo poco fa trattato - vogliamo ora brevemente ritornare quasi a titolo d’esempio, e soprattutto perché la consideriamo particolarmente legata alla realtà urbanistica: ci riferiamo alle donne.
10. Le donne e il suburbio
Nell’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, gli elementi decisivi -come abbiamo visto -sono l’esaltazione dell’individualismo della residenza e l’esaltazione del consumo, anch’esso individualisticamente concepito, organizzato e fruito. Più precisamente, sia la residenza che il consumo trovano nella famiglia (materialisticamente intesa e tradizionalisticamente fissata) l’istituto, il luogo, il momento, al quale si ordinano e in funzione del quale esclusivamente si organizzano.
Ma il consumo dei nostri tempi, e la residenza dei nostri tempi, non sono quelli dei tempi andati. Non sono più un consumo e una residenza di cui era difficilmente immaginabile -e invero storicamente non è stata immaginata -la forma collettiva, poiché appunto erano ridotti all’osso, contenuti nel minimo indispensabile per la sussistenza, ed erano infatti regolati dalla dura norma e dall’arte difficile e complessa del risparmio. Anzi, viviamo in una società nella quale (poiché vengono metodicamente, automaticamente scartate tutte le aperture verso forme collettive di gestione e di insediamento) la tendenza è quella di un esasperato individualismo residenziale e di una progressiva espansione dei consumi tradizionali, sorretta da una continua complicazione delle esigenze materiali.
Il consumo, perciò, si complica e si moltiplica, pur rimanendo un consumo individualistico, domesticamente gestito entro il chiuso alloggio familiare: basti pensare alla «indefinita proliferazione degli elettrodomestici», alle elaboratissime ricette culinarie che tornano in auge nei «paesi evoluti», alle frenesie consumistiche in cui paganamente si risolvono ( con una cospicua erogazione di forza-lavoro domestica) le feste tradizionali e quelle nuove, alle stesse rinverdite teorie pseudo-psicanalitiche sull’indispensabilità della fisica presenza materna per i bambini fino a due o tre o quattro anni. Chi dunque si occupa di un simile consumo e chi presiede a un simile modo di abitare non regola nulla, ma si abbandona al flusso delle cose; non risparmia, spende; non garantisce un ordine, galleggia su un’informe anarchia.
Di questo modo abnorme di consumare e di vivere, il suburbio è evidentemente, al tempo stesso, la condizione e il risultato. Ma nel concreto, chi è che deve occuparsi di tutto ciò? Chi è che deve gestire un simile consumo e occuparsi di una residenza siffatta? Né la logica né la storia hanno esitazioni nel rispondere: è ovviamente la donna, è l’antico «angelo del focolare», che deve farlo. È essa, infatti, che è sempre stata aggiogata alla famiglia ed alla casa, rimanendovi asservita anche quando finalmente è entrata nella produzione, nel mercato del lavoro.
Ma v’è di più; come già abbiamo visto, il processo di emancipazione della donna e il movimento emancipativo organizzato spingevano e spingono tuttora la società, oggettivamente e soggettivamente, a trasformarsi, a svilupparsi, e insomma ad adeguare faticosamente se stessa alla nuova situazione della donna che vuole affermare la propria umanità nella figura del libero produttore. Solo che, in un primo momento, la società non ha cambiato nulla di sostanziale su un così decisivo e primario terreno come è quello del consumo e dell’insediamento, e ha scelto quindi la via più tranquilla ed immediata: quella cioè di accogliere solo l’elemento tecnologico del progresso, e tenere in piedi - anche quando son divenute mortifere, anche quando occorre imbalsamarle e corromperle - tutte le vecchie abitudini, tutte le vecchie tradizioni e servitù, che non sono direttamente di ostacolo al processo tecnologico stesso.
In un secondo momento invece, con il meccanismo dell’opulenza, ha prevalso, sul piano stesso della rilevanza economica, la figura del consumatore rispetto a quella del lavoratore, e per ciò si è avuto sempre meno bisogno, sotto ogni aspetto, della forza-lavoro femminile, per cui se ne è favorito l’espulsione dal mondo del lavoro per riportarla esclusivamente alla sue antiche funzioni, adesso esaltate, ma anche alienate e distorte, dalla trionfale avanzata del consumismo di massa.
L’antico «angelo del focolare» si vien trasformando sotto i nostri occhi (senza perdere nulla del suo errore) nella moderna, «razionale», «efficiente» funzionaria del consumo. La donna abbandona sì la fatica oggettivamente rivoluzionaria del doppio lavoro, ma per divenire la nevrotica addetta a quella vera e propria mostruosità economica, sociale e umana che è la cosiddetta «azienda familiare»: l’azienda in cui si amministra, si organizza, si gestisce, si consuma ormai soltanto il superfluo, quello che è inutile in sé, e quello che è inutile consumare in quel modo.
La tendenza urbanistica del suburbio e quella del «ritorno a casa» della donna sono dunque davvero due fenomeni strettamente connessi, due facce di un’unica realtà: e sono infatti due modi, due momenti, due aspetti dell’identica operazione, messa in atto dallo sviluppo opulento, per aggiogare la donna a una moderna schiavitù.
11. Una prospettiva di rinnovamento della città.
Quale città è necessaria per consentire un’effettiva liberazione della donna?
È una città, evidentemente, in cui il rapporto tra alloggio e attrezzature collettive non dev’essere riformisticamente corretto, ma deve essere completamente rovesciato in modo rivoluzionario. È una città, concretamente, in cui l’alloggio non deve più essere un’isola, ma deve diventare parte di un complesso assetto della residenza in cui ogni singolo servizio, ogni consumo, vengano organizzati e gestiti in modo comune, sociale, collettivo. Se, per fare degli esempi, si estende il ruolo della scuola; se per ogni gruppo di alloggi si prevede uno spazio sorvegliato per i giochi dei bambini; se si sostituiscono le lavatrici individuali con impianti di caseggiato; se una fitta rete di ristoranti economici permette di evitare la corvée della spesa e della cucina e del rigoverno delle stoviglie; se la manutenzione e la pulizia degli alloggi vengono svolte, per tutti, da squadre specializzate; se tutte queste cose vengono fatte, allora effettivamente ci si avvia a organizzare la residenza in modo che consenta la liberazione della donna.
Ci si avvia, abbiamo detto. E infatti gli esempi ora elencati sono serviti solo a far comprendere meglio in che direzione sollecita la spinta di una determinata forza sociale; non pretendono certo di dare, sul piano urbanistico, un’immagine sufficiente della città quale dovrebbe essere e quale dovrà essere. Sono esempi che possono servire a dare una indicazione sul punto di partenza e sulla direttrice di marcia, non sul punto di arrivo.
È chiaro, comunque, che muovendosi da quel punto di partenza e lungo quella direttrice si comincia a costruire - sulla base di esigenze e di spinte sociali che già oggi si esprimono e ci sollecitano - una città che è dominata dal momento sociale, e che quindi non è più un aggregato di isole individualistiche, ma una struttura di elementi collettivi, comuni; una città in cui le case, gli alloggi, sono soltanto i prolungamenti delle attrezzature collettive, e che perciò, in definitiva, è proprio una città rivoluzionata: nel senso che è l’esatta antitesi, il puntuale rovesciamento di quella attuale, anche se realisticamente è dalle possibilità, dai germi, dagli inizi già presenti nella città di oggi, che si comincia a costruirla.
E non è proprio una simile città, d’altra parte, quella che è omogenea alla intuizioni degli utopisti come alle indicazioni più positive e promettenti della moderna cultura urbanistica? Non è in una siffatta direzione che si può riprendere un fruttuoso collegamento con l’eredità storica della città, con le ragioni stesse della sua nascita, con l’esperienza dei momenti più fecondi della sua evoluzione? Veramente ambigua e complessa è la realtà dell’opulenza: convivono e si intrecciano al suo interno i meccanismi che sospingono alla dissoluzione dell’organismo urbano, e le tensioni e le forze che già indicano la strada per una rinascita della città, per il suo sviluppo.
12. Lo spreco della città.
Certo, nessuno, oggi, si rende conto di quanto costa una città organizzata individualisticamente, nessuno -o quasi - avverte e denuncia lo spreco della città. Ma perché? In primo luogo, nessuno è oggi costretto a rendersene conto: c’è ancora qualcuno che è mistificatamente sfruttato, c’è ancora qualcuno che sfacchina senza essere pagato, ci sono appunto le donne, le casalinghe, gli «angeli del focolare» che lavorano senza retribuzione. C’è ancora oggi, insomma, una spesa invisibile, una erogazione gratuita e dissimulata di forza-lavoro femminile, in cui sta proprio una delle cause che consentono la sopravvivenza di una città anarchica e antieconomica.
In secondo luogo, poi, nessuno se ne rende conto perché tutti sono oggi alienati, almeno nel senso che tutti sono condizionati dal sistema, dall’assetto dell’opulenza, in cui sono socialmente inseriti. In che cosa precisamente si manifesti un simile condizionamento, perché esso conduca a una siffatta alienazione e impedisca di prender coscienza del costo di una città individualistica, può esser ormai facilmente compreso.
Il sistema dello sviluppo opulento ha bisogno della spinta dell’individualismo consumistico proprio per i suoi interni equilibri, e trova anzi in quella spinta la condizione essenziale perché i suoi automatismi possano esplicarsi. Quel consumo superfluo che è caratteristico dell’individualismo di massa, e che intrinsecamente altro non è se non puro spreco, è insomma indispensabile per la sopravvivenza del sistema: per esso, quindi, non è uno spreco, ma diviene una precisa norma economica.
Ecco quindi perché e in qual senso oggi si è tutti alienati; ecco perché, nella misura in cui si è condizionati da questo sistema e si rimane idealmente entro di esso, è impossibile concepire una città organizzata in modo diverso; ed ecco infine perché, fino a quando il sistema in atto è questo determinato sistema entro il quale viviamo, realizzare una città conforme alle esigenze degli urbanisti è addirittura impossibile. Bisogna convenire che lottare oggi per una città diversa, per una città nella quale il consumo di massa si sviluppi nel consumo comune e possa perciò esser sottoposto a una norma economica, significa cogliere l’occasione dell’urbanistica per contestare e rovesciare - in una serie di punti concreti, su questioni che vitalmente interessano forze sociale decisive - lo sviluppo opulento, le sue leggi, le sue necessarie regole economiche.
Per farlo, non è certamente necessario un atto demiurgico degli urbanisti, un porsi dei «tecnici della città» come supremi ed esclusivi regolatori dell’assetto urbanistico; serve, anzi, esattamente l’opposto. Serve cioè che gli urbanisti, sfuggendo a quella tendenza all’esclusivismo che è destino di ogni disciplina che si separi dalle altre, intreccino la propria ricerca e la propria azione con quelle delle discipline, e delle forze che sono direttamente e peculiarmente ordinate all’intervento sul terreno del sistema sociale. E serve poi, d’altra parte, che le forze sociali decisive - e quindi, prima fra tutte, quella proletaria - comprendano il ruolo fondamentale che la questione urbanistica può oggi assumere per iniziare il processo di fuoriuscita dall’opulentismo: quel processo cioè che, attraverso l’eliminazione di ogni parassitismo (quale quello preborghese della rendita fondiaria), di ogni spreco economico, di ogni dissipazione di risorse, consenta di gestire politicamente il meccanismo capitalistico negli interessi dello sviluppo, a scala mondiale, di una nuova egemonia rivoluzionaria della classe proletaria nell’ambito di un nuovo «blocco storico» di alleanze.
13. Conclusione
Gli urbanisti si lamentano spesso dei fallimenti a cui vanno incontro. Essi, però, sogliono dimenticare altrettanto spesso che le idee camminano, si concretano, si traducono in leggi e poi in edifici e spazi e città, solo quando incontrano le forze capaci di comprenderle, di verificarle nei propri interessi immediati,e perciò di farle proprie e di battersi per esse. Abbiamo voluto dimostrare, in quest’ultimo capitolo, che questo incontro è possibile, oltre che necessario, e dobbiamo ormai considerare conclusa questa nostra ricerca.
Non nel senso, beninteso, che essa ci abbia condotto a un qualche traguardo sul quale si possa sostare nell’attesa che le cose proseguano il loro sviluppo; ma, almeno, nel senso che abbiamo potuto trarre, da una prima indagine a grandi linee , sulle origini storiche e sulle cause di principio che determinano l’attuale condizione della città, alcune direttrici di studio e d’azione. E se siamo stati condotti a dover riconoscere, nella città contemporanea, la minaccia d’una crisi distruttrice e mortale, abbiamo però potuto individuare il segno esplicito di una speranza di rinnovamento.
Certamente, le radici di quella crisi - lo abbiamo intravisto - sono profonde, complesse, antiche; esse affondano in una concezione dell’uomo, del lavoro, dell’economia, della società, che è antica come la storia e che pesa sul nostro futuro. Rimuoverle interamente, concretare quindi definitivamente quella speranza per la città, è dunque impresa alla quale gli urbanisti, da soli, non possono ovviamente accingersi. Essi però - è questo il senso del nostro lavoro - non più da solitari scienziati e quindi da «profeti disarmati», ma in operosa alleanza con una serie di forze della società civile, possono portare il loro contributo, sullo specifico terreno della loro disciplina, alla soluzione comune dei problemi del nostro tempo.
1 Definizioni generiche possono essere considerate, ad esempio, quelle per cui “il fatto città si riduce essenzialmente a un concentramento di popolazione” (M. POETE, La città antica, Torino 1958, p. 28), o a una “sede di aggregazione umana” (L. PICCINATO, in Enciclopedia italiana dell’Istituto Treccani, voce “Città”, voI. X, p. 472).
2 Interpretazioni di carattere sostanzialmente utopistico sono quelle tipiche del filone culturale che ha in Lewis Mumford e in E. A. Gutkind i suoi massimi esponenti. Per la complessità e l’implicita ricchezza delle intuizioni dei due A., le tesi richiederebbero un discorso ben più vasto di quello che è qui consentito. Resta, peraltro, il fatto che le loro intuizioni sono espresse in modo tale da non poter dar luogo a un discorso sufficiente rigoroso, e che sfuggono a essi, pressoché totalmente, le cause degli eventi e dei fenomeni analizzati e descritti, per cui le loro conclusioni non possono risultare che apodittiche. Il Mumford, ad esempio, individua in Thanatos ed Eros, nell’elemento mortale (il maschio, il cacciatore, il guerriero, il monarca, ecc.) e in quello vitale (la femmina, la madre, la fertilità, la conservazione della specie, e insomma tutte “le funzioni materne e vitali”) le grandi tensioni inconscie, dialetticamente contrapposte, che fin dall’età della pietra determinano il processo storico, e che danno luogo rispettivamente alla “Megalopoli” - ultima incarnazione della città - e al “Villaggio”. Da una tale premessa egli non può giungere, evidentemente, a nessuna conclusione di una qualche diretta utilità; infatti, egli non può, in definitiva, additare altra prospettiva se non quella velleitaria di un’utopia democratico-comunitaria nella quale rivive l’ideale del villaggio. Per quanto poi riguarda il Gutkind, basterà ricordare la sua affermazione: “il concetto di città è un anacronismo e neppure riforme molto avanzate possono impedirne la decadenza e la scomparsa definitiva”, per cui dovrà verificarsi una “dispersione livellatrice” che ‘conduca alla “meta finale” della “regione senza centro” e una situazione in cui, nello “spazio libero centrale”, sia alfine raggiunta “la meta ideale di ogni città”, il ”costruttivo inizio della Fine della Città” (E. A. GUTKIND, L’ambiente in espansione, Milano 1955, pp. 21-41 passim).
3 “Ogni evoluzione della teorica e della pratica urbanistica rischia di disperdersi in una oscillazione continua tra due tendenze opposte e ugualmente eversive: da un lato, l’accettazione passiva e incondizionata - la mera descrizione - dei livelli di sviluppo raggiunti, momento per momento, per effetto di un gioco di forze cui l’urbanistica non partecipa e che non controlla; dall’altro lato, la negazione apodittica del meccanismo di sviluppo reale in nome di uno sterile moralismo giusnaturalistico e l’evasione utopistica nella città ideale”. (A. CUZZER, F. FIORELLI, Pianificazione territoriale, standard e ricerca scientifica, in “Marcatrè”, n. 6-7, 1964, p. 132).
4 G. C. DE CARLO, Relazioni del seminario “ La nuova dimensione della città -la città regione”, ILSES, Milano 1962, p. 188. “La città-regione [ ...] è caratterizzata da una molteplicità di interessi che si diffondono sull’intero territorio ponendolo in uno stato di permanente dinamismo, dalla alternanza di peso di ciascuna delle sue parti in relazione al ruolo che esse esercitano nel momento in cui le si considera, dalla presenza di strutture aperte, dalla tendenza ad esprimersi in configurazioni astilistiche e in continuo rinnovamento, vincolate alla dinamica delle situazioni” (ibid., p. 189).
II – LE FORME D’INSEDIAMENTO PECULIARI ...
1 Si intende per consumatore “determinato” un consumatore la cui presenza, in quanto soggetto specifico, è avvertibile nel momento dell’atto produttivo. Così, ad esempio, il contadino che produce per il consumo proprio e della propria famiglia produce evidentemente per un consumatore “determinato”, e così chi, nell’ambito di un rapporto servile, produce per il consumo del proprio signore.
2 Si veda ad esempio, su questo punto, il cap. Colonie latine e villaggi consorziali nella classica Storia di Roma di T. MOMMSEN, Milano 1961, VoI. I, pp. 55-58.
