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“Porto Marghera: gli ultimi fuochi” nasce dal desiderio di conoscere la storia industriale e le vicende umane ad essa collegate che tanto hanno segnato la Venezia del ‘900. Inizialmente l’idea era quella di raccontare la storia di tutto l’arco produttivo dell’insediamento industriale, dal 1917 quando vennero firmate le prime concessioni fino ad oggi e il grande cambiamento, la trasformazione economica e sociale che questo comportò per il territorio.

Ma partire da così lontano costringeva a lavorare prevalentemente su fonti scritte e materiali fotografici che difficilmente avrebbero retto al confronto con le testimonianze vive di coloro che dal secondo dopoguerra avevano partecipato a quell’ avventura e con la difficile situazione attuale di dismissione. E poi c’era la suggestione del luogo, luogo pericoloso ma affascinante, un mondo di fantasmi, di echi e sirene lontane.

Abbiamo lavorato guidati dalle parole delle interviste, racconti di tempi oscuri, drammatici, di lotte epiche e di speranze. Il confronto tra passato e presente: la cronaca del maxi processo, le manifestazioni a difesa dei posti di lavoro al Petrolchimico, le testimonianze dei giovani dalle prospettive incerte, i danni ambientali e i conflitti sempre più aspri tra i lavoratori e la popolazione dei centri urbani, ha provocato in noi un forte disagio ma ha rinforzato l’interesse e la voglia di raccontare nel film una realtà così contraddittoria.

Scheda tecnica:

Soggetto e sceneggiatura: Manuela Pellarin, Enrico Soci

Fotografia: Giovanni Andreotta

Montaggio: Massimiliano Corò

Consulenza storica: Cesco Chinello

Supervisione alla regia :Mario Brenta

Produzione: Controcampo

Regia: Manuela Pellarin

Alcune immagni del film sono qui

Purtroppo la piazza è quasi interamente chiusa da una recinzione fatta da fioriere di ferro (e la chiesa da una cancellata, che rende impossibile sedersi sui gradini).

Per fortuna nella recinzione ci sono i tavolini di un ottimo ristorante, dove si mangiano focacce imbottite secondo antiche ricette e tipici e saporiti piatti della ricca cucina siciliana.

Ho mangiato un fritto delicatissimo, cucinato da un cuoco giapponese che evidentemente sa fare il Tempura. I miei commensali spaghetti con le sarde e tonno arrostito: entrambi ottimi.

La Focacceria sta lì dal 1834. Nel 1848 Ruggero Settimo festeggiò lì il primo Parlamento siciliano, con "sfincioni" e marsala. Dal 1902 si chiama "Antica". Oggi è segnalato da Slow food. Il suo indirizzo è Via A. Paternostro, e il telefono +39 091 320264.

Secondo la guida Fodor "This neighborhood bakery with turn-of-the-20th-century wooden cabinets and cast-iron ovens is an institution. It serves the snacks that locals love -- and from which you can make an inexpensive meal. The big pan on the counter holds the delicious regional specialty pani cu' la meusa (boiled, sliced calf's spleen with Parmesan-like cacciocavallo cheese and salt). The squeamish can opt for the panelle (potato croquettes) instead. Sit at marble-topped tables or take to food to-go. Reservations not accepted. No credit cards. Closed Tues"

Il sito www.localistorici.it ne parla così: "Essenziale, semplice, con la storica cucina e i tavoli in marmo e ghisa firmati Fonderie Florio un secolo e mezzo fa. Dove sedettero Garibaldi e Ruggero Settimo, dove Francesco Crispi sostava per argomentare di politica. Cenacolo del Risorgimento palermitano, è frequentato oggi dagli amministratori della città tra i sapori fragranti di "gustedde" e "pane ca meusa", di antichissime origini arabe".



CAPRESE CLASSICA:

ingredienti:

200 gr mandorle pelate

200 gr zucchero

200 gr cioccolato fondente

200 gr burro

1 tazzina di rhum

5 uova

3 cucchiai fecola di patate

Lavorare i tuorli con lo zucchero ed a parte montare le chiare a punto di neve.

Sciogliere il cioccolato fondente a bagnomaria insieme al rhum ed al burro e successivamente aggiungere il tutto alle uova.

Triturare finemente le mandorle ed unirle all’impasto insieme alla fecola di patate.

Infine, aggiungere le chiare montate a neve e mezza bustina di pan degli angeli.

In forno a 170° per i primi 20 minuti ed a 150° per gli ultimi venti minuti.

CAPRESE ANACAPRESE:

Ingredienti:

200 gr mandorle pelate

80 gr di amaretti

100 gr cioccolato fondente

100 gr cacao amaro

6 uova

1 tazzina di rhum

un pizzico di pan degli angeli

200 gr burro

200 gr zucchero

Tritare le mandorle, gli amaretti e la cioccolata.

Lavorare i tuorli con lo zucchero ed il burro appena fuso e raffreddato. A parte montare le chiare a punto di neve.

Unire all’impasto le mandorle, gli amaretti e la cioccolata finemente tritati ed infine il cacao amaro ed il rhum.

Aggiungere, poi, le chiare montate a neve mischiando lentamente, ed il pizzico di pan degli angeli.

In forno a 175° per circa un’ora.

Esiste anche una variante alla prima versione di caprese che alle mandorle sostituisce le nocciole. L’ho mangiata per la prima volta a casa Mustilli a S.Agata dei Goti e l’ho trovata squisita!

Tagliare finemente 1 porro e farlo appassire nell’olio.

Riporre nella pentola l’ arista di maiale (600 gr circa) e farla rosolare.

Bagnare con un bicchiere di birra e cuocere a fuoco moderato per 30 minuti a tegame coperto.

Aggiungere i chicchi di melograno (2 frutti) e continuare la cottura per 20 minuti.

Servire caldo con pepe e sughetto di melograno.

Per questa ricetta ringrazio Cosacucino.it, fonte inesauribile di consultazione.

Uno spettro s'aggira per l'Europa -lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi.

Quale partito d'opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari di governo; qual partito d'opposizione non ha rilanciato l'infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell'opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari?

Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni.

Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.

E` ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso.

A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese.

I. BORGHESI E PROLETARI

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.

Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.

Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi.

La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta.

La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato.

Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.

La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.

L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa.

Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.

La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.

Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico.

Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria.

Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi.

La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.

La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.

Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.

Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.

La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente.

La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.

Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?

Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.

Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.

Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese.

Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. -Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.

A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa.

Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la porteranno alla morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari.

Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.

Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione dell'aumento dell'uso delle macchine e della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l'aumento delle ore di lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si esige in una data unità di tempo, attraverso l'accresciuta celerità delle macchine, e così via.

L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come fine ultimo il guadagno.

Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e del sesso.

Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto all'operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via.

Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l'esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.

Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza.

Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente.

Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione, ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fan loro concorrenza, fracassano le macchine, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistarsi la tramontata posizione del lavoratore medievale.

In questo stadio gli operai costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse operaie non è ancora il risultato della loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il raggiungimento dei propri fini politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo. Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i nemici dei propri nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Così tutto il movimento della storia è concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria raggiunta in questo modo è una vittoria della borghesia.

Ma il proletariato, con lo sviluppo dell'industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di esistenza all'interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello ugualmente basso. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di collisioni di due classi. Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino associazioni permanenti per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse.

Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più. Essa è favorita dall'aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in collegamento gli operai delle diverse località. E basta questo collegamento per centralizzare in una lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale carattere. Ma ogni lotta di classi è lotta politica. E quella unione per la quale i cittadini del medioevo con le loro strade vicinali ebbero bisogno di secoli, i proletari moderni con le ferrovie la attuano in pochi anni.

Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Essa impone il riconoscimento in forma di legge di singoli interessi degli operai, approfittando delle scissioni all'interno della borghesia. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra.

In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo evolutivo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l'aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto con il progresso dell'industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa.

Inoltre, come abbiamo veduto, il progresso dell'industria precipita nel proletariato intere sezioni della classe dominante, o per lo meno ne minaccia le condizioni di esistenza. Anch'esse arrecano al proletariato una massa di elementi di educazione.

Infine, in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione all'interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l'avvenire. Quindi, come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme.

Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico.

Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l'artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all'indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato.

Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie.

Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con il rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.

Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di vita già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l'intero sistema di appropriazione che c'è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui.

Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l'intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale.

La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E` naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.

Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno latente all'interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia.

Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l'operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società.

La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all'isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall'associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.

PROLETARI E COMUNISTI

In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?

I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.

I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.

I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall'altra per il fatto che sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.

Quindi in pratica i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario.

Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo.

Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione di rapporti di proprietà esistiti fino a un dato momento non è qualcosa di distintivo peculiare del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a continui cambiamenti storici, a una continua alterazione storica.

Per esempio, la rivoluzione francese abolì la proprietà feudale in favore di quella borghese.

Quel che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese.

Ma la proprietà privata borghese moderna è l'ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri.

In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella frase: abolizione della proprietà privata. Ci si è rinfacciato, a noi comunisti che vogliamo abolire la proprietà acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale; la proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e autonomia personale.

Proprietà frutto del proprio lavoro, acquistata, guadagnata con le proprie forze! Parlate della proprietà del minuto cittadino, del piccolo contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non c'è bisogno che l'aboliamo noi, l'ha abolita e la va abolendo di giorno in giorno lo sviluppo dell'industria.

O parlate della moderna proprietà privata borghese?

Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea proprietà a questo proletario? Affatto. Il lavoro del proletario crea il capitale, cioè quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo. La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l'antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo. Essere capitalista significa occupare nella produzione non soltanto una pura posizione personale, ma una posizione sociale.

Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante una attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l'attività comune di tutti i membri della società.

Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale.

Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c'è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di classe.

Veniamo al lavoro salariato.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario del lavoro, cioè è la somma dei mezzi di sussistenza che sono necessari per mantenere in vita l'operaio in quanto operaio. Dunque, quello che l'operaio salariato s'appropria mediante la sua attività è sufficiente soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro per la riproduzione della esistenza immediata, appropriazione che non lascia alcun residuo di profitto netto tale da poter conferire potere sul lavoro altrui. Vogliamo eliminare soltanto il carattere miserabile di questa appropriazione, nella quale l'operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l'interesse della classe dominante.

Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per ampliare, per arricchire, per far progredire il ritmo d'esistenza degli operai.

Dunque nella società borghese il passato domina sul presente, nella società comunista il presente domina sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo operante è dipendente e impersonale.

E la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà l'abolizione di questo rapporto! E a ragione: infatti, si tratta dell'abolizione della personalità, della indipendenza e della libertà del borghese.

Entro gli attuali rapporti di produzione borghesi per libertà s'intende il libero commercio, la libera compravendita.

Ma scomparso il traffico, scompare anche il libero traffico. Le frasi sul libero traffico, come tutte le altre bravate sulla libertà della nostra borghesia, hanno senso, in genere, soltanto rispetto al traffico vincolato, rispetto al cittadino asservito del medioevo; ma non hanno senso rispetto alla abolizione comunista del traffico, dei rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia.

Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell'enorme maggioranza della società.

In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà.

Certo, questo vogliamo.

Appena il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, insomma in una potenza sociale monopolizzabile, cioè, appena la proprietà personale non può più convertirsi in proprietà borghese, voi dichiarate che è abolita la persona.

Dunque confessate che per persona non intendete nient'altro che il borghese, il proprietario borghese. Certo questa persona deve essere abolita.

Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione.

Si è obiettato che con l'abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività e prenderebbe piede una pigrizia generale.

Da questo punto di vista, già da molto tempo la società borghese dovrebbe essere andata in rovina per pigrizia, poiché in essa coloro che lavorano, non guadagnano, e quelli che guadagnano, non lavorano. Tutto lo scrupolo sbocca nella tautologia che appena non c'è più capitale non c'è più lavoro salariato.

Tutte le obiezioni che vengono mosse al sistema comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state anche estese alla appropriazione e alla produzione dei prodotti intellettuali, come il cessare della proprietà di classe è per il borghese il cessare della produzione stessa, così il cessare della cultura di classe è per lui identico alla fine della cultura in genere.

Quella cultura la cui perdita egli rimpiange, è per la enorme maggioranza la preparazione a diventar macchine.

Ma non discutete con noi misurando l'abolizione della proprietà borghese sul modello delle vostre idee borghesi di libertà, cultura, diritto e così via. Le vostre idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, come il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge, volontà il cui contenuto è dato nelle condizioni materiali di esistenza della vostra classe.

Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate quell'idea interessata mediante la quale trasformate in eterne leggi della natura e della ragione, da rapporti storici quali sono, transeunti nel corso della produzione, i vostri rapporti di produzione e di proprietà. Non vi è più permesso di comprendere per la proprietà borghese quel che comprendete per la proprietà antica e per la proprietà feudale.

Abolizione della famiglia! Anche i più estremisti si riscaldano parlando di questa ignominiosa intenzione dei comunisti.

Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cade naturalmente col cadere di questo suo complemento ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale.

Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Confessiamo questo delitto. Ma voi dite che sostituendo l'educazione sociale a quella familiare noi aboliamo i rapporti più cari.

E anche la vostra educazione, non è determinata dalla società? Non è determinata dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dalla interferenza più o meno diretta o indiretta della società mediante la scuola e così via? I comunisti non inventano l'influenza della società sull'educazione, si limitano a cambiare il carattere di tale influenza, e strappano l'educazione all'influenza della classe dominante.

La fraseologia borghese sulla famiglia e sull'educazione, sull'affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.

Tutta la borghesia ci grida contro in coro: ma voi comunisti volete introdurre la comunanza delle donne.

Il borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Sente dire che gli strumenti di produzione devono essere sfruttati in comune e non può naturalmente farsi venire in mente se non che la sorte della comunanza colpirà anche le donne.

Non sospetta neppure che si tratta proprio di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione.

Del resto non c'è nulla di più ridicolo del moralissimo orrore che i nostri borghesi provano per la pretesa comunanza ufficiale delle donne fra i comunisti. I comunisti non hanno bisogno d'introdurre la comunanza delle donne; essa è esistita quasi sempre.

I nostri borghesi, non paghi d'avere a disposizione le mogli e le figlie dei proletari, per non parlare neppure della prostituzione ufficiale, trovano uno dei loro divertimenti principali nel sedursi reciprocamente le loro mogli.

In realtà il matrimonio borghese è la comunanza delle mogli. Tutt'al, più ai comunisti si potrebbe rimproverare di voler introdurre una comunanza delle donne ufficiale e franca al posto di una comunanza delle donne ipocritamente dissimulata. del resto è ovvio che, con l'abolizione dei rapporti attuali di produzione, scompare anche quella comunanza delle donne che ne deriva, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale.

Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia.

Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza.

Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l'azione unita, per lo meno dei paesi civili.

Lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro.

Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni.

Non meritano d'essere discusse in particolare le accuse che si fanno al comunismo da punti di vista religiosi, filosofici e ideologici in genere.

C'è bisogno di una profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini, cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale?

Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante.

Si parla di idee che rivoluzionano un'intera società; con queste parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti d'esistenza.

Quando il mondo antico fu al tramonto, le antiche religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell'illuminismo, la società feudale dovette combattere la sua ultima lotta con la borghesia allora rivoluzionaria. Le idee della libertà di coscienza e della libertà di religione furono soltanto l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza.

