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In questo testo, finalizzato ad una possibile riforma dei corsi di studio in materia urbanistica, Bardet riassume pregi e difetti dei sistema francese, dai primi anni del secolo alla seconda guerra mondiale. L’interesse particolare, tra l’altro, è l’enfasi posta sul ruolo della composizione, e insieme la piena accettazione di una figura complessa di urbanista, costruita sin dagli anni della formazione come «Equipe». La traduzione è di F. Bottini. Il testo sulla fondazione della “Ecole Des Hautes Etudes Urbaines”, cui Bardet si riferisce, è acquisibile qui.

L’insegnamento dell’urbanistica trova la sua culla al 29 di rue de Sévigné, nell’Hôtel Le Pelletier de Saint-Fargeau, Biblioteca della città di Parigi, dove nel 1903 un giovane archivista, Marcel Poëte, inaugura il corso di «Introduzione alla Città di Parigi» , grazie al quale si comincia a chiarire l’evoluzione di questa città, considerata come un organismo vivente. Ci troviamo uditori come Jaussely.

Dal 1907 al 1913, una serie di mostre sull’Arte Urbana a Parigi conduce al trasferimento, nel 1914, di questa iniziativa all’Ecole Pratique des Hautes Etudes presso la Sorbona, dove si svilupperà liberamente.

Nel 1916, un grande Prefetto, Delanney, ricorda che «la Biblioteca e i servizi storici» della città di Parigi si sono arricchiti di un Ufficio di informazioni storiche e bibliografiche, dell’insegnamento della Storia di Parigi e di Mostre annuali, il che conduce a trasformare questo Servizio in un vero e proprio « Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines», il quale, benché abbia come centro Parigi «non dovrà tuttavia restare strettamente limitato all’orizzonte di una sola città ... la scienza di Parigi non è che una parte della Scienza delle Città».

E non c’è da stupirsi se, quando nel luglio 1917 si apre la « Ecole Supérieure d’Art Public», sotto la presidenza di Georges Risler, questa si installa nei locali del nuovo Istituto.

Destinato a formare i Ricostruttori delle Regioni occupate, l’insegnamento è diviso in sei sezioni:

1° Teoria generale e regionale delle agglomerazioni: Insegnamento dell’urbanistica. Metodi di studio e realizzazioni urbanistiche;

2° Igiene urbana;

3° Architettura e Genio Civile, Costruzioni: Teorie della composizione, i suoi elementi, la tecnica, l’estetica. Tecnica della professione;

4° Economia politica, economia sociale, economia urbana;

5° Legislazione, Diritto amministrativo: Elementi costitutivi delle città, Demanio e servizi pubblici, Edilizia privata. Il problema speciale delle città in ricostruzione;

6° Estetica generale dell’Urbanistica. Estetica regionale.

Questo tipo di insegnamento, molto gerarchizzato, termina nel 1918, e l’Ecole d’Art Public, poco elegantemente fatto sloggiare, emigra al Collège des Sciences Sociales, poi si sgretola. Ritroviamo Monsieur Raoul de Clermont che continua a insegnare diritto amministrativo (5° sez.) al Musée des Arts Décoratifs, mentre Monsieur Agache, fino al 1933, terrà conferenze al «Collège des Sciences Sociales ». Dopo un ultimo sforzo da parte della Société Française des Urbanistes, questa scuola privata scomparirà.

Lo spazio lasciato dall’Ecole d’Art Public, rue de Sévigné, è immediatamente occupato dalla nuova « Ecole pratique d’Etudes Urbaines et d’Administration Municipale» creata ufficialmente, presso l’Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines della Città di Parigi, dal Conseil Général de la Seine, su impulso di Henri Sellier.

Titolo e programma rivelano alcune influenze dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes (Sorbona) e dell’Ecole Libre des Sciences Politiques.

Analizziamo il primo opuscolo informativo: l’oggetto dell’insegnamento «ha un triplo carattere, scientifico, utilitario e divulgativo. Bisogna innanzitutto fare scienza per trarne poi applicazioni per la vita di tutti i giorni, e bisogna divulgarla ampiamente perché possa esercitare più rapidamente e completamente la propria a zione benefica sull’esistenza umana».

«L’insegnamento in questione si indirizza dunque, sotto la forme scientifica, a coloro che hanno a cuore il progresso di una scienza che conferisce una particolare importanza al ruolo considerevole giocato dalla città nella civiltà contemporanea. Si rivolge, sotto la forma utilitaria, a tutti coloro che si preparano a carriere in posti di funzione amministrativa o tecnica, che necessitano la conoscenza delle applicazioni pratiche di questa scienza. Si indirizza, infine, sotto la forma divulgatrice, all’insieme del pubblico che ha bisogno di familiarizzare con nozioni che occupano uno spazio sempre più grande nella vita di ogni giorno».

«Ma, dato che in questo ordine di idee – almeno in Francia – le applicazioni della scienza sono singolarmente in ritardo sulla scienza stessa, c’é interesse a fornire innanzitutto la parte utilitaria e divulgatrice, senza tuttavia trascurare l’aspetto scientifico puro, fondamento di tutto» (beata epoca, quella in cui si credevano le applicazioni in ritardo sulla scienza!).

«È soprattutto l’aspetto utilitario, che si applica alle diverse professioni, municipali o altre, che non si sapranno esercitare senza queste conoscenze, che è esaminato nel programma di seguito».

Il programma dei corsi comprende:

1° L’Evoluzione delle città in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;

2° L’Arte Urbana in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;

3° L’organizzazione amministrativa delle città, della vita urbana in Francia in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;

4° L’Organizzazione sociale della vita urbana in Francia in generale, a Parigi e nell’agglomerazione parigina in particolare;

5° L’Organizzazione comparata della vita urbana all’estero.

I corsi si tengono alle 18, constano di una lezione settimanale ciascuno, a partire da novembre e fino a luglio.

«L’insegnamento dura due anni, alla fine di ciascuno dei quali si sostiene un esame davanti al Comité de perfectionnement, e al corpo insegnante. Il primo di questi esami ha l’effetto di ammettere al secondo anno, il secondo di essere ammessi a sostenere la prova finale che procura il diploma di licenza. Ciascuno dei due esami comprende delle composizioni scritte e delle interrogazioni orali, vertenti sulle materie dei corsi. Quanto alla prova finale, essa consiste in un lavoro personale (memoria, piano ecc ...) scelto dal Comité de perfectionnement e dal gruppo docente.

« L’esprit de l’enseignement» dichiara: «Ciascun corso comprende una esposizione teorica e dei lavori pratici. E dato che la scienza delle città è essenzialmente scienza di osservazione, escursioni di studio sono finalizzate a mostrare come conviene osservare, nelle sue diverse manifestazioni, il fenomeno urbano».

Ecco le «Carriere alle quali l’insegnamento prepara»: «In primo luogo ci sono gli impieghi amministrativi o tecnici dipendenti dalla Prefettura della Senna e Servizi annessi, così come l’impiego di rédacteur alla Prefettura di Polizia.

«Poi, c’è l’insieme delle carriere municipali (segretario generale comunale, architetti o ingegneri municipali, funzionari preposti alla Viabilità, alle acque, alle fogne, all’igiene, ecc ...) o alcune professioni speciali, come quella di architetto-paesaggista, potranno toccare l’arte urbana.

«Ci sono anche le diverse funzioni che toccano questioni sociali o economiche alle quali la città fa da cornice, o che determina (Società o Uffici pubblici per le case popolari, personale amministrativo o tecnico delle Camere di Commercio, ecc...)».

«Ci sono infine tutti i tecnici, architetti, ingegneri ecc., ai quali la legge del 14 marzo 1919, che prescrive alle città di redigere piani regolatori, di abbellimento e di ampliamento, apre vasti orizzonti e una nuova carriera piena di prospettive: la loro formazione a questo riguardo è precisamente uno degli obiettivi essenziali di questo insegnamento».

Le risorse per lo studio dell’Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines: collezioni, centro di documentazione, e come la nuova rivista La Vie Urbaine, sono messe a disposizione degli studenti.

Si ricorda, inoltre, che la Città di Parigi ha fondato all’Ecole Pratique des Hautes Etudes «un insegnamento che, nell’ambito della ricerca scientifica pura, completa l’insegnamento più propriamente utilitario di rue de Sévigné» e che porta, nel 1919-20, ai dati del piano urbano, prescritto dalla legge 14 marzo 1919, studiato dal punto di vista della Geografia urbana».

Non bisogna dimenticare lo «aspetto divulgativo dell’Insegnamento» che è stato troppo rapidamente abbandonato e che si propone:

«1° La divulgazione tramite la parola, sotto forma di conferenze pubbliche;

«2° La divulgazione per immagini, sotto forma di proiezioni cinematografiche o di altro tipo, destinate al pubblico generale o riservate a speciali gruppi, d’intesa col Secrétariat à l’Enseignement, oppure sotto forma di mostre pubbliche;

«3° La divulgazione tramite disponibilità per tutti, in forma istruttiva o educativa appropriata, di libri, riviste e giornali dedicati alle questioni urbane;

« 4° La divulgazione tramite opuscoli o periodici».

Questa scuola cambia quasi subito di nome, e diventa « Ecole des Hautes Etudes Urbaines».

Il programma dei corsi diventa più gerarchizzato, e si distinguono quattro corsi fondamentali:

1° Evoluzione delle città;

2° Organizzazione sociale delle città;

3° Organizzazione amministrativa delle città;

4° Arte Urbana.

Parallelamente a ciascuno di essi sono organizzate delle conferenze destinate allo studio approfondito di un determinato problema. Una serie generale di conferenze su «La Vita urbana all’Estero», infine un certo numero di proiezioni particolarmente destinate alla preparazione dei membri del personale della «Direction de l’Extension de Paris à la Préfecture de la Seine» completano l’insegnamento.

Ciascuna delle parti del programma comporta delle attività pratiche e si dettaglia come segue:

1° L’Evoluzione delle città – considerate come organismi viventi evolventisi nel tempo e nello spazio - comprende una serie distinta di corsi su «l’evoluzione dell’agglomerato parigino»;

2° L’Organizzazione sociale delle città, studia la popolazione metropolitana - specialmente il dipartimento della Senna – i suoi bisogni e le sue crisi, così come l’azione (preventiva, palliativa) resa necessaria da questa situazione, e comporta delle conferenze sul «Municipalismo» o «l’Interventismo» municipale, in Francia e all’estero, così come sulla «Igiene dell’Abitazione»;

3° L’Organizzazione amministrativa delle città comporta delle conferenze sulla «legislazione urbana del futuro»;

4° L’Arte urbana, comporta delle conferenze annesse su «l’Arte dell’ingegnere municipale».

Infine, la serie generale di conferenze «La vita urbana all’estero» comporta conferenze su «I principi della Città Giardino» e la loro applicazione in Inghilterra, che si gonfieranno esageratamente più tardi.

Bisogna notare particolarmente il desiderio di prevedere dei «Lavori pratici di insegnamento» sotto la direzione generale dei professori. «Dei locali speciali dove sono raccolte collezioni di opere, riviste, carte, piani, fotografie, grafici, ecc..., sono messi a disposizione.

Questi locali sono aperti tutti i giorni non festivi, dalle 10 del mattino alle 6 della sera, alle persone che seguono l’insegnamento, e che ci troveranno, oltre agli strumenti di lavoro necessari, aiuto e consiglio». Nei fatti, questo insegnamento pratico non ha funzionato.

Le condizioni dell’insegnamento sono precisate: «ciascun corso ha luogo, nei limiti di tempo che gli sono stati assegnati, una volta alla settimana». C’è una modifica delle prove: «un esame è sostenuto alla fine del primo anno, per passare al secondo. Una prova finale, consistente in particolare di un lavoro personale (memoria, piano, ecc...) scelto dal candidato d’accordo coi professori, e giudicato da una giuria designata dal Signor Prefetto della Senna (?) è prevista il secondo anno per ciascuno dei corsi fondamentali. Queste prove possono essere sostenute concorrentemente o separatamente, a scelta dell’allievo. Ciascuna di esse comporta l’attribuzione di un certificato: il possesso dei certificati concernenti le branche «Evoluzione delle Città» e «Arte Urbana» dà diritto al brevetto« Aménagement des Villes»; i certificati concernenti le branche «Organizzazione sociale delle Città» danno diritto al brevetto « Administration municipale». Il possesso dei due brevetti succitati darà luogo alla concessione del Diplôme d’urbaniste. È previsto che le note segnaletiche, sottoposte alle Commissioni di graduatoria incaricate di preparare le tabelle di avanzamento dei funzionari del Dipartimento, della Città di Parigi e dei Servizi assimilati, comporteranno l’indicazione dei certificati, brevetti, diplomi rilasciati dalla Scuola».

Il reclutamento mostra subito che è il caso di distinguere fra «Aménagement des villes» e «Administration municipale». Si vedrà più tardi una maggiore differenziazione.

L’Ecole des Hautes Etudes Urbaines è accorpata all’ Université de Paris nel 1920. Diviene, nel 1924, « Institut d’Urbanisme», costituito nella sua forma attuale, e transferito, da allora, alla Sorbona. Possiede, nel 1928, un Conseil de Perfectionnement e un Conseil d’Administration che non comprende alcun urbanista praticante ( savant o artiste), ma amministratori, giuristi e funzionari, benché si sia previsto «per lasciare ampiamente aperta la porta alle competenze, che il Consiglio potrà presentare al Rettore delle personalità che si saranno fatte conoscere per il loro lavoro o per l’interesse rivolto agli studi».

Se il programma fa notare, cosa esatta, « che contrariamente alle istituzioni simili all’estero, che per la maggior parte non esaminano che uno o alcuni aspetti dei problemi urbani», l’Istituto « comprende l’insieme dei problemi generalmente rappresentati dall’espressione: urbanistica», il Consiglio pare concepire assai male questo insieme.

È esatto che «non si può pensare che l’Urbanistica rappresenti il dominio esclusivo dell’architetto, dei costruttori di città, e meno ancora ammettere che si riassuma nell’elaborazione di piani di quartieri della città, di piani di città ... che non sono che la manifestazione delle rivendicazioni di igiene (?), di benessere, risultanti dallo sviluppo sconsiderato delle nostre città industriali moderne» ... «Il problema si estende a tutte le condizioni infinite e multiple dell’esistenza umana ... A questo titolo, appartiene anche all’amministrazione, a colui che, ad un titolo qualunque, è chiamato ad esercitare un’influenza o una missione la cui ripercussione ha eco nella vita comune».

Tuttavia, se non si parla più di una scienza «in anticipo sulle sue applicazioni», non sembra si sospetti esserci una scienza da fare, scienza innanzitutto d’osservazione e che non è fatta né di tecnica, né d’amministrazione, ma che si avvicina piuttosto alla geografia umana e alla morfologia sociale, e che – visto che si tratta di ruolo sociale, dell’essere umano – trae i suoi dati nello stesso tempo dalle leggi della vita e dalla psicologia collettiva.

LaSezione: Evoluzione delle città, grazie al suo fondatore Marcel Poëte, continua a restare la sola sezione ad cui si sprigiona lentamente una scienza di osservazione.

La Sezione: Organizzazione sociale delle città, diretta da Monsieur Fuster, comprende sempre, in aggiunta, delle conferenze sulla Igiene dell’Abitazione.

La Sezione: Organizzazione amministrativa delle città, professore Monsieur Jèze, si gonfia di conferenze su «l’Organizzazione dei grandi servizi pubblici nella banlieue parigina», tenute da Henri Sellier; su «Le questioni attuali di oganizzazione delle Capitali», tenute da Joseph Barthélémy; su «La vita municipale all’Estero», su «Il mantenimento dell’ordine nella città».

La Sezione: Organizzazione economica delle città,nuova nata, espone attraverso la voce di Monsieur Bruggeman i principi della città-giardino di Howard e si completa di conferenze sul «Municipalismo» tenute da Monsieur W. Oualid, in attesa di invertire questo ordine con il cambio di direttore.

La Sezione di Arte Urbana si è felicemente sviluppata. Comprende tre urbanisti professori: i Signori Bonnier, Gréber e Prost, che si ripartiscono l’insegnamento, così come le conferenze, su «l’Arte dell’ingegnere municipale». I corsi pratici sono intercalati da corsi teorici, il soggetto dell’esercitazione pratica è dato ciascun mese dal corso pratico del mese seguente.

Tutti questi studi sono sanzionati da un diploma, che si dichiara «assimilato (?) a quelli degli istituti di insegnamento superiore» e che dà accesso «ai concorsi di ammissione agli impieghi della Prefettura della Senna: Commissaire-répartiteur aggiunto alle imposte dirette della Città di Parigi ( ?), Ingegnere-geometra aggiunto al Piano di Parigi, Rédacteur alla Cassa di Credito Municipale di Parigi (?), Rédacteur all’Assistenza pubblica (?), Segretario amministrativo (?) all’Ufficio pubblico di igiene sociale, ecc... » altrimenti detto: a tutto, salvo alla professione di urbanista.

Per il reclutamento, in difetto di veri diplomi, «Francesi e stranieri potranno produrre tutti i certificati attestanti (?) che il candidato ha una cultura generale sufficiente per seguire l’insegnamento» (controllo per i meno insufficienti).

«L’esame conclusivo degli studi comprende:

« a) Delle prove orali;

« b) La redazione e discussione di una memoria».

L’allievo che ha concorso con successo ha il titolo di « Diplôme de l’Institut d’Urbanisme». Ricordiamo che alla costituzione della «La Société des Diplômés de l’Institut d’Urbanisme», è stato precisato che i diplomati non potevano avere il titolo di «Urbaniste-Diplômé».

Dopo speciale deliberazione del Giurì, un diploma di «Lauréat de l’Institut d’Urbanisme» può essere rilasciato, inoltre, al Diplomato «che è stato giudicato degno della distinzione precedente e che ha ottenuto una borsa di viaggio a causa delle modalità particolarmente brillanti con cui ha sostenuto la propria tesi».

Nel 1939, ritroviamo l’Institut d’Urbanisme nei locali dell’Institut d’Art et d’Archéologie, dove è emigrato nel 1933, ma senza grandi cambiamenti, mentre invece la scienza urbanistica e le sue applicazioni si sono considerevolmente evolute. In particolare, non è più solo questione di città, ma di regioni e agglomerazioni rurali; si parla correntemente, quali che siano i pericoli di questi neologismi, di urbanistica rurale, regionale, nazionale, o superurbanistica.

Dopo il 1934, un afflusso considerevole di architetti, la diffusione delle idee, l’avvento alla moda della parola urbanistica, la necessità di creare dei professionisti dell’urbanistica, hanno condotto i migliori allievi, o antichi allievi, a chiedere sweri ritocchi all’insegnamento. Questo d’altronde senza alcun risultato: il direttore, malato, in Belgio, non vedeva più in là delle città-giardino inglesi. D’altra parte, il successo finanziario dell’insegnamento presso le amministrazioni comunali e prefettizie faceva dimenticare, ancora, il bisogno urgente di educare dei «creatori».

Andiamo quindi a tentare di esporre come dovrebbero organizzarsi le cinque grandi divisioni che non si possono, al momento, modificare.

Ciascuna di esse dovrà presentare un fascio di Scienze pure, di Applicazioni e di Lavori pratici.

Così, la prima Sezione: Evoluzione delle Società o delle agglomerazioni umane, e non semplicemente delle città, comporterà alla base qualche nozione essenziale di biologia generale e di psicologia collettiva, che mostri come si possano sviluppare una serie di osservazioni metodiche di carattere universale. Dopo questa si svolgerà il quadro della formazione ed evoluzione degli agglomerati umani nelle diverse civiltà.

Il Corso fondamentale di Evoluzione delle Società Umane potrà essere accompagnato da Lavori pratici aventi come obiettivo la costituzione di schemi visuali, sintetizzanti l’insieme dei dati materiali e spirituali analizzati nel corso, per una data agglomerazione (vedere gli schemi di «Parigi, la sua evoluzione creatrice», attivato all’Ecole Pratique des Hautes Etudes; Titolo V. pp. 187-199).

La seconda Sezione: Organizzazione sociale degli agglomerati, dovrà iniziare con qualche conferenza di morfologia sociale applicata allo stato sociale contemporaneo. A questo insegnamento teorico seguiranno le importanti applicazioni pratiche della statistica all’analisi sociale, ma queste applicazioni dovranno essere studiate non da un giurista o un amministratore, ma da un geografo, che non consideri le cifre per sé stesse, ma come rappresentazione sul terreno di qualcosa di concreto. Pensiamo ai lavori di geografia statistica come lo «Atlas National de Géographie».

I lavori pratici potrebbero portare in rappresentazione visiva le funzioni della città, mirando, da un lato, a riportare quelli che abbiamo chiamato i profili psicologici delle agglomerazioni e che, mentre gli schemi della prima sezione avevano come scopo di mostrare l’evoluzione e le tendenze dell’agglomerazione in movimento, spaccati e momenti dati; d’altra parte, scoprire le cellule sociali, in particolare le comunità di luoghi completamente dimenticate, mentre lo spirito comunitario è alla base di ogni raggruppamento sociale.

Le «conferenze di Igiene» annesse, saranno delimitate e, soprattutto coordinate con quelle sulla «Arte dell’Ingegnere Municipale».

Non bisogna dimenticare, infatti, che numerosi allievi dell’Institut d’Urbanisme hanno già seguito gli insegnamenti dello «Institut de Technique Sanitaire», dove quest’ultimo soggetto è molto sviluppato, e che non mancano lavori disponibili su questo argomento. All’inizio, non si dovrà sviluppare nel corso di un insegnamento complementare, come quello dell’I.U., quello che gli allievi possono apprendere, da soli, nelle opere classiche.

La terza Sezione: Organizzazione economica degli agglomerati, non ha, di fatto, avuto sinora un titolo. È indispensabile dotarla di un corso fondamentale sull’organizzazione economica, che vada dalla fattoria alla regione, e che dovrà essere tenuto da un geografo-economista. Come applicazione, un certo numero di conferenze sulla «Città Giardino di Howard e i suoi risultati» e sul «Municipalismo».

I lavori pratici potranno esercitarsi su mappe o profili come nella prima e seconda Sezione.

Sottolineiamo che la necessità di associare i geografi alle nostre ricerche è dimostrata dai fatti: la costituzione, nel 1936, alla Sorbona, di un «Centro di Géografia Fisica e di Geologia dinamica applicato all’Urbanistica» che è servito al perfezionamento di un certo numero di Diplomati dell’Institut d’Urbanisme, saenza parlare dei Corsi esistenti all’estero, a Amsterdam o a Utrecht.

La quarta Sezione: Organizzazione amministrativa degli agglomerati, dovrà evidentemente adattarsi alle riforme in corso. È la sola sezione dove i giuristi occupano tutto lo spazio. Essa dovrà riversare il suo troppo-pieno nella « Ecole Nationale d’Administration Municipale» creata presso 1’I.U. Là ancora, non si dovrà scordarsi che gli amministratori, allievi dell’Institut d’Urbanisme, hanno innanzitutto, per la maggior parte, già seguito i corsi dell’E.N.A.M. e che inoltre le opere edite abbondano. È dunque inutile caricare il numero di ore dei corsi già così ristretto dell’I.U.: circa 150 all’anno, di quanto si può leggere a casa propria in otto ore. È difficile, al momento attuale, precisare il senso delle riforme da farsi.

La quinta sezione sembra essere la sezione eminentemente pratica, il coronamento delle analisi precedenti, dato che conduce alla materializzazione dei concetti. Di fatto, dovrà comportare, anch’essa, un insegnamento dogmatico.

Non bisogna dimenticare, in effetti, che fra tutti i corsi su settori dell’urbanistica, non c’è un Corso di Urbanistica, o corso di sintesi, che permetta agli allievi di includere la parte di ciascuna delle differenti discipline nella scienza propria dell’urbanistica.

Allo stato attuale di questa scienza all’inizio, non si può agire oltre qualche conferenza, ma esse sono fondamentali se le giudichiamo sperimentalmente, dopo dieci anni, attraverso le riflessioni degli allievi.

Questa rapida rivista dovrà essere seguita da un Corso teorico di Costruzione degli agglomerati del quale i professori attuali si divideranno l’onere. Uno sarà professore di teoria, gli altri si incaricheranno sia della composizione di elementi separati, sia della composizione di insieme. I lavori pratici qui saranno fondamentali e dovranno essere accuratamente controllati.

Accade che numerosi allievi di origine amministrativa sono incapaci di eseguire questi lavori, perché non conoscono i principi elementari del disegno e della composizione. Essi fanno frequentemente eseguire i loro compiti da tecnici esterni. A questo trucchetto, nefasto per tutti, parrebbe più giudizioso sostituire onestamente delle équipes (analoghe a quelle del concorso delle tre Arti, all’Ecole des Beaux-Arts, che comprendono: un architetto, un pittore, uno scultore). Per formare questi gruppi si assoceranno liberamente: un amministratore, uno o due tecnici (architetti o ingegneri), e infine un «artiste cultivé» che analizzi particolarmente l’evoluzione del soggetto. Ciascun gruppo presenterà collettivamente un progetto completo.

Dal punto di vista psicologico, tanto è utile insegnare agli amministratori a «leggere un piano», quanto è pericoloso lasciar loro supporre di saper usare una matita e progettare – visto che ci si mettono dieci anni per impararlo alle Beaux-Arts preparandosi al concorso di Roma. Ogni architetto che ha avuto «clienti che hanno fatto del disegno» sa cosa gli è costato.

A questa sezione saranno ricongiunte le conferenze sulla «Arte dell’Ingegnere Municipale», che dovranno studiare non solo i Servizi Municipali, ma molto precisamente l’incidenza di questa arte dell’ingegnere sulle strutture degli agglomerati. Comprendono, dopo poco, e per fortuna, alcune esercitazioni pratiche.

Scientificamente riorganizzate le grandi divisioni fondamentali dell’insegnamento, il livello dell’I.U. ne uscirà rinforzato se si controllano seriamente le acquisizioni degli allievi. È dunque indispensabile, non non solo procedere al controllo individuale delle presenze, ma ancora, al momento degli esami, giungere realmente alla pratica delle prove scritte, alla fine del primo e secondo anno, per i corsi fondamentali.

Gli allievi che avranno superato questi due esami saranno titolari di un Certificat de fin d’études. Questo dovrà essere rilasciato dopo il secondo esame superato. Si verificano, infatti, parecchi abusi di titolo; prendono il nome di «Anziani Allievi dell’I.U.» dei giovani che hanno frequentato, raramente, e non hanno punto superato esami. Il possesso del certificato permetterà un controllo agevole e aiuterà la lotta contro gli abusi.

Per le tesi, converrà precisare per quanto possibile il loro scopo e cosa dovranno comportare. Gli studenti presentano spesso dei soggetti troppo vasti per dar luogo a qualcosa di diverso dal generico; all’interno di ciascun argomento di insieme, dovrà essere accuratamente delimitato un punto di dettaglio pour scoprire le qualità di osservazione del candidato; d’altro canto, alcuni soggetti sono ripresi a un’epoca troppo ravvicinata, senza visibile progresso. Non bisogna dimenticare che la scienza urbanistica necessita la costruzione di monografie precise, e che le buone tesi dell’I.U. sono le rare fonti di questo genere di lavori.

Realizzata questa messa a punto della struttura attuale, l’Insegnamento dell’Instituto resterà ancora insufficiente per la categoria degli Architectes-Urbanistes, Directeurs de Plan, così come li definisce la circolare ministeriale del 1921. Per questi ultimi, bisogna considerare un terzo anno di perfezionamento. Per questi ultimi soltanto, perchè come abbiamo detto gli amministratori provengono, per la più parte, dall’.E.N.A.M. (Ecole Nationale d’Administration Municipale) e i geometri e ingegneri dall’Institut de Technique Sanitaire; la regolamentazione della professione di architetto condurrà a conferire ai soli architetti diplomati il diritto di dirigere piani urbanistici, «a condizione che detti architetti diplomati abbiano seguito studi complementari di urbanistica all’Institut d’Urbanisme».

Tutti gli allievi che abbiano completato i primi due anni e presentato con successo la loro tesi porteranno, come avviene attualmente, il titolo di diploma, o meglio- per evitare ogni confusione – quello di Breveté de l’Institut d’Urbanisme.

Gli architetti già diplomati a una Scuola di Architettura e brevettati dell’I.U. porteranno, dopo il terzo anno terminato con successo, il titolo di Urbaniste-Diplômé par l’Etat, titolo che potrà essere assimilato, seriamente stavolta, a quello delle Grandes Ecoles.

Questo terzo anno non si può concepire che sotto la forma di «Atelier», la sola che si addice all’insegnamento artistico della grande composition.

Di fronte all’indifferenza ufficiale mostrata prima della guerra per questo insegnamento pratico indispensabile, abbiamo dovuto aprire un Atelier libero, nel quale degli studenti si sono riuniti – di loro propria volontà, e non per ottenere un pezzo di carta. Il successo è stato sanzionato allo stesso tempo dal Grand Prix du Salon des Urbanistes vinto collettivamente, come risultato di un anno di funzionamento, e dalle posizioni occupate attualmente dai vecchi partecipanti.

Per l’ottenimento del diploma, ci si può ispirare all’esempio di Liverpool – uno dei migliori dal punto di vista professionale – che richiede la preparazione di almeno due progetti urbanistici completi per zone assegnate: uno studio per la ricostruzione di una zona esistente e un progetto di risoluzione di un delicato problema urbanistico sotto determinate condizioni: gestione urbana, architettura urbana, decoro urbano.

Il soggetto sarà definito dai professori di teoria, e potrà essere lo stesso per tutti, o meglio, adattato alla nazione, alla regione, all’agglomerazione del candidato. Potrà essere, ancora, lo sviluppo grafico di una memoria che abbia gia ottenuto il brevetto. Riguarderà sempre una applicazione professionale, conformemente ai regolamenti esistenti, e non potrà essere un fatto di anticipazione utopica. Sarà giudicato dai suddetti professori su schizzi, poi a piccola scala, e infine su elaborato completo. L’esecuzione del lavoro avrà luogo nell’atelier, dove ognuno approfitterà dell’ambiente e dei consigli pratici del Chef d’Atelier.

Infine, dato che gli urbanisti sono chiamati ad occupare alte funzioni di organizzazione o pianificazione regionale, gli Urbanistes-Diplômés, che saranno inoltre Lauréats (a titolo indicativo, ne esiste attualmente una dozzina) saranno ammessi a candidarsi al grado di Urbaniste-Docteur (analogo a quello di Ingénieur-Docteur) secondo i regolamenti universitari. Il che permetterà, inoltre, di formare un corpo insegnante per l’urbanistica.

L’Institut d’Urbanisme comprenderà, allora, non solo un insegnamento completo dal punto di vista della teoria e delle sue applicazioni, ma un vero e proprio laboratorio di attività pratiche, dal qual soltanto si possono sviluppare i principi della scienza urbanistica. La gerarchia: Ecole Nationale d’Administration Municipale, Breveté de l’I.U., Urbaniste-Diplômé de l’Etat, Lauréat de l’I.U.,Urbaniste-Docteur metterà ciascuno al suo posto, come in una composizione di Le Nôtre.

Parigi, 3 novembre 1940.

Nel 1944,dopo i violenti attacchi di Monsieur Roux-Spitz, su l’Architecture Française, e i suggerimenti della Commission d’Urbanisme della S.A.D.G., un terzo anno comincia ad avviarsi. Nel frattempo, le nomine di René Maunier al corso di organizzazione sociale ed economica delle città, del dottor Hazemann al corso di igiene sociale, del geografo Clauzier, hanno davvero risolto lo squilibrio causato dal corso di Diritto.

Ma la formazione dei tecnici dell’Urbanistica resta da intraprendere, congiuntamente al Ministère de l’Urbanisme.

Un antecedente: il nome della nuova scienza

L’impegno a definire l’urbanistica sia formalmente, sia nei contenuti concettuali e operativi, appare già nella seconda metà dell’Ottocento. Alla Teoria General de la Urbanización dello spagnolo Ildefonso Cerdà si può riconoscere - almeno simbolicamente - il primo tentativo in tal senso. In esso vi è anche ‘inizio della diffusione dei termini formati sulla radice “urbs” per indicare i fenomeni, la prassi, le opere e il campo di studi che si andava tentando di instaurare[1].

Cerdà nella sua Teoria è convinto di dover iniziare “il lettore allo studio di una materia completamente nuova, intatta, vergine”, per la quale occorre “cercare e inventare parole nuove”, perché non ve ne sono di adeguate tra quelle già in uso. La parola “città” denota soprattutto l’aspetto “materiale” di ciò che secondo Cerdà appare un “mare magnum fatto di persone, di cose, di interessi di ogni genere, di mille elementi diversi che sembrano funzionare, ognuno a suo modo, in modo indipendente”. Ma, appunto, non é questo che Cerdà vuole esprimere, quanto piuttosto “mettere in rilievo come e secondo quale sistema si sono formati i diversi elementi, come sono organizzati e come funzionano”; vale a dire, “al di là della materialità [...] indicare l’organismo, la vita [...], che anima la parte materiale”. Così - secondo Cerdà - non è possibile ricorrere nemmeno alla parola latina “civitas” e ai suoi derivati, perché carichi “di significati molto lontani” da quei concetti e da quei fenomeni. Allora - egli racconta - “mi sono ricordato del termine urbs che, riservato al’onnipresente Roma, non è stato trasmesso ai popoli che hanno adottato la sua lingua e si presenta meglio ai miei fini”[2]. “Urbe” è, infatti, una delle espressioni, perdurante nel tempo dai Latini a oggi, con la quale si usa nominare la città di Roma. Ed è verosimile anche l’affermazione di Cerdà che, al di fuori di quest’uso, il termine urbs e i suoi derivati - come s’è detto - siano pressoché scomparsi nelle lingue che sono andate sostituendosi al latino.

Urbs - dice Cerdà – è ”contrazione di urbum che indicava l’aratro, strumento col quale i Romani, all’atto della fondazione, delimitavano ‘area che sarebbe stata occupata da una población[3] quando veniva fondata: denota ed esprime tutto ciò che poteva contenere lo spazio circoscritto dal solco tracciato con ‘aiuto dei buoi sacri. Con questo solco si compiva una vera opera di urbanizzazione, e cioè l’atto di convertire in urbs un campo aperto e libero”. Per chiarire meglio ciò a cui Cerdà intende riferirsi si noti che la parola latina urbum o urvum significa propriamente “manico del’aratro”; ma da questa - e Cerdà non lo rileva esplicitamente - deriva il verbo urbo o urvo, che significa “tracciare il solco”, appunto, di una città di nuova fondazione. Sicché è proprio “urbanizzazione” il termine che Cerdà decide di adottare per nominare “‘insieme degli atti che tendono a creare un raggruppamento di costruzioni e a regolarizzare il loro funzionamento, così come designa l’insieme dei princìpi, dottrine e regole che si devono applicare perché le costruzioni e il loro raggruppamento, invece di reprimere, indebolire e corrompere le facoltà fisiche, morali e intellettuali dell’uomo che vive in una società, contribuiscano a favorire il suo sviluppo e ad accrescere il benessere sia individuale che pubblico”[4]. Così come chiama “urbanizzatore” colui che detiene la relativa arte, ossia l’urbanista, e adotta il termine “urbe” per indicare qualsiasi raggruppamento di costruzioni. Cerdà, infatti, intende elaborare una teoria “generale” del’urbanizzazione, cerca dunque un termine che nomini l’universo degli insediamenti, e nessuno di quelli oggi in uso gli sembra idoneo allo scopo. Le lingue attuali, infatti, hanno una molteplicità di parole, ciascuna delle quali nomina un determinato raggruppamento di edifici, distinto per dimensione, ruolo o funzione, a esempio: città, villa, borgo, villaggio, frazione, parrocchia, casale, fattoria, casa di campagna[5].

La struttura dell’agire urbanistico

È, questa di Cerdà, un prima definizione della nascente disciplina urbanistica. Ne fioriranno molte altre, non solo differenti, ma spesso anche tra loro del tutto indipendenti, e ciò nondimeno identiche nella loro struttura logica. È noto che la Teoria dello spagnolo non ha avuto un seguito diretto, la sua opera scritta è stata ben poco letta e in molti casi del tutto ignorata anche dagli storici [6]. Il nome di questo ingegnere è rimasto per lungo tempo legato alla sua attività pratica, che lo ha visto impegnato con successo in uno dei grandi piani di trasformazione ottocentesca delle vecchie città europee, quello di Barcellona.

Il manifestarsi della volontà di conferire alla costruzione delle città, e più in generale di qualsiasi insieme di edifici, un’autonomia disciplinare ha alcuni tratti caratteristici. Il progressivo e rapido diffondersi della crescita urbana, in misura e in qualità che non hanno precedenti significativi dagli inizi dell’Ottocento, obbliga a questo impegno molte energie sociali, dal governo nazionale alle varie amministrazioni locali. Si devono costruire e sviluppare specifiche tecniche politiche, giuridiche, amministrative, economiche e mobilitare vari settori delle nascenti ingegnerie, nonché evocare i saperi della medicina sociale. Un complesso di tecniche da indirizzare a quel fine, non solo per far fronte al succedersi degli eventi, ma anche con l’intento di prevenirli e prefigurarli secondo i desideri che la stessa fiducia nella potenza del produrre e del progredire suscitano.

Vediamo meglio e con un certo ordine come vi si giunge. La costruzione dell’ambiente urbano o urbanizzazione - per usare il termine abbastanza appropriato di Cerdà -, in qualsiasi sua forma e con qualsiasi proposito si presenti, richiede sempre un agire sociale. E un’azione determinata da un qualche scopo posto come prioritario, che si vuole sia comune a una pluralità di individui. Esso presuppone la subordinazìone di una più o meno vasta molteplicità di attori e di tecniche. Ciascuna azione e ogni specifica arte coinvolta nel processo non può essere autonoma, né concludersi nel suo particolare fine, in quanto è posta in funzione di un obbiettivo superiore da raggiungere. I singoli fini visti dallo scopo supremo si presentano come altrettanti mezzi del suo perseguimento. L’efficacia dell’azione urbanistica dipende così dalla capacità del suo scopo d’imporsi su ogni fine individuale, riducendolo a strumento del proprio agire sociale. Il suo grado di efficienza, allora, varia al variare del consenso che lo scopo primario riceve da parte degli attori coinvolti nell’opera di urbanizzazione.

I contenuti dello scopo posto come primario costituiscono anch’essi una molteplicità nello spazio e nel tempo. Essi formano una storia, ossia fanno da sempre - e non solo dall’epoca moderna - la storia dell’urbanistica con tutte le sue differenze geografiche. Ma a questa sterminata varietà di contenuti e di forme sottostà una struttura. E che vi sia una struttura è già indizio il fatto che Cerdà, nel cercare una parola idonea a nominare quella che egli ritiene una nuova scienza, la trovi col significato più appropriato in una lingua che si usa dire "morta"; e per di più s’imbatte in una parola caduta in disuso anche nelle lingue da questa derivate. Si noti anche come le parole che nominano lo strumento, l’atto, l’attore e l’opera siano tutte costruite sulla medesima radice “urb”. Si può dire, allora, che queste diverse cose nel linguaggio sono tutte ricondotte allo strumento; più in particolare al manico dello strumento (il manico dell’aratro), ossia allo strumento dello strumento, a ciò che permette all’attore di utilizzare lo strumento, di averlo in suo possesso. Il mezzo, allora, già dagli indizi del linguaggio, si mostra centrale e prioritario per qualsiasi scopo.

La lingua latina appartiene a una civiltà dove l’urbanizzazione e l’esistenza individuale e sociale sono guidate da una concezione del mondo comunemente ritenuta ben diversa dall’attuale. Ma ciò che accomuna il nostro tempo a qualsiasi altra epoca urbana non è certo lo specifico contenuto dello scopo prioritario che definisce quell’agire urbanistico né, quindi, la determinata forma che esso assume per effetto di tale definizione, e perciò neppure il concreto suo manifestarsi in opere che chiamiamo città o urbanizzazioni. Comune è la struttura di quell’agire che consiste nel concepire e nel porre un determinato scopo come primario. La formulazione dello scopo definente l’azione :urbanistica, infatti, sottostà a un’identica legge, che impone di prospettarlo fondato su una qualche concezione del mondo, esplicita o implicita, che sia o possa diventare comune alla molteplicità degli individui. Ciò è molto più denso di implicazioni di quanto comunemente non si immagini. Lo scopo è concepito alla ricerca del consenso. Il primo obbiettivo del consenso è la traduzione in legge - scritta o consuetudinaria - delle regole di comportamento dei singoli ritenute idonee allo scopo primario. Tali regole, infatti, devono essere condivise quel tanto che è necessario a riconoscerle norme imponibili alla totalità degli individui, ossia anche ai dissenzienti. E ciò è tanto più necessario perché i comportamenti conformi all’agire urbanistico sono proiettati nel futuro. A misura della vastità dell’azione e della dimensione temporale del processo che si pretende governare - e che tende perciò a essere sempre più indefinito nel tempo - cresce la necessità di tradurre le regole in leggi generali dello stato, valide a tempo indeterminato, o addirittura poste come eterne. La riconosciuta natura normativa dell’urbanistica ha in ciò il suo senso autentico. Lo strumento urbanistico è essenzialmente strumento legale. E il perseguimento dell’istituzione e del possesso dello strumento - ossia di ciò che è posto come mezzo tra il proposito d’agire e il fine da raggiungere - finisce per tramutarsi esso stesso in scopo. In altri termini lo strumento (legale) è príoritario, perché senza di esso è impensabile l’azione e dunque il perseguimento di qualsiasi scopo.

[…]

La terra da strumento a scopo primario

La terra, chiamata nel linguaggio urbanistico consolidato "territorio", è strumento di una vastissima molteplicità di azioni e opere. Il possesso di tale mezzo è fondamentale per molti scopi, in particolare per qualsiasi scopo che abbia a che fare con l'edificazione e l'urbanistica. Tale strumento è determinante per ognuno degli scopi che l'urbanistica va proponendosi in competizione con altre azioni definite da scopi diversi, ma che hanno in comune la terra quale proprio strumento di realizzazione. Nell'agire sociale - e l'agire calcolato, ossia tecnico, è sempre un agire sociale anche quando operato dal singolo - ogni e qualsiasi forma di possesso concettuale e operativo della terra è regolato in ultimo - attraverso vari gradi di mediazione - dal diritto.

L'urbanistica è costretta a intrattenere rapporti stretti col diritto. E a sua volta nel campo di studi di quest'ultimo si è sviluppata una branca specialistica del diritto amministrativo chiamata, appunto, diritto urbanistico ed edilizio.

Progredire nel possesso concettuale e operativo della terra è vitale per l'urbanistica. Non a caso in Italia nel linguaggio della disciplina la terra è chiamata “territorio”: un termine chiave, che la connota più ancora delle parole “piano” e “pianificazione”'. “Territorio” deriva da `terra' (latino terra), ma la indica quale possedimento, e quindi ne è anche limite e confine, sia semantico sia spaziale. Nell'italiano antico, infatti, si diceva tenitorio, ovvero una porzione di terra che si tiene in possesso. Secondo Varrone “la terra è così chiamata dal fatto che teritur” (viene calpestata). Per questo nel Libro degli Auguri si trova scritto tera con una r sola. Così il terreno che viene lasciato ai coloni vicino a una città per uso comune, si chiama teritorium perché è quanto mai battuto (teritur)"[7]. Qui viene in chiaro che “territorio” nomina la terra vista come strumento, supporto, qualcosa che può essere calpestato, percorso. E gli Auguri avevano tra i loro compiti quello di guidare la fondazione della città, indicandone il centro e tracciandone gli assi e i confini. Erano autentici pianificatori. Il senso di teritur, d'altra parte, è in qualche modo connesso al termine planum (“pianura”) che ha anche il significato di facile, appunto perché è la terra agevole da percorre, e spianare la terra, farla piana, pianificarla è tentare di sottoporla ai nostri voleri.

La moderna disciplina urbanistica sviluppa varie forme di possesso intellettuale della terra: compiendo descrizioni e rappresentazioni del territorio, elaborando conoscenze sue proprie o mutuate da altre scienze; prefigurando piani, progetti e modelli di assetto e di trasformazione; analizzando tendenze e ricercando regole di sviluppo. Tale dominio ideologico della terra, ossia il territorio dell'urbanistica, deve a un tempo trovare spazio nel diritto sul territorio per la pratica sociale della pianificazione, come per ogni altra possibile forma di prassi diretta o connessa in vario modo all'intervento territoriale e urbano dell'individuo e della società. La terra strumento, e il diritto sulla terra quale mezzo sociale del possesso dello strumento, sono scopo comune di ogni ideologia urbanistica, e l'urbanistica è, tra le discipline, la più fervida creatrice di ideologie, si nutre, per sua intrinseca natura, di ampia libertà creativa. La terra strumento, e il diritto sulla terra quale mezzo del suo possesso, sono però anche scopo comune di tutti gli altri scopi ideologici, diversi da quelli propri dell'urbanistica, ma che hanno anch'essi necessità di tale mezzo. Già in questa comune necessità di possesso della terra, emerge la tendenza alla subordinazione dei vari scopi ideologici allo strumento, dunque all'ottenimento del diritto sulla terra. Ma oggi si può intravedere un'ulteriore posizione di dominio dello strumento sugli scopi che dovrebbe soddisfare. Dalle fonti più varie - scientifiche, etiche, estetiche, politiche e religiose - va diffondendosi la convinzione che la terra sia sottoposta a processi irreversibili di distruzione. Se tale convinzione dovesse estendersi e consolidarsi, le varie azioni definite da scopi ideologici saranno costrette a impegnarsi nella salvezza dello strumento. Gli scopi ideologici in concorrenza per il possesso dello strumento, andranno, allora, tramontando nello scopo comune di salvare la terra, che è un'ulteriore forma di volontà di potenza. Essi dovranno indirizzare a questo fine scienze, saperi, tecniche, regole, diritti, ossia ancora una volta ricorrere all'apparato scientifico tecnologico e quindi allo sviluppo della Tecnica, tentando di subordinarla alla scopo che ha per contenuto l'intento di salvare la terra.

In urbanistica la tendenza a porre al centro dell'agire sociale la salvezza della terra è visibile da tempo. Ne è segno peculiare l'impegno per ulteriori tentativi di riforma del diritto urbanistico edilizio, sostenuti e argomentati anche da questo scopo. Sull'attualità del dibattito si interviene con un libro, che sarà pubblicato in rapida successione a questo, dal probabile titolo Pianificazione e statuto dei luoghi, dove si mostra il tramonto del piano così come è ancora oggi configurato nel diritto e si argomenta la proposta di strumenti inauditi - appunto lo “statuto dei luoghi” - in sua sostituzione. Ma insieme si tenta di chiarire la dimensione ideologica degli scopi di salvezza della terra, ai quali vengono dati nomi come “sviluppo sostenibile” e simili. Qui, invece, si vuol mostrare il ruolo degli strumenti nella fase in cui l'urbanistica si è formata, ossia è stata istituita come pratica e disciplina moderna in Italia. Gli strumenti allora pensati e istituiti, sono per molti versi ancora quelli oggi in vigore e in uso. È dunque di fondamentale importanza conoscerne il senso originario per illuminare l'attualità, attraverso la consapevolezza della struttura che lega quel momento al nostro.

L'esproprio e la pratica urbanistica delle origini

Quando ancora l'urbanistica non è disciplina riconosciuta col proprio nome, ma pratica espressa in opere che ora si fanno apprezzare più delle attuali, lo strumento al centro dell'azione per il possesso della terra quale mezzo delle trasformazioni territoriali e urbane è l'espropriazione per pubblica utilità [postilla n. 1]. Lo scopo che domina all'origine tale strumento, insieme ad altri che vanno configurandosi nel diritto dello stato moderno, è la liberazione della terra da ogni forma di possesso tradizionale e non imprenditoriale. Si tratta di favorire la liquidazione dei vecchi diritti sui beni immobili, perché non vi siano ostacoli alla loro libera circolazione sul mercato. Per questa via si vuol condurre la terra a territorio (tenitorio) dell'imprenditoria capitalistica definita dallo scopo suo proprio: il profitto. Tale scopo, nel settore della produzione della città moderna, aveva necessità - in quella fase - di una specifica mediazione dello stato. Bisognava negare, di fronte a un'ufficiale dichiarazione di pubblica utilità, la libertà di non cedere il proprio diritto di proprietà. L'esercizio di una tale libertà, infatti, può bloccare l'impresa, insieme pubblica e privata e quindi sociale, di produzione della città moderna, Produzione che, come ogni altra, già si concepisce e si vuole dominio dell'agire capitalistico; ossia del liberismo economico, che porta questo nome in quanto libera, appunto, toglie limiti e vincoli tradizionali a ogni progetto produttivo, conducendolo nel dominio della libera iniziativa. In quella fase il ruolo di mediazione dello stato è tale che il perseguimento del profitto quale scopo primario deve assumere come scopo secondario, ma necessario, il disegno pubblico e unitario della città nuova, proprio perché l'azione capitalistica non ha ancora, almeno nel settore dell'urbanistica, una potenza autonoma sufficiente. Quando tale potenza sarà in grado di esprimersi senza quel tipo di mediazione, quando cioè i diritti circoleranno liberamente sul mercato permettendo il libero sviluppo delle attività speculative proprie del capitalismo - far danaro a mezzo di danaro - non occorrerà più usare concretamente lo strumento dell'esproprio, se non nei limiti strettamente necessari e subordinati alla realizzazione di singole opere pubbliche. Ciò che importa è che l'esproprio resti ben saldo nell'ordinamento del diritto quale “arma” - così vien detto -, ossia un deterrente, un principio che toglie la libertà di non cedere il proprio diritto di proprietà di fronte al pubblico interesse.

Lo scopo primario dello stato moderno è la “libertà” economica, che coincide con l'azione capitalistica definita dallo scopo del profitto. L'arma dell'esproprio è puntata contro ogni possesso della terra che impedisca l'azione capitalistica, non dunque contro la proprietà imprenditoriale. Lo scopo di quest'ultima infatti è omogeneo a quello dello stato liberista e viceversa. Il diritto di esproprio conferma in pieno il diritto di proprietà privato nell'accezione liberista, impedendo a tale diritto di essere esercitato in una forma che possa intralciare la produzione capitalistica della città e del territorio, ossia che limiti il diritto di sfruttamento imprenditoriale dei beni immobili. Fondamento dell'esproprio è il diritto del proprietario espropriato a ricevere un indennizzo commisurato al valore di mercato del bene. In tal modo, liquidando il diritto, si pone forzatamente il proprietario espropriato nella medesima posizione dell'imprenditore. Quest'ultimo non ha, infatti, per scopo la terra, ma il danaro. La terra - il diritto su di essa - è solo un mezzo per il danaro. Tutti i proprietari sono - si vuole che siano - potenziali capitalisti; se al momento opportuno non lo saranno in atto ci pensa lo stato a porveli, sostituendoli tramite indennizzo. Una volta che il mercato immobiliare sia liberato e a regime l'attività imprenditoriale non incontrerà più l'ostacolo costituito dalla possidenza tradizionale. Non solo. Sarà possibile anche il perseguimento del profitto speculativo - che è l'essenza dell'azione capitalistica - attraverso la semplice compravendita dei beni immobili senza la mediazione della produzione urbana. Il piano ottocentesco disegnato dalla mano pubblica, definito nel tempo e nello spazio, perde conseguentemente ogni funzione rispetto allo scopo del profitto. Lo stato dovrà solo - e non è poca cosa, né facile - continuare a garantire l'esercizio dell'azione capitalistica, ordinandola nei vari modi che si presentano opportuni e relativamente necessari.

Vi è una storia di tentativi falliti di riforma dell'esproprio, dall'unità d'Italia agli anni Trenta del Novecento. Vi è una storia di tentativi falliti da parte degli urbanisti di ottenere la modifica della natura del diritto proprietà dei beni immobili, dagli anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento. 1 tentativi di riforma dell'esproprio, così come quelli di riforma del regime di proprietà dei suoli, sono orientati, in vari modi e in diversi gradi, a subordinare lo scopo del profitto ad altri scopi ideologici. Nessuno di tali scopi intende negare il profitto e l'azione da esso definita. Anzi, si riconosce in pieno al capitalismo - perché evidente e innegabile - la sua forza produttiva senza pari nella storia. Ma - a un tempo - si vorrebbe che la sua azione globale, somma delle iniziative imprenditoriali individuali, venisse unificata, non dallo scopo che consiste nel garantire il profitto, ma da altro scopo primario: le varie forme di "bene comune" che le ideologie tradizionali e moderne vanno indicando in competizione tra loro. In altri termini si vorrebbe sfruttare come strumento di azione sociale, definita da uno scopo diverso dal profitto, la forza produttiva della libera iniziativa privata. Ciò è come dire al capitalismo - dopo averne invocato la forza produttiva - di non essere più capitalismo, in quanto lo scopo primario che lo definisce dovrebbe ridursi a strumento di altro scopo. È evidente che, se lo scopo primario non è più il profitto, l'azione non può più essere capitalistica[8].