3 C. CATTANEO, La città considerata come il principio delle istorie italiane in La letteratura italiana. Storia e testi, voI. 68, Milano-Napoli 1956, p. 1007.
1 “Sino allora, c’erano stati soltanto individui isolati; ora, era nato un essere collettivo” (M. BLOCH, La società feudale, Torino 1959, p. 514). “L’originalità del giuramento comunale fu di unire degli uguali” (ibid., p. 515).
2 Si veda il testo di Mommsen già citato.
3 Chi non comprende come l’economia capitalistica sia stata storicamente l’unica economia capace di postulare, sia pur contraddittoriamente e dialetticamente, la città, è condotto a vedere nella città della borghesia solo gli elementi di negatività che in essa indubbiamente sussistono fin dall’inizio, e dunque ad indicare come il momento dèll’inizio della decadenza della città quello che a noi sembra invece il momento della nascita della città vera e propria. Non comprendere il ruolo giuocato, nella storia, dal capitalismo sul piano della città conduce allora in definitiva a concepire come seccamente negativo ( e dunque sotto il segno di un inspiegabile irrazionalismo catastrofico) tutto un decisivo periodo della storia dell’uomo. Non a caso, poi, si deve giungere - sulla base di una simile posizione - a rinnegare di fatto la città e a proporre, in un modo o nell’altro, un ripiegamento nostalgico o un’evasione disperata verso le forme d’insediamento che hanno preceduto la città: il borgo, il villaggio, o addirittura – con la più conseguente coerenza -la dispersione nelle campagne.
4 Si veda, per un chiarimento e un approfondimento di questo punto: Considerazioni sulla questione agraria, nel n. 1 de “La Rivista trimestrale”, 1962.
5 T. R. MALTHUS, Principles of Political Economy. La frase citata è tratta dalla traduzione pubblicata sul n. 1 de “La Rivista trimestrale», 1962, p. 156. ,
6 È chiaro che, a differenza del proletario, il borghese può sfuggire individualmente al lavoro, al consumo produttivo e alla servitù all’accumulazione; egli può, infatti, sulla base del proprio privilegio proprietario, destinare quote del profitto all’allargamento del proprio consumo. Ma in tal caso, evidentemente, il modello capitalistico-borghese perde il suo interno rigore e la sua coerenza logica, il che - come vedremo meglio in seguito - non può non provocare l’insorgere di tensioni e di crisi.
7 Una testimonianza letteraria particolarmente lucida ed efficace dell’atteggiamento della nascente borghesia verso le opere della città è costituita dal romanzo di R. BACCHELLI, Non ti chiamerò più padre, Milano 1959.
8 Sulla continuità manifestatasi nel passaggio dall’autoconsumo all’ordinamento borghese ci siamo già soffermati a sufficienza; abbiamo, infatti, potuto concludere che il borgo è, al tempo stesso, il frutto organico scaturito dallo sviluppo dell’economia e della società dell’autoconsumo, e il germe dal quale inevitabilmente si forma la città (l’insediamento, cioè, cui si giunge al livello dell’economia capitalistica e della società borghese). Per quanto riguarda la sostanziale continuità che si è verificata nel transito dall’autoconsumo alla società s1gnorile, basterà riflettere su due circostanze. Anzitutto, al fatto che lo sfruttamento - che è indubbiamente il più rilevante e decisivo aspetto di quel transito - si è esercitato sull’eccedenza, e ha di conseguenza lasciato immutato quanto, nell’economia dell’autoconsumo, preesisteva alla formazione del sovrappiù; le condizioni economiche di base esistenti nelle unità produttive, in altri termini, non sono state sostanzialmente modificate dallo sfruttamento, il quale, congelando al livello della sussistenza fisica il consumo dei produttori, ha inciso esclusivamente sullo sviluppo di tale consumo. In secondo luogo, va rilevato che nell’economia signorile, come nell’autoconsumo, il fine dell’attività produttiva resta pur sempre nel consumo individuale di un consumatore determinato, per cui, in sostanza, nell’insieme dell’edificio sociale i valori cui l’attività produttiva era ordinata restavano comunque dei valori in qualche modo legati ad effettive esigenze umane.
9 Si può affermare che i più significativi testi di urbanistica scritti in Italia negli ultimi anni sono incentrati sull’analisi della città della borghesia trionfante. È il caso, ad esempio, delle seguenti opere, che costituiscono un contributo alla comprensione dell’attuale problematica urbanistica nella luce di una prospettiva storica: G. SAMONÀ, L’Urbanistica e l’avvenire della città, Bari 1960; L. BENEVOLO, Le origini dell’urbanistica moderna, Bari 1963; C. AYMONINO, Le origini dell’urbanistica moderna, in “Critica marxista”, a. II (1964), n. 2, pp. 40-68.
10 Nei testi urbanistici si riportano talvolta delle cartografie comparate dalle quali risulta con evidenza un fatto assai indicativo e sintomatico, che è d’altronde ben noto. Il fatto, cioè, che le lottizzazioni urbane avvengono nel rispetto e nella conservazione del reticolo della proprietà agraria, sicché, in definitiva, è appunto la proprietà agraria a determinare la forma della città.
1 M. BLOCH, op. cit., p. 512.
2 K. MARX"F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, Roma 1947, p. 28.
3 Ci sembra che valga la pena di soffermarci brevemente, sia pure in limine, sulla portata del fatto che -come si è detto -nel sistema capitalistico-borghese l’eguaglianza e la libertà dei cittadini si manifestano, nell’ambito del diritto positivo, solo in quel limitato settore rappresentato, nell’insieme dell’ordinamento giuridico, dal diritto pubblico. È effettivamente decisiva ed essenziale, per il sistema capitalistico, la proprietà privata del capitale, che costituisce anzi la garanzia giuridica dell’attività economica dei “funzionari del capitale”, ponendosi pertanto come condizione decisiva del processo accumulativo. Senza dubbio ciò significa che sul piano del diritto privato esiste una sostanziale differenza fra i cittadini, i quali sono appunto nettamente distinti in proprietari e non proprietari. Ma se l’uguaglianza e la libertà dei cittadini non sono dunque, nel complesso dell’edificio giuridico, diritti pienamente affermati, ne sono, quindi, operanti nel concreto della realtà sociale, e finiscono, anzi, per rappresentare un elemento di contraddizione, sta di fatto che la proprietà privata del capitale, essendo il fondamento giuridico dell’attività economica del borghese e essendo destinata alla produzione del sovrappiù, non può mai rompere esplicitamente e formalmente quel diritto comune di libertà ed uguaglianza che definisce la generale condizione sociale necessaria allo sviluppo del modo capitalistico di produzione. In altre parole, il diritto privato, malgrado la sua formulazione privatistica, non può costituire la base per una rottura esplicita, pienamente istituzionale, effettivamente giuridica, della radice comune dell’ordinamento giuridico stesso. E in realtà, è facile constatare che il privatismo proprietario non può dar luogo a differenze recepibili nell’ambito del diritto naturale. Ne vale obiettare che il borghese può, nel concreto storico, “costituirsi in signore”, che egli può rompere cioè il diritto, subordinando ai propri individuali interessi -in modo più o meno implicito i diritti comuni di quanti riesce a dominare e ad asservire, in forza dei suoi privati diritti proprietari. In tal caso, infatti, egli esce dalla coerenza dell’ordinamento giuridico, e allora o si segrega dalla società, resta ai suoi margini e infine decade, o, se prevale e si afferma, condanna alla decadenza il sistema.
4 È evidente che stiamo ragionando intorno ad un determinato modello storico, il quale contiene tutte le connotazioni essenziali del sistema sociale cui si riferisce, e cioè quello capitalistico-borghese. Ma un determinato sistema sociale viene sempre, senza eccezioni, a ricoprire completamente ed integralmente l’intera dimensione della società? Il realizzarsi storico del sistema coincide, cioè, con la piena esplicazione storica della società in quanto tale? In realtà, la società civile non si è mai interamente ridotta all’ordinamento capitalistico, ne, per converso, è mai potuto esistere un sistema sociale, basato su di una economia che abbia come fine la produzione del sovrappiù, entro il quale l’intera società abbia potuto risolversi senza residui. A maggior ragione, l’uomo non si è mai potuto identificare fino in fondo con questa o con quell’altra figura di sistemi sociali siffatti, e non si è insomma ridotto mai a essere soltanto i propri rapporti sociali. Appunto perciò, nella complessità del concreto storico, le qualità preesistenti al sistema capitalistico-borghese non hanno sopravvissuto soltanto come residui del passato. Vi è stata, invece, non solo sopravvivenza, ma anche una certa accumulazione, un certo tipo di sviluppo delle qualità estranee all’ordinamento capitalistico. Però tali qualità, poiché appunto estranee i al sistema e, anzi, contraddittorie con la sua logica, con le sue leggi, con le sue tendenze, non solo hanno potuto esistere unicamente contro il sistema, in opposizione a esso, non solo hanno potuto manifestarsi unicamente ai margini del sistema, rivelandosi perciò insufficienti e incapaci di raggiungere una effettiva pienezza, ma hanno dovuto, inevitabilmente, ! esprimersi in una forma pesantemente limitata in senso individualistico, in quanto sistematicamente esclusa da ogni organica compiutezza di commercio sociale.
5 Ciò vale, evidentemente, anche per il borghese, che, in quanto tale, vive, agisce e consuma solo come un “funzionario del capitale”. “Tutto il suo fare -osserva Marx -è soltanto funzione del capitale che in lui è dotato di volontà e di coscienza, il proprio consumo privato è considerato dal capitalista come furto ai danni dell’accumulazione del suo capitale” (II Capitale, Roma 1952, voI. I, 3, p. 37). Tuttavia, mentre il lavoratore subalterno, il proletario, non può sfuggire individualmente alla riduzione del proprio consumo a consumo produttivo, il singolo borghese, invece, in virtù della sua condizione di proprietario del capitale, può destinare porzioni del proprio profitto all’allargamento del proprio consumo, distraendolo dall’accumulazione.
6 Nella letteratura urbanistica si suole generalmente spiegare la “crisi della città industriale”, limitandosi a sottolineare l’influenza che ebbero sullo sviluppo della città l’aumento della popolazione e il mutamento della sua distribuzione sul territorio, l’accresciuta produttività del lavoro, la velocità di siffatte trasformazioni e, insomma, quel complesso di fenomeni che indubbiamente si accompagnarono alla produzione capitalistica, ma solo come il tuono si accompagna alla folgore {si veda, ad esempio, L. BENEVOLO, op. cit., soprattutto alle pp. 12-28). In realtà, una simile interpretazione ci sembra carente almeno per due motivi. Anzitutto, perché essa coglie e descrive esclusivamente il quadro tecnologico e la fenomenologia sociologica che derivano dallo sviluppo storico-sociale, e non dà quindi ragione dei reali motivi dai quali quegli aspetti strettamente conseguono: j non a caso, nell’ambito di tale interpretazione, si è condotti a configurare !’ e a definire la rivoluzione capitalistico-borghese come rivoluzione industriale, in una sostanziale confusione dunque tra causa ed effetto. In secondo luogo - e ciò, sul terreno urbanistico, ci sembra ancor più grave e limitante - perché non vede che la crisi della città capitalistica è nata non solo, per così dire, a causa di una sollecitazione esterna ( quella appunto dello sviluppo storico-sociale), ma anche, e decisamente, per il rivelarsi di un’interna insufficienza dell’ordinamento formale della città e dei criteri che ad esso presiedevano.
7 K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista cit., pp. 43-44.
V – TRE TENTATIVI ....
1 L. Benevolo, op. cit,., p. 8.
2 Il che non significa, evidentemente, che da quella crisi non fosse consentita, in linea di principio, altra via d’uscita se non quella della 1 rivoluzione capitalistico-borghese. Significa soltanto che, in linea di fatto, la soluzione borghese è stata la sola che abbia potuto storicamente manifestarsi, e che si era già pienamente e irreversibilmente manifestata quando gli Owen e i Fourier davano corpo ai loro impulsi generosi ma 1 astratti, e alle loro razionalistiche costruzioni intellettuali.
3 Gli abitanti dell’insediamento preconizzato da Owen avrebbero dovuto oscillare tra i 500 e i 1500, intorno alla cifra ottimale di 1200; il villaggio di New Harmony, negli Stati Uniti, dove l’Owen nel 1826 sperimentò personalmente le proprie tesi, era composto inizialmente da 800 persone. Charles Fourier stabilisce in 1620 persone gli abitanti del suo Falansterio, l’insediamento peculiare alla mitica era della “Grande Armonia”.
4 Per Owen la coltivazione del suolo avrebbe dovuto essere compiuta con la vanga, anziché con l’aratro. “Mentre le sue fabbriche erano moderne e scientifica la sua concimazione, la vera e propria aratura del terreno doveva rimanere primitiva” (B. RUSSELL, Storia delle idee del secolo XIX, Torino 1959, p. 194). “Il suo progetto era di radunare i disoccupati in villaggi, dove dovevano coltivare collettivamente la terra, ed anche lavorare nelle industrie, sebbene il grosso del loro lavoro dovesse essere abitualmente quello agricolo” (ibid., p. 193). Per Fourier “ogni membro della società partecipa all’agricoltura al pari che all’industria”, ma “ha la prevalenza in quest’ultima il mestiere e la manifattura” (F. ENGELS, Antidühring, Roma 1956, p. 319).
5 “La dimensione di tali fantasie si rifà [...] più alla campagna che alla città; e della prima eredita soprattutto, pur con l’inserimento di atti1vità industriali, il concetto di auto-sufficienza che si invera in un organismo semplice ma completo, capace di rispondere a più funzioni” (C. AYMONINO, art. cit., p. 45).
6 “Gli uomini di cultura dell’800 sono [...] animati da una profonda sfiducia nella città industriale, e non concepiscono neppure la possibilità di ripristinare l’ordine e l’armonia a Coketown o nel corpo gigantesco di Londra. Perciò quando pensano ai rimedi giudicano che le irragionevoli attuali forme di convivenza debbano essere sostituite da altre completamente diverse, dettate dalla pura ragione, cioè contrappongono alla città reale una città ideale” (L. BENEVOLO, Storia dell’architettura moderna, Bari 1960, voI. I, p. 219).
7 C. AYMONINO, art. cit., p. 44.
8 “Non più una capitale, non più grandi città; a poco a poco il paese si sarebbe coperto di villaggi” (F. BUONARROTI, Congiura per l’uguaglianza o di Babeuf, Torino 1946, p. 141). Fourier, per conto suo, descrive e profetizza lo sviluppo storico come il susseguirsi di sette periodi: “l’umanità si trova attualmente al passaggio fra il quarto periodo (barbarie) e il quinto (civiltà)” (L. BENEVOLO, Le origini, cit., p. 84). Con il settimo periodo le città saranno sostituite dai Falansteri.
9 I “parallelogrammi” di Owen sono costituiti da un quadrato di edifici destinati agli alloggi, all’interno dei quali sono disposti -quasi a perno dell’intera composizione -i fabbricati destinati alla cucina pubblica, alle scuole, alle sale di preghiera, di lettura, di ritrovo, alla biblioteca. Particolare evidenza assumono, nell’esperimento oweniano, due istituzioni, corrispondenti a due fondamentali aspetti dell’organizzazione comune del consumo: la scuola e le attrezzature per i servizi domestici. Il Benevolo pone in particolare evidenza il primo di tali aspetti, mostrando Come la “istituzione per la formazione del carattere” abbia costituito il nucleo originario dell’utopia oweniana. Il secondo aspetto fu messo singolarmente in luce dai suoi contemporanei detrattori, i quali così sintetizzarono sarcasticamente il piano di Owen: “Costruire un grande parallelogramma cooperativo, con una macchina a vapore nel mezzo, come una donna tutto-fare” (cit. da B. RUSSELL, op. cit., p. 194). I Falansteri avrebbero dovuto esser costituiti da un unico edificio, al cui centro sarebbero stati disposti i loca1i per le funzioni pubbliche, per il refettorio, per lo studio e così via. Analogamente avveniva nelle proposte degli altri utopisti. (Si vedano in proposito le opere citate dal Benevolo.)
10 R. OWEN, Report to the County of Lanark, cit. da L. BENEVOLO, Le origini ecc., cit., p. 65.
11 L. BENEVOLO, op. cit., p. 119.
12 R. OWEN, loc. cit., p. 65.
13 L. BENEVOLO, op. cit., p. 71.
14 Vogliamo rilevare a questo proposito, l’esistenza di alcuni espliciti punti di contatto tra marxismo e utopismo, non solo sul terreno della protesta anticapitalistica, ma anche su quello della prefigurazione del destino della città. Intorno a quest’ultimo argomento è nota l’influenza che Owen e Fourier ebbero su F. ENGELS, del quale riportiamo una singolare affermazione: “La civiltà ci ha senza dubbio lasciato nelle grandi città un’eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica. Ma esse debbono essere e saranno eliminate, anche se questa e1iminazione sarà un processo molto laborioso” (Antidühring cit., p. 323).
15 E. HOWARD, fondatore del movimento della città-giardino, espose le sue idee nel 1898, in Tomorrow, a peaceful path to real reform (trad. it., L’idea della città-giardino, Bologna 1962). “La città-giardino risulta una completa creazione sociale ed economica anche se a ben guardare nessun fatto nuovo strutturale è rilevabile, nessuna ipotesi di “nuova società”, niente che non sia un prudente neocapitalismo (si direbbe oggi) aperto al desiderio che in futuro si sviluppi cooperazione, azione municipale, ecc. La fiducia nel trapasso graduale al suo ordine per conquiste continue e per mezzo del convincimento è alla base del sistema” (P. L. GIORDANI, in Considerazioni intorno a ‘Garden Cities of Tomorrow’, in appendice alla citata trad. it. del testo di Howard, p. 201).