Ma, si dirà, certo che nel corso dello svolgimento storico le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche si sono modificate. Però in questi cambiamenti la religione, la morale, al filosofia, la politica, il diritto si sono sempre conservati.

Inoltre vi sono verità eterne, come la libertà, la giustizia e così via, che sono comuni a tutti gli stati della società. Ma il comunismo abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, invece di trasformarle; quindi il comunismo si mette in contraddizione con tutti gli svolgimenti storici avuti sinora.

A cosa si riduce quest'accusa? La storia di tutta quanta la società che c'è stata fino ad oggi s'è mossa in contrasti di classe che hanno avuto un aspetto differente a seconda delle differenti epoche.

Lo sfruttamento d'una parte della società per opera dell'altra parte è dato di fatto comune a tutti i secoli passati, qualunque sia la forma ch'esso abbia assunto. Quindi, non c'è da meravigliarsi che la coscienza sociale di tutti i secoli si muova, nonostante ogni molteplicità e differenza, in certe forme comuni: forme di coscienza, che si dissolvono completamente soltanto con la completa scomparsa dell'antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale.

Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s'eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia.

Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive.

Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell'economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione.

Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi.

Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:

1.- Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2.- Imposta fortemente progressiva.

3.- Abolizione del diritto di successione.

4.- Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5.- Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6.- Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7.- Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8.- Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.

9.- Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo fra città e campagna.

10.- Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell'istruzione con la produzione materiale e così via.

Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.

Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.

III. LETTERATURA SOCIALISTA E COMUNISTA

1. IL SOCIALISMO REAZIONARIO

a) Il socialismo feudale.

Data la sua posizione storica, l'aristocrazia francese e inglese era chiamata a scrivere libelli contro la moderna società borghese. Nella rivoluzione francese del luglio 1830, nel movimento inglese per la riforma elettorale, l'aristocrazia era soggiaciuta ancora una volta all'aborrito nuovo venuto. Non c'era più da pensare a una seria lotta politica. Le rimaneva soltanto la lotta letteraria. Ma anche nel campo della letteratura la vecchia fraseologia dell'età della restaurazione era ormai impossibile. Per destare qualche simpatia, l'aristocrazia era costretta a distogliere gli occhi, in apparenza, dai propri interessi e a formulare il suo atto d'accusa contro la borghesia solo nell'interesse della classe operaia sfruttata. Così essa preparava la soddisfazione di poter intonare invettive contro il nuovo signore, e di potergli mormorare nell'orecchio profezie più o meno gravide di sciagura.

A questo modo sorse il socialismo feudalistico, metà lamentazione, metà libello; metà riecheggiamento del passato, metà minaccia del futuro. A volte colpisce al cuore la borghesia con un giudizio amaro e spiritosamente sarcastico, ma ha sempre effetto comico per la sua totale incapacità di comprendere il corso della storia moderna.

Questi aristocratici hanno impugnato la proletaria bisaccia da mendicante, agitandola come bandiera per raggruppare dietro a sé il popolo. Ma tutte le volte che li ha seguiti, il popolo ha visto sulle loro parti posteriori i vecchi blasoni feudali e s'è sbandato con forti e irriverenti risate.

Una parte dei legittimisti francesi e la Giovine Inghilterra hanno offerto questo spettacolo.

Quando i feudali dimostrano che il loro sistema di sfruttamento era diverso dallo sfruttamento borghese, dimenticano soltanto che essi esercitavano lo sfruttamento in circostanze e condizioni totalmente differenti e che ora han fatto il loro tempo. Quando dimostrano che il proletariato moderno non è esistito al tempo del loro dominio, dimenticano soltanto che la borghesia moderna fu appunto un necessario rampollo del loro ordine sociale.

Del resto, essi celano tanto poco il carattere reazionario della loro critica, che la loro principale accusa contro la borghesia è proprio che sotto il suo regime si sviluppa una classe che farà saltare in aria tutto quanto il vecchio ordine sociale.

Rimproverano alla borghesia più il fatto che essa genera un proletariato rivoluzionario che non il fatto ch'essa produce un proletariato in genere.

Nella pratica della vita politica, prendono parte perciò a tutte le misure di forza contro la classe operaia, e nella vita ordinaria, ad onta di tutti i loro gonfi frasari, si adattano a raccogliere le mele d'oro, e a barattare fedeltà, amore, onore col traffico della lana di pecora, della barbabietola e dell'acquavite.

Come il prete si è sempre accompagnato al signore feudale, così il socialismo pretesco si accompagna a quello feudalistico.

Non c'è cosa più facile che dare una tinta socialistica all'ascetismo cristiano. Il cristianesimo non se l'è presa forse anch'esso con la proprietà privata, con il matrimonio, con lo Stato? Non ha predicato, in loro sostituzione, la beneficenza, la mendicità, il celibato e la mortificazione della carne, la vita claustrale e la Chiesa? Il socialismo sacro è soltanto l'acquasanta con la quale il prete benedice la rabbia degli aristocratici.

b) Il socialismo piccolo-borghese.

L'aristocrazia feudale non è l'unica classe che sia stata abbattuta dalla borghesia e le cui condizioni di esistenza siano deperite e si siano estinte nella società borghese moderna. La piccola borghesia medievale e l'ordine dei piccoli contadini furono i precursori della borghesia moderna. Questa classe continua ancora a vegetare accanto alla sorgente borghesia nei paesi meno sviluppati industrialmente e commercialmente.

Nei paesi dove s'è sviluppata la civiltà moderna, si è formata una nuova piccola borghesia, sospesa fra il proletariato e la borghesia, che torna sempre a formarsi da capo, in quanto è parte integrante della società borghese; ma i suoi membri vengono costantemente precipitati nel proletariato dalla concorrenza, anzi, con lo sviluppo della grande industria vedono addirittura avvicinarsi un momento nel quale scompariranno totalmente come parte indipendente della società moderna, e verranno sostituiti da sorveglianti e domestici nel commercio, nella manifattura, nell'agricoltura.

In paesi come la Francia, dove la classe dei contadini costituisce molto più della metà della popolazione, era naturale che alcuni scrittori i quali scendevano in campo per il proletariato contro la borghesia usassero la scala del piccolo borghese e del piccolo contadino per la loro critica del regime borghese e che prendessero partito per gli operai dal punto di vista della piccola borghesia. Così s'è formato il socialismo piccolo-borghese. Capo di questa letteratura, non solo per la Francia, ma anche per l'Inghilterra, è il Sismondi.

Questo socialismo ha anatomizzato con estrema perspicacia le contraddizioni insite nei rapporti moderni di produzione. Ha smascherato gli ipocriti eufemismi degli economisti. Ha dimostrato irrefutabilmente i deleteri effetti delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovraproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l'anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le varie nazioni, la dissoluzione dei vecchi costumi, dei vecchi rapporti familiari, delle vecchie nazionalità.

Tuttavia, quanto al suo contenuto positivo, questo socialismo o vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, o vuole rinchiudere di nuovo, con la forza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li han fatti saltare in aria, che non potevano non farli saltare per aria. In entrambi i casi esso è insieme reazionario e utopistico.

Corporazioni nella manifattura e economia patriarcale nelle campagne: ecco la sua ultima parola.

Nel suo ulteriore sviluppo questa tendenza è andata a finire in una vile depressione dopo l'ebbrezza.

c) Il socialismo tedesco ossia il vero socialismo.

La letteratura socialista e comunista francese, ch'è sorta sotto la pressione d'una borghesia dominante ed è l'espressione letteraria della lotta contro questo dominio, venne introdotta in Germania proprio mentre la borghesia stava cominciando la sua lotta contro l'assolutismo feudale.

Filosofi, semifilosofi e begli spiriti tedeschi s'impadronirono avidamente di quella letteratura, dimenticando solo una piccola cosa: che le condizioni d'esistenza francesi non erano immigrate in Germania insieme a quegli scritti che venivano dalla Francia. Nei confronti delle condizioni tedesche, la letteratura francese perdette ogni significato pratico immediato e assunse un aspetto puramente letterario. Non poteva non apparire un'oziosa speculazione sulla vera società, sulla realizzazione dell'essere umano. Allo stesso modo le rivendicazioni della prima rivoluzione francese avevano avuto per i filosofi tedeschi del secolo XVIII soltanto il senso di essere rivendicazioni della "ragion pratica" in generale, e le manifestazioni di volontà della borghesia francese rivoluzionaria avevano significato ai loro occhi di leggi di pura volontà, della volontà come deve essere, della volontà veramente umana.

Il lavoro dei letterati tedeschi consistette unicamente nel concordare le nuove idee francesi con la loro vecchia coscienza filosofica, o, anzi, nell'appropriarsi delle idee francesi dal loro punto di vista filosofico.

Questa appropriazione avvenne nella stessa maniera che si usa in genere per appropriarsi una lingua straniera: mediante la traduzione.

E` noto come i monaci ricoprissero di insipide storie di santi cattolici i manoscritti che contenevano le opere classiche dell'antichità pagana. Con la letteratura francese profana i letterati tedeschi usarono il procedimento inverso; scrissero le loro sciocchezze filosofiche sotto l'originale francese. Per esempio, sotto la critica francese dei rapporti patrimoniali essi scrissero "alienazione dell'essere umano", sotto la critica francese dello stato borghese scrissero "superamento del dominio dell'universale in astratto", e così via.

Battezzarono questa insinuazione del loro frasario filosofico negli svolgimenti francesi con i nomi di "filosofia dell'azione", "vero socialismo", "scienza tedesca del socialismo", "motivazione filosofica del socialismo" e così via.

Così la letteratura francese socialista e comunista fu letteralmente evirata. E poiché essa nelle mani dei tedeschi aveva smesso di esprimere la lotta d'una classe contro l'altra, il tedesco era consapevole d'aver superato l'unilateralità francese, d'essersi fatto rappresentante non di veri bisogni, ma anzi del bisogno della verità, non degli interessi del proletariato, ma anzi degli interessi dell'essere umano, dell'uomo in genere; dell'uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà, e appartiene soltanto al cielo nebuloso della fantasia filosofica.

Questo socialismo tedesco, che prendeva così solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni scolastiche, e tanto ciarlatanescamente le strombazzava, perdette tuttavia, a poco a poco, la sua pedantesca innocenza.

La lotta della borghesia tedesca, specialmente di quella prussiana, contro i feudali e contro la monarchia assoluta, in una parola, il movimento liberale, divenne più serio.

Così al vero socialismo si offrì l'auspicata occasione di contrapporre le rivendicazioni socialiste al movimento politico, di lanciare i tradizionali anatemi contro il liberalismo, contro lo Stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, contro la libertà di stampa borghese, il diritto borghese, la libertà e l'eguaglianza borghesi; e di predicare alla massa popolare come essa non avesse niente da guadagnare, anzi tutto da perdere con quel movimento borghese. Il socialismo tedesco dimenticava in tempo che la critica francese della quale esso era l'insulso eco, presuppone la società borghese moderna con le corrispondenti condizioni materiali d'esistenza e l'adeguata costituzione politica: tutti presupposti che in Germania si trattava appena di conquistare.

Il vero socialismo servì ai governi assoluti tedeschi, col loro seguito di preti, di maestrucoli, di nobilucci rurali e di burocrati, come gradito spauracchio contro la borghesia che avanzava minacciosa.

Costituì il dolciastro complemento delle acri sferzate e delle pallottole di fucile con le quali quei governi rispondevano alle insurrezioni operaie.

Mentre il vero socialismo diventava così un'arma nelle mani dei governi contro la borghesia tedesca, esso rappresentava d'altra parte anche direttamente un interesse reazionario, l'interesse del popolo minuto tedesco. In Germania la piccola borghesia, che è un'eredità del secolo XVI, e sempre vi riaffiora, da quell'epoca in poi, in varie forme, costituisce il vero e proprio fondamento sociale della situazione attuale.

La sua conservazione è la conservazione della situazione tedesca attuale. Essa teme la sicura rovina dal dominio industriale e politico della borghesia, tanto in conseguenza della concentrazione del capitale, quanto attraverso il sorgere di un proletariato rivoluzionario. Le sembrò che il vero socialismo prendesse entrambi i piccioni con una fava. Ed esso si diffuse come un'epidemia.

La veste ordita di ragnatela speculativa, ricamata di fiori retorici di begli spiriti, impregnata di rugiada sentimentale febbricitante di amore, questa veste di esaltazione nella quale i socialisti tedeschi avviluppavano il loro paio di ossute verità eterne, non fece che aumentare lo spaccio della loro merce presso quel pubblico.

Per conto suo, il socialismo tedesco riconobbe sempre meglio la propria vocazione d'essere il burbanzoso rappresentante di questa piccola borghesia.

Esso ha proclamato la nazione tedesca la nazione normale; il filisteo tedesco l'uomo normale. Ha conferito ad ogni abiezione di costui un senso celato, superiore, socialistico pel qual l'abiezione significava il contrario di quel che era. Ed ha tratto le ultime conseguenze prendendo direttamente posizione contro la tendenza brutalmente distruttiva del comunismo e proclamando la propria imparziale superiorità a tutte le lotte di classe. Quanto circola in Germania di pretesi scritti socialisti e comunisti appartiene, con pochissime eccezioni, alla sfera di questa sordida e snervante letteratura.

2. IL SOCIALISMO CONSERVATORE O BORGHESE

Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l'esistenza della società borghese.

Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori. E in interi sistemi è stato elaborato questo socialismo borghese.

Come esempio citeremo la Philosophie de la misère del Proudhon.

I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale sottrazion fatta degli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato. La borghesia si raffigura naturalmente il mondo ov'essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo borghese elabora questa consolante idea in un semi-sistema o anche in un sistema intero. Quando invita il proletariato a mettere in atto i suoi sistemi per entrare nella nuova Gerusalemme, il socialismo borghese non fa in sostanza che pretendere dal proletariato che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose idee che di essa s'è fatto.

Una seconda forma di socialismo meno sistematica e più pratica cercava di far passare alla classe operaia la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, argomentando che le potrebbe essere utile non l'uno o l'altro cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali della esistenza, cioè dei rapporti economici. Ma questo socialismo non intende affatto, con il termine di cambiamento delle condizioni materiali dell'esistenza, l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo in via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi svolgentisi sul terreno di quei rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla al rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma che, nel migliore dei casi, diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio e semplificano il suo bilancio statale.

Il socialismo borghese giunge alla sua espressione adeguata solo quando diventa semplice figura retorica.

Libero commercio! nell'interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell'interesse della classe operaia; carcere cellulare! nell'interesse della classe operaia. Questa è l'ultima parola, l'unica detta seriamente, del socialismo borghese.

Il loro socialismo consiste appunto nell'affermazione che i borghesi sono borghesi -nell'interesse della classe operaia

3. IL SOCIALISMO E COMUNISMO CRITICO-UTOPISTICO

Qui non parleremo della letteratura che ha espresso le rivendicazioni del proletariato in tutte le grandi rivoluzioni moderne (scritti di Babeuf e così via).

