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© 2024 Eddyburg

Qual rugiada e qual pianto,

quai lacrime eran quelle

che sparger vidi dal notturno manto

e dal candido volto delle stelle?

E perchè seminò la bianca luna

di cristalline stelle un puro nembo

a l'erba fresca in grembo?

Perchè nell'aria bruna

s'udian quasi dolendo, intorno intorno

gir l'aure insino al giorno?

Fur segni forse de la tua partita,

vita de la mia vita?

Reggono ma per poco

gli sguardi amorosi,

cincie presto buttate

a saggiare i dirupi.

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Nulla scompone l’agave.

Urge dentro

l’unico fiore.

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Il respiro giusto

nel tempo assegnato.

Altro non è dato sapere

di chi ha costruito i sentieri.

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Oltre i terrazzi il ponentino

soffia nei pini

passi di danza.

I cipressi sono già sulle punte.

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Tace il ramarro.

Urla il suo verde.

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Non si mostra

il gatto selvatico.

Dalle forre

inarca

lamenti d’amore.

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Sull’acqua

si accoccola appena.

Vento o mare il gabbiano

sa l’arte

di farsi cullare.

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Come per accordo

con la signora

dell’ombrellone accanto

ci salutiamo

un anno sì un anno no.

Non si può

chiedere tutto

all’estate.

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Stare presso.

Questo

a noi è concesso.

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Un colpo di fortuna

Non sarei nato se il tenente del Genio Artiglieria Armando Diaz, nel 1884, a Caserta, avesse preso dal mazzo di chemin de fer una carta più bassa. Mio nonno era allora ufficiale di prima nomina. La sera, quando era libero, andava al Circolo degli ufficiali, dove giocava volentieri. Quella volta era stato particolarmente sfortunato. Contro il suo carattere rigoroso si era lasciato prendere la mano. Un rapido conto gli aveva fatto scoprire, con terrore, che perdeva più, molto di più, di quanto avrebbe potuto pagare col suo stipendio. Di farsi prestare soldi, neanche parlarne. Prese una decisione difficile: “Gioco un’ultima mano, se perdo, mi brucio le cervella, se vinco, non tocco mai più una carta in vita mia”. Per fortuna vinse, e visse. Così, quarantasei anni dopo, io nacqui. A Napoli, in casa: allora si usava così.

Nonno Armando

La casa era molto bella. Una specie di villa urbana, molto allungata, occupava tutto il lotto tra Corso Vittorio Emanuele (la lunga strada panoramica a mezza costa che attraversa Napoli da Mergellina al Museo) e via Torquato Tasso (la strada che si arrampica verso la collina del Vomero). Due piani, più un importante scantinato; un cortiletto ad un estremo, un microscopico giardinetto con una grande palma all’incrocio tra le due strade; entrambi racchiusi da un’alta cancellata di ferro verniciata di nero. Lì abitavano i miei nonni Salzano, mia zia Giannina, i miei genitori: Mauro e Anna Diaz. Si erano sposati nel 1929, un anno dopo la morte di Armando.

Sontuosi entrambi, i funerali e le nozze. Lo so dalle fotografie, perché io non c’ero ancora. Soprattutto il funerale. Mio nonno, oltre a vincere la Grande Guerra (così ero stato abituato a pensare, e c’era del vero), era stato Ministro della Guerra nel primo Gabinetto Mussolini, con l’ammiraglio Thaon de Revel (un altro “vincitore”) alla Marina Militare. E poi, era “cugino del Re”, poiché Maresciallo d’Italia e insignito del Gran Collare dell’Annunziata, la più alta onorificenza del Regno. Il trasporto funebre era un affusto di cannone (lo stesso sul quale era stato trasportato il Milite Ignoto), trainato da otto cavalli neri. Dalla casa borghese di via Giambattista Vico 1, su Piazzale Flaminio, dove abitava, il corteo lo condusse prima alla vicina chiesa di Santa Maria del Popolo, dove si svolse la cerimonia funebre, poi all’Altare della Patria a Piazza Venezia, dove si diedero il cambio per vegliarlo i grandi decorati di tutte le armi, poi infine a Santa Maria degli Angeli dove, in una speciale tomba in marmo di Verona scavata nel pavimento della chiesa e contornata da una balaustra di ferro, fu infine racchiuso il suo corpo imbalsamato.

Era molto popolare mio nonno. Lo è ancora, non foss’altro che per il Bollettino della Vittoria, il proclama con il quale annunciò la disfatta generale dell’armata austriaca sul fronte orientale, il 4 novembre 1918. Il Bollettino (che mi toccò imparare a memoria) è affisso ancora oggi in marmo o in bronzo in moltissimi municipi grandi e piccoli, in tutte le caserme e nelle numerose scuole che portano il suo nome. Era popolare allora non solo perché aveva vinto la guerra, ma anche perché il suo carattere aveva fatto di lui un capo amato dai soldati tanto quanto Cadorna, che l’aveva preceduto nel Comando Supremo, era odiato.

A differenza di Cadorna, rigido e severo ufficiale di chiusa, e forse un po’ ottusa, obbedienza piemontese, il giovane generale Diaz curava con molta attenzione il “fattore umano”. Forse anche perché era napoletano, di antica prosapia spagnola (i suoi avi erano sbarcati nella capitale del Sud nel XVII secolo con Carlo III di Borbone), e quindi abituato a temperare la severità tipica dell’ufficiale con la bonomia tradizionale dei governanti meridionali. A Cadorna, noto per la severità con la quale aveva comandato la fucilazione dei soldati in fuga durante la disfatta di Caporetto, era subentrato il napoletano Diaz che raccomandava ai soldati (come mi raccontava nonna Sara) di acquattarsi durante i bombardamenti nelle buche delle granate perché il calcolo delle probabilità le suggeriva come luogo più sicuro. All’attenzione alle condizioni del morale dei soldati, come alla capacità di lavoro collegiale e alla illuministica razionalità con la quale affrontava i problemi si deve, secondo gli storici, la sua capacità di ribaltare in un anno la sconfitta di Caporetto.

Insomma, dopo la guerra era popolare: lo era di per sé, e lo era perché alla Real Casa (come più tardi al Fascio) conveniva utilizzare la sua immagine come elemento di coesione sociale e come lustro dell’unità della nazione, in quel periodo attraversata dalle tensioni del “sovversivismo”. Dopo la firma del Trattato di Versailles fu utilizzato anche per consolidare il prestigio del Regno all’estero: fece un giro ufficiale in numerosi paesi stranieri, dai quali riportò cimeli che, anni dopo, colpivano la mia fantasia di bambino: Ricordo soprattutto uno splendido costume di cuoio di capo Pellirosse con un lungo diadema di piume di avvoltoio, che indossava in una fotografia in cui scambiava il calumet della pace con un capo autentico, della tribù dei Crows.

Non lo conobbi, né avrei potuto: era morto da due anni quando sono nato. Me ne raccontava mia nonna, Sara De Rosa, napoletana anche lei. E’ lei che mi raccontò della scommessa al gioco (“da allora non mi ha aiutato neppure a raccogliere le carte del solitario”, mi diceva), e di qualche altro aneddoto della loro vita. La prima scintilla del loro amore scoccò forse a Portici, nel “miglio d’oro” alle pendici del Vesuvio, dove la famiglia di nonna Sara andava in villeggiatura. Un giorno, alzatisi dopo il pranzo nel corso del quale Sara aveva dovuto contenersi (non era bene che le signorine di buona famiglia mostrassero appetito), Armando la scorse, dalla finestra a pianterreno della villa, mentre mangiava uno splendido peperone ripieno. “Buon appetito, donna Sara”, pare le abbia detto scherzosamente rimproverandola.

Certo è che tra i due c’era una grande intesa. Memorabili erano in famiglia le lettere che si scambiavano quando lui era al fronte, l’intelligenza con la quale Sara lo consigliava e aiutava nei rapporti politici e in quelli di Corte. Non ricordo che mi abbiano parlato molto di questo, però. Forse perché ero bambino (nonna Sara morì quando avevo sedici anni). O forse perché, essendo bambino, ricordavo solo le storielle che mi interessavano. Come quella, che mi dava molto gusto, della pesca a Corte. Quando si mangiava alla tavola del Re (allora regnava Vittorio Emanuele III), appena il sovrano aveva terminato il suo pasto nessuna forchetta, coltello, cucchiaio, bicchiere potevano agitarsi: tutti dovevano concludere, e posare il tovagliolo. Sara Diaz De Rosa stava mangiando una bellissima pesca, continuò a sbucciarla (con forchetta e coltello, naturalmente), fulminata dagli occhi dei presenti. Se ne accorse, arrossì, fece cadere le posate nel piatto. Il Re l’apostrofò sorridendo: “Continui pure, donna Sara, sarebbe peccato lasciare una pesca così bella”.

Mia mamma era molto legata ai suoi genitori, come del resto i suoi fratelli Marcello e Irene. Ci teneva a ricordare che quando Armando fu colpito dall’infarto che lo condusse rapidamente alla morte fu lei a correre alla ricerca del sacerdote che gli diede l’estrema unzione. E mia nonna ricordò quell’evento regalando alla figlia una fotografia di Armando Diaz, a mezzo busto e in grande uniforme, racchiusa in una vistosa cornice d’ebano e tartaruga, attraversata da una scritta vergata a mano dalla sua larga grafia: “Ad Anna che nel momento supremo procurò a Lui l’aiuto divino”.

Napoli dalla mia finestra

Quella fotografia era sempre in evidenza, nella camera da letto di Anna Salzano Diaz, in tutte le case che abbiamo abitato. Bella era la camera della mamma, nella casa di Napoli. Occupava uno dei due angoli della casa volti verso il mare: l’altra, all’estremo opposto, era la camera dei nonni. Grande, luminosa, sia per il damasco giallo con il quale era tappezzata, sia per le tre ampie finestre sul golfo. La mia camera era quella accanto, e guardava sullo stesso panorama.

Un panorama splendido, così come lo ricordo. E vedere Napoli oggi, confrontando la realtà attuale con quella della memoria, è una cosa che ogni volta mi fa soffrire. Intendiamoci, ancor oggi è bellissimo. L’ampio specchio di mare, concluso a occidente dalla penisola sorrentina e dall’isola di Capri (entrambe azzurrine nelle ore più calde della lunga stagione del sole e dell’azzurro; verdibrune di campagna, solcate dalle stradine e disseminate dai bianchi granelli delle case lontane nelle ore nelle quali la visibilità è maggiore; grigie e confuse con le galoppanti nuvole nei giorni delle tempeste d’inverno), sovrastato dalla mole bonaria del Vesuvio (che ricordo ancora con il pennacchio di fumo e, la notte, rosseggiante alla bocca per la lava eruttante), solcato dalle vele, dalle barche dei pescatori, dalle navi. La superficie delle acque cangiante nelle stagioni e nelle ore, scintillante e screziata di sole nelle numerose belle giornate, oppure cupa e agitata nel grigiore delle nuvole trascinate dal vento, oppure ancora pesante e immobile come una coltre azzurra sotto l’afa del solleone. Questo c’era allora, e c’è ancora. Forse un po’ più torbido, per l’inquinamento dell’aria offuscata e avvelenata dallo smog urbano.