16 L. BENEVOLO, op. cit., p. 8.
17 La posizione della quale ci stiamo occupando è stata definita, da uno dei più intelligenti e illustri studiosi italiani di questioni urbanistiche, come la posizione peculiare a quelle “nuove classi professionali sorte in prevalenza dal liberalismo, che, come un esercito che si organizza per operare, andarono gradatamente penetrando, con azioni sempre più vaste e suddivise, in tutte le branche della vita sociale, nella duplice attività di formazione delle strutture urbane e di controllo di queste strutture, man mano che una più complessa concentrazione funzionale, col suo ingrandirsi ed interferire, rendeva necessaria un’organizzazione vigilata” (G. SAMONÀ, op. cit., p. 13).
18 Va qui rilevato che, nella sistemazione ottocentesca delle grandi capitali, le esigenze della funzionalità produttiva costituirono soltanto una delle componenti; acquistarono infatti rilevanza notevole -e spesso decisiva -quelle esigenze del prestigio politico e statuale che sono essenziali alla borghesia alla vigilia e nel momento della sua espansione imperialistica. Queste ultime esigenze, nelle quali riecheggiano le antiche necessità signorili di fornire uno sbocco al sovrappiù tesaurizzato, sono particolarmente evidenti nella Parigi di Napoleone III e di Haussmann, nella Parigi, insomma, che fu realizzata - per volontà del suo signore - da quello “straordinario prefetto di genio, che ebbe la prima e forse più grandiosa visione di quanto potesse, per il prestigio dello Stato moderno, una capitale in cui la trama edilizia avesse una strutturazione imponente, spettacolare per taglio di arterie, per grandiosità di piazze e per continuità di fronti architettoniche, rese monumentali dalle ripetizioni di un determinato scomparto” (G. SAMONÀ, op. cit., p. 44).
19 Come osserva, con singolare acutezza, l’Aymonino, nel suo già citato saggio (p, 47).
20“La soluzione che darebbe alla questione [delle abitazioni] una rivoluzione sociale non dipende soltanto dalle condizioni del momento, ma anche è connessa ad una serie di questioni di molto maggiore ampiezza, tra le quali una delle più importanti è quella dell’eliminazione dell’antitesi fra città e campagna. Dato che noialtri non siamo di quelli che creano dei sistemi utopistici per l’instaurazione della società futura, dilungarci in proposito sarebbe inutile” (P. ENGELS, La questione delle abitazioni, Roma 1950, p. 43). “Voler risolvere la questione delle abitazioni e nello stesso tempo voler conservare gli odierni grandi agglomerati urbani è un controsenso. Ma gli odierni grandi agglomerati urbani saranno eliminati soltanto dall’abolizione del modo capitalistico di produzione, e quando si sarà dato l’abbrivio a questo, si tratterà di ben altro che di assegnare a ciascun lavoratore una casetta appartenentegli in proprietà” (ibid., p. 71). “Ma di risolvere la cosiddetta questione delle abitazioni non mi passa neanche per la testa; altrettanto come non mi occupo dei dettagli della questione alimentare, che è ancora più importante” (ibid., p. 136).
21 V. LENIN, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Edizioni in lingue estere, Mosca 1949, p. 32.
22 K. MARX, Miseria della filosofia, Roma 1949, p. 139.
23 “Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad essa corrisponde un periodo politico transitorio, in cui lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato” (K. MARX, Critica del programma di Gotha, Edizioni in lingue estere, Mosca 1949, p. 37).
24 V. LENIN, Stato e rivoluzione, Roma 1954, p. 106.
25 K. MARX, Critica del programma di Gotha cit., pp. 25-26.
26 V. LENIN, Stato e rivoluzione, cit., p. 102.
27Ibid., p. 108.
28Ibid., p. 113.
29 G. E. Haussmann, cit. dal BENEVOLO) Le origini cit., p. 191. Il prefetto di Parigi si batté per ottenere che la legge del 1850 sulle abitazioni insalubri venisse interpretata “nel senso che i terreni edificabili, espropriati e valorizzati dai lavori cittadini, restassero di proprietà pubblica e potessero essere venduti al nuovo valore commerciale. Ma il Consiglio di Stato decise [...] che il Comune conservasse solo le aree stradali, mentre i terreni circostanti fossero restituiti ai vecchi proprietari” ( ibid.)
30 Nel primo Stato socialista, l’Unione Sovietica, “la condizione nuova, totalmente rivoluzionaria, è sancita il 20 agosto 1918 dalla legge concernente gli affari della municipalità, che trasforma tutta la proprietà privata in proprietà regionale o municipale” (V. DE FEO, URSS Architettura 1917-1936, Roma 1963, p. 46). Del resto già nei suoi studi per la “città industriale” Tony Garnier aveva supposto che “l’amministrazione avesse la libera disponibilità del suolo” (cit. dal BENEVOLO, Storia dell’architeltura cit., p. 428). La collaborazione del Garnier con Edouard Herriot e l’amministra2Jione radical-socialista di Lione fu particolarmente stretta e intensa, talché si considera generalmente la Cité industrielle del Garnier un incunabolo della città socialista (cfr. anche il cit. scritto dell’Aymonino).
31 M. TSAPENKO, Sui fondamenti realistici dell’architettura sovietica, Mosca 1951, cit. su “Casabella-Continuità” n. 262, aprile 1962, p. 26.
32 V. DE FEO, op. cit., p. 52.
33lbid., p. 53.
1 Una interessante eccezione in tal senso è costituita da un articolo di P. CECCARELLI, Urbanistica opulenta, comparso su “Casabella-Continuità”, n. 278, agosto 1963, pp. 5 sgg. In tale articolo, commentando i risultati del concorso per il Centro direzionale di Torino, l’ A. rileva innanzitutto che “nella problematica urbanistica più recente si rintraccia un costante ed eccezionale interesse per il peso che le attrezzature terziarie esercitano sulla struttura delle città e per il ruolo che in futuro esse potrebbero esercitare in una nuova dimensione urbana”, e che, di conseguenza, “si attribuisce a un nuovo modo di organizzare ta1i elementi il compito di strutturare la nuova città e di rappresentare la società nel futuro”. Ma il Ceccarelli nega che sia possibile “prescindere da un giudizio sulla natura e il significato” della “terziarizzazione”, o addirittura assumere quest’ultima “come un processo fisiologico della società attuale”; egli coglie il nesso esistente tra “la formazione di una società opulenta e il parallelo svilupparsi del settore terziario” e conclude, su questo argomento, invitando gli urbanisti a una attenta analisi del “modello di sviluppo della società opulenta”, che costituisce oggi “l’unico riferimento preciso”. Un’altra posizione di sostanziale denuncia degli effetti dell’opulentismo è quella dell’Aymonino, della quale ci occuperemo più avanti.
2 “Il lavoro è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine. I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo. Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari, senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi di servire per fini superiori. In questo processo naturale di sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed è il lavoro arricchito che consente fini più alti. “Ora l’operazione posta in essere dallo sfruttamento è l’interruzione di questo processo naturale. Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso la produzione occorrente per soci. disfare i bisogni di sussistenza di un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto” (C. NAPOLEONI, Sfruttamento, alienazione, capitalismo, in “La Rivista trimestrale”, nn. 7-8, 1963, p. 402).
3 Perciò è proprio nella fase signorile e attraverso l’operazione storica dello sfruttamento che avviene quella riduzione di principio del lavoro, da strumento dell’-indefinita espansione dei fini e della stessa natura dell’umanità, a mezzo per la sussistenza fisica dell’uomo (dei lavoratori e dei non lavoratori): riduzione appunto nella quale si realizza e si compie, per la prima volta, la alienazione del lavoro umano.
4 La letteratura sulla “società opulenta” è ormai così abbondante che sarebbe arduo darne un’esauriente bibliografia. Quest’ultima, poi, non sarebbe di grande utilità per il lettore, dal momento che (per quanto almeno ci risulta) la pubblicistica sull’opulentismo fornisce essenzialmente una serie di descrizioni e di denuncie di fenomeni che non vengono ricondotti alle loro matrici. Vogliamo comunque ricordare che la locuzione “società opulenta” (affluent society) fu coniata da J. K. GAILBRAITH in un suo libro pubblicato negli USA nel 1958, e pubblicato in Italia con il titolo Economia e benessere, Milano 1959. Per conto nostro, ci sembra doveroso avvertire il lettore che la definizione di società opulenta che diamo in queste pagine si basa sulla fondamentale analisi compiuta da F. RODANO su “La Rivista trimestrale”, soprattutto in due scritti del 1962, Il processo di formazione della società opulenta (n. 2) e Il pensiero cattolico di fronte alla società opulenta (n. 3 ), e in uno del 1967, Società opulenta e politica rivoluzionaria (nn. 22-23).
VII – AMBIGUITÀ ....
1 Ci siamo fin qui sempre riferiti al modello opulento e alla società opulenta: rispettivamente, dunque, allo schema di principio e all’assetto sociale nel quale tale schema pienamente si realizza. Non ci sfugge evidentemente il fatto che, nel concreto storico, 11 processo di formazione della società opulenta (come, a suo tempo, quello della società capitalistico-borghese) non si è dispiegato in modo omogeneo e diffuso, non ha investito cioè simultaneamente l’insieme della società mondiale; oggi, infatti, accanto a vaste zone e a decisivi settori nei quali l’opulenza costituisce senza dubbio la situazione di fatto, ne esistono altri -estensivamente assai più r11evanti -nei quali il problema della sussistenza è, addirittura, ancor lungi da11’essere risolto (ed è questo, ci sembra, un sintomo alquanto sinistro dell’insufficienza dello sviluppo opulento). Resta comunque il fatto che la tendenza verso la opulenza è oggi, a nostro avviso, l’unica tendenza storicamente in atto, che, dunque, anche le società ancora distanti dal “live1lo opulento” non possono evolutivamente non raggiungerlo, e che infine -e proprio per tutto questo -il problema decisivo da affrontare è appunto quello dell’opulenza. Se un simile problema non fosse aggredito e risolto, teoricamente e politicamente, ciò ricadrebbe a inevitabile danno dell’intera società umana: delle sue attuali “punte” come delle sue persistenti “paludi”.
2 Nella pubblicistica sull’opulenza, si pone soprattutto e quasi esclusivamente in rilievo l’arbitrio esercitato dalla produzione attraverso il meccanismo dell’induzione del consumo, e si tende a vedere sostanzialmente in tale induzione la caratteristica decisiva del processo opulento. Per conto nostro, ci sembra di aver sottolineato a sufficienza come l’allargamento opulento del consumo abbia la propria causa fondamentale nel mancato sviluppo del bisogno umano: in un motivo, quindi, non solo diverso, ma più complesso di quello costituito dall’induzione del consumo dovuta al prepotere della produzione. Se le cose stanno come noi le vediamo, poco importa in realtà -ai fini del nostro ragionamento -che l’arbitrio dal quale è caratterizzato il consumo opulento sia dovuto all’iniziativa induttrice della produzione, o a una propensione alt’ arbitrio del consumo medesimo, o (com’è più probabile, almeno per un certo periodo) all’una e all’altra ragione insieme; quel ch’è certo, comunque, è che la medesima induzione non potrebbe manifestarsi se non esistesse la propensione da parte del consumo a subirla, e che in definitiva è più che probabile che il fenomeno dell’induzione, in quanto soggettiva operazione svolta dall’attività produttiva, tenda a scomparire via via che il processo dell’opulenza prosegue il suo cammino.
3 Tanto ciò è vero che gli animali, la cui “vita economica” è interamente e definitivamente racchiuso, per principio, nella sussistenza, non costituiscono società. Sul piano urbanistico, è interessante osservare che la città nasce, come abbiamo cercato di dimostrare, solo quando si esce dall’autoconsumo (da un modello, cioè, caratterizzato appunto da1la sussistenza del produttore e della sua famiglia come unico fine dell’attività economica} e quando il lavoro, acquistando la dimensione “sociale” comportata dalla sua forma capitalistica, viene a costituirsi come la base oggettiva per la nascita di una città materialisticamente comune. È chiaro che quando, con l’opulenza, si esce dalla necessità del lavoro, si tende inevitabilmente a tornare a una situazione caratterizzata, come quella dell’autoconsumo, dal prevalere dell’individualismo.
4 L. MUMFORD, La città nella storia, Milano 1964, p. 678.
5 Ibid., pp. 674-76.
6 Evidentemente non c’è posto per il borghese in quella “società ad alto sviluppo industriale”, in cui “quella che era una volta una libera economia di mercato si è tramutata in una economia di profitto pilotata, di carattere monopolistico privato o dirigistico statale, in un capitalismo organizzato”, in una società “il cui buon funzionamento economico in vasta misura dipende dalla politica ed è possibile soltanto grazie al costante intervento, diretto o indiretto, dello Stato nei settori decisivi dell’economia” (H. MARCUSE, Le prospettive del socialismo nella società ad alto sviluppo industriale, in “Problemi del socialismo”, a. VII (1965), n. s., n. 1, p. 8). Cfr. anche L. BARCA, Il meccanismo unico, Roma 1968.
VIII – LA CULTURA URBANISTICA ... [la nota n. 24 ha nello stampato edito il numero (chissà perché) 91; la 25 e la 26 di conseguenza nello stampato hanno il 25 e 25]
1 Il Ceccarelli, nell’articolo già da noi citato, si occupa di uno di tali punti di forza: quello dell’esaltazione acritica delle attività terziarie. Basterebbe analizzare il materiale pubblicato dalle riviste italiane di architettura e urbanistica per dimostrare che un atteggiamento analogo a quello criticato dal Ceccarelli si manifesta assai spesso tra gli urbanisti, anche in relazione alle altre conseguenze dell’opulentismo cui abbiamo qui brevemente accennato.
2 Alcune opere di quest’ultimo sono state recentemente tradotte e pubblicate in Italia (K. LYNCH, L ‘immagine della città, Padova 1964; La struttura della metropoli, in La metropoli del futuro, a cura di Lloyd Rodwin, Padova 1964).
3 LYNCH, L’immagine cit., p. 25.
4Ibid., pp. 31-32.
5 Così afferma G.C. Guarda nella sua introduzione alla trad. it. del libro del Lynch, op. cit., p. 16.
6Ibid., p. 15.
7Ibid., p. 15.
8 C. AYMONINO, Le origini dell’urbanistica moderna, cit.
9Ibid., pp. 60-61.
10Ibid., p. 59.
11Ibid., pp. 66-67.
12Ibid., p. 66.
13 K. MARX, Il Capitale, I, 2, Roma 1956, pp. 200-1.
14Ibid.
15Ibid., III, 3, p. 231.
16Ibid., pp. 231-32.
17Ibid., p. 232.
18 H. MARCUSE, cit., p. 18. Corsivo dell’Autore.
19 Si vedano in proposito i già citati scritti di F. Rodano sulla società opulenta. Ci preme qui sottolineare (se ci è consentito accennare fugacemente a un tema di grande rilevanza teorica e pratica) che la società del tempo libero, la società in cui si viene realizzando l’uscita dal lavoro;rion è la società in cui l’uomo ha raggiunto la propria liberazione, ma è, viceversa, la società in cui viene definitivamente celebrata, nelle sue conseguenze ultime, l’alienazione del lavoro umano, e perciò dell’uomo medesimo.
20 Osserva il Ceccarelli, a proposito dei progetti per il Centro direzionale di Torino, che “l’assenza di giudizio critico su tali problemi [quelli della società opulenta] da parte di molti - dal Gruppo Quaroni a quello di Astengo a quello di Aymonino - è forse segno dell’a accettazione delle tendenze attuali come di una condizione oggettivamente valida” (op. cit., p. 6). Ci sembra, in realtà, che il saggio dell’Aymonino porti ad escludere che vi sia, in tale Autore, una effettiva “assenza di giudizio critico” nei confronti del1’opulentismo; è però singolare che una simile osservazione possa esser mossa all’Aymonino -e, riteniamo, senza intenzioni polemicamente maliziose -proprio in occasione di un concreto intervento in una città, Torino, che Marcuse definirebbe “ad alto sviluppo industriale”.
21 Sul fatto che le attrezzature urbanistiche sono di per se ordinate al consumo comune, si veda, ad esempio, il Primo contributo alla ricerca sugli standards urbanistici, del Centro degli studi della Gestione case per lavoratori, Roma 1964, pp. 1-2.
22 Giustamente afferma ad esempio Giancarlo de Carlo che occorre eliminare “l’equivoco di stabilire i livelli di abitabilità come se l’attività dell’abitare si esaurisse all’interno della residenza, o al massimo si estendesse ad alcuni suoi esterni prolungamenti di servizio”; egli sostiene invece la necessità di “riferire i giudizi e i limiti [dell’operazione urbanistica] a una realtà urbana [...] costituita da ‘quanti di urbanizzazione’, entro i quali si svolgono le interrelazioni delle attività abitative, e che sono quindi ‘quanti di attrezzature’ comprendenti tra l’altro anche le residenze” (intervento al Convegno nazionale sull’edilizia residenziale, Atti, Roma 1964, p. 753).
23 È il caso, ad esempio, della “zona pianificata di Spinaceto” progettata a Roma, nell’ambito del Piano di zona prescritto dalla legge 18 aprile 1962 n. 167, dagli arch. Moroni, Di Cagno, Barbera, Battimelli e Di Virgilio Francione. L’asse di tale “zona pianificata”, che interessa circa 150.000 abitanti, è costituita da una “attrezzatura complessa continua, composta da strade e servizi pubblici e privati [...] contornata da un sistema articolato di residenze con alle spalle la campagna-parco” (Relazione del 30 aprile 1965, copia cianografata, p. 8). Tale “attrezzatura complessa continua” è sostanzialmente formata da una fascia di attrezzature, sovrapposte al sistema viario, che si prolunga nel tessuto strettamente residenziale con le attrezzature più direttamente legate agli alloggi e con i percorsi pedonali. Tutte le residenze si affacciano su di essa, mentre presentano l’altro fronte alla campagna.