I primi tentativi del proletariato di far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un'età di generale effervescenza, nel periodo del rovesciamento della società feudale, non potevano non fallire per la forma poco sviluppata del proletariato stesso, come anche per la mancanza delle condizioni materiali della sua emancipazione, che sono appunto solo il prodotto dell'età borghese. La letteratura rivoluzionaria che ha accompagnato quei primi movimenti del proletariato è per forza reazionaria, quanto al contenuto; insegna un ascetismo generale e un rozzo egualitarismo.

I sistemi propriamente socialisti e comunisti, i sistemi di Saint-Simon, di Fourier, di Owen, ecc., emergono nel primo periodo, non sviluppato, della lotta fra proletariato e borghesia, che abbiamo esposto sopra (vedi: Borghesia e proletariato).

Certo, gli inventori di quei sistemi vedono l'antagonismo delle classi e anche l'efficacia degli elementi dissolventi nel seno della stessa società dominante. Ma non vedono nessuna attività storica autonoma dalla parte del proletariato, non vedono nessun movimento politico proprio e particolare del proletariato.

Poiché lo sviluppo dell'antagonismo fra le classi va di pari passo con lo sviluppo dell'industria, essi non trovano neppure le condizioni materiali per l'emancipazione del proletariato, e vanno in cerca d'una scienza sociale, di leggi sociali, per creare queste condizioni.

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Roberto Nepoti, La trama

Una compagnia d'artisti ottiene seralmente grande successo in un teatrino popolare della Parigi ottocentesca. Vi agisce, tra gli altri, un mimo, Battista, artista dal temperamento romantico e sentimentale, che s'innamora romanticamente di una ragazza belloccia ed equivoca, Garance. Questa l'ama a modo suo e sarebbe disposta a divenirne l'amante; ma non comprende l'amore spirituale del mimo. Della situazione approfitta un amico di Battista, l'attore Federico, artista geniale, ma d'animo grossolano, che non esita a farsi di Garance un'amante. Ma un bel giorno Garance fugge con un ricco conte. Passano alcuni anni: Federico è diventato un grande e celebrato attore, Battista ha sposato senza amore una compagna d'arte, che l'adora, e ne ha avuto un figlio. Garance ritorna al teatrino popolare per rivedere Battista; questi sente rinascere in sé l'antico sentimento. I due s'amano appassionatamente, ma al sopraggiungere della moglie e dei figli, Garance se ne va. Il ricco conte viene ucciso nel bagno da uno sconosciuto; Federico continua a mietere effimeri allori; la vita continua a scorrere tumultuosa e implacabile, mentre ciascuno dei personaggi sopravvissuti continuerà a inseguire una felicità irraggiungibile.

[da «Marcel Carné» di Roberto Nepoti, ed. Il Castoro Cinema]

Morando Morandini, La trama

Con Alba tragica è il capolavoro della coppia Carné-Jacques Prévert. Al di là delle discussioni critiche che suscitò (con accuse di un'esaltazione della forma in bilico su un formalismo di splendore raggelato e di decadentismo troppo compiaciuto), il film vanta una galleria di personaggi memorabili, una sontuosa e raffinata ricostruzione d'epoca, una fertile dialettica drammatica tra la vita e la finzione (il teatro), figure storiche e personaggi inventati, tragedia e pantomima, il muto e il parlato. Girato a Nizza e a Parigi tra il 1943 e il 1944 con due lunghe interruzioni per ragioni belliche, uscì a Parigi nel maggio 1945. In Francia fu distribuito in 2 parti, l'edizione italiana, ridotta della metà.



Da: “Il Morandini - Dizionario dei film”, Zanichelli]

Roberto Nepoti, La critica

Il successo economico di «Les visiteurs du soir» permise a Carné di ottenere fondi eccezionali per quella che resta la sua opera più complessa, impegnativa e grandiosa: «Les enfants du paradis».L'idea del film nacque un giorno a Nizza. Carné e Prévert avevano allora in mente un altro progetto che si doveva chiamare "Jour de sortie". Il caso volle che Jean-Louis Barrault raccontasse loro un episodio della vita del mitico mimo Dubureau, processato per l'uccisione di un uomo, colpevole di averne insultata l'amante. Il regista e il suo sceneggiatore furono tentati dall'argomento e sottoposero ai produttori un soggetto che, pur non avendo alcuna relazione con l'episodio narrato da Barrault, era tematicamente centrato sulla figura del mimo e soprattutto sul contesto storico in cui questi aveva agito: l'epoca del teatro romantico. Le riprese del film furono iniziate nell'agosto del 1943 presso gli stabilimenti della Victorine, a Nizza, per concludersi nel 1945, dopo che ad André Paulvé, produttore di «Les visiteurs du soir» si era sostituita la società Pathé, per intervento della direzione del cinema. La lavorazione fu interrotta, con grave danno economico, allo sbarco degli alleati in Sicilia, quando la Direzione ordinò a tutti di rientrare a Parigi. Nel febbraio del '44, essendo l'avanzata alleata assai lenta, Carné tornò a Nizza per concludere le riprese. Fu lui stesso, questa volta, a rallentare la lavorazione, perché il suo fosse il primo film presentato all'indomani della Liberazione. Le riprese furono terminate negli studi Pathé-Francoeur di Parigi. All'ultimo istante intervenne un nuovo contrattempo perché Robert Le Vigan, che interpretava il ruolo di Jéricho, era stato condannato per collaborazionismo, la sua apparizione nel film risultava sconsigliabile. Il regista fu allora costretto a rifare le scene in cui Le Vigan compariva, dopo aver sostituito l'attore con Pierre Renoir.

Carné e Prévert si erano documentati ampiamente sull'epoca, lavorando al museo Carnavalet e alla Biblioteca Nazionale. Il boulevard du crime, centro fisico dell'azione del film, fu interamente ricostruito a Nizza sulla scorta di stampe dell'epoca: un'autentica strada lunga più di centocinquanta metri che costò la somma, enorme per l'epoca, di cinque milioni di franchi. Il costo complessivo del film assommò a 60 milioni di franchi. L'edizione integrale, divisa in due parti («Le boulevard du crime » e «L'homme blanc») misurava 5593 metri, pari a tre ore e un quarto circa di proiezione. In seguito, essa fu arbitrariamente amputata, per esigenze commerciali, fino a ridursi alla durata di due ore. In Italia la versione completa di «Les enfants du paradis» comparve solo nel 1969 sugli schermi televisivi. Fino ad allora non si conosceva altro che una copia mutila, privata, tra l'altro, di tutte le pantomime e presentata con l'insulso titolo di "Amanti perduti".

Con «Les enfants du paradis» Carné sembra aver raggiunto un nuovo e compiuto sentimento del tempo. Il respiro narrativo del film è ampio come quello dei grandi romanzi della tradizione ottocentesca francese. Regista e sceneggiatore trovano qui la loro dimensione più congeniale. La scrittura dell'autore si libera da quanto di retorico e convenzionale era solito appesantirne il tratto e il consueto pessimismi appare quasi decantato. Come indica la didascalia iniziale, la morale del film è di ascendenza shakespeariana: «Il mondo è un palcoscenico in cui uomini e donne sono gli attori. Essi vi fanno i loro ingressi e le loro uscite.»Da qui il classico rapporto vita reale/vita immaginaria (teatro), fondato sul principio dell'arte che crea la vita. È sostanzialmente un film di contrasti da cui prende origine la felice coesistenza di generi diversissimi fra loro. Il film infatti oscilla costantemente fra dramma e commedia, senza iati né dissonanze, ma anzi toccando disinvoltamente le corde del grottesco come del sublime, del comico come del terrificante. Se mimo, melodramma e tragedia realizzano insieme la trama compositiva, l'intercambiabilità dei ruoli ne sottolinea l'eclettismo. Tanto che Frédérick, il grande attore, può strappare fragorose risate al pubblico del melodramma, mentre Baptiste, il mimo, induce i suoi spettatori alle lacrime.

L'assunto che muove l'operazione registica è quindi quello di mostrare la vita come una rappresentazione che gli uomini inscenano nell'illusione di vivere. La scrittura eletta per questo aleph di tutte le vicende umane è di impronta decisamente realistica. Rinunciando ai simbolici contrasti di luce e all'espressività marcata delle strade bagnate o delle albe caliginose, Carné adotta questa volta una fotografia unitaria di rara sobrietà ed eleganza plastica. Il film fluisce in una prosa piana, semplice e diretta, priva di angolature ricercate o di effetti a sensazione. La tecnica è usata con una misura e un equilibrio così perfetti da costituire un esempio classico di cinema.

[da «Marcel Carné» di Roberto Nepoti, ed. Il Castoro Cinema]

Français. 1945. 183 min. Noir et blanc. Drame de mœurs réalisé par Marcel Carné. Scénario: Jacques Prévert. Photographie : Roger Hubert. Musique : Maurice Thiriet, Joseph Kosma. Décors : Alexandre Trauner.

Montage: Henri Rust. Interprètes : Arletty, Jean-Louis Barrault, Pierre Brasseur, Maria Casarès, Marcel Herrand, Louis Salou, Pierre Renoir.

En 1828, à Paris, sur le Boulevard du Crime. Deux jeunes artistes, Baptiste Debureau et Frédérick Lemaître, font leur début au Théâtre des Funambules et se lient d'amitié. Une jeune femme mystérieuse et séduisante, au nom de fleur, Garance, intervient dans leur vie. Alors que Baptiste, timide, n'ose lui déclarer son amour, Frédérick, plus déluré, en fait sa maîtresse. Mais Garance, impliquée malgré elle dans les crimes d'un certain Lacenaire, obtient la protection d'un noble, l'épouse et disparaît. Sept ans plus tard, Baptiste, devenu un mime célèbre, a épousé la fille du directeur du théâtre. Le retour de Garance provoque des incidents dramatiques.

Réalisée trois ans après les célèbres Visiteurs du Soir, cette fresque colossale de près de 3 heures constitue l'apogée du fameux réalisme poétique postérieur aux années 30 et dont le tandem Jacques Prévert - Marcel Carné est devenu l'archétype.

Ce film fut la production la plus prestigieuse entreprise en France sous l'Occupation (1943) et ne fut d'ailleurs achevée qu'après la Libération. Évocation d'époque remarquable de vie et de vraisemblance dans un grouillement de figurants et de décors habilement utilisés. La reconstitution du Boulevard du Crime est admirable. Les dialogues de Jacques Prévert sont parfaits et comportent de nombreuses répliques mémorables d'une saveur acide. Le jeu des acteurs, légendaires et passionnés, est exceptionnel et Barrault réussit de savoureux numéros de mime.

Incontestablement, Arletty est l'irradiante pierre de touche du récit : c'est autour d'elle que gravitent, en un ballet amoureux un peu désordonné, des hommes fascinés. Elle est devenue la "femme mythique" du cinéma français.

Et toujours, les Enfants du paradis s'impose, de sondage en sondage, comme "le" chef-d'oeuvre du cinéma français. Ce film culte est devenu "sacré" et "intouchable" comme peu d'autres œuvres du patrimoine cinématographique français.

Fonte: http://garance.chez.tiscali.fr/lesenfantsduparadis.html

Avrò avuto sei anni, quando arrivò nella mia vita un grande giorno: papà liberò per me un piccolo spazio in uno dei suoi scaffali di libri, e mi permise di disporre lì i miei. A dire le cose come stavano, concesse una trentina di centimetri, cioè più o meno un quarto dello scaffale più basso. Io abbracciai tutti i miei tomi, che sino a quel giorno erano rimasti adagiati sullo sgabello accanto al letto, li portai così sino alla libreria di papà, e li disposi in piedi, per benino, il dorso rivolto al mondo esterno e il volto contro il muro. Fu una cerimonia di iniziazione, un rito vero e proprio: una persona i cui libri stanno dritti in piedi non è più un bambino ma un uomo, ormai. Ormai, ero come papà. I miei libri stavano in piedi. Commisi però un errore imperdonabile. Papà andò al lavoro, e io mi ritrovai libero di fare ciò che meglio credevo, in quel mio territorio sullo scaffale: ma avevo un concetto assolutamente infantile di come procedere in merito. E così avvenne che ordinai i miei libri per altezza, anche se i più alti erano proprio quelli che godevano ormai della mia più bassa considerazione, dal momento che erano semplificati, in rima, con le figure: erano insomma quelli che mi si leggeva quand'ero piccolo. Feci in quel modo perché volevo riempire tutto lo spazio che mi era stato concesso sullo scaffale. Volevo che il mio angolo di libri fosse zeppo e ridondante, che tracimasse, proprio come quelli di papà. Ero ancora all'opera, quando lui tornò dal lavoro, gettò un'occhiata sconvolta al mio scaffale e poi, nel più assoluto silenzio, mi fissò lungamente, con uno sguardo che non dimenticherò mai: uno sguardo di un disprezzo, di una delusione così amari che non c'era verso di esprimerli a parole. Uno sguardo di totale disperazione genetica. Alla fine, sibilò a denti stretti: "Mi vuoi dire, per favore, sei completamente impazzito? Per altezza? I libri sono forse dei soldati? Sono forse una scorta d'onore? La banda dei pompieri?". Poi tacque ancora. Fu un silenzio tenace e tremendo, da parte di papà, un silenzio alla Gregor Samsa, come se per lui mi fossi trasformato in uno scarafaggio. Da parte mia, invece, venne un silenzio di colpa, come se fossi davvero sempre stato un meschino insetto la cui vera natura solo ora veniva alla luce, e tutto era perduto per sempre.

In fondo a quel silenzio, mio padre mi rivelò durante i venti minuti che seguirono tutte le faccende della vita. Mi iniziò al sommo segreto nel mondo della biblioteconomia: mi svelò sia la via maestra sia i sentieri nel bosco, i panorami vertiginosi delle variazioni, delle sfumature, delle fantasie, viali isolati, ardite tonalità ma anche eccentrici capricci: i libri li si può ordinare per titolo, in ordine alfabetico per autore, per collana o editore, cronologicamente, per lingua, argomento, genere e contesto, e persino per luogo di edizione. Tutto è possibile. Così appresi i segreti della sfumatura: la vita è fatta di itinerari diversi. Ogni cosa può accadere così ma anche altrimenti, secondo partiture diverse e logiche parallele. Ogni logica parallela è di per sé coerente e consequenziale, a suo modo conchiusa, indifferente a tutte le altre. Nei giorni che seguirono dedicai ore e ore di lavoro alla mia piccola biblioteca, venti o trenta libri che sistemavo, aggredivo come fossero stati un mazzo di carte e mescolavo per poi ordinarli di nuovo daccapo, secondo i criteri più diversi. E fu così che imparai dai libri l'arte della combinazione: non da ciò che avevano scritto dentro, bensì dai libri stessi, cioè dalla loro essenza fisica.

I libri, insomma mi fecero conoscere gli spazi sterminati, la zona d'ombra che sta fra il lecito e il proibito, fra la normalità e l'eccezione: questa lezione mi accompagnò per lunghi anni. E ora che arrivai all'amore, non ero più un perfetto principiante: sapevo invece che esistono combinazioni diverse, che c'è l'autostrada ma c'è anche la strada panoramica, ci sono i sentieri sperduti, mai percorsi da nessuno. Che c'è un lecito che è quasi proibito, e un proibito che è quasi lecito. Di tutto e di più.

“Progredisce!”, esclamò l’ingegnere quando sul tronco ferroviario appena inaugurato giunse il primo convoglio carico di persone, di carbone. di attrezzi. di rifornimenti alimentari.

