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È collocato sulla banchina sopraelevata che fiancheggia il Douro, Cais Da Ribeira, proprio sotto il maestoso complesso del duomo. È meglio prenotare. Qui sotto vedete un paio di fotografie del sito: per un’idea dell’interno guardate sul sito di Tonho.


Tonho dalla riva destra del Douro… …e dall’alto del Ponte Louis

Ho trovato lì il lardo di Colonnata quando non era ancora alla moda, e i fruttini gelati di Matteo di Lancusi, l’uomo che trasforma ogni commestibile in gelato. Prezzi modici.

Se venite dai Fori e risalite via Cavour verso la stazione, è proprio all’inizio a sinistra. Meglio prenotare, ma non indispensabile.


Tony Fennimore lo racconta così:

“Dopo la caduta di Hania (allora si chiamava La Canea) nelle mani dell’impero Ottomano nel 1645, i turchi avviarono un programma di conversione delle chiese cattoliche in moschee e di costruzione di numerosi bagni pubblici e privati (“Hamam”) e fontane. Lo Hamam combina la tradizione dei bagni romani e di quelli bizantini, con il loro ipocausto sotterraneo e le tubazioni di laterizio che convogliavano l’acqua e il vapore in appropriati locali. Tre di questi Hamam restano ancor oggi, benché non siano più operativi. La costruzione in via Zambeliou, accanto a Tamam, è di chiara impronta veneziana, con inserimenti turchi. Essa è coperta da sei cupole senza tamburo, e costituiva la parte centrale dell’Hamam […] Il ristorante Tamam occupa la piscina di acqua fredda dell’antico Hamam, dove si poteva godere di un bagno di vapore seguito dall’immersione nell’acqua fredda”.

Oggi è un posto piacevole, non caro, con un servizio veloce e molti tradizionali piatti greci. Noi abbiamo trovato sempre posto, anche in agosto; dentro fa più fresco che fuori.


L’ultima foto è tratta dal sito http://www.interlog.com/~john13/greece.htm.

Le altre le ho riprese nell’agosto 2002.


Chi è stato a Prato conosce la grande piazza Mercatale (la vedete qui sotto): allungata, spaziosa, collocata proprio là dove si conviene al mercato di una città comme il faut: tra l’antico centro cittadino (il Duomo, il Palazzo Pretorio, il Municipio, il Castello federiciano) e il ponte sul Bisenzio, ai margini del centro storico. Proprio lì, verso la parte della piazza più a nord, c’è l’ostera Cibbè splendidamente gestita dalla famiglia Panerai. Mamma Giuseppina, in cucina, prepara meravigliose pietanze, dove tradizione toscana e creatività felicemente s’incontrano, il marito Spartaco e figli Tommaso e Francesco garantiscono il cordiale servizio. La qualità è ottima, e ancora migliore il rapporto qualità/prezzo.

Tra le cose migliori che ho gustato: i rigatoni alla medioevale (un ragù molto speziato ma senza pomodoro), gli spaghettoni con salsiccia e funghi, i trucioli (pasta fatta a mano, come i fusilli, le troffie liguri, le ciriole ternane) al sugo scappato (cioè, con un sugo fatto solo di verdure), gli involtini di manzo e carciofi, le zucchine ripiene, il roastbeef. Notizia più ampie potete trovarle sulle guide dello Slow Food, che celebrano giustamente questa piccola e saporita tavola.

La sala, molto gradevole, è piccola e molto frequentata dai pratesi: meglio prenotare, 0574 607509. In fondo, verso la cucina, c’è un grande quadro con l’insegna del locale (lo vedete qui sopra): il cibbè, che è quel gioco antico che in ogni parte d’Italia (e forse d’Europa) si gioca con nomi diversi: nell’ex Regno di Napoli si chiama Mazz’ e pi’uze, a Roma Lizza (e non so altrove).

Per concludere, volete qualcuna delle ricette di Giuseppina Panerai? Ne ho tre: Pan cotto, Zuppa col pomodoro, Tordi finti. Basta cliccare qui.


Una stanza arredata con mobili tradizionali, un campiello (c.llo Pegolotto) dove nella buona stagione tende bianche ombreggiano 4-5 tavolini. Poche portate (tre antipasti, tre primi, tre pietanze, tre dessert) e ottimi vini. Prezzi modesti.

Meglio telefonare per prenotare: +(39) 041 2750 622.


Per arrivarci, se la cartina non vi basta, prendete la calletta dietro il chiosco di giornali che sta davanti all’ex Cinema Italia.

Alla raffinatezza della cucina si aggiunge il gusto dell’arredo della vecchia rimessa, l’accoglienza amichevole di Ambra e delle sue socie, l’ampia scelta di vini dell’enoteca, i prezzi contenuti. Ottimi e molto convenienti i menu delle colazioni di lavoro (verde, rosso, azzurro rispettivamente a base di verdure, carne, pesce), squisiti i dolci, molto gradevoli i formaggi e gli affettati che potete trovare la sera fino a tardi. Finché non avete l’occasione di andarci, accontentatevi dell’utilissimo sito dell’Osteria del Vicolo nuovo, dove potete anche guardare la carta “prezzata” e illustrata, e prenotare.

L’Osteria aderisce a due reti significative. Una è lo Slow food, l’altra è Le donne del vino: i link ai siti li trovate qui accanto. Dopo aver frequentato l’Osteria di Imola viene voglia di conoscere anche le altre osterie delle donne.

Osteria del Vicolo nuovo


per la qualità della cucina, basata su un’accurata scelta dei materiali e sulla sapienza dei cuochi, per l’elegante semplicità dell’arredamento tradizionale, e anche per la simpatia di Claudio Proietto, il gestore, mio antico contraddittore in anni faticosi ed esaltanti. Specialità: gli abbondantissimi antipasti, gli spaghetti con vari sughi a base di pescato, gli arrosti e i fritti di pesce. Nelle stagioni giuste, trovate delle ottime mo’eche (qui sotto il link alla spiegazione). I prezzi sono ragionevolmente alti.

È indispensabile prenotare (+(39) 0415227024). Purtroppo, da quando il sindaco Mario Rigo e il pittore Santomaso vi portarono Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica, in visita ufficiale a Venezia ma in fuga dai giornalisti, la Corte Sconta è diventata subito famosa, in tutto il mondo. Perciò (e perché vi si mangia bene) è sempre piena. E a volte ho addirittura il sospetto che Claudio (nelle foto qui sotto mentre versa una grappa) faccia un po’ d’overbooking.

Volete sapere perché si chiama Corte Sconta? Ora ve lo racconto, se cliccate sul link qui sotto.


Vi consiglio di arrivare alla Corte sconta da quella calletta che si diparte dalla Riva degli Schiavoni all’estremo sinistro in basso dell’immagine qui accanto. Incontrate sulla sinistra un delizioso campiello deserto

Uno di questi locali è a Foggia, dove non è il solo ma è ugualmente raccomandabile per la sua semplicità. La cosa da tener presente è che i primi li cucinano solo la mattina, mentre per cena sono sostituiti dalle pizze. Buoni i secondi, a pranzo e a cena, i dolci e soprattutto gli antipasti a buffet. Notevole la scelta dei vini, e modici i prezzi.

Noi non abbiamo mai prenotato, ma non siamo mai arrivati tardi.

È in una traversa di via Cairoli, poco più su di piazza Giordano.


Ottimi soprattutto i primi (spaghetti con vari condimenti di pesci o molluschi, e verdure). I miei antipasti preferiti sono i filetti di aringa e le schie (microgamberetti di laguna), entrambi con la polenta, ma ci sono anche altre cose a base di pesce e verdure. Ambiente molto simpatico e alla mano. Locale piccolo e affollato, sala fumatori (quella che vedete) e saletta non fumatori. È bene prenotare: (+39) 041 520 6978.

Per arrivarci, scendete alla fermata del vaporetto di Ca’ Rezzonico, prendete la calletta (Calle lunga S. Barnaba), appena superato campo S. Barnaba è lì, subito a sinistra.


Menu molto ricco e attento alle disponibilità del mercato, prezzi ragionevoli, ambiente tranquillo e piacevole. È in fondo via San Gallo, verso i viali. Ed è facilmente raggiungibile dal delizioso albergo Loggiato dei Serviti, come dal più economico e semplice Albergo Castri.


A Rialto hanno liberato il piano terra del palazzo dei Tribunali. Lui ha preso in affitto due moduli, tra Campo San Giacometto e la larga fondamenta sul Canal Grande. Il locale interno è molto bello benchè piccolo (una quarantina di coperti), ma ha finalmente avuto l’autorizzazione di mettere tavolini fuori proprio sul Canal Grande, con vista sul Ponte di Rialto.

Ecco che cosa ne dice una guida internet locale:

Ai piedi del ponte di Rialto (lato S.Polo) si apre un campo che durante il giorno è affollato dai banchetti di frutta e verdura. La nostra osteria si trova proprio sotto il portico detto del "Bancogiro", da cui prende anche il nome il locale, ricavato all'interno di uno degli antichi magazzini di Rialto. Proprio qui nei secoli passati era stato istituito il pubblico banco mercantile, il Bancogiro, appunto. Sempre qui, era presente la statua ricurva del Gobbo di Rialto, dove si bandivano le leggi della Repubblica e venivano portati i malfattori a baciare, dopo le torture, la gobba della statua. Di questi tempi ci si può avvicinare con meno timore al luogo, e anzi, provare l'ampia gamma di cicchetti dell'osteria e i vini davvero ben selezionati.