24 Si può dire che tale posizione è oggi praticamente condivisa dalla grande maggioranza degli urbanisti italiani, e che essa ha cominciato addirittura a investire la più recente attività legislativa e amministrativa.
25 Il “modello nucleare” prevede “l’espansione della città realizzata attraverso una serie di ‘unità residenziali’ (neighbourhood-units), l’una indipendente dall’altra in quanto a forma, e viceversa alle altre collegate da un criterio gerarchico, in base al quale due o tre o quattro unità primarie vicine formano una unità secondaria, due o più unità secondarie, a loro volta, ne formano una di terzo grado, e così via, in maniera tale da distribuire via via a unità più grandi i servizi pubblici di dimensioni relativamente crescenti” (L. QUARONI, Città e quartiere nell’attuale fase critica della cultura, in “La casa”, quaderni di architettura e di critica diretti da Pio Montesi, n. 3, Roma 1956, p. 16). L’esempio più noto di una simile struttura è costituito dal piano di Londra di P. Abercrombie, del 1944; essa ha la sua prima formulazione in uno scritto dello studioso americano Clarence Perry .
26 Ci sembra che una siffatta tendenza a trascurare, in nome di un “massimo di mobilità sociale” (Atti, cit., p. 132), la necessaria articolazione della società, sia oggi particolarmente diffusa. In essa si esprime, estremisticamente, un’esigenza reale: quella cioè di superare lo schematismo del “modello nucleare” e la segregazione che gli deriva quando vi si riflette direttamente l’attuale contesto sociale. Ci sembra però che cercare il superamento di quel modello lungo una linea di “polarizzazione agli estremi”, oltre a essere cosa altrettanto schematica e astratta, conduca in definitiva ad accettare le caratteristiche proprie dell’assetto opulento, il quale si configura appunto come un ordinamento nel quale l’unica parvenza di socialità è costituita da quella somma di individualismi che costituisce la massa.
1 Va qui sottolineato che un simile lavoro non ha mai potuto essere considerato tale; esso infatti non è mai stato retribuito nella forma salariale (ne in alcuna altra forma), ed è stato quindi escluso da qualsiasi riconoscimento economico e sociale.
2 Una efficace e lucida denuncia della condizione della donna nella società opulenta è costituita dal libro di B. FRIEDAN, La mistica della femminilità, Milano 1964. Cfr. anche la relazione introduttiva all’8° Congresso nazionale dell’Unione donne italiane, Roma 1968 (Atti in corso di stampa).
3 Sulla funzione del proletariato nel processo di fuoriuscita dall’opulentismo ci sia consentito rinviare il lettore allo scritto di C. NAPOLEONI e F. RODANO, Su alcune questioni sollevate dal movimento studentesco, “La Rivista trimestrale”, nn. 24-25, 1967-68, dal quale sono tratte le citazioni del presente paragrafo.
4 M. MANIERI ELIA, L’architettura del dopoguerra in U.S.A., Bologna 1967, p.101.
Abbiamo già accennato al contributo che le opere dei mondiali (e quelle delle successive "emergenze") hanno portato allo sfascio delle città e del territorio. Vogliamo aggiungere adesso qualche osservazione su un ulteriore effetto perverso della "logica" dei Mondiali: il degrado della pubblica amministrazione, la cui correttezza tecnica e amministrativa è stata gravemente minata, nel corso degli anni 80, da un ceto politico largamente corrotto e, nel migliore dei casi, distratto.
Prendiamo ad esempio le "conferenze" della legislazione d'emergenza. Esse sono la trasformazione in farsa e sopraffazione di un istituto serio, tradizionalmente adoperato dalla burocrazia ministeriale. La "conferenza dei servizi" era infatti, prima degli anni 80, la concertazione operativa, da parte dei diversi organi dello Stato coinvolti in un programma o in un progetto, del modo in cui esercitare le proprie competenze. La corruzione esercitata dalla legislazione d'emergenza sugli istituti del potere pubblico è uno dei rusultati più devastanti di Tangentopoli.
Le procedure straordinarie, come hanno svuotato le competenze degli organi collegiali delle istituzioni democratiche, così hanno esautorato quelle degli organi tecnico-amministrativi. Così, ad esempio, nell'esame dei progetti si è sostituito, al parere degli organi tecnici di Stato (come il Consiglio superiore dei lavori pubblici, "supremo organo di consulenza tecnica dello Stato"), quello dei cosiddetti "nuclei di valutazione": organismi formati da liberi professionisti e costituiti caso per caso, con criteri di affidabilità politica (cioé lottizzati). Non solo è scomparsa, in tal modo, la memoria storica dell'amministrazione statale (poiché i nuclei di valutazione, una volta esaurito il loro compito, spariscono senza lasciar traccia se non cartacea), ma spesso si sono manifestate consistenti magagne tecniche. Tipico il caso dello svincolo stradale per l'areoporto di Milano-Linate. La frettolosità e l'approssimazione con cui la "conferenza" ha esaminato, e naturalmente approvato, il progetto determinò il fatto che, una volta realizzati i monumentali piloni che dovevano sorreggere l'arteria, si "scoprì" che essi interferivano con il cono d'atterraggio degli aerei. Si dovette smantellare i piloni e rifare ex novo il progetto, questa volta sottoterra. Qualche altro miliardo accollato al contribuente.
Oggi, Vincenzo Lodigiani, uno degli imprenditori coinvolti nell'inchiesta Mani pulite, nello spiegare a un intervistatore che i costruttori erano "obbligati" a pagare tangenti, si lamenta:
Non potevamo ribellarci: la nostra è una categoria molto frantumata, senza nessun potere. E poi, a chi ci saremmo dovuti appellare? Agli organi di uno Stato occupato da quegli stessi partiti che ci chiedevano soldi? Ad una pubblica amministrazione che i partiti avevano lottizzato? In vent'anni, il sistema ha distrutto un Consiglio superiore dei lavori pubblici che funzionava bene, ha stravolto anche le burocrazie più oneste e competenti come per esempio quelle delle Fs o del Genio civile [1].
Peccato che nessuno abbia protestato quando il ministro per i Lavori pubblici, Giovanni Prandini, licenziava dal ruolo di Direttore generale del coordinamento territoriale Vezio De Lucia, e quando lo stesso ministro, proseguendo l'opera del suo predecessore Franco Nicolazzi, trasferiva o costringeva alle dimissioni dall'incarico decine di valorosi funzionari. Il fatto è che tutti erano impegnati ad applaudire quando, per "modernizzare" e "accelerare" e "sburocratizzare", tutte le leggi del decennio dell'emergenza sostituivano la trattativa privata e la concessione alla gara, e alle strutture dell'amministrazione ordinaria affiancavano una vera e propria amministrazione parallela (istituita volta per volta per ciascuna occasione) formata da organi decisionali tutti presieduti da politici, costituiti da componenti nominati dagli stessi politici e supportati da "segreterie tecnico-amministrative" di uguale estrazione.
In realtà a molti dei ceti protagonisti degli anni 80, e alla stessa ideologia della modernizzazione e dell'efficientismo, una burocrazia appena appena scrupolosa e autonoma appariva null'altro che un intralcio dannoso. Bisognava rimuoverne o neutralizzarne gli elementi impermeabili alla "partecipazione agli utili", o all'obbedienza politica.
[1] Intervista rilasciata a Antonio Calabrò, la Repubblica, 6 gennaio 1993.
Con la legge del 1992 dovuta agli onorevoli Botta (Dc) e Ferrarini (Psi) [1] si introduce infine un nuovo strumento deregolatore: il "programma integrato di intervento". Uno strumento di cui non è definito il contenuto tecnico, ma che ha l'efficacia di una concessione edilizia. Uno strumento che innesca operazioni di grande trasformazione urbana (è caratterizzato "da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana"), ma è preferibilmente d'iniziativa privata. Uno strumento che è svincolato alla subordinazione al programma pluriennale d'attuazione, come se fosse una qualsiasi ristrutturazione edilizia, e può essere in variante al Prg, ma è ammesso con priorità ai finanziamenti regionali ed è assistito dal contributo dello Stato. Se, insieme alla Botta-Ferrarini, leggiamo il decreto concernente "trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali e alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica", approvato negli stessi mesi, scopriamo un risvolto interessante. Il decreto sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, dispone infatti che i "programmi di alienazione, gestione e valorizzazione dei beni immobili" che il demanio statale intende dismettere, oppure valorizzare economicamente, sono approvati con una "conferenza a cui partecipano tutti i rappresentanti delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici comunque tenuti ad adottare atti d'intesa, nonché a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta previsti da leggi statali e regionali".
A chi è affidata l'individuazione dei beni in tal modo "suscettibili di gestione economica"? Forse ad un'attenta ricognizione svolta dall'Amministrazione del demanio e dagli enti locali interessati? No: a "consorzi di banche ed altri operatori economici o società, specializzati nel settore". E l'approvazione di siffatti programmi da parte della "conferenza" comporta "variazione anche integrativa agli strumenti urbanistici ed ai piani territoriali": la presenza del Sindaco alla Conferenza decisionista sostituisce l'istruttoria tecnica, il dibattito nel consiglio comunale, i pareri di merito, la decisione della Regione e così via.
Abbastanza evidenti sono le possibili conseguenze pratiche, sul terreno dei poteri e su quello delle fortune economiche, d'un simile intreccio. È facile valutare l'appetibilità, ad esempio, di un Programma integrato d'intervento ex lege Botta-Ferrarini applicato alle aree delle ex Caserme di Prati a Roma, o all'Arsenale di Venezia, o alle numerosissime caserme dismesse o dismettibili collocate nelle aree strategiche (non più in termini militari!) delle cento città italiane. Oltre ai vantaggi e agli snellimenti della legge suddetta, gli immobiliaristi promotori di una tale operazione potrebbero beneficiare anche della deroga a ogni previsione degli strumenti di pianificazione, e alla stesse approvazione da parte degli organi consiliari dei comuni.
C'è da aggiungere che non solo i governanti e i legislatori, ma anche alcuni urbanisti sacrificano alla nuova divinità della deregolamentazione e della derogazione. Un esempio: il Prg di Rimini del 1990. Le sue norme contengono un comma che riproduciamo integralmente:
Il consiglio comunale (...), previa individuazione e perimetrazione delle aree, approva progetti speciali per servizi e attrezzature di generale interesse volti a sostenere e riqualificare l'ambiente nonché a promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano, su iniziativa di soggetti pubblici e/o privati, anche in variante alle previsioni di Prg secondo le speciali procedure semplificate previste dalle leggi [2].
La norma, insomma, prevede e giustifica a priori la propria violazione: una contraddizione in termini, un ossimoro. Nel concreto, interessanti operazioni diventano possibili eludendo ogni verifica di coerenza complessiva. Così, il consiglio comunale può accettare proposte in contrasto al Prg ("in variante alle previsioni"), anche di privati, che dichiarino di voler realizzare un "progetto speciale", purché esso sia atto a "promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano". Dove il Prg, per fare qualche esempio, prevede servizi di quartiere, o un parco pubblico, o una zona agricola, il proprietario, o un qualsiasi altro soggetto d'accordo con lui, può quindi proporre un edificio per uffici, o un centro congressuale, o un villaggio turistico, o una succursale di Disneyland.
[1] Legge n.179 del 17 febbraio 1992, Norme per l'edilizia residenziale pubblica. La legge é stata censurata dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 393 del 7-19 ottobre 1992.
[2] Comune di Rimini, Nuova normativa di attuazione del Prg, stesura modificata in sede di controdeduzioni alle osservazioni, delibera di Cc n. 704 del 19 marzo 1990, dattiloscritto, art.2.01
Questo disegno è di Lily He, figlia di Quinsan Ciao, una collega che insegna alla Virginia Tech. Lily è nata nel 1990; come vedete, è molto brava.
This design was paint by Lily He, the daugter of Qinsan Ciao, a collegue that teaches at Virgina Tech university. Lily was borne in 1990; as you can see, she is very skilful
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È negli stessi anni in cui inizia la prassi delle deregolamentazione e dell'emergenza - è agli inizi degli anni 80 - che si colloca anche il più dispiegato contributo alla delegittimazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico.
Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formulazioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una controllata sanatoria dell'abusivismo pregresso.
Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Governo decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perseguito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [1]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, come una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzionalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di sinistra, aperta anche al futuro. Se non la legge, che per l'abusivicmo nuovo costituirebbe un deterrente notevole se fosse applicata con rigore, il dibattito politico e culturale che l'hanno accompagnata hanno costituito in definitiva un incentivo all'abusivismo anziché un deterrente [2].
È una vicenda sciagurata, quella che si apre. Molti la denunciano, richiamano l'attenzione dell'opinione pubblica, fanno appello alla responsabilità dei "decisori". Molti sostengono che la scelta dell'abusivismo come occasione da cogliere (e da spremere) per impinguare le casse della finanza pubblica altro non è, sul piano morale, che la legittimazione (e l'utilizzazione monetaria) di un reato contro la collettività e il suo futuro, ed è poi, sul piano pratico, la contraddizione palese di qualunque impegno di difesa dell'ambiente, del territorio, del paesaggio e della risorsa che questo rappresenta, e infine dell'ordine nell'assetto territoriale e della certezza del diritto.
Inutili i richiami alla responsabilità. La svendita della giustizia e del territorio per una manciata di soldi (e un pugno di voti) prosegue, la legge per l'abusivismo continua il suo cammino. Ma per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianificazione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella pianificazione. È proprio questo ciò che avviene, nel corso del primo quinquennio degli anni 80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnano la discussione della legge.
In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". Il termine vuol suonare ingiurioso. Ma la ricorrenza della rivoluzione borghese del 1789 chiarirà che, dietro l'intento offensivo, si nasconde una verità. A Lucio Caracciolo che gli chiede quali siano "le radici del pensiero" degli uomini del Terrore, lo storico Lucio Villari risponde che sono uomini per i quali "il buon governo consiste nella soggezione dell'interesse privato a quello pubblico". E aggiunge: "è questo, solo questo, il fondamento della democrazia moderna" [3].
L'urbanistica, sostengono i fautori della deregulation, è un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo è nato e si è sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [4] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti è nato e si è rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.
Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato". Una parte consistente dell'opinione pubblica considerava ormai l'abusivismo come qualcosa che non era un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pagare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a saldarvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abusivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. Sicché, in definitiva, l'abusivismo è potuto apparire come qualcosa di assimilabile a una "disobbedienza civile" nei confronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si è proposti di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica.
Tutti dovrebbero riflettere con maggiore attenzione sui nessi tra la vicenda del condono dell'abusivismo e la più vasta questione della delegittimazione dell'autorità politica e amministrativa, dei partiti e delle istituzioni: soprattutto quanti ai nostri giorni pervicacemente ripropongono ulteriori sanatorie [5]. È indubbio infatti che il radicarsi della "cultura dell'abusivismo condonato" ha provocato un sostanziale e profondo indebolimento della credibilità della politica e del principio stesso dell'autorità dei pubblici poteri. Torniamo così al circolo vizioso tra abusivismo, opere pubbliche realizzate nella prassi dell'emergenza, degrado del territorio e dell'azione pubblica. Adoperiamo ancora una volta, per commentarlo, le parole dei magistrati della Corte dei Conti:
È di tutta evidenza che la localizzazione di opere pubbliche, al di fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici ed alcune volte anche contro le scelte fondamentali poste a base della pianificazione, produce la crisi della strumentazione urbanistica e mette in dubbio la stessa ratio insita nella pianificazione relativa agli usi e alle trasformazioni del territorio[6].
[1] Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.
[2] Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La dimensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del periodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1992; cfr.p.240).
[3] Intervista di Lucio Caracciolo a Lucio Villari, in:1789-1799, I dieci anni che sconvolsero, il mondo, n. 4, supplemento a La Repubblica, s.d.
[4] Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denominato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci. Libertini si é adoperato con tenacia per promuovere scelte devastanti soprattutto in materia di condono dell'abusivismo e di infrastrutture. Le sua attività provocarono, oltre a indignati articoli di ambientalisti come Antonio Cederna e Giuliano Cannata, due argomentate lettere di protesta ai massimi dirigenti del Pci, firmate da una quarantina di urbanisti di area comunista la prima, da un centinaio la seconda.
[5] E' il caso dell'on Monello, animatore della "marcia su Roma" degli abusivi siciliani ai tempi della discussione della legge. Ancor oggi eletto nelle liste del Pds, egli ha recentemente presentato una proposta di legge per la sanatoria delle costruzioni abusive realizzate in varie fasi, fino alla data odierna e, per alcuni aspetti, anche per l'abusivismo prossimo futuro.
[6] Corte dei Conti, cit., p.523.
L'anno scorso un mio amico ha effettuato l'upgrade da Fidanzata 6.0 a Moglie 1.0, ed ha scoperto che quest'ultima ha una tale occupazione di memoria da lasciare pochissime risorse al sistema per altre applicazioni. Egli ha anche notato che Moglie 1.0 ha la tendenza a generare processi-figli, che consumano ulteriori risorse.