La prateria si andava gradatamente riscaldando alla luce dorata del sole, mentre gli alti monti boscosi si ergevano all'orizzonte avvolti da vapori azzurrini. Cani selvatici e sbalorditi bufali osservavano da lontano come il deserto cedesse il posto al fervore di attività ed al trambusto e i cumuli di carbone, di cenere, di latta e di lamiera si andassero formando sulla verde distesa.

La prima pialla mandò per i campi attoniti un suono stridente, esplose come un tuono il primo colpo di fucile rimbombando fra i monti, la prima incudine emise suoni acuti e striduli sotto i colpi del martello. Sorse una casa di lamiera e nei giorni successivi ne venne su un'altra di legno, e altre ancora, e ogni giorno ne spuntavano di nuove, ben presto anche di pietra. L cani selvatici e i bufali se ne rimasero discosti. Nel clima primaverile frusciavano i campi ricolmi di frutti, spuntarono cortili, stalle e granai. Nuove strade percorsero lande ancora vergini.

Si apprestò la stazione ed entrò in funzione, e nei paraggi sorsero edifici pubblici. banche e, nel giro di qualche mese, altri centri. Giunsero lavoratori da altre parti, contadini e borghesi, vennero commercianti e avvocati, predicatori e insegnanti. Si fondarono una scuola. tre comunità. religiose e due giornali.

Si aprirono nella parte occidentale alcuni pozzi petroliferi e un notevole benessere sopraggiunse nella città di recente fondata. Nel giro di un anno sarebbero inoltre saltati fuori anche ladri, lenoni, scassinatori, un emporio, una lega antialcoolista, una sartoria parigina, una birreria bavarese. La concorrenza delle città vicine accelerò i tempi.

Non mancava più nulla, dai discorsi elettorali agli scioperi, dal cinema alla società spiritistica. Era possibile reperire in città vino francese, aringhe norvegesi, salumi italiani, tessuti inglesi, caviale russo. Giunsero ben presto sul posto in tournée cantanti, ballerini e musicisti di seconda categoria.

E piano piano arrivò anche la cultura. La città, che agli inizi altro non era che un'istituzione, prese ad essere una patria vera e propria. Si era creato un modo di salutarsi, di scambiarsi cenni del capo nell'incontrarsi che aveva qualcosa di sottilmente diverso da quello di altre città. La gente che aveva preso parte alla fondazione della città era stimata e venerata, avvolta in una specie di aura di piccola nobiltà. Cresceva una gioventù piena di slancio, alla quale la città appariva con l’aspetto di un'antica patria, ormai votata all’eternità.

Il tempo in cui era risuonato il primo colpo di martello, si era assistito al primo assassinio, si era celebrato il primo servizio divino, era stato stampato il primo giornale era ormai relegato nel passato. Si era fatto storia.

La città era assurta al rango di dominatrice delle altre vicine ed era diventata capitale di un grande distretto. Su strade ampie e animate, dove un tempo accanto a cumuli di cenere e a pozzanghere erano sorte le prime case di assi e lamiera, si ergevano ormai uffici e banche. teatri e chiese. Studenti frequentavano tranquillamente l’università o la biblioteca, ambulanze trasportavano delicatamente i malati all'ospedale, si notava e salutava l’automobile di qualche deputato. In una ventina di imponenti edifici scolastici in pietra e ferro si celebrava regolarmente l’anniversario della fondazione della gloriosa città con canti e conferenze. La prateria di un tempo era ormai ricoperta da campi, fabbriche, villaggi e solcata da una ventina di linee ferroviarie, la montagna era ormai raggiungibile fin nel cuore delle sue vallate grazie a una linea ferroviaria montana. Lassù, o più lontano, al mare, i ricchi possedevano le loro case di villeggiatura.

Dopo cento anni dalla fondazione, un terremoto distrusse completamente la città. Ma fu rimessa di nuovo in piedi e tutto ciò che prima era di legno venne ricostruito in pietra, quel che era piccolo fu fatto grande, senza risparmio di mezzi. La stazione era la più grande della zona, la borsa la più importante del continente, architetti e artisti adornarono la nuova città di edifici pubblici, di parchi, fontane, monumenti. Nel giro di un altro secolo la città si procurò la fama di essere la più bella e la più ricca della zona, una meraviglia da vedere. Personalità politiche e architetti, tecnici e sindaci accorsero dall'estero per studiare gli edifici, gli acquedotti. le trasformazioni e le nuove acquisizioni di questa famosa città. In quel periodo cominciava la costruzione del nuovo municipio, uno dei più grandi e magnifici palazzi del mondo, e poiché allora l'incipiente ricchezza e l’orgoglio cittadino si combinavano con una generale evoluzione del gusto, specie in architettura e in pittura, la città che stava crescendo rappresentava un ardito e apprezzato portento. Il centro del distretto, i cui edifici erano tutti indistintamente fatti di un marmo pregiato grigio chiaro, era circondato da un'ampia cintura verde di giardini pubblici e. aldilà di questa cerchia, si perdevano arterie stradali e case in espansione continua verso le aree ancora disponibili e l’aperta campagna.

Molto frequentato e apprezzato era un enorme museo. nelle cui centinaia di sale. cortili e atri era esposta la storia cittadina, dalla fondazione alla recente espansione. Il primo, grandioso atrio di quest'istituzione mostrava la prateria originaria, con piante e alberi ben ricostruiti e modelli fedeli dei miserabili villaggi, delle viuzze anguste, degli oggetti di arredamento dei primi tempi. Lì gironzolavano i giovani del posto e osservavano il percorso della loro storia, a partire dalle tende e dalle capanne di legno per arrivare ai primi rudimentali binari e al trionfo delle strade da grande metropoli. E così imparavano, guidati dai loro maestri, e apprendevano quella che è la regola aurea dello sviluppo e del progresso, come cioè si passi dal primitivo al raffinato, dall'animale all'uomo, dall'ignoranza alla scienza, dalla povertà all'opulenza, dalla natura alla civiltà.

Nel secolo seguente la città attinse l’apice del proprio splendore, dispiegando notevole esuberanza e crescendo celermente, finché non sopraggiunse una sanguinosa rivoluzione degli strati inferiori a porre termine a tutto questo. La plebaglia prese allora a incendiare molti degli impianti petroliferi, a qualche miglio di distanza dalla città. per cui gran parte delle terre occupate da fabbriche, fattorie. villaggi in certi casi bruciarono, in altri si spopolarono. La città stessa conobbe massacri e atrocità di ogni genere, pur riuscendo a rimanere in piedi e a riprendersi gradatamente in qualche decennio, senza però poter più recuperare i precedenti ritmi di vita e di attività.

In quel triste periodo era fiorita rapidamente al di là del mare una terra remota, che forniva grano, ferro, argento e altri tesori, grazie alla fertilità di terreni non sfruttati che producevano ancora generosamente. La nuova terra attrasse a sé con forza le energie infrante, le aspirazioni e i desideri del vecchio mondo, per cui all'improvviso spuntarono fuori nuove città, sparirono boschi, si arginarono cascate.

La bella città cominciò lentamente a languire. Non rappresentava più il cuore e la mente di un mondo. non era più mercato e polo finanziario di più centri abitati. Doveva accontentarsi del fatto di sopravvivere e di non essere pervasa dal terrore provocato dal frastuono della modernità. Le energie inoperose, nella misura in cui sopravvivevano a confronto con il frenetico nuovo mondo, non dovevano più darsi da fare a costruire e a espandersi, e ancora meno a trafficare e ad arricchirsi. Al posto di tutto questo, sull'ormai esausto suolo agricolo proruppe un nuovo rigoglio spirituale: scienziati e artisti. pittori e insegnanti abbandonarono la città, ormai in preda alla desolazione. I successori di coloro che un tempo avevano tirato su le prime case trascorrevano serenamente in pace i propri giorni, coltivando godimenti e aspirazioni spirituali, dipingendo i tristi fasti degli antichi giardini muscosi con statue in rovina e acque fangose, cantando in versi struggenti il frastuono dei vecchi tempi eroici o i sonni tranquilli della gente esausta negli antichi palazzi. Con il che di nuovo il nome e la fama di questa città risuonarono per il mondo.

Fuori le guerre potevano distruggere popoli e grandi attività li impegnavano. mentre qui, in spaventosa solitudine, regnava la pace e lentamente riaffiorava lo splendore dei tempi andati: strade tranquille, ricoperte di rami fioriti. facciate colorate dal tempo di edifici grandiosi intorno a silenziose piazze sognanti. fontane muscose inondate dal dolce suono del gioco delle acque.

Nel giro di qualche secolo l’antica città di sogno divenne per il nuovo mondo un luogo venerato e amato, cantato dai poeti e ricercato dagli innamorati. Con sempre maggior forza, la vita della gente si proiettava verso altre parti del globo. Nella stessa città gli eredi delle antiche famiglie locali cominciavano a estinguersi o ad essere messi da parte.

Anche l’ultima fioritura spirituale si era progressivamente esaurita, non lasciando dietro di sé altro che misere tracce. I centri minori dei dintorni erano ormai scomparsi da molto tempo, trasformali in muti cumuli di rovine, a volte rifugio di zingari o evasi. In seguito a un sisma, che tuttavia risparmiò la città, il corso dei fiumi deviò e parte delle terre spopolate si trasformarono in palude, parte divennero desertiche. E dai monti, dove si andavano sbriciolando i resti degli antichi ponti di pietra e delle case di campagna, avanzò il bosco, l’antico bosco. lentamente, giù giù verso il basso; scorse l’ampio paesaggio ormai desolato e deserto e cominciò piano piano a inglobarlo un passo dietro l’altro, nella sua verde cerchia, ricoprendo col suo verde fruscìo qui una palude, là un ammasso di detriti pietrosi con le sue giovani. fitte conifere.

Nella città, alla fine, non rimase neanche un borghese, solo gente indurita e rude che viveva nei fatiscenti, sghimbesci edifici di un tempo lontano e pascolava le sue misere capre lungo quelli che erano stati una volta viali e giardini. Anche questa popolazione residua sparì a poco a poco, in preda alle malattie o alla follia, imperversando in tutta la landa febbri malariche e abbandono e desolazione.

I resti dell'antico municipio, un tempo orgoglio e vanto della sua epoca, si ergevano ancora più alti e imponenti. erano celebrati nelle canzoni in tutte le lingue del mondo. ispiravano innumerevoli leggende fra le popolazioni vicine, le cui città erano anch'esse cadute in rovina e la cui cultura si era andata estinguendo. nelle canzoni nostalgiche

Nelle storie per i ragazzi e nelle canzoni nostalgiche restavano, deformati e distorti, i nomi delle città e di quelle che ormai altro non erano che metropoli spettrali, e scienziati ed eruditi di popoli lontani, allora in pieno rigoglio, compirono in gran numero avventurosi viaggi esplorativi alla volta della città distrutte, dei cui portenti gli scolari di vari paesi parlavano avidamente fra loro. Vi si sarebbero trovate porte d’oro fino e tombe piene di pietre preziose, e le fiere tribù nomadi dei dintorni. superstiti degli antichi tempi mitici, avrebbero ereditato il retaggio di una millenaria scienza magica dispersa.

Intanto però il bosco continuava a venir giù dal monte fin nei paraggi; laghi e fiumi nascevano e sparivano, mentre il bosco continuava ad avanzare e a prendere piede, ricoprendo i resti delle antiche strade, dei palazzi, dei templi, del museo; e volpi e martori, lupi ed orsi ripopolavano il paesaggio.

Su uno del palazzi distrutti, di cui non rimaneva più in piedi neanche una pietra, spuntava un giovane pino selvatico, che appena l'anno prima era stato il messaggero e l’antesignano del progresso de! borgo. Ora però si vide circondato da altri giovani pini.

"Progredisce!", esclamò un picchio, che se ne stava martellando una corteccia, ammirando il bosco circostante e il lieto. verde avanzare degli alberi sul terreno.

Chi è Herman Hesse: una visita al suo portale

Premessa di Fabrizio Bottini

I brani che seguono hanno il principale motivo di interesse ... nel titolo, ovvero nell’affrontare il tema metropolitano dal modernissimo punto di vista della “comunità”, e dunque dell’identità, invece del prevedibile (per quanto comunque abbastanza innovativo nei primi anni Trenta) approccio territorial-amministrativo-infrastrutturale. Del resto basta la personalità dell’autore, componente di spicco della Chicago School insieme a Park e Burgess, ad assicurare elementi stimolanti e nuovi in questo studio, intrapreso nel quadro delle ricerche volute dalla presidenza Hoover per analizzare il “tasso di modernizzazione” nazionale alla vigilia della crisi economica di fine anni Venti.

Si racconta, in questo studio, la transustanziazione del modello metropolitano indotta dalle trasformazioni tecnologiche e sociali – automobilismo di massa in testa – da quello tradizionale della grande città (eccezionale ma ben visibile già nel XIX secolo) a quello diffuso che pur in forme profondamente mutate viviamo ancora oggi. È la metropoli comunitaria che inizia a vivere di sobborghi, consumi massificati, “nomadismo” indotto o volontario, e soprattutto identità non più strettissimamente locale, ma “spalmata” su una più ampia gamma di territori, servizi, accessi culturali, opportunità. Soprattutto, si tratta di una metropoli virtuale, e per dirla con lo stesso McKenzie “non si tratta di un tipo di comunità metropolitana limitata alle grandi città, è diventata l’unità comune delle relazioni locali nell’intera nazione”. E oltre, diremmo noi, ora.

Estratti da: Roderick Duncan McKenzie, The Metropolitan Community, McGraw Hill, New York 1933 [Ristampa © Routledge Press, New York 1997], traduzione di Fabrizio Bottini

Introduzione

La storia dell’insediamento americano può essere rozzamente divisa in tre periodi. Il primo è l’era pre-ferroviaria, che va dai tempi coloniali a circa la metà del diciannovesimo secolo. Durante questo periodo l’insediamento era confinato, per la maggior parte, nelle aree accessibili dalle vie di navigazione; vale a dire, la costa Atlantica e il sistema fluviale principale a est del Mississippi. Fino al 1850 più del 90 per cento della popolazione degli Stati Uniti abitava a est del fiume Mississippi, e la gran parte di questa a est degli Alleghenies. Durante questa “epoca dei fiumi”, l’insediamento aveva carattere segmentato; le varie unità, determinate dalle condizioni geografiche, avevano scarse relazioni economiche o sociali l’una con l’altra. Era un insediamento di carattere principalmente rurale; quasi quattro quinti dei 23.000.000 di abitanti degli Stati Uniti del 1850 abitavano in territori rurali o in centri con meno di 8.000 persone.

Il secondo periodo di sviluppo insediativo inizia verso il 1850, con l’espansione della ferrovia. A cominciare dalla parte orientale del paese, la costruzione delle ferrovie si espande verso ovest, dapprima verso i centri fluviali già consolidati e, più tardi, verso la nuova frontiera oltre il Mississippi. Al 1870 esiste un collegamento ferroviario con la Costa del Pacifico, e nel 1900 erano state stese tutte le linee principali della rete attuale.