Quello che non c’è più è la verdeggiante collina di Posillipo, protesa sul mare, allora appena punteggiata dalle sagome di qualche villa e della Tomba di Schilizzi (il mausoleo Virgiliano: una buffa costruzione grigia sormontata da una cupola). Quello che non c’è più è la campagna scoscesa di Villanova, la costa che collega Posillipo alla collina del Vomero, alle spalle della nostra casa. Alle rare costruzioni che sottolineavano il carattere agreste di quelle parti della città (la grande villa Patrizi, la chiesetta di Sant’Antonio sopra Mergellina, gli sparsi e radi casolari, le ville signorili di Posillipo), alla campagna coltivata di vigne e ortaggi, si sono sovrapposte le orribili costruzioni realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta dagli improvvidi distruttori del più bel paesaggio del mondo: pseudoville, condomini, palazzine, viali e vialetti, muri di sostegno e muri di suddivisione dominicale. Una squallida periferia progettata e realizzata con la medesima cultura rapace e cretina che ha costruito le periferie delle tristi città di pianura: lì, seppellendo sotto i palazzi e le casette risaie abbandonate e terreni divenuti incolti “in attesa di valorizzazione edilizia”; qui, a Napoli, dove la natura aveva sorriso per secoli, sommergendo ogni cosa sotto un succedersi di lottizzazioni di cui soltanto i nomi ricordavano, con devastante ironia, ciò che c’era prima: Parco Làmaro, Parco Comola, Parco Ottieri, si chiamavano e si chiamano ancora quegli insediamenti parassiti.

“Le mani sulla città” hanno distrutto per sempre (neanche Vezio De Lucia, assessore alla Vivibilità nella giunta del sindaco Bassolino tra il 1993 e il 1997, potrà restituirmelo) il paesaggio della mia infanzia: lo hanno sepolto sotto una “repellente crosta di cemento e asfalto”, per adoperare le parole di Antonio Cederna. Della sua bellezza rimane in me, fortissimo, solo il ricordo, e naturalmente il rimpianto.

La casa del Corso

Era una grande casa. Dal cortile posto a un capo del lotto si salivano una dozzina di gradini, in un ampio vano coperto a botte e, varcata una porta sorvegliata dal cameriere, si entrava in un grandissimo atrio che occupava un quarto dell’intera superficie della casa. In fondo, una grande scala a tenaglia con ringhiera di ferro battuto dorato e bronzeo portava al piano superiore. Il soffitto, sorretto da quattro grandi pilastri cilindrici verniciati di marrone, era tappezzato di stoffa blu scuro. In fondo alla sala, al di là dello scalone, un bagno di marmo bianco e lo studio del nonno. L’atrio e lo studio occupavano quasi tutta la parete verso monte; quella verso il mare era occupata da una fuga di saloni: la sala da pranzo, con l’immenso tavolo finto Rinascimento e grandi quadri di frutta e fiori; il fumoir, con il classico caminetto finto e le morbide poltrone di pelle; il salottino veneziano verde e oro; in fondo, il grande salone da ballo, in stile Luigi XIV bianco e oro. Accanto alla sala da pranzo, il “riposto” con il grande armadio delle stoviglie e il montacarichi che conduceva le portate dalla cucina.

Non sempre noi piccoli (dopo di me, cadenzate di due anni, erano nate le mie sorelline Litta e Germana) mangiavamo in sala da pranzo, e raramente frequentavamo i saloni: salvo che per Natale, quando l’Albero, circondato dai regali, troneggiava nel salone da ballo; oppure quando i genitori chiamavano qualcuno di noi a salutare gli ospiti, esibendoci nella canzone patriottica di turno. I luoghi a noi riservati, e quelli che potevamo usare correntemente, erano al piano di sopra. Ad un estremo della casa c’erano le stanze dei miei genitori: la grande camera di damasco giallo, la stanza da toilette (con gli armadi a muro in stile veneziano, la grande toilette della mamma, il sofà per le sedute di bellezza), il grande bagno, lo studio di mio padre. All’altro estremo, l’appartamento dei nonni e di zia Giannina. Al centro, in corrispondenza del vano della scala e del ballatoio che la fiancheggiava, le nostre stanze. Sul lato a monte della casa, il guardaroba, il nostro bagno, un cucinino.

Ma ciò che soprattutto mi affascinava era lo scantinato. Una piccola scala, a fianco di quella principale, conduceva nel vasto dominio condiviso da nonna Carmela, dal cuoco Luigi Massaro e da Nannina, protetta e confidente della nonna. Mitico era per me don Luigi. Ogni volta che uscivo gli lanciavo uno sguardo e un saluto dalle finestre inferriate a filo di marciapiede. Piccolo di statura, asciutto, grigio di capelli, sovrastato dal l’alto cappello immacolato regnava, aiutato da uno sguattero, nella grande cucina: sull’immenso tavolo di marmo tagliava, batteva, impastava, scorticava, sventrava, disossava, farciva; nell’acquaio di marmo lavava le verdure, i pesci, le carni; finalmente, sui numerosi fuochi del lungo piano di cottura, alimentato dalla brace sempre rosseggiante, amministrava le pentole mescolando e agitando, scoperchiando, assaggiando, aggiungendo sapori e odori, spostando dal fuoco più vivo (là dove il piano di ghisa della cucina si apriva sul fuoco) ai luoghi più lontani dal fuoco. Un maestoso mortaio di marmo, appoggiato al suo trespolo di legno massiccio, subiva i colpi del pesante pestello sbattuto dallo sguattero di turno per preparare le scorte di pangrattato, oppure per pestare la bianca carne di pollo con la quale, mischiandola con una densa béchamel, venivano preparate a bagnomaria le chinelle di pollo, la mia pietanza preferita.

Era un cuoco d’alto lignaggio, don Luigi. Era stato chef sui transatlantici, e dalle lontane terre oltre oceano aveva riportato un pappagallo, di nome Loreto. Non abitava da noi. La sua casa, che divideva con la moglie e con Loreto, era sul Corso, più avanti, verso la fermata della Ferrovia Cumana. Ma spesso, prima di tornare a casa, si fermava nel cortile a fumare una sigaretta con il cameriere o con l’autista. Allora poteva essere interpellato, ed emanava massime piene di saggezza. “Don Luigi, come finisce la guerra, chi vincerà?” gli chiesi in un’estate del luglio 1941. “Signuri’, tra i vinti non ci saranno i vincitori”. La Sibilla cumana non avrebbe potuto essere più abile.

I coloni e Vicienzo Ucciero

La cucina, e la nostra golosità, erano alimentate dalle cantine, altra componente essenziale dello scantinato. Occupavano la parte verso monte. Chiuse da pesanti cancelli, Nonna Carmela le apriva e chiudeva con un gigantesco mazzo di chiavi che le pendeva alla cintola. Non so bene che cosa ci fosse: ricordo solo le forme, grandi e piccole, di rossa e trasparente cotognata, che profumava i primi mesi dell’inverno, i formaggi, le bottiglie nelle rastrelliere, i mucchi di patate, i grandi barattoli dalla bocca tappata con la carta oleata e lo spago. E ricordo come le cantine venivano approvvigionate.

Due volte all’anno arrivavano, sui barrocci o a piedi col carretto o il mulo, i contadini che conducevano a colonìa parziaria le numerose proprietà del nonno: piccoli appezzamenti di fertile orto o frutteto nei paesi confinanti (Afragola, Casoria, Giugliano, Qualiano, Vico di Pantano), per l’uso dei quali i coloni pagavano un canone (l’estaglio) corrisposto parte in moneta e parte in natura. Varcata la porta di servizio le coppie di dividevano: l’uomo andava su, nello studio, dove don Achille Di Santo, aiutante di nonno Eduardo, ragioniere e contabile, riempiva di minuta grafia il grande registro annotando la quantità di banconote rossicce che i coloni estraevano da logori portafogli e dai penetrali della biancheria, e i prodotti affluiti nelle cantine. Qui nonna Carmela e Nannina ricevevano le donne, e contavano e sistemavano le galline, i capponi e i tacchini collocandoli in una grande stia, i sacchi di fagioli, di grano e granturco, le pannocchie, i conigli (che venivano subito trasferiti alle competenze di don Luigi), le cassette di pomodori, melanzane, peperoni, carote, sedani, cavolfiori, teste d’aglio, cotogne, mele annurche e renette.

Un personaggio importante era Vicienzo Ucciero, mezzadro di Vico di Pantano. Era la più grande delle nostre proprietà: due o trecento ettari di palude, tra il Volturno e il Lago Patria. Luogo di grandi cacciate (ricordo le fotografie dove alcuni massicci signori baffuti, con lunghi schioppi, esibivano colline di uccelli più piccoli e sorreggevano ghirlande di anatre e altre specie commestibili), e di bufale. Vicienzo era il bufalaro. Sempre con la febbre terzana, amministrava bufale, mucche e qualche moggio (tre moggi sono un ettaro) di campagna coltivata a fagioli e ortaggi. Aveva anche un grande pozzo nel quale andavano a mangiare i conigli: vi si gettavano dall’alto carote e altre golosità; poi, quando serviva, si calavano le piccole saracinesche che chiudevano le gallerie dalle quali i conigli entravano e uscivano, e si sceglieva quello da cucinare, o la coppia da dare alla Signora perché li portasse al Corso, nella stia dello scantinato.

Non tutte le derrate venivano conservate a lungo. Davano luogo a conserve, oppure venivano consumate (subito o previa frollatura), oppure veleggiavano verso altri lidi. Avevano diritto a due capponi o a una dozzina di polli, a mezzo sacco di fagioli o un paio di conigli, a un tacchino o a un canestro di mozzarelle di bufala tutte le persone che durante l’anno avevano collaborato con la casa: i medici e il pediatra professor Franzì, il dentista D’Ambrosio e le sarte Buonanno, la maestra privata signora Martini e la manicure della mamma, l’infermiera che veniva a fare le iniezioni e la signora Crisafo che m’insegnava il francese, le sorelle La Morte che venivano tutte le settimane a rammendare e sistemare i vestiti, e la stiratrice. Quantità più sostanziose di prodotti venivano consegnate alle Piccole suore dei poveri, ai beneficati del parroco della chiesa dell’Arco Mirelli, alle Dame di San Vincenzo dei Paoli.

La famiglia Salzano, di Casoria

Era una famiglie benefica, ed era una famiglia ricca. Come lo era diventata? Il luogo d’origine dei Salzano era Casoria, un grosso borgo agricolo, dagli anni Cinquanta inglobato nella periferia, subito al di là dell’aeroporto di Capodichino (una parte del quale fu costruito su terreni Salzano, indennizzati dopo decenni di vertenze). Era probabilmente, fino all’Ottocento, una famiglia di origine contadina, i cui capifamiglia erano diventati mercanti o artigiani di campagna. Secondo i ricordi di zia Giannina, produttori e mercanti di vino. Borghesia laboriosa di campagna, ma già aperta a interessi urbani: i fratelli Eduardo e Mattia, i prodotti migliori di una covata di sette tra fratelli e sorelle, furono mandati alla celebrata scuola napoletana dei Padri Barnabiti. Abitavano un dignitoso palazzo, costruito da un Mauro Salzano attorno alla prima metà dell’800 nella strada principale del grosso borgo agricolo.

Senza abbandonare le loro radici paesane (il palazzo rimase loro fin dopo la Seconda guerra mondiale) all’inizio del nuovo secolo si trasferirono a Napoli; in un palazzo costruito da un Mauro o un Eduardo Salzano a via San Domenico Soriano, vicino a Piazza Dante. Mio padre e sua sorella Sisina, nati del 1902 e nel 1903, avevano visto i natali a Casoria, la nascita di Giannina, nel 1907, era stata la prima a Napoli.

L’artefice della fortuna della famiglia fu, all’inizio del secolo, il mitico Zio Mattia, fratello di Eduardo: ingegnere, abile imprenditore, col socio Gaetanino D’Aniello (di una benestante famiglia di Villaricca, un altro borgo della campagna napoletana) mise su un’impresa di costruzioni specializzata in lavori di bonifiche e di grandi infrastrutture, nel Napoletano e in Puglia, nel Foggiano. Mattia morì di febbre spagnola nel 1918. Da allora degli affari di famiglia dovette occuparsi Eduardo.

Mio nonno però non era tagliato per gli affari. Laureato in medicina, esercitò la professione di chirurgo all’Ospedale dei Pellegrini (una qualificata istituzione di beneficenza della nobiltà napoletana), dove divenne assistente del famoso chirurgo Caccioppoli, fratello del grande matematico Renato. Ma la chirurgia era un’attività sociale e benefica: il reddito, e la principale occupazione, erano le terre e l’impresa.