Il dominio esclusivo di un determinato scopo su uno strumento, un sapere o una tecnica, lo blocca. Si è detto: lo scopo è un limite. Esso rende impossibile l'evolversi degli strumenti, lo sviluppo del sapere e della tecnica. Negli anni Venti e Trenta del Novecento gli architetti e gli ingegneri italiani vanno maturando e organizzando l'urbanistica da pura pratica a branca specialistica dell'architettura: nelle scuole universitarie, nell'attività professionale, nelle istituzioni e associazioni culturali. Scopo unificante e primario della loro azione diviene subito l'inserimento dell'urbanistica, quale autonoma disciplina, nell'ordinamento del diritto. Appare loro evidente che occorre innanzitutto svincolare le norme riguardanti i piani regolatori da quelle sull'espropriazione, ormai bloccate dallo scopo originario e primario. L'urbanistica, ora, deve mostrare tutta la sua capacità di elaborazione tecnica e scientifica, ed essere fonte e fondamento della sua propria norma. Essa deve garantirsi il suo autonomo sviluppo quale scienza a pratica, ricevere l'adeguato riconoscimento sociale e istituzionale, esporre e mostrare il suo territorio, sul quale avanzare i propri diritti. Si tratta inoltre di superare la pratica della legislazione speciale, con la quale venivano dettate norme e configurati strumenti attraverso l'emanazione di specifiche leggi per ogni iniziativa di piano. Una pratica di pianificazione che agli occhi degli urbanisti appare territorialmente discontinua e temporalmente occasionale. Essa, inoltre, va accumulando nel diritto un coacervo di norme urbanistiche disorganiche e contraddittorie.

L’originaria volontà dell'urbanistica di pianificare la terra

Nel corso di circa un decennio, dal 1931 al 1942, anno in cui viene emanata la legge urbanistica n. 1150, gli urbanisti riescono a centrare questi obiettivi di fondo. Ottengono una legge di evidente autonomia da ogni altra, che porta il nome della disciplina da poco coniato e che istituisce strumenti di piano unici per tutto il territorio nazionale. Essa configura una pianificazione gerarchica, ordinata in tutti i livelli amministrativi e in ogni possibile scala di gestione e intervento: piano territoriale di coordinamento; piano intercomunale; piano regolatore generale comunale; piano particolareggiato di attuazione; programma di fabbricazione. Una cascata di piani inaudita in una legge tuttora formalmente in vigore, ma destinata a vedere praticato diffusamente e sistematicamente solo il piano regolatore generale comunale. Gli urbanisti tentano anche, senza riuscirvi, di inserire nelle legge la separazione dal diritto di proprietà del diritto di edificazione, sperando di conferire a quest'ultimo lo statuto di concessione pubblica. Si vorrebbe trasferire ogni decisione edificatoria nelle mani dell'amministrazione comunale. È essa sola che può concedere al privato, dietro pagamento di un adeguato prezzo, il diritto a edificare, volta a volta che lo riterrà opportuno, attenendosi alle norme e alle prescrizioni dettate dal piano. E perciò il piano, dalla sua approvazione, ha validità legale a tempo indeterminato. Non c'è infatti bisogno, in questa logica, di predeterminare la sua validità temporale, dal momento che il diritto edificatorio è decisione esclusiva del Comune. Un tale potere urbanistico sulla terra avrebbe inciso profondamente su una linfa vitale del capitalismo: la speculazione immobiliare, la quale, in situazioni di urbanizzazione crescente, si fonda proprio sulla compravendita dei diritti edificatori. Un'assurdità - più volte tentata senza successo anche nei decenni successivi, perché con la pianificazione si vorrebbe il dominio globale sulla produzione dell'urbano, e a un tempo lo si pensa fondato sull'azione capitalistica ridotta a strumento di attuazione degli scopi urbanistici.

Gli urbanisti volevano uno strumento di piano che conferisse all'amministrazione comunale il diritto di decidere dove, come e quando costruire. Essi si propongono come esperti in grado di dare fondamento scientifico, tecnico e artistico alle decisioni. Pensano di poter sviluppare una scienza della pianificazione urbana e territoriale idonea a fondare - e perciò guidare con sicurezza - la progettazione dei piani. Tentano di accreditarsi come progettisti dell'urbano, in quanto capaci di intelligere il suo futuro nei tempi brevi, medi e lunghi fino a poterne indicare la tendenze verso un tempo indeterminato. Ritengono di poter tradurre tale intelligenza in definizioni spaziali attraverso una preordinata successione gerarchica di approssimazioni, che giunge fino alla soglia oltre la quale subentra la progettazione architettonica del singolo edificio. Quest'ultima è sì distinta e autonoma dal progetto urbano, ma può esplicarsi solo all'interno delle sue definizioni. Le determinazioni spaziali sono tradotte in grafici, in norme che disciplinano l'attuazione del piano e in regole edilizie di carattere generale e specifico rivolte sia all'esistente sia al progettato. Tali regole tendono a investire ogni sorta di attività edilizia, dallo spostamento di una parete divisoria all'interno di un appartamento, alla costruzione di milioni di metricubi di edifici. Col piano si pretende di porle tutte in connessione necessaria. Esso si configura come atto decisorio unitario e globale circa tutto ciò che deve permanere, tutto ciò che può essere trasformato e tutto ciò che deve essere creato. Un delirio di onnipotenza con una dimensione epistemica - per giunta inconsapevole in quanto pura mente scientista - che nella sua candida espressione originaria è alquanto stupefacente. E per quanto oggi tale delirio sia variamente dissimulato e non più candido, ciò non di meno esso permane al fondo delle aspirazioni degli urbanisti.

Il progetto di piano tramonta nel processo di mercato

Vediamo allora qual è - di fatto - lo stato di diritto sulla terra che si è venuto a configurare dopo la legge urbanistica. Il diritto di proprietà include il diritto di edificazione. Ogni possibile ambiguità giuridica in merito è stata da tempo spazzata via da sentenze della Corte Costituzionale [postilla n. 2]. Queste hanno avuto la conseguenza, tra l'altro, di invalidare le previsioni di esproprio a tempo indeterminato dei beni privati. Sicché il progetto del piano mantiene la validità a tempo indeterminato solo nelle sue previsioni edificatorie private, mentre quelle per opere pubbliche decadono convenzionalmente dopo cinque anni. Dei poteri sognati dagli urbanisti non resta così nemmeno l'ombra. Il progetto d'ogni piano è inficiato in partenza nella sua struttura portante. Ciò non deve stupire, perché di un progetto urbanistico vero - al di là delle apparenze - nessuno sente il bisogno. Il piano regolatore, in quanto strumento di gestione amministrativa, invece, è comunque necessario, anche e proprio a garanzia dell'azione capitalistica nella speculazione immobiliare e nella produzione urbana. Nessuna forma di edificazione può essere intrapresa senza l'autorizzazione dell'amministrazione comunale. Questa deve essere concessa al richiedente, seguendo le procedure in vigore, in base a una molteplicità di leggi e norme tecniche sull'edificazione, tra le quali ci sono anche quelle dettate dal piano urbanistico che il Comune si è dato.

Ma nel corso del tempo indeterminato in cui il piano è formalmente in vigore, ogni volta che vengono prospettati progetti sia pubblici sia privati di una qualche rilevanza, l'amministrazione comunale in carica in quel momento li vaglia seguendo il suo orientamento politico. Essa compie valutazioni che sono indipendenti dall'ordine urbano immaginato dal progetto di piano, il quale è stato approvato in un tempo più o meno lontano e da un'amministrazione che può esser stata diversa. I progetti rilevanti sono quelli che si manifestano secondo logiche economiche e produttive guidate dalla dinamica del mercato. Essa è inintelligibile al progetto di piano urbanistico e dunque è sempre difforme da questo (solo per accidente accade il contrario). I politici al governo della città, i proprietari di immobili e gli imprenditori interessati a quei determinati progetti, intavolano un dialogo negoziale in cui trovano composizione specifica gli interessi in gioco in quel momento. Il piano allora viene variato di conseguenza. La successione temporale di tali iniziative e procedure negoziali costituisce il concreto e autentico progetto, in continuo divenire - imprevedibile e perciò creativo -, che guida la produzione dell'urbano. Il progetto degli urbanisti, contenuto del piano regolatore generale, è solo un termine di riferimento convenzionale e puramente formale per le negoziazioni a venire.

Tutto ciò è comunemente noto e più o meno accettato. L'attività professionale da urbanista per ingegneri e architetti non è certo in crisi. La pratica della pianificazione è diffusa e va in vario modo incrementandosi, anche per la fervida produzione legislativa delle Regioni che ora hanno la competenza in materia. Gli urbanisti fondatori degli anni Venti e Trenta ne sarebbero comunque soddisfatti, forse oltre ciò che speravano, perché allo sviluppo di questo settore della libera professione puntavano molto. Tuttavia l'intento di fondare e istituire un'autonoma tecnica di costruzione dell'urbano è innegabilmente tramontato. L'urbanistica, pur ampiamente praticata nella pianificazione, non sembra dare alcun concreto contributo tecnico autonomo alla progettazione della città e del territorio. Eppure oggi si caricano i piani di una progettualità che non ha precedenti per la sua complessità, per gli scopi che indica, per la vastità delle cose che intende dominare, per le relazioni che vuole stabilire con gli altri campi del sapere e delle tecnica. La loro operatività, però, non può che ridursi a una funzione retorica nella fase in cui il piano si va formando e approvando. Il progetto specificamente urbanistico che lo sostanzia, rappresentato al pubblico, costituisce lo schermo dietro al quale si svolgono le negoziazioni. Tali negoziazioni, nella fase di formazione del piano generale, sono incentrate quasi esclusivamente su attività immobiliari puramente speculative. Queste per loro natura non possono e non devono avvenire in pubblico. L'approvazione del piano legalizza l'esito della competizione negoziale, decretando l'ammontare del volume edificabile dei proprietari vincitori. Tale volume virtuale - ma misura concreta del valore di mercato della proprietà immobiliare - deve apparire ai cittadini come la loro futura città, quanto più è possibile carica dei loro desideri. Compito degli urbanisti è di evocarli e interpretarli in modo convincente. Uno dei padri della legge urbanistica 1150/42, Virgilio Testa, usava dire che “il piano regolatore crea i ricchi e i poveri”, e ne concludeva che la sua redazione dovesse avvenire, a porte chiuse e a opera di pochissimi tecnocrati integerrimi, escludendo cioè tutte le parti interessate. Egli, evidentemente, pensava che in questo modo si potesse far prevalere l'interesse comune - fondato sulla vagheggiata tecnica urbanistica - e non quello di alcuni tra i contendenti interessati ai loro propri affari. Anche nel clima degli anni Trenta una cosa del genere era impraticabile; ma poteva esser pensata, perché la democrazia allora non era molto in voga e la fiducia nella tecnica era intrisa di forte positivismo epistemico.

Il progetto con cui si carica ogni piano - coi suoi sogni e desideri, credibili e incredibili, seri o risibili - è destinato progressivamente a evaporare, mentre il fervore creativo del mercato sviluppa i suoi progetti di costruzione della città e del territorio, realizzandoli senza alcun bisogno della tecnica urbanistica e in totale estraneità da questa. L'attività imprenditoriale ricorre e utilizza ai suoi fini di produzione dell'urbano saperi e tecniche diverse, da un lato quelli che vanno sviluppando le varie scienze sociali, politiche, economiche e giuridiche, dall'altro le ingegnerie e l'architettura: ma non l'urbanistica, in quanto autonoma da queste. Il progetto del piano evapora, ma i suoi residui sono costituiti da pesanti e diffuse norme edilizie - per lo più inutilmente vessatorie ai fini della qualità urbana. Esse continueranno senza sosta a gravare su ogni opera intrapresa dai cittadini che hanno per scopo l'uso del bene e non il profitto. Una circostanza che non contribuisce certo a rendere popolare l'urbanistica. Ne è testimonianza la diffusione dell'abusivismo edilizio, prevalentemente costituito da opere non certo dei grandi speculatori, in quanto sono questi ultimi a dettare legge al piano.

In queste condizioni e su tali presupposti l'urbanistica è impossibile, sia come tecnica in grado di produrre le regole comuni della costruzione urbana e territoriale, sia come sapere capace di formulare strategie che ne orientino lo sviluppo a qualsiasi scopo votato. Una tale competenza unificante è di fatto propria dell'azione imprenditoriale capitalistica e dei saperi e delle tecniche che è capace di mobilitare e subordinare; perché essa gode di un consenso di fondo vasto e consolidato. La fede nelle sue capacità progettuali e creative è popolare. Non solo. Ogni sua determinata azione, ciascun specifico progetto col quale si manifesta, per raggiungere lo scopo primario del profitto deve praticare la mediazione del mercato. È sul mercato che i singoli progetti e i suoi vari prodotti ricevono legittimazione, ossia il consenso che li fa vincenti. Una legittimazione che travolge ogni diritto vantato dal piano urbanistico e lo trasforma in suo proprio strumento. Niente, o quasi, di tutto ciò appartiene all'urbanistica, che pur si propone e continua a proporsi come tecnica di costruzione della città e del territorio.

[1] I. Cerdà, Teoría General de la Urbanización, Madrid, 1867, ed. anast. a cura di A. Barrera da Irimo, Madrid, 1968-1971, 3 voli. Una parziale traduzione italiana è in Teoria generale dell'urbanizzazione, antologia di brani a cura di A. Lopez de Aberasturi, Milano, 1984. Si tratta di una traduzione a cura di A. Ceruti dal­l'edizione francese (la prima fuori dalla Spagna) della voluminosa opera di Cerdà, peraltro rimasta incom­piuta rispetto a(1) piano originario dell'autore. Dì recente ne è stata pubblicata un'edizione critica: Ceraci. Las cieco bases de la teoria general de la urbanizaciòn, compílación de A. Soria y Puig, Madrid, 1996.

[2] I. Cerdà, Teoria generale dell'urbanizzazione, cit., pp. 81-82.

[3] Questa parola spagnola significa: 'il popolare' (colonizzare); o `popolazione' (gli abitanti di un luogo, città, borgo, paese, villaggio).

[4] L’intero paragrafo, nell’edizione originale in castigliano, suona così: “Hé aqui la razones filólogicas que me indujeron y decidieron à adoptar la palaba urbanizacion, no solo para indicar cualquier acto que tienda à ragrupar la edificacion y à regularizar su funcionamiento en el grupo ya formado, sino tambien el conjunto de principios, doctrinas y reglas que deben aplicarse, para que la edificacion y su agrupamiento, lejos de comprimir, desvirtuar y corromper las facultades fisicas, morales é intelectuales del hombre social, sirvan para fomentar su desarrollo y vigor y para acrecentar el bienestar individual, cuya suma forma la felicidad pública” (I. Cerdà, Tèoria General de la Urbanización, cit., p. 30).

[5] I. Cerdà, Tèoria General de la Urbanización, cit., p. 82.

[6] La Teoria di Cerdà - dice Choay - non ha avuto “posterità diretta”; dopo la primaedizionespagnola non è stata più pubblicata e diffusa fino al 1968. “Resta il fatto che la noria non è stata letta né dagli storici i quali, come Lavedan, hanno riportato di Cerdà il solo Piano di Barcellona, né dai teorici dell’urbanistica. Ad eccezione del suo compatriota A. Soria, i teorici posteriori a Cerdà non gli devono nulla direttamente. Che nei loro scritti operi la stessa figura testuale della Teoria, dipende dalla comune appartenenza ad un identico livello epistemico” (F. Choay, La règle el le modèle. Sur la théorie de l’architecture el de l’urbanisme, Paris, 1980 e 1996, ed. it. La regola e il modello. Sulla teoria dell’architettura e dell’urbanistica, Roma, 1986, p. 305).

[7]M. T. Varrone, De lingua latina, in A. Traglia (a cura di), Opere di Marco Terenzio Varrone, Torino, 1974, p. 65 [4, 21 ].

[8] In generale sulla struttura logica dell'agire tecnico e sul suo destino vedi E. Severino, Il destino della tecnica, Milano, 1998.

C’è nel titolo di questa mia relazione un’ansia palese. Lo confesso.

E’ da quando, poco più di un anno fa, ho assunto la responsabilità dell’assessorato all’urbanistica che mi porto dietro quest’ansia e la sento crescere. Perché ho fatto di questo motto – urbanistica partecipata – l’essenza programmatica del mio impegno. E perché ho trovato enormi difficoltà nel praticare questo motto, fino al dubbio che esso sia un vuoto nominalismo in perfetto gergo assessorile.

Sono tentato di pensare che possa trattarsi di un ossimoro che svela un malcelato senso di colpa. Ovvero che possa trattarsi di una tautologia che svela un altrettanto malcelato eccesso di zelo.

Infatti:

- se per urbanistica intendiamo (come spesso è, purtroppo e necessariamente) la gestione quotidiana di singole operazioni tecnico-giuridiche che inseguono i guasti del territorio, che rincorrono fabbisogni pregressi, che seguono decisioni “altrui”, sempre in bilico tra “atto dovuto”, “sanatoria” ed “emergenza”;

-e se per partecipazione intendiamo (come quasi sempre è, malgrado le migliori volontà) le cosiddette assemblee popolari, talvolta stancamente deserte, altre volte tanto affollate quanto tumultuose, ma intrinsecamente “protestatarie”;

- se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero un ossimoro, cioè la combinazione di due concetti opposti e inconciliabili.

Invece:

- se per urbanistica intendiamo (come è giusto in questo contesto) la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti;

- e se per partecipazione intendiamo (come è ovvio in questo contesto) il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata;

se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia, cioè la ripetizione di due concetti analoghi.

Scelgo decisamente la seconda interpretazione cercando di depurarla dell’ansia e, nella piena consapevolezza della sua difficoltà, di riconfermarla programmaticamente. In questa chiave, proverò a declinare separatamente i termini della questione.

L’urbanistica

L’urbanistica è, in senso lato, la disciplina che si propone di governare le modalità insediative dell’uomo e dunque di governare i fenomeni di formazione e trasformazione della città, del territorio e dell’ambiente. In quanto tale l’urbanistica ha compiti che si collocano sull’incrocio problematico tra passato e futuro.

L’urbanistica dovrebbe, anzi deve, interpretare le tensioni trasformative della città e assecondarle con azioni di ri-modellamento dei sistemi insediativi e relazionali della comunità territoriale. Ma nella sua dimensione operativa (tecnica, giuridica, gestionale, ecc.), in quanto azione essenzialmente politico-amministrativa, l’urbanistica resta impaniata nelle dinamiche inerziali tipiche della gestione del presente: razionalizzazione di processi spontanei già in atto; correzione delle patologie manifeste; risoluzione dei fabbisogni arretrati; risposta alle emergenze;…

Domina, largamente e di fatto, il paradigma dell’a posteriori.

E’ come se fossimo condannati a rincorrere le situazioni già in atto e dovessimo consumarci unicamente nello sforzo di correggere storture già prodotte dalla spontaneità dei fenomeni sociali, dei processi economici e delle dinamiche territoriali.

E’ una condanna da cui l’urbanistica deve liberarsi.

Consapevole dei limiti intrinseci della sua dimensione operativa, l’urbanistica deve saper dispiegare la sua dimensione scientifica e culturale aumentando la sua capacità di interpretazione e di prefigurazione. Ciò significa uscire dalle strettoie del rapporto meccanicistico tra passato e futuro per ricollocarsi culturalmente sullo snodo problematico tra storia e progetto.

In questo quadro l’urbanistica deve, anche in sede amministrativa, aumentare la sua cifra progettuale aumentando la sua vocazione ad ispezionare gli scenari del territorio lavorando sui futuri probabili e sui futuri auspicabili.

L’urbanistica e la politica

Emerge chiaramente in questa prospettiva la contiguità dell’urbanistica con la politica. Una contiguità profonda ed ineliminabile, di cui sono portatori emblematici perfino i termini linguistici e i loro etimi. Urbs e polis definiscono la città, pur con accezioni diverse, rispettivamente per la cultura romana e per la cultura greca. Prevale nell’ urbs romana la fisicità e la funzionalità dell’organismo urbano; prevale nella polis greca il senso di comunità sovrana insediata nella città. Urbanistica e politica dunque, entrambe incardinate sulla città, in essa radicate e da essa generate, in una singolare fusione di destini sociali e fisici, civili e funzionali.

Programmare il futuro della città con l’urbanistica significa programmare il futuro della comunità che in essa vive. Organizzare e regolare le relazioni individuali e collettive dei cittadini con la politica, rispondendo ai bisogni e rispettando i diritti, significa organizzare e regolare la città come luogo di quelle relazioni.

La democrazia

In questo intreccio tra destini della comunità e destini della città irrompe il principio (e la pratica) della democrazia.

Si badi bene: la democrazia non è di per sé essenziale all’urbanistica. La storia ci mostra infiniti esempi di “urbanistica non democratica”. Mi riferisco all’urbanistica prodotta dai regimi dittatoriali. C’è addirittura una diabolica perfezione nell’urbanistica dei dittatori.

L’imperialismo romano ha disegnato il dominio sul Mediterraneo trasformandoin città i propri accampamenti militari. Le monarchie assolute hanno disegnato le grandi capitali europee attorno alle loro regge. Gli splendidi boulevard pariginisono il risultato dell’urbanistica controrivoluzionaria del prefetto di polizia Hausmann. L’imperialismo coloniale ha sigillato la modernità cospargendo gli altri mondi di capitali simil-europee. Il nazismo, il fascismo, lo stalinismo hanno ridisegnato intere città e ne hanno fondate altre ex-novo, con una maestria che spesso affascina gli studiosi per la grandiosità delle impostazioni, per la coerenza delle soluzioni, per la monumentalità delle opere.

C’è in questa urbanistica la semplificazione tragica di un potere assoluto che prescinde dai bisogni e dai diritti e celebra nella costruzione delle città il delirio della propria onnipotenza, il narcisimo della propria immagine e il delitto dell’oppressione.

E’ la democrazia che complica l’urbanistica!

La rende meravigliosamente imperfetta, perché nega i gesti megalomani dei dittatori e sottopone il progetto della città al consenso dei suoi cittadini e al difficile esercizio della conciliazione tra i diversi interessi, in quell’intrico di bisogni e di diritti che sono la naturale espressione di una società complessa in cui i cittadini sono sovrani e non sudditi.

La partecipazione

E’ nel quadro della “democrazia politica” che si afferma necessariamente il principio della “urbanistica democratica”. Ed allora possiamo affermare che l’urbanistica democratica o è urbanistica partecipata o non è.

Ritornando alle nostre iniziali riflessioni etimologiche, ritroviamo dunque la pienezza del principio di democrazia espressa dalla polis greca come comunità autonoma di cittadini liberi e sovrani, dalla cui assemblea promana l’organizzazione della città.

Il riferimento simbolico alla polis non deve però cedere alla tentazione della semplificazione. La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie.

Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione.

L’esperienza concreta

Nella mia esperienza concreta di amministratore ho vissuto una serie di occasioni di partecipazione su cui vorrei brevemente riflettere.

Non le citerò concretamente, ma cercherò di estrapolarne alcune caratteristiche emergenti. Mi scuserete se in questa analisi tratterò soprattutto le mie “sensazioni negative”. Userò giudizi drastici e perfino paradossali, estremizzando le posizioni per chiarezza, ma senza nessuna acrimonia.

Ho sperimentato la prevalenza del dissenso.

Il cittadino partecipa attivamente e con vivacità solo quando non gradisce la proposta o l’intervento. Chi è d’accordo non si pronuncia, partecipa silenziosamente o addirittura non partecipa. Ciò costituisce una condizione di grave squilibrio tra dissenso esplicito e tacito consenso.

Ho sperimentato la sommatoria dei dissensi.

I cittadini dissenzienti esprimono una notevole varietà di obiezioni, spesso tra loro contrastanti e perfino antagoniste. Ma paradossalmente le obiezioni opposte, anziché elidersi, si sommano.

Ho sperimentato l’interesse personale come matrice della partecipazione

Non mi è mai capitato di assistere ad una partecipazione “gratuita e disinteressata”. Si riconosce solo l’interesse diretto. Si lotta per difendere il proprio cortile. Si universalizza il proprio bisogno singolare, il proprio diritto personale.

Ho sperimentato l’ostilità pregiudiziale verso le proposte.

L’amministrazione è vissuta come estranea, perfino nemica, comunque inefficiente. Mi coglie il sospetto che ci sia un istinto conservatore alimentato dalla paura del cambiamento.

Ho sperimentato l’incapacità negoziale.

Si oscilla tra l’indifferenza e la contrarietà assoluta. Stento a trovare quella saggezza negoziale che entra nel merito della soluzione proposta per implementarla con le proprie esigenze.

Potrei continuare a lungo ma mi accorgo che sono tutte critiche rivolte ai cittadini. E allora per farmi perdonare cambio bersaglio e chiudo con una critica radicale rivolta all’amministrazione, cioè a me stesso.

Ho sperimentato l’ipocrisia di spacciare per occasione di partecipazione la pura comunicazione di decisioni già assunte.

Credo che si possa qui trovare la chiave di volta, molto concreta e pratica, per tentare un approccio davvero costruttivo a nuovi percorsi di urbanistica partecipata: c’è bisogno di costruire la partecipazione attraverso un reale coinvolgimento dei vari soggetti lungo tutto il processo conoscitivo e decisionale delle scelte urbanistiche.

Ciò significa concretamente che:

1. deve essere offerta preliminarmente la conoscenza problematica della questione – partecipazione in fase istruttoria;

2. devono essere rese esplicite e riconoscibili le ragioni di metodo e di merito che delineano progressivamente la scelta dell’intervento – partecipazione in fase pre-progettuale;

3. devono essere definiti, laddove possibile, scenari alternativi descritti nei loro diversi effetti possibili, magari con la formulazione di appositi bilanci di costi e benefici, per orientare il processo decisionale – partecipazione in fase progettuale;

4. devono essere attivati processi di pronunciamento sulla decisione assunta – partecipazione in fase decisionale;

5. devono essere attivati processi di controllo sulle attuazioni conseguenti – partecipazione in fase attuativa.

Ho sperimentato questa procedura con lo studio di fattibilità per il recupero e la riqualificazione delle aree ferroviarie. Dalle reazioni delle assemblee ho capito quanta strada ci sia da percorrere: ho fatto molta fatica a farmi credere quando dicevo trattarsi solo di uno “studio di fattibilità a scenari aperti”. Tutti lo scambiavano per un progetto fatto e finito. Tutti erano convinti che fosse una decisione presa e molti la contestavano, in quanto tale.

Questa è stata per me una lezione importante: la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un opzional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza.

Per quanto mi riguarda l’urbanistica partecipata è una fatica su cui mi sento di rinnovare oggi il mio impegno.

Grande pittore olandese è anche Jan Vermeer (Delft, 1632 - ivi, 1675). A parte alcuni paesaggi, dipinse interni di vita borghese, prediligendo le scene domestiche più comuni, i piccoli avvenimenti della giornata di una donna. La sua caratteristica è quella di rendere la tranquillità dell'atmosfera da cui è circondato, con poche figure, spesso una sola, intenta alla lettura o a occupazioni casalinghe. Egli rappresenta con precisione la realtà. La tecnica è molto raffinata: colori inediti giocati sull'accostamento di toni caldi e freddi, una materia ora traslucida ora untuosa che rende l'impressione dell'oggetto, la pennellata è spesso in piccole gocce per rendere la superficie e la riflessione di luce. Caratteristica è la fonte luminosa che vivifica gli interni. Infatti nei suoi quadri c'è qualcosa di vibrante, che rende vivo l'ambiente pacato e silenzioso ove vivono le figure (la luce che penetra da una finestra, posta per lo più a sinistra o fuori dell'inquadratura. Una luce morbida, resa con piccole pennellate punteggiate).

http://www.globalarte.it/storia/vermeer.htm

(Delft 1632 - 1675)

Figlio di un mercante d'arte, Vermeer si formò a contatto con le opere antiche e dipinse per pochi intimi. Ritrasse soprattutto scene di vita domestica, spesso le attività quotidiane. La composizione delle scene è semplice: lo spazio è definito da pochi piani e da una luce intensa e radente; le diverse zone di colore sono usate in modo da contrapporre toni caldi a toni freddi. Il risultato finale è un'immagine che evoca il senso del mistero e una sorta di attesa che ci trasmette una straordinaria ricchezza emotiva. Dimenticato per circa 200 anni, Vermeer fu riscoperto nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Oggi è considerato uno dei più grandi maestri della pittura olandese.

http://www.educazionealimentare.net/at060000h.htm

This memorandum attempts to express “the sense of the meeting” growing from the Italo-American City and Regional Planning and Housing Seminar conducted on the island of Ischia, June 20-30, 1955 under the sponsorship of the Italian “Ministero dei Lavori Pubblici”, the “Comitato Nazionale per la Produttività”, and the “Istituto Nazionale di Urbanistica”, with the cooperation of U.S.O.M.

The Seminar was attended by governmental officials, practicing town planners, architects and other professional people closely allied to planning, by professors of planning in Italian and American universities, and by editors of seven professional magazines in the fields of city and regional planning, housing and architecture. Many of these individuals made valuable contributions to the discussions out of which the present notes have been distilled.

At the beginning of the meetings, papers were presented by the following responsible Italian officials: Prof. Cesare Valle for the Ministero dei Lavori Pubblici; Dr. Francesco Curato for the Cassa per il Mezzogiorno; Ing. Camillo Ripamonti for other public housing agencies.

During the Seminar, discussion was focused on eleven papers which had been prepared by the American participants, and by prepared comments on the subjects of these papers by their eleven Italian counterparts. These papers, their authors and their Italian commentators were the following.

Howard K. Menhinick, The South in the U.S.A. Commentator: Manlio Rossi Doria.

Albert M. Cole, The United States Housing Program.Commentator: Camil1o Ripamonti.

Girard Davidson, Regional Resource Planning by the Federal Government.Commentator: Giovanni Astengo.

Oskar Stonorov, The Coming Reconstruction of American Cities. Commentator: Luigi Piccinato.

Lawrence K. Frank, The Human Dimensions of Planning.Commentator: Angela Zucconi.

Frederick Gutheim, Plans for Today and Tomorròw. Commentators: Ugo La Malfa and Ernesto Nathan Rogers.

Edmund M. Bacon, Philadelphia's Planning Program. Commentator: Ludovico Quaroni.

Vernon De Mars, Choice as an Objective in Planning. Commentator: Adriano Olivetti.

Douglas Haskell, Roadtown U.S.A. Commentator: Bruno Zevi.

Robert B. Mitchell, Transportation in Contemporary City Planning. Commentator: Vincenzo Di Gioia.

Paul Opperman, Central City Planning in a Metropolitan Context. Commentator: Gino Pollini.

Planning processes at the national, regional ;and local levels need to be inter-related. They should include programs for economic development and for social services and social adjustment as well as schemes for the physical adaptation of physical arrangements and facilities. No single element, such as an economic program or a physical design should be undertaken in isolation. The continuous practice of the process of planning requires a form of organization which can be related to government. It should be responsible for the synthesis of the contributions of citizens and public officials as well as its technical staff toward the preparation of plans and programs. Many American city planning commissions are examples of such an institution, which might be useful for adaptation in other circumstances.

Out of these discussions there came awareness of many common problems and opportunities shared by planners in the two countries. In the midst of varying points of view on techniques and methods of application, certain principles came through clearly. In the conversations the participants were trying to define these problems and opportunities rather than to devise universally applicable formulae. The central and continuing problem; was seen to be that of translating human needs and aspirations into a fitting environment for modern life, and of developing methods and practices so that planning can become a progressively more useful instrument of democratic choice.

It is clear that urban and regional planning is entering a new phase all over the world. In this new phase a humanistic approach, which tries to adjust man's environment to these changing needs and resources, will supersede a preoccupation with types of urban structure. Planning will emphasize not static schemes of physical arrangement but schemes of development to guide the “creative evolution” of communities.

This new planning requires the development of a more profound method and enlarged scientific knowledge of communities and regions. It is our hope that through its humanistic approach and with the aid of greater knowledge and improved method, planning can produce more suitable and useful designs of arrangement in the physical sense.

We believe that planning is a new democratic function. The institutions of planning must have a functional continuity.

Planning represents a technical, social and human service to the community which requires a competence in the formulation and the implementation of long-term programs, beyond day-to-day decisions which may be dictated by political expediency.

We believe that with the increasing social responsibility of the technical planning process the work of the politician and the administrator will be placed in a broader context and will be facilitated.

Regional planning for the wise conservation and utilisation of all of the resources of a territory was recognized as a most important device for raising the standard of living of the people, especially in depressed areas. The development of all of the resources of a region in a unified manner, with active participation of the people directly affected, to produce “not a planned region but a planning region” has been successfully demonstrated.

The reconstruction, conservation and preservation of central cities is a matter of high importance, and the conditions of modern life give it an urgent status in the community, its public administration, its economic productivity are concentrated in these centers.

Reconstruction must be based upon a sensitive respect for cultural treasures of past generations to conserve that which may be maintained and fitted to the life of the present and new uses of the land areas of such communities.

The relation of “core city” to the metropolitan area, ought to meet requirements of the numbers of the inhabitants to be served, and their economic purposes. The scale and character of the community as a whole, likewise, should receive an appropriate architectural design to create worthy cultural symbols of the qualities and purposes of the people.

The need for a sense of community both functionally and visually was felt desirable by the representatives of both countries. Some felt that the need for center or focus of neighborhood living at the human scale is one of the major problems of our times. At this scale, the possibility of a variety of choices on the part of the individual as to how he wishes to live is a positive objective of planning; not a mere accidental by-product.

In the whole field of housing, some major problems of housing credit and finance, were identified and the door opened for further exploration of Federal Housing Administration mortage insurance and of other type of financing to meet the special problems of Italy.

Furthermore, it, was agreed upon that in housing programs it is necessary to adopt, measures under which a part of the allocations goes toward the establishment and operation of collective social services, because such services constitute an integral and essential part of a program for the elevation of the living standard of low-income people.

We have identified specific planning techniques which should be further explored to adapt and introduce them into the planning structure and practice of our respective countries. Among these are the advance acquisition of sites for community facilities and public works through reservation and dedication procedures as well as by direct purchase, the preparation of capital programs and budgets on the basis of detailed study of planning offices in collaboration with operating departments of local governments, and processes of “mandatory referral” to insure that specific project proposals will be judged in the context of general plans. Other examples could be cited.

In the important field of planning education, major shortages of qualified personnel exist in both countries. Current developments in the two countries are complementary to each other.

In Italy every young architect is given training in community planning. Many engineering schools also teach courses in planning. This has resulted in a high level of housing and neighborhood design not generally achieved in the United States, where such a policy of planning training does not exist in all architectural schools. The United States might emulate Italy in this respect.

In the United States the profession of planning is recognised as a subject in its own right. Within the structure of twenty American universities, post-graduate courses in planning have been established, leading to a Master’s degree. While the contribution of many disciplines, including architecture, engineering, economics and sociology has been recognized, the planning instruction is carried on independent of domination by any of these specialities. The training is designed to produce persons competent to carry on planning as a broad correlative force, bringing into play the full potential of the many contributory professions. This concept of planning education may present suggestions which Italian universities might want to consider.

In both countries, close relationships between practitioners in planning and planning schools should be encouraged, and the student exchange program should be strengthened.

In conclusion, we regard this Seminar and its results as a distinct success. We have built a bridge of friendships and understanding among a group of students of two nations. We have laid the foundation for future cultural collaboration. As an institution, the Seminar has proven to be a communications device which, properly conceived and utilized, has great utility. As such it should be further exploited. We believe that future regional and town planning work and housing programs in both our countries will be enriched by the understanding which these conversations have given us.

Questa dichiarazione tende ad esprimere lo spirito dell’incontro italo-americano sulla pianificazione urbana e regionale tenuto ad Ischia dal 20 al 30 giugno 1955, e che, sotto il patrocinio dell’INU, è stato organizzato dal Comitato Nazionale della Produttività, per incarico del Ministero Italiano dei Lavori Pubblici, con la cooperazione dell’U.S.O.M.

All’incontro hanno partecipato funzionari governativi, urbanisti professionisti, architetti ed altri studiosi strettamente interessati alla pianificazione, professori di urbanistica nelle università d’Italia e d’America ed i direttori di sette riviste di architettura e di urbanistica.

Molte di queste persone hanno portato notevoli contributi alla discussione, dalla quale sono state tratte le presenti note.

All’inizio dell’incontro, sono state presentate relazioni dai seguenti rappresentanti ufficiali italiani: prof. ing. Cesare Valle per il Ministero dei LL.PP., dr. Francesco Curato per la Cassa del Mezzogiorno. Ha inoltre parlato il Dr. Giorgio Sebregondi per la SVIMEZ.

Durante il Seminario le discussioni hanno avuto per base le undici relazioni che erano state preparate dai partecipanti americani ed i commenti elaborati sul tema di tali relazioni da undici controrelatori italiani.

Ecco l’elenco dei titoli e degli autori delle relazioni e dei nomi dei controrelatori italiani:

Howard K. Mehinick, Il Sud degli Stati Uniti ( Controrelatore: Manlio Rossi Doria)

Albert M. Cole, Il programma edilizio degli Stati Uniti ( Controrelatore: Camillo Ripamonti)

Girard Davidson , Pianificazione delle risorse regionali da parte del Governo Federale ( Controrelatore: Giovanni Astengo)

Oskar Stonorov, La futura ricostruzione delle città americane ( Controrelatore: Luigi Piccinato)

Lawrence K. Frank, Le dimensioni umane della pianificazione ( Controrelatore: Angela Zucconi)

Frederick Gutheim, Piani per oggi e domani ( Controrelatori: Ugo La Malfa, Ernesto Rogers)

Edmund M. Bacon, Programma urbanistico di Philadelphia, ( Controrelatore: Ludovico Quaroni)

Vernon De Mars, La scelta come obiettivo della pianificazione ( Controrelatore: Adriano Olivetti)

Douglas Haskell, La città strada negli Stati Uniti, ( Controrelatore: Bruno Zevi)

Robert B. Mitchell, I trasporti nella pianificazione urbana contemporanea, ( Controrelatore: Vincenzo Di Gioia)

Paul Oppermann, Sistemazione del nucleo urbano centrale nell’ambito metropolitano ( Controrelatore: Gino Pollini)

Hanno inoltre partecipato ai lavori, su invito del Comitato Nazionale della produttività, i seguenti esperti: Arch. Leonardo Benevolo, Prof. Federico Biraghi, Prof. Edoardo Caracciolo, Dott. Giorgio Ceriani Sebregondi, Ing. Giuseppe Ciribini, Prof. Carlo Cocchia, Dott. Francesco Cuccia, Dott. Francesco Curato, Prof. Luigi Dodi, Prof. Ignazio Gardella, Ing. Marcello Grisotti, Sig. Raffaele La Serra, Prof. Vincenzo Minchilli, Prof. Giuseppe Vaccaro, Ing. Cesare Valle.

I processi di pianificazione ai livelli nazionali, regionali e locali, dovranno essere tra loro interrelati: essi dovranno comprendere i programmi per lo sviluppo economico, per i servizi sociali e per il riordinamento sociale, come pure gli interventi per l’assetto territoriale delle attrezzature e delle opere pubbliche. Nessuno di questi singoli interventi, sia esso un programma economico o una progettazione di opere, dovrà essere intrapreso come un fatto a sé stante.

L’esercizio continuativo del processo di pianificazione richiede una forma di organizzazione in stretta relazione con l’amministrazione pubblica. Tale organizzazione sarà responsabile della sintesi fra i contributi dei cittadini e dei pubblici funzionari, come pure i suoi organi tecnici lo saranno nei riguardi della preparazione dei piani a lunga scadenza e dei programmi di attuazione.

Molte planning commissions di città americane costituiscono esempi di questo tipo di istituzione che potrà essere utilmente adattato ad altre circostanze.

Da queste discussioni è sorta la consapevolezza di molti altri problemi e possibilità comuni agli urbanisti dei due paesi. Pur nella varietà dei punti di vista sulle particolari tecniche e sui mezzi di applicazione, , sono stati chiariti alcuni principi fondamentali. Nelle conversazioni i partecipanti hanno cercato di definire questi problemi e queste possibilità piuttosto che ideare formule universalmente applicabili. Si è visto così che problema centrale rimane quello di tradurre i bisogni e le aspirazioni umane in un ambiente adeguato alla vita moderna, e di elaborare una tecnica ed una metodologia tali che la pianificazione possa diventare uno strumento sempre più utile di scelta democratica.

È chiaro che in tutto il mondo la pianificazione, sia regionale che urbana, sta entrando in una nuova fase, nella quale una istanza umanistica, che cerca di adeguare l’ambiente umano alle mutate necessità e risorse, prenderà il posto della ricerca tipologica delle strutture urbane.

La pianificazione metterà in rilievo non schemi statici di sistemazione territoriale delle opere pubbliche, ma linee di sviluppo per guidare la “evoluzione creatrice” delle comunità.

Questa nuova pianificazione richiede lo sviluppo di un più approfondito metodo e una più larga conoscenza scientifica delle comunità e delle regioni. È nostra speranza che, attraverso questa impostazione umanistica e con l’aiuto di più vaste conoscenze e di un metodo perfezionato, la pianificazione possa produrre più adeguati ed utili progetti di concrete sistemazioni territoriali.

Noi crediamo che la pianificazione sia una nuova funzione democratica e che i suoi organi debbano avere una continuità funzionale.

La pianificazione è un servizio tecnico, sociale ed umano per la collettività, che richiede quindi adeguate competenze nella formulazione e nell’attuazione di programmi a lunga scadenza, , i quali consentano di superare le decisioni alla “giornata” che possono essere dettate dalle contingenze politiche. Noi crediamo che, con la crescente responsabilità sociale del processo di pianificazione in sede tecnica, l’opera dei politici e degli amministratori si svolgerà in un quadro più ampio e ne sarà agevolata.

La pianificazione regionale per una saggia conservazione e utilizzazione di tutte le risorse di un territorio è stata riconosciuta come il più importante mezzo per innalzare il livello di vita della popolazione, specialmente nelle aree depresse. La discussione ha dimostrato che lo sviluppo di tutte le risorse di una regione secondo un concetto unitario, con l’attiva partecipazione della popolazione direttamente interessata allo scopo di attuare “non una regione pianificata ma una regione pianificante” è un metodo di pianificazione che può condurre a felici risultati.

Il riassetto, la conservazione e la preservazione dei centri delle città più importanti, sono problemi di grande rilievo sia per le moderne condizioni di vita, sia per il fatto che le pubbliche amministrazioni e le forze economiche e produttive sono in essi concentrate.

Il loro riassetto deve basarsi sul rispetto, pieno di sensibilità, verso i tesori culturali delle passate generazioni, al fine di conservare quanto può essere mantenuto ed adattato alla vita d’oggi ed ai nuovi usi del suolo di tali comunità.

Il rapporto tra la città e la sua zona di influenza e quella del centro direzionale con la città, che esso serve, deve basarsi su programmi a lunga scadenza al fine di soddisfare le necessità degli abitanti e le loro attività economiche. Le dimensioni ed il carattere della comunità nel suo complesso dovrebbero pure estrinsecarsi in appropriate architetture, al fine di creare una valida espressione delle qualità e del carattere della popolazione.

Le delegazioni dei due paesi hanno ritenuta necessaria questa caratterizzazione, sia funzionale che formale. Alcuni ritengono che la necessità di un centro focale delle unità residenziali, alla scala umana, sia uno dei maggiori problemi del nostro tempo. Essi pensano inoltre che, a questa scala, la possibilità da parte degli individui di scegliere un proprio modo di vivere sia un obiettivo concreto della pianificazione, non un sottoprodotto puramente accidentale.

Nel campo dell’ housing, sono stati identificati alcuni dei maggiori problemi riguardanti il credito e il finanziamento della costruzione di abitazioni ed è stato gettato il seme per promuovere esperimenti di assicurazione ipotecaria tipo Federal Housing Administration e di altri tipi di finanziamento per risolvere particolari problemi italiani.

È stata inoltre concordemente riaffermata l’esigenza che, nel quadro dei programmi edilizi, siano sviluppate le misure dirette a riservare un’aliquota dei finanziamenti all’impianto e al funzionamento dei servizi sociali a carattere collettivo, perché tali servizi costituiscono un’integrazione essenziale per l’elevazione del livello sociale ed umano delle classi meno abbienti.

Noi abbiamo identificato delle tecniche di pianificazione specifiche che dovranno esser ulteriormente studiate per adattarle ed introdurle nelle strutture e nell’attività di pianificazione dei rispettivi paesi. Tra queste sono l’anticipata acquisizione delle aree per le attrezzature collettive e per le opere pubbliche sia attraverso procedure di imposizione di vincoli e di diritto di prelazione che a mezzo di acquisto diretto; la preparazione dei programmi principali e dei bilanci preventivi sulla base di studi dettagliati di uffici di pianificazione in collaborazione con gli organi esecutivi delle autorità locali e processi di “ mandatory referral” per assicurare che proposte di progetti particolari siano esaminate nel contesto dei piani generali. Altri esempi potrebbero essere citati.

Nell’importante campo della preparazione degli urbanisti, esiste in ambedue i paesi una notevole scarsità di personale qualificato. La situazione attuale nei due paesi presenta caratteri complementari.

In Italia ogni studente di architettura riceve una istruzione urbanistica. Molte scuole di ingegneria civile hanno corsi di urbanistica. Ciò ha prodotto un alto livello nella progettazione di quartieri di case popolari, livello che non è stato generalmente raggiunto negli Stati Uniti dove l’insegnamento dell’urbanistica non esiste in tutte le scuole di architettura.

Da questo punto di vista gli Stati Uniti possono imitare l’Italia.

Negli Stati Uniti la professione del pianificatore è stata riconosciuta come una professione indipendente. Nella struttura didattica di 20 università americane sono stati costituiti corsi di specializzazione urbanistica che si concludono con il titolo di “ master” in urbanistica.

In essi convergono i contributi di molte discipline, incluse l’architettura, l’ingegneria, l’economia e la sociologia, ma l’insegnamento dell’urbanistica è indipendente dal predominio di alcuna di queste specializzazioni. L’insegnamento è diretto a formare professionisti competenti a esercitare la pianificazione come una più ampia attività di coordinamento, in cui confluiscano, con il più ampio apporto, le professioni specializzate.

Questo concetto dell’insegnamento della pianificazione può costituire un utile suggerimento per le università italiane.

In ambedue i paesi lo stretto contatto tra i professionisti della pianificazione e le scuole di urbanistica dovrebbe essere incoraggiato ed il programma di scambio tra studenti dovrebbe essere rafforzato.

Noi consideriamo questo Seminario ed i suoi risultati come un positivo successo.

Abbiamo costruito un ponte di amicizia e di comprensione tra due gruppi di studiosi di due nazioni. Abbiamo messo le fondamenta di una futura collaborazione culturale. L’incontro è stato uno strumento di comunicazione che si è dimostrato molto utile, ben concepito e sfruttato. Come tale, questo tipo di incontro dovrebbe dare ulteriori frutti.

Noi crediamo che il futuro lavoro di pianificazione regionale ed urbana e i programmi edilizi delle nostre due nazioni saranno arricchiti dalla comprensione che si è stabilita tra noi attraverso questo scambio.

Abbiamo già accennato al contributo che le opere dei mondiali (e quelle delle successive "emergenze") hanno portato allo sfascio delle città e del territorio. Vogliamo aggiungere adesso qualche osservazione su un ulteriore effetto perverso della "logica" dei Mondiali: il degrado della pubblica amministrazione, la cui correttezza tecnica e amministrativa è stata gravemente minata, nel corso degli anni 80, da un ceto politico largamente corrotto e, nel migliore dei casi, distratto.

Prendiamo ad esempio le "conferenze" della legislazione d'emergenza. Esse sono la trasformazione in farsa e sopraffazione di un istituto serio, tradizionalmente adoperato dalla burocrazia ministeriale. La "conferenza dei servizi" era infatti, prima degli anni 80, la concertazione operativa, da parte dei diversi organi dello Stato coinvolti in un programma o in un progetto, del modo in cui esercitare le proprie competenze. La corruzione esercitata dalla legislazione d'emergenza sugli istituti del potere pubblico è uno dei rusultati più devastanti di Tangentopoli.

Le procedure straordinarie, come hanno svuotato le competenze degli organi collegiali delle istituzioni democratiche, così hanno esautorato quelle degli organi tecnico-amministrativi. Così, ad esempio, nell'esame dei progetti si è sostituito, al parere degli organi tecnici di Stato (come il Consiglio superiore dei lavori pubblici, "supremo organo di consulenza tecnica dello Stato"), quello dei cosiddetti "nuclei di valutazione": organismi formati da liberi professionisti e costituiti caso per caso, con criteri di affidabilità politica (cioé lottizzati). Non solo è scomparsa, in tal modo, la memoria storica dell'amministrazione statale (poiché i nuclei di valutazione, una volta esaurito il loro compito, spariscono senza lasciar traccia se non cartacea), ma spesso si sono manifestate consistenti magagne tecniche. Tipico il caso dello svincolo stradale per l'areoporto di Milano-Linate. La frettolosità e l'approssimazione con cui la "conferenza" ha esaminato, e naturalmente approvato, il progetto determinò il fatto che, una volta realizzati i monumentali piloni che dovevano sorreggere l'arteria, si "scoprì" che essi interferivano con il cono d'atterraggio degli aerei. Si dovette smantellare i piloni e rifare ex novo il progetto, questa volta sottoterra. Qualche altro miliardo accollato al contribuente.

Oggi, Vincenzo Lodigiani, uno degli imprenditori coinvolti nell'inchiesta Mani pulite, nello spiegare a un intervistatore che i costruttori erano "obbligati" a pagare tangenti, si lamenta:

Non potevamo ribellarci: la nostra è una categoria molto frantumata, senza nessun potere. E poi, a chi ci saremmo dovuti appellare? Agli organi di uno Stato occupato da quegli stessi partiti che ci chiedevano soldi? Ad una pubblica amministrazione che i partiti avevano lottizzato? In vent'anni, il sistema ha distrutto un Consiglio superiore dei lavori pubblici che funzionava bene, ha stravolto anche le burocrazie più oneste e competenti come per esempio quelle delle Fs o del Genio civile [1].

Peccato che nessuno abbia protestato quando il ministro per i Lavori pubblici, Giovanni Prandini, licenziava dal ruolo di Direttore generale del coordinamento territoriale Vezio De Lucia, e quando lo stesso ministro, proseguendo l'opera del suo predecessore Franco Nicolazzi, trasferiva o costringeva alle dimissioni dall'incarico decine di valorosi funzionari. Il fatto è che tutti erano impegnati ad applaudire quando, per "modernizzare" e "accelerare" e "sburocratizzare", tutte le leggi del decennio dell'emergenza sostituivano la trattativa privata e la concessione alla gara, e alle strutture dell'amministrazione ordinaria affiancavano una vera e propria amministrazione parallela (istituita volta per volta per ciascuna occasione) formata da organi decisionali tutti presieduti da politici, costituiti da componenti nominati dagli stessi politici e supportati da "segreterie tecnico-amministrative" di uguale estrazione.

In realtà a molti dei ceti protagonisti degli anni 80, e alla stessa ideologia della modernizzazione e dell'efficientismo, una burocrazia appena appena scrupolosa e autonoma appariva null'altro che un intralcio dannoso. Bisognava rimuoverne o neutralizzarne gli elementi impermeabili alla "partecipazione agli utili", o all'obbedienza politica.

[1] Intervista rilasciata a Antonio Calabrò, la Repubblica, 6 gennaio 1993.