Non vale la pena di ripetere qui la storia dello sviluppo insediativo durante questa era ferroviaria. Alcuni aspetti, comunque, devono essere richiamati all’attenzione. Liberato dal dominio delle vie d’acqua, l’insediamento si espande sotto l’influenza del trasporto ferroviario, a ovest attraverso il continente. Il flusso è diretto e controllato dalle opportunità offerte in termini di terreno coltivabile e altre risorse naturali. Nel periodo di 30 anni dal 1870 al 1900 più di 200 milioni di ettari si aggiungono alla superficie coltivata degli Stati Uniti: un’estensione di territorio, come ha stimato E.L. Bogart, uguale all’area di Gran Bretagna e Europa continentale tranne la Spagna.

Questa corsa verso nuove zone di opportunità agricole perde di slancio poco dopo l’inizio del nuovo secolo. Già nel 1890 il Sovrintendente al Censimento annunciava significativamente che la frontiera era scomparsa, intendendo che la popolazione si fosse distribuita su tutto il territorio, ad una densità minima di 0,8 abitanti per chilometro quadrato. In un’analisi della crescita demografica negli Stati Uniti nel decennio dal 1910 al 1920 W.S. Rossiter sottolinea l’allentarsi di questo movimento verso ovest.

Fino al 1900 il flusso di popolazione era principalmente verso occidente. Da quel censimento, appare come la corrente si sia ridotta, e i mutamenti demografici dipendano di più da sviluppi isolati in varie sezioni del paese, come quelle ad agricoltura irrigua, le campagne dell’Oklahoma, i frutteti del lontano Nord-Ovest, le scoperte di giacimenti minerari e petroliferi nel Sud-Ovest ... Le fluttuazioni e correnti demografiche tendono sempre più a seguire mutamenti nello sviluppo industriale. Questo porta naturalmente ad un incremento accelerato della popolazione urbana.

Sin dall’inizio del movimento vero ovest, anche prima ma in particolare durante il periodo di espansione ferroviaria, la crescita urbana era in gran parte figlia e ancella dell’insediamento rurale; seguiva anziché orientare la diffusione demografica. Sorgevano città-nodo nei punti di ingresso alle varie regioni produttive, che fungevano da centri di raccolta per l’insediamento circostante, e punti di distribuzione dei manufatti importati dall’esterno del territorio. Questi centri di ingresso mantenevano il contatto con il territorio tributario attraverso un gerarchia comunitaria di villaggi, cittadine e città distribuite sulla base del trasporto ferroviario. Così si formò lo schema base dell’insediamento moderno americano. Ben 42 delle 93 città con più di 100.000 abitanti al 1930 sono costituite in municipi sin dal 1850; vale a dire, dall’inizio dello sviluppo ferroviario, e cinque iniziano la propria carriera istituzionale nel 1890.

Verso la fine del diciannovesimo secolo la città comincia a giocare un nuovo ruolo nell’evoluzione dell’insediamento negli Stati Uniti. Con l’ascesa dell’industria, popolazione e ricchezza diventano sempre più concentrate nelle grandi città. La domanda urbana di materie prime per industrie in crescita, e di tipi specializzati di prodotti agricoli per la popolazione in crescita, determinano sempre più i modi dell’insediamento rurale. Continuano a formarsi nuove frontiere, ma principalmente in aree in cui si possono ottenere prodotti destinati al mercato interno urbano. D’altro canto, molte delle più antiche aree rurali iniziano a recedere a causa delle forze economiche originate dai centri metropolitani. Con la crescita di popolazione e ricchezza in tutto il paese, la città acquisisce ambiti crescenti di funzioni economiche e sociali, che svolge non solo per i suoi abitanti, ma anche per il territorio rurale. Parallelamente incrementa il proprio dominio economico e culturale.

Il terzo periodo, quello che ci interessa di più in questo studio, comincia circa nel 1900 o poco dopo. Lo si può chiamare un’epoca di regionalismo urbano, che si sviluppa sotto l’influenza del trasporto motorizzato. Come già detto, la ferrovia pone le fondamenta al regionalismo moderno creando una rete di grandi città-nodo che servono da punti focali nell’integrazione dei territori circostanti e che attraggono l’intera nazione entro una singola unità economica. Il veicolo a motore non ha cambiato le linee principali di questo schema di insediamento ferroviario. Le grandi forze economiche attive al momento di introduzione dell’automobile hanno imposto l’adattamento di questo nuovo mezzo di trasporto alla struttura insediativa già esistente.

Nonostante questo, si può dire che l’effetto complessivo del trasporto motorizzato sulla civiltà Americana è stato tanto fondamentale quanto l’avvento della ferrovia. Il primo luogo, il trasporto a motore è cresciuto con una rapidità ancora più grande di quella delle ferrovie nel loro periodo di maggior espansione. In un quarto di secolo, 26.000.000 di veicoli a motore e più di 800.000 chilometri di strade pavimentate per automobili, si sono aggiunti al sistema di trasporto degli Stati Uniti. Cominciando dalle strade urbane e dalle vie di comunicazione per i carri come uniche arterie di traffico, il veicolo a motore ha sviluppato un sistema di strade pavimentate adatte ai propri bisogni. Questa nuova rete di strade per automobili, che si è sovrapposta allo schema insediativo esistente, ha uno sviluppo più intenso sui margini delle città e ha portato centri urbani e territorio circostante entro un medesimo sistema di trasporto. Così facendo, ha cancellato confini e superato distanze che prima separavano l’area urbana da quella rurale, e ha introdotto un tipo di comunità locale che non ha precedenti nella storia.

Generalizzando, si può dire che la ferrovia abbia stabilito le principali linee strutturali dell’insediamento americano. Rendendo possibile il trasferimento di prodotti fra regioni molto distanti, hanno portato gli interi Stati Uniti verso una sola entità economica integrata da un sistema di città-nodo di varia importanza, che funziona tramite catene di centri minori sgranati lungo le linee ferroviarie. Le ferrovie, comunque, non cambiavano materialmente lo schema tradizionale di vita delle comunità locali.

Eccetto nelle grandi città, dove furono introdotte forme di trasporto meccanizzato, prima a vapore e poi elettriche, il veicolo a cavalli rimase il mezzo principale di spostamento e comunicazione. Le istituzioni locali e le relazioni sociali proseguivano, nell’epoca ferroviaria, più o meno sulle stesse basi dell’epoca precedente. Ma l’avvento del trasporto a motore rivoluziona questo schema tradizionale di relazioni locali, provocando mutamento culturali e istituzionali più dirompenti per la struttura sociale di quanto non avvenuto col trasporto ferroviario.

Riducendo la dimensione della distanza locale, il veicolo a motore amplia l’orizzonte della comunità e introduce una suddivisione territoriale del lavoro, fra le varie istituzioni e centri vicini, unica nella storia dell’insediamento. Il grande centro può ampliare il raggio di influenza; la sua popolazione e molte delle istituzioni, libere dal dominio della ferrovia, si sono ampiamente disperse nel territorio circostante. In più, cittadine e villaggi un tempo indipendenti sono divenuti parte di questo complesso urbano allargato. Questo nuovo tipo di super-comunità organizzata attorno ad un punto focale dominante, che comprende una moltitudine di centri differenziati di attività, è diversa dalla metropoli determinata dal trasporto ferroviario, nella complessità della sua divisione istituzionale del lavoro e nella mobilità della sua popolazione. Il suo scopo territoriale di definisce in termini di trasporto motorizzato e di competizione con le altre regioni. E non si tratta di un tipo di comunità metropolitana limitata alle grandi città. È diventata l’unità comune delle relazioni locali nell’intera nazione. Il suo sviluppo ha determinato un’ampia riorganizzazione demografica e istituzionale, un processo che è ancora lontano dall’aver trovato un equilibrio.

Obiettivo di questo studio è quello di delineare l’ascesa di questo nuovo tipo di comunità regionale, di evidenziare le forze che lo stanno formando, e determinarne forme e modus operandi. Nella fase attuale, è importante notare le tendenze nell’organizzazione spaziale della popolazione sia nel paese in generale, sia nei bacini locali; esaminare le tendenze di insediamento, dai nuclei isolati indipendenti a questo tipo di complesso super-comunitario; notare i problemi che sorgono nel processo di riorganizzazione.

Affrontando questo compito, ci si scontra con i limiti delle statistiche disponibili per misurare tendenze e interrelazioni del fenomeno. Molte delle nostre generalizzazioni non sono adeguatamente sostenute da prove concrete. Allo stesso modo, si sono dovute abbandonare alcune linee di lavoro per mancanza di dati quantitativi. Questa carenza di dati riguarda in modo particolare i mutamenti in corso nella vita sociale e culturale della comunità metropolitana. Nonostante sia ovvio come le trasformazioni di questi aspetti siano significative quanto quelle nelle relazioni commerciali, non è possibile ottenere informazioni per quantificarle. Dunque se questo studio sembra sovraccaricare l’aspetto economico e sorvolare sul lato sociale, questo si deve principalmente alla comparativa inadeguatezza dei dati.

[Fine della prima parte]

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Premessa di Fabrizio Bottini

Il titolo di questo lungo (e, ahimé, piuttosto ripetitivo e retorico) saggio, può essere lievemente fuorviante per un lettore attuale: la “Città moderna” a cui fa riferimento Ridgway infatti non c’è più da un pezzo. E questo non si riferisce al fatto che qui si parla di città americana al lettore italiano, o della città “moderna” del 1925 settant’anni dopo. Il problema, come dicono politici e sofisti, è un altro. Siamo, appunto, nel 1925, e sull’idea di “città” si stanno accapigliando parecchi approcci, tra cui spiccano architetti, ingegneri, discipline amministrative, e più sfumati i contributi di quelle sociali, sanitarie, o di altre emergenti. Siamo negli anni, ancora solo per fare un esempio, della pubblicazione di Urbanisme di Le Corbusier, che con il suo incipit in perfetto stile da avanguardie storiche efficacemente avoca all’intuizione dell’architetto la capacità di governare e incanalare le immense forze che si agitano nella grande città moderna. Per rimanere all’Italia, è l’epoca in cui la nascita della parola “urbanistica” si accompagna alla sua parallela e graduale “uscita” dai municipi, e dalla relativa centralità di ingegneri e amministratori, per riversarsi nell’azione parallela, ricca e contraddittoria, dell’accademia, dei concorsi di piano regolatore, degli studi privati, della “corporazione degli urbanisti” organizzati nel nuovo Istituto Nazionale.

Con questi presupposti, il discorso di Robert Ridgway nella lontana Cincinnati del 1925, ricorda molto da vicino le contemporanee proposte di Silvio Ardy nei comuni padani della riorganizzazione amministrativa fascista: un tentativo di rilancio culturale e professionale andato male, ma non certo per demeriti propri. Ed è ovvio che la “idea di città” espressa non possa che essere piuttosto singolare, in entrambi i casi, e certamente lontana anni luce dalla centralità della forma esteriore a qualunque scala, così come allora si sta affermando, e così come siamo ormai quasi abituati istintivamente a pensare. Sarebbe troppo lungo, e probabilmente inutile o superfluo, soffermarsi qui su analogie e differenze fra i due casi. Resta, la lunga serie di suggestioni di questo discorso inaugurale “programmatico”, dalla necessità dell’impegno civico anche oltre gli aspetti tecnici disciplinari (siamo negli anni della neighborhood unit a New York e degli studi di ecologia sociale urbana a Chicago), al considerare la città in senso ampio: territoriale, di competenze, di integrazione fra apporti verticali e orizzontali. Naturalmente ci sono, espliciti o striscianti, passaggi di comprensione più difficile, certamente legati a polemiche contingenti di cui non possiamo o sappiamo conservare memoria. Ma questo nulla toglie, credo, al grande valore ed attualità di questo saggio, oltre la forma retorica in cui si presenta, valore documentale che lo affianca per esempio ai brani di Antonio Pedrini (per l’intreccio fra macchina, modernità, complessità), a quelli già citati di Silvio Ardy, e infine anche alla centralità del consenso, della comunicazione. Un’arte colta in pieno da altri proprio nello stesso periodo. Ma questa è un’altra storia. (fb)

Discorso pronunciato dal Presidente, Robert Ridgway, alla Convenzione annuale della Società Americana degli Ingeneri Civili, Cincinnati (Ohio) 22 aprile 1925, in Transactions of the American Society of Civil Engineers, Vol. 88, Paper No. 1572, pp. 1245-1256 [traduzione di Fabrizio Bottini]

Forse, l’effetto più rilevante dell’applicazione delle leggi di Natura, portate alla luce dalla ricerca paziente dello scienziato da un secolo e mezzo a questa parte, si nota nella meravigliosa crescita di città ovunque, e visto che l’ingegnere ha contribuito in così larga misura a questo risultato, ho scelto come argomento del mio discorso “La città moderna e le sue relazioni con la figura dell’Ingegnere”, ben sapendo che questi pensieri non sono affatto originali, ma sono da lungo tempo nelle menti di molti.

Nell’epoca semplice in ci fu adottata la nostra Costituzione Federale, eravamo essenzialmente un popolo agricolo, e la manifattura era poco più di un’eccezione. Il proprietario di piantagione era l’uomo che contava, e quando arrivava in città gli si dimostrava tutta la riverenza adatta alla sua posizione nella comunità. Poi, la macchina a vapore cominciò a giocare una parte importante negli affari nazionali, e fra le altre applicazioni rese anche più facile il trasporto su lunghe distanze. A questo fece seguito il “telegrafo magnetico”, risultato del lavoro di Henry e Morse, e da allora un’invenzione ha seguito l’altra a ritmo crescente, sino ad oggi. Non ci soffermiamo molto spesso a riflettere su quanto nuove e recenti siano in realtà le invenzioni che tanto contribuiscono al nostro agio e benessere. Basta semplicemente tornare all’infanzia di coloro che ancor oggi operano, per comprendere. Quando sono nato, il telegrafo era ancora guardato come una meraviglia e la locomotiva una macchina piuttosto primitiva, se paragonata alle grandi macchine di oggi. Non era stato steso con successo nessun cavo trans-Atlantico. Al telefono non ci si pensava proprio e luce e trazione elettrica erano ancora nei sogni degli studiosi. L’energia idraulica in gran parte veniva sprecata, perché nonostante se ne capisse il valore potenziale, non esisteva un mercato per questo tipo di energia e non si conoscevano metodi per imbrigliarla come idroelettricità.

L’uomo medio, allora molto più di oggi, era riluttante ad accettare nuove idee, che disturbavano le sue abitudini di pensiero e azione. Ci divertiamo leggendo dell’opposizione, a volte violenta, a introdurre invenzioni che più tardi contribuiranno tanto alla crescita delle comunità, e sono oggi accettate come norma. Questo estratto da The World of Tomorrow, è interessante per quanto ci illumina su questo stato d’animo:

La risoluzione seguente è stata approvata nel 1828 dall’Ufficio Scolastico di Lancaster, Ohio, e citata dal Dr. Fosdick: “Sei il benevenuto a usare questa scuola per dibattere in essa tutte le materie appropriate. Ma questioni come ferrovie o telegrafi sono vietate, e significano mancanza di fede. Non c’è nulla nella parola del Signore, che dica di esse. Se il Signore avesse voluto che le sue creature intelligenti viaggiassero alla spaventosa velocità di quindici miglia orarie l’ora grazie al vapore, Egli l’avrebbe annunciato attraverso la bocca dei Suoi santi profeti. È uno strumento di Satana per trascinare le anime dei credenti giù nell’Inferno”.