In vacanza, Eduardo portava la famiglia soprattutto a Capri, isola frequentata dalla famiglia Salzano fin da prima della guerra 1914-1918. Abitavano all’Hotel Quisisana. Invece la famiglia Diaz (anche Armando era innamoratissimo di Capri) affittava una villa. Lì le due famiglie si conobbero: le bambine Giannina, Sisina, Irene e Anna esploravano le campagne e le marine di una Capri frequentata solo da pochi turisti come Turgeniev e Gorki, e dai soci dei circoli nautici che si spingevano fin lì nelle gite con il cutter. A volte andavano in montagna, soprattutto a Cortina d’Ampezzo, dove diventarono amici di Alberto Pincherle, poi noto come Moravia. Le leggende familiari lo raccontano in flirt con zia Giannina.

Non ricordo molto di nonno Eduardo. La sua presenza gioviale e vociante, il suo affetto ruvido ed espansivo, i suoi munifici regali e il suo spiccato accento napoletano (dal quale la mamma mi teneva lontano, per evitare che inflessioni poco eleganti inquinassero il mio eloquio in formazione) mi accompagnarono solo fino ai miei cinque anni. Nel 1935 un colpo apoplettico lo portò via all’improvviso.

Non ricordo i suoi funerali: forse i bambini non vi erano ammessi. Furono certo grandiosi. Dovette accompagnarlo una vastissima corte di persone dei ceti più diversi, legate al suo ricordo (e ai suoi redditi) dalla sua trasbordante generosità. La sua morte concluse una fase della vita della famiglia e ne aprì un’altra, posta sotto un diverso segno: non il corno ridondante dell’abbondanza e del fasto, del lusso e della generosità scialona, ma la bilancia della parsimonia, la severità dignitosa di un benessere difeso con accortezza e, quando le vicende della Storia lo richiedevano, con sacrifici e rinunzie.

I miei genitori

Fino alla morte di nonno Eduardo suo figlio Mauro, mio padre, non aveva lavorato. Il nonno l’aveva tenuto lontano dagli affari. I miei genitori dovevano seguire le loro inclinazioni (vere o presunte che fossero) al divertimento e al lusso. Laureato in giurisprudenza, Maurino aveva ottenuto la libera docenza con alcuni studi, pubblicati dall’editore Loffredo, sul Negozio giuridico e sulla Pubblica amministrazione. Il suo ruolo di rilievo nella vita mondana aveva visto accrescere il suo splendore con il matrimonio con Anna Diaz, figlia del Duca della Vittoria e legata alla famiglia reale. Fascista come lo erano rapidamente diventati quelli della sua generazione e della sua classe, apparteneva a quella cerchia di persone che, senza esercitare direttamente il potere politico né quello economico, contribuivano però a costruirgli l’immagine, a fornirgli la prima fascia del consenso, a formargli l’opinione, la cultura, le parole. A formare una certa fronda, anche. L’aristocrazia napoletana gravitava infatti sulla corte di Umberto di Savoia e della sua moglie Maria José, vicina all’ala intellettuale dei Ciano e dei Bottai.

Il confine tra mondanità e impegno sociale era labile, seppure esisteva. Non so se contasse di più, nella sua vita e nel ruolo sociale, la sua carica di Presidente dell’Opera nazionale balilla di Napoli, o il suo carisma di spadaccino, ballerino, velista, dirigente di mitici circoli nautici, oppure le feste che, con la mamma, organizzava nella casa del Corso o a Villa Diaz.

Mammà era sempre il centro delle feste e dei salotti. Spiritosa, brillante, elegante: era davvero “molto chic”. Aveva dei bellissimi capelli castani con sfumature rosse, che ravvivava con l’henné. Amica fin da piccola dei Salzano, temeva però che il dialetto napoletano, correntemente adoperato da nonno Eduardo, corrompesse la mia lingua. E non le piaceva che, quando andavo a salutare nonna Carmela, lei mi prendesse nel letto.

Erano una coppia molto bella, e avevano moltissimi amici: Gino e Didina Santasilia (abitavano in un bellissimo palazzo a Piazza dei Martiri), la “Baronne” Anna Ricciardi, Gigione (che mi cantava: “O capitan, c’è un uomo in mezzo al mare”), i più anziani Marcello Orilia (arbiter elegantiarum: ordinava le camicie a dozzine a Londra, dove andava ogni anno per aggiornare il guardaroba), Ettore Ricciardi, i baroni di feudi calabresi Baracco e Compagna, e tanti altri che costituivano la crema dell’aristocrazia napoletana. Il salotto della casa del Corso era frequentato, ma le feste più belle erano, d’estate, a Villa Diaz, al Vomero.

Villa Diaz

Un grande edificio bianco, immerso nel verde, con un giardino che si concludeva con una lunga balaustra bianca aperta sul Golfo di Napoli. Così era la villa che la Città di Napoli aveva donato al Generalissimo, dopo averne decretato il trionfo. (Per il vero, avevano deciso di regalargli una villa a Posillipo, ma lui aveva preferito quella del Vomero). Era a cento metri di quota sopra la casa del Corso, probabilmente era in origine parte della più grande e famosa Villa Floridiana.

Quando, d’estate, ci trasferivamo lassù (con i genitori, le sorelline, le governanti), appena grandicello scendevo attraverso gli orti, i sentieri, le scalette e in dieci minuti ero al Corso. Ricordo ancora il sapore dei pomodori colti al volo: un sapore scomparso, mai più ritrovato, cancellato dall’omologazione delle colture artificiosamente allontanate, con l’aiuto della chimica e dei teli di plastica, dalla natura e dal sito.

Belle le feste a Villa Diaz, d’estate. Ricordo i grandi fuochi artificiali che le coronavano. Ricordo le signore che, accompagnate dalla mamma, venivano a vederci addormentati nei nostri lettini. Erano feste alle quali erano certamente invitati, e a cui partecipavano, il Principe ereditario Umberto di Savoia (che poi divenne Umberto II, il “re di maggio”) e la sua bella moglie alta e dagli occhi cerulei, Maria José.

Per me Villa Diaz erano soprattutto i giochi estivi, nel grande giardino. Pochi erano i miei amici, rare le loro visite. Ma mi divertivo molto a giocare con la terra dei vialetti e l’acqua che facevo colare dai rubinetti per l’irrigazione, costruendo col fango argini e canali. Mi divertivo ad arrampicarmi sui lecci dai tronchi rugosi, costruendomi dei rifugi dove mi nascondevo in attesa che mi chiamassero per la merenda o la passeggiata. E mi divertivo, quando ero più piccolo, con il Capitano Gamboni Mazzitelli.

Così si chiamava l’inquilino dell’ultimo dei tre piani della villa, affittuario di zia Irene, sorella di mia mamma (a quest’ultima era toccato il piano di mezzo, e nonna Sara con zio Marcello, il terzo dei figli Diaz, occupava il piano rialzato e lo scantinato). Capitano di lungo corso in pensione, molto vecchio (aveva probabilmente l’età che ho adesso che scrivo), era abilissimo con gli attrezzi di falegname. Mi aveva costruito una daga e uno scudo, accuratamente verniciati, e altri attrezzi per guerreggiare. Ricordo che una volta, mentre duellavamo, si ferì a una mano e perse (così mi sembrò) molto sangue. Ne rimasi scosso, con un senso di colpa da cui provai di liberarmi ipotizzando che la causa fosse stata un temperino che portava in tasca e che s’era inopinatamente aperto.

Quando nonno Eduardo morì, mio padre dovette piombare nel faticoso mondo degli affari. Scoprirono che tutto era andato a rotoli. La crisi del 1929 aveva picchiato duro, ma nonno Eduardo aveva cercato di nascondere e di aggiustare. L’indebitamento era molto consistente. Papà e nonna Carmela chiesero consigli autorevoli. Il livello di competenza più alto fu raggiunto consultando Raffaele Mattioli, il mitico banchiere e mecenate, fondatore della Banca Commerciale e dei Classici della letteratura italiana dell’Editore Ricciardi. Mattioli consigliò di dichiarare bancarotta, per tentar così di salvare qualcosa. Maurino non volle. Gli sarebbe sembrato di tradire la memoria del padre, di sputtanarlo dopo morto. S’incaponì. Fece ogni sforzo per tacitare i debitori, vendendo quello che poteva e riprendendo l’attività dell’impresa. In poche settimane ricordo che i suoi capelli, da neri quali erano, diventarono grigi. Non aveva ancora quarant’anni.

Le mie educatrici

Ero un bambino molto perbene. Una bambinaia di Olevano romano, balia Nunziata, quando ero piccolo, una governante tedesca, Schwester Maria Simon, dopo i cinque anni badavano alla mia pulizia, alla custodia, al nutrimento; sorvegliavano i miei giochi, mi accompagnavano a passeggiare o ai giardinetti. Una signora ginevrina, madame Crisafo (aveva sposato un cuoco italiano) mi veniva a prendere il mercoledì pomeriggio e mi portava a spasso insegnandomi il francese. Frère Jaques e i libri di Madame de Ségur, con i libri della Scala d’oro, Struwelpeter (così si chiamava in tedesco Pierino il porcospino), le favole di Grimm, Perrault e La Fontaine e le canzoncine dei bambini tedeschi (mi commuoveva soprattutto Roselein rot, un leed di Schiller e Schubert) sono stati i primi alimenti della mia cultura letteraria plurilingue.

A queste donne era affidata anche la mia educazione sessuale. Ricordo balia Nunziata che mi puliva il pisellino mentre mi faceva il bagno. Ricordo Schwester Maria quando il suo sguardo gelido e severo, dietro gli occhialetti scintillanti bordati d’acciaio, mi rimproverava senza parole scoprendomi a masturbarmi. Ricordo madame Crisafo che denunciava il fatto che giocherellavo col sesso attraverso le tasche dei pantaloni, provocando la repressiva cucitura delle tasche.

La mamma era vicina (dormivo nella stanza accanto alla sua), ma lontanissima. La mattina potevamo andare a salutarla, nel suo grande letto rivestito di damasco giallo, solo quando la suoneria di un apposito campanello collocato nella mia stanza veniva attivato dalla sua mano. La sera, veniva lei a salutarci quando tornava a casa, dai salotti che con papà frequentava. Buono e dolce era il suo profumo odoroso di mughetto, Arpége di Lanvin; gradevole e pungente l’odore dello smalto con cui curava le sue unghie, sdraiata sul canapè della toilette. La severità di Schwester Maria era un prolungamento della sua, ma in lei c’era una morbida dolcezza che veniva concessa con prudenza ed ironia. Come capii più tardi, con troppa parsimonia rispetto al mio bisogno.

Papà era più lontano, più esterno; probabilmente, anche più occupato. Era accanto alla mamma, ma in secondo piano. Mi sarebbe piaciuto seguirlo quando faceva (non so in che modo) il comandante dei Balilla: ragazzi appena un po’ più grandi di me, che raramente intravedevo. Mi sarebbe piaciuto andare nella favolosa barca a vela che possedeva, la Silphea II, un cutter col fasciame di mogano il cui modellino ammiravo (fu venduto dopo la crisi). Ma fino ai cinque anni ero evidentemente troppo piccolo per queste cose e, dopo, la crisi doveva aver cambiato le abitudini. Benché noi non ce ne fossimo accorti, la vita era diventata più seria, meno giocosa.

Di balie e d’amore

Dalle parole di balia Nunziata cominciai a conoscere l’Amore. Compariva nelle canzonette che canterellava quando mi accompagnava ai giardini (“Parlami d’amore, Mariù, tutta la mia vita sei tu...”), in carrozzella o in passeggino, nelle chiacchiere che faceva con le altre bambinaie, negli scherzi che facevano con noi. Non avevo ancora cinque anni quando mi innamorai di Giovanna Pignatelli, che ne aveva tre, andava ancora in carrozzina e aveva dei lunghi boccoli biondi. Non fu un amore che durò a lungo. E non fu neppure ricambiato: questo, da allora, mi è successo abbastanza spesso. O almeno così ho pensato.