Con la legge del 1992 dovuta agli onorevoli Botta (Dc) e Ferrarini (Psi) [1] si introduce infine un nuovo strumento deregolatore: il "programma integrato di intervento". Uno strumento di cui non è definito il contenuto tecnico, ma che ha l'efficacia di una concessione edilizia. Uno strumento che innesca operazioni di grande trasformazione urbana (è caratterizzato "da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana"), ma è preferibilmente d'iniziativa privata. Uno strumento che è svincolato alla subordinazione al programma pluriennale d'attuazione, come se fosse una qualsiasi ristrutturazione edilizia, e può essere in variante al Prg, ma è ammesso con priorità ai finanziamenti regionali ed è assistito dal contributo dello Stato. Se, insieme alla Botta-Ferrarini, leggiamo il decreto concernente "trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali e alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica", approvato negli stessi mesi, scopriamo un risvolto interessante. Il decreto sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, dispone infatti che i "programmi di alienazione, gestione e valorizzazione dei beni immobili" che il demanio statale intende dismettere, oppure valorizzare economicamente, sono approvati con una "conferenza a cui partecipano tutti i rappresentanti delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici comunque tenuti ad adottare atti d'intesa, nonché a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta previsti da leggi statali e regionali".

A chi è affidata l'individuazione dei beni in tal modo "suscettibili di gestione economica"? Forse ad un'attenta ricognizione svolta dall'Amministrazione del demanio e dagli enti locali interessati? No: a "consorzi di banche ed altri operatori economici o società, specializzati nel settore". E l'approvazione di siffatti programmi da parte della "conferenza" comporta "variazione anche integrativa agli strumenti urbanistici ed ai piani territoriali": la presenza del Sindaco alla Conferenza decisionista sostituisce l'istruttoria tecnica, il dibattito nel consiglio comunale, i pareri di merito, la decisione della Regione e così via.

Abbastanza evidenti sono le possibili conseguenze pratiche, sul terreno dei poteri e su quello delle fortune economiche, d'un simile intreccio. È facile valutare l'appetibilità, ad esempio, di un Programma integrato d'intervento ex lege Botta-Ferrarini applicato alle aree delle ex Caserme di Prati a Roma, o all'Arsenale di Venezia, o alle numerosissime caserme dismesse o dismettibili collocate nelle aree strategiche (non più in termini militari!) delle cento città italiane. Oltre ai vantaggi e agli snellimenti della legge suddetta, gli immobiliaristi promotori di una tale operazione potrebbero beneficiare anche della deroga a ogni previsione degli strumenti di pianificazione, e alla stesse approvazione da parte degli organi consiliari dei comuni.

C'è da aggiungere che non solo i governanti e i legislatori, ma anche alcuni urbanisti sacrificano alla nuova divinità della deregolamentazione e della derogazione. Un esempio: il Prg di Rimini del 1990. Le sue norme contengono un comma che riproduciamo integralmente:

Il consiglio comunale (...), previa individuazione e perimetrazione delle aree, approva progetti speciali per servizi e attrezzature di generale interesse volti a sostenere e riqualificare l'ambiente nonché a promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano, su iniziativa di soggetti pubblici e/o privati, anche in variante alle previsioni di Prg secondo le speciali procedure semplificate previste dalle leggi [2].

La norma, insomma, prevede e giustifica a priori la propria violazione: una contraddizione in termini, un ossimoro. Nel concreto, interessanti operazioni diventano possibili eludendo ogni verifica di coerenza complessiva. Così, il consiglio comunale può accettare proposte in contrasto al Prg ("in variante alle previsioni"), anche di privati, che dichiarino di voler realizzare un "progetto speciale", purché esso sia atto a "promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano". Dove il Prg, per fare qualche esempio, prevede servizi di quartiere, o un parco pubblico, o una zona agricola, il proprietario, o un qualsiasi altro soggetto d'accordo con lui, può quindi proporre un edificio per uffici, o un centro congressuale, o un villaggio turistico, o una succursale di Disneyland.

[1] Legge n.179 del 17 febbraio 1992, Norme per l'edilizia residenziale pubblica. La legge é stata censurata dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 393 del 7-19 ottobre 1992.

[2] Comune di Rimini, Nuova normativa di attuazione del Prg, stesura modificata in sede di controdeduzioni alle osservazioni, delibera di Cc n. 704 del 19 marzo 1990, dattiloscritto, art.2.01

Questo disegno è di Lily He, figlia di Quinsan Ciao, una collega che insegna alla Virginia Tech. Lily è nata nel 1990; come vedete, è molto brava.

This design was paint by Lily He, the daugter of Qinsan Ciao, a collegue that teaches at Virgina Tech university. Lily was borne in 1990; as you can see, she is very skilful


È negli stessi anni in cui inizia la prassi delle deregolamentazione e dell'emergenza - è agli inizi degli anni 80 - che si colloca anche il più dispiegato contributo alla delegittimazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico.

Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formulazioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una controllata sanatoria dell'abusivismo pregresso.

Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Governo decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perseguito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [1]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, come una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzionalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di sinistra, aperta anche al futuro. Se non la legge, che per l'abusivicmo nuovo costituirebbe un deterrente notevole se fosse applicata con rigore, il dibattito politico e culturale che l'hanno accompagnata hanno costituito in definitiva un incentivo all'abusivismo anziché un deterrente [2].

È una vicenda sciagurata, quella che si apre. Molti la denunciano, richiamano l'attenzione dell'opinione pubblica, fanno appello alla responsabilità dei "decisori". Molti sostengono che la scelta dell'abusivismo come occasione da cogliere (e da spremere) per impinguare le casse della finanza pubblica altro non è, sul piano morale, che la legittimazione (e l'utilizzazione monetaria) di un reato contro la collettività e il suo futuro, ed è poi, sul piano pratico, la contraddizione palese di qualunque impegno di difesa dell'ambiente, del territorio, del paesaggio e della risorsa che questo rappresenta, e infine dell'ordine nell'assetto territoriale e della certezza del diritto.

Inutili i richiami alla responsabilità. La svendita della giustizia e del territorio per una manciata di soldi (e un pugno di voti) prosegue, la legge per l'abusivismo continua il suo cammino. Ma per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianificazione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella pianificazione. È proprio questo ciò che avviene, nel corso del primo quinquennio degli anni 80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnano la discussione della legge.

In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". Il termine vuol suonare ingiurioso. Ma la ricorrenza della rivoluzione borghese del 1789 chiarirà che, dietro l'intento offensivo, si nasconde una verità. A Lucio Caracciolo che gli chiede quali siano "le radici del pensiero" degli uomini del Terrore, lo storico Lucio Villari risponde che sono uomini per i quali "il buon governo consiste nella soggezione dell'interesse privato a quello pubblico". E aggiunge: "è questo, solo questo, il fondamento della democrazia moderna" [3].

L'urbanistica, sostengono i fautori della deregulation, è un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo è nato e si è sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [4] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti è nato e si è rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.

Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato". Una parte consistente dell'opinione pubblica considerava ormai l'abusivismo come qualcosa che non era un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pagare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a saldarvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abusivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. Sicché, in definitiva, l'abusivismo è potuto apparire come qualcosa di assimilabile a una "disobbedienza civile" nei confronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si è proposti di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica.

Tutti dovrebbero riflettere con maggiore attenzione sui nessi tra la vicenda del condono dell'abusivismo e la più vasta questione della delegittimazione dell'autorità politica e amministrativa, dei partiti e delle istituzioni: soprattutto quanti ai nostri giorni pervicacemente ripropongono ulteriori sanatorie [5]. È indubbio infatti che il radicarsi della "cultura dell'abusivismo condonato" ha provocato un sostanziale e profondo indebolimento della credibilità della politica e del principio stesso dell'autorità dei pubblici poteri. Torniamo così al circolo vizioso tra abusivismo, opere pubbliche realizzate nella prassi dell'emergenza, degrado del territorio e dell'azione pubblica. Adoperiamo ancora una volta, per commentarlo, le parole dei magistrati della Corte dei Conti:

È di tutta evidenza che la localizzazione di opere pubbliche, al di fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici ed alcune volte anche contro le scelte fondamentali poste a base della pianificazione, produce la crisi della strumentazione urbanistica e mette in dubbio la stessa ratio insita nella pianificazione relativa agli usi e alle trasformazioni del territorio[6].

[1] Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.

[2] Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La dimensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del pe­riodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1992; cfr.p.240).

[3] Intervista di Lucio Caracciolo a Lucio Villari, in:1789-1799, I dieci anni che sconvolsero, il mondo, n. 4, supplemento a La Repubblica, s.d.

[4] Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denominato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci. Libertini si é adoperato con tenacia per promuovere scelte devastanti soprat­tutto in materia di condono dell'abusivismo e di infrastrutture. Le sua attività provocarono, oltre a indignati articoli di ambientalisti come Antonio Cederna e Giuliano Cannata, due argomentate lettere di protesta ai massimi dirigenti del Pci, firmate da una quarantina di urbanisti di area comunista la prima, da un centinaio la seconda.

[5] E' il caso dell'on Monello, animatore della "marcia su Roma" degli abusivi siciliani ai tempi della di­scussione della legge. Ancor oggi eletto nelle liste del Pds, egli ha recentemente presentato una proposta di legge per la sanatoria delle costruzioni abusive realizzate in varie fasi, fino alla data odierna e, per alcuni aspetti, anche per l'abusivismo prossimo futuro.

[6] Corte dei Conti, cit., p.523.

L'anno scorso un mio amico ha effettuato l'upgrade da Fidanzata 6.0 a Moglie 1.0, ed ha scoperto che quest'ultima ha una tale occupazione di memoria da lasciare pochissime risorse al sistema per altre applicazioni. Egli ha anche notato che Moglie 1.0 ha la tendenza a generare processi-figli, che consumano ulteriori risorse.

Vi è inoltre un fenomeno negativo, non indicato nella documentazione del prodotto, la cui probabile presenza era stata ravvisata da altri utenti. Non solo infatti, Moglie 1.0 si installa in modo tale da essere lanciata per prima all'inizializzazione, e controllare così tutte le attività del sistema; ma inoltre, come lui ha avuto modo di scoprire, alcune applicazioni come PokerNotturno 10.3, Ubriacatura 2.5 e NotteAlPub 7.0 non riescono più a partire, mandando in stallo il sistema appena lanciato, anche se esse funzionavano perfettamente prima dell'installazione di Moglie 1.0. L'Applicazione Calcetto 2.2 inoltre funziona a tratti.

All'installazione, Moglie 1.0 installa anche alcuni "Plug-in" indesiderati come Suocera 55.8 e Cognato in versione Beta. Di conseguenza le prestazioni del sistema decadono inesorabilmente con il passare del tempo.

Ecco alcune caratteristiche che sarebbero gradite nella versione 2.0 di Moglie. 1) un pulsante "minimizza" o "Disabilita Temporaneamente"; 2) un pulsante "Dacci un taglio" o "vatti a fare un giro"; 3) un programma di disinstallazione che, senza perdita di tempo e di risorse, permetta di rimuovere Moglie 1.0 senza conseguenze future sulla funzionalità del sistema. 4) un'opzione che consenta di far funzionare il gestore di rete in maniera promiscua, e che consentirebbe di fare un uso maggiore della funzionalità di prove hardware.

Personalmente per evitare i problemi causati da Moglie 1.0, ho deciso di installare piuttosto Ragazza 2.0. Anche così comunque ho avuto parecchi problemi. Apparentemente è impossibile installare Ragazza 2.0 su Ragazza 1.0; occorre prima disinstallare quest'ultima. Altri utenti mi hanno detto che si tratta di un bug di vecchia data. Da prove effettuate mi sembra che versioni di Ragazza entrino addirittura in conflitto nella gestione delle porte di I/O. È strano che non abbiano ancora corretto un errore cosi' evidente. Cosa ancora peggiore, il programma di disinstallazione di Ragazza 1.0 non funziona bene, lasciando alcune "fastidiose tracce" nelle applicazioni di sistema. Ma il fatto piu' fastidioso è che tutte le versioni di Ragazza aprono continuamente una finestra che decanta i vantaggi del fare l'upgrade a Moglie 1.0.

AVVISO DI BUG (questo è veramente grandioso)

Moglie 1.0 ha un bug non documentato. Se si prova ad installare Amante 1.1 prima di disinstallare Moglie 1.0, Moglie 1.0 cancella, senza possibilità di recupero i file Soldi.dll e Casa.dll prima di effettuare l'autodisinstallazione. Quindi Amante 1.1 si rifiuterà di installarsi, segnalando la mancanza di risorse di sistema.

In un'epoca dominata dall'individualismo proprietario, quale è quella che caratterizza la lunga fase dell'egemonia capitalistico-borghese fino alle sue più recenti mutazioni ed espressioni, quella subordinazione ha avuto bisogno di specifici strumenti tecnici perché le regole dell'individualismo proprietario non prevalessero nella città: dunque, là dove ciò - se fosse avvenuto - avrebbe prodotto un insostenibile caos. Per imprimere, all'azione dei singoli proprietari e costruttori, una regola d'insieme volta agli interessi collettivi, si è inventato nella seconda metà del XIX secolo il piano regolatore; e nei primi decenni del XX secolo si è compreso che era necessario accompagnare il piano con gli strumenti che rendessero possibile una politica fondiaria non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria, e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare.

L'Italia è arrivata abbastanza tardi, rispetto agli altri paesi europei, a generalizzare la pianificazione urbanistica. Una buona legge fu quella approvata nel 1942, cinquant'anni fa, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni Essa però rimase inutilizzata per molti anni, finché gli scandali esplosi all'inizio degli anni 60, e le stesse esigenze di efficienza del sistema produttivo, non indussero a generalizzarne l'applicazione. Quando questo avvenne, la Corte costituzionale, con una serie di sentenze pronunciate a partire dal 1968, fece emergere un nodo di fondo irrisolto: la contraddizione tra i "vincoli", e soprattutto quelli "di tipo espropriativo", necessariamente posti dalla pianificazione urbanistica alla utilizzazione edilizia della proprietà privata, e i la concezione proprietaria che intride il sistema giuridico italiano.

Sono passati quasi venticinque anni, e il nodo non è stato ancora sciolto. La legittimità dei vincoli urbanistici e delle indennità espropriative, e quindi della stessa pianificazione, sono messe in dubbio. È chiaro che questo fornisce alibi consistenti a chi vuole "regolare" l'uso del territorio a partire non dagli interessi della collettività, ma da quelli dei proprietari.

Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.

Ci fu, nella storia della Repubblica italiana, un altro periodo in cui la subordinazione delle scelte urbanistiche agli interessi privati apparve come uno scandalo. Fu negli anni in cui le scelte di politica economica e sociale compiute per la ricostruzione postbellica (lasciare le briglie sciolte sul collo dell'edilizia privata) provocarono lo sfrenato divampare della speculazione fondiaria ed edilizia. Per ritrovare quei tempi, basta ricordare alcuni episodi degli anni 50 e 60 entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo memorabile film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dall'Espresso e dagli "Amici del Mondo" e indagato da Antonio Cederna, da Italo Insolera e da Aldo Natoli. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.

Non è forse allora l'urbanistica contrattata qualcosa di simile a quello che caratterizzò quegli anni? A prima vista, potrebbe sembrare. L'urbanistica contrattata può insomma apparire a qualcuno come una forma semplicemente ammodernata della vecchia, tradizionale speculazione fondiaria. (Così come, del resto, l'intreccio tra politica e affari affiorato a partire dalle iniziative del giudice Di Pietro sembra ad alcuni solo l'ennesima manifestazione della millenaria vicenda degli amministratori pubblici che si lasciano corrompere). Ciò che vorremmo sostenere invece è che l'urbanistica contrattata è qualcosa non solo di nuovo e diverso rispetto alla vecchia e nota speculazione, ma è qualcosa di infinitamente più grave, perché più penetranti e pervasivi sono i suoi effetti e le distorsioni che induce (che ha indotto) sull'intero ordinamento delle istituzioni e della società.

Ieri, si trattava di violazioni del sistema di regole dato. Oggi, della sostituzione, al sistema di regole date, di un nuovo e perverso controsistema di regole. Ieri, erano infrazioni e violazioni puntuali all'organizzazione istituzionale dei poteri. Oggi, è la costruzione di un contropotere.

E non è senza significato la differenza tra le reazioni sociali all'una e all'altra forma (quella di ieri e quella di oggi) della subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. Trenta e quarant'anni fa la speculazione fondiaria ed edilizia appariva immediatamente come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Prima dell'indagine Mani pulite l'urbanistica contrattata era invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei comportamenti: c'è da credere che il termine, se non fosse esplosa Tangentopoli, sarebbe comparso nelle prossime edizioni dei manuali di tecnica urbanistica o di diritto amministrativo.

Ma la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno esser compresi meglio ragionando su alcuni casi concreti. Il caso tipico, quello che, nel 1989, fa esplodere la questione dell'urbanistica contrattata per la dura reazione del nuovo segretario del Pci, è Firenze. Da esso è utile partire in questa sintetica rassegna, non tanto perché sia l'episodio più grave di urbanistica contrattata, ma per il significato emblematico che ha assunto, e per il possibile punto di svolta che ha rappresentato.

Allora Giuliano Ferrara si è convertito? É tornato a sinistra con i compagnetti di gioventù? Che ne pensa lei, dottor Scalfari? Sarà contento.

Questo piccolo-grosso ribaltone è anche una sua vittoria. Dirà o penserà che i topi cominciano ad abbandonare la nave che affonda. Prima Sgarbi, poi Cirino Pomicino, adesso anche il nostro Elefantino.

Via, la questione Sofri è solo un pretesto o nel migliore dei casi un'occasione. A me non piacciono i voltagabbana e perciò non mi sento di far festa, anzi. Considero la conversione a sinistra di Giuliano Ferrara un brutto segnale per la destra e uno ancora più brutto per la sinistra. E lei?

SILVIO MAZZEI Roma

Io, signor Mazzei, ho la mia opinione su Ferrara e l'ho espressa più d'una volta anche in questa rubrica di lettere e sull'Espresso. Perciò non starò a ripeterla. Ma nella fattispecie di questo piccolo-grosso ribaltone, per usare le sue parole, mi limiterò a raccontarle una barzelletta di buona qualità che mi pare sia eccellente metafora per il caso in questione.

Il figliol prodigo torna finalmente alla casa del padre dopo un lungo periodo di scioperataggine e il padre è in festa e prepara le dovute accoglienze. Il vitello grasso viene a sapere la notizia e se ne preoccupa. Teme che finisca come in altre analoghe occasioni con la macellazione del più saporoso animale della fattoria; perciò decide di scappare. Avvisa le altre bestie della stalla e se ne va. Ma poi è assalito da altri pensieri. Perché andarsene? Il suo destino è comunque segnato, lì o altrove finirà comunque al mattatoio. Tanto vale che sia laddove è nato, in mezzo ai suoi parenti e amici. Perciò torna indietro. Quando è di nuovo sulla soglia della stalla si sente una voce gridare: è tornato il vitello grasso! Risponde da lontano un'altra voce: ammazzate il figliol prodigo. Fine della barzelletta.

Ci rifletta su, signor Mazzei, ma non faccia l'errore di identificare Ferrara coi vitello grasso per via delle dimensioni.

Non pretendiamo di aver descritto compiutamente Tangentopoli. Ci stiamo, ancora, troppo dentro, troppo vicino. In qualche modo, ne siamo anche noi cittadini, ne condividiamo gli utili. Non ha tutti i torti Giancarlo Roscioni quando richiama l'attenzione sulla "piccola corruzione diffusa, quella che permette infiniti abusi in tutti i settori della vita amministrativa", e degli italiani denuncia "la mancanza di rispetto per gli altri e l'insensibilità per tutto ciò che è d'interesse collettivo" [1]. Esiste certamente, nei comportamenti collettivi degli italiani, un qualcosa, una propensione alla scelta individualistica, all'arrangiarsi e al fare da sé (in definitiva e al limite, a "fare i furbi" quando questo conviene più di quanto convenga rispettare le regole comuni) che rende lo scandalo di Tangentopoli non tanto lontano dallo "spirito dei luoghi": un evento che può addirittura sollecitare delle ammiccanti comprensioni, se non delle aperte solidarietà. Descrivere compiutamente Tangentopoli nel suo humus storico e sociale comporterebbe perciò estendere e affondare l'analisi ben al di là di quanto i nostri mezzi ci abbiano consentito, invadere altri terreni, coinvolgere altre competenze.

Un fatto resta però indubitabile. Se quelli cui abbiamo accennato sono gli atavici vizi di un'Italietta scaciata e opportunista, sottomessa e cialtrona, debole e arrogante, Tangentopoli non solo ha dato loro piena cittadinanza, ma ne ha promosso l'esaltazione: ha tentato di farli trascendere, da sopportati vizi, a celebrate virtù. I matematici insegnano l'utilità del concetto del limite per comprendere la norma. In questo senso è utile la lettura del libro di Gianfranco Bettin su Pietro Maso, il ragazzo che, con tre compagni, assassinò i genitori per ottenerne subito l'eredità, poiché illustra appunto una manifestazione-limite dell'ideologia che sta alla base di Tangentopoli. Secondo Bettin, il giovane Maso

è l'erede spaventosamente coerente di un sistema che vede nel denaro la radice della stabilità e del benessere, nonchè l'obiettivo e il conforto di ogni fatica. Un sistema in cui il valore di ogni cosa si misura in denaro. Come il lavoro e il patrimonio. Come la "bella vita", che solo il denaro può pagare. Pietro ha condotto alle estreme conseguenze gli insegnamenti ricevuti (...) Ripeteva: tu sei furbo, tu sei bravo, tu ci sai fare meglio di tutti. In un mondo di furbi nessuno ti fregherà mai.

È giusto però non fare d'ogni erba un fascio. È giusto, ed è necessario, distinguere i diversi gradi di responsabilità, ed è giusto non guardare soltanto al marcio, che certamente sembra oggi dominare l'orizzonte.

È giusto allora, in primo luogo, distinguere vizi privati e vizi pubblici per colpir più rudemente questi ultimi. È giusto, insomma, fare della distruzione di Tangentopoli il primo obiettivo di un'azione di risanamento morale: per le ragioni che fin qui sono venute emergendo, nel corso stesso della nostra narrazione, e anche per altre ragioni cui questa riflessione ci conduce. Perché, appunto, non solo guasti e nefandezze, non solo immoralità diffusa e prevaricante individualismo caratterizzano la società italiana. Accanto all'Italia dei furbi e dei furbastri, divenuti pienamente omogenei allo Stato dell'intercessione e dell'intermediazione, della raccomandazione e della regalìa, c'è un'altra Italia che con sommessa dignità si manifesta, e che da quella più appariscente e più forte viene calpestata e offesa.

Anche a proposito di questa Italia (quella in definitiva che plaude e aderisce alle iniziative dei giudici di Mani pulite) vengono in mente episodi recenti. E accanto alle statistiche degli evasori fiscali, vogliamo ricordare le lunghe file dei contribuenti romani che nella canicola ferragostana, due giorni dopo che era stata varata l'imposta straordinaria degli immobili, facevano la fila agli uffici del ministero delle finanze (ma il ministro e il segretario generale, appena promulgata la legge, erano andati in ferie nei mari del Sud, lasciando gli uffici nel caos e i cittadini nell'inutile disagio della gratuita attesa). E vogliamo ricordare le file "autogestite" che quotidianamente si formano negli uffici postali e nelle banche, testimoniando la capacità di assumere atteggiamenti rispettosi dei diritti gli uni degli altri: atteggiamenti che, a differenza che in altri paesi d'Europa, colpiscono nel nostro proprio perché si contrappongono a un'amministrazione, a una burocrazia, a un potere troppo spesso sciatti e ostili, troppo raramente "al servizio" del cittadino.

Il cuore di Tangentopoli

Sebbene i confini di Tangentopoli restino ancora da tracciare con una più precisa descrizione, il suo cuore, il suo "centro direzionale", crediamo comunque di averlo individuato. Esso sta nella politica. Più precisamente, nell'aver ridotto la politica a gioco per il potere, e aver reso il potere fine a se stesso: nell'aver ridotto il potere a unica finalità, rovesciandone e negandone così il valore di strumento per un fine d'interesse collettivo.

Non a caso, benché la componente statisticamente più consistente degli indagati dall'inchiesta Mani pulite appartenga all'area del Psi, e benché il craxismo costituisca in qualche modo l'ideologia e la professione di fede di Tangentopoli, la radice politica da cui la malavita politico-affaristica è germinata è quella del doroteismo: tipica figura politica (più e prima ancora che "corrente") di una Democrazia cristiana che veniva perdendo ogni sia pur discutibile finalità generale. Si può anzi sostenere che proprio il contagio operato con l'estensione del doroteismo alle altre formazioni politiche (in primo luogo al Psi, ma anche al Pci, entrato con il consociativismo nell'anticamera del potere e con le cooperative nella "cupola" degli appalti) abbia costituito la precisa matrice politica di Tangentopoli. Sebbene non si possa sottovalutare il deciso "salto di qualità" (se così possiamo chiamarlo) avvenuto nel passaggio dal doroteismo di marca democristiana a quello di stampo craxiano. Mentre il primo conservava le apparenze della rispettabilità e si nascondeva dietro il manto dell'ipocrisia (ma l'ipocrisia, diceva Chateaubriand, è in fin dei conti "l'omaggio che il vizio rende alla virtù"), il doroteismo degli anni 80 esibisce invece, presentandole come virtù, i suoi vizi di furbesca arroganza, di rampante arrivismo, di potervo sprezzo per le regole comuni.

Sembra comunque che la caratterizzazione "a dominanza socialista", che ha indubbiamente contrassegnato il primo anno dell'indagine Mani pulite, sia destinata a stemperarsi a mano a mano che l'indagine si estende: che dalla periferia e dalle amministrazioni locali si sposta verso le grandi centrali del potere pubblico (i ministeri, l'Anas, le Ferrovie, l'Iri, le banche, la Federconsorzi), da Milano verso Roma; dai luoghi insomma nei quali il Psi di Craxi si era ritagliato una cospicua fetta di potere (soprattutto nei settori delle opere pubbliche e dell'urbanistica), a quelli rimasti saldamente nelle mani della democrazia cristiana.

Solo "vittime" i funzionari del capitale?

Socialisti, democristiani, membri degli altri partiti di governo, e anche dell'opposizione "consociata": è solo dei politici la responsabilità? Non ne hanno gli imprenditori, gli amministratori delegati e i presidenti delle società, i "funzionari del capitale" pubblico, privato e cooperativo che hanno "dato" mentre gli altri (i politici, i pubblici amministratori) "prendevano"? Certo, tra le responsabilità primeggiano quelle degli eletti e dei politici: chiamati a garantire il bene comune, di questa funzione si sono fatti scudo e spada per accrescere la loro potenza (o la loro ricchezza) privata. E seppure abbiano concusso non per se, ma per la loro formazione politica, minore sarebbe forse la loro colpa sul piano della morale personale, maggiore certamente su quello della morale civile e politica.

Ciò detto, non ci sembra però di poter dire che, nel corso degli anni 80, la malversazione tangentizia abbia dovuto esser imposta, col ferro e col fuoco, da un manipolo di facinorosi politicanti alla plebe disarmata e riottosa del "mondo dell'impresa", incontrando resistenze cocciute ed estese, o quanto meno tenaci e generalizzate perplessità. Ci sembra invece che i meccanismi di Tangentopoli siano stati costruiti con il consenso, la partecipazione e spesso anche sulla base dell'esplicita richiesta delle categorie economiche interessate.

Cesare Romiti, nel parlare agli allievi della scuola militare della Nunziatella, sulla collina napoletana di Pizzofalcone, ha perso una occasione di verità il 17 ottobre 1992. L'amministratore delegato della Fiat ha commentato così le notizie che da qualche settimana tenevano l'apertura dell'informazione stampata e di quella teletrasmessa: "Occorre ristabilire il rispetto dei fondamentali principi morali all'interno dell'amministrazione dello stato e nei rapporti con la società civile, occorre restituire funzionalità e autorità alle nostre istituzioni". Parole sacrosante. Peccato che abbia dimenticato di aggiungere: occorre restituire alle imprese l'imprenditorialità e la concorrenzialità perdute.

Riformare gli appalti per ritornare alla concorrenza

"Tecnicamente" (anche questo ci sembra d'averlo, se non rigorosamente dimostrato, almeno ampiamente argomentato e illustrato), Tangentopoli è stata costruita mediante la surrettizia trasformazione delle regole che determinano il governo del territorio. In particolare, mediante la sostituzione della discrezionalità (sia essa la deroga alla procedura urbanistica o la cordata di imprese per l'acquisizione concordata delle commesse) alla regola generale (sia essa costituita dalla pianificazione urbanistica o dalla concorrenza economica), la sostituzione dell'emergenza alla strategia, dell'interesse immediato (e forte) all'interesse di prospettiva (e debole). È stata costruita utilizzando e inventando strumenti idonei, più di quelli tradizionali, all'estendersi del malaffare politico-affaristico.

È su due fronti che allora è necessario intervenire. Da un lato, per ricostruire un sistema di regole e di istituti per il governo del territorio. Un sistema di regole che, per quanto innovato rispetto a quello distrutto, non potrà certo servire a cancellare la possibilità del manifestarsi di episodi di corruzione e di malversazione (solo degli sprovveduti o degli ingenui potrebbero sperarlo), ma dovrà almeno renderne più difficile e rischioso il percorso, più limitata l'azione, più tempestiva la denuncia e la repressione. Dall'altro lato, per restituire alla politica, e ai partiti, la capacità di interpretare, conflittualmente e dialetticamente, le aspirazioni più "alte", gli interessi più generali, le speranze più universali, e di guidare il corpo sociale e le sue istituzioni alla graduale realizzazione di definiti e coerenti progetti politici.

Il dibattito sulle misure concrete da prendere per correggere gli "strumenti tecnici" di Tangentopoli si è concentrato, quasi esclusivamente, sul tema degli appalti: come, con quali procedure e garanzie, con quali rinnovati istituti si debba provvedere alla scelta dei soggetti e alla formulazione dei contratti relativi alla realizzazione delle opere e degli interventi il cui committente è lo stato, in tutte le sue articolazioni centrali e locali. La questione è indubbiamente rilevante.

Sono chiare alcune delle condizioni nuove che occorre determinare: un impiego corretto (e perciò limitato a casi specifici e speciali, accuratamente circoscritti e garantiti) dell'istituto della concessione; il ripristino pieno della concorrenza, nei confronti di qualsiasi categoria di soggetti economici e quali che siano gli istituti concorsuali e contrattuali impiegati; il superamento della revisione prezzi anche mediante l'impiego di meccanismi assicurativi; la distinzione tra progetto (e cioé formulazione della domanda chiaramente e compiutamente definita in tutte le sue caratteristiche e prestazioni) e sua esecuzione. Non si tratta di fare la rivoluzione. Si tratta semplicemente di "reinventare il capitalismo": di ripristinare le regole della concorrenza come metodo per scegliere la più conveniente combinazione dei fattori produttivi. Beninteso, più conveniente non per il brigante appostato sul ponte o sul valico, ma per il committente, cioé per il pubblico.

I disegni di legge su cui il Parlamento sta discutendo sembrano muoversi, sia pure contraddittoriamente, in questa direzione. Sarebbe un passo nella direzione giusta, che dimostrerebbe che da Tangentopoli le forze politiche possono, se lo vogliono, uscire. Ma un passo non basta. Non basta stabilire e applicare nuove norme per gli appalti e ripristinare la concorrenza. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combattere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta ripristinare la concorrenzialità tra le imprese. Occorre anche altro. Occorre in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del governo del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò che nei terribili anni 80 è stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.

La pianificazione territoriale e urbanistica come metodo generale

"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che, sull'Unità del 24 giugno 1992, analizzava Tangentopoli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si è tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprattutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbattimento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse". Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legislazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e progetti organici sul regime degli immobili".

La soluzione giusta di un problema è in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'ambiente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi è stato artificialmente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianificazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e speriamo che il lettore che ci ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora è evidente il che fare.

Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo generale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e metropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli interventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Lo richiede la domanda di efficacia e di efficienza, che promana da una società nella quale l'esigenza della parsimonia nell'impiego delle risorse si manifesta sempre più come una "virtù cardinale" (attuale come non mai è la verità programmatica dell'austerità, intuita dal Berlinguer del 1977), e lo richiede la domanda di trasparenza, base necessaria per una partecipazione responsabile, e quindi per la stessa democrazia.

Che cosa significa infatti pianificazione territoriale e urbanistica? Significa che le decisioni che comportano trasformazioni fisiche o funzionali del territorio (siano esse singole opere di notevoli dimensioni, come una strada o un porto o una fabbrica, o siano invece una pluralità di piccoli interventi, come una serie di case e casette o una rete di canalizzazioni, o siano cambiamenti delle utilizzazioni che comportino comunque differenze nel funzionamento dell'organismo urbano o territoriale) devono essere rispondenti a un disegno d'insieme che ne garantisca la coerenza nello spazio (così che, ad esempio, se in un luogo ho deciso di realizzare una riserva naturale, ai suoi margini non lascio espandere una zona industriale, e se in un altro luogo ho deciso di trasformare una caserma dismessa un una serie di uffici ho fatto in modo che il servizio dei trasporti sia in grado di garantirne l'accessibilità), e devono realizzarsi in modo che in ogni fase della vita sociale sia garantita una coerenza nel tempo (talché, ad esempio, le infrastrutture che consentono la mobilità delle persone e delle cose non vengano realizzate dopo la costruzione delle case e delle fabbriche e degli uffici, i servizi non vengano dopo le persone e così via).

Significa, ancora, non ridurre il governo del territorio alla redazione di un piano, concepito come un obbligo di legge da evadere una tantum, interamente affidato a professionisti esterni all'amministrazione pubblica locale (debitamente lottizzati, oppure scelti perchè vedettes celebrate dai mass media), disegnato come l'assetto futuribile d'una improbabile città ideale, scardinato poi mediante gli emendamenti consiliari alle norme, le varianti e variantine magari ad personam, le deroghe e le interpretazioni di comodo (in una parola, con una gestione casuale e corriva), e mai verificato nei suoi effetti. Significa assumere invece, come metodo del governo del territorio, la pianificazione intesa come attività sistematica dell'amministrazione, nella quale ciclicamente si susseguano le fasi dell'analisi e della conoscenza della realtà, della formazione delle scelte coerentemente tradotte in elaborati (grafici e normativi) precisamente riferiti al territorio, dell'attuazione e gestione di tali scelte nell'attività ordinaria dell'aministrazione (nei bilanci cone nelle politiche di settore), e infine della verifica dell'efficacia e del monitoraggio degli effetti.

Naturalmente, le scelte della pianificazione devono essere coerenti con una strategia politica, in funzione di un determinato progetto politico, riferite a un definito sistema di interessi. Devono perciò essere assunte da chi rappresenta la collettività nel suo insieme, cioé - nel nostro sistema costituzionale - dagli enti elettivi. E poiché le scelte non possono essere assunte tutte al livello più vicino al cittadino, al livello del comune (non è il comune che può decidere, ad esempio, la localizzazione di un nodo del sistema dei trasporti o di una università, e se ha una dimensione modesta neppure quella di una scuola media o di un ospedale, né l'organizzazione di un sistema efficiente di trasporti pubblici), ecco che si pone il problema che le scelte sul territorio assunte dai diversi livelli di governo (il comune, la provincia, la regione, lo stato) siano coerenti tra loro, e che il processo decisionale sia costruito in modo che nessuno distrugga o contraddica ciò che l'altro ha deciso, ma tutti partecipino alle decisioni secondo un sistema di regole che stabilisca con chiarezza a chi tocca, caso per caso, la responsabilità ultima della scelta.

La questione del regime degli immobili

Le scelte che la collettività compie sul territorio, e gli investimenti che essa opera per rendere il territorio utilizzabile, provocano consistenti effetti economici: è un fatto noto ma è opportuno ricordarlo, sia pure con la massima schematicità. Alcuni effetti agiscono nei confronti del profitto, soprattutto nel senso di ridurre o aumentare i costi di produzione (il sistema dei trasporti, a sua volta funzione del sistema delle localizzazioni insediative, rende più o meno costoso l'approvvigionamento e la distribuzione, ecc.ecc.). Altri agiscono nei confronti della rendita, nel senso di accrescere (o ridurre) il valore di un immobile (area o edificio che sia): un'area ben servita dal sistema dei trasporti, collocata in una zona dotata di servizi, asciutta e con un buon sottosuolo, non soggetta a rischi di inquinamento o inondazione, vale più di una che non abbia questi requisiti, o ne abbia solo alcuni; un'area o un complesso edilizio che possano essere trasformati per una utilizzazione più redditizia di quella attuale (edilizia residenziale invece di coltivazione agraria, o uffici invece di fabbriche) vale di più di una che debba conservare l'attuale utilizzazione, o addirittura debba "regredire" verso una meno conveniente.

In tutti i casi cui abbiamo ora accennato il proprietario dell'azienda o dell'immobile percepisce un utile prodotto da un lavoro della collettività. L'utile percepito dal possessore di profitto - questo è il punto che va sottolineato - è però ben diverso da quello del percettore di rendita. La differenza sostanziale può essere enunciata come segue. Per il percettore di profitto l'utile consiste in una riduzione percentuale dei costi che sopporterebbe, o che concretamente sopporta, per una cattiva organizzazione della città e del territorio; si tratta comunque di percentuali, più o meno modeste, del profitto complessivo prodotto dall'attività economica; e si tratta di un utile che corrisponde a una funzione sociale che il proprietario dell'azienda, in quanto ne sia anche il gestore, esercita. Per il percettore di rendita, invece, è il lavoro stesso della collettività (le decisioni e gli investimenti) che determina il valore ( almeno la sua parte di gran lunga più consistente): se la collettività non avesse deciso, con la pianificazione urbanistica, che quell'area può essere edificata, e non avesse realizzato la viabilità d'accesso, l'impianto fognario, le scuole e gli altri servizi che gli abitanti di quelle case utilizzeranno e così via, quel terreno avrebbe un valore determinato solo dalla sua utilizzazione agricola [2].

Poiché le cose stanno così, è evidente che le amministrazioni comunali, e chi con loro collabora nella redazione dei piani urbanistici (cioé di quegli atti che concretamente determinano la maggiore o minore trasformabilità di un'area o di un edificio), da un lato sono soggette a pressioni fortissime, dall'altro sono inevitabilmente nella condizione di premiare alcuni (nel senso di consentir loro di moltiplicare per dieci o per cento il valore del loro immobile), e di punire altri (cui ciò non viene consentito). Ed è altrettanto evidente che una simile situazione preoccupa fortemente anche dal punto di vista dell'equità, talché la Corte costituzionale è reiteratamente intervenuta colpendo sempre le disposizioni normative che determinavano sperequazioni troppo forti tra soggetti inizialmente nelle stesse condizioni.

Come superare questa situazione? Dopo trent'anni di dibattito e di elaborazione non è davvero difficile dirlo. L'indennità espropriativa dovrebbe essere riferita all'uso legittimo del bene da espropriare e agli investimenti effettuati su di esso dal proprietario, depurata quindi da ogni elemento derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività (quali le capacità edificatorie, derivanti dalla pianificazione). Per evitare troppo vistose sperequazioni, occorrerebbe contestualmente che ai proprietari non espropriati, nel momento dell'edificazione (o trasformazione) o della realizzazione economica del bene edificato (o trasformato), fosse sottratta, sotto forma di contributo di concessione o di imposta, la quota del valore finale derivante dalle scelte della proprietà, e cioé esattamente la parte corrispondente alla differenza tra il valore finale del bene e l'indennità di espropriazione [3].

Un simile meccanismo sostanzialmente coincide con lo spostamento, tendenzialmente integrale, della rendita immobiliare dal privato al pubblico, e - di conseguenza - con un forte disincentivo negli investimenti immobiliari. Coincide, insomma, con uno spostamento deciso degli impieghi delle risorse dalla rendita immobiliare (e dalle rendite finanziarie ad essa collegate) al profitto e al salario. Data l'entità quantitativa e il peso sociale e politico della rendita immobiliare nel nostro paese (la cui arretratezza è misurata anche da questo), è fortemente improbabile che una simile proposta possa ottenere i necessari consensi. Ciò non tanto per presunti effetti punitivi sul risparmio privato (sarebbe del tutto ragionevole riconoscere il prezzo pagato per un immobile da espropriare, sostituendo all'indennità espropriativa il valore documentato nel più recente atto pubblico, debitamente rivalutato), quanto perché una proposta legislativa di questa portata non potrebbe non far parte di un coraggioso progetto di trasformazione delle basi stesse su cui si è conformata la nostra economia e, con essa, la stessa società italiana. Basi, come si è detto, ben più intrise di rendite, sprechi, impieghi improduttivi, privilegi grandi e piccoli, che permeate di spirito imprenditoriale e degli altri "valori del capitalismo", di cui pure così spesso, particolarmente negli ultimi anni, si infarciscono i proclami e i discorsi.

Ripristinare la dialettica per ritornare alla politica

Più d'un commentatore lo ha rilevato. Tangentopoli ha potuto svilupparsi perché il nostro sistema politico è stato per troppi anni "bloccato": perché gli accordi di Yalta, e la supina accettazione, in Italia, delle loro conseguenze da parte delle forze omogenee al blocco a direzione statunitense, rendevano impossibile il tradursi dell'opposizione politica in opposizione di governo, e rendevano insomma del tutto astratta l'ipotesi di una alternativa di governo. Fino agli anni 70 l'opposizione politica era tuttavia alimentata da una decisa e robusta opposizione sociale, che pretendeva l'esercizio di una qualche incisivo controllo sul governo. Ciò non impediva che si manifestassero - lo abbiamo ricordato nelle prime pagine di questo libro - fenomeni anche vistosi di corruzione. Essi erano però ben lontani dall'assumere l'aspetto sistematico che le indagini giudiziarie, e le confessioni dei responsabili, hanno rivelato. La svolta degli anni 80, il tramutarsi della corruzione da eccezione a sistema, da fenomeno trasgressivo a prassi di regime, è stata resa possibile dal tendenziale annullarsi di ogni significativa e robusta opposizione politica e sociale. La sconfitta della classe operaia sulla scala mobile (oggi, abbiamo appreso, aiutata anche dai fondi occulti raccolti da Craxi con le tangenti) e il generalizzarsi del consociativismo sono stati i momenti cardini di un simile passaggio.

Uscire da Tangentopoli significa allora oggi ripristinare una dialettica sociale e politica. Significa agire nella società, per promuovere in essa una vera rivoluzione culturale . E significa rinnovare la politica: non solo e non tanto nel senso di "cambiare le facce", quanto in un senso ben più complesso e preciso. Significa infatti uscire dal consociativismo in modo strutturale e definitivo. Non con atti di buona volontà politica, e neppure con la decisione congressuale di un partito, ma con regole nuove sul funzionamento del rapporto tra cittadino ed eletto, tra partiti e istituzioni, che renda non solo necessario, ma inevitabile, costitutivamente obbligato, e perciò anche praticamente non eludibile, il porsi delle forze politiche, e delle realtà sociali e ideali che esse rappresentano, come le matrici di schieramenti alternativi ciascuno dei quali sia disponibile e capace di assicurare un governo del paese oppure, nel caso che sia perdente al confronto democratico, di esercitare una effettiva e tenace opposizione allo schieramento che l'elettorato ha preferito: naturalmente nella comune tensione a ricostruire, e poi difendere, uno "Stato delle regole". Si tratta insomma di assumere l'obiettivo sintetizzato da Gianfranco Pasquino nel felice slogan "restituire lo scettro al principe" [4]: in altre parole, quello di riconsegnare al popolo sovrano la facoltà di decidere, tutt'assieme, quale schieramento debba governare ognuna delle diverse istituzioni, sulla base di quale impegnativa e vincolante proposta programmatica, e attraverso quali persone.

È un obiettivo necessario, ma neanch'esso è sufficiente. Non bastano infatti le regole per l'alternativa: ne serve anche il contenuto. Ciò che serve, allora, è una società nella quale sia ripristinata la dialettica tra interessi, aspirazioni, esigenze differenti: in una parola, una società conflittuale. Non è questa, del resto, un'esigenza che discende direttamente dall'analisi che fin qui abbiamo condotta? Il grande privilegio che gli anni 80 hanno conferito alla rendita immobiliare, il ruolo di guida dei processi di urbanizzazione che essa ha assunto, il nuovo intreccio tra rendita immobiliare, rendita finanziaria e profitto che si è venuto consolidando, non possono certamente essere modificati senza far leva su profondi conflitti sociali ed economici, senza far scendere in campo gli interessi contrapposti, senza insomma che si determini una reale, e trasparente, dialettica sociale.

I riferimenti concreti, i "soggetti" di un'azione di sinistra non sono certo individuabili oggi con la semplicità del passato (una "semplicità", non dimentichiamola, che era nutrita da un secolo di riflessione e di prassi) né sono meccanicamente riconducibili alle "classi lavoratrici". Oggi, occorre far riferimento a categorie, ceti, bisogni, interessi meno direttamente riconducibili al processo produttivo e alle classi sociali, più complessi e complicati: o almeno, che così ancora appaiono ai nostri occhi. Sono interessi tra i quali comunque acquistano peso via via maggiore quelli del cittadino in quanto tale, dell'utente del territorio e della città. Quel cittadino che, ancor più dopo i terribili anni 80, e a causa di ciò che nel loro corso è accaduto(e in larga misura continua ad accadere), è colpito e minacciato - nelle degradate città e nei devastati territori in cui abita - nelle sue più elementari esigenze di vita: la salute, l'impiego del tempo, la possibilità di "essere sociale" (di incontrare, di conoscere, di scambiare), quella di lasciare ai propri discendenti un ambiente dove la vita sia ancora possibile, la storia non sia ancora cancellata, e l'ordine, la funzionalità e la bellezza non siano ancora un'utopia.

[1] Gian Carlo Roscioni, "Chi ha detto che siamo brava gente ?", Repubblica, 24 giugno 1992, p.28.

[2] Per avere un'idea dell'entità del valore derivante dalle decisioni della collettività vogliamo riferire un esempio recente, di cui si é occupata la magistratura. Le aree incluse nella variante Peep '91 di Firenze furono acquistate dalle cooperative a 20 mila lire a metro quadrato, e rivendute poche settimane dopo a 200 mila lire, senza che nessun investimento fosse intervenuto per modificarne la situazione oggettiva.

[3] La proposta di legge più definita e convincente lungo queste linee é quella redatta da Luigi Scano, riprendendo e sviluppando le elaborazioni dell'Inu dei primi anni 80 (dovute allo stesso Scano e a Guido Cervati), e presentata al convegno del Pds citato alla nota 112.

[4] Gianfranco Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Laterza 1985.

Una simile sensazione - che conduce alcuni a ripiegate sull’amaro isolamento di un’attività professionale sterilmente tecnicizzata o formalistica, altri a gettarsi in un’azione politica che si deforma spesso in impaziente tecnocratismo - è poi resa ancor più acuta e insofferente dalla consapevolezza dell’esistenza di una sempre più vivace “sollecitazione dal basso”, di una spinta sempre più forte dei cittadini per un rinnovamento profondo dell’organismo urbano. Ci sembra invero fuor di discussione che oggi l’utente, il consumatore di beni e servizi urbanistici - in una parola, il cittadino - è sollecitato e sospinto ad avvertire, in misura sempre maggiore, la decisiva importanza che ha per lui una corretta soluzione dei problemi del traffico, dei servizi pubblici, delle attrezzature sociali, del verde, della conservazione, utilizzazione e sviluppo del patrimonio naturale e di quello artistico. L’opinione pubblica comincia insomma a rendersi conto, via via più chiaramente e con sempre più viva impazienza, come l’anarchico disordine e l’ormai antiquato individualismo, che ancora presiedono alla crescita della città, incidano profondamente sulla stessa vita privata e familiare degli uomini, aumentando i pesi che gravano su di essa e mortificando le sue virtualità di sviluppo.

I numerosi convegni e incontri organizzati o promossi dalle associazioni popolari e dagli “organismi di massa” sui problemi del traffico, degli orari di lavoro, delle attrezzature scolastiche e per la prima infanzia, del verde, dei servizi pubblici, della casa; le molteplici inchieste della stampa di informazione sui medesimi argomenti; il nuovo interesse dei sindacati per i fattori extra aziendali che incidono sui salario reale; lo stesso più ampio rilievo dato dai quotidiani e dai settimanali a rotocalco alle questioni e agli “scandali” connessi alla salvaguardia del patrimonio naturale e artistico, non sono forse, tutti questi, più ancora che sintomi, chiari ed espliciti riconoscimenti di un’accentuata partecipazione popolare ai differenti aspetti dell’assetto urbanistico?

E tuttavia, da questo manifestarsi e sprigionarsi di esigenze, da questo affiorare di una nuova coscienza urbanistica degli italiani, non sembra che gli urbanisti abbiano ancora saputo - o potuto - trarre un sufficiente alimento per la propria azione, ma sembra anzi, come dicevamo, che essi ne siano stati ribaditi nella sensazione di una loro forzosa impotenza. Così si deve ancor oggi riconoscere che se la cultura urbanistica ha certamente accumulato un patrimonio non solo di soluzioni tecniche, ma anche di intuizioni teoriche e di iniziali - sebbene ancora timide - affermazioni di principio, resta comunque il fatto che tutto ciò non ha fino ad oggi condotto, nella concretezza della vita sociale e politica, a una piena e matura consapevolezza dei reali termini della questione urbanistica, e non ha quindi portato l’insieme delle forze che agiscono nella società ad affrontare, in modo sufficiente, il complesso problema della città.

Tra la polis e gli urbanisti esiste insomma, indubbiamente, una cesura. Ma quali sono le sue origini ? Quali le sue cause ? Quali le vie da percorrere per superarla? Non credo che sia sufficiente, né giusto, addebitare tutta la colpa d’una simile cesura - come spesso si suol fare - all’incomprensione o al “tradimento” del personale politico; alle sue possibili insipienze, confusioni e compromessi, o magari ai suoi interessati intrighi. Una siffatta soluzione, di sapore qualunquistico, ci consentirebbe, in quanto urbanisti, solo di scaricarci a buon mercato la coscienza. Né ovviamente - non foss’altro che per quella nuova coscienza urbanistica cui più sopra si accennava - sembra possibile accettare la tesi di una qualche immaturità della coscienza civile degli italiani, dalla quale il nostro paese dovrebbe magari sollevarsi mediante una semplice imitazione di frigidi - e comunque incongrui - modelli di importazione anglosassone o scandinava.

Siamo convinti invece - ed è questa la tesi, la premessa sulla quale si basa questo lavoro - che se la cultura urbanistica avesse una reale, chiara, profonda consapevolezza dei propri principi e del proprio ruolo peculiare e specifico, non solo quella cesura di cui si diceva sarebbe assai facilmente colmata, ma accadrebbe addirittura che, dall’incontro tra le virtualità della disciplina urbanistica e le nuove (e le antiche) esigenze dei cittadini, verrebbe a scaturire un potenziale capace di sollecitare l’intera società civile a un reale e dispiegato sviluppo. Ciò che allora ci compete soprattutto di ricordare (ogni qual volta ci sentiamo sospinti, dalla sensazione della sterilità del nostro operare, all’amaro e orgoglioso isolamento, o all’intervento surrettizio in campi che non appartengono alla nostra specifica azione di urbanisti) è che la nostra disciplina non ha tutte le carte in regola, e che è dunque di essa, in primo luogo ed essenzialmente, che ci corre l’obbligo e la responsabilità di occuparci.

Per conto nostro, tenteremo in questo scritto di trovare - aiutandoci con quel tanto di luce che una sommaria analisi della storia può gettare sul presente - almeno alcune premesse sulla cui base sia possibile lavorare per affrontare correttamente e, in prospettiva, per risolvere l’odierno problema dell’urbanistica. E se l’esigenza di individuare i principi che determinano l’autonomia, le leggi, il ruolo della disciplina e dell’operazione dell’urbanistica, condurrà talvolta a descrivere e a interpretare i diversi assetti della società cogliendoli soprattutto nel loro aspetto di sistema (e cioè nella loro medesima configurazione di principio), il lettore attento comprenderà facilmente - così almeno speriamo - come non ci sfugga il fatto che ogni concreta realtà sociale non si identifica, non si sovrappone completamente, non viene necessariamente a coincidere nel suo insieme e in ogni sua parte con quel determinato sistema sociale che, volta a volta, ne definisce e ne sintetizza gli elementi essenziali. Ed è anzi proprio dalla circostanza che praticamente mai nella storia - e neppure oggi, nel moderno sistema dell’ opulenza - un determinato sistema sociale ha potuto pienamente soddisfare le esigenze della città e dell’urbanistica, né tutte quelle della società civile, che scaturisce la necessità - e la possibilità - di giungere oggi a un più comprensivo ordinamento sociale e, insieme, a un più armonico assetto urbanistico.