La struttura è appunto quella di un “bàcaro” (le tradizionali osterie veneziane, un po’ come i Trani a Milano e i Kneipe a Berlino). Ottimi vini dunque, anche al banco, “cicheti” raffinati per accompagnare il bicchiere, e poche portate,anch’esse raffinate e gustose, da mangiar seduti. Prezzo contenuto, se gli dite che siete amici miei. Comunque prenotate. Le coordinate sono queste

Campo San Giacometto, 122, tel 041-5232061, fax 041-5232061

10:00-15:00/18:30-24:00 Chiuso domenica sera e lunedì


Il titolo della poesia è “Bibe al ponte all’Asse”. La trattoria è ancora lì. Quasi come prima. Potete confrontare l’immagine antica qui sopra, euna fotografia recente (invero non molto felice. Non so come ci si mangiasse quando la frequentava Montale; oggi ci si mangia benissimo. Il giardino, dove si mangia nelle buone stagioni, è ombroso e fresco. Non so se si vede la Greve, perché ci sono andato di sera. Non so se ci si arriva comodamente con il trasporto pubblico, perché ci sono andato con Susanna e MaurizioMorandi in automobile. Non so se è caro, perché i miei amici hanno pagato il conto e mi è sembrato indiscreto chiedergli quanto. Ci tornerò, anche per potervi dare ulteriori informazioni. Intanto sappiate che Montale è vivo, e beve insieme a noi.


I fumatori sono separati dai non fumatori. La cucina è molto raffinata e gustosa, prevalentemente a base di pesce e molluschi (freschissime le ostriche e i tartufi di mare, eccellenti i “capellini quasi in brodo di ostriche e coda di rospo”, delicatissimo il fritto di pesce e verdure). Ottimi i dolci, limitata ma di buona qualità la scelta di vini. Che volete di più? Naturalmente il prezzo è adeguato alla qualità e alla confezione.

È uno dei pochi ristoranti che a Venezia sono aperti la domenica e il lunedì. Vi consiglio di prenotare. Le coordinate sono queste

Campiello della Pescaria,

Castello 3968 – 30122 Venezia

telefono +39 041 5223812

Chiuso mercoledì e giovedì


A Firenze, e in generale in Toscana, si mangia bene. Ci sono ristoranti di eccellenza, giustamente famosi, e buone trattorie, dove si gusta una cucina sana e saporita. La trattoria Antellesi è a metà strada. Il rapporto qualità/prezzo è ragionevole, l’ambiente è accogliente (soprattutto la saletta sul davanti), i gestori simpatici e servizievoli. Il cibo l’ho sempre trovato buono, e così il vino.

Come la maggior parte dei locali veneziani che conservano legami con la tradizione, anche l’Anice Stellato ha un servizio di banco, frequentato prevalentemente dagli abitanti del sestiere.

D’estate, qualche tavolo al fresco sulla Fondamenta della Sensa.

Raccomando vivamente di prenotare: +(39) 041 720 744.

Per arrivarci, prendete la Strada nuova dalla Stazione. Dopo il Ponte delle Guglie e il mercato di San Leonardo, giunti al posto che i veneziani chiamano Rio Morto, girate a sinistra e seguite le indicazioni della cartina.


Un grande locale, con una piccolissima cucina e un grandissimo focolare. Il locale è diviso in due parti da una bassa transenna. Vi consiglio di sedervi accanto al focolare. Potrete ammirare l’ingegnoso sistema di griglia dove cucinano carni e verdure, ottime. Buon vino locale. Prezzi modici.

Il locale era il luogo di ritrovo con i suoi elettori di Alfredo Oriani, famoso deputato nazionalista romagnolo.

È in centro. Per trovarlo basta chiederlo, o cercare su una mappa Via Torricelli.


Mangia cose sane e molto riso integrale.

Dai agli altri più di quello che si aspettano e fallo con piacere.

Non credere in tutto ciò che ascolti, e non spendere tutto cio' che hai.

Non dormire tutto il tempo che vuoi.

Quando dici Ti amo, dillo sul serio...

Quando dici Mi dispiace, guarda la persona negli occhi.

Mantieni un fidanzamento di almeno sei mesi prima di sposarti.

Credi nell'amore a prima vista.

Non ridere mai dei sogni degli altri.

Ama profondamente e appassionatamente. Forse ne uscirai ferito, ma questo e' l'unico modo di vivere pienamente la vita.

In caso di disaccordo con gli altri, discuti con chiarezza.

Non offendere.

Non giudicare gli altri in base alla loro famiglia.

Parla lentamente, ma pensa velocemente.

Se qualcuno ti fa una domanda a cui non vuoi rispondere, sorridi e domanda: Perché lo vuoi sapere?

Ricorda che l'amore più grande e i più grandi risultati implicano i rischi maggiori.

Cura e comprendi i tuoi genitori.

Quando perdi, non perdere la lezione di vita.

Ricorda le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilita' per tutte le tue azioni.

Non permettere che un piccolo litigio rovini una grande amicizia.

Se ti rendi conto di aver commesso un errore, prendi immediatamente una decisione per rimediare.

Sorridi quando rispondi al telefono. Chi chiama forse sentira' il sorriso nella tua voce.

Sposati con un uomo o con una donna a cui piaccia conversare. Quando sarete vecchi, le sue capacita' di conversatore saranno piu' importanti di qualsiasi altra cosa.

Passa parte del tuo tempo in solitudine.

Sii aperto al cambiamento, ma non ti allontanare dai tuoi valori.

Ricorda che il silenzio e', a volte, la risposta migliore.

Leggi piu' libri e guarda meno la televisione.

Vivi una vita buona e onesta. Quando sarai vecchio e ricorderai

il passato, vedrai che ne trarrai nuova gioia.

Abbi fede in Dio, ma chiudi bene la tua casa.

E' importante che ci sia una atmosfera di amore nella tua casa.

Fa tutto il possibile per creare un ambiente sereno e armonioso.

Se sei in disaccordo con i tuoi cari, concentrati solo nella situazione presente. Non tirare in ballo il passato.

Leggi tra le righe.

Condividi con gli altri cio' che sai. E' un modo per raggiungere l'immortalita'.

Non interrompere mai quando qualcuno ti loda.

Occupati dei fatti tuoi.

Non ti fidare di un uomo/di una donna che non chiude gli occhi quando lo/la baci.

Una volta all'anno visita un luogo dove non eri stato prima.

Se disponi di molti soldi, usali per aiutare gli altri quando sei vivo. Questa e' la piu' grande soddisfazione che ti puo' dare la vita.

Impara tutte le regole, e poi infrangine qualcuna.

Ricorda che il rapporto migliore e' quello nel quale l'amore tra due persone e' piu' grande del bisogno che l'uno ha dell'altro.

Giudica il tuo successo in base a cio' a cui hai dovuto rinunciare per ottenerlo.

Affronta l'amore e la cucina con un certo abbandono temerario.

In una dimora sotterranea a forma di caverna, con l'entrata aperta alla luce e ampia quanto la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, con le gambe e il collo incatenati, in modo da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti, incapaci, a causa della catena, di girare il capo. Alle loro spalle brilli alta e lontana la luce di un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra una strada rialzata. Lungo questa strada pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti agli spettatori per mostrare al di sopra di essi i burattini.

- Vedo, rispose.

- Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni tipo sporgenti dal margine, statue e altre figure di pietra e di legno, lavorate in vario modo; come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.

- E' strana la tua immagine, disse, e strani sono quei prigionieri.

- Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?

- E come possono vedere, replicò, se sono costretti a tenere immobile il

capo per tutta la vita?

- E non è lo stesso per gli oggetti trasportati?

- Sicuramente.

- Se quei prigionieri possono conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?

- Certo.

- E se la prigione avesse anche un eco dalla parte di fronte? E ogni volta

che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbe

diversa dall'ombra che passa?

- No, per Zeus!, rispose.

- Per tali persone insomma, dissi io, la verità è costituita proprio dalle ombre degli oggetti artificiali.

- Certo, ammise.

- Guarda ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall'incoscienza. Ammetti che capitasse loro un caso come questo: che uno si sciogliesse, fosse costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che, così facendo, provasse dolore e il bagliore lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa pensi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva immagini vuote e prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso gli oggetti che hanno più essere, può vedere meglio? E se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cos'è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate ora?

- Certo, rispose.

- E se lo si obbligasse a guardare la luce, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? E non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati?

- E' così, rispose.

- Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per la salita

aspra ed erta e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del

sole, non ne soffrirebbe e non si irriterebbe per il fatto di essere trascinato?

E, giunto alla luce, poiché i suoi occhi sono abbagliati, non potrebbe vedere

nemmeno una delle cose che ora sono considerate vere.

- Certo non potrebbe, rispose, almeno così all'improvviso.

- Deve abituarvisi, credo, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre, poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell'acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la sua luce.

- Come no?

- Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare il Sole quale veramente è, non le sue immagini nelle acque o su un'altra superficie, ma il Sole in se stesso, nella regione che gli è propria.

- Certo, disse.

- Dopo, parlando del sole, potrebbe concludere che è esso a determinare le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in qualche modo, di tutto ciò che egli e i suoi compagni vedevano.

- E' chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così.

- E ricordandosi della sua prima dimora, della conoscenza che là aveva e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?

- Certo.