Alludeva all’Amore anche Rita, la nipotina di Nannina, che qualche volta la zia, quando veniva da Casoria a Napoli per aiutare la nonna, portava con sé. Mi piaceva, Rita. Mi piaceva guardare le sue cosce sotto i vestiti, buttandomi per terra. E mi piaceva come cantava:

E’ arrivato l’ambasciatore

con le piume sul cappello

E’ arrivato l’ambasciatore,

a cavallo d’un cammello,

Ha portato una letterina

dove scritto sta così,

tu mi piaci, Ninì ti darò tutto il cuor

è arrivato l’ambasciator.

E ancora di più mi piaceva quando cantava:

All’alba quando spunta il sole

là nell’Abruzzo tutto l’or

le prosperose campagnole

discendono le valli in fior.

Ma io, non sapendo che cosa fosse l’Abruzzo, capivo: La Nella bruzza tutto odor.

Avevo sette od otto anni quando, un pomeriggio d’estate, mentre scendevo la lunga gradonata che dal Vomero conduceva al Corso Vittorio Emanuele, ebbi una improvvisa illuminazione: compresi (o pensai) che l’Amore era il pensiero centrale di tutti, uomini e donne. Perché mi balenò così intensamente questo pensiero? Non riesco a ricordare. Ma ricordo che mi colpì con l’evidenza di un profumo intenso e indiscutibile: ebbi la sensazione di aver raggiunto una verità che fino allora non avevo visto.

Giochi

Giocavo molto da solo: credo che questo capitasse spesso ai bambini per bene, che non fossero forniti di una banda di fratelli. Le sorelline erano piccole ed erano femmine: due buone ragioni per condurre vite completamente diverse. Ricordo, da piccolissimo, una grande cucina per bambini, con le provviste vere (lenticchie, pastina) portate da don Luigi, forse premio di consolazione dopo qualche malattia. Ricordo un cannone rosso, con le ruote, molto bello, ma non sparava. Ricordo una sciabola di latta e un cappello da bersagliere, sotto l’albero di Natale del 1934 e, alla Pasqua dell’anno successivo, una bellissima bicicletta rossa che mi regalò zio Marcello, fratello della mamma. Ricordo una macchinetta che, mossa da uno stantuffo premuto dal pollice, emetteva tutte le scintille che una pietra focaia può produrre, e riusciva a illuminare gli angoli bui della stanza.

Era simpatico zio Marcello Diaz, Duca della Vittoria per eredità. Era un avventuroso. Pilota, volontario nella guerra d’Abissinia (io registravo su di una carta geografica, con bandierine patriottiche, le città conquistate dalle Camicie nere), dove fu abbattuto riportando molte gloriose ferite, e nella guerra di Spagna. Poi si fece dare una concessione a Derna, in Somalia, dove coltivava banane. Arrivava sempre pieno di regali generosi e strani. Era quello che mi trattava più da grande, sia pure sfottendomi bonariamente.

La domenica, zia Giannina mi portava al Catechismo, dalle suore del Sacro Cuore, a piazza Amedeo. E tornando a casa mi comprava il Corriere dei Piccoli, che leggevo avidamente. Erano buffe le suore, intabarrate nei veli neri, con le dita fredde che sporgevano dai mezzi guanti. Ed era buono il caffellatte nelle grandi scodelle bianche, e il pane e cioccolata che ci davano dopo la comunione.

Fino alla seconda elementare studiavo a casa. Veniva ogni mattina la signora Martini, una volta alla settimana controllava i compiti e li correggeva, firmando le pagine con la matita rossa o con quella blu. Al colore della firma corrispondeva l’entità del premio che mi dava il nonno: due lire per la firma rossa, cinque lire per la firma blu. Non mi divertiva studiare. Nella mia stanza c’era una scrivania costruita apposta per me: un ripiano inclinato doveva contribuire a curare la scoliosi. Il ripiano era incernierato in alto. Avevo preso l’abitudine di appoggiare sotto il ripiano un libro d’avventure che leggevo invece di studiare, pronto ad abbassare il piano se sentivo qualcuno avvicinarsi.

Quando avevo finito di studiare mi era permesso di andare ai giardinetti, al di là della strada. Erano giardinetti privati, per gli ospiti dei due alberghi vicini, il Britannique e il Parker, entrambi appartenenti a una famiglia svizzera, Löhliger. Avevano due figlie, Silvia e Mirta. Silvia era più grande di noi, mi piaceva molto, a lei dedicai i miei primi dormiveglia erotici. Il giardinetto del Parker fu in definitiva il mio primo esperimento di socializzazione; guardie e ladri, nasconderella, e cerimonie rituali di impiccagione e squartamento delle bambole di Mirta erano i giochi consueti. A rivedere oggi quel giardinetto (poco più di un’aiuola, un po’ di alberi e qualche cespuglio) sembra incredibile che per noi potesse essere un’arena così vasta.

Quello che c’era fuori dalla casa e dal suo cortiletto, dal giardinetto del Parker, dalle passeggiate strettamente controllate e protette dalla balia, dalla Schwester o da madame Crisafo, era sconosciuto e rischioso. Anche affascinante, a volte: peccato che i bambini per bene non potessero attaccarsi al paraurti posteriore dei tram sferraglianti, e neppure far arrabbiare il conducente mettendo i fulminanti tra ruota e rotaia oppure, addirittura, staccando il trolley e provocando l’arresto del tram. Neppure il “carruoccio” era permesso: quel carretto costruito con un rozzo pianale di legno, quattro cuscinetti a sfera come ruote (le due davanti montate su un asse incernierato al pianale e comandato da una funicella a mo’ di timone), con il quale si lanciavano in spericolate corse lungo le discese, tra i carri e le automobili.

Gli amici

Uno di quelli con cui giocavo di più era mio cugino Luigi. Aveva esattamente un anno più di me. Figlio di zia Sisina (sorella di mio padre) e del colonnello Franz Carignani, veniva da noi per lunghi pomeriggi. Mi sembrava che la merenda fosse più buona quando veniva lui: forse perché era consentito scegliere, tra lo sciroppo d’amarena e quello d’orzata. A volte facevamo giochi tranquilli, con i soldatini o con le carte, a volte facevamo lotte furibonde, nelle quali generalmente vinceva lui: il combattimento cessava quando riusciva a infilarmi sotto al letto, oppure quando entrava in camera la Schwester.

Diventati un poco più grandi inventammo un gioco bellissimo. Si giocava con le fiches, la base era il gioco “pulce”: spingendo con una fiche sul bordo di un’altra, questa saltava: se copriva per un pezzo quella dell’avversario quest’ultima era “morta”. Avevamo perfezionato molto il gioco. Grandi battaglie avvenivano tra eserciti contrapposti: uno era arroccato in cittadelle formate da file di libri accortamente disposti, l’altro attaccava. Un grande foglio a quadretti, sul quale era tracciata una carta geografica (le città, le strade, gli stati contrapposti), conteneva la strategia. Un quadernetto riportava le posizioni e la consistenza degli eserciti. La prima parte del gioco avveniva con i dadi; contando i quadratini: gli eserciti avanzavano, fino allo scontro, che avveniva con le fiches tra i libri. La guerra “vera” e gli sfollamenti ci impedirono di proseguire quel bellissimo gioco. (Più tardi qualcun altro lo reinventò, e brevettò il gioco Risiko).

Un altro che veniva spesso a giocare (ma divertimenti più semplici e tradizionali) era Luigi Rodinò, dei Rodinò di Migliore. Non mi piaceva molto, mi sembrava un po’ troppo melenso e “perbene”. Eppure rimasi malissimo quando, correndo sulla grande terrazzona che copriva la casa, sbatté con la gola contro un filo per stendere la biancheria. Le bambinaie lo raggiunsero subito; con mio sollievo, aveva riportato solo una escoriazione.

Era bellissima la terrazza. Copriva l’intera casa, quindi era grandissima. Tutta pavimentata di piastrelle esagonali bianche e rosse, circondata da una balaustra di ferro nero intercalata da pilastrini sui quali fioriere di terracotta ospitavano qualche pianta. Di lì vedevo, nella casa vicina e più bassa, al di là del cortiletto, giocare dei bambini più ricchi di me di amici e di feste giocose. Un giorno lanciai loro dei sassi, non per offendere ma per richiamare la loro attenzione. L’intenzione fu compresa. Cominciò uno scambio di soldatini, con una teleferica di fortuna che Vittorio De Feo (così si chiamava il più grande dei due fratelli vicini) industriosamente costruì.

Diventammo molto amici con Vittorio. Aveva un anno più di me. Tentammo (avevo ormai dieci anni) dei piccoli commerci: cercavamo di vendere al mio cuoco foglie di basilico, senza molto successo. Più arditamente, fondevamo soldatini di piombo che versavamo in un ditale, costruendo pallottole che, dalla loggetta sullo scalone di casa mia, lanciavamo sulla zucca pelata di Ottavio, il cameriere. Il quale un giorno s’arrabbio, acchiappò Vittorio e minacciò di metterlo nella vasca innaffiandolo d’acqua fredda.

A mare

A volte, d’estate, quando stavamo in città ci portavano al mare. Ricordo il viaggio verso Lucrino, una grande spiaggia pulitissima e deserta, subito al di là della collina di Cuma. Percorrevamo a piedi un pezzo del Corso, fermandoci dalla drogheria Stinca a comprare le caramelle, e raggiungevamo, subito dopo la casa di Luigi Massaro, la stazione della ferrovia Cumana. Era divertente guardare dal finestrino il paesaggio prima urbano poi, dopo Pozzuoli, aperto sulla Baia. Come tutti i bambini, raccoglievamo conchiglie, facevamo i castelli di sabbia, prendevamo il bagno nelle ore stabilite e ci facevamo asciugare dai grandi lenzuoli a spugna. Più tardi, su quella spiaggia fecero arrivare la grande cloaca che portava i liquami delle fogne napoletane.

Qualche volta andavamo a Villa Pavoncelli, a Posillipo: un luogo dove sarei tornato spesso da grande. Era una villa di amici. Una serie di scalette e corridoi umidi ci portava giù, alla spiaggetta contenuta tra il muro di sostegno della villa e una breve scogliera, nei cui anfratti, mormoravano, si celavano grandi “ranci felloni”. Lì Schwester Maria mi insegnava a nuotare, con teutonica regolarità. Indossava un costume olimpionico, tutto d’un pezzo, nero. Al polso conservava l’orologio. All’ora giusta scendevamo in acqua, nuotavamo con lente bracciate per un numero stabilito di minuti, poi tornavamo indietro.

Noi bambini stavamo in un angolo della spiaggia. Altrove, sulla sabbia e sulla scogliera, chiacchieravano e giocavano i grandi, salutavano festosi gli amici che arrivavano a nuoto buttandosi dalla barca a vela giunta dal Circolo, si cimentavano in grandi gare di palla a nuoto - nelle quali, come al solito, mia mamma eccelleva.

Alcune volte, quando ero ormai più grandicello, mammà mi portava a villa D’Avalos. Lì non c’era spiaggia: una banchina di cemento, e scogli. Meno bambini, più giovanotti e ragazze. I D’Avalos erano una famiglia colta, grandissimi appassionati di musica. Francesco, un ragazzo mio coetaneo, diventò più tardi un famoso direttore d’orchestra e compositore. Ammiravo molto questo ragazzo che sapeva riconoscere autori e stili diversi, valutare cantanti, parlare di opere e di sinfonie con i grandi.