2. Insufficienza delle consuete definizioni di città

Come spesso avviene, l’etimologia può offrire anche in questo caso una utile traccia di partenza per avviare la ricerca. E infatti, quali che siano le connessioni e le complicazioni, quali che siano le forme e i contenuti che si vogliano attribuire alla scienza urbanistica, è indubitabile che tale scienza è in primo luogo - come appunto l’etimologia suggerisce - la scienza della città. Per cominciare a comprendere allora che cosa sia l’urbanistica, occorre domandarsi anzitutto che cosa sia la città.

Un simile modo di affrontare la questione può risultar oggi particolarmente necessario e fruttuoso, poiché ci sembra che le attuali difficoltà, incertezze, contraddizioni, entro le quali la disciplina urbanistica si muove, abbiano appunto la loro radice in una scarsa consapevolezza di quel che la città rappresenta, costituisce ed esprime. Ci sembra, in altri termini, che la mancanza di una definizione sufficiente di “scienza urbanistica” derivi proprio dall’attuale incapacità di formulare una definizione pienamente accettabile della città.

Oggi, infatti, o si dà di quest’ultima una definizione assolutamente generica, e perciò del tutto inutilizzabile; o se ne esprime un’interpretazione permeata da una carica d’utopismo visionario, asservita a una astratta prospettiva escatologica, e perciò sostanzialmente distorta e inservibile sul piano della riflessione scientifica; oppure, infine, anche quando la ricerca sembra approfondirsi e articolarsi e pretendere a un più meditato rigore, non si riesce mai a superare il piano di una mera descrizione empirica della città.

Nella letteratura urbanistica quest’ultima posizione si manifesta in due versioni diverse e anzi apparentemente opposte. Da un lato, infatti, è chiaro che ci si limita a una elementare descrittiva del “fenomeno urbano”, quando, nella scia della tradizione positivistica, si assumono i ,moduli scolastici di un’analisi da manuale e ci si esercita, quindi, nell’enumerazione pedissequa dei vari “tipi” di insediamenti concentrati, delle diverse “funzioni” svolte nell’ambito urbano, o delle differenti “forme” nelle quali la città si è incarnata. Ma, dall’altro lato, è quasi altrettanto palese che una posizione puramente descrittiva è anche quella in cui approda necessariamente allorché, pur criticando come astratta e sterilmente accademica l’intenzione erudita di classificare i vari aspetti (tipologici, funzionali, o formali) della città, si tenta di capovo1gerla semplicemente: allorché insomma, esclusivamente sollecitati dalla preoccupazione di evitare ad ogni costo d’esser “tagliati fuori dalla realtà dei fatti”, ci si propone, proprio per questo, di restar strettamente e tenacemente attaccati alle cose, di aderire al loro sviluppo senza mai discostarsene, di razionalizzare gli ostacoli via via incontrati sul cammino univocamente determinato dall’evoluzione spontanea.

Nessuna legge di principio, nessuna caratteristica di base della città può venir individuata e stabilita - o anche soltanto ricercata - nell’ambito di una posizione siffatta, la quale anzi non può che negare l’esistenza di qualunque legge, di qualunque ordine, di qualunque principio che non siano quelli del processo storico in atto. Ci si riduce allora, necessariamente, all’“accettazione passiva e incondizionata - alla mera descrizione - dei livelli di sviluppo raggiunti, momento per momento, per effetto di un gioco di forze di cui l’urbanistica non partecipa e che non controlla”. Anzi, quanto più ci si sforza nel tentativo di conservare almeno il fantasma di una presenza urbanistica distinta dalla spontaneità del processo evolutivo, tanto più si finisce poi, inevitabilmente, per teorizzare l’esistente, per “costruire”un modello di città che è lo specchio fedele delle esigenze del moderno capitalismo, per erigere, infine, un siffatto modello di città a valore assoluto e archetipo universale e permanente.

D’altra parte, poiché, sul terreno dei fatti, l’aspetto dell’attuale città capitalistica che più immediatamente ed evidentemente può venir colto è quello di un dinamismo urbanisticamente imprevedibile, è quello della mobilità, del dialettico modificarsi delle situazioni e dei rapporti, dell’irrequieto mutare di tutte le grandezze coinvolte nello sviluppo del sistema, un solo “modello” può venir teorizzato nell’ambito della posizione anzidetta: quello, appunto, per cui si concepisce la nuova città come “una relazione dinamica che si sostituisce alla condizione statica della città tradizionale”, come “il luogo di situazioni omogenee in continua mutazione, dove ogni parte si integra alle altre secondo un rapporto che si modifica a ogni fase dello sviluppo”. Ma una formulazione siffatta non esprime forse il destino cui si è condannati ove si accetti di rinchiudersi nella posizione che abbiamo tentato di delineare? È un destino, infatti, che comporta il perpetuo inseguimento di una realtà in movimento perenne, la quale - come la filosofica tartaruga di Achille - precederà sempre di un passo l’urbanista, i suoi tentativi di incidere sulle cose e le sue illusioni di distinguersi da esse.

Ma allora, se è vero che la scienza della città non si è finora mostrata capace di individuare con esattezza quello che costituisce il suo oggetto specifico, è evidente che proprio questo punto deve essere inizialmente affrontato da ogni ricerca che voglia darsi ragione delle condizioni presenti della disciplina urbanistica.

È possibile elevare .una simile osservazione sino al livello ed alla dignità di una tesi definitoria? È possibile, in altre parole, asserire che sempre e di necessità, quando l’attività produttiva si svolge comprendendo tra le sue caratteristiche anche quella suddetta, l’insediamento deve assumere una forma peculiare, definibile soltanto come città? Se vogliamo tentar di legittimare questo passaggio, invero decisivo, dalla mera constatazione alla tesi e alla definizione di principio, dobbiamo comprovare almeno tre distinte posizioni.

Dobbiamo dimostrare innanzitutto, per così dire negativamente, che quando l’attività produttiva non si svolge obbedendo a quella caratteristica di cui sopra si è detto (e si svolge dunque ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un consumatore determinato), l’insediamento umano, per concentrato che possa essere, non è assolutamente una città, né merita quindi di venir definito in tal modo. Dobbiamo poi dimostrare in secondo luogo - ed è questo evidentemente il punto centrale - che effettivamente, quando nell’attività produttiva è comunque presente quella caratteristica (la caratteristica cioè della scomparsa come fine del consumo individuale di un consumatore determinato), allora, e soltanto allora, l’insediamento umano assume i caratteri e le forme di una vera e propria città, e comporta quindi e pretende di essere definito come tale. Ma c’è una terza posizione che bisogna a ogni costo dimostrare o, per meglio dire, c’è da rispondere a una obiezione che nasce dall’esperienza medesima di questa nostra città disorganica e disperata, caotica e disumana, e in cui tuttavia, come proprio poco fa si è sottolineato, l’attività produttiva obbedisce senza dubbio alla caratteristica di non essere rapportata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un consumatore determinato. Bisogna cioè dimostrare che l’insufficienza, la vera e propria alienazione della città nella sua forma di città contemporanea, non dipende dal fatto che nell’attività produttiva è presente quella caratteristica di cui più volte si è detto, ma discende da altre ragioni, sicché, anzi, sviluppo della città nella sua pienezza e nella sua autonomia può aversi soltanto nel quadro di un’economia nella quale l’attività produttiva abbia e mantenga la caratteristica di svolgersi fuori dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo con il consumo individuale di un consumatore determinato.

Inizieremo dunque senz’altro la nostra argomentazione, studiandoci di mostrare come non si dia luogo a città quando l’attività produttiva è ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un qualche consumatore determinato. In corrispondenza a una simile caratteristica la storia ci ha fornito due soli esempi, due soli modelli economici: quello dell’autoconsumo e quello dell’economia signorile.

2. Il modello dell’autoconsumo e l’insediamento disperso

L’economia dell’autoconsumo può essere essenzialmente definita come quell’economia nella quale il produttore produce per il proprio consumo, e consuma per poter continuare nel tempo, e al medesimo livello, la propria attività di produttore. È quindi evidente che un simile modello risponde alla caratteristica prima postulata; nell’autoconsumo, infatti, il fine immediato, fisico, esclusivo dell’attività produttiva è costituito certamente dal consumo individuale di un consumatore determinato, che in questo caso coincide appunto con la persona medesima del produttore. Ma d’altra parte, poiché in una simile economia il fine del consumo è a sua volta costituito dal mantenimento delle condizioni di una ripresa, al medesimo livello, dell’attività produttiva del consumatore stesso, ecco che i bisogni, che è necessario soddisfare perché tale attività produttiva possa aver luogo, sono, e possono essere soltanto, i "bisogni della vita fisica, della sussistenza corporea dell’individuo e della sua famiglia (quelli cioè della reintegrazione e della ricostituzione dell’energia lavorativa); il lavoro, proprio per tutto ciò, non può non essere applicato, e viene a essere esclusivamente e unicamente applicato, all’appropriazione diretta e immediata delle risorse della natura, che in tanto vengono appropriate, elaborate e trasformate, in quanto devono essere, immediatamente e direttamente, consumate.

Una conseguenza discende allora palesemente da tutto questo. L’unica forma di vita associata, l’unico organismo sociale che venga già preteso e sostenuto dall’economia dell’autoconsumo, è quello costituito dalla famiglia in quanto istituto ordinato alla riproduzione della forza-lavoro: così originaria è per l’uomo, così intrinsecamente umana è la famiglia, che anche la forma primordiale dell’economia già la pretende e la sostiene. In ogni modo ciò che qui interessa di sottolineare è che nessun altro ordinamento, nessun altro schema sociale è necessario al funzionamento del modello dell’autoconsumo, come nessun altro, del resto, può venirne sorretto. Allora, sul :piano delle forme dell’insediamento umano, è chiaro altresì che il ciclo chiuso, localizzato, meramente reiterantesi dell’economia dell’autoconsumo ha, quale suo unico corrispettivo residenziale omogeneo, quello dell’insediamento individuale e disperso, il quale, poi, trova come suo invalicabile limite superiore quello che deriva dal mero accrescimento naturale della residenza unifamiliare: il villaggio, racchiuso e circoscritto nell’ambito degli elementari interessi di consumo e di produzione (e in definitiva di sussistenza) di una famiglia solo quantitativamente più estesa, di una gens.

L’autoconsumo, dunque, non postula, non può postulare la città, non può darle vita. E comincia allora ad acquistare un senso reale, una effettiva profondità un significato logicamente comprensibile, l’osservazione elementare e quasi ingenuamente empirica, per non dire lapalissiana, che la città è la non-campagna: poi che infatti un’economia di autoconsumo (quella appunto che, come si è detto, comporta e pretende solo un insediamento sparso e che esclude quindi, nel modo più radicale, la dimensione della città) non può non svolgersi se non a immediato contatto con la natura, con le risorse naturali, e dunque nelle campagne. Ma per procedere nell’argomentazione bisognerà ora mostrare come neppure l’altra forma di economia ordinata al consumo individuale di un consumatore determinato - l’economia signorile - possa condurre a una vera e propria città: come insomma, se ci è consentita un’espressione simbolica e quanto mai ellittica, la città sia anche il non-castello.

3. L’appropriazione signorile del sovrappiù.

L’economia signorile è caratterizzata dall’operazione dello sfruttamento, la quale consiste sostanzialmente nel fatto che il lavoro di una parte del genere umano (i servi)viene violentemente ordinato dalla libertà dal lavoro di un’altra parte del genere umano (i cui membri in quest’atto si costituiscono in signori). È chiaro allora che l’economia signorile può sorgere solo sulla base della formazione del sovrappiù. Essa può sorgere, in altri termini, solo quando il lavoro umano, per quel suo sviluppo che è preteso dalla stessa natura dell’uomo e che si è venuto esplicando nella storia, raggiunge un determinato livello di produttività: esattamente quel determinato livello che consente di ottenere, alla fine del ciclo produttivo, una eccedenza di beni prodotti, rispetto alle esigenze del consumo necessario alla sussistenza fisica del produttore.

Ma non a caso non si è scritto semplicemente che l’economia signorile sorge sulla base del sovrappiù, e si è detto invece, più complessamente, che essa può sorgere su quella specifica base. In realtà, poiché è proprio nell’ambito dell’economia dell’autoconsumo che deve naturalmente formarsi e viene a rivelarsi storicamente (a un determinato stadio dello sviluppo della produttività del lavoro) un’eccedenza produttiva, nulla vieta che questa eccedenza medesima rimanga nelle mani di quanti l’hanno prodotta; in tal caso, ovviamente, non potrebbe sorgere né la figura del signore ne un’economia signorile.

Però, i produttori che ormai, per ipotesi, detengono un sovrappiù, possono rimanere subalternamente entro il quadro delle categorie tipiche dell’autoconsumo. Ma in una simile ipotesi, allora, essi non possono distinguere in modo netto e inequivocabile, dall’insieme del prodotto, il sovrappiù; non possono prendere coscienza di questa nuova realtà della vita economica; non possono comprenderla e assumerla nella sua specificità e nella sua novità; non possono individuare e scoprire le nuove regole, le nuove forme che discendono, per la stessa economia, dal fatto che un sovrappiù si è formato. L’eccedenza, infatti, nell’ideologia di questi produttori rimasti entro l’orizzonte dell’autoconsumo, diverrebbe, indiscriminatamente, sia occasione e possibilità di maggiori consumi, sia garanzia e riserva di consumo sufficiente per gli anni e per le stagioni di carestia (in una sostanziale confusione dunque tra incremento di consumo e consumo differito ), sia infine, per non dire soprattutto, occasione e possibilità di minor lavoro, di un allargamento del riposo, del tempo libero. Dimodoché si fa chiaro che in tal modo tutte le nuove possibilità dinamiche implicite nel sovrappiù verrebbero, nell’ambito di un anacronistico perdurare dell’ideologia dell’autoconsumo, mortificate e disperse. È questa, in definitiva, la possibile debolezza fondamentale, il possibile limite - che può divenire appunto, a un determinato momento, concreto, e diviene allora catastrofìcamente disumano e antiumano - insito nella fase dell’autoconsumo. Ma è su questa debolezza che s’inserisce l’iniziativa del signore, trovandovi anzi la sua giustificazione storica.

In realtà, se la formazione del sovrappiù è la condizione naturale e storica di base per il sorgere dell’economia signorile, questa sorge poi rea1mente, in concreto, solo quando dalla volontà di un uomo viene posta in atto una determinata e peculiare operazione storica. È appunto l’operazione dello sfruttamento, la quale senza dubbio è voluta da un uomo (colui che diventa il signore) per appropriarsi del sovrappiù prodotto da un altro uomo (colui che viene ridotto a servo). Certo, una simile operazione - poiché appunto in questa volontà consiste e di questa di continuo si alimenta - fa pagare all’umanità il prezzo intollerabile, e foriero di nuove contraddizioni, dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo; e tuttavia, nel tempo medesimo, essa conduce, oggettivamente ma inevitabilmente, a distinguere il sovrappiù, a liberarlo, a enuclearlo da quella indiscriminazione, da quella indistinzione cui rimane condannato nel quadro dell’ideologia dell’autoconsumo, e in cui si viene a perdere tutta la potenzialità dinamica dell’eccedenza.

Ecco dunque perché si è detto più sopra che l’economia signorile può sorgere, e non sorge automaticamente, una volta che si sia formato il sovrappiù. In effetti, poiché la formazione del sovrappiù rende solo possibile la fuoriuscita dall’autoconsumo, e rende dunque solo possibile l’instaurazione di un’economia signorile, è l’atto del signore che fonda realmente l’economia signorile e che perciò rende quest’ultima, da meramente potenziale, storicamente effettuale; ma allora, in definitiva, quel medesimo atto è anche un modo (uno dei modi, almeno, se non certo l’unico possibile in linea di principio, né l’unico storicamente verificatosi) per cui la necessaria fuoriuscita dal limite, divenuto disumano, dell’autoconsumo, trapassi a sua volta dalla pura possibilità alla concretezza storica. Solo che - ed è questo un punto che va particolarmente sottolineato ai fini di questa ricerca - un simile modo, il modo signorile di enucleare il sovrappiù, appunto perché implica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non solo mantiene l’attività produttiva immediatamente, fisicamente ed esclusivamente rapportata al consumo individuale di un consumatore determinato, ma comporta tutta una serie di contraddizioni le quali hanno, anch’esse, un’estrema importanza sul piano dell’urbanistica: sulla natura, sul carattere e sulle leggi peculiari all’insediamento umano preteso da una simile economia.

4. Caratteristiche e leggi del modello signorile

Riassumendo quanto finora si è detto, si può affermare che l’economia signorile nasce quando il sovrappiù, formatosi amano a mano nell’ambito delle unità produttive fino allora caratterizzate dall’autoconsumo, viene appropriato individualmente da un uomo. Ma a quale fine, a quale obiettivo viene ordinata una siffatta appropriazione? A quelli, evidentemente, che costituiscono l’ideale dei signore, il quale in tanto sottrae il sovrappiù ai produttori, in quanto solo così può raggiungere lo scopo di consumare senza produrre e può dunque, per così esprimerci, uscire dalla produzione, uscire dal lavoro.

Da tutto ciò nascono appunto quelle conseguenze che interessano direttamente il discorso urbanistico: in primo luogo, è chiaro che l’operazione dello sfruttamento, l’operazione tipica dell’economia signorile, comporta il permanere di un rapporto fisico, immediato, esclusivo tra l’attività produttiva e il consumo individuale di quel consumatore determinato che è il signore: a un tale consumo è infatti direttamente ordinato il sovrappiù. In secondo luogo poi - ed è questa l’origine di quella serie di contraddizioni di cui sopra si è parlato - poiché il fine dello sfruttamento sta appunto nella fuoriuscita dello sfruttatore dalla produzione, è chiaro che lo sfruttatore medesimo - il signore - si costituisce in puro consumatore; egli diviene, cioè, un consumatore libero dalla necessità di lavorare per consumare, nell’atto stesso in cui l’altro, lo sfruttato, il produttore del sovrappiù appropriato dal signore - insomma il servo - viene ad essere ridotto tutt’intero, nel suo lavoro come nei suoi consumi, a mero strumento produttivo per la soddisfazione di un puro consumo.

Un siffatto consumo - il puro consumo appunto - quel consumo del signore che è divenuto il fine cui tutta l’economia è ordinata, acquista dunque un carattere ed è sottoposto a un destino davvero singolare. Che cosa significa infatti che il consumo signorile è divenuto un puro consumo? Significa che, per principio, esso viene soddisfatto senza che colui che lo soddisfa, il signore, paghi il prezzo del lavoro. È allora un consumo che, liberandosi dal lavoro, si è liberato con ciò dalla sua condizione necessaria, e dunque da ogni necessità, ed è divenuto per questo un consumo libero, un consumo fine a se stesso. In definitiva quindi, e appunto per tutto ciò, esso non può non divenire opulento, non può cioè non crescere su se stesso e complicarsi via via all’indefinito. E di fatto, sottratto com’è ad ogni legge esterna (ove si escluda il condizionamento storico e sociale, per altro continuamente superabile, costituito dalla quantità di sovrappiù disponibile), esso diviene l’espressione materiale medesima della libertà e della dignità del signore, la realizzazione della volontà del signore, del suo arbitrio, del suo capriccio.

Innanzitutto quindi, nella sua forma più immediata e originaria - in quanto cioè consumo dei beni necessari alla sussistenza fisica del signore - esso verrà via via a svi1upparsi e a complicarsi (privo ormai di ogni collegamento persino con le radici naturali di un consumo per l’esistenza) fino alle forme più raffinate, più arbitrarie e più disumane del lusso. Subito dopo, poiché la garanzia della sussistenza fisica del signore fuori dalla necessità del lavoro determina al tempo stesso la piena e totale libertà, la meta-economicità assoluta, e insieme l’irriducibile carattere individuale di ogni possibile attività signorile (attività che appunto si svolge al di fuori della legge comune del lavoro), ecco che il consumo signorile si costituisce come quel punto in cui di continuo vengono drenati, a sostegno di tale attività, i beni e la ricchezza prodotti nel mondo servile dell’economia. Il consumo signorile, così, si costituisce come il punto in cui tali beni trapassano dalla sfera dell’economia alla sfera di quanto non può non definirsi come cultura, come civiltà, poiché vi si esprime tutto ciò che non è servile, tutto ciò che non è immediatamente ed esclusivamente ordinato alla produzione dei beni per la sussistenza fisica, e che tuttavia non a caso - come ormai è facile intendere - ha sempre patito il limite di un individualismo sfrenato, di una barbara negazione dell’umanità in nome dell’esaltazione dell’uomo, e che di fatto, impossibilitato per principio a raggiungere un’universalità sufficiente, ha dovuto sempre soffrire il destino del corrompimento e della decadenza. Ciò che qui soprattutto interessa, tuttavia, è che il consumo signorile possiede, per il suo stesso carattere organico, proprio, cioè, per la peculiare natura che lo contraddistingue e che ne determina le leggi e le prospettive, un’enorme capacità di concentrazione del sovrappiù; al limite e in linea di principio, è sufficiente un solo signore per drenare e concentrare tutto il sovrappiù storicamente esistente.

5. L’insediamento concentrato peculiare all’economia signorile. pomposa Babilonia”

Alla rottura del chiuso e breve cerchio dell’economia dell’autoconsumo (rottura che costituisce, come si è visto, la conseguenza diretta e immediata dell’appropriazione signorile del sovrappiù), viene allora a corrispondere, sul terreno che più strettamente riguarda l’urbanistica, la necessità di uscire dalle forme dell’insediamento sparso. Infatti, parallelamente e contemporaneamente allo spezzarsi di quel processo circolare dell’economia che aveva nell’autoconsumo la sua forma più elementare, più immediata, più staticamente determinata e localizzata; parallelamente e contemporaneamente al porsi del fine del processo economico nel consumo signorile, avviene sul piano sociale -e di conseguenza su quello dell’insediamento umano - una trasformazione altrettanto decisiva. L’esclusivizzata finalizzazione della produzione servile al consumo del signore si riflette e si completa, invero, nella subordinazione del contado (delle unità familiari, delle residenze disperse, delle elementari agglomerazioni dei vi1laggi) alla sede del signore. Questa d’altra parte, appunto per quella organica capacità di concentrazione che è peculiare al consumo signorile, tende ad aumentare, in misura via via crescente, il proprio peso, il proprio potere, e dunque le proprie dimensioni medesime.

Si può dire allora che è strettamente inerente all’economia signorile la necessità di dar luogo a un insediamento umano concentrato. Questo sorge e si sviluppa sulla base della coordinazione e del collegamento dei precedenti nuclei umani, delle preesistenti unità produttive, il cui sovrappiù deve venire regolarmente e sistematicamente rastrellato dagli incaricati del signore per affluire senza tregua alla sua sede, reggia o castello o monastero che sia; e quell’insediamento concentrato, allora, si accresce poi e si agglomera intorno al nucleo centrale del consumo signorile (attorno al punto focale della sede del signore) a mano a mano che l’accumulazione del sovrappiù può e deve dar luogo a una corte; a mano a mano che il consumo del signore e della sua parassitaria “servitù cortese” impone il formarsi di categorie di lavoratori che producano direttamente per il lusso signorile, e che, infine, masse sempre più imponenti di “servitù villana” si insediano attorno al luogo stesso cui è ordinata la loro attività di produttori di sovrappiù.

L’economia signorile può, e deve, dar luogo a un insediamento concentrato. Ma d’altra parte, è facile vedere, sulla base di quel che finora si è detto, che un simile insediamento nulla aggiunge al “castello”, né da esso può distinguersi se non sul piano meramente fenomenologico e descrittivo della quantità delle residenze agglomerate attorno alla sede signorile. In quell’insediamento si concentrano infatti i membri di un’umanità subalterna, che è condannata alla funzione esclusiva di produrre un sovrappiù utilizzabile fuori da essa, fuori dalla sua possibilità di conseguire un effettivo sviluppo umano: vi si concentra, insomma, la massa dei servi, aggiogata a un destino ineludibile di mero strumento di produzione del sovrappiù signorile. E seppure, nel momento e al livello di maggior splendore di tali insediamenti concentrati, questi sono abitati da più illustri personaggi, da individui liberi dalla produzione, costoro, in definitiva, non sono altro che i cortigiani, i clienti; sono insomma i membri di quella classe il cui unico ruolo consiste nel permettere al signore di consumare come opulenza, a fini di lusso o a fini di “civiltà”, il sovrappiù accumulato. Anch’essi sono dunque legati, inevitabilmente e per principio, a una funzione subordinata e servile.

Nell’insediamento concentrato dell’epoca signorile l’umanità, il valore, la dignità, la libertà, l’onore, il fine stesso dell’ordinamento economico, sociale, civile, tutte le caratteristiche, insomma, peculiari dell’uomo, sono dunque effettivamente presenti soltanto nella figura individuale del signore (quindi in modo di necessità deformato). Un simile insediamento umano, pertanto, preso nel suo insieme, ha la sua ragione e il suo fine fuori di sé; esso è alienato dal signore, è schiavo della sua libertà, del suo arbitrio, è anzi il luogo stesso della servitù: è il luogo della residenza di quanti non sono socialmente uomini. È allora impossibile qualificare come vera e propria città un insediamento siffatto. Non sono certamente città quei concentramenti, nati in funzione del consumo signorile del sovrappiù, che, come il Cattaneo acutamente osservava, sono “pompose Babilonie, sono città senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo”. Se pertanto un ordine può mai venir impresso a siffatte Babilonie, se con una regola e una legge si vuole sottrarle al caos, all’anarchia, alla casualità che sono loro connaturati, quell’ordine, quella regola, quella legge possono venire solamente dall’esterno. La regola, la legge, l’ordine non scaturiranno mai organicamente dall’insediamento signorile; essi verranno imposti dal “castello”.

Come l’insediamento omogeneo all’economia dell’autoconsumo, così anche quello compatibile con l’economia signorile non può quindi essere propriamente definito una città. Certo, l’attuale cultura urbanistica è riluttante a riconoscere la validità di un simile giudizio. Ma non è cosa, questa, che possa meravigliare. In verità, se ci si arresta al livello meramente fenomenologico dell’osservazione dei dati più elementari e immediati, se ci si limita a definire la città come un’agglomerazione di residenze, come un insieme quantitativamente rilevante di edifici, come una concentrazione demografica, l’insediamento signorile può essere effettivamente considerato come una città. Ma come pagine addietro si è già affermato, simili definizioni sembrano del tutto insufficienti. Difatti - come si vedrà in seguito - quelle definizioni non permettono di riconoscere la vera natura della città, le condizioni della sua affermazione storica, le tappe obbligate della sua rinascita, della sua fuoriuscita dall’attuale situazione di crisi. Si può dunque ritener confermata, almeno in prima approssimazione, la tesi più sopra enunciata: nessuno degli schemi, nessuno dei modelli economici in cui l’attività produttiva conserva la caratteristica di essere rapportata in modo immediato, fisico, esclusivo, al consumo individuale di un consumatore determinato, è capace di postulare una città.

In realtà, anziché venir appropriato dal signore, il sovrappiù può rimanere nelle mani del produttore, può restare in possesso dell’unità produttiva, del nucleo familiare che l’ha prodotto; esso può, insomma, esser sottratto allo sfruttamento signorile ed entrare a far parte del patrimonio amministrato e gestito dal pater familias. Una simile destinazione proprietaria del sovrappiù è ben visibile nell’economia contadina, che sarebbe del tutto approssimativo definire come un’economia riducibile esclusivamente all’autoconsumo. Il contadino, infatti, quando il suo lavoro è giunto - come si è detto - a un determinato livello di produttività, produce un sovrappiù e, in quanto rimanga un libero contadino, un libero proprietario produttore (in quanto, cioè, riesca a non subire lo sfruttamento signorile e a non divenire servo), indubbiamente possiede il proprio sovrappiù, è padrone di tutto il prodotto del proprio lavoro. E nella misura in cui il contadino riesce a liberarsi dall’ideologia dell’autoconsumo, nella ,misura in cui riesce a distinguere il sovrappiù dall’insieme del prodotto e a separarlo dai beni impiegati per la soddisfazione delle necessità del proprio consumo di produttore, nella misura, insomma, in cui il contadino giunge a definirsi come il detentore di un vero sovrappiù, egli è condotto inevitabilmente a uscire dal suo particolarissimo originario. Egli esce dal chiuso della sua famiglia e della sua gens, esce dall’ambiente singolarizzato, localizzato e incomunicabile costituito da quell’unità produttiva e da quell’organismo sociale che sono stati gli unici storicamente capaci di sussistere nel quadro di un’economia di autoconsumo, e diviene simile a ogni altro contadino, a ogni altro libero produttore, a ogni altro pater familias che sia rimasto detentore del sovrappiù.

Il possesso del sovrappiù rende i produttori simili, uguali, comuni: li costituisce in una comunità. Comune, infatti, è la ragion d’essere della loro nuova figura sociale, del loro nuovo posto nella società; comune è il loro avversario, il signore; comune il loro interesse: scambiare il sovrappiù per arricchire, per incrementare le proprie possibilità di produzione, per accrescere quindi il reddito, e la capacità di consumo delle proprie unità produttive, delle proprie famiglie. Sorge così una comunità di liberi e uguali, nel cui ambito le uniche differenze socialmente avvertibili sono quelle, meramente quantitative, costituite dall’ammontare del sovrappiù posseduto da ciascun produttore. Ma sorge allora, organicamente, un luogo, una sede comune in cui i liberi produttori si raccolgono per commerciare il loro sovrappiù, per difendere la loro libertà dalla minaccia dello sfruttamento signorile, per celebrare insieme le ragioni ancestrali, storiche e attuali della loro nuova comunità. Sorge così il borgo, il luogo in cui il contadino esce dal suo particolarismo, si riconosce membro di una comunità, diviene eguale tra eguali, diviene borghese.

Il borgo è dunque una nuova forma di insediamento umano, nata dalla libera associazione degli abitanti delle case e dei villaggi rimasti pienamente padroni di se stessi. Esso si presenta indubbiamente con le caratteristiche peculiari di un insediamento concentrato, ma non si contrappone ancora (come più tardi avverrà), non deforma né distorce né tantomeno elimina l’insediamento sparso, tipico della società contadina: lo protegge anzi, lo completa, si pone al suo servizio. La sua posizione nel territorio, dove si erge sui punti dominanti e centrali o si raccoglie a presidio dei luoghi di transito e d’incontro, le sue fortificazioni ancora rozze ed embrionali (le rustiche torri; le mura impastate di argilla o innalzate in pietra, filare per filare, tra la stagione del raccolto e quella della semina; le rocche erette sommariamente e avaramente dove la natura lo consente e lo rende più agevole), sono determinate e realizzate in funzione della difesa del contado. Il suo mercato ha senso e ragione solo come sbocco del sovrappiù prodotto dal contado; è infatti al servizio dell’eccedenza contadina, ne permette e ne favorisce lo scambio, rende effettuale e concreta la rottura dell’autosufficienza peculiare all’economia dell’autoconsumo, rottura già pretesa dalla natura stessa del sovrappiù. E i suoi fondatori e frequentatori, coloro che godono di uguali diritti al suo interno, infine diciamo pure - ma anticipando la storia - i suoi cittadini, non per tutte le stagioni, né tutti, né in maggioranza vi risiedono; essi vi giungono dal contado e vi soggiornano per operarvi i propri scambi e per celebrarvi le proprie feste; per realizzare e per manifestare dunque, entro le mura del borgo, la propria comunità di interessi e la propria comunità di destini. Dal borgo riprenderanno poi la via del contado, dove inizieranno di nuovo a produrre per la propria sussistenza e per il proprio sovrappiù. Il borgo, indubbiamente, non è ancora la città; esso ne è il segno premonitore, l’incunabolo. Ma per ciò stesso e in tal senso appunto, il borgo comincia a essere la città. Esso è la città che non si è ancora compiutamente distinta dal contado, è il contado che si riconosce e che vive come una comunità.

2. Dal borgo alla città: uno sviluppo decisivo

Per comprendere meglio il significato di questa affermazione, per vedere più chiaramente come, perché e in che senso e misura il borgo costituisca il discrimine e, a un tempo, il punto di passaggio tra l’insediamento sparso - caratteristico dell’economia dell’autoconsumo - e la città, occorre ancora soffermarsi brevemente sulla ragione economica che è senza dubbio alla base dell’origine del borgo, e che ne determina, per così dire, la duplice natura: quella natura, appunto, che, da un lato, deriva dal nascere del borgo, direttamente e spontaneamente, da una economia governata in sostanza dall’autoconsumo, e che, dall’altro lato, pone i1 borgo come luogo nel quale avviene una prima rottura, un primo superamento di una tale economia. In realtà, per un suo verso, il borgo si presenta certamente come il prolungamento naturale e organico, come il necessario completamento di un’economia e di un’organizzazione della residenza, che hanno ancora nell’autoconsumo (e comunque nel mondo contadino), e di conseguenza nell’insediamento disperso, un loro momento fondamentale. Le pagine della classica opera del Mommsen costituiscono indubbiamente una efficace illustrazione di un simile aspetto, colto in una particolare situazione storica; crediamo di aver già sottolineato a sufficienza come le unità produttive in funzione delle quali il borgo si afferma siano ancora sostanzialmente sottoposte alla legge di una produzione per il consumo del produttore, e come quindi l’eccedenza che in quelle si manifesta sia il residuo di un’operazione produttiva volta ancora essenzialmente a soddisfare i bisogni del produttore.

Per un altro verso, tuttavia, il borgo nasce indubbiamente - e anche questo lo si è già detto - sulla base della formazione del sovrappiù, e anzi proprio come il luogo direttamente ordinato alla difesa e allo scambio del sovrappiù liberamente posseduto dai produttori (in tal senso si può senz’altro affermare che il borgo, come il castello, è il luogo del sovrappiù). Ma poiché un siffatto sovrappiù non è più ordinato al consumo del produttore né utilizzato per il consumo di un puro consumatore, di un signore, ed è invece diretto essenzialmente e decisivamente allo scambio, è facile riconoscere altresì la seconda natura, il nuovo carattere, la peculiare svolta costituita dal borgo; la rottura ed il superamento, insomma, che esso comincia a rappresentare nell’economia dell’autoconsumo. Il borgo infatti, nella misura in cui è possibile distinguerlo dal contado, dalle unità produttive, dai nuclei familiari, e considerarlo in sé e per sé, è certamente il luogo dove nasce un’economia che non ha più il suo fine immediato, fisico, esclusivo, nel consumo individuale di un consumatore determinato. Non a caso, né senza ragione, gli urbanisti e gli storici della città hanno potuto rilevare spesso che il borgo è essenzialmente un luogo di transito. Il sovrappiù prodotto dal contado non vi giunge infatti allo scopo di rimanervi e di venirvi consumato, né, com’è ovvio, per tornare al contado: ma per essere esportato, per muovere verso tutti gli orizzonti del mondo, alla ricerca dei suoi sbocchi, dei suoi mercati.

Sebbene, dunque, il consumo venga ancora concepito (come sarà d’altronde fino ai giorni nostri) entro la sua forma individuale, pur tuttavia il sovrappiù esce, col borgo, dal suo ordinamento a un consumatore determinato. Sconosciuto, lontano, assente, è infatti, per il produttore, l’uomo che consumerà il sovrappiù; egli appartiene ormai a quell’umanità generica e forestiera che costituisce il mercato, che è dispersa nelle regioni di tutto il mondo, e che è collegata alle unità produttive solo dalla nuova figura sociale del mercante. E la popolazione stabile del borgo è appunto - ormai ne è ben chiara la ragione - quella dei mercanti. Gli amministratori, i soldati, i sacerdoti sono ancora al servizio della libera comunità contadina in quanto tale, sono i depositari, i tutelatori, i celebratori della “rustica virtù del comune”. I mercanti, invece, essendo esclusivamente i funzionari del sovrappiù, sono l’anima economica del borgo. La loro residenza è nel borgo, il loro lavoro è nel mondo. Essi costituiscono quel ceto mobile e girovago, e tuttavia tenacemente attaccato alla propria famiglia, alla propria casa, al proprio luogo, che sempre più verrà a fondare e a consolidare 1’autonomia del borgo dal contado (l’autonomia del sovrappiù dalla sua origine familiare e contadina), e che dunque governerà e presiederà alla transizione dal borgo alla città: al luogo in cui appunto l’economia sarà divenuta puramente economia del sovrappiù, economia in funzione esclusiva del sovrappiù, della sua accumulazione e della sua crescita: economia capitalistica.

La città, difatti, può acquistare tutta la propria autonomia, può nascere e dispiegarsi pienamente solo quando il vincolo che legava il borgo al contado sarà spezzato e capovolto; quando, cioè, sarà scomparso - senza possibilità di ritorno - ogni rapporto, ogni finalizzazione dell’attività produttiva al libero consumo individuale di un consumatore determinato; quando, in definitiva, ogni consumo non direttamente e immediatamente funzionale alla produzione sarà divenuto generico. Evidentemente - e le conseguenze di ciò diverranno subito palesi - perché questo abbia potuto avvenire, perché insomma la duplice natura del borgo abbia potuto risolversi e ridursi, nella città, all’unico aspetto del sovrappiù, non è stato storicamente sufficiente che il sovrappiù abbia potuto formarsi e abbia potuto rimanere nelle mani dei suoi produttori; è stato altresì storicamente necessario che il sovrappiù divenisse non più soltanto un risultato dell’attività produttiva (e cioè il residuo di un prodotto destinato in primo luogo al libero consumo del produttore), ma divenisse invece l’unico fine dell’intero processo economico.

Il valore, il significato, la consistenza medesima del passaggio dal borgo alla città sono, però, incomprensibili nell’ambito di tutte quelle posizioni che, per un verso o per l’altro, patiscono il limite sociologico e si riducono quindi, di fatto, ad una mera descrizione del “fenomeno urbano”. Assolutamente superficiali ed epidermiche, o al massimo inconsapevolmente allusive alla verità, sono quelle definizioni - quelle descrizioni - della città, che individuano la ragione immediata della genesi di quest’ultima nella necessità e negli interessi della difesa, o in quelle del culto, o del commercio, o nell’insieme di questi aspetti variamente intrecciati e disposti. Ben più fondamentali e complesse - ma, nel medesimo tempo, ben più determinate e precise - sono infatti le ragioni del sorgere della città. Non a caso, dunque; quando ci si racchiude e ci si congela entro quel limite sociologico, non si riesce poi minimamente a distinguere tra la città e il borgo (tra la città e il suo incunabolo), e si dà anzi sostanzialmente per processo di genesi e di formazione della città quello che conduce invece al nascere del borgo. Nel borgo come nella città, infatti, gli elementi percepibili da un’analisi di tipo sociologico sono tutti egualmente presenti. Non sussistono invero, nell’uno e nell’altra, le medesime funzioni, forme e strutture, ordinate ai medesimi interessi e alle medesime necessità? Non sono forse presenti, nel borgo come nella città, le figure del mercante, dei sacerdote, del soldato e, ancora, quelle dell’amministratore, dell’artigiano, del bottegaio e così via?

Ma un siffatto tipo di analisi, proprio per le categorie e gli strumenti che peculiarmente gli appartengono (e che costituiscono, d’altronde, i suoi limiti tuttora invalicati), è certamente condannato a restare sulla superficie dei fatti, e non può dunque condurre a riconoscere come la città in quanto tale, nella sua autonomia e distinzione, la città come non-campagna sia stata storicamente postulata e affermata solo nel quadro di una determinata economia: di quell’economia del sovrappiù come fine esclusivo, nella quale appunto, come si è detto, è scomparso anche l’ultimo residuo di un’attività produttiva ordinata al consumo individuale di un consumatore determinato.

Ecco quindi un’ulteriore conferma di un fatto che ci sembra indiscutibile: se ci si limita a una mera descrizione empirica dell’esistente, non è possibile individuare alcun principio, alcun criterio, alcuna categoria capace di discriminare e di distinguere tra l’una e l’altra forma d’insediamento umano, tra l’uno e l’altro dei modi che gli uomini hanno adottato per organizzare, nella storia, le proprie residenze e la propria vita individuale, familiare e sociale. Babilonia, borgo, città, sono dunque, nell’ambito di una simile posizione, termini equivalenti e interscambiabili.

3. Due conseguenze del legame tra città ed economia del puro sovrappiù

La particolare ragione economica che conduce a superare la fase, intrinsecamente transitoria, del borgo, e a giungere storicamente alla città (quella ragione che abbiamo individuato nell’affermarsi del sovrappiù come fine esclusivo del processo economico) comporta tuttavia, per la città medesima, delle gravi e decisive conseguenze. La prima di tali conseguenze può essere individuata in una fondamentale caratteristica della economia del puro sovrappiù, in funzione della quale la città è sorta. In realtà, nel quadro di una simile economia, e proprio perché il sovrappiù in quanto tale (ossia fuori da ogni suo ordinamento a un fine diverso da sé medesimo), è l’obiettivo esclusivo dell’intero processo economico, tutti gli operatori, qualunque sia il ruolo da essi svolto, sono strettamente subordinati e asserviti alla produzione del sovrappiù.

Servi del sovrappiù sono infatti, evidentemente, gli operai (gli antichi servi liberati dallo sfruttamento signorile, o i contadini estromessi dalle terre acquistate dai mercanti della città e impiegati ormai come forza-lavoro, come capitale), che il mercante, e poi il borghese come tale, il maestro delle corporazioni, il proprietario del sovrappiù - il capitalista infine - organizza in funzione immediata ed esclusiva della produzione di un’eccedenza. Gli stessi consumi di tali produttori - dei salariati - sono coattivamente ridotti a meri consumi produttivi; essi, infatti, poiché debbono essere contenuti entro limiti tali da garantire la formazione di un massimo di sovrappiù, sono determinati ormai soltanto sulla base della necessità di soddisfare i bisogni dei produttori in quanto tali (in quanto appunto produttori di sovrappiù), e servono esclusivamente, qualunque sia il livello della produttività del lavoro, alla reintegrazione e alla ricostituzione della capacità lavorativa occorrente alla produzione del sovrappiù: quei consumi sono dunque divenuti, puramente e semplicemente, dei costi di produzione.

A un sostanziale asservimento al sovrappiù vengono ridotti anche i contadini, gli agricoltori, i produttori ancora legati alle campagne. In realtà, la produzione delle campagne non è mai organicamente ordinata in funzione esclusiva della formazione del sovrappiù: essa conserva sempre (e in modo decisivo nell’economia contadina) un sostanziale e peculiare collegamento con dei valori che non sono riducibili alla genericità del sovrappiù in quanto tale. Ma, d’altra parte, l’economia della pura eccedenza, l’economia del capitale, tende a improntare di sé l’intero universo, a sottoporre alle sue leggi rigorose tutti i momenti e gli aspetti della vita economica. Di conseguenza, al produttore delle campagne sono aperte soltanto due strade. Egli può isolarsi in sé stesso, può rinchiudersi nella sua unità produttiva e nel suo nucleo familiare, può rifiutarsi di essere parte di quell’edificio economico che è dominato dalla legge esclusiva del sovrappiù, e può allora evitare di piegarsi a una regola, a una norma che non sono omogeneamente e pienamente sue; ma egli deve in tal caso accettare il destino di una segregazione sempre più definitiva e insormontabile, nella quale egli resterà fissato e congelato nelle forme, nei livelli, nei redditi, nei consumi peculiari alla fase dell’autoconsumo. Egli diverrà allora una eterogenea sopravvivenza di un’età arcaica, una cellula che non si è voluta o potuta adeguare allo sviluppo delle cose e che pertanto non può che venir emarginata, non può non esser condannata all’impotenza, all’inutilità e infine alla miseria e alla disperazione.

Tuttavia il contadino, il produttore delle campagne, può anche tentar di evitare un simile destino, impegnandosi nella seconda delle due strade di cui si diceva. In tal caso egli deve cercar d’inserirsi nelle leggi dell’economia capitalistica e divenire anch’egli un produttore di puro sovrappiù. Ma allora, ove scelga questa seconda soluzione, il contadino perde la sua libertà di disporre pienamente della propria eccedenza per allargare il proprio consumo presente e futuro, o per uscire dal lavoro, o per scambiare il sovrappiù e commerciare; fuori da qualunque possibile alternativa dall’impiego nell’eccedenza, egli diviene ormai soltanto produttore di un sovrappiù generico, che deve quindi (non può) essere scambiato. Ma poiché la produzione che si svolge nelle campagne è, come si è accennato, irriducibile ad un’economia esclusivamente ordinata alla formazione di un puro sovrappiù, deve allora per principio manifestarsi una sostanziale inefficienza della produzione contadina, e cioè, in concreto, l’impossibilità per quest’ultima di garantire un tasso di formazione del sovrappiù competitivo con quello che si verifica al livello del sistema. Il contadino allora, per sforzarsi di conservare le sue posizione nel mercato, deve tentare di aumentare surrettiziamente la quota di sovrappiù commerciabile, ma può farlo in un unico modo: riducendo, cioè, fino al minimo livello compatibile con le più elementari necessità della sussistenza, i propri consumi, e destinando tutto il resto della produzione allo sbocco sul mercato.

Si può quindi affermare, in definitiva, che la città, poiché è divenuta il luogo di un’economia che tende a improntare tutto di sé, impone per ciò stesso le sue leggi - 1e leggi rigorose della sua economia - a quel medesimo contado da cui, attraverso la forma transitoria del borgo, aveva tratto le sue lontane origini. E quei canali che univano il contado al borgo e costituivano quest’ultimo nel luogo posto a completamento, a soccorso, a servizio del contado, divengono, ora che la città ha sostituito il borgo, i tramiti per asservire il contado all’economia della città.

L’economia del sovrappiù come fine, l’economia della città, così come sfrutta gli operai e tutti coloro che operano diretta- mente entro le sue regole, così sfrutta i produttori delle campagne: anche i consumi di costoro tendono a ridursi a consumi produttivi, anche la loro produzione viene finalizzata, in modo sempre più esclusivo, a mera produzione di un sovrappiù. E poiché il sovrappiù ha nelle campagne solo un punto d’origine (nelle città si viene infatti allargando sempre più tumultuosamente quella produzione che diverrà poi industriale), mentre viene poi accumulato e gestito nelle città, quest’ultima si discosta in modo via via più accentuato dal contado, distinguendosene sempre più radicalmente. Comincia a determinarsi così quel contrasto tra città e campagna che costituirà, ancora ai nostri giorni, una delle più vistose antinomie presenti nell’assetto urbanistico, come, più in generale, nell’intero assetto della società e dell’economia.

Ma come gli operai, e a lor modo i contadini, servi del sovrappiù sono infine gli stessi mercanti, i borghesi, i proprietari del sovrappiù. Sebbene essi siano gli unici realmente liberi di disporre delle proprie sostanze, e dunque gli unici capaci di uscire dal consumo produttivo, pur tuttavia essi tendono a non uscirne, ne possono concretamente desiderar d’uscirne, poiché “il grande obiettivo della loro vita è di risparmiare una fortuna”; anche i loro consumi devono esser perciò contenuti (nel quadro di un’austerità che, per esser psicologicamente vissuta come libera, non è perciò meno oggettivamente necessitata) a quel livello che consente di accumulare, nella misura più ampia possibile, il sovrappiù. E in effetti la loro ragion d’essere, l’essenza della loro figura sociale, la loro stessa potenza economica (indispensabile per affermarsi, per continuare a produrre, per sopravvivere sul mercato) son tutte condizionate alla loro capacità di realizzare e di investire, sulla base delle risorse disponibili, il massimo possibile ammontare di sovrappiù.

Tutti coloro i quali in qualche modo partecipano all’attività produttiva sono dunque, nell’economia del puro sovrappiù, asserviti e dominati dalle leggi di tale economia: e lo sono sia per quanto riguarda la loro attività di produttori, sia - in modo altrettanto decisivo - nella loro situazione di consumatori. Ma allora, se la città, che pure ha avuto storicamente bisogno di una siffatta economia per costituirsi, avesse poi preteso di ordinarsi strettamente secondo il rigore delle 1eggi di quella medesima economia, essa sarebbe dunque venuta, inevitabilmente, a conformarsi come una comunità di non liberi. La svolta che la città, come si è detto, ha costituito rispetto alla sua prima radice - al borgo - si sarebbe perciò trasformata in un rovesciamento puro e semplice, di un’antitesi radicale, in una negazione senza scampo del proprio e necessario incunabolo.

Una seconda conseguenza scaturisce da tutto ciò, e le sue implicazioni sono, sul terreno urbanistico, talmente vaste e decisive, che riteniamo di essere giunti, così, a un punto nodale della nostra argomentazione. La città può organizzarsi, può trovare un suo ordine, una sua disciplina, una legge peculiare e propria sufficiente a darle una configurazione pienamente umana, solo fuori dalle regole e dai meccanismi caratteristici di quell’economia che le ha dato storicamente origine, e che in tal senso è stata necessaria alla sua formazione. Ma dove trovare allora, dove assumere dei valori capaci di conferire alla città quell’ordine, quella regola, quella disciplina - indispensabili alla sua esistenza in quanto tale - che la nuova dimensione economica dell’ordinamento al puro sovrappiù non può offrire? L’insediamento signorile, come si è visto, non ha potuto trovare al suo interno dei valori siffatti, e appunto per questo abbiamo dovuto definirlo come la non-città; se dunque anche per la città borghese dovessimo arrivare a una simile constatazione, dovremmo poi paradossalmente concludere che una città vera e propria non è mai esistita: il che potrebbe anche in linea d’ipotesi essere postulato, però contrasterebbe senza dubbio non solo con quello che è il nostro convincimento profondo, ma anche con la stessa realtà delle cose.

E di fatto, poi, la città non è nata dal nulla, ne è sorta immediatamente dall’autoconsumo, ne si è formata direttamente sulla base di un atto di sfruttamento (e dunque di una iniziale operazione alienatrice). Essa ha avuto nel borgo, come si è visto, la sua forma d’origine; si è costituita perciò e si è affermata sulla base delle esigenze e degli interessi di una comunità di liberi e di uguali, si è conformata attorno ai luoghi e agli edifici che esprimevano appunto la materializzazione di quelle esigenze e di quegli interessi: o, a1meno, in presenza e in connessione a essi. È dunque appunto nella memoria, nella continuità, nella persistenza e nello sviluppo dei valori già presenti nel borgo che la città ha potuto trovare le radici del suo ordinamento. E nel concreto, infatti, storicamente la città si è poi organizzata e ordinata proprio in funzione di quegli interessi, di quei bisogni, che, se sono comuni a tutti gli operatori dell’attività produttiva che ,si svolge nell’ambito urbano, non sono avvertiti da costoro in quanto produttori, bensì – nel senso più stretto e specifico del termine - in quanto cittadini, in quanto cioè liberi soggetti di eguale diritto. La città, insomma, ha potuto strutturarsi, definirsi, riconoscersi nella sua autonomia, solo quando si è raccolta e conformata attorno agli interessi e ai bisogni che scaturivano dalle esigenze di convivenza civile, e cioè appunto della vita comune dei cittadini. Essa ha potuto stabilizzarsi nella sua forma specifica solo quando - e nella misura in cui - i suoi abitanti non si sono sentiti esclusivamente produttori, e si sono riconosciuti cittadini; solo quando, infine, si è manifestata e si è affermata la necessità di amministrare una res publica, distinta e autonoma dall’attività economica dei singoli produttori di sovrappiù (anche se, nel tempo medesimo, garante di questa); quando, cioè, dalla polis e nella polis è nata la nuova dimensione della politica, che sostiene, protegge, tutela gli interessi dei produttori e però, nell’atto medesimo, non solo li trascende, ma li limita, li vincola, li subordina a un interesse comune: quello della cittadinanza.

Non per caso, dunque, ma per una inderogabile necessità di principio, gli interessi, i bisogni (e quindi, ma analogicamente e lato sensu, i consumi) attorno ai quali la città si è potuta ordinare, sono stati quelli della gestione della cosa pubblica, della difesa delle attività familiari ed economiche degli abitanti della città, dello sviluppo di alcune esigenze civili dei cittadini, e, infine, del culto comune della divinità: i medesimi interessi e bisogni che abbiamo visto affermarsi nella nascita del borgo. E la città, poiché si nutre degli stessi valori, si conforma poi e si modella intorno agli stessi elementi urbanistici che già avevano costituito la struttura del borgo: sono gli edifici e i luoghi dell’attività politica e civile, del potere militare, del culto. E l’agorà o il foro o l’arengo, l’acropoli o la rocca, le mura, il tempio, infine, o la chiesa, formano il primo grande schema urbanistico, l’unico a tutt’oggi, di cui riconosciamo immediatamente la bellezza.