- Quanto agli onori e agli elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservati a chi fosse più acuto nell'osservare gli oggetti che passavano e ricordasse meglio quanti ne sfilavano prima, dopo e insieme, indovinandone quindi il successivo, credi che li desidererebbe e che invidierebbe quelli che avessero onore e potenza tra i prigionieri? O che si troverebbe nella condizione descritta da Omero e preferirebbe "servir altri da contadino per salario, uomo senza ricchezza", e soffrirebbe di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?

- La penso così anch'io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.

- Rifletti ora su quest'altro punto, dissi io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere su un medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di cenere tenebra, venendo all'improvviso dal sole?

- Si, certo, rispose.

- E se dovesse distinguere di nuovo quelle ombre e contendere con quelli che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? E se questo periodo in cui riacquista l'abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe allora oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua salita tornato con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentar di salire? E se cominciasse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse non lo ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani?

- Certamente, rispose.

Dalla Repubblica VII, 514, 515, 516, 517 di Platone

[…]Ora, se uno vuol sfogare la sua bile contro di me e tirarmi una botta micidiale, si può star certi che verranno in ballo la mia origine lubecchese e il famoso "marzapane" di Lubecca: se non gli viene in testa nient'altro, ricorderà almeno, collegandolo a me, il comicissimo marzapane, ed ecco che mi si definisce un fabbricante di marzapane lubecchese, che sarebbe poi quella che si dice satira letteraria. Ma è una botta che non mi fa proprio male: per quel che riguarda Lubecca, infatti, mi pare che da qualche parte bisogna pur nascere, e non vedo perché Lubecca debba essere un luogo d'origine piú ridicolo di un altro: per conto mio, anzi, lo considero tra i migliori. Il marzapane, poi, mi offende ancor meno, perché in primis è una sostanza gustosissima, e in secondo luogo è tutt'altro che triviale, ma addirittura degna di nota e, come ho già detto, misteriosa. "Marci-pan" significa evidentemente, o almeno secondo la mia teoria, panis Marci, pane di Marco, di san Marco, il patrono di Venezia. E se esaminiamo più attentamente questo dolce, questa mistura di mandorla, di acqua di rose e di zucchero, ci si affaccia spontaneo il sospetto che c'entri in qualche modo l'Oriente, che ci troviamo di fronte a un dolciume da harem e che probabilmente la ricetta di questa leccornia succulenta e indigesta è venuta a Lubecca dall'Oriente attraverso Venezia, portata da un qualche signor Niederegger. Venezia e Lubecca: alcuni di voi ricorderanno che ho scritto un racconto, La morte a Venezia, in cui mi dimostro in un certo senso come a casa mia in quella città seducente e sacra alla morte, la città romantica per eccellenza, e uso l'espressione "a casa mia" nel suo significato pieno e letterale, nel senso, cioè, di un'altra mia composizione, idilliaca questa, che accenna quasi per gioco il ritmo dell'esametro e in cui affermo che la mia città natale me la ritrovo due volte: l'una sul porto del Baltico, gotica e grigia, e poi un'altra volta, sorgente come per miracolo, lontana, gli archi a sesto acuto travestiti in stile moresco, sulla laguna…[…]

Chi è Thomas Mann:

secondo Sapere

secondo Encarta

secondo Liceoberchet.it

secondo BBC Educational


La città come modulo inventato dalla specie l'incirca diecimila anni fa è in via di dissoluzione, senza che ancora si capisca bene quale altra forma di convivenza prenderà il suo posto
Ernesto Balducci,

”Testimonianze”, 1992

Questo volume apre la collana "Luoghi" con una esemplificazione paradigmatica dell’approccio interpretativo della nostra scuola: racconta la "biografia" (ovvero nascita, vita e morte) di una regione urbana, la piana di Firenze, attraverso l’interpretazione del processo di territorializzazione di lunga durata che caratterizza diversi cicli di civilizzazione, ognuno dei quali deposita e accumula progressivamente segni di paesaggio, consolidando nel tempo un'identità territoriale. É una esempio di descrizione fondativa di un potenziate statuto del luogo, in questo caso, purtroppo, alla memoria. Provo sinteticamente a richiamare i caratteri identitari della piana di Firenze dalla narrazione biografica del testo, che descrive gli atti territorializzanti della civilizzazione etrusca, romana, atto medioevale, del basso medioevo (repubblica fiorentina) che si consolidano attraverso apporti di arricchimento della civilizzazione rinascimentale e di quella lorenese, maturando la individualità del luogo senza mutarne più sostanzialmente rimpianto generale fino alle soglie della civilizzazione contemporanea. Se ne evince uno straordinario affresco del continuo aumento di “massa territoriale” (concetto che Daniela Poli riprende da Angelo Turco) che “fino al periodo medievale si è accresciuta trasformandosi, mentre dal periodo medievale a quello lorenese si trasforma senza più accrescere”. Il dialogo costante, co-evolutivo, con i caratteri del luogo (la conca pliocenica delimitata dai rilievi del monte Morello, dalle conoidi, dal microterrazzo fluviale, caratterizzata dalle divagazioni fluviali e dalle zone palustri) da parte delle civilizzazioni che si sono succedute netta piana con impianti culturali diversi fra Loro ha sedimentato una "personalità" della regione (usando le parole di Vidal de la Blanche) ancora leggibile in una cartografia IGM degli anni '50: la costellazione dei centri urbani (Firenze, Rifredi, Sesto, Calenzano, Prato, Signa) si situa sul bordo esterno dell’antico lago pliocenico, sul microterrazzo fluviale (Firenze), sui controcrinali e sulle conoidi di deiezione, terminati rivieraschi di profondi sistemi vallivi e di sistemi di comunicazione interregionale, rispettando la configurazione della piana che presenta una parte interna umida e delicata, segnata dai bacini idrografici dell’Arno, del Bisenzio, del Mugnone e i bordi solidi al di sopra della faglia trasversale; gli insediamenti sono puntiformi tanto da consentire le concessioni biotiche e la continuità delle reti ecologiche fra i vari ecosistemi; il sistema delle ville di monte Morello definisce un asse strutturale e percettivo fra il monte e la piana; i terrazzamenti, i ciglionamenti, te arature a giro poggio disegnano il paesaggio collinare con neoecosistemi resistenti e connessi a pettine con la piana attraverso la microorganizzazione mezzadrile che si completa alla fine dell’ottocento; nella parte interna si situano solo pochi insediamenti su 'isole o su un sorta di “argini naturali”' e la viabilità di sponda fluviale (la via Pistoiese, la via Pisana) su rotte create dall'accumulo di detriti fluviali. La viabilità principale (la pedemontana etrusca, la Cassia) ma anche l'acquedotto romano e la ferrovia e infine gli insediamenti si dispongono corse strutture rivierasche, Lungo il bordo dell’antico lago, al di sopra della faglia. L’interno umido pianeggiante rimane, nel tempo lungo della biografia, prevalentemente “spazio aperto” agroforestale: sia nella bonifica intensiva della centuriazione romana, tanto più nell'incolto palustre altomediovale, ma anche nell'appoderamento mezzadrile, rispettando i caratteri identitari del luogo e i limiti naturali e ambientati che esso poneva, in un'alternanza di avanzamenti e arretramenti, che comunque non modificano il suo carattere di spazio aperto, la cui dominante è il sistema delle acque: naturali ma anche artificiali che connettono il sistema pedecollinare all’Arno, a partire dal potente progetto di suolo costituito dall'orditura territoriale della centuriazione romana che ritma le. successive scritture di insediamenti collinari e di piana: pievi, borghi, ville, poderi, coltivi, viali alberati e siepi.

Il ritratto unitario che emerge da questo schizzo è frutto di due processi: il dialogo costante fra strutture insediative e caratteristiche ambientali, che della le regole sapienti e “invarianti” delle trasformazioni; e la reinterpretazione innovativo, da parte delle civilizzazioni che si susseguono, delle partiture precedenti. Se è vero che un territorio come costrutto storico di lunga durata ha un carattere, un'individualità, è un sistema vivente ad alta complessità, di cui si può dunque scrivere una 'biografia', allora è altrettanto vero che quel territorio-individuo può morire. Per molte cause; ad esempio per abbandono, assenza di cura (ad esempio un sistema collinare terrazzato), oppure per 'soffocamento' ad opera di atti deterritorializzanti che ne distruggono le capacità autoriproduttive (ad esempio le aree pianeggianti di espansione metropolitana).

In che stadio della sua vita si trova l’individuo “piana di Firenze” descritto in questa biografia? Sta bene? è moribondo? è morto? L”oscenario” che è seguito al ritratto che ho schizzato è frutto di una sostanziate trattamento della piana come un “vuoto”, un “ventre molle” dell’espansione di funzioni della città di Firenze, tipico della formazione dei modelli metropolitana centroperiferici della fase matura dell’industrialesimo fordista, che ha depositato funzioni di accentramento a caso, ignaro degli equilibri ambientati e delle regole territoriali che per secoli hanno guidato l'aumento di valore del patrimonio territoriale e ne hanno definito l'identità; o meglio ha depositato funzioni con regole di urbanizzazione dettate unicamente dalle leggi della localizzazione economica e dalla rendita fondiaria (“Fondiaria” è anche il nome emblematico di uno dei principali attori del riempimento del vuoto).