Vi è inoltre un fenomeno negativo, non indicato nella documentazione del prodotto, la cui probabile presenza era stata ravvisata da altri utenti. Non solo infatti, Moglie 1.0 si installa in modo tale da essere lanciata per prima all'inizializzazione, e controllare così tutte le attività del sistema; ma inoltre, come lui ha avuto modo di scoprire, alcune applicazioni come PokerNotturno 10.3, Ubriacatura 2.5 e NotteAlPub 7.0 non riescono più a partire, mandando in stallo il sistema appena lanciato, anche se esse funzionavano perfettamente prima dell'installazione di Moglie 1.0. L'Applicazione Calcetto 2.2 inoltre funziona a tratti.
All'installazione, Moglie 1.0 installa anche alcuni "Plug-in" indesiderati come Suocera 55.8 e Cognato in versione Beta. Di conseguenza le prestazioni del sistema decadono inesorabilmente con il passare del tempo.
Ecco alcune caratteristiche che sarebbero gradite nella versione 2.0 di Moglie. 1) un pulsante "minimizza" o "Disabilita Temporaneamente"; 2) un pulsante "Dacci un taglio" o "vatti a fare un giro"; 3) un programma di disinstallazione che, senza perdita di tempo e di risorse, permetta di rimuovere Moglie 1.0 senza conseguenze future sulla funzionalità del sistema. 4) un'opzione che consenta di far funzionare il gestore di rete in maniera promiscua, e che consentirebbe di fare un uso maggiore della funzionalità di prove hardware.
Personalmente per evitare i problemi causati da Moglie 1.0, ho deciso di installare piuttosto Ragazza 2.0. Anche così comunque ho avuto parecchi problemi. Apparentemente è impossibile installare Ragazza 2.0 su Ragazza 1.0; occorre prima disinstallare quest'ultima. Altri utenti mi hanno detto che si tratta di un bug di vecchia data. Da prove effettuate mi sembra che versioni di Ragazza entrino addirittura in conflitto nella gestione delle porte di I/O. È strano che non abbiano ancora corretto un errore cosi' evidente. Cosa ancora peggiore, il programma di disinstallazione di Ragazza 1.0 non funziona bene, lasciando alcune "fastidiose tracce" nelle applicazioni di sistema. Ma il fatto piu' fastidioso è che tutte le versioni di Ragazza aprono continuamente una finestra che decanta i vantaggi del fare l'upgrade a Moglie 1.0.
AVVISO DI BUG (questo è veramente grandioso)
Moglie 1.0 ha un bug non documentato. Se si prova ad installare Amante 1.1 prima di disinstallare Moglie 1.0, Moglie 1.0 cancella, senza possibilità di recupero i file Soldi.dll e Casa.dll prima di effettuare l'autodisinstallazione. Quindi Amante 1.1 si rifiuterà di installarsi, segnalando la mancanza di risorse di sistema.
In un'epoca dominata dall'individualismo proprietario, quale è quella che caratterizza la lunga fase dell'egemonia capitalistico-borghese fino alle sue più recenti mutazioni ed espressioni, quella subordinazione ha avuto bisogno di specifici strumenti tecnici perché le regole dell'individualismo proprietario non prevalessero nella città: dunque, là dove ciò - se fosse avvenuto - avrebbe prodotto un insostenibile caos. Per imprimere, all'azione dei singoli proprietari e costruttori, una regola d'insieme volta agli interessi collettivi, si è inventato nella seconda metà del XIX secolo il piano regolatore; e nei primi decenni del XX secolo si è compreso che era necessario accompagnare il piano con gli strumenti che rendessero possibile una politica fondiaria non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria, e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare.
L'Italia è arrivata abbastanza tardi, rispetto agli altri paesi europei, a generalizzare la pianificazione urbanistica. Una buona legge fu quella approvata nel 1942, cinquant'anni fa, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni Essa però rimase inutilizzata per molti anni, finché gli scandali esplosi all'inizio degli anni 60, e le stesse esigenze di efficienza del sistema produttivo, non indussero a generalizzarne l'applicazione. Quando questo avvenne, la Corte costituzionale, con una serie di sentenze pronunciate a partire dal 1968, fece emergere un nodo di fondo irrisolto: la contraddizione tra i "vincoli", e soprattutto quelli "di tipo espropriativo", necessariamente posti dalla pianificazione urbanistica alla utilizzazione edilizia della proprietà privata, e i la concezione proprietaria che intride il sistema giuridico italiano.
Sono passati quasi venticinque anni, e il nodo non è stato ancora sciolto. La legittimità dei vincoli urbanistici e delle indennità espropriative, e quindi della stessa pianificazione, sono messe in dubbio. È chiaro che questo fornisce alibi consistenti a chi vuole "regolare" l'uso del territorio a partire non dagli interessi della collettività, ma da quelli dei proprietari.
Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.
Ci fu, nella storia della Repubblica italiana, un altro periodo in cui la subordinazione delle scelte urbanistiche agli interessi privati apparve come uno scandalo. Fu negli anni in cui le scelte di politica economica e sociale compiute per la ricostruzione postbellica (lasciare le briglie sciolte sul collo dell'edilizia privata) provocarono lo sfrenato divampare della speculazione fondiaria ed edilizia. Per ritrovare quei tempi, basta ricordare alcuni episodi degli anni 50 e 60 entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo memorabile film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dall'Espresso e dagli "Amici del Mondo" e indagato da Antonio Cederna, da Italo Insolera e da Aldo Natoli. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.
Non è forse allora l'urbanistica contrattata qualcosa di simile a quello che caratterizzò quegli anni? A prima vista, potrebbe sembrare. L'urbanistica contrattata può insomma apparire a qualcuno come una forma semplicemente ammodernata della vecchia, tradizionale speculazione fondiaria. (Così come, del resto, l'intreccio tra politica e affari affiorato a partire dalle iniziative del giudice Di Pietro sembra ad alcuni solo l'ennesima manifestazione della millenaria vicenda degli amministratori pubblici che si lasciano corrompere). Ciò che vorremmo sostenere invece è che l'urbanistica contrattata è qualcosa non solo di nuovo e diverso rispetto alla vecchia e nota speculazione, ma è qualcosa di infinitamente più grave, perché più penetranti e pervasivi sono i suoi effetti e le distorsioni che induce (che ha indotto) sull'intero ordinamento delle istituzioni e della società.
Ieri, si trattava di violazioni del sistema di regole dato. Oggi, della sostituzione, al sistema di regole date, di un nuovo e perverso controsistema di regole. Ieri, erano infrazioni e violazioni puntuali all'organizzazione istituzionale dei poteri. Oggi, è la costruzione di un contropotere.
E non è senza significato la differenza tra le reazioni sociali all'una e all'altra forma (quella di ieri e quella di oggi) della subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. Trenta e quarant'anni fa la speculazione fondiaria ed edilizia appariva immediatamente come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Prima dell'indagine Mani pulite l'urbanistica contrattata era invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei comportamenti: c'è da credere che il termine, se non fosse esplosa Tangentopoli, sarebbe comparso nelle prossime edizioni dei manuali di tecnica urbanistica o di diritto amministrativo.
Ma la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno esser compresi meglio ragionando su alcuni casi concreti. Il caso tipico, quello che, nel 1989, fa esplodere la questione dell'urbanistica contrattata per la dura reazione del nuovo segretario del Pci, è Firenze. Da esso è utile partire in questa sintetica rassegna, non tanto perché sia l'episodio più grave di urbanistica contrattata, ma per il significato emblematico che ha assunto, e per il possibile punto di svolta che ha rappresentato.
Allora Giuliano Ferrara si è convertito? É tornato a sinistra con i compagnetti di gioventù? Che ne pensa lei, dottor Scalfari? Sarà contento.
Questo piccolo-grosso ribaltone è anche una sua vittoria. Dirà o penserà che i topi cominciano ad abbandonare la nave che affonda. Prima Sgarbi, poi Cirino Pomicino, adesso anche il nostro Elefantino.
Via, la questione Sofri è solo un pretesto o nel migliore dei casi un'occasione. A me non piacciono i voltagabbana e perciò non mi sento di far festa, anzi. Considero la conversione a sinistra di Giuliano Ferrara un brutto segnale per la destra e uno ancora più brutto per la sinistra. E lei?
SILVIO MAZZEI Roma
Io, signor Mazzei, ho la mia opinione su Ferrara e l'ho espressa più d'una volta anche in questa rubrica di lettere e sull'Espresso. Perciò non starò a ripeterla. Ma nella fattispecie di questo piccolo-grosso ribaltone, per usare le sue parole, mi limiterò a raccontarle una barzelletta di buona qualità che mi pare sia eccellente metafora per il caso in questione.
Il figliol prodigo torna finalmente alla casa del padre dopo un lungo periodo di scioperataggine e il padre è in festa e prepara le dovute accoglienze. Il vitello grasso viene a sapere la notizia e se ne preoccupa. Teme che finisca come in altre analoghe occasioni con la macellazione del più saporoso animale della fattoria; perciò decide di scappare. Avvisa le altre bestie della stalla e se ne va. Ma poi è assalito da altri pensieri. Perché andarsene? Il suo destino è comunque segnato, lì o altrove finirà comunque al mattatoio. Tanto vale che sia laddove è nato, in mezzo ai suoi parenti e amici. Perciò torna indietro. Quando è di nuovo sulla soglia della stalla si sente una voce gridare: è tornato il vitello grasso! Risponde da lontano un'altra voce: ammazzate il figliol prodigo. Fine della barzelletta.
Ci rifletta su, signor Mazzei, ma non faccia l'errore di identificare Ferrara coi vitello grasso per via delle dimensioni.
Non pretendiamo di aver descritto compiutamente Tangentopoli. Ci stiamo, ancora, troppo dentro, troppo vicino. In qualche modo, ne siamo anche noi cittadini, ne condividiamo gli utili. Non ha tutti i torti Giancarlo Roscioni quando richiama l'attenzione sulla "piccola corruzione diffusa, quella che permette infiniti abusi in tutti i settori della vita amministrativa", e degli italiani denuncia "la mancanza di rispetto per gli altri e l'insensibilità per tutto ciò che è d'interesse collettivo" [1]. Esiste certamente, nei comportamenti collettivi degli italiani, un qualcosa, una propensione alla scelta individualistica, all'arrangiarsi e al fare da sé (in definitiva e al limite, a "fare i furbi" quando questo conviene più di quanto convenga rispettare le regole comuni) che rende lo scandalo di Tangentopoli non tanto lontano dallo "spirito dei luoghi": un evento che può addirittura sollecitare delle ammiccanti comprensioni, se non delle aperte solidarietà. Descrivere compiutamente Tangentopoli nel suo humus storico e sociale comporterebbe perciò estendere e affondare l'analisi ben al di là di quanto i nostri mezzi ci abbiano consentito, invadere altri terreni, coinvolgere altre competenze.
Un fatto resta però indubitabile. Se quelli cui abbiamo accennato sono gli atavici vizi di un'Italietta scaciata e opportunista, sottomessa e cialtrona, debole e arrogante, Tangentopoli non solo ha dato loro piena cittadinanza, ma ne ha promosso l'esaltazione: ha tentato di farli trascendere, da sopportati vizi, a celebrate virtù. I matematici insegnano l'utilità del concetto del limite per comprendere la norma. In questo senso è utile la lettura del libro di Gianfranco Bettin su Pietro Maso, il ragazzo che, con tre compagni, assassinò i genitori per ottenerne subito l'eredità, poiché illustra appunto una manifestazione-limite dell'ideologia che sta alla base di Tangentopoli. Secondo Bettin, il giovane Maso
è l'erede spaventosamente coerente di un sistema che vede nel denaro la radice della stabilità e del benessere, nonchè l'obiettivo e il conforto di ogni fatica. Un sistema in cui il valore di ogni cosa si misura in denaro. Come il lavoro e il patrimonio. Come la "bella vita", che solo il denaro può pagare. Pietro ha condotto alle estreme conseguenze gli insegnamenti ricevuti (...) Ripeteva: tu sei furbo, tu sei bravo, tu ci sai fare meglio di tutti. In un mondo di furbi nessuno ti fregherà mai.
È giusto però non fare d'ogni erba un fascio. È giusto, ed è necessario, distinguere i diversi gradi di responsabilità, ed è giusto non guardare soltanto al marcio, che certamente sembra oggi dominare l'orizzonte.
È giusto allora, in primo luogo, distinguere vizi privati e vizi pubblici per colpir più rudemente questi ultimi. È giusto, insomma, fare della distruzione di Tangentopoli il primo obiettivo di un'azione di risanamento morale: per le ragioni che fin qui sono venute emergendo, nel corso stesso della nostra narrazione, e anche per altre ragioni cui questa riflessione ci conduce. Perché, appunto, non solo guasti e nefandezze, non solo immoralità diffusa e prevaricante individualismo caratterizzano la società italiana. Accanto all'Italia dei furbi e dei furbastri, divenuti pienamente omogenei allo Stato dell'intercessione e dell'intermediazione, della raccomandazione e della regalìa, c'è un'altra Italia che con sommessa dignità si manifesta, e che da quella più appariscente e più forte viene calpestata e offesa.
Anche a proposito di questa Italia (quella in definitiva che plaude e aderisce alle iniziative dei giudici di Mani pulite) vengono in mente episodi recenti. E accanto alle statistiche degli evasori fiscali, vogliamo ricordare le lunghe file dei contribuenti romani che nella canicola ferragostana, due giorni dopo che era stata varata l'imposta straordinaria degli immobili, facevano la fila agli uffici del ministero delle finanze (ma il ministro e il segretario generale, appena promulgata la legge, erano andati in ferie nei mari del Sud, lasciando gli uffici nel caos e i cittadini nell'inutile disagio della gratuita attesa). E vogliamo ricordare le file "autogestite" che quotidianamente si formano negli uffici postali e nelle banche, testimoniando la capacità di assumere atteggiamenti rispettosi dei diritti gli uni degli altri: atteggiamenti che, a differenza che in altri paesi d'Europa, colpiscono nel nostro proprio perché si contrappongono a un'amministrazione, a una burocrazia, a un potere troppo spesso sciatti e ostili, troppo raramente "al servizio" del cittadino.
Sebbene i confini di Tangentopoli restino ancora da tracciare con una più precisa descrizione, il suo cuore, il suo "centro direzionale", crediamo comunque di averlo individuato. Esso sta nella politica. Più precisamente, nell'aver ridotto la politica a gioco per il potere, e aver reso il potere fine a se stesso: nell'aver ridotto il potere a unica finalità, rovesciandone e negandone così il valore di strumento per un fine d'interesse collettivo.
Non a caso, benché la componente statisticamente più consistente degli indagati dall'inchiesta Mani pulite appartenga all'area del Psi, e benché il craxismo costituisca in qualche modo l'ideologia e la professione di fede di Tangentopoli, la radice politica da cui la malavita politico-affaristica è germinata è quella del doroteismo: tipica figura politica (più e prima ancora che "corrente") di una Democrazia cristiana che veniva perdendo ogni sia pur discutibile finalità generale. Si può anzi sostenere che proprio il contagio operato con l'estensione del doroteismo alle altre formazioni politiche (in primo luogo al Psi, ma anche al Pci, entrato con il consociativismo nell'anticamera del potere e con le cooperative nella "cupola" degli appalti) abbia costituito la precisa matrice politica di Tangentopoli. Sebbene non si possa sottovalutare il deciso "salto di qualità" (se così possiamo chiamarlo) avvenuto nel passaggio dal doroteismo di marca democristiana a quello di stampo craxiano. Mentre il primo conservava le apparenze della rispettabilità e si nascondeva dietro il manto dell'ipocrisia (ma l'ipocrisia, diceva Chateaubriand, è in fin dei conti "l'omaggio che il vizio rende alla virtù"), il doroteismo degli anni 80 esibisce invece, presentandole come virtù, i suoi vizi di furbesca arroganza, di rampante arrivismo, di potervo sprezzo per le regole comuni.
Sembra comunque che la caratterizzazione "a dominanza socialista", che ha indubbiamente contrassegnato il primo anno dell'indagine Mani pulite, sia destinata a stemperarsi a mano a mano che l'indagine si estende: che dalla periferia e dalle amministrazioni locali si sposta verso le grandi centrali del potere pubblico (i ministeri, l'Anas, le Ferrovie, l'Iri, le banche, la Federconsorzi), da Milano verso Roma; dai luoghi insomma nei quali il Psi di Craxi si era ritagliato una cospicua fetta di potere (soprattutto nei settori delle opere pubbliche e dell'urbanistica), a quelli rimasti saldamente nelle mani della democrazia cristiana.
Socialisti, democristiani, membri degli altri partiti di governo, e anche dell'opposizione "consociata": è solo dei politici la responsabilità? Non ne hanno gli imprenditori, gli amministratori delegati e i presidenti delle società, i "funzionari del capitale" pubblico, privato e cooperativo che hanno "dato" mentre gli altri (i politici, i pubblici amministratori) "prendevano"? Certo, tra le responsabilità primeggiano quelle degli eletti e dei politici: chiamati a garantire il bene comune, di questa funzione si sono fatti scudo e spada per accrescere la loro potenza (o la loro ricchezza) privata. E seppure abbiano concusso non per se, ma per la loro formazione politica, minore sarebbe forse la loro colpa sul piano della morale personale, maggiore certamente su quello della morale civile e politica.
Ciò detto, non ci sembra però di poter dire che, nel corso degli anni 80, la malversazione tangentizia abbia dovuto esser imposta, col ferro e col fuoco, da un manipolo di facinorosi politicanti alla plebe disarmata e riottosa del "mondo dell'impresa", incontrando resistenze cocciute ed estese, o quanto meno tenaci e generalizzate perplessità. Ci sembra invece che i meccanismi di Tangentopoli siano stati costruiti con il consenso, la partecipazione e spesso anche sulla base dell'esplicita richiesta delle categorie economiche interessate.