Ma nella città appunto gli elementi di un simile schema acquistano un carattere e un valore estetico radicalmente nuovi. Ciò deriva - come non è difficile intendere - proprio dal fatto che, mentre nel borgo quegli elementi sono direttamente e strettamente funzionali alle esigenze produttive (e sono perciò concepiti e realizzati con la parsimonia, con l’avarizia, con la stessa limitatezza di prospettive inevitabilmente connaturate a produttori ancora sostanzialmente legati all’ideologia dell’autoconsumo ), nella città invece essi si manifestano nella loro più specifica e dispiegata autonomia. Nella città, insomma, quegli elementi costituiscono il segno visibile, la testimonianza materiale, la concreta e solida rappresentazione di un ordine che nelle condizioni dell’epoca può nascere solo fuori dalle esigenze, dalle leggi, dai meccanismi dell’economia. Essi sono quindi, per così dire, delle creazioni meta-economiche; sono liberi dalle regole dell’attività produttiva; sono, in definitiva, essenzialmente gratuiti. Ma bisogna aggiungere subito che un tale schema, se rappresenta ed esprime la città, se ne definisce dunque, indubbiamente, l’autonomia, viene a rivelare altresì, nel tempo medesimo, la fragilità. peculiare a ogni prodotto dell’operazione umana che si affermi storicamente fuori dell’economia, e anzi pesando seccamente su di essa.

4. La città: una spesa”per il borghese

Già nel sorgere della città si può coglier dunque la radice di un singolare contrasto; esiste insomma, sin da allora, una effettiva e complessa dialettica, una contraddizione tanto più significativa quanto più ambigua, tra la città (quale storicamente si è ordinata) e l’attività produttiva (quale si è storicamente sviluppata presiedendo alla nascita della città); e di conseguenza - quasi come un riflesso della realtà effettuale sullo specchio razionale della teoria - tra le esigenze, i principi, gli ideali dell’urbanistica e le formulazioni storiche in cui è rimasta racchiusa la scienza dell’attività produttiva, l’economia.

Si è visto infatti che il processo economico - così come viene storicamente a svilupparsi e a definirsi - una volta giunto al momento critico, alla svolta qualitativa della formazione del sovrappiù, può postulare l’esigenza della città, e deve, poi, pretendere a sua fondazione, deve anzi oggettivamente condurvi, se il sovrappiù viene sottratto allo sfruttamento signorile e rimane nelle mani dei suoi produttori. Ma nello stesso momento, nell’atto medesimo in cui lo sviluppo dell’attività produttiva determina il passaggio dal borgo alla città, contemporaneamente la forma storicamente determinata di tale sviluppo tende ad alienare la città stessa, poiché appunto conduce da una comunità di liberi a una comunità di asserviti all’economia. È proprio a causa di tutto ciò che sul piano delle strutture urbanistiche, ove la città si ordini secondo quel contesto economico, ove insomma la città rimanga passivamente coartata dal peculiare processo economico storicamente in atto, essa tende a divenire un indistinto coacervo e ad assomigliare sempre più a quel mero insediamento concentrato, a quell’aggregato disorganico e informe che è peculiare alla economia signorile. In altre parole, l’economia capitalistica ha avuto senza dubbio bisogno della città ed ha preteso che sorgesse: ma nel tempo medesimo ha teso a distruggerla.

D’altro canto e parallelamente, anche la città, per parte sua, ha avuto bisogno di quell’economia, poiché appunto nello sviluppo di questa ha trovato la sua origine storica, ossia, in concreto, la ragione della sua necessità oggettiva; e tuttavia, essa ha potuto costituirsi, prender forma, assumere una propria realtà autonoma (e dunque acquisire un valore estetico) soltanto nella misura in cui si è sottratta al rigore di quelle leggi storiche della dimensione economica, che non a caso rendono quest’ultima esclusivistica e disumana. Di fatto, la città ha potuto raggiungere un ordine, un’armonia, ha potuto svilupparsi come un’espressione organica e autonoma dell’operazione umana, solo quando è riuscita ad imporre alle ferree regole dell’attività economica dei vincoli: quelli, in concreto, che si risolvono nell’affermarsi - all’interno della città - di “consumi” non individuali e non legati alla produzione. In altre parole, essa ha potuto costituirsi come tale solo individuando il suo peculiare compito nella soddisfazione di quei “consumi” che non a caso non insorgevano direttamente dal processo produttivo storicamente dato, e che non potevano venir ricondotti e appiattiti a una funzione immediata di quest’ultimo, poiché appunto erano “consumi” della comunità, “consumi” non individuali ma comuni, pubblici.

Ma in questo, precisamente, viene a rivelarsi quella fragilità che costituisce, come si è accennato, l’altra faccia, il contrappeso, il prezzo di una simile autonomia della città. Diventa, a questo proposito, sommamente significativo un fatto, un atteggiamento psicologico - o, più esattamente, una posizione di classe che l’esperienza storica ha registrato, che la memoria letteraria ha sottolineato spesso e di cui ancora ai giorni nostri possiamo facilmente riscontrare la sopravvivenza. Il fatto, cioè, che le opere del culto, quelle della difesa, della politica, della comunità, della città in quanto tale, hanno acquistato un ben determinato carattere agli occhi dei mercanti, dei maestri delle corporazioni artigiane, dei tenitori di fondaci, banchi, botteghe e officine, di tutti i proprietari del sovrappiù: agli occhi, insomma, dei borghesi. Quelle opere hanno assunto palesemente il carattere di spese. Né potevano d’altronde assumere carattere diverso, nel quadro della concezione economica data: esse comportano infatti un esborso di moneta causato da necessità che non sono legate direttamente e immediatamente alla produzione, ma che gravano su di essa, sul capitale. Esse non sono mai un investimento, sono perciò accettate e sopportate come un gravame, come un tributo. Il grande schema urbanistico della città antica (che si prolungherà poi in quella medievale), quello schema di cui abbiamo più sopra sottolineato la bellezza, è dunque una spesa, è un limite alla possibilità di realizzare il massimo del sovrappiù. È la città medesima, in quanto realmente tale, a presentarsi come una spesa per il sistema; essa, perciò, potrà sussistere col massimo di pienezza e di organicità compatibili con i rapporti dialettici che la legano al quadro economico dato, soltanto fino a un punto determinato e preciso: fino a quando, cioè, potrà venir considerata una spesa necessaria.

5. Necessità sociale e politica della spesa urbana”per ilborghese in lotta contro il signore

Ma fino a quando il sistema economico ha bisogno di una città che si racco1ga e si ordini entro un preciso -e meta-economico -schema urbanistico? Fino a quando, in altri termini, l’economia del sovrappiù come fine può e deve sostenere una simile città, può e deve accettare, cioè, la spesa che essa costituisce e comporta? La risposta, dopo quanto abbiamo scritto fin qui, non è davvero difficile, e può essere ritrovata nel carattere che ha assunto, sul terreno storico-sociale, la svolta borghese: nel carattere che di necessità ha dovuto acquistare il rapporto tra la società borghese e quella signorile. In realtà, mentre nel passaggio dall’economia dell’autoconsumo a quella signorile da un lato, e, dall’altro, a quella borghese e capitalistica, vi è stata, sul piano dello sviluppo sociale ed economico, una sostanziale continuità, il rapporto tra ordinamento borghese e ordinamento signorile si configura invece, inevitabilmente, come un rapporto antinomico e di negazione reciproca.

L’economia capitalistica e l’economia signorile si presentano, invero, come due economie, come due sistemi, come due ordinamenti fondati entrambi sulla stessa base storico-naturale - il sovrappiù - e tuttavia finalizzati a due utilizzazioni radicalmente diverse, e anzi seccamente opposte e antitetiche, della loro medesima base. Nell’economia signorile, infatti, il sovrappiù è destinato, essenzialmente e per principio, al consumo del signore; nell’economia borghese esso è destinato invece, in modo esclusivizzato e decisivo, alla “riproduzione allargata” di sé medesimo, al proprio accrescimento, all’accumulazione, e dunque, in definitiva, alla produzione.

Composizione, compromesso, o anche soltanto convivenza tra i due sistemi (quello borghese e quello signorile), sono dunque, per principio, impossibili. L’antinomia, e quindi la lotta tra signore e borghese, tra l’una e l’altra forma di utilizzazione del sovrappiù, hanno dovuto manifestarsi perciò, nella storia, con l’inevitabilità dei fatti oggettivi. E in effetti abbiamo già osservato che il borgo ha potuto affermarsi solo nella misura in cui i produttori sono riusciti a sottrarre il proprio sovrappiù allo sfruttamento signorile, e dunque alla sua destinazione al consumo dello sfruttatore. Già nel borgo, allora, già con l’incunabolo della città, l’antagonismo tra le due forme di utilizzazione del sovrappiù comincia a manifestarsi; ma con la città, il contrasto diventa lotta aperta, scontro inevitabile e dichiarato. È nella città, infatti, che il sovrappiù diviene l’unico fine cui è ordinata l’attività produttiva e, contemporaneamente, l’esclusiva base economica della vita sociale; è, dunque, solo quando la città si libera dal guscio del borgo, quando, cioè, l’economia perde ogni residua finalizzazione al consumo individuale d’un consumatore determinato, che l’irriducibile antagonismo tra l’ordinamento signorile e quello borghese e capitalistico divampa e informa di sé l’intera vicenda della storia umana.

Può allora divenir chiaro perché un ordinamento autonomo della città sia stato, agli occhi del borghese, una spesa necessaria. Sono, infatti, appunto le esigenze di quella lotta secolare, drammatica e senza quartiere, ingaggiata dal borghese contro il signore non solo sull’originario terreno economico, ma anche e soprattutto su quello sociale e politico, che hanno giustificato la spesa dell’autonomia cittadina, che l’hanno resa concretamente sopportabile al parsimonioso rigore del borghese, che l’hanno presentata, in definitiva, come necessaria.

6. L’esempio medievale: la città come macchina bellica

Per comprendere tutto questo con la più evidente perspicuità, ci si soffermi, ad esempio, sul modello illustre della città dell’ultimo medioevo. È proprio in tale periodo che la lotta tra i due ordinamenti, tra le due concezioni, tra i due sistemi - quello signorile e quello borghese - diviene più aperta e dichiarata. È appunto nell’ultimo medioevo che la classe borghese si rivela pronta a cogliere il frutto del proprio progresso storico e a ai quali si è costituita, si è conformata, e si è ordinata storicamente la dimensione autonoma della città. Quegli elementi, infatti, quei luoghi e quegli edifici nei quali si manifestavano e potevano venir soddisfatti gli interessi e i bisogni comuni della cittadinanza, potevano facilmente (e vorremmo dire organicamente, per la loro stessa peculiare e profonda natura) esser visti e utilizzati come elementi della macchina bellica, dello strumento politico e militare che la città costituiva. Quei luoghi e quegli edifici, infatti, erano appunto caratterizzati - come si è visto dal fatto che in essi avveniva un consumo che, essendo totalmente estraneo ai meccanismi economici del sistema (e proprio per questo sopportato come una spesa) era libero e autonomo dalla dimensione produttiva, ed era dunque paragonabile al consumo signorile e a questo politicamente, socialmente e militarmente opponibile. Nella città, insomma, il borghese ha visto, ha incoraggiato - e ha pagato - un nuovo signore, che potesse servire alla lotta contro il signore antico.

Bisogna allora concludere che l’ordinamento autonomo della città è un onere al quale il proprietario del sovrappiù capitalistico è disposto a piegarsi finche esiste la minaccia del “castello”. Quando il secolare antagonismo sarà infine superato, quando il signore (in quanto figura non solo economicamente, ma anche socialmente e politicamente condizionante il sistema sociale nel suo insieme) sarà “ucciso”; quando le mura non solo di questo o quel castello, ma dell’intero “edificio signorile”, saranno diroccate; quando non solo questo o quel possesso feudale sarà appropriato dal fittavolo o dal mercante, non solo i tesori dell’uno o dell’altro saranno dispersi o fruttuosamente investiti, ma quando l’intero sistema economico e sociale sarà sottratto, su ogni piano, al condizionamento del consumo signorile e sottoposto all’unica norma dell’accumulazione capitalistica, allora la spesa che la città comportava potrà finalmente esser ridotta, e anzi tendenzialmente annullata.

La città, in quanto dimensione autonoma e specifica, non troverà, a questo punto, più alcun sostegno nell’interesse della borghesia; l’antinomia tra economia del puro sovrappiù ed economia del sovrappiù come mezzo per il consumo signorile sarà, infatti, storicamente superata e risolta: la macchina bellica non sarà più necessaria, la città non servirà più il sovrappiù capitalistico. Essa allora dovrà cercare in sé stessa il proprio sostegno e la forza indispensabile ad affermare la propria autonomia oppure, come storicamente è avvenuto, dovrà cristallizzarsi o decadere.

7. Tendenza all’alienazione nella città borghese

Nel momento stesso in cui il borghese trionfa sul signore si verifica dunque, nella storia della città, un reale e profondo passaggi qualitativo. Ciò, peraltro, non significa evidentemente ( come crediamo sia ormai ben chiaro) che nella città si manifesta, con la sconfitta dell’ordinamento signorile, l’inizio di una crescita organica e dispiegata, di una positiva evoluzione, e, insomma, di un reale sviluppo in termini di valore ma, anzi, tutto l’opposto. Invero, nella misura in cui il capitalismo celebra sempre più pienamente il suo trionfo, la città medesima viene a perdere ogni ragione che giustifichi la spesa che essa costituisce per un’economia finalizzata in modo esclusivo al sovrappiù. Gli elementi, i valori, i”consumi” attorno ai quali la città si era ordinata e aveva acquisito una forma e acquistato un’autonomia, divengono ormai una pura spesa, una parvenza meramente gratuita, un tributo che non è più necessario, e che dunque sarebbe folle pagare.

La città, allora, poiché non serve più al sistema (sempre più asservito e piegato alle leggi ferree dell’economia del puro sovrappiù), deve necessariamente tendere ad alienarsi. Ogni senso, ogni ragione, ogni storica rilevanza, ogni oggettiva necessità, hanno perso infatti, nel mondo borghese, quei valori urbanistici che soli avevano potuto conferirle una forma. La città tende infatti ad assomigliare sempre più a un mero aggregato, a una concentrazione informe, a un insieme caotico e disordinato di residenze. Non a caso tutti gli sforzi che si sono compiuti, volti a dare (o a ridare) un ordine alla città della borghesia trionfante, si sono dovuti rivelare o immediatamente impotenti e vani, o arbitrari, demiurgici, titanici - e dunque alla fine sempre egualmente impotenti.

Quali che siano insomma gli sforzi per ricomporre, per disciplinare, magari per imprigionare entro le maglie di un “piano” autoritario la realtà dello “sviluppo” cittadino (di quello “sviluppo” quantitativamente smisurato, che nell’età borghese ha condotto la città dalle migliaia ai milioni di abitanti), quella realtà sfugge comunque per ogni verso, essa è dominata da leggi che non trovano più, che non possono più trovare alcun legame con le leggi proprie della città. Parzialmente commisurata, definita, pianificata, disegnata, resa estetica, in questa o in quella delle sue parti, in questo o in quello dei suoi aspetti, la città continua a vivere, a espandersi, a ingigantire con l’estemporaneità, con la casualità, con l’anarchia peculiari a ogni fenomeno immediatamente naturale e refrattario all’azione ordinatrice dell’uomo. È in tal modo, insomma, che si presenta la fase della città borghese. Tuttavia, se ci limitassimo a definirla in questi termini, non riusciremmo davvero a dar compiutamente ragione di essa; infatti, se concludessimo ponendo esclusivamente in rilievo gli aspetti di alienazione, di disgregazione, di inevitabile caoticità, che essa indubbiamente rivela nell’età del capitalismo trionfante, non potremmo riuscire a individuare quel tanto di positività, di ordine inconsapevole e dissimulato, di implicita capacità di conseguire un vero sviluppo, che essa, come ci sembra, possiede e conserva. Ci sfuggirebbe insomma, inevitabilmente, il fatto che la città del capitalismo è purtuttavia (a differenza del “villaggio”, del “castello” e del “borgo” medesimo) una reale città, e che dunque in essa certamente sopravvive la condizione della sua rinascita, e il segno fecondo della speranza di un suo rinnovato e organico sviluppo, omogeneo alle leggi, alle forme, alle esigenze che in essa si sono già manifestate, e che non sono completamente spente e inaridite.

Per proseguire la nostra analisi, dovremo quindi soffermarci con maggiore ampiezza sulla città della borghesia trionfante; è in quest’ultima, infatti, che affonda oltretutto le proprie immediate radici la città d’oggi. E non certamente a caso, ma proprio perché nella città della piena affermazione borghese si possono individuare le origini dirette della città contemporanea –e perché dunque la soluzione del problema di quest’ultima non può essere individuata se si prescinde dall’esame della realtà urbanistica dell’Ottocento - numerosi urbanisti italiani hanno dedicato, in questi ultimi anni, gran parte della loro attenzione appunto alla città ottocentesca.

8. Un primo insegnamento della storia

Da quanto abbiamo potuto fin qui vedere già emerge un primo insegnamento d’indubbia rilevanza, che scaturisce dalla storia della città e dal quale si dovrà prendere le mosse per cercare di capire quali siano le condizioni e le tappe per una ripresa, a un tempo, della disciplina urbanistica e della stessa città. A veder bene, se la città del capitalismo si è anarchicamente ribellata, si è caparbiamente e quasi irrazionalisticamente rifiutata di piegarsi a qualsiasi forma mutuata o dedotta o gelidamente distillata dagli antichi schemi urbanistici; se, parallelamente, hanno finito per fallire in sostanza tutti quegli uomini che si sono adoperati nei ricorrenti tentativi di imporre un ordine alla città mediante un mero ammodernamento - geniale quanto si voglia - delle forme e delle strutture nelle quali essa, ai suoi inizi, era pur riuscita ad ordinarsi e a configurarsi nel suo insieme; se, insomma, non è stato possibile utilizzare positivamente, per organizzare e conformare l’intera città, nessun prolungamento, nessun aggiornamento formale, nessuna rinnovata trascrizione di quello schema urbanistico che era stato sufficiente alla città del mondo classico come a quella del mondo medioevale, ciò non solo non può essere ritenuto casuale, ma va anzi attentamente meditato. Ciò, in effetti, ci sembra costituire non soltanto la chiara dimostrazione, ma la prova concreta dell’insuperabile fragilità di quegli schemi medesimi.

E in realtà, come si è già sottolineato, i valori intorno ai quali la città aveva potuto ordinarsi per raggiungere, storicamente, una sua autonomia, avevano potuto nascere ed esprimersi solo come valori meta-economici, e appunto perciò avevano vissuto sotto il segno di una intrinseca fragilità. Quella fragilità, tuttavia, aveva potuto rimanere implicita e sottesa finché i valori comuni della città erano gli unici esistenti (e dunque gli unici utilizzabili dalla borghesia nella sua lotta al signore) e finche, soprattutto, il modo capitalistico di produzione non aveva sottoposto alle sue leggi esclusive tutta la vita economica come, al limite, quella dell’intera società. Ma quando il processo iniziato con l’uscita del libero produttore dall’autoconsumo giunge alle sue conclusioni, e la produzione diventa interamente capitalistica, quella fragilità deve manifestarsi in modo aperto e invincibile. Col capitalismo, infatti, la produzione esce dall’individualismo e diviene sociale: tutti sono universalmente coinvolti nella produzione; tutti - dovunque producano, dovunque consumino, dovunque risiedano - sono universalmente sottoposti alle sue leggi e ai suoi meccanismi; tutti sono universalmente interessati alla sua espansione, poiché appunto nella crescita del sistema produttivo risiede, per tutti, la garanzia della stabilità del lavoro, della sussistenza, della vita.

Ma d’altra parte, la proprietà del capitale, l’appropriazione del sovrappiù, restano consegnate entro la forma peculiare alla struttura, alla prassi, all’ideologia del sistema borghese: entro la forma, insomma, dell’individualismo proprietario. Appunto per questo, la dimensione sociale inevitabilmente comportata dal modo capitalistico di produzione non può esprimersi in quanto tale, non può rispecchiarsi e vivere nell’intero edificio dell’umanità associata, e deve perciò restar confinata e racchiusa nell’ambito della produzione. Ogni possibile socialità si appiattisce, dunque, al momento produttivo, con esso si identifica, e in esso soltanto può essere in qualche modo concretamente vissuta.

Nella città della borghesia trionfante, in definitiva, la fragilità dello schema urbanistico viene a manifestarsi e a risolversi in una contraddizione di principio: quella, appunto, tra l’individualismo peculiare al mondo borghese e la dimensione pubblica, comune, sociale essenziale alla città. Ma poiché ogni possibile socialità è nell’economia, e poiché d’altra parte l’economia è dominata dall’individualismo, quella contraddizione non può risolversi a sua volta che in un modo soltanto: essa può risolversi, e si risolve di fatto, solo come morte della comunità in quanto tale, e dunque a secco e inevitabile danno della città. Ed ecco, allora, che la città moderna tende continuamente ad alienarsi; ecco che l’economia capitalistico-borghese - l’economia del sovrappiù per il sovrappiù, dell’interesse privato, dell’accumulazione produttiva - si impadronisce, pezzo a pezzo, della città. Non vi è più una parte, una molecola, un aspetto, un momento della città che non siano divenuti privati. Le stesse parti che la borghesia, ogni qual volta si sforza d’incidere soggettivamente sulle cose (come avviene, ad esempio, ai tempi di Napoleone III e di Haussmann), ancora riesce a dominare e a comporre, a sottrarre all’anarchia ormai dominante, non costituirono altro, in definitiva, che il tentativo di unificare formalmente luoghi ed edifici ordinati in funzione di interessi divenuti esclusivamente individualistici e privati.

E l’opera di disgregazione posta in atto dall’individualismo borghese non tarda a investire, in modo primario e decisivo, la stessa base materiale sulla quale la città è fondata: investe, insomma, in primo luogo ed essenzialmente, il suolo sul quale la città sorge e si espande, e determina così l’insorgere di quella questione delle aree che è indubbiamente il simbolo e, insieme, la manifestazione più grave, più limitante e oppressiva, di quella vera e propria attività divoratrice che il privatismo individualistico, connaturato all’ideologia borghese, ha esercitato sulla necessaria dimensione comunitaria della città. Quando le leggi borghesi dell’economia del capitale diventano le uniche leggi vigenti, allora non vi è più un posto in cui la comunità possa possedere terre, per coltivarvi, e per costruirvi le opere civili della città; il suolo, ormai, può essere soltanto suddiviso, spezzettato, individualisticamente appropriato, rigidamente recinto; da virtualmente pubblico, comune, indiviso, esso diventa inevitabilmente privato, e la fitta trama dei confini proprietari - quasi come una rappresentazione fisica, come una traduzione in termini morfologici delle leggi e degli interessi dell’individualismo borghese - costituirà appunto la camicia di Nesso entro cui la città moderna sarà obbligata a svilupparsi e a estendersi. La persistenza del reticolo proprietario diverrà insomma la regola ferrea ed esclusiva, che vanificherà e sostituirà quella legge comunitaria in cui la città non solo affondava le proprie radici storiche, ma in cui essa trovava le stesse ragioni pratiche e di principio della specificità e dell’autonomia della propria esistenza.

Ha assunto que1la crisi le forme di una rottura irrimediabile e liquidatrice di tutto quello che la città ha storicamente significato? Oppure, all’interno di quell’organismo urbano, che è indubbiamente travagliato e sconvolto da insufficienze profonde e radicali, da errori gravissimi e sempre più evidenti, dall’anarchia, dalla casualità, dal disordine mortificante e disumano che sperimentiamo tutti ogni giorno, è possibile rinvenire una speranza, un appiglio, un solido punto di partenza da cui muovere per giungere a una città più giusta?

Per cominciare a rispondere a un simile quesito, tenteremo di analizzare la città capitalistico-borghese, in relazione al sistema economico-sociale al quale essa è intrinsecamente legata, sviluppando alcuni temi che abbiamo già affacciato nel precedente capitolo: poiché ci sembra indubbio - e lo dimostreremo - che le contraddizioni, le minacce di crisi e le speranze di salvezza, i limiti e le prospettive presenti nella città del capitalismo classico (del capitalismo borghese trionfante, e ormai addirittura maturo), sono già visibili, sia pure in nuce, nella città della borghesia originaria, e costituiscono anzi lo sviluppo di determinate condizioni storiche e di principio che hanno presieduto alla nascita della città medesima. In particolare, abbiamo potuto individuare già nel nascere della città e nel suo primo affermarsi, una singolare contraddizione, una vera e propria ambiguità; è appunto nella natura di tale originaria ambiguità e nelle forme che essa, nell’ulteriore sviluppo della città e dell’intero sistema sociale, è venuta storicamente ad assumere fino ai giorni nostri, che si potrà trovare, crediamo, una risposta sufficiente al nostro interrogativo.

2. Incapacità della borghesia a imprimere alla città un autonomo ordinamento formale

La città ha potuto e ha dovuto nascere quando alla fine del ciclo produttivo si è potuto enucleare, dall’insieme del prodotto, una eccedenza, un sovrappiù che è venuto a rompere il cerchio dell’autoconsumo, e nella misura in cui tale sovrappiù, anziché venir appropriato violentemente dal signore per consentire a quest’ultimo di poter uscire dal lavoro e di poter svolgere così la propria libera attività meta-economica, non solo è rimasto nelle mani di coloro che lo venivano producendo, ma soprattutto è stato diretto da costoro al reinvestimento, all’accumulazione, all’allargamento della produzione. La città dunque, in ultima analisi, si presenta come l’insediamento propriamente omogeneo al sistema capitalistico-borghese. Perciò si è subito venuta a configurare non solo come la concentrazione stabile dei produttori del sovrappiù, ma anche e soprattutto come il luogo caratterizzato “dalla presenza di un’umanità d’un genere affatto speciale”; come il luogo, cioè, nel quale risiedono uomini che sono ormai tutti produttori di plusvalore (siano essi proprietari e gestori del capitale, o capitale essi stessi: forza-lavoro, proletari) e che sono dunque, per ciò stesso, soggetti di un comune diritto.

Liberi ed uguali sono infatti fin dal principio, non semplicemente sul terreno del diritto naturale, ma su quello positivo del diritto pubblico, gli abitatori della città. E tali essi non possono non essere poiché il sistema del capitale - il sistema del sovrappiù come fine - affranca l’umanità “dai variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali”, anche se naturalmente l’affranca per renderla disponibile e pronta a divenire nella sua stragrande maggioranza, e al limite e in linea di principio nella sua totalità, un mero strumento della produzione di sovrappiù.

Nella ragione medesima che ha sollecitato il capitalismo a dare storicamente vita alla città, è, dunque, immediatamente avvertibile anche il limite del sistema, anche il suo errore esclusivistico e parzializzante. Invero, se il capitalismo ha liberato gli uomini dallo sfruttamento del signore, se li ha mutati da servi del consumo signorile in liberi produttori, esso ha però, nell’atto medesimo, asservito tutti alla produzione del sovrappiù; tutti, proletari e proprietari, come materiali produttori del sovrappiù e come funzionari della sua accumulazione. L’ allargamento della produzione diviene allora, nel sistema capitalistico, la ragione e il fine esclusivo dell’ordinamento economico, la unica legge del sistema sociale, la sola realtà che giustifichi l’opera degli uomini e quindi, in ultima analisi, la loro esistenza medesima. Nessun altro valore, nessuna diversa dimensione dell’operazione umana, nessuna qualità, insomma, ha più significato autonomo. Ciò che delle dimensioni qualitative elaborate dalla cultura, dalla storia della civiltà, ancora sussiste, è ormai, infatti, mero prolungamento del passato; è, sostanzialmente, quasi uno sterilizzato residuo dello sviluppo storico precedente, e deve dunque venir via via ridotto ai margini e tendenzialmente dissolto, quando non può esser strumentalmente utilizzato come mezzo per l’affermazione storica della produzione capitalistica e della classe borghese.

Si deve allora necessariamente convenire - ritornando così all’argomento che più direttamente ci interessa - che nell’ambito di un assetto sociale pienamente omogeneo all’economia capitalistica, e perciò totalmente finalizzato all’allargamento continuo della produzione, non possano darsi qualità o valori capaci d’imprimere una forma all’insediamento umano. E difatti, storicamente, simili qualità si poterono trovare solo al di fuori dal sistema del sovrappiù come fine, fuori dalla legge esclusivizzata della produzione, e perciò, in definitiva, solo nel prolungamento di determinate realtà esistenti nel passato, peculiari alla società pre-capitalistica e anzi in essa centrali e decisive. Naturalmente, se la città della borghesia nascente ha potuto trovare una propria forma autonoma, ciò non è davvero avvenuto in contraddizione con gli interessi immediati della classe capitalistica, ma anzi proprio in funzione di tali interessi. Di fatto, tutto ciò si è potuto verificare solo perché la lotta dei borghesi contro il loro avversario storico, contro il signore, pretendeva (come si è già rilevato) l’esistenza di un insediamento che fosse paragonabile all’insediamento signorile, non soltanto sul piano strettamente funzionale delle necessità militari, ma anche, e soprattutto, su que1lo delle qualità politiche, civili, estetiche; che fosse, in definitiva, pienamente opponibile al “castello”.

Come, nel concreto, è accaduto tutto ciò? Dove ha potuto trovare, la borghesia, un criterio formale capace di costituire la cittadinanza in un nuovo signore, di conformare la città come un insediamento caratterizzato da un ordine e da una bellezza che fossero in grado di reggere al confronto con la superba magnificenza del castello, della corte, della reggia? La città ha potuto trovare, di fatto, le qualità necessarie a sostanziare una propria forma autonoma, storicamente sufficiente, solo assumendo e rivivendo alcune di quelle qualità cui si ordinava la libera attività meta-economica del signore.

La chiesa, l’arengo, il municipio, la rocca: non è forse evidente come queste essenziali “attrezzature” della città medievale, come questi capisaldi fondamentali e decisivi (e addirittura unici) dello schema urbanistico tradizionale, altro non sono stati che il puntuale corrispettivo della contemplazione e della teologia, della vita curtense, dell’operazione politica e di quella militare, dei principali momenti e aspetti, insomma, nei quali si estrinsecava la libera e meta-economica attività del signore? Le qualità che sostanziarono la forma della città capitalistico-borghese (finché essa ebbe una forma autonoma) erano quindi semplicemente un adeguamento delle fondamentali categorie dell’attività signorile alle mutate condizioni del sistema e della società.

3. Il tentativo borghese: l’utilizzazione comune”delle qualità del mondo signorile

Nelle città, le dimensioni, le qualità, i valori d’uso della religione, della politica, della civiltà, dell’arte e della cultura, non vengono meramente prolungati; di necessità, essi sono assunti in modo nuovo e diverso. Mentre nell’ordinamento signorile essi costituiscono il contenuto e la ragione della libera e individualistica attività meta-economica del signore, nella città quei valori, quelle qualità, si presentano nella sola maniera che sia in qualche modo omogenea alla società borghese: come metaeconomico consumo comune dei cittadini. Per cogliere, nella sua reale e profonda natura, una siffatta differenza, occorrerà ricordare innanzitutto che nello schema signorile tutta l’attività produttiva, istituzionalmente delegata ai servi, agli sfruttati, ai lavoratori, ha come suo unico scopo quello di produrre un sovrappiù esclusivamente destinato al consumo del signore. Costui, padrone unico e incontrastato di tutto il sovrappiù prodotto, trova in questo la garanzia, in primo luogo, della propria sussistenza e della propria libertà dal lavoro, e, in secondo luogo, la possibilità di dedicarsi liberamente (senza alcuna coazione, cioè, che non sia d’ordine “morale”) a quelle attività della contemplazione, della cultura, dell’arte, della politica, le quali, essendo appunto del tutto libere e gratuite, si svolgono completamente al di fuori della legge comune (e servile) del lavoro, in modo individuale e al di fuori della dimensione economica.

Nella società borghese, per converso, quelle medesime qualità che erano alla base della libera attività meta-economica del signore, non vengono più vissute da un solo individuo: dall’uomo posto al vertice della struttura economica e dell’edificio sociale; e neppure le vivono e ne fruiscono soltanto gli amici del signore: i cortigiani, i privilegiati, gli eletti, i pochi. Esse vengono vissute invece dal borghigiano, dal cittadino in quanto tale. Ciò significa, in primo luogo, che quei valori d’uso si manifestano ormai come valori vissuti e fruiti egualitariamente e comunitariamente da ciascuno degli abitanti della città, da tutti gli individui che sono soggetti di diritto comune entro le mura urbane. Sicché si può senz’altro affermare che le qualità, i valori d’uso, le dimensioni già presenti nell’attività signorile, appunto per il carattere comunitario in cui vengono vissuti nella città, rappresentano l’unica realtà nella quale l’uguaglianza e la libertà dei cittadini cessano di rimanere semplicemente affidate alle affermazioni generali e astratte del diritto naturale e a quelle puramente politiche del diritto pubblico, ma acquistano una reale corposità, una effettiva incidenza sociale, che vincola in modo netto e preciso le stesse leggi dell’ordinamento proprietario e del diritto privato.

In secondo luogo, poi, quelle qualità, essendo vissute e fruite comunitariamente, non possono più permanere nell’ambito di quella sostanziale indistinzione tra produzione e consumo che era la caratteristica decisiva della libera attività meta-economica del signore. Non v’è più, in altri termini, una unica individualità che “produce” i valori d’uso della contemplazione, dell’arte, del pensiero, e, nell’atto stesso e senza possibilità di distinzione, “consuma” quei medesimi valori. Ora, invece, essendo l’intera comunità cittadina a fruire delle qualità di cui si è detto, e rimanendo l’erogazione di queste ultime affidata a determinate attività specialistiche - alle categorie, ai ceti di “produttori” che si pongono al servizio dei cittadini - le antiche qualità dell’esistenza signorile si configurano, nel momento in cui vengono fruite, come dei veri e propri consumi (e sia pure non ancora riconosciuti tali nella teoria e nella prassi economica), mentre nel momento in cui vengono erogate, esse danno luogo a una produzione reale (sebbene anch’essa non ancora economicamente riconosciuta).

4. Un consumo comune estraneo all’economia.

La libera e individuale attività del signore si trasforma dunque, entro il quadro della città, nel consumo comune dei cittadini (e negli specifici servizi a ciò necessari). Ma per concludere la nostra argomentazione, per chiarire cioè il differente modo in cui le medesime qualità sono vissute nell’insediamento signorile e nella città, occorre porsi ancora un interrogativo; occorre domandarsi, cioè, quale sia il rapporto che lega, nella città, i valori del consumo comune alla dimensione economica, così come si trova storicamente configurata in un determinato ordinamento.

Già lo abbiamo sottolineato più volte: nel sistema capitalistico l’intera economia è ridotta al momento della produzione del sovrappiù; e per dir meglio, il fine essenziale, l’obiettivo di principio di un tale sistema consiste nella massima possibile accumulazione del sovrappiù, nel continuo, rigoroso, efficiente allargamento della produzione. Ma allora è chiaro che, nella stretta logica di un sistema siffatto, ogni libero, umano, naturale consumo non può non venir meno: l’uomo, in realtà, vi consuma solo in quanto lavoratore, solo in quanto strumento (un degli strumenti) del processo produttivo. E in tal modo il consumo, venendosi a ridurre a semplice garanzia della ricostituzione di una delle condizioni del processo produttivo medesimo, a semplice garanzia del mantenimento e del riprodursi della forza-lavoro, si configura pertanto senza residui come consumo produttivo.

Diviene cosi evidente, quindi, quale sia il rapporto che, nella società capitalistico-borghese, lega il consumo comune della città alla dimensione economica del sistema. Un tale consumo, infatti, per la sua stessa natura, non può assolutamente essere ricondotto alla categoria del consumo produttivo: l’unica forma di consumo che il sistema riconosca come a sé compiutamente omogenea e funzionale. Non a caso abbiamo infatti sottolineato, nel precedente capitolo, che solo analogicamente e lato sensu i bisogni egli interessi intorno ai quali si è conformata la città potevano esser definiti dei “consumi”.

Si deve allora concludere che nel sistema capitalistico-borghese le qualità, i valori d’uso che hanno consentito di dare una forza alla città non sono più soltanto estranei alla dimensione economica, non ,sono più cioè meta-economici: essi sono divenuti ormai puramente e semplicemente la sostanza di consumi economicamente incompatibili con la logica del sistema, consumi antieconomici. Di fatto, mentre prima, nella società dominata dalla libera attività del signore, quelle qualità, quei valori d’uso di cui s’è detto potevano essere considerati come il fine e il fastigio dell’intero edificio sociale, come l’obiettivo cui indirettamente tendeva e in cui, quindi, si giustificava lo stesso lavoro servile dell’uomo (e persino dunque la dimensione servile dell’economia) ora, nel sistema del capitale, essi sono soltanto delle spese, sono delle remore all’attività produttiva, degli impacci al suo progressivo allargamento: essi pesano seccamente sull’accumulazione.

La città ha dunque potuto trovare delle qualità sufficienti a ordinarla secondo una forma autonoma solo mutuando dal mondo signorile le qualità della libera attività meta-economica del signore, e traducendole nella spesa del consumo comune dei cittadini; tentando, cioè, di correggere la parzialità esclusivistica del sistema capitalistico e introducendo in quest’ultimo (o, meglio e più esattamente, facendo sopravvivere e rinnovando in esso) delle qualità, dei valori, delle dimensioni non solo estranei alla produzione del sovrappiù, ma addirittura incompatibili con la sua stretta logica di sistema. Tuttavia, come si è detto, un simile tentativo era intrinsecamente fragile, come ogni tentativo di fondare un’operazione umana fuori dalla dimensione economica, e anzi pesando su di essa. Perciò, in linea storica, poteva aver successo - e fu infatti perseguito - solo fino a un punto ben determinato: fino a quando le esigenze della difesa militare, della vita politica e civile, del culto, servivano al sistema per opporsi al suo avversario storico, al signore, ed erano quindi utilizzabili come strumenti politico-sociali per l’affermazione della produzione capitalistica. Quando il sistema ha trionfato, le ragioni politiche e sociali che avevano giustificato la spesa dell’ordinamento autonomo della città, sono venute ovviamente a esaurirsi. Lo strumento costituito, per la borghesia, da un ordinamento autonomo della città, non è stato più necessario. Il consumo comune dei cittadini ha rivelato allora, ha messo in luce pienamente e unicamente, il proprio carattere improduttivo; e di conseguenza, le qualità, i criteri, i valori che avevano sostanziato la forma della città - poiché più nulla ne veniva ormai a riscattare l’incompatibilità con la legge economica del sistema - sono stati spazzati via, come ogni altra dimensione non riducibile alla produzione del sovrappiù.

5. Le due insufficienze rivelate dal trionfo borghese

Il trionfo storico del capitalismo, col porre in crisi l’ordinamento classico e medioevale della città, ha svelato dunque una duplice insufficienza: l’insufficienza della forma secondo la quale la città aveva potuto ordinarsi e l’insufficienza del sistema capitalistico-borghese.

Inprimo luogo, infatti, mentre il gigantesco espandersi della produzione capitalistica accresceva a dismisura il numero e le dimensioni delle città (e disgregava, parallelamente e contemporaneamente, il tessuto sociale delle campagne); mentre masse sempre più cospicue di uomini venivano strappate all’idiotismo della vita contadina e divenivano cittadine; mentre, quindi, l’umanità, con una velocità che nessuna trasformazione storica aveva fin allora mai conosciuto, si andava precipitosamente urbanizzando (o veniva progressivamente ridotta alla decadenza e alla miseria in una campagna sempre più depauperata e”depressa”); mentre insomma si accumulavano le condizioni materiali per uno sviluppo dell’insediamento urbano, si dissolveva la forma tradizionale della città, rivelando la sua fragilità intrinseca e la sua sostanziale insufficienza. Lo schema urbanistico incentrato sui luoghi e sugli edifici posti al servizio delle esigenze del culto, de1la politica, della difesa, della comunità, la forma che si era potuto realizzare - nella città del mondo greco-romano e in quella del medioevo - come espressione delle qualità già presenti nel mondo signorile, prolungate e vissute nel consumo comune dei cittadini, si dimostravano, l’uno e l’altra, incapaci di conseguire un organico sviluppo, di crescere armoniosamente, di accogliere ed esprimere la prorompente realtà del capitalismo vittorioso e maturo, ed erano perciò rapidamente sconvolti e progressivamente erosi e spazzati via.

In realtà, quel decisivo avvenimento storico che fu costituito dalla crisi della forma urbana tradizionale, ha potuto verificarsi perché l’ordinamento formale della città era caratterizzato, fin dall’inizio, da una carenza di principio, da una intrinseca e connaturata fragilità; da quella carenza, da quella fragilità, da quell’insufficienza che costituiscono la connotazione necessaria di ogni operazione umana che non riconosca il momento dell’economia come un proprio aspetto decisivo, e che perciò viva non distinta, ma separata e divisa dalla dimensione economica: che viva, cioè, in quell’isolamento, in quella segregazione, che nel mondo signorile si manifestarono sotto la specie superba (e però precaria) della meta-economia, e che nella città della borghesia nascente si tradussero nell’antieconomicità del consumo comune. Si può allora affermare che il fallimento dello schema urbanistico tradizionale era inevitabile in linea di principio, e che la storia non ha fatto altro che dimostrare una simile inevitabilità. E si deve per ciò stesso riconoscere che in quel fallimento, in quella rottura, operati dal trionfo del capitalismo, stava la necessaria premessa storica - sia pure configurata in termini negativi - del possibile sviluppo della città a un livello superiore.

Col trionfo del capitalismo la storia ha infatti compiuto, nelle cose, una critica radicale e liquidatrice; ha spazzato impietosamente il terreno da ogni illusione di far vivere una forma come espressione di qualità che non siano riducibili al lavoro umano, e che non siano suscettibili perciò di valutazione nell’ambito di un discorso rigorosamente economico. È vero: la storia ha indubbiamente travolto, nella sua fase borghese, ogni valore, ogni qualità, ogni dimensione incompatibile con le leggi parzializzate ed esclusive della produzione capitalistica; ha certamente riconosciuto l’uomo solo come produttore di sovrappiù. Tuttavia, dissolvendo la capacità ordinatrice dello schema urbanistico tradizionale, la storia ha rivelato anche (e sia pure in modo soltanto implicito) l’impossibilità di ricorrere a un qualsivoglia criterio meta-economico quale fondamento di una forma dell’insediamento umano. Ogni ritorno a un insediamento conformato secondo categorie simile a quelle peculiari del mondo signorile, è negato ormai una volta per tutte.

Nella sua fase capitalistico-borghese, il processo dello sviluppo sociale ha dunque implicitamente affermato la decisività, per qualunque operazione umana, del momento economico. Ma una simile affermazione, come si è visto, si è concretata storicamente come una mera operazione critica: essa ha condotto, cioè, solo alla liquidazione della forma sostanziata dalle qualità dell’antieconomico consumo comune e non ha consentito, né tanto meno ha sollecitato e preteso, il nascere di un nuovo ordinamento autonomo della città. Si può allora scorgere facilmente, all’interno di quella medesima affermazione della decisività della dimensione economica, anche la sua insufficienza, il suo limite storico, la negatività e l’errore inestricabilmente connessi alla formulazione che il capitalismo ne ha dato; è possibile individuare, insomma, non solo l’insufficienza dello schema tradizionale della città, ma altresì quella del sistema capitalistico.

In effetti, nella crisi dell’ordinamento formale della città, provocata dallo sviluppo capitalistico, si può avvertire, con la più dispiegata evidenza, quale sia il prezzo che l’umanità ha dovuto storicamente pagare per la soluzione fornita dalla borghesia al problema della fuoriuscita del mondo signorile. La soluzione borghese in sé ha comportato, indubbiamente, un prezzo elevatissimo. Le qualità che nell’ordinamento signorile potevano vivere ed esprimersi solo come meta-economia (e che nel concreto si fondavano sulla riduzione esclusiva del servo a lavoro e del signore a libertà, in base allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo) non sono state rivissute -poiché non era per principio possibile - dal borghese in quanto tale, dal funzionario dell’accumulazione capitalistica. Anzi, proprio la soluzione fornita dalla borghesia alla crisi dell’ordinamento signorile ha assolutamente escluso e precluso ogni possibilità, ogni prospettiva di ricondurre, riplasmare e riformulare quei valori nell’ambito di un nuovo concetto di lavoro, di produzione, che potesse esserne il necessario momento economico, e che potesse perciò sostenerli. Essi cosi sono rimasti, necessariamente, degli antieconomici consumi comuni, e come tali, se hanno potuto esser utilizzati strumentalmente dalla classe borghese nella sua lotta contro il signore, sono stati poi messi ai margini, se non puramente e semplicemente liquidati, non appena non sono stati più necessari alla lotta sociale e politica della borghesia.

La dimensione economica ha potuto trionfare, con la borghesia, so1o prevaricando seccamente su ogni altra dimensione dell’operazione umana, e riducendo al tempo stesso sé medesima a mera produzione del sovrappiù. sicché, in definitiva, ogni altro momento, ogni altra dimensione, ogni possibile qualità virtualmente implicita nella natura dell’uomo, o già nella storia manifestatasi e divenuta effettuale (e dunque divenuta valore),è stata essenzialmente negata e soppressa, o immediatamente subordinata alla produzione del sovrappiù. È per questo, appunto, che, nella liberazione dall’insufficienza del tradizionale schema, la città non ha potuto vedere l’inizio di una nuova, più armonica forma; dalla liquidazione del passato essa non è stata sospinta verso una più solida e compiuta autonomia: si è dovuta invece alienare , ha dovuto ordinarsi ad altro da sé. Nella città del capitalismo trionfante l’unico possibile criterio cui ancorarsi per eludere il destino dell’anarchia e del caos, è costituito dalla legge stessa, dall’intrinseca funzionalità della produzione: l’unico ordine possibile è quello che deriva dall’appiattimento della città sul sistema.

6. La socialità della produzione capitalistica: una potenzialità positiva per la città

Le argomentazioni fin qui svolte, se ci hanno consentito di individuare le ragioni storiche e di principio della crisi di ogni autonomo ordinamento formale della città capitalistica, non ci forniscono ancora, tuttavia, una risposta sufficientemente completa ed esplicita all’interrogativo dal quale eravamo partiti. Può apparire addirittura ovvio osservare che la città costituisce una realtà vasta e complessa, si presenta come un intreccio singolarmente ricco e multiforme di fenomeni, di attività, di interessi, di dimensioni, di valori. Di un simile intreccio, di un prodotto così variegato e composito della civiltà dell’uomo, ci siamo limitati, fino a questo punto, ad analizzare solo un aspetto: quello del suo ordinamento formale. In altri termini, e più esattamente, ci siamo fin qui adoperati a esaminare la città del capitalismo dal punto di vista che in modo diretto e immediato ci sembra pertinente a un discorso urbanistico, e cioè appunto, dall’angolo visuale dei criteri che sorressero e ordinarono la forma della città e delle qualità che in essa si espressero.

Tuttavia, se non tentassimo di allargare il cerchio della nostra argomentazione ad altri aspetti, ad altri punti di vista, non potremmo renderci compiutamente conto della reale ed effettiva dimensione della crisi della città capitalistica. Se quest’ultima ha dovuto storicamente scontare l’insufficienza del suo originario ordinamento formale, se insomma la forma della città è stata indubbiamente sconvolta da una crisi profonda e irrimediabile, si può forse per ciò stesso affermare che è la città in quanto tale (e dunque in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue dimensioni, in tutta la complessità del suo intreccio) a esser lacerata dalla crisi? È insomma la città un organismo che, nato agli albori del sistema del sovrappiù come fine, decade e muore irrimediabilmente quando un tale sistema perviene al suo pieno trionfo? Per tentar di fornire almeno un inizio di risposta a un siffatto quesito, dovremo esaminare brevemente il sistema economico che senza dubbio costituisce la base storica della città: il sistema capitalistico.

Nella produzione capitalistica esiste una qualità esplicitamente affermata, e dunque effettuale nel sistema, che tuttavia, rispetto alla forma dell’insediamento urbano, si presenta invece solo come una potenzialità o, meglio, come una condizione necessaria ma non sufficiente. Questa qualità si rivela del tutto parziale nei confronti dell’obiettivo di un pieno e autonomo ordinamento formale della città e perciò, come ora si è detto, inadeguata, ma è comunque una potenzialità positiva. E infatti, mentre è una realtà che determina ormai irreversibilmente l’insediamento urbano entro lo schema dell’urbanesimo, costituisce d’altra parte, e nel tempo medesimo, il possibile inizio, la prima condizione materiale di base, per la costruzione di una città non alienata, di una città ordinata secondo una propria forma autonoma, però non estranea alla dimensione economica né, tanto meno, a questa antitetica: in altre parole, una città vera e propria, una città pienamente umana. Come si è già più volte ricordato e ribadito, il sistema capitalistico è indirizzato, in modo esclusivo, all’obiettivo del continuo e indefinito allargamento del processo produttivo, e dunque alla massima accumulazione, alla massima possibile formazione di un sovrappiù reinvestibile nella produzione medesima. questo, abbiamo definito il sistema capitalistico come il sistema del sovrappiù senza fine.

Partendo da una simile definizione del sistema capitalistico è possibile svolgere due serie distinte di considerazioni. Da un lato, infatti, si può dimostrare che proprio perché il sistema capitalistico assume, quale suo fine esclusivo, la produzione di sovrappiù, proprio perché con esso si esce dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo dell’attività produttiva con il consumo individuale di un consumatore determinato, diviene impossibile conservare o sviluppare le dimensioni qualitative che si erano venute ad affacciare, nella storia della civiltà, nell’ambito della società pre-capitalistica. Lungo il filo di un simile discorso si giunge facilmente a riconoscere l’impossibilità di sopravvivenza, nella città della borghesia vittoriosa, di un qualsivoglia criterio ordinatore della forma urbana storicamente dedotto dalle categorie del mondo pre-capitalistico; si giunge, insomma, a comprendere le ragioni (e al tempo stesso l’inevitabilità) della crisi della forma tradizionale della città. Ma soprattutto per quel che ora ci interessa, dobbiamo trarre, da questa definizione del sistema capitalistico, una seconda conclusione, che non contraddice quanto abbiamo finora argomentato, anzi lo integra e lo completa.

La produzione capitalistica, proprio perché è uscita dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo con il consumo individuale di un consumatore determinato ed è orientata invece all’allargamento metodico e indefinito di sé medesima, acquista fin dall’inizio, e viene via via a sviluppare e consolidare, un proprio decisivo aspetto: essa si afferma sempre più dispiegatamente come una produzione sociale. Il capitale, infatti, la realtà decisiva posta al cuore e al vertice dell’ordinamento economico e sociale affermatosi con il trionfo della classe borghese (la categoria nella quale sinteticamente si concentra e si esprime ogni aspetto della nuova società nata dalle rovine del mondo signorile) è per la sua stessa intrinseca natura - secondo la lucida definizione marxiana – “un prodotto comune”, che “non può essere messo in moto se non dall’attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall’attività comune di tutti i membri della società”; esso è, in definitiva, “una potenza sociale”. Proprio in questa connotazione del sistema capitalistico - nel carattere sociale della produzione capitalistica - risiede quella potenzialità intrinsecamente positiva per l’esistenza e lo sviluppo della forma autonoma della città, di cui abbiamo più sopra enunciato la presenza.

Se è vero che è in funzione dell’iniziale affermarsi del sovrappiù come fine, della accumulazione, del capitalismo, che la città ha dovuto e ha potuto sorgere, deve essere vero altresì che da un tale tipo di insediamento, nel quadro del sistema capitalistico, non si può in alcun modo tornare indietro. Ma allora, e appunto per tutto quel che finora s’è detto, si dovrà convenire infine che inerisce strettamente alla città la caratteristica di configurarsi come l’insediamento necessariamente sociale: come l’insediamento, cioè, che si conserva inevitabilmente omogeneo al fondamentale carattere comune, sociale, assunto dalla produzione. Di fatto, quando la città si è liberata dalla crisalide del borgo e, distinguendosi dagli interessi immediati dei produttori del sovrappiù, ha voluto ordinarsi secondo una propria forma autonoma, essa, è vero, ha potuto ricorrere soltanto - come si è visto - alle qualità già presenti nel mondo precapitalistico, ma le ha potute utilizzare solo perché le ha rivissute come consumo comune, sociale dei cittadini; solo perché ha potuto tradurle in termini omogenei, se non ai fini, ai valori, agli interessi della produzione capitalistica, almeno al carattere sociale di quest’ultima.