La scuola

E’ solo dalla terza elementare che cominciai a frequentare una scuola. Andavo al Pontano, la celebre scuola dei Gesuiti dalla facciata adornata dai busti di tutti gli illustri frequentatori divenuti famosi, dove tornai più tardi, dopo la guerra, per il liceo. Altre due classi le feci alla Ravaschieri, una scuola pubblica. Non ho conservato molto di quelle esperienze. Frequentavo solo i bambini per bene come me, con i quali ci vedevamo fuori, ma seguendo complicati rituali: non ci s’incontrava casualmente, bisognava che ci fosse un invito trasmesso dall’alto, dalle governanti o, addirittura, dai genitori.

Alla Ravaschieri m’innamorai, naturalmente, della prima della classe, la bellissima Richetti. Anche lei alimentò i miei sogni erotici. Una volta temetti di averle fatto seriamente male: l’avevo colpita con un rotolino di carta lanciato con l’elastico (un gioco allora molto diffuso negli intervalli della ricreazione) e il giorno dopo non era venuta a scuola: per mia colpa, pensai.

Più tardi andai, per la prima media, all’Umberto I, una scuola grande e affollata. Non ricordo grandi amicizie. Ricordo il contadino che, fuori dal cancello della scuola, vendeva fichi d’India con l’affollato gioco della “appizzata”: bisognava “appizzare” con un coltellino spuntato, lasciato cadere dall’alto sulla cesta, un fico e sollevarlo portandolo fuori dalla cesta. Costava “un soldo semplice, quattro soldi continuata”: la “continuata” era praticata dai più esperti, potevi portar via tutti i fichi che riuscivi a sollevare fino al primo errore. Credo di non aver mai giocato neppure la “semplice”.

Il monumento a nonno Armando

La Villa Diaz al Vomero, più in basso Casa Salzano al Corso. Prolungando verso il mare la linea ideale che congiunge questi due punti si tocca un terzo punto in Via Caracciolo. Lì c’è oggi il monumento ad Armando Diaz: una statua equestre posta su di un alto parallelepipedo di marmo bianco, su cui è scolpito in grandi caratteri il Bollettino della Vittoria, firmato: “Armando Diaz, Duca della Vittoria”. Mi portarono con nonna Sara a vedere la fonderia, verso Poggioreale, nella quale si stava elaborando la grande statua: fuoco, fumo e odor di ferro fuso riempiono ancora le narici della mia memoria.

L’inaugurazione fu una grande cerimonia. In una fotografia rivedo nonna Sara e mamma, con tailleur e cappellini con la veletta nera, zia Giannina con velo nero in lutto di nonno Eduardo, e me stesso (avevo sei anni), con eleganti pantaloncini dalla piega ben stirata, camicia col collo tondo, gilet grigio e giacchetta sul braccio: doveva far caldo, quella mattina, a Via Caracciolo. Signori in orbace e fez e militari in alta uniforme ci circondavano, e i balilla facevano da picchetto d’onore.

Anche a me fu imposta l’uniforme, più tardi. La divisa di Figlio della lupa la misi solo per casa. Ma quando frequentai le medie, all’Umberto I, era obbligatorio indossare il sabato la divisa di Balilla e andare alle adunate. Ricordo la scomodità delle doppie calze (i calzettoni lunghi, grigioverdi, senza piede e con la stringa sotto, e i calzini neri arrotolati, che scendevano sempre nelle scarpe) e della larga fascia elastica che sostituiva la cinta (e lasciava sfuggire sempre l’orlo dei pantaloni), la noia delle lunghe e inutili attese (di che cosa?) nei piazzali assolati e polverosi. Fui anche, per un certo periodo, Marinaretto, ma la cosa non era molto diverse: solo la divisa era più realistica: rinviava a un mestiere vero, il marinaio.

Selva di Val Gardena

In vacanza andavamo a volte a Selva di Val Gardena. Era proprio bello. Ricordo l’aria pulita, lo scroscio dei torrentelli, l’intenso profumo delle assi di abete sopra le quali giocavamo, le belle passeggiate sulle vicine montagne, le fragole e le stelle alpine che raccoglievamo. Mammà era bravissima, la chiamavamo “occhio di lince”, scopriva fragoline saporitissime dove vedevamo solo distese di foglie, e stelle alpine lontane decine di metri.

Andavamo in treno, e dovevamo essere una bella comitiva: mammà, noi tre, la bambinaia di turno, la cameriera della mamma. Quest’ultima si chiamava Iolanda, era friulana di Tarso. S’innamorò del postino di Selva, Albert Mussner. Prima della guerra lasciò Napoli, sposò il suo Alberto il quale, oltre che il postino, faceva l’intagliatore di legno; era specializzato in aquile, e ne faceva di tre tipi: una guardava in avanti, una a destra e una a sinistra: sempre le stesse aquile, più grandi o più piccole, ma senza mai trasgredire dai modelli prescelti. Dopo aver concluso una lite con i parenti per ottenere un pezzo di terra, Iolanda costruì una casa in stile friulano (gliela costruirono i fratelli). Era davvero bruttissima. Poiché cominciavo ad essere spiritoso dicevo che era il più bel posto dove abitare, perché era l’unico punto della valle di Selva da cui non si vedesse Villa Iolanda.

Una volta il nostro treno si fermò in una stazione sulla linea del Brennero, passava il treno speciale con il quale Mussolini andava a Monaco per incontrare Hitler. Fu stipulato il patto con il quale gli anglofrancesi lasciavano mano libera a Hitler per rivolgere le sue truppe verso l’Oriente bolscevico. Eravamo alla vigilia della seconda guerra mondiale: una guerra nella quale non c’era nessun nonno Armando a renderci vittoriosi

Qualche vecchia fotografia, ritrovata nei residui di decine di traslochi e alcune, pochissime, scaricate dalla Rete. Le trovate in una cartella qui

Promozione



Il Consigliere delegato della società, dopo matura riflessione, valuta che il luogo più adatto per il primo lancio della bibita di mango sia Milano.

Prende il jet e va a Milano, dove la sua segretaria gli ha già fissato un appuntamento con il miglior pubblicitario dell'Italia settentrionale.

- Vorremmo organizzare un lancio molto forte della nostra nuova bibita. E' un prodotto veramente ottimo.

- Me ne descriva le proprietà, risponde il pubblicitario, in modo da poter comprendere che tipo di campagna è bene organizzare.

- Certo, prosegue il Consigliere delegato, stavo per farlo. Allora, le qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo, ha la strana capacità di mantenere molto a lungo la temperatura acquistata in frigorifero, è molto rinfrescante e toglie la sete per almeno un'ora, e inoltre sono state testate (ho qui i certificati) delle notevolissime prerogative energetiche: stimola l'intelligenza ed esalta le capacità sessuali.

- Bene bene, dice il pubblicitario. Credo proprio che potremo organizzare una buona campagna. Domani le faccio avere uno schema e il preventivo.

Il giorno dopo, puntuale, arriva il preventivo: 10 milioni di Euro.

- Troppo alto, dice il Consigliere delegato. Milano è evidentemente una città troppo cara.

Si consulta in videoconferenza con i suoi consiglieri a NY, e fa fissare dalla sua segretaria, dopo un'attenta ricerca, un appuntamento con una ditta specializzata di Roma, molto quotata.

- Vorremmo organizzare un lancio molto forte della nostra nuova bibita, dice al pubblicitario romano. E' un prodotto veramente ottimo. Le sue qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo ecc. ecc.

- Mi sembra proprio un'ottima merce, molto indicata per le calde estati romane e per tutto il mercato del Sud, che gravita su Roma. Fra due giorni le faccio avere un'offerta, che credo sarà molto conveniente.

Passano i due giorni, ed ecco l'offerta: 8 milioni di Ecu.

- Ma non sarà l'Italia a essere troppo cara? dice fra sé e sé il Consigliere delegato.

Si consulta con NY dove emerge una nuova ipotesi: perché non cercare a Napoli? In fondo, è una città incasinata e poco affidabile, ma è una porta verso la sponda africana del mediterraneo, un mercato in via di sviluppo ecc. ecc. L'efficiente segretaria gli combina un appuntamento, e un signore si presenta puntuale all'albergo a via Partenope dove è sceso.

- Stiamo cercando una società di pubblicità che organizzi un buon lancio per un nostro nuovo prodotto, una bibita a base di mango che ha eccezionali qualità. E' un prodotto veramente ottimo. Le qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo, ha la strana capacità di mantenere molto a lungo la temperatura acquistata in frigorifero, è molto rinfrescante e toglie la sete per almeno un'ora, e inoltre sono state certificate delle notevolissime prerogative energetiche: stimola l'intelligenza ed esalta le capacità sessuali.

- Ah ah, bene, fa il napoletano pensieroso. Credo che si possa fare un buon lavoro. Bene, per 2 mila Euro le organizzo una fantastica campagna. Adesso sono le 10 am, lei mi firmi un assegno e domattina si affacci alla finestra.

Il consigliere delegato non sa che dire. Il prezzo gli sembra eccezionalmente conveniente, ma non sa se può fidarsi. Decide di rischiare, e firma l'assegno.

La giornata, come al solito, è bella, il sole splende e la brezza rende l'aria gradevole. Il Consigliere delegato si fa portare a Posillipo da una carrozzella, poi attraversa Spaccanapoli e mangia in un ristorante di Piazza Dante. Dopo una siesta sorbisce una coviglia di nocciola da Gambrinus a Piazza Plebiscito, va a comprare qualche cravatta da Marinella alla Torretta, prende un aperitivo da Caflisch a via Chiaia, compra cinque scatole di cioccolatini da Gay & Odin, cena in albergo e va a dormire presto, curioso su che cosa vedrà all'indomani.

Appena si fa giorno il cameriere gli porta il caffè. Il Consigliere delegato si alza, va alla finestra e si affaccia: la città è coperta da grandi manifesti dove, sotto il marchio della bibita, campeggiano queste parole:

MANGO P'A CAPA

MANGO P'O CAZZO.

"What do they say?" the priest inquired. "They only know how to say, 'Hi, we're prostitutes. Want to have some fun?'"

"That's terrible!" the priest exclaimed, "but I have a solution to your problem. Bring your two female parrots over to my house and I will put them with my two male talking parrots whom I taught to pray and read the bible. My parrots will teach your parrots to stop saying that terrible phrase and your female parrots will learn to praise and worship."

"Thank you!" the woman responded.

The next day the woman brings her female parrots to the priest's house. His two male parrots are holding rosary beads and praying in their cage.

The lady puts her two female parrots in with the male parrots and the female parrots say,"Hi, we're prostitutes, want to have some fun?"

One male parrot looks over at the other male parrot and exclaims, "Put the beads away. Our prayers have been answered!"

INGREDIENTI

L’ultima l’ho fatta con 7-8 patate belle grosse, una ventina di olive di Gaeta snocciolate, un cucchiaio di capperi sotto sale, un abbondate ciuffo di prezzemolo appena colto, olio abbondante (le patate ne assorbono molto) e sale q. b. L’essenziale è che gli ingredienti siano buoni, soprattutto le patate. Le migliori sono secondo me le patate di montagna, quelle rossicce, ma anche le patate maremmane sono ottime, e magari tante altre: alla cottura la pasta deve essere compatta, la buccia sottile, e il sapore...

PREPARAZIONE

È intuitiva. Lessate le patate in acqua abbondante, nella quale avrete messo un pugno di sale e magari qualche erba. Poi le lasciate intiepidire (non raffreddare, se no sono molto più difficili da sbucciare), levate la pelle sottile e tagliate a fette.

Nel frattempo avrete fatto macerare nell’olio le olive (mi raccomando, di Gaeta) snocciolate e i capperi.

Sulle patate versate un po’ d’olio, poi l’olio condito e una abbondantissima spruzzata di prezzemolo tritato.