Cesare Romiti, nel parlare agli allievi della scuola militare della Nunziatella, sulla collina napoletana di Pizzofalcone, ha perso una occasione di verità il 17 ottobre 1992. L'amministratore delegato della Fiat ha commentato così le notizie che da qualche settimana tenevano l'apertura dell'informazione stampata e di quella teletrasmessa: "Occorre ristabilire il rispetto dei fondamentali principi morali all'interno dell'amministrazione dello stato e nei rapporti con la società civile, occorre restituire funzionalità e autorità alle nostre istituzioni". Parole sacrosante. Peccato che abbia dimenticato di aggiungere: occorre restituire alle imprese l'imprenditorialità e la concorrenzialità perdute.
"Tecnicamente" (anche questo ci sembra d'averlo, se non rigorosamente dimostrato, almeno ampiamente argomentato e illustrato), Tangentopoli è stata costruita mediante la surrettizia trasformazione delle regole che determinano il governo del territorio. In particolare, mediante la sostituzione della discrezionalità (sia essa la deroga alla procedura urbanistica o la cordata di imprese per l'acquisizione concordata delle commesse) alla regola generale (sia essa costituita dalla pianificazione urbanistica o dalla concorrenza economica), la sostituzione dell'emergenza alla strategia, dell'interesse immediato (e forte) all'interesse di prospettiva (e debole). È stata costruita utilizzando e inventando strumenti idonei, più di quelli tradizionali, all'estendersi del malaffare politico-affaristico.
È su due fronti che allora è necessario intervenire. Da un lato, per ricostruire un sistema di regole e di istituti per il governo del territorio. Un sistema di regole che, per quanto innovato rispetto a quello distrutto, non potrà certo servire a cancellare la possibilità del manifestarsi di episodi di corruzione e di malversazione (solo degli sprovveduti o degli ingenui potrebbero sperarlo), ma dovrà almeno renderne più difficile e rischioso il percorso, più limitata l'azione, più tempestiva la denuncia e la repressione. Dall'altro lato, per restituire alla politica, e ai partiti, la capacità di interpretare, conflittualmente e dialetticamente, le aspirazioni più "alte", gli interessi più generali, le speranze più universali, e di guidare il corpo sociale e le sue istituzioni alla graduale realizzazione di definiti e coerenti progetti politici.
Il dibattito sulle misure concrete da prendere per correggere gli "strumenti tecnici" di Tangentopoli si è concentrato, quasi esclusivamente, sul tema degli appalti: come, con quali procedure e garanzie, con quali rinnovati istituti si debba provvedere alla scelta dei soggetti e alla formulazione dei contratti relativi alla realizzazione delle opere e degli interventi il cui committente è lo stato, in tutte le sue articolazioni centrali e locali. La questione è indubbiamente rilevante.
Sono chiare alcune delle condizioni nuove che occorre determinare: un impiego corretto (e perciò limitato a casi specifici e speciali, accuratamente circoscritti e garantiti) dell'istituto della concessione; il ripristino pieno della concorrenza, nei confronti di qualsiasi categoria di soggetti economici e quali che siano gli istituti concorsuali e contrattuali impiegati; il superamento della revisione prezzi anche mediante l'impiego di meccanismi assicurativi; la distinzione tra progetto (e cioé formulazione della domanda chiaramente e compiutamente definita in tutte le sue caratteristiche e prestazioni) e sua esecuzione. Non si tratta di fare la rivoluzione. Si tratta semplicemente di "reinventare il capitalismo": di ripristinare le regole della concorrenza come metodo per scegliere la più conveniente combinazione dei fattori produttivi. Beninteso, più conveniente non per il brigante appostato sul ponte o sul valico, ma per il committente, cioé per il pubblico.
I disegni di legge su cui il Parlamento sta discutendo sembrano muoversi, sia pure contraddittoriamente, in questa direzione. Sarebbe un passo nella direzione giusta, che dimostrerebbe che da Tangentopoli le forze politiche possono, se lo vogliono, uscire. Ma un passo non basta. Non basta stabilire e applicare nuove norme per gli appalti e ripristinare la concorrenza. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combattere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta ripristinare la concorrenzialità tra le imprese. Occorre anche altro. Occorre in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del governo del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò che nei terribili anni 80 è stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.
"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che, sull'Unità del 24 giugno 1992, analizzava Tangentopoli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si è tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprattutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbattimento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse". Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legislazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e progetti organici sul regime degli immobili".
La soluzione giusta di un problema è in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'ambiente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi è stato artificialmente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianificazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e speriamo che il lettore che ci ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora è evidente il che fare.
Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo generale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e metropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli interventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Lo richiede la domanda di efficacia e di efficienza, che promana da una società nella quale l'esigenza della parsimonia nell'impiego delle risorse si manifesta sempre più come una "virtù cardinale" (attuale come non mai è la verità programmatica dell'austerità, intuita dal Berlinguer del 1977), e lo richiede la domanda di trasparenza, base necessaria per una partecipazione responsabile, e quindi per la stessa democrazia.
Che cosa significa infatti pianificazione territoriale e urbanistica? Significa che le decisioni che comportano trasformazioni fisiche o funzionali del territorio (siano esse singole opere di notevoli dimensioni, come una strada o un porto o una fabbrica, o siano invece una pluralità di piccoli interventi, come una serie di case e casette o una rete di canalizzazioni, o siano cambiamenti delle utilizzazioni che comportino comunque differenze nel funzionamento dell'organismo urbano o territoriale) devono essere rispondenti a un disegno d'insieme che ne garantisca la coerenza nello spazio (così che, ad esempio, se in un luogo ho deciso di realizzare una riserva naturale, ai suoi margini non lascio espandere una zona industriale, e se in un altro luogo ho deciso di trasformare una caserma dismessa un una serie di uffici ho fatto in modo che il servizio dei trasporti sia in grado di garantirne l'accessibilità), e devono realizzarsi in modo che in ogni fase della vita sociale sia garantita una coerenza nel tempo (talché, ad esempio, le infrastrutture che consentono la mobilità delle persone e delle cose non vengano realizzate dopo la costruzione delle case e delle fabbriche e degli uffici, i servizi non vengano dopo le persone e così via).
Significa, ancora, non ridurre il governo del territorio alla redazione di un piano, concepito come un obbligo di legge da evadere una tantum, interamente affidato a professionisti esterni all'amministrazione pubblica locale (debitamente lottizzati, oppure scelti perchè vedettes celebrate dai mass media), disegnato come l'assetto futuribile d'una improbabile città ideale, scardinato poi mediante gli emendamenti consiliari alle norme, le varianti e variantine magari ad personam, le deroghe e le interpretazioni di comodo (in una parola, con una gestione casuale e corriva), e mai verificato nei suoi effetti. Significa assumere invece, come metodo del governo del territorio, la pianificazione intesa come attività sistematica dell'amministrazione, nella quale ciclicamente si susseguano le fasi dell'analisi e della conoscenza della realtà, della formazione delle scelte coerentemente tradotte in elaborati (grafici e normativi) precisamente riferiti al territorio, dell'attuazione e gestione di tali scelte nell'attività ordinaria dell'aministrazione (nei bilanci cone nelle politiche di settore), e infine della verifica dell'efficacia e del monitoraggio degli effetti.
Naturalmente, le scelte della pianificazione devono essere coerenti con una strategia politica, in funzione di un determinato progetto politico, riferite a un definito sistema di interessi. Devono perciò essere assunte da chi rappresenta la collettività nel suo insieme, cioé - nel nostro sistema costituzionale - dagli enti elettivi. E poiché le scelte non possono essere assunte tutte al livello più vicino al cittadino, al livello del comune (non è il comune che può decidere, ad esempio, la localizzazione di un nodo del sistema dei trasporti o di una università, e se ha una dimensione modesta neppure quella di una scuola media o di un ospedale, né l'organizzazione di un sistema efficiente di trasporti pubblici), ecco che si pone il problema che le scelte sul territorio assunte dai diversi livelli di governo (il comune, la provincia, la regione, lo stato) siano coerenti tra loro, e che il processo decisionale sia costruito in modo che nessuno distrugga o contraddica ciò che l'altro ha deciso, ma tutti partecipino alle decisioni secondo un sistema di regole che stabilisca con chiarezza a chi tocca, caso per caso, la responsabilità ultima della scelta.
Le scelte che la collettività compie sul territorio, e gli investimenti che essa opera per rendere il territorio utilizzabile, provocano consistenti effetti economici: è un fatto noto ma è opportuno ricordarlo, sia pure con la massima schematicità. Alcuni effetti agiscono nei confronti del profitto, soprattutto nel senso di ridurre o aumentare i costi di produzione (il sistema dei trasporti, a sua volta funzione del sistema delle localizzazioni insediative, rende più o meno costoso l'approvvigionamento e la distribuzione, ecc.ecc.). Altri agiscono nei confronti della rendita, nel senso di accrescere (o ridurre) il valore di un immobile (area o edificio che sia): un'area ben servita dal sistema dei trasporti, collocata in una zona dotata di servizi, asciutta e con un buon sottosuolo, non soggetta a rischi di inquinamento o inondazione, vale più di una che non abbia questi requisiti, o ne abbia solo alcuni; un'area o un complesso edilizio che possano essere trasformati per una utilizzazione più redditizia di quella attuale (edilizia residenziale invece di coltivazione agraria, o uffici invece di fabbriche) vale di più di una che debba conservare l'attuale utilizzazione, o addirittura debba "regredire" verso una meno conveniente.
In tutti i casi cui abbiamo ora accennato il proprietario dell'azienda o dell'immobile percepisce un utile prodotto da un lavoro della collettività. L'utile percepito dal possessore di profitto - questo è il punto che va sottolineato - è però ben diverso da quello del percettore di rendita. La differenza sostanziale può essere enunciata come segue. Per il percettore di profitto l'utile consiste in una riduzione percentuale dei costi che sopporterebbe, o che concretamente sopporta, per una cattiva organizzazione della città e del territorio; si tratta comunque di percentuali, più o meno modeste, del profitto complessivo prodotto dall'attività economica; e si tratta di un utile che corrisponde a una funzione sociale che il proprietario dell'azienda, in quanto ne sia anche il gestore, esercita. Per il percettore di rendita, invece, è il lavoro stesso della collettività (le decisioni e gli investimenti) che determina il valore ( almeno la sua parte di gran lunga più consistente): se la collettività non avesse deciso, con la pianificazione urbanistica, che quell'area può essere edificata, e non avesse realizzato la viabilità d'accesso, l'impianto fognario, le scuole e gli altri servizi che gli abitanti di quelle case utilizzeranno e così via, quel terreno avrebbe un valore determinato solo dalla sua utilizzazione agricola [2].
Poiché le cose stanno così, è evidente che le amministrazioni comunali, e chi con loro collabora nella redazione dei piani urbanistici (cioé di quegli atti che concretamente determinano la maggiore o minore trasformabilità di un'area o di un edificio), da un lato sono soggette a pressioni fortissime, dall'altro sono inevitabilmente nella condizione di premiare alcuni (nel senso di consentir loro di moltiplicare per dieci o per cento il valore del loro immobile), e di punire altri (cui ciò non viene consentito). Ed è altrettanto evidente che una simile situazione preoccupa fortemente anche dal punto di vista dell'equità, talché la Corte costituzionale è reiteratamente intervenuta colpendo sempre le disposizioni normative che determinavano sperequazioni troppo forti tra soggetti inizialmente nelle stesse condizioni.
Come superare questa situazione? Dopo trent'anni di dibattito e di elaborazione non è davvero difficile dirlo. L'indennità espropriativa dovrebbe essere riferita all'uso legittimo del bene da espropriare e agli investimenti effettuati su di esso dal proprietario, depurata quindi da ogni elemento derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività (quali le capacità edificatorie, derivanti dalla pianificazione). Per evitare troppo vistose sperequazioni, occorrerebbe contestualmente che ai proprietari non espropriati, nel momento dell'edificazione (o trasformazione) o della realizzazione economica del bene edificato (o trasformato), fosse sottratta, sotto forma di contributo di concessione o di imposta, la quota del valore finale derivante dalle scelte della proprietà, e cioé esattamente la parte corrispondente alla differenza tra il valore finale del bene e l'indennità di espropriazione [3].
Un simile meccanismo sostanzialmente coincide con lo spostamento, tendenzialmente integrale, della rendita immobiliare dal privato al pubblico, e - di conseguenza - con un forte disincentivo negli investimenti immobiliari. Coincide, insomma, con uno spostamento deciso degli impieghi delle risorse dalla rendita immobiliare (e dalle rendite finanziarie ad essa collegate) al profitto e al salario. Data l'entità quantitativa e il peso sociale e politico della rendita immobiliare nel nostro paese (la cui arretratezza è misurata anche da questo), è fortemente improbabile che una simile proposta possa ottenere i necessari consensi. Ciò non tanto per presunti effetti punitivi sul risparmio privato (sarebbe del tutto ragionevole riconoscere il prezzo pagato per un immobile da espropriare, sostituendo all'indennità espropriativa il valore documentato nel più recente atto pubblico, debitamente rivalutato), quanto perché una proposta legislativa di questa portata non potrebbe non far parte di un coraggioso progetto di trasformazione delle basi stesse su cui si è conformata la nostra economia e, con essa, la stessa società italiana. Basi, come si è detto, ben più intrise di rendite, sprechi, impieghi improduttivi, privilegi grandi e piccoli, che permeate di spirito imprenditoriale e degli altri "valori del capitalismo", di cui pure così spesso, particolarmente negli ultimi anni, si infarciscono i proclami e i discorsi.
Più d'un commentatore lo ha rilevato. Tangentopoli ha potuto svilupparsi perché il nostro sistema politico è stato per troppi anni "bloccato": perché gli accordi di Yalta, e la supina accettazione, in Italia, delle loro conseguenze da parte delle forze omogenee al blocco a direzione statunitense, rendevano impossibile il tradursi dell'opposizione politica in opposizione di governo, e rendevano insomma del tutto astratta l'ipotesi di una alternativa di governo. Fino agli anni 70 l'opposizione politica era tuttavia alimentata da una decisa e robusta opposizione sociale, che pretendeva l'esercizio di una qualche incisivo controllo sul governo. Ciò non impediva che si manifestassero - lo abbiamo ricordato nelle prime pagine di questo libro - fenomeni anche vistosi di corruzione. Essi erano però ben lontani dall'assumere l'aspetto sistematico che le indagini giudiziarie, e le confessioni dei responsabili, hanno rivelato. La svolta degli anni 80, il tramutarsi della corruzione da eccezione a sistema, da fenomeno trasgressivo a prassi di regime, è stata resa possibile dal tendenziale annullarsi di ogni significativa e robusta opposizione politica e sociale. La sconfitta della classe operaia sulla scala mobile (oggi, abbiamo appreso, aiutata anche dai fondi occulti raccolti da Craxi con le tangenti) e il generalizzarsi del consociativismo sono stati i momenti cardini di un simile passaggio.
Uscire da Tangentopoli significa allora oggi ripristinare una dialettica sociale e politica. Significa agire nella società, per promuovere in essa una vera rivoluzione culturale . E significa rinnovare la politica: non solo e non tanto nel senso di "cambiare le facce", quanto in un senso ben più complesso e preciso. Significa infatti uscire dal consociativismo in modo strutturale e definitivo. Non con atti di buona volontà politica, e neppure con la decisione congressuale di un partito, ma con regole nuove sul funzionamento del rapporto tra cittadino ed eletto, tra partiti e istituzioni, che renda non solo necessario, ma inevitabile, costitutivamente obbligato, e perciò anche praticamente non eludibile, il porsi delle forze politiche, e delle realtà sociali e ideali che esse rappresentano, come le matrici di schieramenti alternativi ciascuno dei quali sia disponibile e capace di assicurare un governo del paese oppure, nel caso che sia perdente al confronto democratico, di esercitare una effettiva e tenace opposizione allo schieramento che l'elettorato ha preferito: naturalmente nella comune tensione a ricostruire, e poi difendere, uno "Stato delle regole". Si tratta insomma di assumere l'obiettivo sintetizzato da Gianfranco Pasquino nel felice slogan "restituire lo scettro al principe" [4]: in altre parole, quello di riconsegnare al popolo sovrano la facoltà di decidere, tutt'assieme, quale schieramento debba governare ognuna delle diverse istituzioni, sulla base di quale impegnativa e vincolante proposta programmatica, e attraverso quali persone.
È un obiettivo necessario, ma neanch'esso è sufficiente. Non bastano infatti le regole per l'alternativa: ne serve anche il contenuto. Ciò che serve, allora, è una società nella quale sia ripristinata la dialettica tra interessi, aspirazioni, esigenze differenti: in una parola, una società conflittuale. Non è questa, del resto, un'esigenza che discende direttamente dall'analisi che fin qui abbiamo condotta? Il grande privilegio che gli anni 80 hanno conferito alla rendita immobiliare, il ruolo di guida dei processi di urbanizzazione che essa ha assunto, il nuovo intreccio tra rendita immobiliare, rendita finanziaria e profitto che si è venuto consolidando, non possono certamente essere modificati senza far leva su profondi conflitti sociali ed economici, senza far scendere in campo gli interessi contrapposti, senza insomma che si determini una reale, e trasparente, dialettica sociale.