L’insufficienza del sistema capitalistico (insito nel suo parzializzato esclusivismo), e la parallela e cospirante insufficienza dell’ordinamento formale della città, non hanno consentito di far sopravvivere a lungo l’autonoma forma urbana; l’incontro e l’intreccio dell’una con l’altra insufficienza ha fatto maturare ed esplodere la crisi dello schema urbanistico tradizionale; ma non per questo la potenzialità positiva implicita, per la forma autonoma della città, nel carattere sociale della produzione capitalistica, è venuta a dissolversi e a scomparire. Così, quando la contraddizione di principio tra l’individualismo del mondo borghese e il carattere sociale della produzione capitalistica è venuta a manifestarsi sul terreno della città, e questa ha visto via via emarginate e sconfitte - per la loro intrinseca fragilità - le qualità espresse nell’antieconomico consumo comune dei cittadini, la città è indubbiamente entrata in una crisi profonda, come qualsiasi realtà che smarrisca la possibilità di conformarsi secondo leggi peculiari e proprie; e tuttavia, non solo essa non si è dissolta nella diaspora dell’insediamento sparso, ma non si è neppure mai ridotta a una “Babilonia” , a un mero coacervo di residenze, a un insediamento concentrato del tutto generico e casuale.

L’insediamento urbano, infatti, benché si sia certamente alienato, benché abbia perduto cioè l’autonomia della propria forma, non ha smarrito tuttavia, nel quadro storico del capitalismo borghese, qualsiasi forma; il suo alienarsi insomma non si è manifestato come pura anarchia, come invincibile riduzione al disordine ed al caos, e si è concretato invece nell’ordinarsi secondo una legge estranea a sé medesima e alla propria specifica dimensione: secondo la legge della produzione capitalistica. In tal modo, se la città è venuta indubbiamente a configurarsi come una mera “sovrastruttura” del sistema capitalistico, essa ha finito però per ordinarsi secondo una realtà nella quale è presente una qualità, una caratteristica (la socialità della produzione), che non costituisce soltanto la necessaria ragione dell’esistenza materiale dell’organismo urbano e la garanzia della sua sopravvivenza, ma può rappresentare anche - se trasformata e rivissuta fuori dall’esclusivismo della dimensione produttiva del capitalismo - la base e l’inizio per un ordinamento sufficiente, per la fondazione di una forma autonoma e piena della città. È appunto perché ha potuto trovare, nel carattere sociale della produzione capitalistica, un suo criterio ordinatore (e anzi l’unico storicamente consentito, dal momento che si erano venute a dissolvere le qualità dell’antieconomico consumo comune), che la città non è morta. Essa è rimasta indubbiamente un insediamento sociale: è rimasta, insomma, una reale città, e come tale ha potuto, se non svilupparsi qualitativamente, certo sopravvivere ed estendersi in misura via via più rilevante.

Di fronte alla rottura dell’equilibrio espresso dalla forma classica e medioevale della città, la nascente cultura urbanistica moderna (così come veniva appunto delineandosi, nei suoi interessi pratici e nelle sue motivazioni ideali, agli albori del secolo del trionfo pieno del capitalismo), ha avanzato due posizioni distinte e anzi, in linea di principio, addirittura antitetiche. La prima di tali posizioni è fondata sul convincimento (per adoperare i termini di uno dei più noti studiosi italiani dell’argomento, il Benevolo) “di dover ricominciare da capo, contrapponendo alla città esistente nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, ed è sostenuta dai “cosiddetti utopisti - Owen, Saint Simon, Fourier, Cabet, Godin, - che tuttavia non si limitano a descrivere la loro città ideale, come Moro, Campanella e Bacone, ma s’impegnano a metterla in pratica”. La seconda si concreta nel “tentativo di risolvere separatamente i singoli problemi e di rimediare ai singoli inconvenienti, senza tener conto delle loro connessioni e senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino” ; ad essa possono ricondursi “gli specialisti e i funzionari che introducono nella città i nuovi regolamenti igienici e i nuovi impianti e [... ] danno inizio, di fatto, alla moderna legislazione urbanistica”.

Gli utopisti che sono a cavallo tra settecento e ottocento sono certamente - come giustamente sottolinea il Benevolo - per così dire, di un’altra specie, rispetto ai Moro, Campanella, Bacone, ed è questo un punto che non ci sembra debba essere trascurato o sottovalutato, poiché consente di cogliere immediatamente il nucleo fondamentale della concezione comune ai fondatoti del socialismo utopistico. Invero, si può senz’altro affermare che l’interesse critico dei pensatori del Rinascimento è volto essenzialmente all’individuazione di quelli che ormai cominciano a configurarsi come i nodi dello sviluppo della civiltà; appunto per questo motivo, nel loro ragionamento e nella loro ricerca, essi si attengono strettamente al terreno della filosofia - e quindi al terreno sul quale indubbiamente quei nodi sembravano poter esser colti e risolti nella loro più profonda e reale essenza -, mentre le loro “utopie”, le loro avveniristiche descrizioni di una Nuova Atlantide odi una Città del Sole o di una Utopia, servono soprattutto per illustrare e colorire, con la tinta immediatamente polemica della contrapposizione al presente, le convinzioni e le tesi che essi andavano formulando con gli strumenti propri al discorso filosofico. In altri termini, e rovesciando il senso dell’affermazione del Benevolo, ci sembra di poter asserire che i Moro, Campanella, Bacone non si sono mai illusi di poter “mettere in pratica” una loro città ideale, proprio perché intuivano la profondità e l’ampiezza della crisi che cominciava allora a discoprirsi; viceversa, quelli che possono sembrare a taluni i loro più efficienti epigoni, si limitavano a tentar di realizzare, hic et nunc, il loro “modello insediativo”.

È fuor di dubbio, infatti, che a sollecitare e a commuovere gli utopisti, a sospingerli verso l’invenzione e la sperimentazione di nuove forme d’insediamento, erano essenzialmente quelle conseguenze che il tumultuoso avvento della produzione capitalistica aveva comportato per le condizioni di vita degli uomini. Gli utopisti vedevano soprattutto, e quasi esclusivamente, lo sradicamento degli antichi costumi e la mancanza di un nuovo ordine, la scomparsa delle idilliache “condizioni di natura” e la devastazione causata dalla “città industriale”, l’enorme sviluppo della tecnologia produttiva e l’asservimento degli uomini al profitto, l’incremento impetuoso dei beni prodotti e il parallelo immiserimento delle masse lavoratrici. Essi coglievano, insomma, gli aspetti più immediatamente disumani, mortificanti e insopportabili, intrinsecamente legati alla tempestosa avanzata di quel complesso e profondo rivolgimento di tutta la tradizione ideologica e culturale, di tutta la vita sociale, politica ed economica dell’Occidente cristiano, che essi avvertivano pressocché esclusivamente nei termini epidermici e descrittivi della “rivoluzione industriale”. Appunto per questo, se gli utopisti del XIX secolo certamente avvertivano - per quel che più direttamente ci interessa - tutto il disordine, tutta la negatività che il capitalismo aveva comportato sul piano della città, essi non riuscivano tuttavia a vedere, dietro il fumo maleodorante delle Coketowns, sotto l’esplosione urbana delle micidiali concentrazioni dei tuguri e degli “alveari” nei quali trovava ricovero la popolazione operaia, né l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico, né la potenzialità positiva implicita, per 1a città, nel carattere sociale del capitale. Essi non comprendevano che l’avvento della produzione capitalistica e della classe borghese aveva costituito l’unica soluzione possibile, nelle condizioni storicamente date, alla crisi del mondo signorile. E per ciò stesso, mentre il carattere astrattamente utopistico della loro costruzione veniva continuamente ribadito e riconfermato, si scopriva via via il limite reazionario della loro posizione.

II numero rigidamente limitato e concluso degli abitanti dei “parallelogrammi” oweniani o dei falansteri minuziosamente descritti da Fourier; il ritorno a forme arcaiche di sfruttamento del suolo agrario e il ripristino di un’economia basata essenzialmente sulla produzione agricola; la Isostanziale autosufficienza delle unità sociali e urbanistiche; e insomma tutte queste ricorrenti caratteristiche delle utopie ottocentesche non sono forse il segno evidente di un rifiuto acritico e immediato di ogni novità implicita nel capitalismo? Non costituiscono esse, cioè, l’indice eloquente di una inarrestabile tendenza a tornare verso il passato, per ritrovare, in un sostanziale ripiegamento verso l’autoconsumo, il paradiso perduto di un ordine organico, di una dimensione limitata e dunque ancora vicina alle condizioni originarie dell’uomo, nel mantenimento di un contatto immediato con la natura elaborata sì e incivilita, ma non artificialmente deformata dal lavoro umano ?

Se lo sguardo è volto all’indietro, se il presente è vissuto come secca e irrimediabile negatività (e come tale è coerentemente rifiutato nella sua interezza), non è certamente consentito di cogliere, nel presente, ciò che in esso si viene manifestando come positiva potenzialità. Gli utopisti non possono dunque certamente individuare, nel carattere sociale della produzione capitalistica, l’oggettivo e progressivo portato dello sviluppo storico, né, tanto meno, essi possono cogliere in un simile carattere la condizione materiale di base che giustifica e legittima la sopravvivenza della città, fornendo un possibile punto d’avvio per ritrovare un ordine autonomo, una configurazione sufficiente, una forma peculiare e giusta.

Sicché, in definitiva, l’utopismo dei primo Ottocento non può risolvere la crisi della città del capitalismo, non può fare i conti con quest’ultima: esso deve proporsi di liquidarla. In effetti, non soltanto “le soluzioni spaziali” che gli utopisti “propongono si collocano fuori dalle città”, non soltanto i loro insediamenti “ammettono un ulteriore sviluppo solo nella ripetizione in estensione dell’organismo elementare”, quantitativamente delimitato e conchiuso ed economicamente autosufficiente, ma essi giungono addirittura, come Filippo Buonarroti, a profetare esplicitamente la scomparsa della città, o, come Fourier, a pianificarne razionalisticamente la fine.

2. La validità di un’intuizione degli utopisti: il consumo comune acquista una dimensione nuova.

L’indubbio interesse che la posizione utopistica ancor oggi riveste non deriva soltanto dalla carica di denuncia e di protesta che è alla sua radice; se così fosse, se l’unico frutto che gli Owen e i Fourier, i Godin e i Saint Simon hanno saputo concretamente dedurre dalla critica alle condizioni della città capitalistica, fosse il frutto disperato della rinuncia al presente, le loro vicende potrebbero essere tranquillamente abbandonate nelle mani degli archivisti, per nutrire le accademiche gioie dei filologi. Sta di fatto che l’interesse dimostrato in questi ultimi anni per la posizione utopistica da alcuni dei più attenti studiosi italiani di problemi urbanistici, non ci sembra affatto casuale e gratuito, né riteniamo privo di significato il fatto che tale interesse è dimostrato soprattutto da quanti, con maggiore impegno, si adoperano nella ricerca di un esatto rapporto tra i problemi urbanistici della nuova città e i suoi necessari contenuti civili. In realtà, negli utopisti v’è indubbiamente l’intuizione di un aspetto centrale e decisivo, che costituisce la base dell’ordinamento formale della città e dunque - come potremo vedere più diffusamente nel seguito della nostra ricerca - il fondamentale punto di partenza per giungere a una città sufficiente.

In quanti si misurarono con le disumane insufficienze e con le contraddizioni mortificanti e oppressive della città della borghesia trionfante, in quanti tentarono di opporre, alla “crisi della città industriale”, quelle “nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, è sempre presente un’attenzione minuziosa, una cura amorevole, una instancabile premura per l’organizzazione sociale, comune, collettiva, della soddisfazione dei bisogni degli uomini. Gli edifici e i locali per l’istruzione e l’educazione comune di tutti i bambini e i giovani; i luoghi per lo svolgersi comune delle attività religiose, civili, culturali, ricreative; le cucine pubbliche e i refettori comuni per i membri della collettività: questi sono, nelle proposte e negli schemi, come nei tentativi di realizzazione, i nuclei ordinatori degli insediamenti utopistici.

Non solo: ma la stessa residenza assume, nelle idee, nei programmi e nelle esperienze degli utopisti, un evidente carattere comune. E infatti, anche quando l’esigenza di un concreto ancoraggio nella realtà pone un freno alle sbrigliate avventure della fantasia, e la famiglia è riconosciuta e garantita come un ineliminabile istituto della vita sociale; anche quando, di conseguenza, l’alloggio familiare conserva la sua natura di cellula elementare dell’insediamento, gli alloggi sono strettamente integrati al complesso dei servizi comuni, sono concepiti come cellule private di un insieme comune e costituiscono in definitiva essi medesimi, nel loro complesso, un servizio comune. Nell’insediamento utopistico anche la famiglia, in altri termini, vive e consuma il momento della sua realtà privata nell’ambito e con il sostegno di una comune organizzazione.

Si può affermare dunque che esiste indubbiamente un evidente punto di contatto tra l’impostazione utopistica e quella che aveva presieduto al tradizionale schema urbanistico della città della borghesia nascente: nell’un caso come nell’altro, sono infatti le esigenze e gli interessi della comunità, sono i consumicomuni degli abitanti a costituire il nucleo ordinatore dell’insediamento. Ma ci sembra che nel caso degli utopisti vi sia, rispetto all’impostazione tradizionale, l’iniziale ma esplicito manifestarsi di una svolta, di una positiva e feconda novità.

Come abbiamo visto, nella prima fase della città, in tanto esisteva e si manifestava una dimensione comunitaria, in quanto venivano concretamente vissuti e fruiti come consumo comune quei valori d’uso, quelle qualità che, già presenti nel mondo signorile, avevano potuto sussistere (in quest’ultimo) solo entro la sfera meta-economica della libera attività del signore e che, nella città della borghesia nascente, mentre restavano ancora sostanzialmente estranei alla dimensione dell’economia, potevano essere assunti e avvertiti soltanto come una spesa. Appunto per questo, quando abbiamo dovuto definire quei valori e li abbiamo definiti consumi comuni, abbiamo dovuto sottolineare però che solo allusivamente e impropriamente potevamo adoperare il termine “consumo”, e difatti gli conferivamo un significato che costituisce certamente un’estrapolazione del senso che esso ha finora avuto nello stretto contesto del discorso economico (al quale la categoria del consumo legittimamente appartiene).

In modo radicalmente diverso si manifestavano invece le esigenze e gli interessi della comunità nel quadro della concezione utopistica. La caratteristica fondamentale dell’impostazione degli utopisti consiste nel fatto che le esigenze e gli interessi classici della comunità investono ormai, decisivamente ed essenzialmente, la sfera dei consumi: di quei consumi, cioè, che sono realmente e propriamente tali nell’ambito del discorso economico così come si è storicamente determinato. E in realtà, sono la residenza, l’alimentazione, l’educazione (da un lato, quindi, due decisivi aspetti della sussistenza, e dall’altro l’aspetto della formazione delle capacità professionali dei produttori) a divenire la materia e la base della vita comunitaria: sono gli stessi valori d’uso di cui si sostanzia il consumo produttivo che vengono ormai, nell’insediamento proposto dagli utopisti, vissuti e fruiti in modo comune.

Da una simile svolta discendono allora due conseguenze di singolare importanza, attraverso le quali la posizione utopistica definisce e conclude il proprio discorso. Da un lato, la comunità è divenuta arbitra del proprio consumo di sussistenza e di riproduzione. Essa lo ha sottratto cioè alla legge esclusiva, al dominio del processo accumulativo, e può estenderlo, allargarlo a proprio piacimento, o meglio in tutta quella misura che sia consentita dall’esigenza di mantenere la possibilità di un “impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”. E naturalmente viene a cadere ogni distinzione, o almeno ogni separazione e contrapposizione, tra consumo produttivo e improduttivo.

Dall’altro lato, continua certamente a sussistere, anche nella città, anche nei chiusi modelli societari degli utopisti, l’esigenza di vivere e di assumere quei valori d’uso, propriamente e massimamente umani, di cui, come si è visto, già si alimentava la libera e meta-economica attività del signore; ma siffatti valori d’uso, adesso, possono essere regolati e commisurati dalla comunità in stretta proporzione alle proprie possibilità produttive, alle proprie risorse, possono essere riportati insomma, nel modo più rigoroso e diretto, alle leggi del lavoro. E la spesa per tali consumi, se rimane pur sempre una spesa, viene però stabilita, determinata e ripartita; da tutti, su tutti, e nell’interesse di tutti. Cade così evidentemente, nella “nuova armonia” dell’insediamento utopistico, ogni prevaricazione borghese della produzione, come ogni prevaricazione signorile della libertà dell’uomo sul lavoro.

Si può senz’altro affermare, pertanto, che la “città ideale” si risolve, in definitiva, nel grande tentativo di colmare quella frattura fra i valori, il momento della comunità e la sfera dell’economia, che era stata la causa della crisi dell’autonomo ordinamento formale delle città. Solo che la nostra esposizione peccherebbe di unilateralità e potrebbe facilmente essere accusata di acritica benevolenza nei confronti degli uomini dell’utopia, se trascurassimo di precisare e di porre in evidenza i limiti che condizionano tutto l’insieme della loro posizione, e quindi anche il loro tentativo d’inquadrare l’intera sfera economica, e particolarmente la dimensione del consumo, sotto il segno comunitario.

3. Le ragioni del fallimento storico degli utopisti

I filologi e gli studiosi, siano essi critici demolitori e avversari, o sostenitori ammirati della tesi e delle esperienze utopistiche, paiono tutti concordare su un punto. Quale che sia il “valore permanente di stimolo” del loro impulso rinnovatore, quale che sia la carica di “generosità e di simpatia umana” che sprigiona dalle loro città ideali, quale che sia l’intrinseca validità del “gran serbatoio di idee” II che essi hanno raccolto, certo è che gli Owen, i Fourier, i Godin, sono stati impietosamente consegnati, dalla storia, nel ghetto dell’utopia. Invero, è assai facile e immediato osservare che le loro intuizioni non si sono mai organizzate in una visione complessiva e realistica del mondo cui pur dovevano applicarsi, cioè non sono mai state sorrette da un disegno di trasformazione della società e della città storicamente date. Basta infatti limitarsi a descrivere la posizione degli utopisti, per rendersi conto che essi non hanno saputo mai cogliere pienamente, nel sistema e nella città, i nodi decisivi da sciogliere, i fulcri su cui far leva per modificare l’assetto dell’uno e dell’altra. La nuda cronaca dei fatti, in altri termini, è già sufficiente a mostrare come le indubbie anticipazioni che punteggiano la loro storia siano rimaste congelate nello schematismo minuzioso, e in definitiva un po’ folle, dei “modelli” elementari, delle astratte “città ideali”, o, al più, siano rimaste immiserite nel ritaglio solo fittiziamente concreto di sporadici insediamenti, irripetibili e chiusi in sé medesimi, e per ciò effimeri e caduchi.

Ma tutto ciò ammesso e registrato, resta ancora da domandarsi - se veramente ci si vuol dar ragione dei limiti della posizione utopistica - perché essi possano essere descritti in un modo siffatto, perché essi abbiano dunque subito il destino dell’utopia.

Per conto nostro, possiamo adesso cercare di fornire una risposta, che ci sembra esauriente, a un simile interrogativo. Dal momento che non vedevano la inevitabilità storica del capitalismo, gli utopisti non solo non scorgevano, entro quest’ultimo, la peculiare potenzialità positiva rappresentata, per la città, dal carattere sociale della produzione, ma divenivano poi del tutto incapaci di comprendere realmente il capitalismo e di analizzarlo nella sua vera e profonda natura, e quindi, per ciò stesso, di criticarlo in modo sufficiente; di conseguenza, data la presenza massiccia e l’inevitabile affermazione del sistema capitalistico-borghese, essi non potevano far altro che patirlo, accettandolo nella sostanza e, al tempo stesso, ribellandovisi moralisticamente e astrattamente. È allora proprio per questi aspetti più intrinsecamente negativi, ma decisivi e determinanti, della loro posizione, che gli utopisti dovevano rivelare la loro incapacità di sviluppare pienamente e di rendere effettuali le loro stesse intuizioni più valide. Il loro limite e il loro errore sono immediatamente individuabili, a ben vedere, in quel medesimo processo logico attraverso il quale essi giungono alle positive e feconde intuizioni che abbiamo più sopra sottolineato.

Si rifletta, ad esempio, sul modo e sui motivi per i quali un Owen perveniva ad affermare la necessità di ordinare l’insediamento nella maniera che si è descritta, superando cioè la cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Il suo punto di partenza non è costituito dal tentativo di uscire, in modo criticamente adeguato, dall’esclusivismo produttivo del sistema capitalistico; egli non vede che, per superare ‘le contraddizioni alle quali pur si ribellava, occorreva criticare alle radici il concetto di produzione, di economia, di lavoro, che è alla base di quel sistema e della stessa ideologia borghese. Egli è invece preoccupato, sconcertato e indignato, dalle mere conseguenze del vizio intrinseco (che a lui rimane ignoto) del capitalismo, e si propone perciò essenzialmente di costruire un sistema nel quale, pur rimanendo inalterate le condizioni di base esistenti, vengano però superate e risolte, o meglio eliminate, tutte le loro più urtanti manifestazioni. Così, nel concreto, ciò che soprattutto lo sollecita è la considerazione che “la causa immediata della disoccupazione attuale va [...] cercata in un eccesso di produzione di ricchezze d’ogni genere, che tutti i mercati del mondo non bastano ad assorbire”. E poiché per lui è obiettivo essenziale - e anzi, come già si è detto, norma di base della società – “trovare un impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”, poiché insomma tra i suoi scopi sta quello di evitare le “crisi di sottoconsumo” cui il sistema sembrava inevitabilmente condannato, non vede altra uscita se non quella di creare “un mercato interno all’apparato produttivo, aumentando la retribuzione dei lavoratori per renderli consumatori dei beni prodotti, e non solo strumenti della produzione”.

Owen, in definitiva, se è sospinto a dedicare la sua cura e la sua attenzione al consumo dei produttori, a estenderlo e a organizzarlo quindi con maggiore ampiezza e secondo una “più umana giustizia”, e se in questo suo tentativo giunge poi ad intuire delle novità di notevole rilevanza, è mosso però sostanzialmente dall’esigenza di dar fiato al sistema produttivo esistente, al quale non contrappone nessuna reale alternativa.

È interessante osservare, a questo proposito, il singolare parallelismo tra la sua posizione e quella di T. R. Malthus. Come quest’ultimo, Owen configura il destino del capitalismo in termini di “crisi di sottoconsumo”, e come Malthus, egli non vede altra soluzione se non quella di allargare la domanda dei consumi, lasciando immutata la struttura produttiva. Certo, a differenza di Malthus, egli non vede la soluzione nella tesi, oltretutto politicamente reazionaria, della indispensabilità di una “classe improduttiva”, la cui funzione consisteva appunto - per l’autore del Saggio sulla popolazione - nel consumare senza produrre per garantire uno sbocco sufficiente all’eccedenza produttiva. Egli, anzi, rovescia decisamente la tesi malthusiana, nel senso che, precorrendo in certo qual modo le moderne posizioni dell’”economia del benessere”, sostiene la tesi (socialmente, politicamente ed economicamente opposta) dell’incremento dei consumi dei produttori. Ed è proprio attraverso il rovesciamento della posizione malthusiana che Owen giunge poi alla conclusione della quale abbiamo più volte sottolineato la positività: a riconoscere cioè, come decisivo per l’insediamento umano, il superamento della cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Ma in ogni caso resta pur sempre il fatto che il suo limite, mutatis mutandis, è il medesimo di Malthus: è il limite, cioè, peculiare a tutti coloro i quali si propongono di sottrarre il sistema alle sue contraddizioni, senza criticarne le radici, e anzi implicitamente accettandole.

4. Dissoluzione della posizione utopistica

Il limite di principio della posizione utopistica spiega le ragioni per cui l’utopismo ha perduto, nel corso del processo storico, la sua stessa autonomia ideale; le ragioni, cioè, per cui si può affermare che non esiste più una posizione culturale che si riallacci direttamente e immediatamente alle tesi, alle concezioni, agli ideali dell’utopismo. In realtà, nel concreto della storia, a mano a mano che il capitalismo si è venuto ad affermare in modo sempre più palese e massiccio, irreversibile e irrefrenabile, a mano a mano che si è venuta a rivelare inconfutabile l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico borghese, la posizione utopistica si è parallelamente avviata verso la propria dissoluzione, lungo due strade diverse, e anzi opposte e divergenti.

Da un lato, infatti, nella misura in cui ha voluto conservare la carica di ribellione radicale ai necessari modi di sviluppo del sistema; nella misura in cui, in nome dell’antica protesta contro le negatività del capitalismo, ha continuato a volersi opporre a quest’ultimo, la posizione utopistica si è venuta sempre di più a scontrare frontalmente con la dura lex sed lex dell’affermazione capitalistico-borghese. Troppe disillusioni, troppi fallimenti, troppi tentativi vanifìcati dalla dura realtà delle cose si dovevano ormai segnare sul bilancio dell’esperienza - e di una esperienza circoscritta oltretutto nel breve cerchio di poche decine di “colonie” -, perché si potesse ancora rimanere ciechi al cospetto dell’evidenza: il mondo, il potere, l’economia, gli uomini medesimi, tutto era nelle mani del “sistema industriale”. Diveniva allora naturale - per quanti almeno, nell’ambito della posizione utopistica, non volevano dimettere l’abito della protesta e della ribellione - cercar la rivalsa nella profezia apocalittica di una crisi catastrofica alla quale il sistema avrebbe dovuto giungere, in una prospettiva ravvicinata, per virtù delle proprie leggi di sviluppo, e alla quale restavano affidate in definitiva tutte le carte e le possibilità di una liberazione della città e dell’uomo dai “mali della rivoluzione industriale”.

Ma in tal modo la posizione utopistica finiva per perdere ogni sua autonomia. Essa difatti, poiché a suo modo ammetteva ormai la fine del sistema, veniva necessariamente a confluire in quella posizione - la proletaria e marxista - nella quale la critica al sistema capitalistico aveva indubbiamente raggiunto una coerenza ed una robustezza che la rendeva di gran lunga superiore a quella che poteva venir formulata dall’utopismo. E allora, inevitabilmente, o l’utopismo era riassorbito dal marxismo e in esso si annullava, o, seppure voleva nutrirsi ad altri ideali, riferirsi ad altri principi, interpretare altre esigenze e altri interessi, finiva comunque per subire l’egemonia della posizione proletaria.

Se viceversa, dall’altro lato, si abbandonava l’empito della carica ribellistica per cercar di sottrarre, hic et nunc, la maggior parte possibile degli abitanti della città capitalistica almeno ad alcune delle più insopportabili conseguenze delle “disfunzioni” del sistema; se insomma ci si voleva mantener fedeli al vecchio imperativo utopistico dell’impegno immediato, e ci si proponeva quindi di cercar di garantire una qualche soddisfazione alle esigenze comuni dei cittadini, non si poteva tuttavia, anche in questo caso, far a meno di riconoscere quell’inevitabilità dell’affermazione capitalistica, che si era ormai rivelata nei fatti. Ma si doveva allora, necessariamente, rinunciare alla lotta contro l’insieme delle “conseguenze negative del sistema industrialistico” ; si doveva cioè coltivar l’illusione che errori e insufficienze si annidassero soltanto in questo o in quell’altro dei suoi aspetti marginali, suscettibili come tali d’esser corretti senza perciò dover porre il problema, in qualche modo globale, degli “eccessi dell’industrialismo”. Così, nel concreto, si finiva in sostanza per rinchiudersi entro le maglie del sistema, limitandosi alla difesa di quel tanto di consumo comune che era via via consentito dallo sviluppo e dalla logica del capitalismo.

Certo, anche un simile tentativo, oltre a costituire un’evidente abdicazione dalle originarie impostazioni dell’utopismo, sarebbe stato senza dubbio condannato al fallimento, se le leggi del sistema si fossero manifestate nella pienezza del loro rigore; in tal caso, infatti, nessun consumo sarebbe stato consentito se non quello strettamente produttivo e dunque, per sua propria essenza, necessariamente non comunitario. Ma sta di fatto che (come vedremo meglio in seguito) già sul finire del secolo scorso la società capitalistico-borghese si era venuta ad allontanare in modo considerevole dalla rigorosa logica del suo modello. Lo squilibrio di fondo tra potenzialità produttiva e capacità di consumo non era più soltanto un’ipotesi di questo o di quel “teorizzatore”: cominciava ormai a configurarsi come una realtà avvertibile nelle cose, alla quale si doveva tentare di por riparo anche ampliando, su scala di massa, le occasioni di consumo, per garantire in tal modo alla produzione sbocchi più larghi di quelli compatibili con la stretta logica capitalistica.

Ecco dunque perché le rivendicazioni degli epigoni degli utopisti, nella misura in cui venivano depurate dalla loro carica di ribellione al sistema, non solo potevano venir sopportate da quest’ultimo, ma cominciavano a divenire addirittura necessarie alla sua sopravvivenza: anche se, evidentemente, il grado della loro sopportabilità (e della loro utilità) era via via direttamente correlato al grado di maturità raggiunto dal sistema capitalistico.

Possiamo dunque concludere che l’utopismo, nel momento in cui rinuncia alla tensione protestataria per impegnarsi invece esclusivamente nel compito di correggere gradualmente questa o quella deficienza del sistema capitalistico-borghese, non solo si subordina a quest’ultimo, ma finisce poi per servirne il processo evolutivo, accelerandone la maturazione. Ed è allora evidente che, lungo una simile direzione, la posizione utopistica assume tutte le caratteristiche peculiari al riformismo; essa perde perciò ogni speranza di costruire la “città del futuro”, e si riduce a un mero strumento per l’organizzazione, nella città, di maggiori occasioni di consumo.

5. I funzionalisti: il braccio urbanistico”del sistema borghese

Il trionfo storico del capitalismo condanna dunque la posizione utopistica a disperdersi lungo due direzioni antitetiche: a subordinarsi di fatto all’ideologia e alla prassi della rivoluzione proletaria, oppure a stemperarsi nella pratica del riformismo. Dai proudhoniani fino ad Ebenezer Howard e ai più recenti propugnatori dell’ideologia comunitaria, la storia dell’urbanistica è intessuta, nell’ultimo secolo, da mille episodi che testimoniano come la seconda scelta (la riformistica) sia stata quella che più vistosamente si è manifestata e che ha potuto condurre, ma sul solo terreno immediato dell’azione empirica, ai successi più numerosi ed evidenti. In realtà, la scelta riformistica, se portava a smarrire ogni possibilità di misurarsi con le cause effettive della crisi cui si voleva porre riparo, consentiva almeno di conservare un qualche contatto immediato, diretto, quasi fisicamente avvertibile, con le più urgenti e quotidiane esigenze degli uomini. Ma lungo una simile direzione l’utopismo finiva per incontrare - fino a dissolversi praticamente in essa - la seconda delle posizioni cui abbiamo più sopra accennato: quella degli specialisti, dei funzionari, di quanti tentano “di risolvere i singoli problemi [...] senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino”; insomma, la posizione di quelli che sempre più si manifesteranno come i concreti e fattivi operatori urbanistici. È appunto su questa seconda posizione che vogliamo ora brevemente soffermarci.

Quali che fossero le motivazioni ideali dalle quali muovevano, quali che fossero gli impulsi da cui erano sollecitati a intervenire, certo è che gli uomini che si adoperavano nel tentativo di correggere, a una a una, le mille forme in cui si esprimeva e si rispecchiava l’insufficienza della città capitalistica, potevano raggiungere un obiettivo soltanto: l’obiettivo di rendere urbanisticamente più efficiente e razionale l’insediamento umano, di conferirgli insomma una funzionalità. Tuttavia, qual’era la legge, il principio, il criterio fondamentale in funzione del quale si volevano ordinare, razionalmente ed efficientemente, i molteplici momenti e aspetti dell’organismo urbano? Invero, una posizione meramente funzionalistica non ha mai - non può mai avere - in sé medesima la propria ragione; essa è definita, può divenire operante, solo in relazione a un fine che è, per principio, esterno ad essa. In realtà, poiché la posizione di cui ci stiamo ora occupando è appunto caratterizzata non solo dall’assenza di una critica globale del sistema economico-sociale esistente, ma, anzi, dalla convinzione di una sua generale positività, poiché nel quadro di tale posizione si considera addirittura il sistema capitalistico-borghese come l’unico possibile, e poiché infine, proprio per tutto questo, si ritiene che nell’ambito di un siffatto sistema (e sia pure con le necessarie “correzioni”) resti pur sempre possibile sanare singolarmente quei mali che in esso indubbiamente si presentano, ecco che, inevitabilmente, si giunge per ciò stesso ad accettare e ad assumere, come proprio fine, quello peculiare al sistema medesimo.

Si deve allora convenire su di un punto fondamentale. Gli specialisti e i funzionari che si affannano a riportare ordine nei vari settori della città dell’Ottocento, gli uomini che propongono nuove soluzioni .per i servizi tecnici e la viabilità, che iniziano la prassi della regolamentazione edilizia e gettano le basi della moderna legislazione urbanistica - i nuovi tecnici dell’urbanistica - possono senza dubbio raggiungere il risultato di ridurre al massimo le diseconomie e le incongruenze che vengono via via a manifestarsi nella città, per l’assenza di una sua forma autonoma. Essi, cioè, possono certamente rendere la città, in questo o in quell’altro suo aspetto, sempre più rispondente alla funzione che deve assolvere nel quadro del sistema capitalistico, e possono anzi continuamente impedire che l’insediamento urbano precipiti definitivamente nel disordine, per ricondurlo invece, volta per volta, entro quell’ordine, quella razionalità, quell’efficienza, che sono indispensabili al corretto funzionamento di una città a misura del processo produttivo capitalistico. Essi possono operare come strumenti tecnici per il continuo ripristino delle condizioni che fanno della città l’insediamento tendenzialmente omogeneo al rigore della produzione capitalistica: poiché questo, e non altro, è il compito che il sistema ha loro assegnato.

Quella materiale e generica capacità ordinatrice che la produzione capitalistica - come più sopra si è detto - ha potuto rivelare nei confronti della città, e grazie alla quale si è potuto sottrarre quest’ultima alla prospettiva cui era condannata dalla perdita della propria forma autonoma, ha avuto insomma nei funzionalisti i suoi più organici intrepreti. Ma è allora chiaro che costoro, mentre si affannano a rincorrere e a risolvere, uno per uno, gli innumerevoli problemi che via via scaturiscono nel processo di crescita dell’organismo urbano e di sviluppo del sistema, non possono però mai raggiungere la soluzione del problema della città. Così, la città che essi costruiscono (o, più esattamente, la città che essi volta per volta aggiustano e adeguano, con successivi ritagli e ricuciture) è una città sempre più appiattita sul momento produttivo; e anzi, a mano a mano che essi riescono a ricondurre entro l’ordine funzionale del sistema, singole parti e zone e settori della città, questa viene per ciò stesso ribadita nella sua condizione alienata: poiché l’ordine entro cui viene regolata, la forma che le viene impressa, non costituiscono l’espressione autonoma delle sue proprie leggi, ma sono direttamente dettati e imposti dalle leggi della produzione.

6. Impotenza del funzionalismo

Prima di concludere il discorso sulla posizione funzionalista, è necessario però rispondere ancora a un interrogativo. Se tale posizione ha effettivamente costituito l’espressione piena e coerente del sistema capitalistico, se il sistema ha dunque riconosciuto negli uomini del funzionamento (esplicitamente o di fatto) il suo organico e conseguente braccio urbanistico, ciò significa, forse, che nella città del capitalismo trionfante (o in quella del capitalismo già maturo e prossimo all’opulenza) è possibile raggiungere quella pienezza di rigore, d’ordine, d’efficienza, che sembrerebbe dovere costituire per principio l’obiettivo del funzionalismo medesimo? E se a una simile domanda si deve poi dare una risposta negativa, qual’è dunque la ragione di ciò, qual’è insomma il motivo per cui il funzionalismo non riesce a dominare e a regolare interamente la città capitalistica?

La realtà concreta dei fatti già fornisce, nella sua immediatezza, una risposta univoca alla prima delle questioni che abbiamo ora formulato; poiché i fatti, fuor d’ogni dubbio, sono quelli di una borghesia che, quand’anche riesce a determinare in alcune città (e il caso più tipico ed esemplare è la Parigi di Haussmann) una “struttura a grandi maglie”, che rivela caratteristiche di funzionalità e d’efficienza, risolve poi l’insieme del tessuto urbano “a brani” a pezzi, con una serie d’interventi dispersi, la cui sostanziale casualità manifesta proprio l’incapacità di raggiungere compiutamente e in modo generalizzato -persino in quelle città nelle quali il funzionalismo ha concentrato i suoi sforzi - l’ordine e l’efficienza peculiari alle leggi della produzione.

Ma le cose, la nuda realtà dei fatti, se possono mostrarci quel ch’è stato e quel che non è stato, se possono insomma farci vedere e quasi toccar con mano la limitata incidenza che storicamente ha avuto, sulla città capitalistico..borghese, la posizione funzionalista, e se possono dunque fornire una sufficiente risposta al nostro primo interrogativo, non sono poi ovviamente capaci di far comprendere le ragioni per cui ciò è dovuto accadere.

Per cercar d’individuare tali ragioni, osserveremo in primo luogo che nessun sistema economico-sociale, sino a oggi, si è mai storicamente realizzato nella sua rigorosa pienezza. In particolare poi, come abbiamo già marginalmente rilevato, la classe borghese non avrebbe mai potuto pervenire a confermare a sua immagine e somiglianza l’intera società; e di fatto, nel concreto storico, ha potuto affermare la propria egemonia solo pagando il prezzo di sostanziali compromessi con le realtà politiche, economiche e sociali a essa preesistenti o a essa estranee: in definitiva, le è stato evidentemente impossibile estendere all’intero edificio sociale le rigorose leggi della produzione capitalistica.

Le conseguenze di questa vera e propria incapacità della borghesia sono, nell’insediamento umano, abbastanza palesi, e consentono di vedere con sufficiente chiarezza come l’opera dei funzionalisti, appunto per quel motivo, fosse condannata a rimaner circoscritta entro l’ambito di quelle porzioni del tessuto sociale e territoriale nelle quali la rivoluzione borghese aveva potuto agire più a fondo e più dispiegatamente. Così, mentre (a causa del permanere dei modi di produzione precapitalistici nella quasi totalità del settore agrario) l’antico equilibrio tra borgo e contado si arrovesciava nella contraddizione tra città e campagna, e impediva dunque che tutta la residenza dell’uomo divenisse città; mentre i numerosi insediamenti urbani nei quali la produzione industriale conseguiva uno sviluppo limitato, o addirittura nullo, restavano congelati nelle forme che avevano assunto durante l’età medievale; mentre infine il compromesso tra profitto e rendita cominciava a porre delle pesanti remore alla funzionalità delle sistemazioni urbanistiche negli stessi centri in rapida espansione, accadeva, in definitiva, che fossero quasi esclusivamente le maggiori città - e spesso solo le capitali - a permettere e a utilizzare l’opera dei tecnici funzionalisti.

In secondo luogo, in quelle stesse città alle quali la borghesia riesce a imprimere più efficacemente il suo volto (e ciò accade negli Stati e nelle regioni e nei centri in cui la classe capitalistica giunge ad affermare in modo più dispiegato le leggi della “produzione sociale”), l’insediamento non è reso ugualmente funzionale per tutti i produttori, e dunque in tutte le sue parti. I produttori, infatti, sono divisi e contrapposti in proletari e proprietari; e poiché solo questi ultimi possono liberamente garantirsi dei liberi consumi, la città del capitalismo deve necessariamente ordinarsi, in modo tendenzialmente esclusivo, al servizio dei consumi dei borghesi, dei proprietari, dei non controllati e non controllabili funzionari dell’accumulazione: al servizio, dunque, di una soltanto delle due classi, quella dominante anche se numericamente più esigua.

Ecco dunque perché, come si rileva in numerosi esempi, mentre il rapporto tra i quartieri borghesi e le zone della produzione e dello scambio diventa il fulcro funzionale della città capitalistica, i quartieri della residenza operaia (negli antichi rioni dei “centri storici” o nelle caotiche espansioni periferiche) vengono abbandonati a se stessi; ecco perché nasce l’idea - e si afferma la prassi - di una “città centrata attorno a taluni percorsi (assi stradali, linee di traffico e d’affari), che condizionano l’intelaiatura dell’intera struttura urbana, lasciando ampie zone grigie”, per cui si può addirittura sostenere che “la città borghese è (si realizza e si esprime) nella continuità stradale, come elemento funzionale e rappresentativo e come garanzia per ignorare le zone subalterne”; ed ecco, infine, perché quei “percorsi divengono uguali - cioè a scacchiera - solo dove l’intervento edilizio è in gran parte o del tutto destinato alla residenza borghese”.

Nel quadro capitalistico-borghese la posizione che abbiamo definito funzionalista incontra dunque un costante ostacolo alla propria pretesa di una piena esplicazione. La sua storia, se da un lato, e nel migliore dei casi, è la storia delle soluzioni meramente tecniche (e perciò sempre parziali, sempre insufficienti, sempre inadeguate a risolvere i reali problemi dell’organismo urbano), non è poi, dall’altro lato, che la storia dei continui tentativi di recuperare le “zone grigie”, di imprimere a posteriori un ordine e una regolarità seccamente funzionali a quelle porzioni del tessuto urbano che volta a volta, nel corso del continuo processo d’espansione e d’intensificazione produttiva della vita sociale che si svolge nella città, divengono essenziali per il corretto funzionamento della “macchina urbana”; ed è dunque, al tempo medesimo, la storia impietosa e funesta delle demolizioni, degli sventramenti, della liquidazione insomma delle vestigia del passato.

7. Il marxismo: una soluzione rigorosamente capitalistica

Come la posizione utopistica, così anche quella funzionalista non ha quindi potuto fornire una risposta sufficiente ai problemi che si sono manifestati nella città del capitalismo trionfante; e la città, difatti, si è sviluppata, nel corso del XIX secolo, nel modo che tutti conosciamo, e che ha condotto al generale riconoscimento di una sua crisi. Ma la nostra analisi della città capitalistica, e dei tentativi che sono stati intrapresi per riempire le sue insufficienze e per dominare il suo sviluppo, non potrebbe certo considerarsi compiuta - neppure nei limiti di una ricerca, per così dire, “a grandi linee”, qual’è la nostra -, e sarebbe anzi gravemente manchevole, se trascurassimo di soffermarci, sia pure brevemente, intorno a una terza posizione, che è venuta emergendo nella seconda metà del secolo scorso sulla base della robusta critica di Carlo Marx: la posizione, appunto, d’ispirazione proletaria e marxista.

All’interno della posizione d’origine marxista ci sembra che si possano individuare due tematiche chiaramente distinguibili. La prima, alla quale abbiamo già accennato a proposito dell’utopismo, concerne le prospettive che dovrebbero dischiudersi alla città -o più esattamente all’insediamento umano - nel “libero futuro” della società comunista; sono dunque, essenzialmente, le prospettive dell’eliminazione dell’antitesi tra città e campagna, e della parallela dissoluzione della città come forma dell’insediamento umano, che trovano in Engels il loro profeta, pur smaliziato e prudente. Ma la tematica che qui più direttamente ci interessa (poiché è l’unica che ha, sul piano della teoria, un senso e un significato reali nei confronti della città capitalistica, e che perciò ha potuto avere, in pratica, un’incidenza concretamente rilevabile), è la tematica più immediatamente radicata alla lotta per l’affermazione, in termini di potere, del proletariato.

Dobbiamo dunque cercar di vedere e di comprendere, in sostanza, quale configurazione assuma per la posizione marxista il problema della città, in quella fase di “passaggio dal capitalismo al comunismo [che] abbraccia un’intiera epoca storica”. Inquali termini, secondo quali criteri viene affrontato questo problema, nel quadro e nel corso del processo rivoluzionario che deve condurre la classe operaia dalla presa di coscienza del proprio ruolo storico, e attraverso la lotta contro il dominio capitalistico-borghese, alla definitiva rottura di quest’ultimo? Come il marxismo ha inteso fare i conti con la questione urbanistica, in attesa del giorno in cui, grazie al definitivo “affrancamento della classe oppressa”, fosse divenuta possibile “la creazione di una società nuova”, della “società comunista”, e dunque la fondazione di un insediamento anch’esso radicalmente nuovo e diverso da quanti altri mai si sono succeduti lungo il cammino della storia?

È ben noto quale sia, per il marxismo, la forma che caratterizza l’assetto sociale e politico, nel passaggio dalla fase capitalistica a quella della comunistica “società senza classi”: è la forma della dittatura rivoluzionaria del proletariato. Per comprendere la soluzione che il marxismo fornisce, sul terreno concreto della storia, al problema della città, bisogna dunque vedere, in primo luogo, come si configuri la società governata dalla dittatura proletaria: quella società “appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx chiama ‘la prima fase’, la fase inferiore della società comunista”, o, come verrà generalmente definita soprattutto nel periodo staliniano, la società socialista.

Nella società socialista, innanzitutto, è cessato il dominio politico della classe dei proprietari di capitale, che è stato appunto sostituito dalla dittatura del proletariato; la proprietà dei mezzi di produzione è divenuta pubblica, e quindi omogenea al carattere sociale del capitale; il processo produttivo, infine, è direttamente gestito in funzione e al servizio degli interessi della classe proletaria: di quella classe, cioè, dalle cui mani scaturisce tutto il sovrappiù - il plusvalore - realizzato nel corso del processo produttivo medesimo.

Ma la “prima fase”, la “fase inferiore” della società comunista, la fase contrassegnata dalla legge politica e sociale della dittatura proletaria, è appunto, nella concezione marxiana, una “fase”, una tappa, un periodo transitorio, caratterizzato dal fatto che lungo il suo corso si devono preparare le condizioni materiali e politiche che consentano il salto “dal regno della necessità al regno della libertà”; che consentano, cioè, di raggiungere la “fase più elevata della società comunista”. “Dopo che con lo sviluppo generale degli individui [saranno] cresciute anche le forze produttive, e tutte le sorgenti della ricchezza sociale [ scorreranno] in tutta la loro pienezza”, quella società potrà “scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.

Appunto per questo (così almeno sostiene Lenin, portando a logica coerenza il testo marxiano che abbiamo ora citato), durante la fase socialista, il processo produttivo - e l’intera economia - dev’essere ferreamente indirizzato alla massima intensificazione dell’accumulazione; tutto dev’essere ordinato, cioè, all’allargamento delle basi della produzione, alla crescita del capitale, in modo che venga raggiunta, al più presto, quella generalizzata capacità di produrre con abbondanza tutti i beni necessari a garantire la libertà dell’uomo dal lavoro, che costituirà il segno visibile - ed è insieme la condizione necessaria - del passaggio alla comunistica “pienezza dei tempi”. Ma bisogna allora che, nel concreto, venga negata e respinta la tesi secondo la quale “l’operaio riceve in regime socialista il ‘frutto non ridotto’ o il ‘frutto integrale del proprio lavoro’”; bisogna che sia invece affermata e propugnata la inderogabile necessità di detrarre, dal prodotto del lavoro sociale, la quota indispensabile alla continua estensione e alla crescita impetuosa delle forze produttive.

È allora evidente perché, nel corso di tutto il periodo della dittatura proletaria, “i socialisti [ reclameranno] dalla società e dallo Stato il più rigoroso controllo della misura del lavoro e della misura del consumo”; è solo tirando la cinghia, è solo conformando l’intera società come “un grande edificio o una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”, è solo insomma estendendo a tutto l’edificio sociale la proletaria “disciplina da ‘officina’”, e imprimendo dunque ad ogni momento della vita civile e sociale la rigorosa legge economica del consumo produttivo, che si potranno allargare rapidamente le basi del processo di produzione, accelerare i tempi della “fase transitoria” e toccar finalmente con mano il libero destino della società senza classi.

8. Una città a misura del proletario

Diviene chiaro, a questo punto, come debba configurarsi, nella posizione marxista, il problema della città nella fase storica del socialismo. La città, in tale fase, è una città proletaria: una città sottratta all’arbitrio della libera volontà dei borghesi; una città egualitaria che esprime e garantisce le esigenze di tutti i produttori, ed è organizzata in funzione degli interessi di quei proletari che costituiscono “l’enorme maggioranza della popolazione”. Essa è dunque in tal senso (e propriamente) una città democratica.

Ma poiché, d’altra parte, il proletario, oltre a essere evidentemente - nella sua espressione politica - l’egemone di quella faticosa costruzione della società comunista cui si è sopra accennato, costituisce poi soprattutto - nella sua immediata realtà economica - la figura sociale da cui dipende l’accumulazione e che è definita e definibile solo in funzione della propria attività produttiva; e poiché quindi il suo massimo interesse politico e di classe sta nell’efficienza e nell’intensificazione del processo accumulativo (nel quale esso vede, al tempo medesimo, la condizione di base per il raggiungimento della piena “libertà comunista” e, nell’immediato, la garanzia della propria sussistenza e della propria attività), ecco che la città proletaria si configura altresì, e decisivamente, come quell’insediamento che, più d’ogni altro, dev’esser funzionale alla produzione.

Il proletario, però, non soltanto deve (per i suoi interessi politici ed economici) costruire una città funzionale alla produzione; esso può anche costruirla. E invero, dal momento che la dittatura proletaria consente di portare fino in fondo l’incompiuta rivoluzione borghese, sbarazzando così il terreno da ogni residuo pre-moderno, da ogni posizione di rendita, da ogni sopravvivenza - ormai anche storicamente del tutto arbitraria - di remore signorili che intralcino la funzionalità della produzione sociale, ecco che nella società socialista si può compiere quella operazione cui la borghesia aveva potuto soltanto dar inizio (avviluppata com’era nei compromessi, politicamente indispensabili, con le realtà sociali ed economiche ad essa preesistenti), ed ecco che nella città proletaria si può raggiungere quell’obiettivo, che i funzionalisti d’osservanza borghese avevano rincorso, ma non avevano potuto mai conseguire a causa dell’insufficienza del sistema capitalistico-borghese.

Di fatto (non a caso, ma anzi proprio per tutto quel che finora s’è detto) la posizione urbanistica di radice o d’ispirazione proletaria e marxista può far divenire norma generale quella “facoltà preziosa già concessa alla città” dalla borghesia, e poi non solo limitata, ma sempre contraddetta e negata: la facoltà di disporre liberamente, negli interessi della comunità, del suolo urbano. La città proletaria, infatti, è liberata dalla servitù della rendita fondiaria.

Così, sul suolo finalmente e definitivamente affrancato dall’individualismo proprietario, possono venir progettate e costruite città più razionali ed efficienti, pienamente e rigorosamente funzionali nei riguardi della produzione, e immediatamente ordinate al servizio dei produttori, di tutti i produttori. E poiché sono gli stessi produttori a gestire il proprio consumo, si può cominciare concretamente a organizzare quest’ultimo - ovviamente, entro i limiti rigorosi e invalicabili segnati dalla necessità di estendere al massimo grado socialmente consentito il processo accumulativo - con razionalità.

La città proletaria è dunque, in primo luogo ed essenzialmente, una città di produttori: lo è, anzi, per definizione. Perciò, quando il proletario giunge al potere e costruisce la propria città, costruisce un insediamento “connesso con tutti i suoi fili, con tutta la sua vita materiale, produttiva, spirituale, all’industria socialista”; e sebbene “formalmente le aziende industriali non [ siano] responsabili della situazione e del carattere dei lavori architettonici e urbanistici realizzati nella loro città [...] , in pratica, essendo esse i centri economici fondamentali di quest’ultima, sovente determinano in misura decisiva il processo della formazione della città, la sua compattezza o frammentarietà, l’elevato o deficiente livello dei suoi servizi”.