A partire dagli anni '50 Firenze subisce una veloce trasformazione che la porta ad espandersi a macchia d'olio e a dilagare nel suo "ventre molte", la piana. le aree produttive si concentrano in ampi macrolotti, piastre industriali e terziarie nei pressi degli svincoli autostradali; le espansioni residenziali completano l'occupazione delle aree paludose e delle casse di espansione fluviale; i padiglioni universitari si spingono verso il centro della piana; t'aeroporto insiste in una delicata zona di regimazione idrica, a distanze a rischio fra insediamenti abitativi, autostrade e i rilievi montani del monte Morello; l’autostrada modella una viabilità ostile ai segni della storia, incurante delle delicate tessiture territoriali. I decentramenti di funzioni urbane (caserme, uffici pubblici, università, centri direzionati, residenze, ipermercati) vanno “riempiendo” progressivamente la piana senza alcuna regola che tenga conto dell’identità del luogo, considerandola come un vuoto buono a tutti gli usi. Questo già pesante carico insediativo è aggravato dai progetti residenziali e terziari in corso.

La piana di Firenze è diventato il “non luogo” per eccellenza della città contemporanea: un “retro vuoto” della città, che mette in mostra l'immagine simbolo del centro storico, e che ha un vasto cortile da riempire alta rinfusa con tutti gli oggetti ingombranti, brutti e inquinanti, distruggendo progressivamente l’identità storica, territoriale, ambientate, paesistica di un ex luogo del “bel paesaggio”. Questo modello insediativo, oltre a cancellare l’identità storico-morfologica lentamente costruitasi nel tempo, genera effetti devastanti sull'ambiente e sul paesaggio: innalza l’isola di calore, rompe il delicato microclima, aggrava l’inquinamento atmosferico e idrico, elimina te connessione biotiche, produce desertificazione ecosistemica, crea congestioni di traffico, abbassa la qualità dell'abitare, creando una generate condizione di perifericità; occlude visivamente e fruitivamente, con colate di edilizia anonima, il margine collinare della pianura. Dunque possiamo rispondere atta domanda: l'individuo piana, di cui si traccia la biografia in questo libro è morto o moribondo. E comunque le condizioni della rinascita non appartengono a tempi brevi, dovendo passare attraverso lunghe fasi di demolizione e ricostruzione se e quando una nuova civilizzazione, sensibile atta cura dei luoghi e alla qualità dell'abitare, le intraprenderà. Per intanto, leggendo questo ritratto “laudativo” serpeggia un rimpianto, che potrebbe anche costituire un'utile esercitazione per gli studenti di architettura del nuovo millennio, cui questo libro è rivolto in particolare come esemplificazione di un metodo analitico. Se è lecito porre delle ipoteche sul passato si potrebbe immaginare come avrebbe potuto costruirsi, negli anni del piano Detti, una configurazione diversa delta piana se fosse esistito, nella cultura urbanistica di quel tempo, uno “statuto” di quel luogo, affisso nelle bacheche dei comuni della piana. Innanzitutto si sarebbe potuto ragionare, come nel periodo lorenese, sulla bonifica e valorizzazione del sistema regionale toscano nelle sue potenzialità date da una eccezionale rete di città storiche e di sistemi territoriali locali, non necessariamente concentrando il decentramento nella piana,, ma potenziando il sistema regionale policentrico, facendo di Firenze un centro di coordinamento di un sistema reticolare complesso. Il che avrebbe consentito di valutare possibilità insediative netta regione urbana fiorentina legate alle capacità di carico del sistema insediativo (opportunità dell'offerta) e non sulle esigenze immediate tumultuose della espansione urbana (imperativi della domanda), che si sono riversate sulla parte più debole del territorio (proprietari a minor resistenza e valori fondiari più bassi), e più adatta ad accogliere funzioni massificate.

In secondo luogo, entro questi ridefiniti limiti quantitativi dell'espansione si sarebbe potuto seguire regole insediative incrementati che rispettassero equilibri ambientati, localizzazioni e tipologie territoriali e urbane che proseguissero e arricchissero il disegno territoriale e l’individualità storica della piana, a tutto vantaggio delta costruzione di una città contemporaneo improntata a principi di sostenibilità ambientate, territoriale, sociale, paesistica e cosi via autosostenendo.Tutto ciò non è avvenuto. E ora? è possibile una tardiva applicazione dello “statuto dei luoghi” cui allude questa biografia? Va a questo punto sciolto un possibile equivoco che la biografia potrebbe sollevare. Mi sembra che fra l'interpretazione delle regole che hanno definito il “'tipo”' territoriale e t'individualità del luogo e la sua trasformazione futura non venga proposta nel testo una conseguenzialità lineare del piano,inteso in senso muratoriano, come semplice compiersi dello statuto che è già implicato nel territorio: te civilizzazioni succedutesi nella piana mostrano che la valorizzazione del patrimonio e il suo accrescimento ne l tempo storico è avvenuto producendo atti territorializzanti affatto diversi tra loro. la crescita dell'individualità avviene netta trasformazione e netta innovazione, pur nella costante attenzione al processo coevolutivo e agli equilibri ecosistemici (tranne nel caso della civilizzazione tardo industriale fordista). Dunque le scelte possibili nei futuro sono molteplici e dipendono dall’esito del confltitto di una molteplicità di attori e dalla natura “patrizia”, responsabile o meno, del futuro statuto, nell’interpretazione e gestione del patrimonio e delle sue risorse.

Avanzo tre visioni utopiche e una realistica, che mi vengono ispirate dalla biografia:

- quella che richiama il modello atto medievale: copertura delle funzioni del “retro” di Firenze attraverso una forte fascia boscata che ridisegni i confini del lago pliocenico con penetrazioni di bosco planiziale nascondendo alla vista tutto ciò che vi sta dentro e costituendo un neoecosistema che riconnetta reti ecologiche e sistemi ambientali (un richiamo a Porcinai, ma anche al più recente (1990) progetto di Pizziolo del sistema ambientale per lo Schema Strutturale Firenze Prato Pistoia);

- quella che richiama il modello lorenese; riorganizzazione e valorizzazione del sistema regionale poticentrico (la “toscana delle toscane”) con conseguente alleggerimento della pressione, soprattutto terziaria, su Firenze; demolizione e riqualificazione a partire dal ridisegno e da l rafforzamento produttivo degli spazi aperti: la nuova agricoltura di qualità come mezzo di produzione di beni pubblici, i parchi agricoli periurbani connessi a rete per un nuovo disegno del territorio organizzato dagli spazi aperti.

- la visione di una nuova civilizzazione collinare che marginalizzi la piana come sito degradato e dismesso della civilizzazione industriale e la renda principale Luogo di archeologia della contemporaneità, un bosco planiziate e zone umide dove nette radure della foresta appaiano i ruderi dei Gigli e dell’Osmannoro.

- Infine una visione più realistica della “ville émergente” tardo moderna: quella di completare il riempimento dei vuoti di università, uffici, svincoli, reti, autostrade e abitazioni fin sotto atta pista della aereoporto, nel pieno rispetto degli indici di urbanizzazione e chiamando i ritagli di spazi aperti residuali parchi urbani... Il libro non si avventura su questi scenari, se non per accenni di uno scenario strategico di tipo “lorenese”: un sistema regionale policentrico e, in esso, una regione urbana-parco.

Si tratta di accenni perché il cuore del libro risiede nell'esemplificazione - anche didattica e metodologica - di come condurre una storia del processo di territorializzazione, rifondativa dell'analisi urbanistica.

Una storia finalizzata a processi di sviluppo fondati sulla valorizzazione del patrimonio territoriale e a una progettualità rifondata sulla ricerca dell'identità dei luoghi, delle sue invarianti e dei suoi statuti da interpretare creativamente con nuovi soggetti e nuove forme della cura.

[…] Lo splendore delle strade principali di Augusta non poteva accecarlo; egli sapeva che là vicino si trovavano dei quartieri miseri, in cui il grande bisogno si faceva sentire sempre più largamente. Con grandi sbalzi di anno in anno la ricchezza complessiva di Augusta si era accresciuta; ricchezza e fasto della città erano divenuti proverbiali in tutto il mondo. Ma contemporaneamente era anche cresciuto di un terzo il numero degli esenti dalle tasse e si era considerevolmente ingrossata la massa degli «uomini del popolo». Così luce ed ombra stavano l'una accanto all'altra e nessuno più del Fugger avvertiva questo chiaroscuro. Perciò egli fece di tutto per mitigare durezze e alleviare danni. Nel bilancio del 1511 egli mette a disposizione per provvidenze sociali a carico della sua società 30.000 fiorini, quasi la decima parte della somma complessiva in base all'ammontare del capitale commerciale di allora: 5.000 fiorini dovevano permettere di realizzare il piano progettato già da lungo tempo della costruzione di un lotto di abitazioni.

Con un istrumento del 26 febbraio 1514 Jacob acquistò dalla signora Anna Strauss, vedova di Hieronymus Welter, «dinanzi alla Streffingertor nel sobborgo di San Jakob, per 900 fiorini d'oro quattro case con giardino». Inoltre il 10 marzo 1516 acquistò dal macellaio Hans Zoller nella stessa zona tre altre case con giardino, che egli negli anni successivi fece demolire. Con il Consiglio del comune fu convenuto che qui dovessero: sorgere delle abitazioni, per le quali «non si dovesse pagare nessuna tassa sui fabbricati, fintantoché l'affitto per queste abitazioni ammontava ad un fiorino d'oro» Gli inquilini dovevano essere sottoposti alla giurisdizione del comune, ma l'amministrazione era di pertinenza solo dei Fugger.