I riferimenti concreti, i "soggetti" di un'azione di sinistra non sono certo individuabili oggi con la semplicità del passato (una "semplicità", non dimentichiamola, che era nutrita da un secolo di riflessione e di prassi) né sono meccanicamente riconducibili alle "classi lavoratrici". Oggi, occorre far riferimento a categorie, ceti, bisogni, interessi meno direttamente riconducibili al processo produttivo e alle classi sociali, più complessi e complicati: o almeno, che così ancora appaiono ai nostri occhi. Sono interessi tra i quali comunque acquistano peso via via maggiore quelli del cittadino in quanto tale, dell'utente del territorio e della città. Quel cittadino che, ancor più dopo i terribili anni 80, e a causa di ciò che nel loro corso è accaduto(e in larga misura continua ad accadere), è colpito e minacciato - nelle degradate città e nei devastati territori in cui abita - nelle sue più elementari esigenze di vita: la salute, l'impiego del tempo, la possibilità di "essere sociale" (di incontrare, di conoscere, di scambiare), quella di lasciare ai propri discendenti un ambiente dove la vita sia ancora possibile, la storia non sia ancora cancellata, e l'ordine, la funzionalità e la bellezza non siano ancora un'utopia.
[1] Gian Carlo Roscioni, "Chi ha detto che siamo brava gente ?", Repubblica, 24 giugno 1992, p.28.
[2] Per avere un'idea dell'entità del valore derivante dalle decisioni della collettività vogliamo riferire un esempio recente, di cui si é occupata la magistratura. Le aree incluse nella variante Peep '91 di Firenze furono acquistate dalle cooperative a 20 mila lire a metro quadrato, e rivendute poche settimane dopo a 200 mila lire, senza che nessun investimento fosse intervenuto per modificarne la situazione oggettiva.
[3] La proposta di legge più definita e convincente lungo queste linee é quella redatta da Luigi Scano, riprendendo e sviluppando le elaborazioni dell'Inu dei primi anni 80 (dovute allo stesso Scano e a Guido Cervati), e presentata al convegno del Pds citato alla nota 112.
[4] Gianfranco Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Laterza 1985.
Una simile sensazione - che conduce alcuni a ripiegate sull’amaro isolamento di un’attività professionale sterilmente tecnicizzata o formalistica, altri a gettarsi in un’azione politica che si deforma spesso in impaziente tecnocratismo - è poi resa ancor più acuta e insofferente dalla consapevolezza dell’esistenza di una sempre più vivace “sollecitazione dal basso”, di una spinta sempre più forte dei cittadini per un rinnovamento profondo dell’organismo urbano. Ci sembra invero fuor di discussione che oggi l’utente, il consumatore di beni e servizi urbanistici - in una parola, il cittadino - è sollecitato e sospinto ad avvertire, in misura sempre maggiore, la decisiva importanza che ha per lui una corretta soluzione dei problemi del traffico, dei servizi pubblici, delle attrezzature sociali, del verde, della conservazione, utilizzazione e sviluppo del patrimonio naturale e di quello artistico. L’opinione pubblica comincia insomma a rendersi conto, via via più chiaramente e con sempre più viva impazienza, come l’anarchico disordine e l’ormai antiquato individualismo, che ancora presiedono alla crescita della città, incidano profondamente sulla stessa vita privata e familiare degli uomini, aumentando i pesi che gravano su di essa e mortificando le sue virtualità di sviluppo.
I numerosi convegni e incontri organizzati o promossi dalle associazioni popolari e dagli “organismi di massa” sui problemi del traffico, degli orari di lavoro, delle attrezzature scolastiche e per la prima infanzia, del verde, dei servizi pubblici, della casa; le molteplici inchieste della stampa di informazione sui medesimi argomenti; il nuovo interesse dei sindacati per i fattori extra aziendali che incidono sui salario reale; lo stesso più ampio rilievo dato dai quotidiani e dai settimanali a rotocalco alle questioni e agli “scandali” connessi alla salvaguardia del patrimonio naturale e artistico, non sono forse, tutti questi, più ancora che sintomi, chiari ed espliciti riconoscimenti di un’accentuata partecipazione popolare ai differenti aspetti dell’assetto urbanistico?
E tuttavia, da questo manifestarsi e sprigionarsi di esigenze, da questo affiorare di una nuova coscienza urbanistica degli italiani, non sembra che gli urbanisti abbiano ancora saputo - o potuto - trarre un sufficiente alimento per la propria azione, ma sembra anzi, come dicevamo, che essi ne siano stati ribaditi nella sensazione di una loro forzosa impotenza. Così si deve ancor oggi riconoscere che se la cultura urbanistica ha certamente accumulato un patrimonio non solo di soluzioni tecniche, ma anche di intuizioni teoriche e di iniziali - sebbene ancora timide - affermazioni di principio, resta comunque il fatto che tutto ciò non ha fino ad oggi condotto, nella concretezza della vita sociale e politica, a una piena e matura consapevolezza dei reali termini della questione urbanistica, e non ha quindi portato l’insieme delle forze che agiscono nella società ad affrontare, in modo sufficiente, il complesso problema della città.
Tra la polis e gli urbanisti esiste insomma, indubbiamente, una cesura. Ma quali sono le sue origini ? Quali le sue cause ? Quali le vie da percorrere per superarla? Non credo che sia sufficiente, né giusto, addebitare tutta la colpa d’una simile cesura - come spesso si suol fare - all’incomprensione o al “tradimento” del personale politico; alle sue possibili insipienze, confusioni e compromessi, o magari ai suoi interessati intrighi. Una siffatta soluzione, di sapore qualunquistico, ci consentirebbe, in quanto urbanisti, solo di scaricarci a buon mercato la coscienza. Né ovviamente - non foss’altro che per quella nuova coscienza urbanistica cui più sopra si accennava - sembra possibile accettare la tesi di una qualche immaturità della coscienza civile degli italiani, dalla quale il nostro paese dovrebbe magari sollevarsi mediante una semplice imitazione di frigidi - e comunque incongrui - modelli di importazione anglosassone o scandinava.
Siamo convinti invece - ed è questa la tesi, la premessa sulla quale si basa questo lavoro - che se la cultura urbanistica avesse una reale, chiara, profonda consapevolezza dei propri principi e del proprio ruolo peculiare e specifico, non solo quella cesura di cui si diceva sarebbe assai facilmente colmata, ma accadrebbe addirittura che, dall’incontro tra le virtualità della disciplina urbanistica e le nuove (e le antiche) esigenze dei cittadini, verrebbe a scaturire un potenziale capace di sollecitare l’intera società civile a un reale e dispiegato sviluppo. Ciò che allora ci compete soprattutto di ricordare (ogni qual volta ci sentiamo sospinti, dalla sensazione della sterilità del nostro operare, all’amaro e orgoglioso isolamento, o all’intervento surrettizio in campi che non appartengono alla nostra specifica azione di urbanisti) è che la nostra disciplina non ha tutte le carte in regola, e che è dunque di essa, in primo luogo ed essenzialmente, che ci corre l’obbligo e la responsabilità di occuparci.
Per conto nostro, tenteremo in questo scritto di trovare - aiutandoci con quel tanto di luce che una sommaria analisi della storia può gettare sul presente - almeno alcune premesse sulla cui base sia possibile lavorare per affrontare correttamente e, in prospettiva, per risolvere l’odierno problema dell’urbanistica. E se l’esigenza di individuare i principi che determinano l’autonomia, le leggi, il ruolo della disciplina e dell’operazione dell’urbanistica, condurrà talvolta a descrivere e a interpretare i diversi assetti della società cogliendoli soprattutto nel loro aspetto di sistema (e cioè nella loro medesima configurazione di principio), il lettore attento comprenderà facilmente - così almeno speriamo - come non ci sfugga il fatto che ogni concreta realtà sociale non si identifica, non si sovrappone completamente, non viene necessariamente a coincidere nel suo insieme e in ogni sua parte con quel determinato sistema sociale che, volta a volta, ne definisce e ne sintetizza gli elementi essenziali. Ed è anzi proprio dalla circostanza che praticamente mai nella storia - e neppure oggi, nel moderno sistema dell’ opulenza - un determinato sistema sociale ha potuto pienamente soddisfare le esigenze della città e dell’urbanistica, né tutte quelle della società civile, che scaturisce la necessità - e la possibilità - di giungere oggi a un più comprensivo ordinamento sociale e, insieme, a un più armonico assetto urbanistico.
2. Insufficienza delle consuete definizioni di “città”
Come spesso avviene, l’etimologia può offrire anche in questo caso una utile traccia di partenza per avviare la ricerca. E infatti, quali che siano le connessioni e le complicazioni, quali che siano le forme e i contenuti che si vogliano attribuire alla scienza urbanistica, è indubitabile che tale scienza è in primo luogo - come appunto l’etimologia suggerisce - la scienza della città. Per cominciare a comprendere allora che cosa sia l’urbanistica, occorre domandarsi anzitutto che cosa sia la città.
Un simile modo di affrontare la questione può risultar oggi particolarmente necessario e fruttuoso, poiché ci sembra che le attuali difficoltà, incertezze, contraddizioni, entro le quali la disciplina urbanistica si muove, abbiano appunto la loro radice in una scarsa consapevolezza di quel che la città rappresenta, costituisce ed esprime. Ci sembra, in altri termini, che la mancanza di una definizione sufficiente di “scienza urbanistica” derivi proprio dall’attuale incapacità di formulare una definizione pienamente accettabile della città.
Oggi, infatti, o si dà di quest’ultima una definizione assolutamente generica, e perciò del tutto inutilizzabile; o se ne esprime un’interpretazione permeata da una carica d’utopismo visionario, asservita a una astratta prospettiva escatologica, e perciò sostanzialmente distorta e inservibile sul piano della riflessione scientifica; oppure, infine, anche quando la ricerca sembra approfondirsi e articolarsi e pretendere a un più meditato rigore, non si riesce mai a superare il piano di una mera descrizione empirica della città.
Nella letteratura urbanistica quest’ultima posizione si manifesta in due versioni diverse e anzi apparentemente opposte. Da un lato, infatti, è chiaro che ci si limita a una elementare descrittiva del “fenomeno urbano”, quando, nella scia della tradizione positivistica, si assumono i ,moduli scolastici di un’analisi da manuale e ci si esercita, quindi, nell’enumerazione pedissequa dei vari “tipi” di insediamenti concentrati, delle diverse “funzioni” svolte nell’ambito urbano, o delle differenti “forme” nelle quali la città si è incarnata. Ma, dall’altro lato, è quasi altrettanto palese che una posizione puramente descrittiva è anche quella in cui approda necessariamente allorché, pur criticando come astratta e sterilmente accademica l’intenzione erudita di classificare i vari aspetti (tipologici, funzionali, o formali) della città, si tenta di capovo1gerla semplicemente: allorché insomma, esclusivamente sollecitati dalla preoccupazione di evitare ad ogni costo d’esser “tagliati fuori dalla realtà dei fatti”, ci si propone, proprio per questo, di restar strettamente e tenacemente attaccati alle cose, di aderire al loro sviluppo senza mai discostarsene, di razionalizzare gli ostacoli via via incontrati sul cammino univocamente determinato dall’evoluzione spontanea.
Nessuna legge di principio, nessuna caratteristica di base della città può venir individuata e stabilita - o anche soltanto ricercata - nell’ambito di una posizione siffatta, la quale anzi non può che negare l’esistenza di qualunque legge, di qualunque ordine, di qualunque principio che non siano quelli del processo storico in atto. Ci si riduce allora, necessariamente, all’“accettazione passiva e incondizionata - alla mera descrizione - dei livelli di sviluppo raggiunti, momento per momento, per effetto di un gioco di forze di cui l’urbanistica non partecipa e che non controlla”. Anzi, quanto più ci si sforza nel tentativo di conservare almeno il fantasma di una presenza urbanistica distinta dalla spontaneità del processo evolutivo, tanto più si finisce poi, inevitabilmente, per teorizzare l’esistente, per “costruire”un modello di città che è lo specchio fedele delle esigenze del moderno capitalismo, per erigere, infine, un siffatto modello di città a valore assoluto e archetipo universale e permanente.
D’altra parte, poiché, sul terreno dei fatti, l’aspetto dell’attuale città capitalistica che più immediatamente ed evidentemente può venir colto è quello di un dinamismo urbanisticamente imprevedibile, è quello della mobilità, del dialettico modificarsi delle situazioni e dei rapporti, dell’irrequieto mutare di tutte le grandezze coinvolte nello sviluppo del sistema, un solo “modello” può venir teorizzato nell’ambito della posizione anzidetta: quello, appunto, per cui si concepisce la nuova città come “una relazione dinamica che si sostituisce alla condizione statica della città tradizionale”, come “il luogo di situazioni omogenee in continua mutazione, dove ogni parte si integra alle altre secondo un rapporto che si modifica a ogni fase dello sviluppo”. Ma una formulazione siffatta non esprime forse il destino cui si è condannati ove si accetti di rinchiudersi nella posizione che abbiamo tentato di delineare? È un destino, infatti, che comporta il perpetuo inseguimento di una realtà in movimento perenne, la quale - come la filosofica tartaruga di Achille - precederà sempre di un passo l’urbanista, i suoi tentativi di incidere sulle cose e le sue illusioni di distinguersi da esse.
Ma allora, se è vero che la scienza della città non si è finora mostrata capace di individuare con esattezza quello che costituisce il suo oggetto specifico, è evidente che proprio questo punto deve essere inizialmente affrontato da ogni ricerca che voglia darsi ragione delle condizioni presenti della disciplina urbanistica.
È possibile elevare .una simile osservazione sino al livello ed alla dignità di una tesi definitoria? È possibile, in altre parole, asserire che sempre e di necessità, quando l’attività produttiva si svolge comprendendo tra le sue caratteristiche anche quella suddetta, l’insediamento deve assumere una forma peculiare, definibile soltanto come città? Se vogliamo tentar di legittimare questo passaggio, invero decisivo, dalla mera constatazione alla tesi e alla definizione di principio, dobbiamo comprovare almeno tre distinte posizioni.
Dobbiamo dimostrare innanzitutto, per così dire negativamente, che quando l’attività produttiva non si svolge obbedendo a quella caratteristica di cui sopra si è detto (e si svolge dunque ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un consumatore determinato), l’insediamento umano, per concentrato che possa essere, non è assolutamente una città, né merita quindi di venir definito in tal modo. Dobbiamo poi dimostrare in secondo luogo - ed è questo evidentemente il punto centrale - che effettivamente, quando nell’attività produttiva è comunque presente quella caratteristica (la caratteristica cioè della scomparsa come fine del consumo individuale di un consumatore determinato), allora, e soltanto allora, l’insediamento umano assume i caratteri e le forme di una vera e propria città, e comporta quindi e pretende di essere definito come tale. Ma c’è una terza posizione che bisogna a ogni costo dimostrare o, per meglio dire, c’è da rispondere a una obiezione che nasce dall’esperienza medesima di questa nostra città disorganica e disperata, caotica e disumana, e in cui tuttavia, come proprio poco fa si è sottolineato, l’attività produttiva obbedisce senza dubbio alla caratteristica di non essere rapportata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un consumatore determinato. Bisogna cioè dimostrare che l’insufficienza, la vera e propria alienazione della città nella sua forma di città contemporanea, non dipende dal fatto che nell’attività produttiva è presente quella caratteristica di cui più volte si è detto, ma discende da altre ragioni, sicché, anzi, sviluppo della città nella sua pienezza e nella sua autonomia può aversi soltanto nel quadro di un’economia nella quale l’attività produttiva abbia e mantenga la caratteristica di svolgersi fuori dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo con il consumo individuale di un consumatore determinato.
Inizieremo dunque senz’altro la nostra argomentazione, studiandoci di mostrare come non si dia luogo a città quando l’attività produttiva è ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un qualche consumatore determinato. In corrispondenza a una simile caratteristica la storia ci ha fornito due soli esempi, due soli modelli economici: quello dell’autoconsumo e quello dell’economia signorile.
2. Il modello dell’autoconsumo e l’insediamento disperso
L’economia dell’autoconsumo può essere essenzialmente definita come quell’economia nella quale il produttore produce per il proprio consumo, e consuma per poter continuare nel tempo, e al medesimo livello, la propria attività di produttore. È quindi evidente che un simile modello risponde alla caratteristica prima postulata; nell’autoconsumo, infatti, il fine immediato, fisico, esclusivo dell’attività produttiva è costituito certamente dal consumo individuale di un consumatore determinato, che in questo caso coincide appunto con la persona medesima del produttore. Ma d’altra parte, poiché in una simile economia il fine del consumo è a sua volta costituito dal mantenimento delle condizioni di una ripresa, al medesimo livello, dell’attività produttiva del consumatore stesso, ecco che i bisogni, che è necessario soddisfare perché tale attività produttiva possa aver luogo, sono, e possono essere soltanto, i "bisogni della vita fisica, della sussistenza corporea dell’individuo e della sua famiglia (quelli cioè della reintegrazione e della ricostituzione dell’energia lavorativa); il lavoro, proprio per tutto ciò, non può non essere applicato, e viene a essere esclusivamente e unicamente applicato, all’appropriazione diretta e immediata delle risorse della natura, che in tanto vengono appropriate, elaborate e trasformate, in quanto devono essere, immediatamente e direttamente, consumate.