INGREDIENTI

250 gr di pasta sfoglia (anche surgelata)

4 uova intere

8 cucchiai di zucchero

2 bustine di vanillina

200 gr di mandorle tritate

200 gr di amaretti tritati

PREPARAZIONE

sbattere le uova, aggiungere lo zucchero, la vanillina, le mandorle e gli amaretti tritati

adagiare la pasta sfoglia in una teglia apribile

versare il composto e decorarlo con mandorle intere o pinoli

infornare a 180° per 20/30 minuti.

Il sito dell'azienda Case Cordovani


Tra i cespugli e i banchi di sabbia, ogni tanto la figura in piedi di un uomo (i veneziani li chiamano gli Apache). È uno dei pochissimi luoghi nel Veneto dove si può prendere il sole nudi.

La spiaggia è quasi vuota, eccetto il sabato e la domenica, quando diventa infrequentabile a causa dei numerosi gruppi di bagnanti che arrivano in barca, e ormeggiano i loro scafi (a volte oltre un centinaio) proprio davanti alla spiaggia, verso la taverna.

Dalla terra al mare, dal mare alla terra

Fa parte di una riserva naturale che misura 115 ettari; è gestita dal WWF Veneto e dal Comune di Venezia, in accordo con la Provincia di Venezia. L'area a pineta è gestita dai Servizi Forestali di Treviso e Venezia.

Secondo la scheda del WWF l’ambiente è costituito da

“dune pioniere e mobili colonizzate da Ammophila littoralis e dune consolidate da vegetazione erbacea xerica. Alle spalle delle dune è presente una vasta pineta di circa 30 ha. Vaste praterie umide interdunali. Sulla duna dominano le specie endemiche caratteristiche dei litorali sabbiosi dell'Alto Adriatico come lo sparto pungente, la medica marina, lo zigolo delle sabbie. Nel retroduna a vegetazione steppica troviamo il muschio Tortula ruralis, il raro fiordaliso di Tommasini e l'apocino veneziano. Nella area boscata, a pino domestico e pino marittimo, in riconversione a bosco misto a latifoglie con leccio, orniello, roverella e con frequenti macchie di pioppo bianco troviamo orchidee come la cefalantera maggiore e l'ofride fior d'ape. “

”Nelle depressioni umide interdunali prevale il giunco nero e la canna di Ravenna. Ricca è la presenza di avifauna con gruccione, fratino e fraticello che nidificano sulle dune mentre nelle aree più interne sono presenti l'occhiocotto, il canapino e lo zigolo nero. Tra i rapaci d'inverno volteggiano nelle aree aperte lo sparviero e il gheppio ed è avvistabile durante il passo il falco pecchiaiolo e il falco pellegrino. Nelle aree boscate nidificano il rigogolo, il picchio rosso maggiore, il succiacapre e il gufo comune. Tra rettili e anfibi sono da segnalare il biacco, la lucertola campestre e il rospo smeraldino mentre tra i mammiferi topo domestico e crocidura minore”

Quanto rimarrà di questa flora e di questa fauna, di questo bellissimo luogo, quando apriranno il giganesco cantiere del MoSE?

Qui potete vedere una intera cartella di immagini, scattate per Eddyburg dal 2000 al 2004

Sous aucun prétexte je ne veux

Avoir de réflexes malheureux

Il faut que tu m'expliques un peu mieux

Comment te dire adieu

Mon coeur de silex vite prend feu

Ton coeur de pyrex résiste au feu

Je suis bien perplexe je ne veux

Me résoudre aux adieux

Je sais bien qu'un ex amour

N'a pas de chance ou si peu

Mais pour moi

Une explication vaudrait mieux

Sous aucun prétexte je ne veux

Devant toi surexposer mes yeux

Derrière un Kleenex je saurais mieux

Comment te dire adieu

Comment te dire adieu

Tu as mis à l'index

Nos nuits blanches

Nos matins gris-bleu

Mais pour moi

Une explication vaudrait mieux

Sous aucun prétexte je ne veux

Devant toi surexposer mes yeux

Derrière un Kleenex je saurais mieux

Comment te dire adieu

Comment te dire adieu

Comment te dire adieu

Guarracino: se ne conoscono tre specie: il guarracino di scoglio, che è l'Apogon rex mullorum, perché detto re di triglie dai pescatori di Malta; il guarracino o monacella rossa, cioè l'Anthias sacer e, infine, il guarracino o monacella nera, cioè l'Heliases chromis.

Jéva: andava.

Le venne: gli venne.

De se 'nzorare: di ammogliarsi. Da uxor, moglie. Sarebbe un se inuxorare, ossia se ad uxorem ducere. Il latino ha l'aggettivo inuxorus (non ammogliato, celibe); sol che il prefisso è negativo, mentre nel nostro verbo è di movimento. Questo verbo, come la sua etimologia vuole, si dice solo dell'uomo; della donna si dice 'mmaretarse (maritarsi), dove la prima m non è che lo stesso in di 'nzorarse, lì con aferesi, qui anche con assimilazione (se ad maritum ducere).

Scarde: schegge.

Perucca: parrucca.

'Ngrifata: arruffata, ma qui vale «pomposa».

Ziarèlle,: nastrini.

'Mbrasciolata: imbraciolata, ossia piena come una braciola. Per intendere, si noti che in napoletano braciola (anche e più corrente brasciola) non è la stessa cosa che in lingua. In italiano designa una fetta di carne arrostita sulla brace appunto o cotta in tegame; in napoletano invece è involto di carne ripieno. «De ziaràlle ‘mbrasciolata» significa dunque: piena di nastrini, tutta nastrini.

Sciabò: lattuga, gala. Dal francese jabot.

Scolla: fazzoletto da gola.

Puzine: polsini.

De Ponte angrese fine fine: di punti inglesi finissimi.

Cu li cazune: coi calzoni.

De rezze de funno: di reti di fondo. Credo voglia intendere di reti doppie.

De tunno: di tonno.

Sciammeria. è la vecchia redingote.

Sciammereino: diminutivo della precedente sciammeria. Più comune sciammeriella, ma la rima ha voluto l'altro diminutivo. Potrebbe trattarsi di un farsetto, ma io penso che qui stia ad abundanziam, come quando si dice «nastri e nastrini», «bottoni e bottoncini» per intendere molti nastri, molti bottoni. Il poeta vuol dire che il Guarracino era abbigliato con ogni cura e buon gusto.

D'aleche: di alghe.

Pile: peli.

Voje: bue.

Co buttune e buttunera: letteralmente: con bottoni e bottoniera. Come il precedente sciammeria e sciammereino è modo sovrabbondante per dire con bottoni e bottoncini, con bottoni di ogni specie e grandezza, tutto bottoni. E, s'intende, son bottoni lussuosi che possono anche non abbottonare avendo ufficio decorativo, come chiarisce il verso seguente che ci dice che sono occhi di polipi (purpe), di seppia (secce) e di fiera, naturalmente marina (fera); piccoli i primi due, più grandi gli altri.

Schiocche: ciocche.

De niro de secce: di nero di seppie.

Feíe: fiele.

Achiate. occhiate. Pesci teleostel della famiglia Girellidi, caratterizzati dai grandi occhi (cfr. latino Raia oculata).

Cateniglie: catenelle.

Premmone: polmone.

Cappiello aggallonato: cappello gallonato.

De codarino d'aluzzo salato: di budello di luccio salato. È espressione struinentale dove il de (di) vale con.

Pòsema: amido.

Steratiello: stiratelo. «Tutto pòsema e steratiello» ad litteram sarebbe «tutto amido e stirato»; ma, poiché lo stirato è nel precedente pòsema (amido), io darei a steratiello il significato di impettito. Tale interpretazione è confortata dal verso seguente «ieva facenno lo sbalantieílo», andava facendo lo spacconcello.

Barcone: balcone.

Calascione: colascione, sorta di liuto.

A suono de trommetta: a suono di trombetta, cioè a voce alta.

E llaré lo mare e lena: è una delle tante accozzaglie di parole inconcludenti che abbondano nelle antiche canzoni, riprese e trapiantate nelle sue dal Di Giacomo, messe lì per vezzo o per ironia o soltanto per accompagnamento e dette mottozzi. Se ne trovan tanti e per tutti citerò un «Tubba catubba la tubba gubbella // tubba tubbella, lo chicherichì ». Bravo davvero chi volesse in- dustriarsi a decifrare.

Sia Lena: zia.Lena. In napoletano, vi sono due parole (don, donna; zio, zia) usate, l'una a titolo d'onore o di rispetto, l'altra, più familiare, per esprimere affetto e venerazione. Come don, che è apocope di donno, zio e zia si scorciano in zi' e la parola, apocopata, diventa ambigenere e si dice zi' Giuvannine e zi' Maria.

La forma siè qui ricorrente, che qualcuno vuole derivata da «signora», non è altro invece che il zi' (zi' Lena) con lo zeta addolcito in esse. Anche nel maschile, infatti, si trova, specialmente preceduto dall'articolo, 'o si' Pascale per 'o zi' Pascale. L'aggiunta della e accentata finale, è una delle tante che ricorrono in tutte le lingue per un tal quale bisogno di facilità di pronunzia (cfr. oi' per o), e contrariamente a quanto credono alcuni, questa aggiunta, pur ricorrendo quasi sempre nel femminile, non è niente affatto vero che non ricorra anche nel maschile. Si dice benissimo anche lo sié Pascale, specialmente quando chi parla ironizzando, ha bisogno di strascicare la pronunzia per significare che la parola ha tutt'altro senso che di rispetto. Così, ad esempio, a un zi' Pascale che l'ha fatta grossa, si direbbe: «E bravo! ha fatto sta bella aziona 'o sié.Pascale!». E, soltanto ironicamente, si dice anche a persona non anziana, come si può vedere a pag. 18, dove è dato alla Sardella che è ragazza da marito. La Sardella, ricevendo dalla Vavosa l'imbasciata del Guarracino, arrossisce di vergogna e si nasconde sotto uno scoglio. Ma l'Alosa, sua nonna, la rimbrotta e le fa rilevare il danno che le verrà dalle sue ciance. Allora la nostra eroina stima più conveniente pensare al sodo e si rimette alla finestra aspettando. Qui dunque «la sii Sardella» vuol dire, quella buona lana della Sardella.

Rialato: regalato.

'Nche la guardaie: come, non appena la guardò.

Se ne jette. se ne andò.

Vavosa: bavosa. Pesce della famiglia dei Blennidi (cfr. il greco blennos. muco) così detto dalla copiosa mucosità che ricopre il suo corpo.

La cchiù vecchia maleziosa: la più vecchia maliziosa. E si noti che il cchiù (più) è riferito alla malizia, non alla vecchiaia. La vecchia più maliziosa, la più maliziosa delle vecchie.

Bona rialata: ben regalata. Particolare costrutto napoletano che usa l'aggettivo (bona, buona) in funzione avverbiale. Non è la stessa cosa, ma anche in lingua ricorre l'attributo predicativo (mi rispose fiero e superbo per fieramente e superbamente); sol che, in lingua, l'aggettivo modifica il verbo soltanto col suo significato, ma è tutto del sostantivo, mentre in napoletano concorda col sostantivo, ma è tutto avverbio. Non che in napoletano manchi l'avverbio (cantava appassionatamente me rispunnette - mi rispose - malamente, ecc.) ma l'avverbio bene non c'è e s'usa avverbialmente l'aggettivo (l'ha buono vattuto; l'ha bona strillata: l'ha ben battuto, l'ha bene sgridata).

Pe mannarle la mmasciata: per mandarle l'imbasciata.

Pisse pisse: pissi pissi, ossia zitto zitto.

Chiatto e tunno: grosso e tondo, cioè senza ambagi, chiaro e tondo.

'Nce lo disse: glielo disse.

'Nch'a sentette: come la sentì.

Se 'mpizzaje: si ficcò.

Vava: ava, nonna.

Alosa: cheppia, laccia. Genere di pesci teleostei.

Schefenzosa: sozza, sporcacciona. Ma qui vale schifiltosa.