Nello stesso anno fu iniziata la costruzione del grande quartiere, che fu ;compiuta nel 1523, con 53. case ad un piano. «Il sovrintendente dei signori Fucker nella costruzione della Fuckerei» era Thomas Krebs, che già prima aveva costruito per Jacob a Georgenthal e in altri luoghi case operaie, e che ora ricevette l'incarico di costruire su questo terreno di circa 10.000 metri quadrati un quartiere come se ne erano già visti in Olanda. Fu costruito in forma di quadrato, circondato da mura, a cui si accedeva per quattro porte. Nelle strade larghe e disposte simmetricamente si allineavano le une accanto alle altre le semplici e linde casette. Mentre la fisionomia delle città medioevali era pittorescamente mobile e varia, le strade di questa colonia che s'incrociavano ad angolo retto rappresentavano qualcosa di completamente nuovo. L'idea di questo piano stradale proveniva. da Albrecht Dürer, che ne aveva parlato con Jacob nel 1518, quando l'artista soggiornò ad Augusta in occasione della dieta. Piú tardi il Dürer lo espose con maggior precisione nel suo libro Etlicher Unterricht zur Befestigüng der Städte, Schlösser und Flecken (Alcune lezioni sulla fortificazione di città, castelli e borghi).Egli progetta qui la costruzione di una città ideale; la pianta della colonia Fugger sembra esser stata tolta direttamente di qua.

Lo scopo della fondazione é esposto-in una scritta incisa in una lastra di marmo con lo scudo dei Fugger, che é collocata sulla cosidetta «porta dei signori». «Nel 1519 i fratelli carnali Ulrich, Georg e Jacob Fugger di Augusta in considerazione che essi sano nati per il benessere comune e che devono i loro grandissimi beni di fortuna prima di tutto all'Altissimo e Clemente Signore e appunto, a questo devono renderli, per pietà e particolare liberalità, ché deve servire d'esempio, hanno dato, regalato e consacrato questa fondazione ai loro concittadini poveri, ma probi».

In seguito alla continua affluenza di tessitori e di altri artigiani in città, la gente laggiù aveva dovuto addensarsi sempre di più cosicché ben presto era sorta una grande carestia di alloggi. Per attenuarla Jacob aveva messo in opera una colonia, che ben presto dal popolo fu chiamata «Fuggerei» e che fu la prima istituzione sociale tedesca fondata da un'impresa privata.

In base all'istrumento di fondazione del 23 agosto 1521 «queste case devono esser date gratuitamente in lode e onore di Dio ai pii operai e artigiani, borghesi e abitanti della città di Augusta, che siano in bisogno e che più ne siano meritevoli. Ogni comunità di inquilini deve pagare annualmente per la manutenzione un fiorino renano come garanzia che ciascuno rimetta in ordine quello che ha rotto. Inoltre ciascun individuo, giovane o vecchio, come può, deve dire ogni giorno per. i fondatori e i loro antenati e discendenti un Paternoster, un'Ave Maria e un Credo». Ogni casa comprendeva due alloggi, ciascuno con un ingresso particolare dalla strada; erano di forma gradevole e imbiancate. Ogni alloggio comprendeva una stanza riscaldabile e una non riscaldabile, una cucina, un gabinetto ed una legnaia. Seguirono altre fondazioni; i 10.000 fiorini lasciati come legato il 23 agosto 1521 furono impiegati principalmente per la,«Fuggerei». Sessant'anni più tardi fu costruita da Marx Fugger una cappella, un beneficiario, una scuola ed una fontana pubblica. Nel secolo XIX vennero altri lasciti cosicché oggi in 132 abitazioni può esser dato ricovero "a circa 500 persone. Dovenano passare secoli perché questa singolare fondazione benefica fosse imitata come esempio e riconosciuta come compito urgentissimo. Ma la sua fama fu celebrata già dai contemporanei, Il poeta della Slesia Salomon Frenzel espresse in forma ingenua e semplice il sentimento generale:

Guarda come molti anni fa

costruirono strade molto piú belle,

allineate diritte diritte,

come se si vedesse una città,

che fosse chiusa per se stessa,

perché intorno vi gira un muro.

Una gran fila di begli edifici

si dispongono l'uno accanto all'altro

ugualmente allestiti su un modello

e insieme per uno stesso compito.

Dentro possono starvi parecchi

cittadini secondo il bisogno,

che per sventura siano caduti

in povertà e gravi danni,

ma non scandalosamente

sciupa il suo patrimonio.

Machiavelli insegna che non si diventa grandi accumulando patrimoni, ma usandone rettamente.

La vita di Jacob Fugger acquistò il suo significato più profondo solo grazie alla sua magnificenza e al suo mecenatismo in favore delle scienze e delle arti. Gli atti da lui compiuti in questo campo sono altrettanto immortali che le sue possenti opere nel campo dell'economia e del commercio. Per questo il suo discendente Johann Jacob Fugger gli tributa nel «Libro d'onore della famiglia» una gloriosa commemorazione: «Per la sua liberalità egli. venne in grande fama in tutto l'Impero e in tutte le corti, il che diede a lui e alla sua stirpe maggior gloria che se egli, come fanno gli avari, avesse rinchiuso in casse la ricchezza toccatagli e quindi fosse stato non un signore ma solo un custode di quella».

L´Italia 2003 vanta un Guignol legale arricchito dal lodo Msc. La sigla designa i tre ai quali lo dobbiamo: Maccanico, inventore; Schifani, manovale; Ciampi, tessitore. Siamo un paese anomalo ma non attribuirei l´anomalia al solo B. Che abbia stomaco e cervello da squalo, consta da un´ormai lunga storia. La conclamano sguardo, ganasce, mani, ghigni, loquela, gesti: anche i meno esperti nell´antica arte della "physiognomia" vi leggono una fame incoercibile; sotto le pose socievoli viene il dubbio che non sia un uomo. La sua forza sta nel non pensare. Puro fenomeno biologico. L´avevo notato varie volte ma, col permesso dei lettori, cito ancora La Fontane dalla satira inedita d´un "Florentin", perché nei miei ricordi libreschi non esiste modello più pertinente. «Le Florentin/ montre à la fin/ ce qu´il sa faire»: somiglia ai lupi ed è giusto che sia così; un lupo dev´essere sé stesso, come la pecora; «j´en étais averti»; finisce male chi se lo piglia socio; afferra, stringe, divora tutto; ha tre gole; riempitelo e chiede ancora; niente lo sazia. L´epopea berlusconiana è una baraonda del «triple gosier»: impresario edile, scorridore d´affari misteriosi, piduista, decolla grazie al privilegio sull´etere concessogli dal sultano rosa Bettino Craxi, non gratis supponiamo; vi fonda una formidabile impresa dell´incretinimento collettivo, allungando le mani dovunque fiuti prede; tale il suo "genio" imprenditoriale, come gli adulatori lo chiamano, abusando delle parole; e poiché i lupi ignorano l´etica, né possiamo insegnarla ai pescicani, raccoglie anche disavventure penali, ad esempio, quando arraffa un impero editoriale cadendo sotto l´accusa d´essersi comprato la sentenza. Rimasto orfano del protettore, salta nell´arena politica, trascinato dall´ego furioso, contro i consigli d´un amico. Come fosse entrato a Palazzo Chigi, ne esca in capo a 6 mesi e vi torni dopo 6 anni e mezzo, ferocemente risoluto a starvi da padrone, è storia attuale. Niente d´anomalo, «car un loup doit toujours garder son caractère», né stupiscono i fondi schiumosi che porta a galla: gli uomini compongono una varia massa (dannata secondo sant´Agostino); il contegno dei meno riusciti dipende dai modelli dominanti; l´uomo-lupo-squalo ne impone d´orribili appena prenda piede. Forza Italia non è un club spirituale. Sbaglia chi vi cerchi Blaise Pascal o Albert Schweitzer, teologo-medico-organista-filantropo, o Eric Blair (nom de plume, George Orwell).

Il punto debole sta altrove. È un organismo anche l´ordinamento e sopravvive grazie ai filtri immunitari. In primo luogo, gli addetti alla repressione penale. Che lavorino bene, lo dicono i consuntivi: gli inquirenti scoprono sacche putride romane; dei giudici condannano i barattieri; le Sezioni unite negano allo squalo-lupo la fuga da Milano. Ma l´animale dalle tre gole, diventato presidente del consiglio e padrone delle Camere, non vuol lasciarsi giudicare: a parte le manfrine nel serraglio avvocatesco, fabbrica leggi pro domo sua, manda ispettori ministeriali, strepita, calunnia, estorce, imbroglia, forte del triplo potere economico, mediatico, politico. Inutile dire che pericolo sia. Anche qui esistono antidoti. La Corte costituzionale rimuove le norme invalide. Sullo stesso colle, nell´antica dimora dei papi, abita il Capo dello Stato: Repubblica parlamentare ma non la presiede un notaio chiamato a omologare qualunque nefandezza parlamento e governo presentino; esiste un controllo preventivo dei dl governativi, presentabili solo col suo assenso (art. 87 Cost., c. 4); e senza immischiarsi nelle scelte puramente politiche, può restituire alle Camere leggi secondo lui abnormi, spiegandone i motivi, affinché le ripensino.