Quando il proletario gestisce il potere, la forma della città è strettamente determinata dalle leggi della dimensione produttiva; “la logica, conseguente zonizzazione della città socialista è completamente in funzione della produzione industriale, alla cui importanza corrispondono per dimensione e ubicazione le altre zone”. E i medesimi consumi che avvengono nella città e che si concretano nelle “attrezzature collettive”, costituendo i nuclei della struttura e dell’ordine interno delle zone residenziali, vengono ad assumere questa loro forma comunitaria solo perché sono concepiti e rea1izzati essenzialmente come “i mezzi di educazione e di stimolo per realizzare quel collettivismo dell’economia domestica che può rendere atto ai lavori produttivi il 30 per cento in più della popolazione”. In altri termini, la stessa forma comune di consumo, in tanto viene prevista (e avaramente realizzata) in quanto consente di sostituire con forme più efficienti quella “economia domestica” cui è stata tradizionalmente affidata la gestione del consumo, ma che, proprio per la sua peculiare natura, mentre sfugge ad ogni rigorosa valutazione economica, comporta una indebita e inefficiente erogazione di lavoro.

Organizzare e gestire comunemente il consumo dei proletari (dunque il consumo produttivo), determina tuttavia, inevitabilmente, la necessità di riconoscere al consumo - e sia pure in modo soltanto implicito - una sua autonomia, una qualche libera e distinta presenza nella dimensione economica. Ma un consumo cui, di fatto, venga riconosciuta una propria autonomia nella sfera economica, tende poi invisibilmente a crescere, ad espandersi, a rompere e a superare gli argini del consumo strettamente produttivo; ed è per ciò che nella fase del socialismo, della dittatura proletaria, della preminenza esclusiva dell’accumulazione, le attrezzature collettive vengono realizzate, in pratica, con la parsimonia imposta dalla necessità di destinare tutte le risorse agli investimenti, e di concedere quindi il minimo possibile a un consumo che deve rigorosamente rimaner produttivo.

Quel che è certo, comunque, è che nella fase socialista le attrezzature cittadine vengono essenzialmente concepite, sul piano del consumo, come uno strumento per la soddisfazione delle più elementari esigenze della forza-lavoro, dei proletari in quanto tali. Sicché, in definitiva, si deve necessariamente concludere che la città, nell’ambito della posizione proletaria e marxista, se può certamente raggiungere una funzionalità incomparabilmente superiore a quella consentita nel quadro del dominio borghese, non può tuttavia vedere la soluzione del suo peculiare problema. Essa cioè non viene ordinata secondo una sua propria autonoma forma, ma resta - come la città della borghesia trionfante - ordinata alla produzione, e dunque ad altro da sé: resta, insomma, alienata.

9. Verso la città opulenta

Nessuna delle tre posizioni, che si sono concretamente misurate con la città del capitalismo, ha potuto risolvere la crisi del suo autonomo ordinamento formale, e sostituire alle qualità e ai valori d’uso che si erano espressi nella spesa del consumo comune dei cittadini, delle nuove qualità, dei nuovi valori - compiutamente autonomi, eppure radicati nella dimensione economica - che fossero capaci di sostanziare una nuova forma urbana. Però, mentre i primi critici moderni della “società industriale” (gli Owen, i Saint Simon e i loro seguaci ed epigoni) dovevano restar confinati, per la loro incapacità di comprendere realmente il sistema capitalistico-borghese, nel regno astratto dell’utopia; mentre gli operosi specialisti e agguerriti tecnici al servizio della borghesia dovevano limitarsi ad accompagnare lo sviluppo di quest’ultima, scontrandosi contro le sue contraddizioni; mentre infine gli antagonisti e gli “affossatori” del capitalismo borghese appiattivano la città, nel modo più rigoroso, sulla stessa dimensione produttiva capitalistica; mentre insomma, per un verso o per l’altro, la città restava inevitabilmente ridotta ad una mera “sovrastruttura” della produzione, la storia - il processo di sviluppo del sistema sociale proseguiva invece il suo cammino. Il sistema capitalistico - quale sistema rigorosamente finalizzato all’accumulazione del sovrappiù - compiva fino in fondo la sua evoluzione, e riducendo via via, nella caduta delle sue finalità, le proprie leggi a meri meccanismi tecnici, trapassava gradualmente nel sistema dell’opulenza.

Non vogliamo sostenere con questo che gli urbanisti siano pervenuti a una piena consapevolezza della reale consistenza di quel mutamento, della sua esatta natura, del suo peculiare significato storico. Ma se gli urbanisti adoperano il più delle volte - salvo dunque rare eccezioni - quei termini che abbiamo sopra elencato senza criticare in alcun modo la sostanza ch’essi ricoprono (accettandola, anzi, come un indiscutibile dato di fatto, sociologicamente registrato e subito), ci sembra comunque interessante e significativo che, nell’ambito della cultura urbanistica, si cominci a prendere coscienza del fatto che non ha più senso, oggi, parlare della città del presente come della città del capitalismo borghese, e che ci troviamo di fronte a una città ben diversa da quella con la quale si misurarono, nel secolo scorso e nei primi decenni del nostro, gli utopisti, i funzionalisti e i marxisti.

È appunto della città di oggi, della città contemporanea, che dobbiamo ora occuparci. Ma prima di entrare decisamente nel merito, ci converrà descrivere le peculiari caratteristiche dell’assetto economico-sociale nel quale oggi viviamo. Crediamo infatti che sia impossibile affrontare il discorso strettamente urbanistico sulla città, se prima non si è acquistata una sufficiente consapevolezza delle fondamentali connotazioni che caratterizzano l’ordinamento sociale, del quale l’insediamento umano costituisce in ultima analisi - come ha sempre costituito - un decisivo aspetto.

2. Tre modelli economico-sociali entro una determinata concezione del lavoro

Sulla base di quella determinata concezione del lavoro che domina universalmente anche ai nostri giorni, è possibile ipotizzare tre distinti modelli - che si sono effettivamente concretati nella realtà della storia - dell’assetto economico-sociale: il modello signorile, quello capitalistico-borghese e, infine, quello che ormai viene generalmente definito come modello opulento. Ci siamo già occupati, nei capitoli precedenti, dei primi due; ma ci sembra utile richiamarne qui le caratteristiche essenziali e di principio, sia per riepilogare brevemente quel tanto delle considerazioni già svolte che ci serve per procedere nella nostra analisi, sia perché un esame parallelo dei tre modelli può consentirci di comprendere più chiaramente quello sul quale dovremo più a lungo soffermarci per affrontare il tema della città contemporanea: il modello dell’opulenza.

Ma dobbiamo preliminarmente precisare qual’è quella determinata concezione del lavoro che si pone alla radice e alla base dei modelli signorile, capitalistico-borghese e opulento, come dei concreti assetti economico-sociali nei quali essi si sono espressi e manifestati storicamente. Riassumendo le tesi sostenute da Claudio Napoleoni, si può affermare in sostanza che quella concezione rispecchia la riduzione del lavoro, da strumento universale per il conseguimento di fini umani via via d’ordine superiore, a strumento particolare per il raggiungimento di un fine circoscritto e definito, stabilito una volta per tutte: quello del soddisfacimento del bisogno di sussistenza fisica dell’uomo.

Però quanto qui si deve soprattutto sottolineare è che, da quando il lavoro è stato innaturalmente ridotto da strumento universale a strumento particolare - ed è stato in tal modo alienato - l’aumento della sua produttività non ha potuto più tradursi organicamente in un arricchimento dei fini. Esso ha dato luogo invece a una “libera” eccedenza, che perdendo ogni relazione con lo sviluppo e la crescita dell’operazione umana, può subire destinazioni diverse, ma tutte in qualche modo arbitrarie e disumane. È appunto la diversa destinazione di tale eccedenza a costituire l’elemento caratterizzante e distintivo dei tre modelli di cui si diceva.

3. Le due classiche”utilizzazioni del sovrappiù: il modello signorile ...

Decisivo ed essenziale, prima e forse più d’ogni altro, sul piano della storia come su quello dei principi, è il modello signorile. Esso, come abbiamo visto, è caratterizzato dall’operazione sociale ed economica dello sfruttamento, la quale consiste fondamentalmente nel fatto che il lavoro degli uni (i servi)viene violentemente ordinato alla libertà dal lavoro di un altro (il signore). Naturalmente, perché l’operazione dello sfruttamento abbia luogo, è necessario che la produttività del lavoro sia tale da garantire non solo la sussistenza fisica del lavoratore (la ricostituzione e la riproduzione della forza-lavoro), ma la disponibilità di un sovrappiù. È solo nell’atto dello sfruttamento, e attraverso quest’atto, che il sovrappiù - distaccandosi in tal modo dal lavoro e presentandosi per la prima volta nella storia in quanto tale - viene violentemente destinato alla soddisfazione dei bisogni della sussistenza fisica di un altro, che non partecipa al processo produttivo.

Il modello signorile è contrassegnato dal fatto che l’eccedenza che si manifesta alla fine di un ciclo produttivo, grazie all’attività servile dei produttori, è appropriata con violenza da un individuo il quale può, in tal modo, uscire dalla necessità del lavoro e consumare senza produrre. Il genere umano è dunque spaccato per la prima volta in due tronconi; le uniche figure socialmente ed economicamente riconosciute - intorno alle quali pullula la moltitudine indistinta e assolutamente superflua dei poveri - sono costituite dal servo e dal signore. Il primo, ridotto dallo sfruttamento a mero lavoro alienato, diviene lo strumento subalterno della libertà del secondo, mentre quest’ultimo, il signore, poiché è uscito dalla necessità del lavoro, e si è posto anzi come il fine e la ragione del lavoro altrui, è uscito per ciò stesso da qualsiasi legge comune. Tutto l’edificio sociale è pertanto ordinato alla libera attività individualistica del signore; e poiché costui si pone al di sopra e al di fuori della prima e immediata legge comune concretamente operante nell’assetto economico e sociale - quella del lavoro -, il modello signorile è per principio incompatibile con l’organismo comune della città.

Come abbiamo ampiamente dimostrato, se è vero che l’ordinamento signorile dà luogo a un insediamento concentrato, un tale insediamento si configura poi come un mero agglomerato di residenze, servili e cortigiane, nelle quali l’unica legge in qualche modo operante è quella tirannica del soggiogamento alla libera volontà del signore.

4. ... e il modello borghese

Con il modello capitalistico-borghese, la destinazione dell’eccedenza muta radicalmente di segno. Essa non è più sottratta al ciclo produttivo, ma rimane entro quest’ultimo per allargarlo sempre di più; il suo fine cessa di essere costituito dal consumo del signore, e risiede invece nell’indefinita intensificazione dell’accumulazione del sovrappiù. Nella storia, il modello capitalistico-borghese si realizza quando si afferma una nuova classe: la classe dei borghesi, la classe che sorge dagli antichi gestori del sovrappiù signorile e dallo sviluppo di quei patres familias che, usciti dall’autoconsumo, sono rimasti liberi detentori del sovrappiù prodotto dalla propria attività.

La borghesia, però, può affermarsi - e di fatto si afferma nella storia - unicamente interpretando e utilizzando la tensione di rivolta dei servi contro il signore, ed eliminando quest’ultimo in quanto figura economicamente, socialmente e politicamente dominante. Avendo “ucciso il signore”, la rivoluzione borghese esprime soltanto le esigenze e gli interessi delle classi che sono sempre state - i servi - o che sono divenute -i borghesi - le protagoniste dell’attività produttiva; perciò, da una parte, il lavoro viene a porsi come legge universale dell’assetto economico-sociale (la stessa finalizzazione dell’eccedenza all’accumulazione si configura come la garanzia per la sempre più vasta occupazione del lavoro umano), e dall’altra, questo stesso lavoro, questo lavoro affrancato dalla propria subordinazione al consumo e alla libertà signorili e ordinato ormai a sé medesimo, resta pur sempre consegnato entro quella forma nella quale è stato ridotto dallo sfruttamento. Esso resta, insomma, lavoro alienato, lavoro esclusivisticamente concepito e vissuto come strumento per la produzione di una categoria particolare di beni.

Due rilevanti conseguenze comporta allora (come abbiamo già visto) il modello borghese sul terreno dell’insediamento umano. Da un lato, infatti, poiché la legge comune del lavoro è divenuta ormai norma universale della società, poiché il consumo è vigorosamente determinato - per tutti, almeno nel modello - dalla legge della massima intensificazione accumulativa (è stato ridotto a consumo produttivo), poiché infine, sempre nel modello, è stato eliminato lo sfruttamento e tutti sono ormai egualmente alienati, ugualmente servi dell’accumulazione, ecco dunque che la città può trovare una dimensione sociale, comune nella quale sorgere e affermarsi. Ma dall’altro lato poi, dato che la fuoriuscita dall’ordinamento s1gnorile si è realizzata come secca e radicale eliminazione di tutte le qualità, le dimensioni, i valori di cui si nutriva la libera attività individuale del signore, dato che di conseguenza tutto l’assetto sociale e la vita civile sono esclusivisticamente finalizzati all’economia - la quale è ridotta a produzione di sovrappiù da accumulare - ecco che la dimensione produttiva, nell’atto stesso in cui fa sorgere la città, nega contemporaneamente ogni autonomia al suo ordinamento formale e la aliena.

5. La tendenza catastrofica del modello borghese

La descrizione del modello capitalistico-borghese non sarebbe tuttavia completa e esauriente - sia pure nella sua necessaria brevità - se mancassimo di soffermarci su quella che è indubbiamente una sua caratteristica decisiva e di principio. Ci riferiamo a quel tendenziale catastrofismo che è implicito nella struttura medesima del modello capitalistico-borghese, che ha decisivamente condizionato il crollo clamoroso e sanguinoso dell’assetto sociale in cui tale modello si è espresso, e che ci interessa ora particolarmente di sottolineare per un motivo ben preciso: perché è proprio analizzando tale tendenza che si può cogliere più efficacemente la ragione per cui il sistema sociale ha dovuto uscire dal suo assetto capitalistico-borghese e approdare all’opulenza e, insieme, il modo in cui il modello opulento - l’ultimo, dunque, dei modelli ipotizzabili entro quella determinata concezione del lavoro di cui s’è detto -si è venuto a concretare e a manifestare storicamente.

In realtà, il modello capitalistico-borghese, mentre ha il suo essenziale nucleo di principio e il suo peculiare significato storico nell’invenzione e nell’esaltazione del momento accumulativo, incontra poi fatalmente la propria classica contraddizione proprio nell’incapacità di proseguire il processo di accumulazione del capitale: ed è una contraddizione appunto che si manifesta ed agisce nel cuore stesso del modello, nel suo punto decisivo e centrale. Il sistematico sottoconsumo, conseguente al fatto che l’accumulazione è il fine esclusivo e diretto dell’ordinamento capitalistico-borghese; l’individualismo - l’anarchismo - dominante nel meccanismo del mercato, il quale rende praticamente impossibile tener conto di una domanda nella quale la quota per investimenti diviene sempre più decisiva: questi sono i due aspetti, strettamente intrecciati tra loro, nei quali si esprime la contraddizione dell’assetto capitalistico-borghese, già contenuta nel suo modello. Ma converrà ora esaminarli rapidamente nel loro intreccio, poiché è proprio dalla contraddizione che in essi si rivela e dalla carica catastrofica che da essi si sprigiona, che nasce - ove si rimanga, come si è rimasti, entro quella concezione di lavoro di cui s’è detto - la necessità del realizzarsi del modello opulento.

In un ordinamento economico in cui il fine esclusivo e immediato è costituito dall’accumulazione del sovrappiù, il consumo è necessariamente ridotto a consumo produttivo; esso, in altri termini, non può essere visto, non può esser considerato e commisurato, che come consumo strettamente necessario alla ricostituzione e alla riproduzione della forza-lavoro impiegata nel processo produttivo. A mano a mano che l’accumulazione procede e che aumenta la produttività del lavoro, mentre oltretutto diminuisce progressivamente la quantità di forza-lavoro necessaria alla produzione di una determinata quantità di beni, si aggrava sempre più il divario tra merci effettivamente consumabili e merci prodotte. E poiché d’altra parte il processo accumulativo, per potersi concretamente svolgere, ha bisogno che al suo termine vi sia una sufficiente domanda, ecco dunque che si profila il primo dei due aspetti contraddittori di cui sopra si diceva; ecco che si manifesta nell’ordinamento capitalistico-borghese, a contrastare la possibilità di una domanda adeguata, una strutturale insufficienza del consumo: la minaccia della crisi di sottoconsumo.

Potrebbe a prima vista sembrare che, anche rimanendo entro un quadro strettamente capitalistico-borghese, sia tuttavia possibile sfuggire a una simile crisi. E in effetti, a quanto abbiamo fin qui sostenuto si potrebbe obiettare che quel che conta perché l’accumulazione possa proseguire, è che vi sia al suo termine una adeguata domanda globale, sicché, in definitiva, seppure la domanda per consumi decresce in senso relativo, basta - perché l’accumulazione possa svilupparsi - che aumenti in proporzione la domanda per investimenti. poiché quest’ultima condizione è certamente soddisfatta in un sistema caratterizzato, come quello borghese, dal fine dell’espansione accumulativa, non avrebbe senso parlare, entro un tale sistema, di crisi di sottoconsumo.

A questo punto, contro una siffatta obiezione, si inserisce tuttavia il secondo aspetto della contraddizione insita nel modello capitalistico-borghese. Invero l’unico strumento, pienamente compatibile con quel modello, mediante il quale è possibile misurare l’entità della domanda (e dunque tenerne concretamente conto), è il mercato concorrenziale. Ma quest’ultimo, per definizione, è caratterizzato dall’individualismo, e per ciò stesso, se è in grado di registrare la domanda di beni di consumo, è del tutto inefficiente - com’è d’altronde ormai largamente dimostrato - per valutare la domanda di beni d’investimento, la quale richiede capacità di previsione e d’attesa ben diverse da quelle di cui possono essere dotati i singoli e individuali imprenditori che compongono il mercato, e che per di più sono mossi essenzialmente e principalmente dalla prospettiva di un profitto immediato e diretto.

Da tutto questo consegue che, se il processo accumulativo rimanesse ancora intieramente gestito - a un certo stadio del suo sviluppo - dalla classe borghese, esso perderebbe catastroficamente ogni possibilità di proseguire. La contraddizione, di cui abbiamo ora descritto ambedue i termini, mina alle sue stesse radici, nella sua basilare funzione economica e sociale, la figura medesima del borghese. Costui infatti, da un lato, se vuole poter proseguire - in quanto membro della classe dei gestori del capitale - il processo accumulativo, deve consentire e anzi sollecitare e promuovere l’allargamento del consumo; e dall’altro lato però, poiché - in quanto individuale e privato proprietario del capitale - non può nemmeno concepire una riduzione del proprio profitto e una distrazione di risorse dal fine esclusivo e immediato cui è ordinata tutta la sua attività, un simile allargamento gli ripugna in modo invincibile.

6. Sconfitta del dominio borghese su scala mondiale

Eludere la minaccia della crisi di sottoconsumo, evitare il tendenziale catastrofismo dell’ordinamento capitalistico-borghese, è dunque possibile solo a condizione di uscire dalla rigorosa logica del modello. Difatti, quando Malthus, svelando per la prima volta l’intima, insanabile contraddizione già in atto nel capitalismo dei suoi anni, proponeva alla classe borghese di utilizzare, per sopravvivere, il sostegno fornito dal consumo improduttivo dei ceti parassitari, egli - con malizioso e lucido pessimismo - altro non faceva, in ultima analisi, che ammonire sull’illusorietà delle loro speranze e sulla vanità dei loro tentativi quanti ritenevano possibile proseguire ad infinitum lo sviluppo di un capitalismo borghese ferreamente fedele al proprio modello.

La linea malthusiana era, indubbiamente, l’unica linea che poteva consentire alla borghesia di tamponare gli effetti della crisi di cui era la portatrice, e di conservare al tempo stesso la propria egemonia. Non erano forse già definitivamente battuti -politicamente, socialmente ed economicamente - quei ceti parassitari ai cui consumi oziosi bisognava far ricorso? E però, proprio perché erano già battuti e virtualmente liquidati, proprio perché non costituivano ormai che delle pure sopravvivenze del passato - la polvere della storia -, essi dovevano venir perdendo via via (solo che la classe borghese potesse esprimere con pienezza la sua funzione egemonica) ogni consistenza e persino ogni parvenza di realtà: anche il sostegno meramente passivo ch’essi potevano fornire allo sviluppo del sistema, mascherandone e coprendone la natura contraddittoria, doveva rapidamente vanificarsi.

A mano a mano allora che le posizioni parassitarie e di rendita, sopravvissute all’ ancien regime, tendevano a scomparire; a mano a mano che il capitalismo, con la sua logica inconsapevole, dissolveva i puntelli che gli consentivano di procrastinare l’esplodere della propria contraddizione, quest’ultima doveva per ciò stesso ripresentarsi con tutta la virulenza della sua carica distruttrice. Ed è appunto per tutto questo che è divenuto a un certo momento inevitabile - seppur non si voleva, nelle condizioni storiche date, giungere alla paralisi del processo economico e, di conseguenza, alla catastrofe dell’intero ordinamento sociale - il manifestarsi di una nuova linea: è divenuto addirittura necessario che il dominio di classe della borghesia venisse negato e sconfitto, e che determinate carte, peraltro decisive, passassero nelle mani dell’avversario storico del borghese: nelle mani del proletariato. Il proletariato, infatti, costituisce a ben vedere l’unica classe che, forzando e mutando a suo favore il meccanismo distributivo, pretendendo dosi sempre più larghe di beni di consumo, lottando contro le rigorose barriere del consumo produttivo, può - seguendo la propria stretta logica di classe condurre a quell’allargamento del consumo che è indispensabile per sostenere e proseguire il processo accumulativo capitalistico. È evidente che in tale modo, mentre si esce dalla tendenza catastrofica dell’assetto borghese e dalla logica del suo modello, si esce anche dal dominio di classe che è loro omogeneo: è chiaro, insomma, che il dispiegarsi dell’azione proletaria ha condotto a una svolta di portata storica.

Senza dubbio - e non certamente a caso, ma proprio perché la logica dei principi si realizza puntualmente nella concretezza delle cose - l’affermazione di classe del proletariato e la sconfitta del dominio borghese si sono verificate attraverso un succedersi di crisi e di lacerazioni profonde, in cui si è riflessa e si è ripercossa la disperata volontà della borghesia di non perdere il proprio dominio sulla società mondiale, e si è manifestato il segno, si è determinata la misura, dell’entità della svolta che si veniva producendo. Tuttavia, come abbiamo visto, quel drammatico passaggio di poteri dalle mani della classe borghese a quelle del suo storico antagonista, non era semplicemente il portato di una soggettiva volontà del proletariato e delle sue avanguardie: esso era anche preteso dal tendenziale catastrofismo implicito nel modello capitalistico-borghese.

Così infatti, nella storia, alla fine rovinosa del capitalismo borghese come sistema mondiale maturatasi appunto attraverso una guerra (quella del 1914-1918), ha corrisposto subito - in una parte del globo - il sorgere e l’ affermarsi di un assetto sociale a piena egemonia proletaria che poteva quindi proporsi, quale proprio fine, “l’abbondanza per tutti i lavoratori”. Così - nell’altra parte del mondo - attraverso tutta una serie di nuove crisi culminate nella II guerra mondiale, si è avuto il progressivo estendersi di una prassi politica, sociale ed economica sempre più condizionata dall’azione proletaria e che, proprio per questo, ha finito per trovare nella “democrazia del benessere” il suo più caratterizzante obiettivo. Da un lato e dall’altro di quella linea di frattura il cui manifestarsi, dividendo il mondo in due schieramenti contrapposti, ha segnato la definitiva scomparsa del dominio "borghese sul piano mondiale, si è venuto insomma a sviluppare via via un nuovo assetto, nel quale la prospettiva (o l’immediato realizzarsi) di un allargamento del consumo, si presenta come la diretta conseguenza del ruolo nuovo e determinante che ormai giocano le classi lavoratrici.

7. Consumo opulento dei produttori e tempo libero

Fine del dominio borghese e affermazione proletaria; progressivo allargamento del consumo dei produttori: questi sono dunque gli aspetti che caratterizzano, sul piano della storia, la fuoriuscita dall’ordinamento borghese e l’approdo all’assetto opulento del sistema economico-sociale. Ma possiamo provarci ormai a definire il modello dell’opulenza nelle sue connotazioni essenziali e di principio. È chiaro intanto, in primo luogo, che, come il modello capitalistico-borghese costituisce il rovesciamento di quello signorile, così il modello opulento rappresenta una svolta radicale, e quasi una puntuale antitesi, del modello capitalistico-borghese. Mentre quest’ultimo ha infatti nella produzione il suo momento centrale e decisivo, e mentre in esso la massima quota possibile di sovrappiù viene reinvestita nel processo accumulativo per allargarne sistematicamente le basi, il modello opulento è invece decisivamente caratterizzato dalla destinazione di quote sempre più larghe di eccedenza all’allargamento del consumo dei produttori, il quale diviene la realtà dominante. Si rovescia dunque il rapporto tra accumulazione e consumo; quest’ultimo non è più rigorosamente definito e contenuto entro i limiti del consumo produttivo, in modo da consentire la massima possibile formazione di sovrappiù accumulabile; è invece il processo accumulativo medesimo che viene a pretendere e a sollecitare - per poter concretamente aver luogo - la destinazione di una parte crescente di sovrappiù all’allargamento del consumo.

Poiché tuttavia il lavoro è rimasto alienato, e poiché quindi, nel trapasso dal capitalismo borghese all’opulenza, il bisogno umano ha continuato a restar racchiuso nella cerchia dei bisogni della vita fisica, ecco che l’allargamento del consumo può avvenire solo attraverso la progressiva e indefinita complicazione dei modi in cui viene soddisfatta quella particolare categoria di bisogni, cui è stata ridotta e cristallizzata tutta la dimensione e la realtà del bisogno umano: ecco, insomma, che il consumo diviene appunto opulento.

Il consumo opulento, proprio per questa sua connotazione definitoria, proprio perché è un consumo contrassegnato e definito dall’essere un modo via via più complicato e arbitrario di soddisfare il medesimo bisogno, se può crescere in modo indefinito, non può svilupparsi però al di là di ogni limite, in modo infinito. Esso, in altri termini, poiché non ha alcuna legge interna che ne determini lo sviluppo - è infatti un consumo superfluo - si accresce, è vero, e si espande progressivamente senza che si possa in alcun modo prevedere quando il suo ampliarsi incontrerà il suo limite; e tuttavia un siffatto limite indubbiamente deve, a un certo punto, essere raggiunto, perché la soddisfazione di un determinato bisogno, per quanto ci si possa studiare di presentarla in modo via via più artefatto e complicato, deve necessariamente giungere al momento della propria saturazione. Accade allora, inevitabilmente, che a mano a mano che si arriva al limite, al punto di saturazione opulenta dei vari particolari bisogni che compongono, nel loro assortimento, il bisogno di sussistenza dell’uomo, si giunge per ciò stesso all’indebolirsi e al contrarsi e, via via, allo spegnersi definitivo del processo di allargamento del consumo opulento. Poiché d’altra parte l’aumento della produttività del lavoro rende necessario un ammontare progressivamente decrescente di forza-lavoro, per assicurare il soddisfacimento di quel bisogno che ha ormai raggiunto la propria saturazione opulenta, ecco che il problema dell’accumulazione perde di continuo la propria rilevanza e si manifesta indispensabile la contrazione dell’impiego produttivo del lavoro umano. Ecco che si afferma, con evidenza sempre più ampia e dispiegata, la necessità del tempo libero.

Come il consumo opulento, così anche il tempo libero non può estendersi però, in quanto tale, all’infinito. E difatti, dal momento in cui il bisogno dell’uomo è rimasto fissato e congelato nel modo che più volte si è detto, risulta impedito il processo naturale e organico di sviluppo dell’operazione umana: quel processo di cui il lavoro, il consumo, il bisogno costituiscono, in linea di principio, i momenti successivi tra loro correlati e via via progressivamente crescenti. Inaltre parole, l’uomo non ha trovato nello sviluppo dei propri bisogni i fini, di tipo via via superiore, ai quali ordinare il proprio lavoro, mentre l’aumento della produttività di quest’ultimo, d’altra parte, non si è tradotto - attraverso il consumo - in un continuo e parallelo arricchimento del bisogno.

È appunto per questo motivo, in ultima analisi, che il lavoro - cessata inevitabilmente la deformatrice mediazione del signore - è rimasto ordinato a sé medesimo, e che il mondo umano si è risolto esclusivamente nel lavoro dell’uomo, mentre l’uomo si è racchiuso e ridotto entro la figura dell’homo faber. L’uomo, insomma, può ancora sussistere e riconoscersi come tale solo nella propria dimensione di lavoratore: in una dimensione, tuttavia, che si presenta come inevitabilmente alienata, poiché è sottratta a ogni organica relazione con gli altri decisivi momenti della sua vita. Da tutto ciò consegue altresì che all’uomo - sebbene egli debba, nell’ordinamento dell’opulenza, allargar di continuo il proprio consumo, e tale allargamento non richieda più ulteriori dosi di lavoro - è rimasto un unico titolo per poter continuare a esistete in quanto soggetto economico, e per poter fruire del consumo opulento: quello d’esser, almeno formalmente, un lavoratore.

Ecco perché, nel concreto della vita sociale, il tempo libero non può estendersi oltre ogni limite; ecco perché si presenta, sempre più spesso, nella forma del lavoro superfluo, di un’attività umanamente ed economicamente priva di scopo e di significato. L’espandersi, oltre ogni necessità e ragione, delle “attività terziarie”; l’ipertrofico gonfiarsi degli “intellettuali integrati”, dei “tecnici della persuasione”, dei professionisti della “mediazione culturale”; il progressivo complicarsi degli apparati distributivi e pubblicitari; il medesimo ripiegamento verso forme individualistiche di produzione artigianale nell’ambito di un processo produttivo altamente socializzato e industrializzato (il bricolage, il build it yourself); non sono forse, tutti questi fenomeni e aspetti della vita contemporanea, anche la prova evidente di una vera e propria mistificazione del tempo libero, di una dissimulazione di quest’ultimo nelle forme coperte e surrettizie di un lavoro privo di qualunque reale contenuto e concreta necessità economica? Non trovano forse, queste varie incarnazioni del lavoro superfluo, la loro vera ragione di fondo nella necessità per l’uomo di conservare -sia pure soltanto formalmente, sociologicamente o addirittura psicologicamente la qualifica di produttore?

8. Novità del modello opulento

Possiamo ritenere a questo punto di aver sufficientemente sintetizzato, nelle sue caratteristiche essenziali, il modello dell’opulenza e il relativo assetto del sistema sociale. Quest’ultimo dunque - vogliamo sottolinearlo conclusivamente - è fondamentalmente caratterizzato e definito, nella sua fase opulenta, dall’intreccio di due realtà assolutamente nuove nella storia: il consumo opulento dei produttori, e il tempo libero, diretto o mascherato che sia. E si deve allora convenire che l’uomo, nel quadro della società opulenta, anziché esser visto come un lavoratore che consuma per poter continuare a produrre (che consuma, cioè, solo nella misura necessaria ad assicurare la libertà dal lavoro del signore, o a fornire quelle risorse che il borghese gestirà nel senso di garantire la massima esplicazione possibile del processo accumulativo), è visto come un consumatore che deve consumare sempre di più, lavorando sempre di meno. Questo è il modello, l’assetto del sistema economico-sociale, cui gli urbanisti di fatto si riferiscono o a cui alludono quando parlano di “società dei consumi” o di “opulentismo” o di “terziarizzazione”, o quando adoperano altre consimili espressioni. E crediamo che sia ormai chiara la ragione per cui, nell’iniziare questo capitolo, abbiamo sottolineato l’interesse del fatto che l’attuale cultura urbanistica comincia ad avvertire il mutamento che si è prodotto nell’ambito del sistema sociale.

Quel mutamento, infatti, si configura nei termini di una svolta radicale, profonda, irreversibile, che investe e trasforma tutti gli aspetti, le dimensioni, i valori, le categorie della vita della società e dell’uomo. Essa non può dunque mancar di riflettersi, in modo decisivo, sulla condizione e sui destini della città. Questa è certamente divenuta - poiché vive in un nuovo orizzonte sociale, politico, economico - una realtà che non può più esser compresa ne sviluppata mediante il semplice prolungamento di operazioni e ragionamenti pedissequamente ancorati alle posizioni anteriori alla svolta dell’opulenza.

Entro il quadro capitalistico-borghese, la produzione in tanto poteva imprimere un ordine all’insediamento urbano, in quanto essa costituiva il momento decisivo e culminante, il fine esclusivo e l’unica legge del processo economico, il quale era divenuto a sua volta - con la rivoluzione borghese - il cuore, il centro, lo scopo dell’intero ordinamento sociale. Poiché, in altri termini, ogni valore, realtà, qualità, dimensione della società civile aveva dovuto subordinarsi all’economia (o era stato impietosamente emarginato), e poiché all’interno di quest’ultima la produzione aveva assunto un ruolo di esclusivo predominio, ecco che il momento produttivo era venuto per ciò stesso a configurarsi inevitabilmente, per qualsiasi aspetto dell’attività dell’uomo, e dunque anche per la città, come l’unica sorgente d’ogni possibile regola.

Una simile regola, poi, benché comportasse ovviamente per la città (come per ogni altro organismo o istituto o dimensione della società civile) l’appiattimento sulla dimensione produttiva, non era tuttavia vissuta e patita come secca e arbitraria negatività da nessuna delle figure sociali decisive: da nessuno, quindi, dei cittadini. Non lo era infatti dal borghese, che era, appunto, l’organico rappresentante e protagonista dell’esclusivismo della dimensione economica e dell’attività produttiva (e aveva comunque poi sempre la facoltà di ritagliarsi una zona d’evasione signorile dalle leggi del sistema); ma non lo era neppure dal proletario, poiché il fine del continuo allargamento delle basi del processo produttivo si presentava per costui come la massima garanzia per l’occupazione della propria forza-lavoro, e dunque come la condizione necessaria per il mantenimento delle esigenze elementari della propria esistenza. Orbene, è facile vedere che nella città opulenta la produzione perde entrambe queste caratteristiche: che essa, cioè, non è più capace di ordinare l’insediamento umano, ne è più la portatrice di un’oggettiva ed elementare necessarietà sociale e umana.

Nell’ordinamento dell’opulenza, infatti, la dimensione produttiva non è più - lo si è già sottolineato - il momento centrale e decisivo, la ragione e il fine esclusivo dell’economia e dell’intera vita sociale. Essa è, invece, non solo strettamente condizionata all’indefinita e opulenta espansione del consumo, ma è anzi, in ultima analisi, subordinata a quest’ultimo; di fatto, è soltanto l’allargamento del consumo che conferisce un qualche fine al processo produttivo, il quale, tendenzialmente e al limite, perde addirittura ogni funzione economica amano a mano che si giunge - come non si può non giungere - alla saturazione del consumo opulento. D’altra parte, poiché, quando si giunge all’opulenza, i bisogni dell’esistenza fisica dell’uomo sono stati ormai certamente soddisfatti, per definizione, nella loro essenzialità; e poiché anzi - mentre non è più indispensabile allargare il processo produttivo per garantire la fruizione dei consumi relativi ai bisogni immediatamente e necessariamente comuni lo stesso problema dell’occupazione si viene a rovesciare in quello del tempo libero e del lavoro superfluo, ecco dunque che la produzione smarrisce anche quel carattere di necessarietà sociale ed umana che rendeva il suo esclusivo predominio - agli occhi del proletario come di ogni membro della società - storicamente giustificato, e quindi concretamente sopportabile.

La produzione, insomma, come non ha più alcuna ragione economica che possa consentirle di porsi come il momento decisivo e centrale dell’assetto economico-sociale, così non ha più alcun senso umano ed organicamente civile e sociale; e così appunto viene direttamente e insofferentemente avvertita dall’uomo moderno.

2. Insufficienza urbanistica del consumo opulento.

Se la produzione, perdendo l’una e l’altra caratteristica su cui fondava la sua capacità ordinatrice, non è più in grado, nell’assetto opulento, di porsi come regola per l’insediamento urbano, forse una capacità ordinatrice analoga può esser trovata nell’altro momento della dimensione economica, nel consumo?

Potrebbe sembrare, a prima vista, che a un tale quesito debba rispondersi positivamente. Infatti non abbiamo sostenuto che la società opulenta costituisce una svolta radicale rispetto a quella borghese proprio perché il consumo è divenuto il momento centrale e decisivo, la categoria dominante a cui ogni altro aspetto dell’attività economica è, in un modo o nell’altro, subordinato? Non ha insomma, in tal senso, il consumo soppiantato e sostituito la produzione? E non deve discendere quindi da tutto ciò che il consumo viene necessariamente ad assumere, entro il modello opulento, anche quel ruolo ordinatore sul piano urbanistico che la produzione manifestava nei confronti della città borghese?

Le cose, tuttavia, non sono così semplici né così schematiche. Bisogna anzitutto sottolineare che il consumo peculiare al modello opulento non è certamente - come abbiamo già osservato - un consumo legato a una effettiva e organica necessità umana. Esso infatti, nella stretta logica del modello (ma perciò anche nelle tendenze concretamente in atto), non è che consumo di dosi sempre più ampie di beni destinati ad un bisogno che, nella sua sostanza naturale, è ormai generalmente e abbondantemente soddisfatto; in definitiva è un consumo che si allarga, di continuo e all’indefinito, nella totale assenza dello sviluppo del bisogno umano, e anzi coprendo e mistificando il fatto decisivo che il bisogno della sussistenza fisica è ormai pienamente soddisfacibile e soddisfatto. Perciò il consumo opulento resta inevitabilmente contrassegnato dalla superfluità, e dunque dalla gratuità e dall’arbitrio. Ora, già per tutto questo, il consumo opulento non può apparire a nessuno come il portato di una oggettiva necessarietà umana e sociale che convalidi e giustifichi un suo ruolo egemonico e dominante nella città e nella società; ed è questo, crediamo, un primo motivo per cui bisogna concludere che il consumo non può esercitare una capacità ordinatrice nell’insediamento urbano.

Ma c’è un’altra caratteristica del consumo opulento che conferma e ribadisce la nostra tesi, e che conduce anzi a dover addirittura riconoscere la presenza di una radicale incompatibilità tra un reale ordine della città e il consumo pienamente omogeneo all’assetto opulento. Tale consumo infatti, nonostante la sua complicazione e il suo carattere capriccioso e sofisticato, è pur sempre consumo di beni ordinati al bisogno della vita fisica. Esso è dunque, per ciò stesso, legato e riferito esclusivamente a una determinata categoria di bisogni (quelli appunto della vita fisica dell’uomo) che può esser considerata pienamente umana solo se costituisce un gradino di una scala di bisogni continuamente crescente, e che invece, quando viene assolutizzata e vissuta come l’unica forma del bisogno umano, può caratterizzare soltanto un’esistenza ridotta a mero e materiale animalismo.

Una simile esistenza, infine - e la questione, come vedremo, è di decisiva importanza - è necessariamente contrassegnata dall’individualismo: in altre parole, il consumo opulento si presenta inevitabilmente come un consumo che può esser vissuto dall’uomo soltanto come esasperato e chiuso particolarismo, e che perciò, come tale, non può costituire, di per sé stesso, un sufficiente supporto alla necessaria dimensione sociale della città, e può anzi unicamente negarla e dissolverla.

3. Una città inordinabile, ma liberata dall’alienazione all’economia

Né la produzione né il consumo - entro la stretta logica del modello opulento - sono dunque in grado di imprimere un ordine alla città. Ed è allora evidente che deve entrare definitivamente in crisi quella posizione funzionalistica che, nella città dell’Ottocento, costituiva il “braccio urbanistico” del dominio della borghesia e che, interpretando e traducendo in concreti schemi organizzativi la materiale e generica capacità ordinatrice della produzione capitalistico-borghese, perveniva a dare una qualche forma, sia pure alienata e parziale, alla città. Non vogliamo sostenere con questo che l’affermarsi dell’opulenza venga a dissolvere la posizione funzionalistica anche nella sua sostanziale radice ideologica. Infatti, è pur sempre possibile proporsi di appiattire la città al dato, al mero esistente; in tal senso, evidentemente, anche nel quadro dell’opulenza può manifestarsi e può operare una posizione funzionalistica. Però quel che certamente il funzionalismo smarrisce, nel passaggio dall’assetto capitalistico-borghese a quello opulento, è la propria capacità di conformare la città in funzione e al servizio di una legge rigorosa, derivata e desunta da una dimensione e da una realtà eterogenea, come quella dell’economia, all’organismo urbano.

Ma se le regole, se i meccanismi della dimensione economica del sistema non sono più in grado di fornire una struttura alla città e se, di conseguenza, la linea funzionalistica deve rivelare, alla fine, la propria impotenza, significa ciò forse che la storia, alla lunga, ha dato ragione agli epigoni catastrofici dell’utopismo? Erano forse degli illuminati profeti quanti predicavano l’incompatibilità assoluta e totale tra sviluppo dell’ordinamento capitalistico e sviluppo della città? E colgono il vero quegli studiosi moderni della città che pongono al centro dell’attenzione “i sinistri particolari della vita quotidiana”?

Da quanto abbiamo fin qui argomentato e descritto scaturisce con chiarezza, ci sembra, e in tutta la sua gravità, l’aspetto negativo che la svolta dell’opulenza comporta nei confronti della città. Quest’ultima, infatti, dal momento che non ha più nella dimensione economica una base che le consenta di trovare una qualche ragione per il proprio ordinamento, dal momento insomma che ha perso ogni possibilità di conservare, nel rapporto alienante con l’economia, una regola capace di conferirle una struttura e una forma, tende ormai a divenire, entro il modello opulento, una realtà che non è più in alcun modo ordinabile.

L’antica polis armoniosamente adagiata, tra la pianura e il mare, a presidio dei suoi porti e delle sue campagne, organicamente inserita nella natura, ordinatamente disposta attorno ai suoi templi e alle sue agorà; l’urbs e la civitas dei romani, cerniere e punti di forza di una geniale struttura politica e amministrativa, fuochi di un sistema di relazioni e di reciproche influenze che imprimevano un ordine e una forza a tutto il territorio lavorato dall’uomo; il borgo e la città del medioevo cristiano, luoghi nei quali i servi divenivano liberi, i liberi resistevano alla soggezione e alla violenza del signore, e gli uni e gli altri si riconoscevano uguali raccogliendosi negli edifici comuni della religione e del culto, della politica, del commercio, della vita civile; la stessa prodigiosa metropoli dell’Ottocento borghese, strutturata in funzione degli interessi, esclusivistici ma storicamente progressivi, di una classe che si disponeva a dominare il mondo, invadendolo con le merci prodotte nelle operose officine, e regolando i destini della società internazionale secondo le intese e i disegni intessuti nelle fastose e civili capitali; tutto quel che la storia dell’uomo ha faticosamente elaborato nello sforzo millenario di dare alla società un luogo nel quale ordinatamente vivere e riconoscersi, distinguendosi dall’immediatezza della natura, pare dunque irrimediabilmente finire. Tutto ciò tende a mutarsi, come il Mumford esattamente descrive, in “una massa informe e continua, qui gonfia di edifici, là interrotta da una macchia verde o da un nastro di asfalto”, che “continua a crescere inorganicamente, e anzi cancerosamente, con la continua decomposizione dei vecchi tessuti e lo sviluppo eccessivo dei nuovi”, e che trova infine la sua forma solo nella “sua informità, come la sua meta [in] una espansione senza meta”.

E però, riconosciuto e accettato tutto ciò, accolta insomma quella empirica verità che indubbiamente è sottesa alla denuncia appassionata dei più illustri epigoni dell’utopismo, non si può comunque trascurare di porre in evidenza anche il rovescio, positivo implicito nella nuova configurazione che è venuto ad assumere, con l’opulenza, il rapporto della città con la dimensione economica storicamente data.

Quel rapporto, infatti, che nel quadro dell’assetto capitalistico-borghese si era inevitabilmente tradotto nei termini di un’alienazione dell’ordinamento formale della città, è ora praticamente dissolto. Ma ciò significa allora che, con l’opulenza, la città si è liberata dal legame con un’economia che, mentre ne aveva consentito - e anzi preteso - la nascita, e mentre poi aveva potuto conferirle un ordine, l’aveva peraltro, nell’atto medesimo, alienata. E sebbene nell’ambito del modello opulento un simile affrancamento della città possa esprimersi soltanto in termini negativi è comunque certo che ormai, dal momento che è divenuta impossibile l’alienazione all’economia dell’ordinamento formale della città, è divenuta invece oggettivamente possibile la nascita di una reale, compiuta, dispiegata autonomia dell’organismo urbano.

4. Scomparsa dell’individualismo borghese dalla sfera della produzione.

Il primo termine dell’ambiguità presente nella città capitalistico-borghese - l’alienazione del suo ordinamento formale - si è dunque rovesciato, nell’opulenza, in possibilità oggettiva di autonomia, in potenziale positività. Ma come si è trasformata e modificata a sua volta quella potenzialità positiva per la città, che avevamo potuto individuare, entro l’ordinamento borghese, nel carattere “sociale” della produzione (il secondo termine, dunque, della ambiguità di cui si diceva)?

Fin dall’inizio della formazione del processo opulento, il carattere “sociale” della produzione si afferma in modo via via più massiccio, sino a divenire una connotazione decisiva e incontrastata dell’attività produttiva, e a costituirsi come la forma universale di quest’ultimo. Per comprendere con sufficiente chiarezza la ragione e il significato di un simile pieno affermarsi della “socialità” della produzione, occorre ricordare che nell’ordinamento borghese il carattere “sociale” dell’attività produttiva incontrava il proprio limite - invalicabile in linea di principio - nel privatismo proprietario peculiare alla figura sociale ed economica del borghese. E in realtà, la giustificazione e la relativa insuperalbilità di un limite siffatto derivavano sostanzialmente dalla circostanza che nella società capitalistico-borghese (in cui tutto è esclusivisticamente ordinato all’accumulazione) solo il borghese, il capitalista, poteva essere - il linea di principio come in linea di fatto - l’unico e indiscusso gestore, l’incontrastato garante, l’arbitro supremo e inappellabile dell’intero sistema.

Nella società opulenta, viceversa, mentre l’accumulazione perde il suo ruolo di dimensione centrale e decisiva dell’intero ordinamento economico e sociale, il gestore del processo produttivo viene via via a dimettere, per così dire, l’abito del borghese. Egli invero, poiché la sua attività è ormai, se non immediatamente diretta, certo strettamente condizionata all’allargamento del consumo dei produttori, e poiché anzi la sua tipica operazione non è più il fine esclusivo della vita economica e sociale, cessa di essere l’arbitro incontrastato dell’intero sistema, mentre si avvia a perdere in modo definitivo la sua antica capacità d’incidere individualisticamente e soggettivamente, in maniera pienamente libera e arbitraria, nella condotta della stessa attività produttiva. In realtà, se in una prima fase del processo opulento egli conserva ancora un residuo di quel carattere socialmente dominatore che era peculiare al privatismo borghese, deve perdere anche questa sua ultima possibilità, a mano a mano che il consumo opulento raggiunge i suoi limiti e perviene alla sua saturazione: l’imprenditore si trasforma allora a sua volta, definitivamente e totalmente, in generico e anonimo funzionario del processo produttivo.

Il crollo del dominio borghese sulla società mondiale e la parallela affermazione economica, sociale e politica della classe proletaria; la crisi definitiva dell’“economia di mercato” e il progressivo ampliarsi di quegli interventi che determinano l’economia programmata: non costituiscono, forse, questi decisivi momenti dello sviluppo storico contemporaneo, altrettanti colpi mortali inferti all’individualismo e al privatismo connaturati alla figura del borghese?

5. Una città che non può più essere bella per pochi

Se nella società opulenta la zona del privatismo viene via via a ridursi - nel campo dell’attività produttiva - in misura sempre maggiore, e se, parallelamente e di conseguenza, il carattere “sociale” della produzione capitalistica si libera del proprio limite borghese, tutto ciò non significa che si sia sviluppata, che abbia acquistato maggior peso e rilevanza quella potenzialità positiva che, per la città, è costituita, in linea di principio, dalla “socialità” della produzione. Infatti, benché la dimensione produttiva sia ormai - come si è detto - pressoché totalmente caratterizzata da quella natura “sociale” che è propria al capitale, sta comunque di fatto che la stessa dimensione produttiva è venuta a perdere via via - come abbiamo più sopra osservato - la propria centralità: il ruolo decisivo che essa svolgeva nell’ordinamento capitalistico-borghese è stato soppiantato e sostituito, nell’ordinamento dell’opulenza, dal consumo.

Ciò significa che il decadere del privatismo nella attività produttiva non provoca, nella città, alcuna positiva conseguenza? Certamente, i contrapposti effetti dell’allargamento della “socialità” della dimensione produttiva e del parallelo ridursi della centralità e dell’importanza di quest’ultima si vengono, per così dire, a sommare algebricamente fino ad annullarsi l’un con l’altro. C’è tuttavia una conseguenza rilevante e positiva, che discende dalla tendenziale liquidazione del privatismo borghese. Quella liquidazione comporta infatti, sul piano della città, la fine di una serie di mistificazioni che agivano pesantemente nella città capitalistico-borghese e che, condizionando l’opera razionalizzatrice dei funzionalisti, facevano della città il luogo dei “liberi consumi” e, soprattutto, dell’importanza sociale di una soltanto delle classi che vi risiedevano: della classe borghese.

I borghesi potevano infatti ordinare la città al servizio di quei “liberi consumi”, di tipo sostanzialmente signorile, che a loro, e solo a loro, erano permessi e garantiti dal privilegio proprietario, e con cui si manifestava e si celebrava la centralità dominatrice della loro funzione sociale. Ora invece, nella società opulenta, poiché quel privilegio ha perso ogni ragione, ogni senso e ogni riflesso egemonico, poiché il borghese si viene anzi a mutare e a ridurre in semplice e subordinato funzionario del processo produttivo, poiché, quindi, gli è impedito ormai di erigersi singolarmente e individualisticamente in signore, deve per ciò stesso scomparire, nella città, ogni aspetto fastoso ed esclusivo, ogni simbolo e ogni struttura conformati per celebrare il potere, la libertà (e il peculio) dei membri della classe dominante. Scompare, dunque, la possibilità di dissimulare l’anarchia, il disordine, la bruttura dei tessuti residenziali destinati ai proletari dietro le facciate costruite e adornate per la signorilità dei borghesi; scompare ogni copertura di qualità signorili, fondate sul privilegio e sulla divisione; scompare insomma, definitivamente, l’illusione che la città possa essere bella senza esserlo per tutti.

6. Esiste nella città opulenta una speranza per il futuro?

Ma se tutta la positività presente nella città opulenta fosse costituita dalla fine dell’alienazione all’economia e dalla liquidazione dell’importanza sociale del privilegio proprietario - e fosse dunque esprimibile unicamente in termini negativi -, bisognerebbe allora concludere che la pessimistica e disperata denuncia degli epigoni dell’utopismo è, nonostante tutto, un atteggiamento pienamente legittimo e giustificato. Nella città del nostro tempo, infatti, se le cose stanno soltanto come fino a ora le abbiamo descritte, non sarebbe consentito di individuare un appiglio dispiegatamente positivo, un germe non illusorio di speranza, e soprattutto una realtà dalla quale muovere e su cui far leva per costruire, sopra le ceneri delle negatività antiche, liquidate dall’opulenza, una città pienamente e creativamente padrona di se stessa e capace di darsi, perciò, un autonomo ordinamento formale. Ma c’è un punto, di fondamentale importanza, sul quale dobbiamo ancora soffermarci; c’è una tesi decisiva che dobbiamo dimostrare, prima di poter considerare esaurito - sia pure nelle linee di fondo - il nostro esame della città opulenta. Dobbiamo trarre cioè una conseguenza dal fatto (che assume per la città, come vedremo, un massimo rilievo) che nell’assetto opulento il consumo di tutti i produttori diviene la dimensione centrale dell’ordinamento sociale ed economico.

Su di una circostanza è tornata sovente la nostra attenzione; sul fatto cioè (da noi individuato nell’ambito di un ragionamento di tipo storico) che la possibilità di esprimere una forma autonoma dell’insediamento umano è stata sempre condizionata dalla presenza di determinate qualità. Tali qualità erano già presenti, ed erano state anzi elaborate, nel mondo signorile, ma non potevano esser utilizzate come base dell’ordinamento formale di un insediamento definibile come città, perché erano vissute dal signore come libera e individualistica attività meta economica, e venivano perciò fruite mediante un “consumo” che, mentre era meramente particolaristico e individuale, rimaneva riservato esclusivamente ai membri di quella classe “dei pochi e degli eletti” che, quasi per diritto divino, si elevava al di sopra della moltitudine comune dei servi.