'Ncanna: in canna, cioè in gola, per dire: te ne resterà perenne la voglia, senza possibilità di soddisfarla. È modo proverbiale napoletano, che si dice di cosa assai desiderata e vaga, non con- seguita. Per esempio: Aggio fatto tanto pe ll'avé, ma m'è rimasto 'ncanna: Ho fatto tanto per averlo ma mi è rimasto in gola.

Aje: hai.

De t'allocà: di allogarti, di collocarti.

Fora: fuori, via.

Le zeze: le ciance.

Sié Sardella: cfr. il Sií Lena della strofa 4 (a pagina 16). Fenestrella: finestrella. Ma in napoletano è assai più corrente la forma Fenestella senza r, che è latina schietta.

Fece n'uocchio a zennariello: fece l'occhiolino. Zennariello letteralmente è cennerello, piccolo cenno. Si noti che, mentre correntemente si dice le faceste ll'uocchio a zennariello col determinativo (le fece o gli fece l'occhiolino), il poeta usa il numerale uno (la enne apostrofata è qui nurnerale) per dire «fece un piccolo cenno con un occhio», facendoci vedere la strizzatina civettuola di un occhio solo. Sappiamo, e lo sapeva anche l'autore, che il cenno non può farsi con tutt'e due gli occhi; ma qui, con espressione bellamente icastica, il poeta ha detto «un occhio» e ha fatto un vivo ritratto! Anche in napoletano, come in italiano, oltre la frase, c'è il verbo zennïà (aninliccare), apocopato come tutti gli infiniti non sdruccioli, da zenniare (la forma intera degl'infmiti na- poletani non sdruccioli è arcaica e poetica). Zennïà risponde quasi a capello all'italiano cennare per accennare, sol che l'italiano designa un cenno fatto anche con la mano o col capo, mentre in napoletano significa cenno soltanto dell'occhio. (Cfr. E zenniavano ll'uocchie d"e lemmene: Di Giacomo, A Capemonte). Il napoletano zennïà interpone un'i prima della desinenza, che l'italiano cennare non ha e che va pronunziato con dieresi come nell'italiano smaniare. Questa i compare in tutti i verbi frequentativi. Son tutti di prima anche quando, come in latino, derivano da altra coniugazione. (Il napoletano correre di seconda diventa currettià di prima coniugazione, quando vuol designare il correre a brevi tratti qua e là). Così, mentre a turnare, cantare, parlare e simili, esprimenti azione intera e, dirò, non frazionata, rispondono turnà, canta, partìí senza la i, passeggiare si dice passïà, tastare tastïà, scherzare pazzïà (all'italiano scherzo risponde in napoletano pazzia), infastidire o prendere in giro sfruculïà e simili. Tutto ciò s'è detto per rilevare l'efficacia della desinenza frequentativa del nostro zennïa che rende a meraviglia il frequente strizzar dell'occhio, che l'italiano «ammiccare», derivando dal latino micare (palpitare, brillare), rende soltanto per l'etimologia. Oltre al costrutto avverbiale a zennariello, c'è, poi, anche un zennariello sostantivo, come si legge nel libretto de Lo Frato nnammurato dei Pergolesi (Passa ninno de cca rente // e me la lo zennariello: Passa il mio damo qui davanti e mi fa l'occhiolino).

Per finire ricorderò il tardo latino cinnare (ammiccare) e cinnus (occhiolino).

Speruto: desideroso.

Patella: nome di vari molluschi. Patella coerulea, Patella lusitanica, Patella tarentina; sono molto comuni nel Mediterraneo.

Steva de posta: stava alla posta.

Sbrevognata: svergognata.

'Nchiantato: piantato.

Alletterato: nome di un pesce della famiglia dei tonni (Euthynnus alletteralus) così detto per- ché la sua pelle ha macchie che paiono lettere.

De carrera: di carriera.

Da chisto: da costui.

Jette: andò.

'Lle dicette: gli disse.

Lo 'ntise: lo sentì.

Se lo pigliaie Farfariello: se lo Prese Farfarello, ossia il diavolo, montò in bestia. Farfarello è uno dei diavoli danteschi della bolgia dei barattieri.

S'armaie a fasulo: si armò di tutto punto.

Se carrocaie: si caricò.

Scoppette: schioppi, fucili.

Pòvere: polvere (da sparo, s'intende).

Scarde (sottinteso 'e scoppette): pietre focaie.

Dint’a sacca: in tasca.

'Ncopp'a li spalle: sulle spalle.

Pistune: pistoni, specie di pesante archibugio.

Guappo: è il camorrista che non si lascia passare le mosche sul naso e al quale si ubbidisce senza discutere, non superato da alcuno in forza e coraggio. Ma questo sostantivo s'usa anche aggettivamente per designare bravura. È ‘nu jucatore guappo, (è un giocatore guappo), si dice per significare che nessuno lo supera, e simili. Qui è usato appunto aggettivamente e guappo Pallarino (guappo paladino) significa strenuo paladino, il paladino dei paladini!

La disgazia a chisto portaie: la disgrazia portò a costui; disgrazia volle per costui.

Chiazza: piazza.

Po crovattino: per la golétta. È modo comunissimo e ci rappresenta l'aggressore che, invece di afferrare violentemente la persona con cui ha da dire, le ficca le dita nel colletto e la tira a sé con sarcastica repressa delicatezza, per dargliele poi di santa ragione.

Lieve: togli.

Mazziata: bastonatura, da mazza.

Tùffete e tàffete, onomatopeico, per indicare il suono delle percosse e il loro susseguirsi.

A meliune: a milioni.

Pàccare: pacche, colpi dati a mano aperta, ma in napoletano solo sulla faccia. In napoletano, poi, si chiama schiaffo, come in italiano, il manrovescio, che é la percossa data col dorso della mano, mentre quella data sul viso col palmo della mano, ossia con tutta la mano, si chiama pàccaro, dal greco pas, pasa, pan (tutto) e cheir, cheiròs (mano).

Secuzzuno: sergozzoni.

Ponie: pugni.

Perepesse: percosse in genere.

Scoppolune: scoppoloni, scapaccioni.

Fecozzo: pugni dati di panta.

Conesse: colpi alla nuca. Differisce dai precedenti scoppoloni, perchè quelli son dati a mano aperta, queste col pugno.

Scerevecchiune: scappellotti.

Sicutennosse: pugno in faccia.

Osse e pilosse: altra espressione sovrabbondante come le precedenti «sciammeria e sciammereino» e « buttune e buttunera» della seconda strofe, per dire «gli ammacca ben bene le ossa».

Venimmoncenne: venianiocene. Modo usato per riprendere il racconto o per allacciarvi un episodio. È l'italiano «venendo a noi».

Ascettero fore: uscirono fuori. Il pleonasmo è quasi normale in napoletano e mentre ricorre anche il semplice ascettero (uscirono), come trasettero (entrarono), il popolo dice sempre jesce fora (esci fuori) e trase dinto (entra dentro).

Cortielle: coltelli.

Cortelle: coltelle.

Spate, spatune e spatelle: spade, spadoni, spadini.

Spite: spiedi.

Ammènnole e antrite: Ammènnola significa mandorla e antrita è la nocciola cotta al forno e infilzata a un filo. Il poeta le usa traslatamente come fa anche l'italiano, per esempio, con la parola nespola. Gli diede certe nespole, si dice per mazzate.

Torrone e sosamielle: altre armi gastronomiche! Il torrone è quello che ricorre a San Martino e il sosamiello (moderno susamiello, plurale susamielle), è una ciambella in forma di S, fatta con farina di castagne e miele e cosparsa di pezzetti di mandorle. Ricorre a Natale ed è dolce napoletano che si offre agli zampognari che si recano a Napoli dal loro paese per la novena.

Fère: fiere.

A strisce: in fila.

De sto partito e de chiamo li pisce: pesci parteggianti o per l'uno o per l'altro. Da notare che pisci è plurale di pesce. 'Nu pesce: un pesce; tre pisce: tre pesci. A il plurale interno assai corrente nel dialetto napoletano ('Nu prèvete: un prete; tre prievete: tre preti) che a volte s'accoppia col plurale normale ('Nu mònecro: un monaco: tre muònece: tre monaci).

Dediste: vedesti.

Palaie: sogliole. Dal catalano palaya, tardo latino pelaica dal greco pelagihós «del pelago marino».

Raio petrose: razze chiodate (cfr. latino Raia clavata). Genere di pesci selaci.

Sàrache: sarghi (cfr. latino Sargus, greco sargòs), genere di Teleostei acantotteri del Mediterraneo. Al singolare saraco.

Diéntece: dentici, pesci teleostei caratterizzati dai canini molto sporgenti (latino Dentex, derivato di dens, dentis). Si noti il plurale interno; al singolare dèntece.

Scurme: scombri, maccarelli.

Pisce palumme: palombi (Mustelus vulgaris). Singolare pesce palummo.

Pescatrice: rana pescatrice, lofio (latino Lophius Piscatorius).

Scorpene: scorfani o scrofani (latino Scorpeana scrofa).

Mucchie: pastinache (latino Trygon pastinaca). Pesci cartilaginei dei gruppo Selaci.

Ricciòle: nome usato, nel Mezzogiorno, per varie specie di pesci del genere Scymnorrinus.

Musdee: motelle, genere di pesci teleostei della famiglia Gadidi (latino Mustela vulgaris).

Mazzune: ghiozzi 'nome divari pesci del genere Gobitts.

Stelle: cioè pesce-stella, leccia, ha le scaglie disposte

in forma di stella e perciò detto dagli ittiologi Astroclormus.

Aluzze: lucci di mare (latino Sphyraena sphyracna).

Ruongolo: gronghi o gòngori. Specie (Conger conger) di pesci teleostei dell'ordine Apodi.

Capodoglie: capodogli o capidogli. Cetacco odontoceto della famiglia Fiseteridi (latino Physeter) così chiamato per il grasso che si ricava dalla sua testa (capo d'olio).

Orche: orche. Specie di cetaceo odontoceto (latino Orcinus orca) della famiglia Delfinidi.

Vallene: balene.

Capitune: nome delle anguille di grandi dimensioni (latino Capito,-onis «che ha la testa grossa», derivato di caput «capo»). Nota il plurale interno; al singolare capitone.

Aùglie: aguglie. Nome comune di alcuni pesci teleostei (latino Belone) della famiglia Belonidi.

Arenghe: aringhe, specie di pesci telcostei dell'ordine Isospondili, famiglia Clupeidi. (Dal germanico haring, cfr. tedesco Hering; latino Clupea harengus).

Ciàfere: cefali, altro nome italiano di vari pesci dei genere Mugil. Nota il plurale interno, al singolare cèfaro.

Cuocco: aterine, genere di pesci telcostei dell'ordine Percomorfi, detto anche latterino, crognolo o lavone.

Tràccene: pesci ragno, genere (latino Trachinus) di pesci teleostei acantotterigi dell'ordine Giugnulari, famiglia Tradúnidi. Con lo stesso nome si indica anche il pesce spigola.

Tenghe: tinche, pesci teleostei (latino Tinca tinca) della famiglia Ciprinidi.

Treglie: triglie, nome comune dei pesci del genere Mullus, teleostei della famiglia Mullidi.

Trèmmole: torpedini (dal latino Torpedo, -dinis, derivato di torpàre, con allusione all'effetto delle scariche elettriche prodotte da questi pesci che inducono torpore alla mano che li tocca).

Trotte: trote.

Fiche: pesce fica, lampuga, fiatola dorata. Pesce teleosteo della famiglia Brauidi (latino Stromateus fiatola).

Cepolle: cepole rosseggianti, nome comune del pesce Cepola rubescens.

Laune: lagoni, nome napoletano del pesce Atherina hepsetus.

Retunne: menole, varie specie dei genere Smaris.

Purpe: polpi (latino Octopus vulgaris).

Secce: seppie.