Ora, pone problemi terribili l´esservi a Palazzo Chigi uno come B., organicamente impolitico, divoratore, artista della soperchieria, padrone del sistema mediatico, editore egemone, talmente ricco da comprarsi quante anime morte vuole: due anni fa metà degli elettori gli crede; l´altra lo subisce come una disgrazia meritata. Spetta al custode impedire che straripi, o almeno tentarlo perché se le Camere reiterano il voto, noncuranti del messaggio, l´art. 74 Cost. l´obbliga a promulgare i testi galeotti. Come ha esercitato tali poteri? Molto flebilmente fino all´ultimo inverno. Niente sul conflitto d´interessi che ammazza lo Stato, peggio d´un voracissimo tumore, né quando «le Loup» aboliva pro domo sua il falso in bilancio o affatturava losche norme sulle rogatorie: è affare cosmetico l´intervento tra le quinte sul dl Cirami, inteso alla fuga da Milano; il nuovo testo risulta così vago da lasciare mano libera alla Cassazione; siamole grati d´avere deciso coraggiosamente bene. Cosa bollisse sotto, lo svela un proclama televisivo l´indomani mattina. L´uomo d´Arcore rivendica una "magnificence" e relativa immunità giurisdizionale, quali aveva Re Sole. Poi ripiega su un espediente: mentre gli avvocati perdono ringhiosamente tempo, in quel suo eloquio rotto, tra piagnisteo e minaccia, lamenta che un tribunale offenda l´onore degl´italiani giudicando chi rappresenterà l´Italia, presidente d´un semestre dell´Ue; l´idea tiene banco nei 4 mesi seguenti. Presidenza banale, da routine: vi passano tutti, grossi, piccoli, minimi; e la risposta ovvia è che tra le due figure incresciose alle quali l´avere lui a Palazzo Chigi costringe l´Italia, l´unica pulita sia assolvere o condannare l´eventuale barattiere, non nascondere le accuse strangolando i giudizi.

Era d´un oppositore sui generis l´idea del salvacondotto alle alte cariche. Quando il Tribunale emette secche condanne, la ripescano trafelati forzaitalioti e ausiliari. Stavolta il Capo dello Stato non sta alla finestra: celebra i 6 mesi quasi fossero un secondo Rinascimento; fila intese trasversali; modula accorate "suasions" affinché tutti stiano al gentleman´s agreement; dopo 45 ore dal voto firma una legge indecorosa, anzi spudorata, visto il modo in cui nasce, manifestamente invalida (che poi i consulenti fingano dubbi o addirittura la dicano richiesta dall´art. 3 Cost., perché l´autentica eguaglianza tiene conto delle diversità, è commedia buffa e se non lo fosse, sarebbe una festa ragliante); concerta il clima da cui rinascerà l´immunità parlamentare. Il tutto mentre gli elettori danno segni d´un chiaro disgusto della pirateria berlusconiana. Sia chiaro: non basta torcersi le mani in preda a tormentosi buoni sentimenti; ognuno sarà giudicato su quel che fa e omette.

I cantori sciolgono inni al "moral suasor", nemmeno avesse salvato l´Italia dalla guerra civile. L´unico a ventilarla era B., eversore a man salva. Chi lo ferma? Da Salonicco sbraita d´essere fuori del calvario (500 miliardi in avvocati, altro che quei cheap favori romani). Gli spettatori sgomenti domandano come uno possa ancora fidarsi delle regole. Ai finti liberali non ripugnano i decisionismi brutali con punte malavitose. Dopo l´immunità parlamentare, avremo un ordinamento giudiziario lambiccato dal luminare leghista, procure ministeriali, codici riscritti, lotterie penali a mano politica (garantismo europeo, blaterano gl´impudenti, augurando che, ormai libero dalle rogne personali, il padrone vi metta mano); infine la scalata al Colle. Ci vuol poco a capire l´effetto sulle midolla collettive: l´uomo medio fiuta l´aria; misura i tornaconti; vistolo vincitore impunito, trae le conclusioni adeguandosi, sebbene l´abbia visto spaventosamente inetto al banco dello statista. L´impulso mimetico è determinante nell´impasto politico. Saltano agli occhi le differenze dal 1924: allora gli uomini al potere sviluppano politiche molto criticabili ma non gangsteristiche (velleità social-fasciste temperano l´arcigno costituzionalismo antiliberale elaborato da Alfredo Rocco); adesso lievita una repubblica d´affari. L´ideologia è presto detta: che gl´italiani abbiano l´età mentale media d´11 anni; il passato sia una variabile dipendente dalle tecniche del sonno intellettuale; e chi lo manipola disponga del futuro. Insegna cose poco edificanti questa nerissima storia: che il malaffare vinca; i valori morali non paghino, anzi costino cari. Ergo, navighiamo nella corrente.

(...)Lo spazio pubblico della città, dove l'uomo è tenuto ad apparire, fruisce, per sua stessa natura, di una duplice definizione. L'una lo differenzia rispetto alla casa, luogo del riposo e del sonno, ma spazio chiuso, privato, femminile, difeso e da difendere; l'altra rispetto al “paese piatto” al “paese vuoto” della campagna, spazio aperto, ma luogo dei lavoro e della natura. Esso si impone come lo spazio dell'azione senza lavoro: luogo del rituale e della festa, del gesto e dello spettacolo, dei piaceri e dei giochi.

Luogo del rituale: non vi è città che non abbia un fondatore reale o mitico, un eroe o un personaggio santo. Che non abbia un centro al tempo stesso politico e religioso. Che non abbia una cinta presso le mura che, come il pomerium romano, la separi nettamente dalla campagna e la ponga sotto la protezione divida. Che non abbia un orientamento chiaramente leggibile: quello della sua pianta, quando è regolare, del cardo e del decumanus che si incrociano ad angolo retto; quello del suo asse di sviluppo; quello delle strade che le hanno dato origine e si formano alle sue porte, ma la con- giungono, attraverso la campagna, il deserto o il mare, ad altre città; quello dell'abside delle sue chiese o della direzione della preghiera. Ogni città desume il proprio significato e la propria realtà da un sistema di punti di riferimento. Quale che ne sia la pianta, geometrica o spontanea, la città è organizzata per gli scambi tra gli uomini: e per gli scambi, ancor più che di beni, di segni e di simboli. È raro che l'importante sia la strada, luogo di transito stretto e ingombro che le case cercano sempre di annettersi come so fosse un cortile: basta mettere fuori qualche sedia perché il barbiere vi rada i clienti e i bambini vi facciano i compiti o giochino guardati dalle donne che cuciono o lavorano a maglia. Il vero centro della vita sociale è situato altrove, nella piazza dove sfocia tutta la circolazione confusa e caotica delle viuzze.

Sempre più difesa, finché sussiste una vita collettiva, dagli sconfinamenti dei privati, la piazza è il luogo pubblico per eccellenza, una costante dell'urbanistica mediterranea, a partire dall'agorà grecae dal forum romano. La Plaza Mayor, scenario obbligato e spesso fastoso delle città spagnole. Le piazze strette, addossate al porto, delle isole greche. Piazza della Signoria o del Comune nelle città dell'Italia centrale. Grande piazza di Dubrovnik (la Placa) che si estende dal- l'una all'altra porta della città e la divide in due. É il luogo degli incontri e delle chiacchiere, delle assemblee di cittadini e delle manifestazioni di massa, delle decisioni solenni e delle esecuzioni.

All'origine semplice luogo di riunione, la piazza si circonda ben presto di portici e arcate, ripari contro il sole e contro la pioggia. Ora accoglie solo eccezionalmente il mercato, mentre riunisce intorno a sé i principali monumenti religiosi e civili, cui serve al tempo stesso da anticamera e da proscenio: il tempio di Roma e di Augusto e la curia, la cattedrale e l'antico palazzo del Podestà. E l'espressione del successo materiale e politico della città. Quando quest'ultima si ingrandisce, si suddivide e si specializza. Al disotto della Piazza Maggiore si delinea tutta una complessa gerarchia, che riproduce quella della vita sociale: una piazza per ogni quartiere, per ori comunità etnica o religiosa; una piazza anche per ogni funzione, dal mercato al culto all'assemblea; una piazza dalle dimensioni di una strada - un “corso” - lungo la quale si allineano le case dei ricchi e le botteghe di lusso e dove sfilano processioni e cortei; a ogni piazza, in- fine, la sua coloritura, aristocratica o popolare. Anche nel più piccolo borgo, però, è sempre sufficiente uno spazio, anche di modesto proporzioni, vicino alla chiesa o al municipio, con un caffè, qualche albero e un po' d'ombra, perché gli uomini vi si ritrovino tra loro e diano vita alla piazza.