Esse, invece, sono state utilizzate come matrici per una forma autonoma della città solo quando, nel borgo e nella primitiva città borghese in lotta con il “castello”, si sono manifestate come consumo comune dei cittadini. E tuttavia, a causa della sostanziale meta-economicità di tale consumo comune, le qualità che lo nutrivano dovevano (nell’ordinamento capitalistico-borghese, esclusivamente finalizzato alla produzione del sovrappiù) rapidamente dissolversi, o venir emarginate e spazzate via. Appunto per questo, appunto per la fragilità di principio di uno schema urbano fondato su di un consumo comune ma metaeconomico, l’autonomo ordinamento formale della città classica e medievale doveva conoscere la propria rovina nel corso della crisi storica che ha condotto al pieno affermarsi dell’assetto capitalistico-borghese.

Orbene, già da quello che abbiamo più sopra osservato circa il ruolo che il consumo di tutti i produttori svolge nella società opulenta, si può facilmente intuire come la storia, nel condurre il sistema sociale dall’assetto signorile e da quello capitalistico-borghese a quello dell’opulenza, sia venuta ad accumulare le ragioni per un radicale salto di qualità dell’organismo urbano; come la storia, cioè, sia venuta a porre in essere una situazione in cui, mentre è sempre possibile che continui il dissolversi della città in un insediamento amorfo e inordinabile, sono però presenti le condizioni per un definitivo trascendimento dei limiti che hanno impedito, da sempre, il manifestarsi di una solida e dispiegata autonomia dell’ordinamento formale della città: le condizioni positive, dunque, per la costruzione di una città realmente e pienamente tale.

7. Centralità del consumo nella città e nel modello opulento

Un primo elemento sul quale dobbiamo soffermarci per svolgere la nostra argomentazione, è costituito da una caratteristica che - come già si è detto - si pone come una connotazione essenziale e di principio della società opulenta: il fatto, cioè, che in tale società il consumo, sebbene rimanga pur sempre ordinato a un bisogno cristallizzato e definito nella forma del bisogno della vita fisica dell’uomo, diviene comunque il momento decisivo e centrale della dimensione economica e dell’intera società civile. Il consumo, in altri termini, non è più definito come una funzione esclusiva della produzione, come il semplice costo della forza-lavoro necessaria a sviluppare il processo produttivo. Esso diviene invece, per la produzione medesima, da mero strumento (quale è inevitabilmente un consumo ridotto a consumo produttivo), reale problema: non si presenta forse il consumo, già dal primo affermarsi dell’opulenza, come una realtà che è indispensabile indurre per poter continuare a espandere l’attività produttiva? Non è comunque l’espansione produttiva ormai strettamente condizionata a un indefinito allargamento del consumo?

Quest’ultimo insomma, il consumo, acquista nella società opulenta un peso e un’incidenza decisivi e determinanti indipendentemente dal fatto di essere un input della produzione, un suo momento interno; esso si afferma e si sviluppa con una sua specifica autonomia, e dunque, in definitiva, proprio in quanto consumo. Tutto ciò significa allora - ed è questo che soprattutto ci interessa sottolineare - che una categoria, di cui abbiamo riconosciuto la decisività per l’operazione urbanistica, acquista ora, con l’opulenza, una dimensione assolutamente nuova. Quel consumo che, manifestandosi nel borgo e nella città primigenia come meta-economica fruizione comune delle qualità religiose, politiche, civili, estetiche, consentiva il sorgere di una forma autonoma dell’insediamento urbano; quel consumo, che la vittoria capitalistico-borghese sull’assetto signorile doveva invece asservire seccamente alla produzione, alienando per ciò stesso l’ordinamento formale della città; quel consumo, infine, di cui i padri dell’urbanistica moderna (gli Owen, i Fourier, i Godin) dovevano intuire la fondamentale importanza per la città, ponendolo al centro e al cuore dei loro utopistici insediamenti, quel medesimo consumo si è ora trasformato, nell’assetto opulento, in una realtà economica e sociale dalla quale non si può prescindere.

8. Il rischio dell’opulenza.

Certo, il consumo può - anzi, nelle condizioni storiche date, deve - rimanere opulento, e dunque necessariamente arbitrario e individualistico: questa infatti è la tendenza connaturata allo sviluppo evolutivo del sistema in atto. E in tal caso, come si è già osservato, il consumo, poiché è arbitrario, non è capace di fornire il sostegno di alcuna legge alla città, e poiché è individualistico, tende anzi a dissolverla, eliminandone la radice sociale. Se il consumo rimane quindi strettamente caratterizzato dall’opulenza, l’insediamento umano ripercorre all’indietro il proprio cammino: esso si riduce a una dispersione anarchica e casuale, o a una mera e informe aggregazione di residenze, simile a quella che era costituita dall’insediamento peculiare all’età delle “pompose Babilonie”. La città, in tal caso, non solo decade, ma giunge alla propria catastrofe. Dal momento che tutti, o per meglio dire che ciascun abitante dello insediamento opulento può - e addirittura deve - allargare all’indefinito i propri consumi, e dal momento che una simile indefinita espansione non ha alcuna regola realmente comune che possa consentire di conferirle un qualche ordine, ecco che la città si avvia alla propria definitiva crisi lungo due direzioni alternative.

Da un lato, infatti, la proliferazione disorganica dei consumi individuali conduce - ove e finché si rimanga nell’ipotesi di un insediamento concentrato - a una crescente e irrefrenabile congestione, che porta - in una prospettiva di cui siamo già in grado di conoscere e di patire, nelle nostre odierne metropoli - l’iniziale manifestarsi -a una completa e insanabile paralisi della vita urbana. Dall’altro lato, a mano a mano che le condizioni d’esistenza entro un simile convulso aggregato si rivelano umanamente insostenibili, non esistendo più alcuna ragione di rimanere vicini gli uni agli altri per fruire degli individualistici consumi opulenti, si è sollecitati e sospinti alla dispersione delle residenze. Ciascuno tende sempre più, o almeno per un maggior tempo, a insediarsi singolarmente e isolatamente in questa o in quell’altra parte del territorio, in una inconsapevole e grottesca restaurazione dell’insediamento dell’autoconsumo. In definitiva, la città si dissolve.

Questo è dunque il destino che è riservato alla città se il fatto nuovo, costituito dall’affermarsi del consumo, rimane entro la stretta logica del modello opulento. Ma ciò significa allora che esiste dal punto di vista dell’urbanistica un massimo di necessità e di urgenza di superare la fase opulenta. La disciplina urbanistica, in altri termini, può sviluppare la propria operazione solo a patto di impegnarsi, sul suo specifico terreno, nello sforzo di contribuire a dar vita a uno sviluppo della città - entro un generale sviluppo della società - che sia radicalmente diverso da quello che è peculiare al modello dell’opulenza. E del resto, precisamente a causa del particolare ruolo svolto, nell’assetto opulento, dal consumo di tutti i produttori, e proprio in ragione della decisività di quest’ultimo per l’operazione urbanistica, si presenta oggi anche un massimo di possibilità di utilizzare le condizioni, il terreno, la situazione storica dell’opulenza, per iniziare la costruzione di una città nuova; di una città, in altri termini, che colga l’occasione dell’opulenza per superare i limiti e le alienazioni antiche e, insieme, le odierne minacce.

9. L ‘occasione dell’opulenza.

In effetti esiste, nel concreto, la possibilità di far giocare il consumo in modo diverso da come è comportato nell’opulenza. Tale possibilità è insita in una contraddizione di fondo implicita nel consumo opulento. Abbiamo visto che l’ordinamento dell’opulenza è caratterizzato - in linea di principio e in linea storica - dal fatto che in esso acquista un massimo di centralità e di decisività il consumo di tutti i produttori. Anzi, poiché la qualifica di produttore, di lavoratore, tende sempre più a risolversi in un attributo formale, in una giustificazione sociologica, o addirittura nel sostegno e nell’alibi psicologico di un’esistenza umana che, fuori del lavoro, non riesce a trovare una propria regola; poiché insomma, per quei motivi che abbiamo più sopra largamente accennato, l’esser produttore si avvia in sostanza a divenire, per l’uomo, solo un titolo per poter consumare, si può quindi affermare senz’altro, e decisamente, che nell’ordinamento dell’opulenza la realtà centrale e dominante è costituita dal consumo di tutti gli uomini.

Ma d’altra parte (e anche su questo punto ci siamo già soffermati) il consumo di tutti viene poi, nel quadro dell’opulenza, individualisticamente fruito, per la ragione fondamentale che è rimasto esclusivamente consumo di beni necessari alla soddisfazione del bisogno della vita fisica: di quel bisogno, cioè, che, ove sia assolutizzato e vissuto come l’unico possibile, non postula, per il proprio appagamento, alcuna realtà comune e sociale.

Ecco, dunque, i termini della potenziale contraddizione implicita del consumo opulento. Da un lato, esso è consumo di tutti; è un consumo generalizzato, egualitario, democratico, che come tale pretende di trasformarsi in consumo comune: che pretende, cioè, d’esser fruito dagli uomini in quanto membri di una comune società. Ma dall’altro lato, esso è un consumo vissuto nella forma individualistica; è un consumo, perciò, che incontra nell’individualismo non solo l’insuperabile limite per la piena esplicitazione della sua tensione comunitaria, ma la vera ragione del suo permanere in amorfo consumo di massa.

Ora è proprio nel nodo costituito dalla contraddizione latente nel consumo opulento che l’azione degli urbanisti può inserirsi; è proprio incidendo in tale contraddizione e contribuendo a risolverla che la loro opera può raggiungere una sua positiva efficacia. Ed è allora evidente che l’operazione urbanistica viene ad agire, in tal modo, entro una linea d’azione che comporta la prospettiva del definitivo trascendimento dell’opulentismo e del suo vizio di fondo (la riduzione del bisogno umano ai bisogni della sussistenza fisica dell’uomo), ma che nello stesso tempo, poiché è una linea d’azione che può cominciare a realizzarsi nell’immediato, costituisce già, per ciò stesso, un inizio concreto di superamento dei limiti, degli errori, delle mistificazioni dell’opulenza.

Lo abbiamo già affermato: ci sembra che l’attuale cultura urbanistica non sia ancora pervenuta a formulare un’analisi sufficiente della città opulenta, e che, per questo motivo, essa non abbia potuto individuare chiaramente e coerentemente le radici e le cause dell’attuale situazione della città, né, di conseguenza, le prospettive e le speranze che possono schiudersi al suo futuro. E poiché l’opulenza costituisce ormai l’innegabile realtà di fatto, la cultura urbanistica - quando non si oppone disperatamente e velleitariamente a tutte le condizioni date, com’è il caso, già da noi esaminato, del neo-utopismo - finisce inevitabilmente per patire la logica dell’ordinamento dell’opulenza e per subordinarvisi: il che accade sia quando si aderisce e ci si adegua piattamente al portato dello sviluppo storico, accettandolo acriticamente in tutti i suoi aspetti, sia quando si tenta di distinguersi da esso e di criticarlo, senza però aver maturato una sufficiente consapevolezza della sua ambiguità, e quindi dell’occasione storica che essa costituisce.

L’atteggiamento di acritica adesione all’opulentismo costituisce a sua volta il comune substrato di due differenti posizioni: una subisce l’opulenza come processo in atto, ed è quindi contraddistinta da una visione della realtà ancora dinamica, irrequieta, apparentemente anticipatrice; l’altra accetta l’opulenza come l’unica realtà possibile, come il dato indiscutibile e assiomatico, in nessun modo valutabile e criticabile.

Gran parte della cultura urbanistica italiana è dominata, ci sembra, dalla prima di tali posizioni; e ciò non è davvero casuale o inspiegabile, ma è invece strettamente legato alle generali condizioni della nostra società. In Italia, infatti, l’opulenza è indubbiamente un processo in atto, il quale, nella misura in cui è anche il portatore di valori storicamente positivi (la fuoriuscita dalla miseria e dalla fame, l’affermazione proletaria, la pacificità della democrazia, la liquidazione dell’importanza sociale dei privilegi lbol1ghesi e di quelli pre-moderni), e nella misura in cui, per converso, è frenata e ritardata dalle resistenze opposte dai residui del passato, sollecita e sospinge a una partecipazione attiva al suo realizzarsi.

Naturalmente, dato che una simile posizione non è fondata su di una consapevolezza delle autonome esigenze di sviluppo della città e su di una conseguente critica dell’opulentismo, ed è anzi contraddistinta da una inconsapevole ma globale accettazione di quest’ultimo, fuori da ogni capacità di distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi, si giunge ad assumere come valori anche gli aspetti più inquietanti ed erronei dello sviluppo opulento, e si è portati a rivivere e a ribadire quell’impostazione che abbiamo definito funzionalistica. Ecco, insomma, che la città viene considerata e riguardata come una mera e subordinata funzione dell’assetto opulento del sistema.

Necessariamente, contro e malgrado ogni buona intenzione, si concepisce allora l’urbanistica come un semplice strumento per la lotta dell’opulentismo contro le remore e gli impacci che ne ostacolano lo sviluppo. E poiché, in quanto urbanisti, si può partecipare a questa lotta solo conformando la città secondo il modello di riferimento adottato (quello, appunto, dell’opulenza), si giunge, nel concreto, a ideare e a progettare degli insediamenti i cui punti di forza sono costituiti dall’esaltazione e dalla celebrazione delle più vistose conseguenze dell’opulentismo: l’ipertrofia delle attività terziarie, nelle quali viene vissuto il lavoro superfluo; il dinamismo irrequieto, che deriva dalla mancanza di ogni regola umanamente accettabile; la ,genericità dei valori e dei contenuti, in cui si esprime la gratuità e l’arbitrarietà del consumo opulento; infine, la fuga solitaria verso la natura, che costituisce la evasione estrema, e necessariamente individualistica, da una città ridotta a congestionata “conurbazione”.

2. L’astrazione sociologistica di Kevin Lynch

Una identica impostazione funzionalistica caratterizza la seconda delle posizioni cui abbiamo accennato: quella che, identificando empiricamente l’esistente con l’assoluto, accetta la condizione dell’opulenza come l’unica realtà possibile. Crediamo che questa posizione possa essere efficacemente illustrata da alcune tesi che sono alla base delle ricerche del noto studioso statunitense, Kevin Lynch.

Il Lynch si propone di analizzare la città e di individuarne gli elementi caratterizzanti attraverso la percezione che i suoi abitanti ne hanno; “dobbiamo considerare la città -egli dice non come un oggetto a sé stante, ma nei modi in cui essa viene percepita dai suoi abitanti”. L’inchiesta diretta, il test orale e grafico, le “battute di rilevamento” condotte da squadre di esperti, la costruzione infine di una “sintesi” mediante la sovrapposizione delle diverse impressioni sulla città ricavate dagli “uomini della strada” che in vario modo hanno collaborato all’impresa: questi sono gli strumenti (l’armamentario tecnico della sociologia più ammodernata) dei quali Lynch si giova per la sua analisi dell’ambiente urbano. Una simile analisi, tuttavia, non resta per il Lynch fine a se stessa. Dallo studio e dall’elaborazione del materiale in essa raccolto, dall’indagine accurata e minuziosa delle sensazioni che i mille oggetti di cui è composta la città (vie, case, insegne, quartieri, alberi, argini, fiumi, monumenti, arredi, parchi) sollecitano e suscitano negli abitanti, lo studioso americano intende desumere le leggi che consentano di costruire ambienti urbani dotati dell’attributo che più lo interessa: dotati cioè di figurabilità, ossia di quella “qualità che conferisce a ogni oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore una immagine vigorosa”.

Crediamo di vedere, sottese all’impostazione di Lynch, due esigenze la cui validità ci sembra incontestabile, e che è tanto più interessante porre in rilievo, in quanto esse trapelano da un contesto d’idee e di convinzioni che a nostro avviso è viziato (come subito vedremo) da gravissimi limiti. Ci.sembra intanto, in primo luogo, che l’interesse dimostrato per la figurabilità possa alludere (certo ambiguamente) all’esigenza di ricondurre l’attenzione dell’urbanista su quello che è il suo più pertinente e peculiare campo d’azione: la forma della città, i valori estetici che in essa devono esprimersi. Ci sembra poi, in secondo luogo, che nel proposito di vedere e di studiare la città attraverso gli occhi dei suoi abitanti, si nasconda in qualche modo la esigenza di assumere l’uomo come punto di partenza dell’operazione urbanistica.

Ma quale uomo? I limiti della posizione di Lynch divengono subito palesi. “Pragmatismo e sociologismo americano costituiscono il sostrato culturale a cui va ricondotto il suo pensiero”, e di conseguenza l’uomo è per lui, ovviamente, l’uomo dato, l’uomo di Boston o di New Jersey o di Los Angeles, così come può esser colto secondo i metodi e con “le distinzioni della psicologia sperimentale”. È un uomo “metastorico e metaculturale”, nel senso di una disumana e alienante astrazione: non nel senso cioè che possa e sappia giudicare e criticare la cultura e la storia per utilizzarle e rinnovarle, ma nel senso che, concepito ormai come “un organismo biologico legato alle sensazioni elementari e alle necessità pratiche”, vive, di necessità, solo nel presente e, distaccandosi da ogni legame con qualsivoglia tradizione, si è identificato con quel solo momento della sua storia che è appunto, con le sue ideologie, con la sua cultura, la società opulenta.

La generica forza di convinzione delle “immagini” urbane; la mera “percezione visiva” suscitata nel singolo individuo (e sia pure nelle “centinaia di migliaia di individui” statisticamente sommati) dai vari e disparati elementi della città di oggi; la “capacità d’orientamento” che quest’ultima richiede all’uomo che in essa s’avventura: questi sono i fenomeni che interessano il Lynch. E allora, fatalmente, mentre l’esigenza di ricondurre l’attenzione sui problemi della forma si dissolve in uno sterile formalismo psicologico-emozionale, la sua totale indifferenza per una definizione intrinsecamente autosufficiente e non contraddittoria della città lo rende pienamente disponibile per l’opulentismo, Nella patria del Lynch, d’altronde, la società opulenta non si identifica forse, quasi senza più residui, con quella situazione data che nella concezione e nell’ideologia dell’empirismo neopositivistico esaurisce ogni possibilità?

È chiaro dunque perché, sulla base della posizione del Lynch, la città è un fenomeno al quale non è possibile conferire alcun ordine. Essa non è il luogo di una cittadinanza, non è il luogo in cui risiede e opera una società; è soltanto e semplicemente l’ asilo (e la sorgente dei godimenti “visivi” o”percettivi”) di una moltitudine di individui, i quali vivono la loro libertà in modo meramente singolare e particolaristico. Non vi sono quindi - non possono esservi - leggi capaci di regolarla, né ideali comuni che possano darle una ragione.

3. La critica di un comunista.

Il processo dello sviluppo opulento non viene tuttavia tranquillamente accettato dall’insieme dell’attuale cultura urbanistica. Oltre alle due posizioni delle quali ci siamo ora occupati, e che possono venire entrambe riportate a un’identica matrice funzionalistica, esiste infatti - come abbiamo accennato - una terza posizione, caratterizzata dal fatto di avvertire l’estensione e la gravità della crisi cui è giunta l’intera vita sociale nella svolta dal capitalismo borghese all’opulenza, e di opporsi alle conseguenze che tale crisi comporta sul terreno dell’urbanistica, senza individuare peraltro in tutta la sua ambiguità - e dunque anche nella sua potenzialità positiva - la portata di quella svolta.

Una simile posizione è sostanzialmente espressa da un noto urbanista italiano d’orientamento marxista, Carlo Aymonino. Appunto per questo motivo, appunto cioè perché ci sembra che l’Aymonino possa essere considerato un significativo esponente della posizione che ora ci interessa esaminare, ci soffermeremo brevemente sulle sue tesi.

All’Aymonino, senza dubbio, non sfuggono le negatività presenti nell’attuale condizione della città, ma cade nell’errore (di utopistica radice) di un’apodittica negazione di tutta la realtà storica. L’informità della “città terziaria” e il suo carattere parassitario e superfluo; la dissoluzione della città, da “concentrazione stabile produttiva e culturale [...] in una concentrazione temporanea che tende sempre più ad assolvere il solo compito dello sviluppo forzato dei consumi”; la “marcata accentuazione di taluni consumi individuali che divengono “fine a se stessi” e che finiscono per condizionare “l’intera struttura urbana”; infine, “la generale tendenza alla fuga dalla città, verso un territorio che sempre più assume anch’esso gli “aspetti , alienati ‘ della città stessa”, tutti questi fenomeni, che indubbiamente e palesemente caratterizzano la città dell’assetto opulento, sono colti e enumerati (e naturalmente condannati) con una sensibilità critica e una decisione che derivano allo studioso dalla sua esperienza comunista. Tuttavia, l’Aymonino si limita a enumerare semplicemente tali fenomeni, descrivendoli con una certa sommarietà: egli non li analizza e non tenta di individuarli nelle loro cause. La realtà è che egli non intuisce il fatto che la crisi, di cui pur egli coglie tutti gli aspetti negativi,costituisce una svolta effettiva nel processo storico: poiché precisamente l’approdo opulento è senz’altro una novità, una fuoriuscita dall’ordinamento capitalistico-borghese.

I due modelli (quello capitalistico-borghese e quello opulento ), non vengono neppure distinti.. La situazione attuale - la situazione dell’opulenza - è presentata, fuori da ogni sua ambiguità, come un mero deterioramento di quella borghese; la città contemporanea è semplicemente il prodotto di alcune “trasformazioni”, sia pure “notevoli”, della città capitalistico-borghese: e non a caso, sembra talvolta che “l’elemento determinante” di tali trasformazioni debba esser visto unicamente nella “tendenza, da parte delle imprese industriali [ ...] a lasciare la città”.

Ne consegue che l’Aymonino identifica il superamento dell’assetto opulento (il quale tuttavia, et pour cause, non è mai definito come tale dall’Autore) nel rovesciamento dell’assetto capitalistico-borghese - in realtà, come tale, già storicamente finito - e nell’approdo più rapido possibile alla soluzione rivoluzionaria prevista e preconizzata dal marxismo; la quale però, poiché l’avversario che combatteva è stato ormai liquidato dall’opulenza, non si presenta più con le caratteristiche di quella mordente incisività sulla realtà storica che così a lungo ha sostenuto il movimento operaio e ne ha determinato la coscienza e la capacità di lotta, ma deve ormai dispiegarsi, nel vuoto, in tutto il suo astratto contenuto ideologistico, e dunque come salto qualitativo assoluto. Non a caso l’Aymonino, lungi dal partire da una differenziata analisi critica della città di oggi, e insomma da un esame che permetta di rilevare l’ambiguità e di distinguere la potenzialità positiva della città opulenta, dirige sostanzialmente il suo sforzo a dedurre, da una ideale città del futuro, quelle regole che l’urbanistica dovrebbe adoperarsi a imporre al magma confuso e caotico della megalopoli moderna.

E qual’è poi “l’idea generale”, qual’è “la nuova condizione umana, di valore universale”, che in tali regole dovrebbero esprimersi? Di necessità, l’una e l’altra non possono non essere quanto mai indeterminate e vaghe: “la molteplicità delle scelte” per “la più completa libertà sociale” è infatti, per l’Aymonino, quel contrassegno decisivo della società di domani, che nella città d’oggi bisogna prepararsi a esprimere “in termini formalmente compiuti”.

La scarsa chiarezza di tali formulazioni - che l’Autore d’altra parte riconosce di dover “verificare con una ricerca più approfondita” - giustifica il tentativo d’interpretarle. E l’interpreteremo secondo una chiave che l’Aymonino medesimo, con una sua citazione conclusiva di un brano di Marx, sembra suggerire e legittimare: secondo una chiave marxiana.

Ma prima di accingerci a questo tentativo, vogliamo osservare che il brano di Marx citato dall’ Aymonino - soprattutto se letto nel suo contesto - non ci sembra particolarmente calzante con l’”ipotesi di ricerca” alla quale lo studioso comunista vuole riferirlo. Marx sostiene infatti che “la natura della grande industria porta con se variazioni del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Si è visto - prosegue Marx - come questa contraddizione assoluta elimini ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell’operaio, e minacci sempre di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale; e come questa contraddizione si sfoghi nell’olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale. Questo è l’aspetto negativo. Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l’effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell’operaio come legge sociale generale della produzione e l’adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita e di morte. Per essa diventa questione di vita e di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l’un con l’altro.

Marx coglie quindi una contraddizione tra la “grande industria” e la “sua forma capitalistica”, e riconosce nell’”individuo totalmente sviluppato” un obiettivo che si raggiungerà solo con l’”inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia”. Ma ci ‘sembra chiaro che un simile obiettivo è, nella dottrina comunista e marxista, soltanto un obiettivo storico, intermedio; un obiettivo che si colloca pur sempre all’interno di quella “sfera di produzione materiale vera e propria” da cui è indispensabile uscire per raggiungere, nella sua pienezza, il “regno della libertà”. Ci sembra in definitiva che sia a una siffatta “libertà”, e non a quella direttamente e quasi tecnologicamente legata alla “grande industria”, che l’ Aymonino si riferisca: ci stupirebbe, oltretutto, che la nuova condizione umana di valore universale, cui l’ Aymonino allude, fosse esclusivamente legata a una determinata “forza produttiva”, quale la “grande industria” indubbiamente rimane.

4. Città comunista e città opulenta: due prospettive coincidenti?

In realtà, come è sufficientemente noto, nella posizione marxiana e marxista la condizione umana di piena libertà, quella condizione che comporta il salto qualitativo dal “regno della necessità” al “regno della libertà”, si viene a realizzare e a concretare nella fuoriuscita dal lavoro: e cioè da quel momento insostituibile della vicenda dell’uomo, da quel fondamentale aspetto della sua operazione, che nel marxismo è vissuto come contingente - o meglio storica - alienazione, e nel cui superamento pienamente si identifica il punto di discrimine tra un’esistenza umana determinata “dalla necessità e dalla finalità esterna”, e un’esistenza vissuta invece, finalmente, come libero e dispiegato “sviluppo delle capacità umane”.

Non ci sembra una pretestuosa forzatura delle tesi dell’Aymonino, né un’avventata estrapolazione di esse, sostenere - come sosteniamo - la coincidenza tra la città in cui sarà verificata “la più completa libertà sociale” e la società che sarà marxianamente pervenuta al “vero regno della libertà” uscendo dalla necessità del lavoro. C’è dato allora di cogliere il perché della insufficienza e dell’astrattezza dell’ “ipotesi” dell’Aymonino, nella sua pretesa di essere proposta risolutrice dei problemi della città d’oggi. Bisogna infatti convenire che, per la posizione di cui ci stiamo ora occupando, la città dell’avvenire, la città della “molteplicità delle scelte” e della “più completa libertà sociale” - quella città da cui pur debbono trarsi le regole per ordinare la realtà urbana di oggi - è vista e prefigurata come la città in cui si è raggiunta quella “condizione fondamentale” per l’avvento del “vero regno della libertà” che Marx vedeva in una massima “riduzione della giornata lavorativa”, e in cui perciò l’estensione generalizzata del tempo libero è divenuta la condizione comune di una umanità affrancata dall’alienazione del lavoro.

Ma pur tralasciando ogni considerazione di principio sulla validità umana di una simile prospettiva, dobbiamo peraltro necessariamente sottolineare che entro una tale ipotesi la tensione rivoluzionaria del comunismo finisce inevitabilmente per identificarsi con la realtà storica dell’opulenza. È stato proprio uno studioso di formazione marxista, Herbert Marcuse, a cogliere con singolare acutezza il fatto che, nella realtà della società opulenta, viene esclusivamente a concretarsi proprio quella tesi marxiana “secondo cui il regno del lavoro non può che restare il regno della necessità [ ...] , mentre il regno della libertà può svilupparsi unicamente al di fuori e al di sopra del regno della necessità”. Afferma infatti ancora il Marcuse:

“Io credo che qui dovremmo discutere se nella società industriale ad alto sviluppo questa concezione possieda ancora un valore in generale, ed è probabilmente questo il punto più cruciale di tutta la questione: amiamo tutti i concetti di piena realizzazione di ciascuno, di libero dispiegamento delle capacità individuali, a tutti sta a cuore l’eliminazione dell’alienazione, però oggi dobbiamo domandarci: che senso ha una cosa del genere? Che senso ha, se nella società tecnologica di massa il tempo lavorativo, il tempo lavorativo socialmente necessario, è ridotto al minimo e il tempo libero quasi tocca le proporzioni di un tempo pieno? Che fare allora? Se ancora indulgiamo a espressioni venerande come “lavoro creativo” o “sviluppo creativo”, non verremo a capo di nulla. Che senso ha oggi quella vecchia istanza? Vuol dire che tutti andranno a pesca o a caccia, che scriveranno tutti poesie o dipingeranno e via elencando? So bene che è facilissimo tirare al ridicolo in queste cose, e in questo momento mi esprimo in modo provocatorio, giacché proprio questo è per me uno dei più seri problemi del marxismo e del socialismo, e penso non di questi soltanto. Proprio su questo punto dobbiamo acquisire concretezza, e non limitarci più a discorrere di autodispiegamento dell’individuo e di lavoro non alienato, ma porci la domanda: che senso ha una cosa del genere? Perché la progressiva riduzione del lavoro necessario non è più un’utopia, bensì una possibilità molto reale”.

Allora la città del futuro, la città nella quale ci si illude di trovar la legge per superare le negatività presenti nella città contemporanea, viene a coincidere, praticamente senza residui, con la città dell’opulenza. Infatti, come abbiamo dimostrato, il tempo libero non è altro che il portato naturale dell’evoluzione del sistema in cui il lavoro è ridotto - sulla base della originaria operazione dello sfruttamento - a capitale; di quella evoluzione, precisamente, che ha nell’assetto opulento il suo punto terminale e invalicabile.

Quindi affrontare oggi il problema della città entro la prospettiva di una libertà realizzata come uscita dal lavoro, conduce, di fatto, semplicemente a proseguire lo sviluppo opulento dell’insediamento urbano, venendo a porre oggettivamente in crisi ogni volontà rivoluzionaria di rinnovamento; sicché, seppur si vuole salvare quest’ultima, seppur si vuole rimanere fedeli, si è necessariamente sollecitati alla fuga in avanti nell’utopia e nell’estremismo. In realtà, proprio dalle posizioni come quelle dell’Aymonino si sprigiona spesso una tensione ad accelerare ed estremizzare quel processo di trasformazione opulenta della città che - lo abbiamo visto - porta alla fine, inevitabilmente, l’insediamento urbano al suo destino di crisi: a quel destino, cioè, che vede l’unica possibile uscita dalla congestione metropolitana (e dalla conseguente paralisi della vita urbana) nella dispersione delle residenze e nella dissoluzione dell’organismo cittadino.

Ma c’è di più: poiché il limite della piena uscita dal lavoro e della generale affermazione del tempo libero rimane semplicemente un limite, poiché in altri termini non si raggiunge mai, per i motivi che abbiamo più sopra enunciati, la piena e definitiva uscita dalla forma (fenomenologica, sociologica, psicologica) del lavoro e il tempo libero viene invece largamente vissuto come lavoro superfluo, ecco che la posizione della quale ci stiamo ora occupando deve rivelare, come necessario contrappunto all’estremismo, anche il proprio velleitarismo. Ed ecco allora che, mentre da un lato, come prima s’è visto, si è dovuta far propria la prospettiva e la tendenza dello sviluppo opulento, dall’altro lato, ogni qual volta ci si propone di far concretamente i conti con le cose, si è costretti ad accettare la realtà dell’opulenza così come questa storicamente si presenta. Ci si riduce, perciò, in definitiva, accantonando la critica e l’opposizione alle conseguenze dell’opulentismo, a rimaner subalterni a quest’ultimo anche nell’immediato: ad accettare in sostanza questa città così come il processo opulento la va configurando, e a celebrarne gli aspetti più caratterizzanti e negativi: il “problema” del tempo libero, la centralità delle attività terziarie, la genericità e la fungibilità dei valori e dei contenuti.

Non ci sembra dunque casuale se nell’attuale pratica professionale degli urbanisti italiani si rileva spesso una chiara tendenza formalistica, dalla quale non è esente chi, come l’ Aymonino, pur partendo dalla premessa della necessità di un impegno nell’analisi e nella trasformazione della società, e cogliendo poi una serie di importanti aspetti della nostra realtà sociale e urbanistica, non raggiunge però una sufficiente consapevolezza dei problemi e delle prospettive del nostro tempo. Una prova significativa di tale tendenza formalistica è costituita, crediamo, dalla fortuna che ha incontrato - proprio tra gli urbanisti più vicini alla posizione che abbiamo ora analizzato - la tematica non priva d’interesse, ma certo ambigua, dei contenitori. Questi sono infatti presentati e concepiti spesso come organismi urbanistici e architettonici nei quali è possibile svolgere, indifferentemente, una serie di funzioni estremamente varie e diverse (commerciali, residenziali, burocratiche e amministrative, artigianali, scolastiche, ricreative e così enumerando), senza che nessuna di esse conferisca un qualche carattere distintivo all’edificio nel quale vien svolta. Il contenitore, in altri termini, si configura come una struttura edilizia e urbanistica massimamente fungibile e ”poli-funzionale”, disponibile per qualunque contenuto, e ridotta quindi tendenzialmente a pura forma, ossia a mera empiricità generica.

5. La questione delle attrezzature collettive”

C’è un tema, fra tutti quelli che oggi costituiscono argomento di studio e di discussione tra gli urbanisti, che nonostante la sua apparente settorialità e il modo in cui finora è stato affrontato, ci sembra comunque - per tutto quello che abbiamo fin qui i sostenuto - particolarmente interessante e merita senz’altro di essere preso in considerazione: è il tema delle cosiddette “attrezzature collettive”. È chiaro il motivo di questa nostra affermazione: le “attrezzature collettive” costituiscono, infatti, i luoghi, le aree, gli edifici predisposti e organizzati per la soddisfazione di una serie di esigenze di carattere pubblico e comune; esse costituiscono dunque, per ciò stesso, un momento urbanistico legato a quella realtà del consumo comune di cui abbiamo ribadito più volte l’importanza e la decisività.

Le attrezzature scolastiche e per l’infanzia, le chiese e i centri parrocchiali, le attrezzature sanitarie e quelle ricreative e sportive, i centri culturali e le biblioteche, le attrezzature per l’esercizio dei diritti democratici, i centri sociali e quelli civici, i centri commerciali e le attrezzature collettive domestiche: queste sono - in una delle classificazioni correnti - le principali categorie di “attrezzature urbanistiche” oggi riconosciute. E non è forse evidente che esse costituiscono una sorta di prolungamento di quei luoghi e quegli edifici (l’acropoli, la rocca, l’agorà, il foro e l’arengo, il tempio e la cattedrale) che nella città classica e in quella medievale costituivano i punti focali della vita cittadina e i nuclei dell’ordinamento formale dell’organismo urbano? Non sono esse forse lo sviluppo di quei servizi collettivi che Owen e Fourier ponevano al centro delle New Harmony o dei Falansteri? Tutto ciò è talmente ovvio e palese che non merita certo di soffermarvisi più a lungo. Ma quel che vogliamo ora sottolineare è che la questione delle “attrezzature collettive”, ove sia posta al centro dell’interesse e dell’impegno di quanti si occupano del destino della città contemporanea, se consente di cogliere, nell’immediato, l’occasione dell’opulenza, costituisce anche un iniziale superamento dei suoi limiti.

In effetti, dato che l’assetto opulento è caratterizzato dal fatto che, nel suo ambito, il consumo di tutti è divenuto la dimensione centrale e decisiva dell’intera vita economica e sociale, e che esso può -e addirittura deve - crescere ed espandersi con una propria autonomia, ecco che esiste oggi la possibilità concreta di cogliere l’occasione dell’opulenza non solo per soddisfare, in modo via via più ampio, i bisogni che vengono oggi avvertiti, ma per porre anzi, dispiegatamente, il consumo di tutti - nella sua nuova autonomia - come la realtà centrale e ordinatrice dell’organismo urbano: di porre perciò le “attrezzature collettive” come l’elemento decisivo della città.

D’altra parte, dal momento che il limite dell’opulentismo è soprattutto ed essenzialmente costituito, nei confronti della città, dall’individualismo che è intrinsecamente connesso al modo opulento di fruire il consumo, è chiaro che ogni sforzo orientato a consolidare o a inventare, a proporre o a sostenere forme comuni di consumo, è uno sforzo che, per ciò stesso, tende a porsi in opposizione alla logica del modello opulento, a contraddirla e a negarla e, infine e in prospettiva, a pretenderne e a prepararne il rovesciamento e la sostituzione. La questione delle “attrezzature collettive” potrebbe allora effettivamente costituire il fulcro di un’azione volta a restituire un ordinamento autonomo alla città; a operare dunque per la città di domani, cominciando a costruirla nel presente. E poiché una tale questione è stata già da tempo affrontata, dalla cultura e dalla prassi urbanistica, si tratta di vedere adesso in che modo gli urbanisti abbiano saputo lavorare su di un simile tema.

Occorre innanzitutto rilevare, a questo proposito, che negli ultimi anni si è manifestato nel nostro paese un rinnovato interesse per il problema delle “attrezzature collettive”, e che un primo frutto di tale interesse può esser già oggi individuato in alcuni parziali approfondimenti di quel problema, i quali, pur senza costituire delle clamorose novità -e, soprattutto, senza aver condotto ancora a un organico e complessivo sviluppo della questione delle “attrezzature” -, indicano tuttavia una positiva tendenza della cultura urbanistica, che ci sembra interessante sottolineare per due motivi particolari.

Innanzitutto perché, dal momento che quegli approfondimenti non nascono da un tentativo di individuare le ragioni di principio dell’operazione urbanistica, e sono invece essenzialmente sollecitati dalle esigenze della pratica, essi - se sono ancora, appunto per tale motivo, precari e insufficienti - costituiscono però una prova ulteriore di un fatto al quale abbiamo già accennato: del fatto, cioè, che è la medesima realtà d’oggi, la realtà dell’opulenza, a pretendere ( e a consentire) un più largo e impegnato interesse al tema delle attrezzature urbanistiche. In secondo luogo, perché nella capacità dimostrata dagli urbanisti (o, almeno, dai migliori di loro) di avvertire e registrare la sollecitazione che scaturisce dalla concreta realtà sociale (quella sollecitazione per uno sviluppo del consumo di tutti, di cui s’è detto), si può scorgere un confortante segno di speranza per una loro più matura presa di coscienza.

La necessità di superare la tradizionale separazione tra “residenze” e “attrezzature”, e la conseguente concezione dello sviluppo della città come una continua “aggiunta” di unità integrate, in cui le parti tradizionalmente “residenziali” costituiscono solo un aspetto, inscindibile dagli altri; la proposta di realizzare un “telaio” di “attrezzature collettive” come struttura ordinatrice dell’organismo urbano, e dell’intero territorio, al quale è tendenzialmente esteso “l’effetto città”; l’esigenza di sottrarre “le attrezzature collettive” ai criteri strettamente funzionalistici o fisiologici che, nell’impostazione tradizionale, ne regolavano avaramente il dimensionamento, e la tendenza invece a stabilire degli “standards” fondati sulla previsione di un più largo affermarsi della dimensione sociale della vita dei cittadini , queste sono, tra le nuove acquisizioni dell’urbanistica italiana, quelle che ci sembrano più interessanti e promettenti. In esse, infatti, comincia a manifestarsi empiricamente non solo una generale tendenza a estendere quantitativamente il peso delle “attrezzature collettive” e a precisare e ad affinare i metodi per una loro migliore determinazione, ma, soprattutto, una iniziale e positiva volontà: la volontà di rompere le barriere che separano il consumo pubblico dal consumo privato e di vivere ogni momento della “residenza” come consumo pubblico; la volontà di ricondurre un tale consumo al suo ruolo di elemento centrale e ordinatore della città; di valutare e misurare l’efficacia dell’operazione urbanistica in base al grado di fruibilità del consumo comune assicurato a ogni cittadino dalle sistemazioni urbanistiche stesse; di trovare infine, proprio sul terreno del consumo pubblico e comune, il decisivo e peculiare punto d’incontro tra l’urbanistica e la realtà sociale.

6. L ‘ipotesi del modello nucleare”

Certo, una siffatta volontà, proprio perché per ora è generalmente vissuta come empirica approssimazione, proprio perché non è ancora sufficientemente fondata ne su di una chiara ed esplicita consapevolezza dei principi peculiari alla disciplina urbanistica né su di una rigorosa analisi del processo storico contemporaneo, rischia di stemperarsi nella ovvietà del praticismo - o addirittura di dissolversi nelle frivolezze brillanti di una moda -, e minaccia contemporaneamente di risolversi in una mera velleità tecnocratica.

Già altre volte la tendenza tecnocratica e il velleitarismo demiurgico hanno pesato sulle migliori intenzioni e sulle intuizioni più promettenti degli urbanisti. È il caso, che qui particolarmente ci interessa ricordare, di quella concezione “nucleare della città che, pur costituendo un primo tentativo moderno di conformare 1’insediamento umano sulla base di una determinata organizzazione delle attrezzature, si traduceva poi in uno schema razionalisticamente e astrattamente precostituito dei modi della convivenza sociale, il quale non trovava alcuna effettiva corrispondenza nella realtà della società civile, e tentava perciò di sovrapporsi a quest’ultima come una soffocante camicia di Nesso oppure - più sovente - veniva da essa anarchicamente rifiutato e infranto.

Non vogliamo affermare con questo che non abbia, in linea di principio, alcun senso la tesi secondo cui la società (e dunque anche la città) debba trovare la propria più peculiare e armonica organizzazione in una gamma via via crescente di organismi e istituti e livelli associativi, che dall’iniziale nucleo sociale della famiglia si allarghino a mano a mano fino a comprendere l’intera umanità. In questo senso, anzi, ci sembra che i propugnatori del “modello nucleare” abbiano colto, sia pure implicitamente e con tutti i limiti di un’approssimazione astrattamente sociologica, una importante verità di principio, che sarebbe del tutto erroneo negare seccamente, respingendo la vita sociale ai suoi poli estremi: l’individuo e l’umanità.

Resta tuttavia indiscutibile il fatto che oggi, nella concreta situazione della nostra epoca, la vita sociale non è organizzata - né è immediatamente organizzabile - secondo i moduli ipotizzati nel “modello nucleare” della città. Così, mentre l’esclusivizzata astrattezza di un tale modello conduceva i suoi sostenitori a esaltare gli ipotetici elementi di coesione entro i vari “livelli associativi” da essi previsti (e a trascurare di conseguenza le relazioni tra i diversi “livelli” ), la loro preoccupazione di valorizzare una sociologica “scala umana” li portava a dissolvere tendenzialmente l’unitarietà dell’intero organismo sociale e urbano in nome di una velleitaria - o soffocante - compattezza dei “livelli” elementari (le “unità di vicinato”, le “comunità”, i”quartieri”). E perciò appunto, essi erano inevitabilmente condannati a raggiungere, con la loro azione, due sbocchi pratici entrambi negativi.

Da un lato, infatti, nella misura in cui le loro schematiche teorie riuscivano a trovare una qualche concreta applicazione, essi potevano ancorarsi, entro il sistema sociale storicamente dato, a un unico punto di riferimento, a una sola struttura organizzativa: quella costituita dalla dimensione produttiva. Nascevano così i”quartieri operai”, o le “comunità” strettamente e funzionalmente asservite - in modo più o meno paternalistico - a questa o a quell’altra fabbrica; nascevano, insomma, le unità residenziali pienamente e direttamente appiattite alle leggi e agli interessi aziendali, segregate e rinchiuse nel cerchio angusto di una realtà produttiva prevaricatrice e alienante. Ma dall’altro lato, nella misura in cui la vita sociale rifiutava di farsi imprigionare negli schemi razionalistici e nelle tecnicistiche astrazioni dei propugnatori del “modello nucleare”, quest’ultimo veniva semplicemente vanifìcato e dissolto dall’incontro con la concretezza delle cose, e rivelava tutto il suo velleitarismo. La forza spontanea della vita sociale operante nella città - di una vita sempre più dominata dal dispiegarsi del consumo opulento -, sebbene priva di un suo ordine sufficiente disgregava le tecnocratiche illusioni dei pianificatori, e svuotava di contenuto e di significato i loro tentativi e i loro progetti.

7. La linea degli standards”

A un destino analogo va incontro chi, senza rendersi conto della reale portata e della potenzialità di rinnovamento che è sottesa al tema delle “attrezzature collettive”, vede in esso unicamente il problema di assicurare ai cittadini, in aggiunta alle dotazioni edilizie di cui già possono disporre (case, alloggi, stanze), “adeguate” dotazioni urbanistiche di verde attrezzato, di aree ed edifici scolastici, e così enumerando.

È esattamente ciò che accade nell’ambito di quella che può esser definita la “linea degli standards urbanistici”. Infatti entro questa linea si perviene, è vero, a comprendere che il problema della città può esser risolto solo se si pone l’accento sugli elementi pubblici, comuni, collettivi: ma questi ultimi non vengono visti come l’elemento ordinatore dell’intero insediamento umano, come il principio stesso della città, come il momento decisivo di quest’ultima e di ciascuna delle sue parti. Gli elementi pubblici vengono considerati invece unicamente come delle aggiunte , come delle integrazioni, che devono completare un assetto delle città che può, in definitiva, restare quello tradizionale.

Poco importa in altri termini, agli assertori della “linea degli standards”, che la porzione volumetricamente più consistente della città (quella costituita dagli edifici destinati alla residenza) resti sostanzialmente immodifìcata, e perciò dominata da una concezione individualistica dell’abitare. Poco importa che ogni uomo, ogni cittadino, resti un individuo nel suo alloggio, e che continui a fruire entro di esso un consumo individualisticamente organizzato: basta solo che ogni individuo possa disporre, oltre che dell’alloggio tradizionalisticamente inteso, anche di determinate quantità di aree destinate a usi comuni e pubblici.

È facile rendersi conto dell’insufficienza di una linea siffatta. Essa, in primo luogo, è una linea meramente riformistica, e come tale è per principio subordinata al sistema dato. Non abbiamo forse affermato che gli elementi pubblici sono concepiti - entro quella linea - solo come aggiunte e integrazioni? Ma allora, essi vengono inevitabilmente concessi unicamente laddove ( e nella misura in cui) il sistema può concederli, senza nulla modificare della propria sostanza. Per ciò appunto, la città che è possibile conformare secondo la “linea degli standards” non solo è una città nella quale i superamenti dell’individualismo sono sempre inevitabilmente parziali, hanno sempre un carattere meramente sussidiario, non solo è una città in cui ibridamente convivono elementi comuni e parti dominate dall’individualismo, ma è poi un insediamento nel quale quel tanto di elementi comuni, non più individualistici, che è stato concesso, può essere in ogni istante contraddetto e negato.

La “linea degli standards” è dunque anche una linea velleitaria. In effetti, in tutto il periodo in cui il processo dell’opulenza è ancora al suo inizio, la richiesta di dotazioni in aggiunta deve inevitabilmente venir respinta, perché la spesa che essa inevitabilmente comporta, mentre non appare oggettivamente necessitata, non corrisponde d’altra parte a una qualche riduzione di spesa (quindi a una liberazione di risorse) in un altro punto dell’assetto urbanistico e sociale.

Poi, a mano a mano che l’evoluzione opulentistica fa scomparire - nell’inutile abbondanza - ogni problema di risorse, e che diviene perciò economicamente possibile soddisfare la richiesta di quelle dotazioni in aggiunta, l’ibridismo tra elementi comuni e parti individualistiche d’1ll’insediamento viene fatalmente a risolversi nell’unico modo pienamente compatibile con l’opulentismo: con la fine cioè, con la scomparsa e la vanificazione, di quel tanto di elementi comuni che è riuscito a manifestarsi e a concretarsi, e con il trionfo di quell’insediamento disperso che segna evidentemente la fine di ogni linea legata all’espressione degli elementi comuni della città.

8. L ‘indispensabile punto di partenza

Disconoscere il carattere ambiguo dell’opulentismo impedisce di portare un contributo risolutivo alla crisi della città; si è infatti portati, inevitabilmente a una evoluzione del sistema sociale che è letale per la città, oppure - sottolineando esclusivamente ,gli aspetti negativi dello sviluppo opulento e impedendosi così di scorgere la potenzialità positiva che ambiguamente convive nella complessa realtà dell’opulenza - a vedere l’unica strada in un’astratta e velleitaria fuga in avanti. Ma non basta neppure - lo abbiamo visto - avvertire solo empiricamente la centralità della questione degli elementi comuni della città: che in tal modo non si giunge a comprendere il collegamento profondo che esiste tra il problema della rinascita della città e quello dello sviluppo della società, e si è condotti a oscillare tra le tentazioni tecnocratiche e demiurgiche e le ovvietà subalterne del riformismo.

Per superare effettivamente l’opulentismo (e, con esso, la minaccia che grava sulla città d’oggi) bisogna invero riconoscerlo innanzitutto come tale: bisogna assumere cioè piena consapevolezza della svolta che esso rappresenta rispetto all’ordinamento capitalistico-borghese e coglierne quindi, insieme, il limite erroneo e l’intrinseca potenzialità positiva. È solo in tal modo, è solo nel quadro di una reale e dispiegata comprensione dell’opulentismo e della concreta possibilità di superamento che in esso si manifestano, che possono oltre tutto acquistare un significato non velleitario ne generico alcune intuizioni che sono contenute nelle posizioni più interessanti della presente cultura urbanistica; è solo in tal modo che diviene possibile dare una ragione, un senso, una prospettività, una profondità storica a quelle concrete iniziative, oggi ancora vissute empiricamente, nelle quali i migliori urbanisti italiani dimostrano di saper cominciare a cogliere - almeno praticamente e nelle cose - la possibilità costituita dall’opulenza.

Per conto nostro, crediamo di aver dimostrato a sufficienza in che cosa risieda una simile possibilità; abbiamo anzi già accennato a una generale linea d’ azione (quella, in sostanza, che consiste nello sviluppo del consumo di tutti in consumo comune) attraverso cui quella possibilità può divenire effettuale. Ma come può cominciare a svo1gersi, concretamente e nei fatti, una simile linea d’azione? Come partire per cogliere l’occasione dell’opulenza e per dar principio a quel superamento dei limiti dell’opulentismo, che è indispensabile per liberare la città dalla minaccia che grava su di essa, e per darle anzi un volto pienamente estetico?

Occorre innanzitutto uscire dal chiuso dei discorsi strettamente settoriali e specialistici, e sforzarsi invece di legare la tematica urbanistica, nel suo complesso, alla concretezza, alla carne e al sangue della vita sociale: e precisamente alla vita di una società che, giunta ormai all’opulenza, è contraddistinta dalla piena affermazione del momento del consumo. Siamo così riportati al nostro primo problema: il problema di sviluppare, di rendere consapevole, di portare a piena conoscenza, quella volontà di conformare la città d’oggi secondo le esigenze del consumo comune. Una simile strada, può oggi esser effettivamente percorsa? Esiste insomma la possibilità che la società venga incontro agli urbanisti, e li strappi finalmente da quell’isolamento, da quell’amara e distaccata solitudine, in cui intristiscono le loro migliori intuizioni? La risposta, in linea di principio, non è davvero difficile, dopo tutto quel che abbiamo finora argomentato; anzi, ne discende direttamente e immediatamente.

E in effetti, poiché nell’assetto opulento si è affermato un consumo di tutti che pretende oggettivamente e inconsapevolmente di liberarsi dalle mistificazioni dell’individualismo, e aspira a svilupparsi in consumo comune, deve certamente esistere, nella società, un insieme di forze che sollecitano a tale sviluppo, e che vi sono anzi vitalmente interessate. È allora proprio nel collegamento con queste forze che l’urbanistica può trovare non solo il sostegno tattico, ma soprattutto l’alleanza strategica. Essa può ritrovarvi cioè, insieme con quel positivo condizionamento che le garantisca di evitare la tentazione demiurgica e velleitaria, anche quel radicamento di principio nella storia che le consenta di acquisire la base per l’esplicazione della propria autonomia.

Per individuare queste forze dovremo approfondire l’esame dell’opulenza, spostando però l’attenzione, dal terreno dei princìpi e dalle leggi di fondo, al terreno della concretezza storica e del processo attraverso il quale l’opulentismo si viene manifestando e affermando, soffermandoci in particolare sulle contraddizioni sociali che nel corso di quel processo si sviluppano.

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