Se qualcuno in quei giorni avesse posseduto un apparecchio radiofonico e avesse osato esibirlo in funzione, temo avrebbe messo a repentaglio la vita. Quando uno dei miei distinti predecessori, dopo il ritiro dalla carica di Presidente, affrontò in modo serio il tema dell’aeronautica, ci fu chi, ingegneri e altri, mostrò preoccupazione per lui, e si chiese se non fosse per caso uscito di senno. La maggior parte delle persone a quel tempo, erano soddisfatte di aspettare fino alla propria dipartita da questo mondo, per imparare a volare. Ci divertiamo davanti a queste prove di conservatorismo, ma dobbiamo ricordare che la gran massa del genere umano è conservatrice per natura, mantenendo così il modo entro determinati confini; altrimenti accetterebbe qualunque idea maldigerita proposta in modo credibile. La maggior parte degli uomini non ha né tempo né competenza per analizzare con criterio ogni nuovo fatto mentre si sviluppa, e di distinguere fra le poche buone idee e le molte senza alcun valore. Quante fortune sono state dilapidate dagli investitori su brevetti intesi dagli inventori (e declamati dai promotori) come rivoluzionari, ma che hanno mancato i propri scopi a causa di difetti irrimediabili?

L’uomo moderno è incline a dare per scontati molti sviluppi della ricerca scientifica non appena divengono disponibili, e ne arrivano a ritmi crescenti. È solo l’uomo riflessivo, a meravigliarsi per i fantastici risultati, che sono il prodotto di pazienti studi da parte degli scienziati, e di fiducioso sviluppo da parte degli ingegneri. È curioso, come l’uomo di adatti ai cambiamenti portati dalle nuove invenzioni. La maggior parte delle persone li accettano come si accetta la luce del sole o la pioggia, senza tentare di capirle. Per l’uomo medio anche la radio ha smesso di essere una meraviglia e un aeroplano che passa si merita ormai solo un’occhiata. Egli non sa nulla del lavoro pioniere di Hertz e non ha mai sentito parlare dei contributi all’arte del volo di Langley a Chanute, in condizioni scoraggianti prima che i fratelli Wright rendessero il volare un fatto compiuto. Lo scienziato puro è stato paragonato a un sognatore, interessato ad un soggetto o a una ricerca per sé stessa, senza alcuna idea delle possibili applicazioni pratiche. Scopre un fenomeno, permettendo così all’ingegnere di applicarlo a un certo scopo utile. È estremamente raro trovare il ricercatore puro e quello pratico, o ingegnere, combinati in una sola personalità. Innumerevoli volte, il primo non ha avuto dal mondo il riconoscimento che gli era dovuto. Il suo lavoro nella quiete dello studio o del laboratorio non è, di regola, spettacolare, e bisogna ricordare che poche verità scientifiche sono scoperte per caso.

“Paziente ricerca, dedizione e sforzo di anni, costituiscono il denominatore della frazione che rappresenta la formula della scoperta scientifica, e in questa frazione il numeratore si intreccia ampiamente con sogni di speranza, successo, risultati futuri. Senza speranze, senza visione, senza sogni, il successo sarebbe sempre irraggiungibile”.

Mi sono spesso dipinto il mondo come potrebbe essere, ora, se lo sviluppo scientifico fosse cominciato prima e poi proseguito ad un ritmo meno febbrile di quanto accaduto nelle ultime generazioni. Quando, insieme all’Ufficio Direttivo della nostra Società, ho visitato Muscle Shoal sul fiume Tennessee, nel 1923, non ho potuto fare a meno di pensare quali diverse strade avrebbe potuto prendere la nostra storia se gli aborigeni uomini rossi avessero avuto conoscenze sul significato dell’energia delle cascate, e fossero stati in grado di applicare quelle conoscenze per il bene della propria razza.

E non dobbiamo dare solo allo scorso secolo l’intero merito dei meravigliosi sviluppi compiuti, perché altri ne stavano pazientemente edificando le fondamenta da altri secoli, e senza il loro buon lavoro saremmo molto più indietro rispetto alla posizione che occupiamo. I primi passi del progresso tendono sempre ad essere stravaganti. Il meraviglioso sviluppo del nostro paese nel Diciannovesimo Secolo fu compiuto a grandi costi. Le risorse naturali, come legname, carbone, fauna selvatica, sembravano inesauribili, e ne risultò uno spreco devastante. Ora che quelle risorse sono state erose, e l’esaurimento di alcune è ormai in vista, inizia ad essere all’ordine del giorno una politica di conservazione. L’Europa ha appreso da molto la lezione del risparmio, ma anche noi stiamo rapidamente imparando la stessa cosa, che fu compresa nel vecchio continente molto prima di quanto non avvenisse o si prevedesse qui. Il mondo guarda allo scienziato, all’ingegnere, al chimico, per un aiuto a comprendere come fare il miglior uso delle rimanenti ricchezze naturali. Il problema, tuttavia, ve ben oltre. Essi devono indicare la strada per l’uso di materiali e sostanze che ora sono considerate senza valore: è il ruolo dell’alchimista.

Col ritmo rapido a cui vengono fatti progressi, e con le applicazioni di una scoperta che sembrano sempre aprire ad altre nuove, ci si domanda cosa ci serbino le prossime generazioni. Che pericoli aspettano quelli che sono ora studenti universitari, e che opportunità avranno, come frutto delle ricerche oggi in corso!

La maggior parte delle invenzioni del futuro probabilmente non saranno nuove e fondamentali, ma nasceranno come evoluzioni di quelle già fatte. Molti lavoreranno verso l’eliminazione degli sprechi, per esempio aumentando il lavoro per unità di combustibile. Alcuni inaugureranno nuovi campi, e a titolo di esempio può essere citato il recente sviluppo della nave a rotore Flettner, spinta dal vento senza l’uso di vele, utilizzando la tendenza di un cilindro in rotazione a creare il vuoto su un lato. È stato ipotizzato che questo principio si possa applicare ad un tipo di elicottero, con l’idea che se l’esperimento avesse successo ci sarebbe una tendenziale rivoluzione nell’intera teoria delle macchine da volo più pesanti dell’aria.

Le abitudini e i costumi della nostra gente, così come le loro strutture sociali, sono state profondamente influenzate dal meraviglioso sviluppo materiale. Siamo cambiati, da paese essenzialmente agricolo a nazione industriale. Quando si tenne il primo Censimento Federale nel 1790, probabilmente più del 90% del totale dei 4.000.000 di popolazione era rurale, e solo il 10% urbano, vale a dire residente in centri con più di 2.500 abitanti. Filadelfia, con 42.520 abitanti era la città più grande, e New York la seconda con 33.131 residenti. Nel 1920, solo il 46% dei 113.000.000 abitanti gli Stati Uniti Continentali era rurale, e il 54% viveva in centri con più di 2.500 persone. Come lo sviluppo delle scienze applicate, anche la trasformazione da una situazione rurale a una urbana ha proceduto a ritmi sempre più incalzanti, ma alcuni di coloro che hanno analizzato il fenomeno ritengono ci siano segni di un rallentamento. L’automobile, e le migliori strade, il telefono, la radio, insieme al risparmio di lavoro umano delle macchine agricole e alle migliori condizioni di vita nei campi, hanno reso la vita in campagna più confortevole, al punto che la migrazione verso le città è stata gradualmente arginata.

Questa nuova situazione non è peculiarmente nostra o del Canada. L’Europa e il resto del mondo mostrano la stessa tendenza, indicando così che le cause fondamentali non sono solo lo sviluppo di un relativamente nuovo tipo di campagna, ma la crescente sostituzione della macchina al lavoro umano, e la creazione di nuove condizioni di vita. Il cambiamento, ad ogni modo, è probabilmente più pronunciato nelle nuove nazioni come la nostra.

Qualche esempio della recente crescita delle maggiori città si trova nella Tabella 1


1880 1890 1900 1910 1920
New York 1911698 2507414 3437202 4766883 5620048
Chicago 503185 1099850 1698575 2185283 2701705
Filadelfia 847170 1046964 1293697 1549008 1823779
Boston 362839 448477 560893 670585 748060
Baltimora 332313 434439 508957 558485 733826
Los Angeles 11183 50395 102479 319198 576673
New Orleans 216090 242039 287104 339075 387219
Seattle 3533 42837 80671 237194 315312

La crescita delle città, ad ogni modo, non ci racconta tutta la storia. Nei vecchi tempi, la città era poco più di una griglia di strade e un gruppo di case. Uffici e negozi stavano sotto lo stesso tetto, o a pochi passi di distanza dall’abitazione del proprietario o del dipendente. Case e luoghi di lavoro erano illuminati da lampade o candele. La fornitura d’acqua, in molti casi lontana dall’essere potabile, veniva da pozzi o pompe urbane, e le fosse perdenti svolgevano in parte il ruolo delle moderne fognature. Dove esisteva qualche tipo di pavimentazione, era comunque rozza e in cattivo stato. Gli animali domestici scorazzavano per le strade, che erano pulite solo occasionalmente. La vita, osservata da un punto di vista contemporaneo, era primitiva. I rapporti fra igiene pubblica e privata erano sconosciuti, e i poteri di polizia pubblici erano limitati al semplice mantenimento dell’ordine.

La città moderna è un organismo molto più complesso. Le sue strade e gli edifici ne sono un’espressione dello spirito, così come una fotografia esprime il carattere di un individuo, ma la città è molto più che espressione esteriore. Ho spesso comparato la differenza fra la città moderna e il villaggio da cui si è sviluppata, con quella fra la nave da combattimento e la nave di legno dei giorni di Nelson. Quest’ultima era spinta dai venti del cielo, le vele stavano tese e ammainate, l’ancora si manovrava a mano. La nave da battaglia, oggi, è un fascio di nervi, e dentro il suo scafo contiene i più intricati macchinari di ogni tipo. L’equipaggio sa poco delle cose che i navigatori dei vecchi tempi dovevano conoscere, ma ora comprende specialisti di ogni tipo, abili nell’uso del vapore, dei motori elettrici e della radio, esperti nella navigazione e artiglieria scientifica. Sulla nave da battaglia sono rappresentate praticamente tutte le attività di un grande centro urbano, e il personale comprende oculisti, dentisti, medici generici e chirurghi, carpentieri, pittori, barbieri, sarti, tipografi, e anche un sacerdote. Gli ufficiali hanno studiato e quasi ogni campo dello scibile, e conoscono i principi legislativi nazionali e internazionali.

Le case e gli uffici di ogni moderna città sono forniti di luce elettrica e telefono, si cucina in gran parte col gas, che viene pompato da un impianto centrale. Veicoli elettrici, e veicoli mossi da motori a benzina, portano la gente da e verso le proprie abitazioni. Edifici alti parecchi piani e forniti di ascensori, hanno preso il posto dei vecchi fabbricati bassi. Gli alloggi unifamiliari sono rapidamente rimpiazzati da case ad appartamenti, abitate ciascuna da molte famiglie. Le strade sono ben pavimentate e illuminate, pulite molto più spesso e molto meglio di quanto non avvenisse prima. Forse ci sono per le strade ancora tanti cavalli quanti ce n’erano un tempo, ma i veicoli a trazione animale sono stati in gran parte sostituiti da autocarri, con maggior capacità di carico, e pare che il cavallo stia scomparendo.

I pozzi perdenti sono stati sostituiti da fognature che automaticamente smaltiscono i rifiuti, e la pompa idrica di città da una fornitura di acqua potabile proveniente da sorgenti lontane. I giornali sono affiancati dal cinema e dalla radio, che portano nelle sale e in casa le notizie del giorno. Esistono in gran numero strutture religiose, culturali, sanitarie e per il tempo libero, come parte della città, ed esse sono disponibili per ricchi e poveri in quantità molto maggiori di quanto sia mai accaduto. La casa del lavoratore è fornita di servizi e comodità che il ricco del passato non poteva permettersi, perché non esistevano. La salute generale del popolo è migliore di quella del passato. Gli agi di ieri sono diventati le necessità di oggi, e quello che veniva considerato lusso ora è richiesto come servizio.

Il cittadino deve pagare, naturalmente, per tutte queste comodità moderne, e questo ce lo ricordano necessariamente le cifre, come quelle che ho scorso di recente su una copia del Gazeteer of the State of New York, pubblicato a Albany nel 1813. La popolazione della città di New York, secondo il Censimento del 1810, era data a 96.373 abitanti, compresi 1.686 schiavi. Il bilancio municipale per il 1812 da per incassati $ 1.012.460,38 e spesi $ 953.736,04. Inclusa negli incassi sta una somma di $ 4.969,55 per letame di strada. Il bilancio approvato dalla città per il 1925 è di circa $ 400.000.000 per una popolazione stimata di circa 6.000.000 di persone. In altre parole, mentre la popolazione è aumentata di 62 volte, il bilancio si è moltiplicato per 400.

Ci soffermiamo raramente a pensare all’enorme energia imbrigliata e disponibile entro i confini di una sola grande città. Si stima che il potenziale energetico trasmesso attraverso il vapore, l’acqua, il gas, i cavi elettrici, che stanno sotto le strade di New York, sia almeno tre volte quello generato da tutti gli impianti idroelettrici alle cascate dei Niagara, su entrambe le rive del fiume. La capacità degli impianti centrali di generazione elettrica di New York è da sola di 3.000.000 di cavalli. Mi hanno detto che l’acqua di condensazione pompata per questi impianti è otto volte la quantità d’acqua fornita alla città dai suoi acquedotti.

In senso materiale, la città moderna è il risultato del lavoro fatto dallo scienziato puro e dall’ingegnere. Senza loro, la città non potrebbe esistere. Si devono alla loro capacità e sforzi la fornitura d’acqua, le fogne, le strutture sanitarie, le strade pavimentate, i mezzi di trasporto urbani, suburbani, interurbani, il telefono, la luce elettrica, e tutte le molte altre infrastrutture su cui la città e venuta a poggiarsi per la propria stessa esistenza. Né si potrebbe mantenerla lontana dalle epidemie, e con uno standard di salute così elevato, senza l’eccellente lavoro dell’ingegnere sanitario in cooperazione col chimico, il batteriologo e la ricerca medica. È così che sono state in gran parte eliminate le febbri tifoidi, la febbre gialla, e quasi tutte le malattie infettive sono state poste sotto controllo.

Le strutture che tanto condizionano la nostra moderna vita urbana richiedono il servizio di specialisti accuratamente formati, ciascuno nella sua particolare area di lavoro. L’epoca di “Jack-of-all-trades” è finita, perché è ovvio come oggi, con un tale incredibile carico di dettagli in ciascuna linea di intervento, non si possa essere più esperti in tutto, e i nuovi esperti sono ingegneri con varie qualifiche. Pensare al lungo e paziente studio che è stato ed è tuttora dedicato a ciascuno di questi problemi, capire come il lavoro sia frequentemente svolto nelle condizioni più scoraggianti, e come i progressi avvengano di solito nonostante – e non con l’aiuto della – maggioranza dei cittadini, ci fa sentire quanto dobbiamo a coloro che hanno operato nei laboratori e studi di progettazione, negli uffici, nelle fabbriche,e sul campo, per conseguire i risultati che accettiamo con tanta compiacenza.