Il particolare destino delle città musulmane vi ha provocato una diversa strutturazione dello spazio, facendo saltare le funzioni della piazza. Al centro della città gli uomini non hanno altro luogo di riunione che la moschea e il suo cortile, circondato di madrase, hans e bagni. Qui vengono annunciate le decisioni del potere e le preghiere recitate in nome del sovrano. La vita commerciale si è insediata nei suq e nei bazar; altre piazze, però, probabilmente le più grandi, si sviluppano alle porte della città, dove arrivano le carovane e vengono scaricati i cammelli. Viuzze, strade e piazze disegnano cosi lo spazio del piacere. Qui il gruppo dà spettacolo e si contempla. Qui gli uomini che passeggiano, chiacchierano e si attardano non vengono per lavorare. Sono usciti di notte con la loro barca da pesca, hanno passato la giornata nei campi. Oppure, come tanti mediterranei, non hanno un'occupazione regolare, lavorano soltanto pochi giorni all'anno, in attesa di un ipotetico impiego. Oppure ancora, e oggi sempre più spesso, hanno alle spalle una vita di lavoro trascorsa in America o in Germania, in Venezuela o in Australia, e sono tornati a finire i loro giorni a casa. Il tempo della città può cosi imporre il proprio ritmo, che non è quello, monotono e regolare, del lavoro, ma quello, discontinuo, del silenzio e della parola, delle lunghe discussioni che precedono qualsiasi decisione, accompagnano qualsiasi affare, commentano qualsiasi evento. E il tempo della passeggiata, del paseo. è il tempo in cui si sorbisce lentamente l”ouzo”: non si entra al caffè per bere, ma per rivestire il proprio ruolo in una società di uomini. E, infine, il tempo del gioco, che ha una così grande importanza nella vita dei mediterranei. La partita a carte, un quadro di Cézanne, una scena non meno celebre di Pagnol... Ma anche le scacchiere per il gioco della dama ritrovate sulle lastre di pietra del foro romano, gli astragali e i dadi, simbolo, con Cesare, dell'azzardo. Si giocherà dunque dappertutto, quando si è poveri in strada, ma più spesso in un luogo pubblico, al caffè o nei ritrovi all'aperto, oppure, quando si accentuano le differenziazioni sociali, al club o al circolo. Ogni città andalusa ha cosi il suo "circolo dei Lavoratori", ogni borgo siciliano i suoi circoli rivali dei “galantuomini”: un luogo che rompe la solidarietà sociale, certo, ma in cui ci si ritrova tra uguali, per conoscere e sfidarsi, perché la sfida accompagna sempre il gioco.

Certo, vi sono città industriose e indaffarato, come Barcellona, Marsiglia o Genova, oggi travolte dalla corrente di quell'economia mondiale che ieri avevano saputo dominare. Ma sono, in un certo senso, casi eccezionali. Altrove continuano a prevalere, come prevalevano nell'Atene di Pericle all'apice della sua potenza artigianale e mercantile, i valori dell'ozio: il lavoro, se non più agli schiavi, rimane comunque destinato agli altri. E la sola attività che abbia in ogni città un ruolo riconosciuto - il commercio, lo scambio di beni - tende a vivere al ritmo del tempo del piacere. Nessuno, come è noto, ha interesse a concludere un affare troppo in fretta. Vendita e acquisto, guadagno o perdita sembrano passare in secondo piano rispetto al piacere del mercanteggiamento, della discussione prolungata all'infinito, interrotta e ripresa, che si conclude solo quando i due protagonisti possono orgogliosamente felicitarsi l'un l'altro per aver condotto cosi bene il gioco.

Per quanto importante, tuttavia, vivere sotto gli occhi degli altri non potrebbe costituire di per sé un fine sufficiente. Lo spettacolo si estinguerebbe nella sua stessa gratuità se, da individuale, non diventasse collettivo. Nasce cosi l'esigenza delle grandi rappresentazioni che mobilitano il gruppo nella sua totalità, e gli consentono di provare, nel senso più completo dei termine, la sua coesione: esprimerla, verificarla, coglierne tutta la potenza, attingerne rinnovata fiducia. Tali rappresentazioni segnano i momenti culminanti della vita sociale. Nell'antichità c'erano il teatro, i giochi dei circo, le corse di carri e i combattimenti di gladiatori, la cui condanna da parte dei moralisti dell'impero romano, pur giustificata dalla loro degenerazione, ce ne fa dimenticare l'origine e la dimensione religiose. Oggi troviamo dappertutto o quasi lo sport, la corrida nell'area spagnola, le grandi feste religiose e civili che ancora si celebrano in alcune città italiane, e che testimoniano di un passato recente. In ogni caso, si tratta di spettacoli di uomini, agiti da uomini per gli uomini.(...)


Un albero, una piazza, una città Fotografia di G. Berengo Gardin Carloforte (Sicilia)

La quadrata, esauriente relazione del Duca Caffarelli mi dispensa dal ripetere ciò che tanto brillantemente e con tanta dottrina egli ha detto sull'Urbanistica, e sul molto che in materia. di organizzazione si è fatto alI 'Estero, e sul poco che si è tentato da noi.

Inutile quindi abusare dell'attenzione e del tempo dei congressisti con preamboli più o meno fioriti, e utilissimo invece entrare subito nel vivo dell’argomento.

Quando, nel maggio 1926, al Congresso dell’Urbanesimo a Torino fu fatta la proposta di fondazione di un Istituto italiano di Urbanesimo e di altri studi municipali, fummo in parecchi ad opporci, perchè ci parve che in una materia così delicata un preciso voto impegnativo avrebbe potuto compromettere allora, una iniziativa non ancora matura.

Infatti, prima ancora di fissare le norme e l’ordinamento di una scuola sulla dottrina urbanistica, occorreva diffonderne nel Paese i concetti fondamentali, proprio per creare quella coscienza urbanistica della cui mancanza si sentivano e si sentono i danni.

E l’amico Caffarelli, ricordando con arguzia garbata gli equivoci ingenui sul nome e sulla sostanza, ci ha ricordato che le nostre preoccupazioni d’allora erano ben giustificate.

Ma del cammino se ne è fatto in due anni, e, almeno nelle nostre grandi città, si discute ormai di urbanistica come di una scienza e di un’arte che siano veramente, come sono, il midollo spinale delle applicazioni di edilizia cittadina.

Senonché altro è parlare di un così formidabile argomento e altro è essere ascoltati, compresi, seguiti.

Nel meraviglioso risveglio di attività edilizia che il Fascismo sta provocando in tutte le città italiane, quanti sanno e sentono che il cammino percorso nel recente passato deve essere abbandonato? e se talvolta il buon senso di un amministratore che bandisce un pubblico concorso o l’autorità personale di qualche architetto che si accinge ad una parziale soluzione edilizia riescono a salvare dalla rovina la bellezza o lo sviluppo avvenire delle nostre città, quanti esempi potremmo citare invece di situazioni irrimediabilmente compromesse?

Tuttavia chiari segni ci avvertono che anche in questo campo i tempi sono maturi, e che il complesso fenomeno urbanistico, dal punto di vista demografico, tecnico, artistico ed amministrativo, può essere affrontato con profitto, grazie ai sistemi di rapidità e di disciplina che il Regime ha instaurati.

L’Istituto proposto a Torino dall’Ardy, assai pesante anche per la pubblica finanza, sembrava in realtà più acconcio alla formazione di una eletta classe di funzionari comunali, che non alla creazione di un organo di propulsione, controllo e propaganda per la diffusione dei concetti fondamentali della dottrina urbanistica.

Noi vediamo, e parlo in nome di molti colleghi attratti del nuovo spirito che pervade gli studiosi di problemi cittadini, noi sentiamo che un Istituto d’urbanistica deve essere qualche cosa di più vivo, di più aderente alle contingenze della vita della città, e sopratutto dotato di una praticità immediata e realizzatrice.

Per questo le nostre simpatie furono volte subito al valoroso e battagliero Club degli Architetti Urbanisti di Milano, che in una bene affiatata collaborazione affrontavano con baldanza giovanile il problema edilizio della loro città, sia pure considerato solo dal punto di vista della viabilità e dell’architettura; per questo salutammo come lieto auspicio il fervore che animò un altro gruppo di giovani architetti, romani questa volta, che anche a Roma fondavano un’Associazione o Gruppo di Urbanisti, e con qualche conferenza e conversazione, e più con la partecipazione a pubblici concorsi, contribuivano alla diffusione e alla conoscenza dell’interessante argomento.

Mi limito a citare questi due esempi che sono tra i più tipici e più simpatici, ma non sono i soli tentativi dovuti a private iniziative; ricorderò anche una proposta, rimasta tale, di carattere quasi ufficiale, partita da Milano e facente capo ad un eminente studioso, l’Albertini ; e senza fare altre citazioni dei moltissimi che isolatamente o in gruppi hanno in questi ultimi tempi dimostrato con pubblicazioni, concorsi e progetti, quanto sia delicato e importante il problema dei Piani Regolatori e della edilizia cittadina, mi avvierò alla conclusione.

Ho detto che le nostre simpatie sono per i gruppi che del problema particolarmente studiano il lato tecnico e artistico; e non soltanto per affinità di ... mestiere e di sentimenti, ma perchè, pur convinti con l’amico Caffarelli che la dottrina urbanistica non sia se non un complesso inscindibile di cognizioni ... da enciclopedici, riteniamo che quella artistica sia la branca che tutte le assommi e le sovrasti.

Servizi di comunicazione e traffico, reti di fognatura ed impianti tecnici ed igienici, uffici di statistica e di amministrazione, centri assistenziali e istituzioni accessorie sono altrettante manifestazioni della vita delle moderne città, e nessuna può essere preposta ad un’altra, e nessuna può essere esclusa e sacrificata. Voi potrete però creare una città perfetta sotto tutti i punti di vista: dell’igiene e del traffico, della viabilità e della polizia, dei sistemi di fognature e di distribuzione dell’acqua e della energia elettrica; ma avrete tracciato le sue vie senza la visione di una bellezza. panoramica e prospettica, se avrete lasciato suddividere le zone di ampliamento e di espansione senza un concetto di equilibrio, direi quasi musicale, tra le masse dei fabbricati e le serene pause delle riserve verdi, se in una parola non avrete nella creazione delle nuove città lasciato, alla vostra fantasia di artisti e di poeti, alzato il volo verso una severa e nobile creazione di bellezza, voi avrete condannato per sempre alla inutilità ogni altra conquista raggiunta in campi diversi.