Una conseguenza discende allora palesemente da tutto questo. L’unica forma di vita associata, l’unico organismo sociale che venga già preteso e sostenuto dall’economia dell’autoconsumo, è quello costituito dalla famiglia in quanto istituto ordinato alla riproduzione della forza-lavoro: così originaria è per l’uomo, così intrinsecamente umana è la famiglia, che anche la forma primordiale dell’economia già la pretende e la sostiene. In ogni modo ciò che qui interessa di sottolineare è che nessun altro ordinamento, nessun altro schema sociale è necessario al funzionamento del modello dell’autoconsumo, come nessun altro, del resto, può venirne sorretto. Allora, sul :piano delle forme dell’insediamento umano, è chiaro altresì che il ciclo chiuso, localizzato, meramente reiterantesi dell’economia dell’autoconsumo ha, quale suo unico corrispettivo residenziale omogeneo, quello dell’insediamento individuale e disperso, il quale, poi, trova come suo invalicabile limite superiore quello che deriva dal mero accrescimento naturale della residenza unifamiliare: il villaggio, racchiuso e circoscritto nell’ambito degli elementari interessi di consumo e di produzione (e in definitiva di sussistenza) di una famiglia solo quantitativamente più estesa, di una gens.
L’autoconsumo, dunque, non postula, non può postulare la città, non può darle vita. E comincia allora ad acquistare un senso reale, una effettiva profondità un significato logicamente comprensibile, l’osservazione elementare e quasi ingenuamente empirica, per non dire lapalissiana, che la città è la non-campagna: poi che infatti un’economia di autoconsumo (quella appunto che, come si è detto, comporta e pretende solo un insediamento sparso e che esclude quindi, nel modo più radicale, la dimensione della città) non può non svolgersi se non a immediato contatto con la natura, con le risorse naturali, e dunque nelle campagne. Ma per procedere nell’argomentazione bisognerà ora mostrare come neppure l’altra forma di economia ordinata al consumo individuale di un consumatore determinato - l’economia signorile - possa condurre a una vera e propria città: come insomma, se ci è consentita un’espressione simbolica e quanto mai ellittica, la città sia anche il non-castello.
3. L’appropriazione signorile del sovrappiù.
L’economia signorile è caratterizzata dall’operazione dello sfruttamento, la quale consiste sostanzialmente nel fatto che il lavoro di una parte del genere umano (i servi)viene violentemente ordinato dalla libertà dal lavoro di un’altra parte del genere umano (i cui membri in quest’atto si costituiscono in signori). È chiaro allora che l’economia signorile può sorgere solo sulla base della formazione del sovrappiù. Essa può sorgere, in altri termini, solo quando il lavoro umano, per quel suo sviluppo che è preteso dalla stessa natura dell’uomo e che si è venuto esplicando nella storia, raggiunge un determinato livello di produttività: esattamente quel determinato livello che consente di ottenere, alla fine del ciclo produttivo, una eccedenza di beni prodotti, rispetto alle esigenze del consumo necessario alla sussistenza fisica del produttore.
Ma non a caso non si è scritto semplicemente che l’economia signorile sorge sulla base del sovrappiù, e si è detto invece, più complessamente, che essa può sorgere su quella specifica base. In realtà, poiché è proprio nell’ambito dell’economia dell’autoconsumo che deve naturalmente formarsi e viene a rivelarsi storicamente (a un determinato stadio dello sviluppo della produttività del lavoro) un’eccedenza produttiva, nulla vieta che questa eccedenza medesima rimanga nelle mani di quanti l’hanno prodotta; in tal caso, ovviamente, non potrebbe sorgere né la figura del signore ne un’economia signorile.
Però, i produttori che ormai, per ipotesi, detengono un sovrappiù, possono rimanere subalternamente entro il quadro delle categorie tipiche dell’autoconsumo. Ma in una simile ipotesi, allora, essi non possono distinguere in modo netto e inequivocabile, dall’insieme del prodotto, il sovrappiù; non possono prendere coscienza di questa nuova realtà della vita economica; non possono comprenderla e assumerla nella sua specificità e nella sua novità; non possono individuare e scoprire le nuove regole, le nuove forme che discendono, per la stessa economia, dal fatto che un sovrappiù si è formato. L’eccedenza, infatti, nell’ideologia di questi produttori rimasti entro l’orizzonte dell’autoconsumo, diverrebbe, indiscriminatamente, sia occasione e possibilità di maggiori consumi, sia garanzia e riserva di consumo sufficiente per gli anni e per le stagioni di carestia (in una sostanziale confusione dunque tra incremento di consumo e consumo differito ), sia infine, per non dire soprattutto, occasione e possibilità di minor lavoro, di un allargamento del riposo, del tempo libero. Dimodoché si fa chiaro che in tal modo tutte le nuove possibilità dinamiche implicite nel sovrappiù verrebbero, nell’ambito di un anacronistico perdurare dell’ideologia dell’autoconsumo, mortificate e disperse. È questa, in definitiva, la possibile debolezza fondamentale, il possibile limite - che può divenire appunto, a un determinato momento, concreto, e diviene allora catastrofìcamente disumano e antiumano - insito nella fase dell’autoconsumo. Ma è su questa debolezza che s’inserisce l’iniziativa del signore, trovandovi anzi la sua giustificazione storica.
In realtà, se la formazione del sovrappiù è la condizione naturale e storica di base per il sorgere dell’economia signorile, questa sorge poi rea1mente, in concreto, solo quando dalla volontà di un uomo viene posta in atto una determinata e peculiare operazione storica. È appunto l’operazione dello sfruttamento, la quale senza dubbio è voluta da un uomo (colui che diventa il signore) per appropriarsi del sovrappiù prodotto da un altro uomo (colui che viene ridotto a servo). Certo, una simile operazione - poiché appunto in questa volontà consiste e di questa di continuo si alimenta - fa pagare all’umanità il prezzo intollerabile, e foriero di nuove contraddizioni, dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo; e tuttavia, nel tempo medesimo, essa conduce, oggettivamente ma inevitabilmente, a distinguere il sovrappiù, a liberarlo, a enuclearlo da quella indiscriminazione, da quella indistinzione cui rimane condannato nel quadro dell’ideologia dell’autoconsumo, e in cui si viene a perdere tutta la potenzialità dinamica dell’eccedenza.
Ecco dunque perché si è detto più sopra che l’economia signorile può sorgere, e non sorge automaticamente, una volta che si sia formato il sovrappiù. In effetti, poiché la formazione del sovrappiù rende solo possibile la fuoriuscita dall’autoconsumo, e rende dunque solo possibile l’instaurazione di un’economia signorile, è l’atto del signore che fonda realmente l’economia signorile e che perciò rende quest’ultima, da meramente potenziale, storicamente effettuale; ma allora, in definitiva, quel medesimo atto è anche un modo (uno dei modi, almeno, se non certo l’unico possibile in linea di principio, né l’unico storicamente verificatosi) per cui la necessaria fuoriuscita dal limite, divenuto disumano, dell’autoconsumo, trapassi a sua volta dalla pura possibilità alla concretezza storica. Solo che - ed è questo un punto che va particolarmente sottolineato ai fini di questa ricerca - un simile modo, il modo signorile di enucleare il sovrappiù, appunto perché implica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non solo mantiene l’attività produttiva immediatamente, fisicamente ed esclusivamente rapportata al consumo individuale di un consumatore determinato, ma comporta tutta una serie di contraddizioni le quali hanno, anch’esse, un’estrema importanza sul piano dell’urbanistica: sulla natura, sul carattere e sulle leggi peculiari all’insediamento umano preteso da una simile economia.
4. Caratteristiche e leggi del modello signorile
Riassumendo quanto finora si è detto, si può affermare che l’economia signorile nasce quando il sovrappiù, formatosi amano a mano nell’ambito delle unità produttive fino allora caratterizzate dall’autoconsumo, viene appropriato individualmente da un uomo. Ma a quale fine, a quale obiettivo viene ordinata una siffatta appropriazione? A quelli, evidentemente, che costituiscono l’ideale dei signore, il quale in tanto sottrae il sovrappiù ai produttori, in quanto solo così può raggiungere lo scopo di consumare senza produrre e può dunque, per così esprimerci, uscire dalla produzione, uscire dal lavoro.
Da tutto ciò nascono appunto quelle conseguenze che interessano direttamente il discorso urbanistico: in primo luogo, è chiaro che l’operazione dello sfruttamento, l’operazione tipica dell’economia signorile, comporta il permanere di un rapporto fisico, immediato, esclusivo tra l’attività produttiva e il consumo individuale di quel consumatore determinato che è il signore: a un tale consumo è infatti direttamente ordinato il sovrappiù. In secondo luogo poi - ed è questa l’origine di quella serie di contraddizioni di cui sopra si è parlato - poiché il fine dello sfruttamento sta appunto nella fuoriuscita dello sfruttatore dalla produzione, è chiaro che lo sfruttatore medesimo - il signore - si costituisce in puro consumatore; egli diviene, cioè, un consumatore libero dalla necessità di lavorare per consumare, nell’atto stesso in cui l’altro, lo sfruttato, il produttore del sovrappiù appropriato dal signore - insomma il servo - viene ad essere ridotto tutt’intero, nel suo lavoro come nei suoi consumi, a mero strumento produttivo per la soddisfazione di un puro consumo.
Un siffatto consumo - il puro consumo appunto - quel consumo del signore che è divenuto il fine cui tutta l’economia è ordinata, acquista dunque un carattere ed è sottoposto a un destino davvero singolare. Che cosa significa infatti che il consumo signorile è divenuto un puro consumo? Significa che, per principio, esso viene soddisfatto senza che colui che lo soddisfa, il signore, paghi il prezzo del lavoro. È allora un consumo che, liberandosi dal lavoro, si è liberato con ciò dalla sua condizione necessaria, e dunque da ogni necessità, ed è divenuto per questo un consumo libero, un consumo fine a se stesso. In definitiva quindi, e appunto per tutto ciò, esso non può non divenire opulento, non può cioè non crescere su se stesso e complicarsi via via all’indefinito. E di fatto, sottratto com’è ad ogni legge esterna (ove si escluda il condizionamento storico e sociale, per altro continuamente superabile, costituito dalla quantità di sovrappiù disponibile), esso diviene l’espressione materiale medesima della libertà e della dignità del signore, la realizzazione della volontà del signore, del suo arbitrio, del suo capriccio.
Innanzitutto quindi, nella sua forma più immediata e originaria - in quanto cioè consumo dei beni necessari alla sussistenza fisica del signore - esso verrà via via a svi1upparsi e a complicarsi (privo ormai di ogni collegamento persino con le radici naturali di un consumo per l’esistenza) fino alle forme più raffinate, più arbitrarie e più disumane del lusso. Subito dopo, poiché la garanzia della sussistenza fisica del signore fuori dalla necessità del lavoro determina al tempo stesso la piena e totale libertà, la meta-economicità assoluta, e insieme l’irriducibile carattere individuale di ogni possibile attività signorile (attività che appunto si svolge al di fuori della legge comune del lavoro), ecco che il consumo signorile si costituisce come quel punto in cui di continuo vengono drenati, a sostegno di tale attività, i beni e la ricchezza prodotti nel mondo servile dell’economia. Il consumo signorile, così, si costituisce come il punto in cui tali beni trapassano dalla sfera dell’economia alla sfera di quanto non può non definirsi come cultura, come civiltà, poiché vi si esprime tutto ciò che non è servile, tutto ciò che non è immediatamente ed esclusivamente ordinato alla produzione dei beni per la sussistenza fisica, e che tuttavia non a caso - come ormai è facile intendere - ha sempre patito il limite di un individualismo sfrenato, di una barbara negazione dell’umanità in nome dell’esaltazione dell’uomo, e che di fatto, impossibilitato per principio a raggiungere un’universalità sufficiente, ha dovuto sempre soffrire il destino del corrompimento e della decadenza. Ciò che qui soprattutto interessa, tuttavia, è che il consumo signorile possiede, per il suo stesso carattere organico, proprio, cioè, per la peculiare natura che lo contraddistingue e che ne determina le leggi e le prospettive, un’enorme capacità di concentrazione del sovrappiù; al limite e in linea di principio, è sufficiente un solo signore per drenare e concentrare tutto il sovrappiù storicamente esistente.
5. L’insediamento concentrato peculiare all’economia signorile. “pomposa Babilonia”
Alla rottura del chiuso e breve cerchio dell’economia dell’autoconsumo (rottura che costituisce, come si è visto, la conseguenza diretta e immediata dell’appropriazione signorile del sovrappiù), viene allora a corrispondere, sul terreno che più strettamente riguarda l’urbanistica, la necessità di uscire dalle forme dell’insediamento sparso. Infatti, parallelamente e contemporaneamente allo spezzarsi di quel processo circolare dell’economia che aveva nell’autoconsumo la sua forma più elementare, più immediata, più staticamente determinata e localizzata; parallelamente e contemporaneamente al porsi del fine del processo economico nel consumo signorile, avviene sul piano sociale -e di conseguenza su quello dell’insediamento umano - una trasformazione altrettanto decisiva. L’esclusivizzata finalizzazione della produzione servile al consumo del signore si riflette e si completa, invero, nella subordinazione del contado (delle unità familiari, delle residenze disperse, delle elementari agglomerazioni dei vi1laggi) alla sede del signore. Questa d’altra parte, appunto per quella organica capacità di concentrazione che è peculiare al consumo signorile, tende ad aumentare, in misura via via crescente, il proprio peso, il proprio potere, e dunque le proprie dimensioni medesime.
Si può dire allora che è strettamente inerente all’economia signorile la necessità di dar luogo a un insediamento umano concentrato. Questo sorge e si sviluppa sulla base della coordinazione e del collegamento dei precedenti nuclei umani, delle preesistenti unità produttive, il cui sovrappiù deve venire regolarmente e sistematicamente rastrellato dagli incaricati del signore per affluire senza tregua alla sua sede, reggia o castello o monastero che sia; e quell’insediamento concentrato, allora, si accresce poi e si agglomera intorno al nucleo centrale del consumo signorile (attorno al punto focale della sede del signore) a mano a mano che l’accumulazione del sovrappiù può e deve dar luogo a una corte; a mano a mano che il consumo del signore e della sua parassitaria “servitù cortese” impone il formarsi di categorie di lavoratori che producano direttamente per il lusso signorile, e che, infine, masse sempre più imponenti di “servitù villana” si insediano attorno al luogo stesso cui è ordinata la loro attività di produttori di sovrappiù.
L’economia signorile può, e deve, dar luogo a un insediamento concentrato. Ma d’altra parte, è facile vedere, sulla base di quel che finora si è detto, che un simile insediamento nulla aggiunge al “castello”, né da esso può distinguersi se non sul piano meramente fenomenologico e descrittivo della quantità delle residenze agglomerate attorno alla sede signorile. In quell’insediamento si concentrano infatti i membri di un’umanità subalterna, che è condannata alla funzione esclusiva di produrre un sovrappiù utilizzabile fuori da essa, fuori dalla sua possibilità di conseguire un effettivo sviluppo umano: vi si concentra, insomma, la massa dei servi, aggiogata a un destino ineludibile di mero strumento di produzione del sovrappiù signorile. E seppure, nel momento e al livello di maggior splendore di tali insediamenti concentrati, questi sono abitati da più illustri personaggi, da individui liberi dalla produzione, costoro, in definitiva, non sono altro che i cortigiani, i clienti; sono insomma i membri di quella classe il cui unico ruolo consiste nel permettere al signore di consumare come opulenza, a fini di lusso o a fini di “civiltà”, il sovrappiù accumulato. Anch’essi sono dunque legati, inevitabilmente e per principio, a una funzione subordinata e servile.
Nell’insediamento concentrato dell’epoca signorile l’umanità, il valore, la dignità, la libertà, l’onore, il fine stesso dell’ordinamento economico, sociale, civile, tutte le caratteristiche, insomma, peculiari dell’uomo, sono dunque effettivamente presenti soltanto nella figura individuale del signore (quindi in modo di necessità deformato). Un simile insediamento umano, pertanto, preso nel suo insieme, ha la sua ragione e il suo fine fuori di sé; esso è alienato dal signore, è schiavo della sua libertà, del suo arbitrio, è anzi il luogo stesso della servitù: è il luogo della residenza di quanti non sono socialmente uomini. È allora impossibile qualificare come vera e propria città un insediamento siffatto. Non sono certamente città quei concentramenti, nati in funzione del consumo signorile del sovrappiù, che, come il Cattaneo acutamente osservava, sono “pompose Babilonie, sono città senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo”. Se pertanto un ordine può mai venir impresso a siffatte Babilonie, se con una regola e una legge si vuole sottrarle al caos, all’anarchia, alla casualità che sono loro connaturati, quell’ordine, quella regola, quella legge possono venire solamente dall’esterno. La regola, la legge, l’ordine non scaturiranno mai organicamente dall’insediamento signorile; essi verranno imposti dal “castello”.
Come l’insediamento omogeneo all’economia dell’autoconsumo, così anche quello compatibile con l’economia signorile non può quindi essere propriamente definito una città. Certo, l’attuale cultura urbanistica è riluttante a riconoscere la validità di un simile giudizio. Ma non è cosa, questa, che possa meravigliare. In verità, se ci si arresta al livello meramente fenomenologico dell’osservazione dei dati più elementari e immediati, se ci si limita a definire la città come un’agglomerazione di residenze, come un insieme quantitativamente rilevante di edifici, come una concentrazione demografica, l’insediamento signorile può essere effettivamente considerato come una città. Ma come pagine addietro si è già affermato, simili definizioni sembrano del tutto insufficienti. Difatti - come si vedrà in seguito - quelle definizioni non permettono di riconoscere la vera natura della città, le condizioni della sua affermazione storica, le tappe obbligate della sua rinascita, della sua fuoriuscita dall’attuale situazione di crisi. Si può dunque ritener confermata, almeno in prima approssimazione, la tesi più sopra enunciata: nessuno degli schemi, nessuno dei modelli economici in cui l’attività produttiva conserva la caratteristica di essere rapportata in modo immediato, fisico, esclusivo, al consumo individuale di un consumatore determinato, è capace di postulare una città.