Poche tra queste persone sono conosciute dal pubblico, perché le loro opere non hanno il carattere di sensazionalità che attira l’attenzione, e molti di loro sono troppo modesti per aspettarsi qualunque riconoscimento pubblico per il proprio lavoro.

La trasformazione della vita urbana ha cambiato in profondità i costumi, le abitudini, il pensare della gente. Nei giorni semplici dei primi anni della Repubblica, quando si viveva di solito distanti l’uno dall’altro, si era individualisti, credendo con Thomas Jefferson che il governo fosse un male necessario e che si dovesse impicciarsene il meno possibile, a seconda delle personali necessità e bisogni. La moderna concentrazione di grandi quantità di popolazione nelle città ha portato all’organizzarsi di gruppi industriali con centinaia e spesso migliaia di dipendenti che lavorano sotto lo stesso tetto. Le diversità di costumi stanno scomparendo. Si formano organizzazioni in base all’appartenenza di classe, con l’idea di migliorare praticamente le condizioni di particolari categorie di lavoratori. Si richiede più governo.

C’è uno spostamento verso il socialismo e il paternalismo; una tendenza a rivolgersi al governo dello Stato o Federale per un aiuto nelle difficoltà; a perdere lo spirito Anglo-Sassone di indipendenza che prima era prevalente, e che fu il fondamento su cui fu edificata la vita nazionale. C’è il timore che queste tendenze ci stiano portando troppo lontano; che il lavoratore sia trasformato in una macchina, e che si stiano compiendo troppi sforzi verso un suo progresso esclusivamente materiale, e il lato morale e spirituale siano dimenticati. Se i lavoratori delle città hanno evitato la dura vita nelle campagne dei vecchi tempi, pagano però in termini di vita tranquilla, di quel tanto di cose fondamentali necessarie ad una vera felicità, al pieno e tondo equilibrio umano. Ci siamo vantati della percentuale di analfabeti tanto più bassa nelle nostre città che nei distretti rurali, abbiamo scordato che l’educazione non è solo capacità di leggere e scrivere, ma il suo vero scopo è trasmettere l’insegnamento della Natura, “il sermone della roccia”, e “sognare sogni di progresso umano, di felicità e appagamento finale”.

Il prezzo che abbiamo pagato per i molti vantaggi che ci ha dato la vita nelle grandi città, è grande. Opportunità e vantaggi non hanno compensato l’umanità per la riposante quiete dell’aperta campagna, per i semplici piaceri che offre, per lo spirito di introspezione che induce. Comodità e lussi si possono godere solo a spese di una certa perdita di carattere. La gioia del fare è offuscata da un senso prevalente di inquietudine, e il crescente costo della vita in città causa ansie a chi ha pochi mezzi. Sta diventando sempre più costoso fornire di cibo e altre merci le grandi città, principalmente per i limiti dei terminal che comunque sono, in parte, il risultato di una visione limitata ed egoista di alcune comunità.

I grandi centri sono qui per restare, e continueranno senza dubbio ad esistere sin quando le condizioni industriali e la natura umana rimarranno come sono oggi, e sin quando l’uomo sociale manterrà il desiderio di vivere e lavorare dove si radunano altri uomini. Riconoscendo questo, gli sforzi di ciascun buon cittadino dovrebbero rivolgersi a rendere le città quello che dovrebbero essere, con ciascuno a contribuire con le migliori idee a migliorare la qualità, anziché il numero degli abitanti. Molti stano iniziando a pensare all’idea che sarebbe meglio, per il benessere dell’umanità, se la tendenza di oggi verso la vita urbana potesse essere arginata. È un grave dilemma, se nel futuro si debba incoraggiare la rapida crescita urbana. È ovvio come le nostre città non possano continuare a crescere fino ad includere l’intera popolazione. Ad un certo punto la loro crescita sarà fermata dall’inevitabile azione delle leggi economiche, se uomini di pensiero non troveranno qualche modo di controllarla prima che arrivi quel tempo. Non giova al benessere della gente, avere città diventate troppo grandi. Non è economicamente sano. Il costo di trasportare persone al lavoro e verso casa, di fornir loro cibo, di servirli in altri modi, aggiunge un gran carico al già gravoso peso fiscale, non solo per loro, ma per la nazione tutta.

Ci sarebbero meno preoccupazioni sul presente e il futuro della condizione urbana, se lo standard di governo avesse avuto una crescita al passo con quella materiale delle nostre città, ma ciò non è avvenuto. Il governo municipale nel nostro paese non arriva dove dovrebbe arrivare, ma va ricordato che il governo municipale, come l’ingegneria municipale, è un problema nuovo in tutto il mondo. Se le città non fossero cresciute così in fretta ci sarebbe stato più tempo per lavorare su questo nuovo problema. La crescita rapida non porta allo sviluppo del migliore metodo di governo. Ci sono voluti secoli per costruire sistemi stabili di autogoverno per Stati e Nazioni con popolazione sparsa, mentre queste grandi città sono esistite solo per qualche generazione e le questioni del loro governo sono nuove. In più la cosa è complicata dal fatto che, nel nostro paese almeno, la popolazione manca di omogeneità sociale. L’immigrato, a causa dell’improvviso mutamento nei suoi vecchi standard e condizioni di vita, e per inerzia nei confronti del nuovo ambiente, rende tutto di ancor più difficile soluzione. Il problema sociologico che si presenta per il governo municipale è di dimensioni formidabili. Non dobbiamo perdere fiducia, se i molti mali del governo urbano non trovano di colpo soluzione. La cosa richiederà i migliori sforzi di sagge e oneste persone, per molti anni, ed è grazie a chi ha lavorato sinora se le condizioni d’oggi non sono peggiori.

Credo si stiano facendo progressi nella direzione giusta. Ci scoraggiamo quando, dopo essere avanzati per un certo tempo, siamo ricacciati indietro tra le onde, ma ogni punto raggiunto è più avanti dell’altro, e credo che la tendenza sia comunque al progresso. Si può avanzare solo con uno sforzo intelligente, continuo, coordinato da parte di tutti i buoni cittadini. Per essere sia efficaci che durature, le riforme di tipo politico devono arrivare dall’interno, e confido che avverranno così. Dalla mia esperienza di vita pubblica, durata più anni di quanto possa ricordare, credo che il motivo per cui siamo ancora tanto indietro sia l’apatia del cosiddetto buon cittadino. Compresi nella categoria, stanno quegli ingegneri che non mostrano interesse nelle questioni della loro città, salvo lamentarsi quando le cose vanno male. Tutti costoro sembrano apparentemente soddisfatti di lasciare ad altri la gestione degli affari civici, e quando criticano i propri funzionari di solito, per scarsa conoscenza dei fatti, sono inclini a condannare chi li ha ben serviti anziché chi si merita biasimo. Facendo così, lavorano contro i propri interessi. A causa di questa apatia, di questa mancanza di conoscenze dei propri affari, per l’abitudine di saltare alle conclusioni, la cittadinanza si è guadagnata la sua reputazione di cliente difficile, per coloro cui è conferita la responsabilità delle cose pubbliche. Molti sono fuorviati dal parlare di demagoghi e non si prendono il tempo di riflettere sulla particolare questione all’ordine del giorno. Spesso vengono svolte inchieste sull’opera dei settori pubblici, di frequente per motivi di parte e scopi politici. A chi ha familiarità con queste cose, è noto come queste indagini siano ben lontane dall’essere approfondite, che mostrano solo un lato della questione, e che le conclusioni, di solito basate sul pregiudizio, sono spesso fondamentalmente errate. Il risultato inevitabile, in questi casi, è che il funzionario in buona fede, estraneo a comportamenti sbagliati, viene censurato e scoraggiato. Il suo settore ne viene sconvolto perché non c’è niente di più demoralizzante della sensazione di subire un’ingiustizia. Ogni uomo onesto è irritato in queste condizioni, e la maggior parte degli uomini sono onesti. Ma, peggio di tutto, il corpo politico soffre in questi casi perché qualunque fiducia poteva avere, ora è stata distrutta. Se la pubblica opinione fosse stata sufficientemente attenta a chiedere che tutte queste indagini fossero rigidamente approfondite e imparziali, saremmo tutti un passo avanti. Questo è il modo in cui io vorrei che gli ingegneri svolgessero queste indagini. Avrebbero buone ragioni da portare, e fatti verificati ed esaminati prima di giungere alle conclusioni.

Ho citato il ruolo svolto dall’ingegnere nella costruzione della città moderna, e il debito che gli è dovuto dal pubblico, ma se ha fatto tutto questo, se ne anche preso le responsabilità, ed è a sua volta debitore. Non possiamo far nascere qualcosa senza assumerci la responsabilità del suo corretto sviluppo e dell’uso che ne viene fatto. Dopo tutto, il lavoro creativo dell’ingegnere è un mezzo per raggiungere il fine, non il fine stesso. Egli contribuisce al benessere dell’umanità, e l’uomo è più di un’essenza fisica. Sicuramente, l’ingegnere ha un dovere da compiere in aggiunta allo sviluppo e cura di cose materiali, per quanto meravigliose esse siano. Non mi piace pensare che possa vedere solo la struttura d’acciaio e mura che progetta e costruisce. Spero abbia una visione più ampia di ciò che è costruito, come gli architetti del Medio Evo avevano per le cattedrali, e che gli aspetti morali, spirituali ed estetici della vita abbiano per lui grande valore.

Siamo giustamente fieri di quanto l’ingegnere ha fatto, e forse ci siamo vantati un po’ troppo in giro, pensato troppo, ai suoi risultati, lasciando ad altri la preoccupazione per i grandi problemi politici e sociali che ci pongono di fronte le grandi concentrazioni di popolazione nelle città. Come può l’ingegnere aiutare a risolverli? Prima di tutto, come buon cittadino, deve fare la sua parte in tutti i campi dell’impegno civico. Se si impegna meno, manca al suo dovere. Non è più il pioniere dei tempi andati, quando il suo lavoro lo chiamava nelle lande più o meno lontane a scavare canali, o alle frontiere della civiltà a costruire ferrovie. Se mancava una fissa dimora, ci poteva essere in quei tempi la scusa per venir meno ai doveri civici, ma non ora. Non abbiamo più una frontiera, e visto che l’ingegnere parlando in generale ha acquisito una fissa dimora, deve prendere parte agli affari della comunità in cui risiede. Con questo non intendo che debba entrare in politica, così come l’espressione è comunemente interpretata. Ci sono molti modi di contribuire oltre a questo, e molti trovano la propria strada impegnandosi, come qualcuno sta facendo, nei comitati scolastici o in altri organismi pubblici e semi-pubblici, ad aiutare nella soluzione dei molti e difficili problemi che si presentano. C’è molto lavoro civico di tipo specialistico a cui la mente aperta dell’ingegnere è particolarmente adatta a collaborare, come la stesura dei regolamenti edilizi, di quelli di zoning, delle leggi sui servizi pubblici.

Non basta, che comprenda i propri problemi. Deve essere in grado di spiegarli all’uomo della strada in un linguaggio a lui comprensibile. Spesso, temo, l’ingegnere manca il consenso delle autorità o del pubblico ad una proposta sana e meritoria, perché gli manca l’abilità di tradurre i suoi coerenti pensieri in linguaggio che altri, non ingegneri, possano capire.

Non voglio qui affermare che gli ingegneri sono esseri sovrumani, fatti di argilla migliore degli altri, o che da soli sono responsabili di tutte le buone cose realizzate. Come il resto dell’umanità, anche loro non sono infallibili. Altri hanno fatto e stanno facendo il loro dovere per il mondo nei propri rispettivi campi di impegno; ma si deve ricordare che l’ingegnere è formato per trattare fatti fondamentali. È abituato a scavare verso la verità, e a respingere ciò che non appare valido. A meno che non ci sia un fondamento di verità in un’affermazione, egli istintivamente farà opposizione. L’abitudine di pensiero lo rende incline al ragionamento in termini di causa-effetto. Il clamore popolare e i titoli dei giornali non fanno deviare il suo giudizio. È educato a guardare lontano e non in modo provinciale, a tutto ciò che implica l’applicazione di leggi di Natura. Le barriere artificiali della politica non gli piacciono, come succede a coloro che considerano le cose superficialmente, perché sa riconoscere che le leggi di Natura agiscono nello stesso modo su entrambi i lati dei confini politici statali o federali.

Per portare tutte queste qualità al pubblico servizio, l’ingegnere nelle forme associative civiche deve essere qualcosa in più di un semplice tecnico. Credo che l’ingegnere riconosca più degli altri cittadini, come i giorni dello spreco siano finiti e sia iniziata l’era della conservazione, e con l’insegnamento, la norma, l’esempio, debba evidenziarlo a tutti. Con lo spreco, devono finire anche tutte le politiche parziali e particolari di “amministrazione corrente”, e al loro posto si deve sostituire un governo di carattere costruttivo che vada di pari passo coi principi di conservazione. Se dobbiamo vivere secondo gli ideali delle nostre istituzioni, i nostri legislatori devono guidare, e non seguire. È stato detto spesso che l’America è infastidita dalla legge, che la sua gente ha perso rispetto per le regole. Un osservatore straniero diceva tempo fa che abbiamo più leggi di tutte le nazioni del mondo messe insieme, e che siamo il popolo più privo di legge. Non c’è valore, in questa critica? Perché gli ingegneri non dovrebbero unirsi a tutti gli altri buoni cittadini, a correggere alcuni dei mali del corpo politico, che tutti riconosciamo, e che si devono in gran parte all’apatia della nostra gente? L’ingegnere può essere un buon cittadino senza perdere valore come tecnico. Non deve niente a nessuno in termini di rispetto e amore per le istituzioni del suo paese. Il suo patriottismo è stato mostrato nel lavoro per la Guerra Mondiale e in molti altri modi. Con l’attiva partecipazione agli affari civici le sue prospettive saranno ampliate, e le critiche che tanto spesso sono state fatte alla visione ristretta degli ingegneri sulle cose del mondo cadranno spontaneamente sotto il proprio peso.

Quando leggiamo giorno dopo giorno il sensazionalismo chiamato informazione, o ascoltiamo le arringhe degli oratori popolari e degli autoproclamati governatori del mondo, ci chiediamo se essi rappresentino la media caratteriale e di intelligenza del nostro popolo. Se credessimo questo, potremmo facilmente scoraggiarci sul futuro delle nostre istituzioni, e persino della stessa civiltà.

Fede e coraggio tornano quando capiamo che queste sono solo le manifestazioni di una piccola e malevola minoranza che si crogiola al sole della notorietà. La grande massa degli uomini pensanti lavora tranquilla, senza ostentazione, ovunque chiamino diritto e dovere. Negli stabilimenti industriali, ferrovie, lavori pubblici, scuole e università, chiese, ospedali, fattorie, uomini tranquilli e riflessivi stanno svolgendo il concreto lavoro per l’umanità e la civilizzazione. Con istintiva fiducia e sostegno verso l’integrità della natura umana, credendo nella stabilità di quelle istituzioni umane volte all’avanzamento della conoscenza e del bene, essi quotidianamente si sacrificano al dovere. Rappresentano la divina forza del progresso nella sua azione irresistibile, perché basata sulla verità, la ragione, il carattere. Non sarebbe possibile impiegare in qualche modo, questa forza, nell’interesse del miglioramento civico? Tutti questi lavoratori sono la compagnia dell’ingegnere. Insieme a lui, devono avanzare verso ambiti più ampi di maggior impegno, prospettiva, e anche di maggiore servizio.