Ecco perchè, senza dire che quasi sempre le ragioni della bellezza portano spontaneamente alle soluzioni migliori per tutti i lati del complesso problema urbanistico, ecco perchè si è affermato che i valori estetici hanno la preponderanza quando si parla di una qualsiasi organizzazione urbanistica, specialmente in Italia; ed ecco perchè credo di poter ripetere qui quanto, pochi giorni addietro, con la sua alta autorità e con la spregiudicata imparzialità che gli è propria, affermava il prof. Giovannoni : essere cioè principalmente compito degli architetti lo studio dei Piani Regolatori; degli architetti che non più come nel passato devono compiere le funzioni di manuali tiralinee per esprimere graficamente fredde e spesso sbagliate concezioni altrui ; ma si devono essere i veri creatori delle belle città, dell’avvenire concepite in una sintesi di armonica grandiosità, adeguate alle esigenze della pratica e al ritmo possente della dinamica vita moderna che vuole la formazione di una città dell’oggi in funzione del suo divenire.

E quando si dice architetti s’intende naturalmente anche quegli ingegneri che, tali per titolo e per severità di studi scientificamente compiuti, sono però architetti per la raffinata sensibilità del loro temperamento artistico, e più ancora per quella peculiare caratteristica del vero architetto che deve concepire in sintesi la sua creazione, gradatamente scendendo al dettaglio dei particolari.

Ma un’altra affermazione è stata enunciata nel sommario di questa schematica relazione: la necessità che alla iniziativa di costituzione di un Ente romano di studi urbanistici partecipino principalmente i Sindacati Intellettuali che hanno la direzione e il controllo di tutto il movimento culturale dei professionisti.

Infatti oggi nello Stato italiano ad una istituzione di carattere tecnico e culturale che assommi e concili studi e interessi diversi, non possono, per l’importanza assunta dalla vita pubblica, restare estranei i Sindacati Intellettuali che raccolgono i professionisti, i tecnici e gli artisti che alla, testa dei lavoratori e dei produttori servono la Nazione secondo le nuovissime leggi della disciplina fascista.

Ente romano, abbiamo inizialmente detto, perchè qui nasce e si afferma la proposta della sua costituzione; qui, e in occasione di questa adunata di studiosi dell’inesauribile tema che Roma propone a tutto il Mondo.

Ma se per la universalità degli studi romani, se per calore di simpatia e di adesione al problema che sentiamo ormai maturato in ogni centro importante della vita edilizia italiana, se infine per il fatto stesso che della iniziativa si fanno banditori i Sindacati Fascisti degli Architetti, degli Ingegneri e degli Artisti che sono entità nazionali, noi superiamo le difficoltà formalistiche e proponiamo senz’altro la creazione di un Ente nazionale, nessuno, credo, potrà sollevare obiezioni: e la proposta, sarà salutata, come è, dal consenso del Congresso.

Come si chiamerà il nuovo Ente?

Mentre scrivevo queste parole lo sviluppo limpido e lineare della proposta si precisava alla mia mente, e mi portava alla conclusione che, impreveduta prima, mi appariva logica, naturale e conseguente. La fusione in uno sforzo comune di artisti e di tecnici, di igienisti e di industriali, di economisti e di scienziati inquadrati nelle rispettive Associazioni Sindacali, e la collaborazione autorevole e fattiva degli organi dello Stato e delle Amministrazioni comunali porta nello Stato Fascista al riconoscimento di una forma nuova, ma ben definita: la forma corporativa. Perché l’organismo che noi proponiamo non deve avere nulla di comune con le ordinarie Società a base elettorale, né con le Associazioni culturali che generalmente risolvono in accademie sterili la loro attività, anche se animata da nobilissime intenzioni; né, tanto meno, con le iniziative di carattere particolaristico che possono investire o nascondere interessi economici non armonizzati con il supremo interesse dello Stato.

Esso deve invece essere una cosa viva e posta al di sopra delle varie competizioni, perchè tutte le accoglie e le subordina; e in esso (e qui sta la forza che lo distacca da tutte le Associazioni consimili), in esso l’azione degli organi pubblici statali o comunali, non deve essere esercitata dal di fuori per dare una qualsiasi sanzione; ma deve al contrario essere parte integrativa e conclusiva dell’attività stessa. E così tipico del Regime potrà essere l’organismo che noi oggi proponiamo e che io spero di vedere presto tradotto in realtà concreta per volere del Capo che tutte le iniziative feconde sa animare del suo spirito formidabilmente creatore.

Unione Corporativa” dunque, che potrà estendere a tutto il Paese la sua zona d’influenza e porterà il suo contributo di competenza e il suo disinteressato concorso nelle grandi città o in quei piccoli centri che, per la divina impronta dell’arte e per la tipica bellezza naturale che Dio ha donato all’Italia, fanno della nostra terra la meta di tutti gli adoratori della bellezza.

Dovrà quindi l’Unione Corporativa farsi iniziatrice di concorsi, di esposizioni, di corsi di studio, di cicli di conferenze, per diffondere ovunque la cultura urbanistica e preparare tecnici ed amministratori adeguati alla delicatezza del loro nuovo compito; dovrà intervenire con il suo consiglio e, ove occorra, con la sua azione per preparare forme e progetti di sistemazione di piano regolatore, e dovrà finalmente farsi promotrice di leggi e di provvedimenti che valgano a rendere impossibile lo scempio che nel passato si è fatto delle nostre belle città, e diano mezzi e poteri agli amministratori cittadini per attuare, con chiara visione delle necessità dell’avvenire, quella politica di ampliamento e di sviluppo degli aggregati edilizi che risponda al cammino ascensionale dell’Italia Fascista.

Ritengo utile dare uno schema di Statuto per l’ ”Unione Corporativa”, schema che dovrà essere elaborato attentamente e sanzionato dal Governo, il quale dovrebbe anche, con apposita legge, regolare il funzionamento amministrativo dell’Unione.

Ho abbozzato questo schema con la speranza che su queste linee il Governo Nazionale vorrà dare la sua ambita e necessaria approvazione.

E noi vorremo e sapremo ottenerla, specialmente se il voto del Congresso sarà, come penso, sapientemente utilizzato dalla sua Presidenza, e se l’alta autorità del Governatore di Roma darà alla nostra iniziativa quel conforto e quell’aiuto che sarà necessario ad appoggiare l’opera che i Sindacati andranno tenacemente svolgendo.

UNIONE CORPORATIVA DELL’URBANISTICA

(Schema di Statuto)

Art. 1. - Sotto l’alto Patronato del Governatore di Roma e per iniziativa dei Sindacati Fascisti degli Architetti e degli Ingegneri, col voto unanime del Primo Congresso Nazionale di Studi Romani, è costituita in Roma l’ “Unione Corporativa dell’Urbanistica”.

Art. 2. - L’Unione Corporativa presiede e promuove tutto quanto valga a stimolare, disciplinare e controllare l’applicazione dei principi dell’attività urbanistica nello sviluppo e nel risanamento delle città italiane.

Essa quindi provvede:

ad organizzare cicli di conferenze di propaganda e corsi di studi specializzati;

a preparare mostre e bandire concorsi;

a raccogliere dati statistici;

a promuovere e disciplinare tutto il movimento inerente alla preparazione e allo sviluppo dei Piani Regolatori, all’impianto e al funzionamento dei servizi di una moderna città, e al coordinamento giuridico e amministrativo che sia per derivare dallo sviluppo dei servizi stessi.

Art. 3. - Fanno parte dell’Unione Corporativa, oltre le Associazioni Sindacali dei Professionisti e degli Industriali:

gli organi statali più direttamente interessati allo studio delle questioni urbanistiche;

i Comuni del Regno con popolazione superiore ai trentamila abitanti;

i grandi Enti edilizi;

le Aziende che provvedono ai pubblici servizi;

gli Istituti di cultura superiore;

le Associazioni culturali che si interessano specialmente di questioni attinenti alla urbanistica;

gli Istituti che facciano operazioni di credito edilizio.

Art. 4. - Al finanziamento dell’Unione Corporativa sarà provveduto, oltreché con la quota di partecipazione di tutti i componenti ed aderenti, con il provento di una tassa addizionale su tutti gli atti compiuti dai Comuni nell’interesse di Enti e di privati in materia di edilizia e di P.R., come compra-vendita di aree e di immobili, contratti di appalti, convenzioni o concessioni speciali, approvazioni di progetti e licenze di costruzione.

Art. 5. - L’Unione Corporativa è amministrata e diretta da un Consiglio generale costituito dalle rappresentanze degli aderenti, con le modalità che saranno fissate dal Regolamento, e da una Giunta esecutiva composta di 15 persone specialmente competenti in materia, scelte tra i rappresentanti designati dalle Associazioni sindacali, dal Governatorato di Roma, dai Comuni del Regno, e dai Ministeri competenti, e nominata con Decreto del Ministro delle Corporazioni.

Art. 6. - Tutte le cariche sono gratuite

Art. 7. - La Giunta esecutiva potrà costituire però una o più Segreterie amministrative e tecniche i cui componenti saranno retribuiti a norma di regolamento.

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