Nel centenario della fondazione del Franklin Institute, il Dr. Arthur Little pronunciò un discorso sul “Quinto Stato”, che descriveva come “composto da coloro che possiedono la semplicità per meravigliarsi, la capacità di fare domande, il potere di generalizzare, la capacità di applicare”. In breve, la compagnia di chi pensa, lavora, interpreta e mette in pratica, e da cui il Mondo interamente dipende per la conservazione e l’avanzamento delle conoscenze organizzate che chiamiamo Scienza”. Se coloro che vivono in questo reame hanno certo la capacità di applicare, vediamo da ogni parte dimostrato che hanno invece mancato di usarla. Il mio appello si rivolge a quelli che, avendo la capacità, non l’hanno messa in pratica. A chi di voi non ha letto il magistrale discorso di Arthur Little, affascinante nella semplice bellezza del suo linguaggio, lo raccomando, e so che se lo leggerete, poi lo rileggerete. Citandolo ancora:

“Vediamo nel campo delle Scienze la conoscenza senza potere, e in politica il potere senza conoscenza. Un elettorato che si considera libero ascolta il diffuso rumore delle dimostrazioni costruite, ed è cieco di fronte agli ovvi meccanismi di un manicomio artificiale. Il risultato, troppo spesso, è un governo basato sull’ingenuità, la propaganda, le facili parole d’ordine, gli slogans, invece di un governo basato sui fatti, i principi, l’intelligenza, la buona volontà".

Allora, per colmare lo iato fra potenzialità e risultati, ingegneri e uomini di formazione scientifica devono imparare la lezione secondo cui i risultati finali ottenuti sono una misura più valida del valore umano, che non la semplice capacità teorica. Il mondo misurerà sempre il risultato. Per lui, l’abilità non dimostrata è sinonimo di non-esistenza.

Grazie alla saggezza dei nostri padri, le fondamenta su cui poggiano le istituzioni del nostro paese sono ampie e profonde. C’erano, nel progetto, alti ideali, e le sovrastrutture furono innalzate fedelmente e corrispondentemente. L’obiettivo di mantenerle in vita appartiene alle generazioni. Come avviene per tutte le strutture edificate dall’uomo, sono necessarie riparazioni, rinnovi e aggiunte, ma questo non significa distruggere l’impianto originario. Lo scheletro della struttura deve rimanere intatto. Il dovere generale dell’uomo tecnico chiama a questo scopo. A questo scopo rivolge le sua particolari qualità. In quanto idealista pratico, il suo patriottismo e il suo spirito civico non si manifestano sventolando vessilli o vantandosi della superiorità sugli altri, ma cercando i difetti del nostro carattere attuale e aiutando altri ad innalzare il livello delle cose civiche, nello stesso modo in cui progetta e costruisce le sue strutture ingegneristiche per l’uso e il beneficio dell’umanità.

Postilla di Fabrizio Bottini

Per chi fosse interessato ai temi "partecipativi" in urbanistica introdotti a suo modo da Robert Ridgway, in particolare nel loro affermarsi negli USA del primo Novecento, è disponibile sul mio sito anche un estratto in italiano dal saggio fondativo sulla "Unità di vicinato" nell'ambito del Piano Regionale di New York coordinato da Thomas Adams negli anni Venti.

[...] i problemi urbanistici sono press’a poco uguali sotto tutti i climi e quale si sia l’ordinamento generale dello Stato o particolare del Comune che deve trovarne la soluzione, dipendendo essi da un’unica legge, che è il rapporto fra l’agglomerato umano e la civiltà in rapido pulsante progresso. Dopo dieci anni dalla guerra e dalla vittoria, le Nazioni sono intente a rimarginare le proprie ferite e a prepararsi un lungo avvenire di pace, di tranquillità e di lavoro fecondo. L’Italia per prima, trascinata da un nuovo purissimo entusiasmo politico, si rifà una nuova veste di giovinezza e intende febbrilmente a rendere perfetta ogni sua forma di attività sociale. Favorendo la vita rurale col suscitare nuovo interesse e più calda simpatia al culto dell’agro, essa si preoccupa particolarmente del fenomeno dell’inurbamento, che vuole mitigare con savie leggi sulle industrie e regolare coi mezzi più moderni che il pensiero scientifico esprima e sagacia di amministratori concreti. [...] Ogni città italiana è oggi una insonne fucina di studi, di provvedimenti, di opere, di cui il popolo sente a grado a grado il beneficio, riconciliandosi colle pubbliche amministrazioni il cui vieto concetto di pesantezza e di vacuità cede il posto ad un senso di vero prestigio e di esemplare attività diffuso ormai nell’animo delle masse. Ma se l’arte e la poesia sono tanto più preziose quanto più restano individuali, la scienza per essere veramente utile deve essere universale, propagando nello spazio le sue applicazioni. E così la soluzione di un problema urbanistico complesso non può e non deve restare fatica isolata, ma dev’essere largamente divulgata perché altri, a beneficio di altre cittadinanze, la sperimenti; perché altri sollievi alla aggrovigliata esistenza collettiva, altri ausilii alla incontenibile e prodigiosa volontà di migliorarsi della società umana essa porti lontano, attraverso i continenti e al di là degli oceani. Allora chi lavori con profonda indole, con ininterrotta abnegazione a seguire, o a precedere, l’assillante ritmo della vita urbana, per disciplinarne i fenomeni e aprire il varco a nuove soddisfazioni di vasti bisogni, saprà che non solo per la sua gente e nell’ambito delle sue mura avrà lavorato e sofferto, ma anche per altre grandi zone umane cui urgono le stesse necessità e rifulgono le stesse speranze.

[...] si dirà – è veramente l’urbanesimo una scienza? O, per avventura, il suo contenuto non è già quello di altre scienze? L’obbiezione ha una parvenza di fondamento come, a ben guardare, l’ha per altre grandi correnti del pensiero umano, alle quali pure il carattere di scienza è stato giustamente riconosciuto. La scienza urbanistica infatti si vale di tutte le altre scienze: dell’igiene come dell’economia politica, dell’ingegneria come del diritto, e vive con esse una feconda vita di relazione. Ma essa non è un semplice mosaico di altre discipline: perché le scevera, le elabora e le amalgama in un tutto ispirato ad un’unica concezione: la vita urbana. Non è dunque una fibra completamente nuova che ne forma il tessuto, ma è la colorazione che la distingue da tutte le altre. E noi di un colore nuovo da dare a questa complessa materia ne abbiamo veramente bisogno: sentiamo la necessità di uomini che vedano le policrome discipline sotto il colore unico del buon governo della Città: di reggitori che tutte le scienze e tutte le arti sappiano sfruttare per giungere al supremo interesse civico di avere delle cittadinanze ordinate, laboriose, sane, bene alloggiate, favorite di ogni mezzo per il loro benessere, sì da farne meravigliosi perfetti strumenti per le sempre crescenti fortune della Patria.

[...] La Rassegna Urbanistica è divisa in dodici parti, abbinate in modo che le materie analoghe siano comprese nello stesso foglio e rispondano alla

[...]

Sezioni così come rilevate dalla Rubrica

  1. Amministrazione e Finanza
  2. Demografia e Statistica
  3. Piani Regolatori
  4. Edilizia Privata
  5. Strade
  6. Trasporti
  7. Igiene e Sanità
  8. Acquedotti e Fognature
  9. Polizia e Circolazione
  10. Consumi e Prezzi
  11. Istruzione
  12. Varie (esempi: accordi intercomunali; arredo urbano; sperimentazione tecnologica e organizzaztiva, ecc.)

Nel 2002 vi ho mangiato 6 ostriche, un buonissimo piatto di sarde, che vedete qui sotto, e una fetta di torta. Ho pagato 56,50 €, ma più di metà (esattamente 31,50 €) sono andati per pagare una bottiglia di Gewűrtztraminer, veramente ottimo.

Se volete prenotare, da Strasburgo chiamate 0388325062.

L'immagine della sala e il tavolo del banchetto, l’ho ripresa dal dépliant del locale; le altre, come al solito, sono mie.


Heidenröslein

Rosellina della landa

Sah ein Knab' ein Röslein stehn,

Röslein auf der Heiden,

War so jung und morgenschön,

Lief er schnell, es nah zu sehn,

Sah's mit vielen Freuden,

Röslein, Röslein, Röslein rot,

Röslein auf der Heiden.

Knabe sprach: Ich breche dich,

Röslein auf der Heiden !

Röslein sprach : Ich steche dich,

Daß du ewig denkst an mich,

Und ich will's nicht leiden.

Röslein, Röslein, Röslein rot,

Röslein auf der Heiden.

Und der wilde Knabe brach

's Röslein auf der Heiden;

Röslein wehrte sich und stach,

Half ihm doch kein Weh und Ach,

Mußt' es eben leiden.

Röslein, Röslein, Röslein rot,

Röslein auf der Heiden.

Vide un ragazzo una rosellina,

rosellina della landa,

era così giovane, bella come il mattino,

corse svelto per guardarla da vicino,

e la sua gioia fu tanta.

Rosellina, rosellina, rosellina rossa,

rosellina della landa.

Il ragazzo disse: "Ti coglierò,

rosellina della landa!"

Rosellina disse: "Io ti pungerò,

cosi che tu pensi sempre a me,

non subirò la tua bravata."

Rosellina, rosellina, rosellina rossa,

rosellina della landa.

E il rude ragazzo colse

la rosellina della landa:

la rosellina si difese e punse

né ohi né ahi le valsero,

dovette subire e basta.

Rosellina, rosellina. rosellina rossa,

rosellina della landa

.La traduzione e' tratta da "Lieder", a cura di Vanna Massarotti Piazza,

con una prefazione di Claudio Magris, e testi introduttivi di G. Bevilacqua e M. Just, Vallardi-Garzanti 1982.

A Firenze, e in generale in Toscana, si mangia bene. Ci sono ristoranti di eccellenza, giustamente famosi, e buone trattorie, dove si gusta una cucina sana e saporita. La trattoria Antellesi è a metà strada. Il rapporto qualità/prezzo è ragionevole, l’ambiente è accogliente (soprattutto la saletta sul davanti), i gestori simpatici e servizievoli. Il cibo l’ho sempre trovato buono, e così il vino.

Come la maggior parte dei locali veneziani che conservano legami con la tradizione, anche l’Anice Stellato ha un servizio di banco, frequentato prevalentemente dagli abitanti del sestiere.

D’estate, qualche tavolo al fresco sulla Fondamenta della Sensa.

Raccomando vivamente di prenotare: +(39) 041 720 744.

Per arrivarci, prendete la Strada nuova dalla Stazione. Dopo il Ponte delle Guglie e il mercato di San Leonardo, giunti al posto che i veneziani chiamano Rio Morto, girate a sinistra e seguite le indicazioni della cartina.


Un grande locale, con una piccolissima cucina e un grandissimo focolare. Il locale è diviso in due parti da una bassa transenna. Vi consiglio di sedervi accanto al focolare. Potrete ammirare l’ingegnoso sistema di griglia dove cucinano carni e verdure, ottime. Buon vino locale. Prezzi modici.

Il locale era il luogo di ritrovo con i suoi elettori di Alfredo Oriani, famoso deputato nazionalista romagnolo.

È in centro. Per trovarlo basta chiederlo, o cercare su una mappa Via Torricelli.



Ve li suggerisco a mia volta, in attesa di conoscerli direttamente: La Bastide Odéon (7 Rue Corbeille, 01 43 26 65), Au Petit Marguéry (9 Boulevard de Port Royal, 1 43 31 58 59), Le Villaret (13 rue Ternaux, 01 43 57 89 76). Trovate tutte le indicazioni qui sopra. Fatemi sapere:
eddysal@tin.it

Tra i tanti luoghi dove si mangia bene a Parigi, questo è uno di quelli che mantengono una stabilità negli anni. Ciò che è importante per chi non va a Parigi molto spesso, e magari, dove anni prima si mangiava bene, trova un negozio di scarpe.

Ci si arriva facilmente: è all’incrocio tra boulevard de Montparnasse e rue Raspail (Metro: Vavin). Se non ricordo male.


Sono tutti posti molto piacevoli, dove si mangiano piccoli raffinati piatti e si bevono ottimi vini. Vi suggerisco di farvi consigliare per ogni pietanza un bicchiere del vino giusto.

L’ultima volta ho mangiato un’ottima tartare di salmone fresco, con due bicchieri di Bordeaux bianco Chateau de Sainte Marie 2001, e un delizioso clafoutis di fichi freschi, con un bicchiere di Sauterne Chateau De Fargue 1994. Più un caffè, 52,30 €. Non poco, ma ottimo.

Hanno un sito abbastanza chiaro e completo: http://www.leclusebaravin.com/.


Qui sopra l’Ecluse de la Bastille. Sotto, l’Ecluse au Quai de St. Augustin.


Una roba seria, lo conferma il fatto che il sabato e la domenica sono chiusi. Io ho mangiato benissimo, e bevuto ancora meglio: fatevi consigliare, sono maestri. Non so quanto è costato: hanno pagato i miei cortesissimi ospiti. Il posto è frequentato da persone del quartiere, dai giovani agli anziani, con qualche presenza forestiera ma non “turistica”. Insomma, ve lo consiglio. Ma ricordatevi di prenotare: 01 43 57 16 35.



Se non c’è fila e trovate un tavolino è un posto delizioso per prendere un tea (meglio, una tazza di cioccolata fumante con panna montata), l’uno o l’altro accompagnato da ottimi dolci. Ma è anche un luogo molto piacevole per una pasto leggero (ricordo delle buone insalate accompagnate da piatti di pesce marinato o affumicato), completato da una fetta di dolce e una mezza bottiglia di vino.

Al banco vicino all’ingresso vendono cioccolatini, di cui sono specialisti, e altre dolcezze. Le fotografie qui sotto sono mie (ma non rendono, le sostituirò appena posso), quelle sopra le ho tratte da uno dei tanti siti inglesi e tedeschi che consigliano il café Angé lina, che non ha un suo sito.



Dopo un apetizer costituito da leggerissime croquettes di baccalà ho mangiato splendide verdure (peperoni, pomodori, zucchine) farcite di tenero agnello, e un’ottima torta di cioccolata e cannella. Jean-Michel (che con Micette era il mio ospite) ha mangiato una delicatissima salsiccia di porchetta e astice. I vini del locale sono eccellenti. Il décor molto simpatico (caratterizzato da una ricca collezione di “barbotines parisiennes”), la cucina e il servizio eccellenti: le immagini sono qui sotto.

Per arrivare alla piccola Rue Flaubert prendete il metro fino a Courcelles, poi scendete andate boulevard de Courcelles fino all’angolo con l'avenue de Wagram. Comunque telefonate per prenotare, 01 41 67 05 81. Oppure utilizzate il modulo sul sito, che vi permette di fare anche un giro panoramico nella rete di Michel Rostang.


La sala e il servizio, le bobelines, i cuochi e il gestore


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