Pisce prattielle: non meglio identificati, nonostante le più accurate ricerche, anche presso i pescatori del porticciolo di Mergellina.

Voccadoro: boccadoro, ombrina leccia (latino Sciaena aquila), così denominato perché produce suoni variamente modulati.

Cecenielle: bianchetti, i neonati delle alici di colore biancastro.

Capochiuove: piccole seppie (.Sepiota Rondeletii).

Cannolicchie: nome di varie specie di molluschi bivalvi del genere Solon.

Ostreche: ostriche (latino Ostrea edulis).

Ancine: ricci di mare (latino Ech-nus lividus).

Cucciole: nome di vari molluschi bivalvi del genere Cardium.

Grancetielle: diminutivo di grancio: granchio marino.

Marvizze: tordi di mare, varie specie del genere Labrus e Crenilabrus.

Màrmure: pagello mòrmora (latino Pagellus mormyrus).

Vope: boghe (latino Box boops) pesce teleosteo della famiglia Girellidi.

Prene: incinte (cfr. il latino praegnus).

Spìnole: spigole (Labraxt lupus).

Spuonole: è lo Spondylus gaederopus, volgarmente detto ostrica spinosa.

Sierpo: Non è chiaro se si allude alla vipera di mare (latino Ophisurus serpens) o al serpe di mare (latino Sphagebranchus Spallanzani),

Sarpe: salpe, pesce teleosteo della famiglia Girellidi (Boops salpa).

Scàuze, 'nzuoccole, e co le scarpe: scalzi, con gli zoccoli e con le scarpe. Accorsero così come si trova- vano.

Sconciglie: mùrici, molluschi gasteropodi del genere murex di cui alcune specie forniscono la porpora.

Gàmmere: gamberi.

Vennero 'nfino co le posto: vennero perfino di lontano, con le diligenze.

Saure: sgrombri bastardi sorelli, sugherelli (latino Trachurus trachurus).

Tantille, tante, cchiù tsante e tantone: graziosissimo verso che designa col diminutivo e con l'accrescitivo dell'aggettivo tanto, le varie dimensioni dei pesci in lotta. Essi sono, dunque, non soltanto di ogni ceto e nazionalità, ma anche di ogni grandezza: tantini (tantille), tanti, più tanti (più grossi) e tantoni!

Arrassosia: lontano sia. Arrasso è avverbio che vale «da parte» (Fatt'arrasso: fatti in là, scansati).

Muorze: morsi.

Beliune: bilioni.

A deljuvio li secuzzune: a diluvio i sergozzoni.

Bivo: vivo.

Ttè, ttè, ttè, ecc.: onomatopeico per indicare i colpi delle pistole, degli schioppi, degli archibugi e dei cannoni.

So già stracquato: sono già stanco.

Scriato: fiato.

'Nfì che sorchio: fin che sorbisco, il solo tempo di bere.

Na meza de seie: sottinteso presa, ossia bicchierino. Mezza designa la quantità e sei forse il prezzo o la misura o la composizione dei liquore. Il cantore vuol dire: «datemi soltanto il tempo di sorbire non più di mezzo bicchierino dei più modesto liquore».

Co salute de luie e de leve: con salute, ossia alla salute, di lui e di lei, ossia dei signori e delle signore che mi stanno ascoltando.

Ca: perché.

Cannarone: la gola, sede delle canne, che nel sostantivo napoletano vengono unificate e accresciute!

Sbacantànnose lo premmone: svuotandosi (mentre si svuota) il polmone.

Caro Prof. Salzano,

Abbiamo letto con grande piacere nella sua Home page il testo della canzone napoletana “O Guarracino”. Da un po’ di tempo lo stavamo cercando anche noi ed il caso ha voluto che contemporaneamente a tale scoperta rinvenissimo un’altra versione su una antologia di canzoni napoletane (La canzone napoletana di Imperiali e Recalcati,1998). Fra le due versioni ci sono delle differenze che ci permettiamo di segnalare:

¨ e llare’ lo mare ‘e lena: nel suo glossario è interpretata semplicemente come ritornello fonico mentre noi abbiamo la traduzione rema di buona lena (llare’ sarebbe l’imperativo di un verbo a noi sconosciuto) che ben si accorda con i versi successivi, che invitano un ipotetico spasimante a affrettarsi perché la figlia della si’ Lena è rimasta senza fidanzato.

¨ ma la vecchia de vava Alosa: noi abbiamo invece ma la vecchia de la vavosa , con riferimento alla stessa ruffiana che ha riportato alla sardella il messaggio d’amore del guarracino.

¨ guappo Pallarino : una nota della nostra antologia dice che Pallarino era il nome di un famoso e temuto guappo dell’epoca. L’uso di guappo come sostantivo ci sembra più appropriato.

¨ pisce prattiello: noi abbiamo pisce martiello ma il canone filologico della “lectio difficilior” avvalora la sua versione.

Fra l’altro siamo in possesso di una versione sensibilmente diversa della stessa canzone, sicuramente una rielaborazione successiva, interpretata dai cantanti della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Purtroppo non abbiamo il testo, e non siamo riusciti ancora a trascriverlo correttamente: glielo faremo avere appena pronto.

Come si dice a Napoli stateve bbuone

Alfonso Di Domenico e Raffaele Punzi

A parere di Fabrizio Borgogna, O guarracino (cioè il testo inserito qui sotto) "non è una creazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma una canzone tradizionale rielaborata da Roberto de Simone". Borgogna osserva che “rispetto alla tradizionale è molto più semplice: è più breve, la sintassi è meno ricercata e le specie di pesce citate sono di gran lunga inferiori (17 contro la settantina de Lo guarracino)”. Ricorda che “in alcune isole e località rivierasche napoletane esisteva un canto popolarededicato al guarracino, molto simile alla canzone di cui sto parlando, soprattutto come musica” e osserva come sia improbabile che il testo rielaborato da De Simone “sia quel canto (credo sia troppo complessa e lunga per essere una canzone popolare), ma potrebbe essere una canzone d'autore che si ispira a quel canto”.

Con una interpretazione che mi sembra del tutto logica e condivisibile il mio gentile corrispondente conclude che, “essendo senza dubbio anche Lo Guarracino una canzone d'autore, ed essendo soprattutto la musica ed il ritmo completamente diversi dalle altre due canzoni, potrebbe anche essere che 'O guarracino sia una canzone precedente a questa e alla quale Lo guarracino fece riferimento”. Il testo è tratto dal sito della Nuova Compagnia

'O guarracino ca jeva p'o mare

jeve truvanno 'e se nzorare (...'e se nguaiare)

se facette 'nu bello vestito

chino chino 'e scorze d'ancino

nu scarpino fatt'a ngrese

'a pettinatura a la francese (...'o cazunciello a la francese)

allustrato e puletiello

jeva facenno 'o nnammuratiello

La sardella ca 'o verette

'o ghianco e 'o russo se mettette

po' pigliaie 'o calascione

e mpruvvisaie 'na canzone (...po' chiammaie a Pascalone/e l'ammustaie chistu cazone)

'a canzone c''o liuto

'o guarracino s'è ncannaruto (...nzallanuto)

Passa a tiempo 'a zia vavosa

vecchia trammera zandragliosa

'a vavosa pe' 'nu rano

faceva li pisce la ruffiana (...frieva l'ove 'int''o tiano)

jesce llà fora e mpostal''o pietto

si vuò stu marito rint''o lietto (...si vuò fa mò 'nu rispietto)

'A sardella a sti parole

se facette 'na bbona scola

de curzera s'affacciaie

e 'o guarracino zenniaie (...e tutte li trezze l'ammustaie)

mentre ca lloro amuriggiavano

tutte li pisce se n'addunavano (...se masteriavano)

Primma fuie 'na raosta

ca da luntano faceva la posta

pò se ne venne la raia petrosa

e 'a chiammaie schefenzosa (...brutta zellosa)

pecché trarev'all'allitterato

ca era geluso e nnammurato (...ca era 'nu piezzo 'e scurnacchiato)

L'allitterato ca l'appuraie

tutti li sante jastemmaie

e alluccanno voglio vendetta

corze alla casa comm'a saetta.

Pò s'armaie fino fino

pe' sguarrà lu guarracino (...pe' spaccà lu guarracino)

Marammé oi mamma bella

alluccava la zi' sardella

e 'a vedé stu cumbattimento

le venette 'nu svenimento

le venette 'n'antecore

e tutt'e pisci ascettero fore (...e 'o capitone ascette fore)

Bello e bbuono comm'a niente

ascettero tutte a pisci fetiente

tira e molla piglia e afferra

mmiez'a sti pisci lu serra serra

Quatto ciefere arraggiate

se pigliavano a capuzzate tutte li purpe cu ciento vraccia

se pigliavano a pisci 'nfaccia (...a panne 'nfaccia)

'na purpessa a 'na vicina

le faceva lu strascino (...le stracciaie lu suttanino)

Mentre 'e sarde alluccavano a mare

"ca ve pozzano strafucare!"

'nu marvizzo cu 'n'uocchio ammaccato

deva mazzate da cecato

quanno cugliette pe' scagno a 'na vopa

chesta pigliaie 'na mazza de scopa

Piglia sta mazza e fuje da llà

mannaggia lu pesce c''o baccalà

se secutavano ore e ore

pigliala 'a capa e fuje p''a cora.

Ddoje arenche vecchie bizzoche

se paliavano poco a poco

e ammaccannose 'o paniello

misero mmiezo a 'nu piscitiello

stu piscitiello che era fetente

facette 'na mossa malamente

stu piscitiello svergugnato

facette po' sotto 'o smaliziato (...disgraziato/...'o scurnacchiato)

Ma 'nu palammeto bunacchione

magnava cozzeche c''o limone

e 'nu marvizzo vistolo sulo

te lo piglia a cavece 'nculo (...a muorze 'nculo)

tutto nzieme a sta jurnata

se sentette 'na scuppettata

Pe' la paura a 'na patella

le venette 'na cacarella

pe' la paura 'a nu piscitiello

le venette 'nu riscinziello (...s'arrugnaie lu ciciniello)

mentre 'nu rancio farabutto

muzzecava li piere a tutte

muorte e bbive ne li stesse

ce cantava 'e Ssante Messe

Se pigliavano a mala parole

e se nturzavano bbuono e mmole

po' pe' farse 'na bbona ragione

danno de mano a lu cannone

'o cannone facette 'nu scuoppo

lu guarracino restaie zuoppo

zuoppo zuoppo mmiez''a via

che mmalora e mamma mia (...tuppe tuppe bella mia/che mmalora e mamma mia)

Signure mieie ca sentite

vurria sapé si 'o credite

chi s'agliotte sti pallone

tene 'nu bbuono cannarone

chi s'agliotte chesta palla

cu tutt''e pisci rimana a galla

zuffamiré e zuffamirella

e 'ntinderindì sta tarantella (...zuffamiré zuffamirà/mannaggia lu pesce c''o baccalà)

L'altra edizione

Ho scelto queste canzoni: Fenesta vascia, La cammesella, Te voglio bene assaie, Fenesta ca lucive, Era de maggio, ‘E spingule frangese, Voce ‘e notte, Guapparia, Dicitincello vuie, Tammurriata nera, Vierno, Accarezzame. (A Lo Guarracino è dedicata un’intera cartella)

Fenesta vascia

di ignoti

Fenesta vascia 'e padrona crudele,

quanta suspire mm'haje fatto jettare!...

Mm'arde stu core, comm'a na cannela,

bella, quanno te sento annommenare!

Oje piglia la 'sperienza de la neve!

La neve è fredda e se fa maniare...

e tu comme si' tanta aspra e crudele?!

Muorto mme vide e nun mme vuó' ajutare!?...

Vorría addeventare no picciuotto,

co na langella a ghire vennenn'acqua,

Pe' mme ne jí da chisti palazzuotte:

Belli ffemmene meje, ah! Chi vó' acqua...

Se vota na nennella da llá 'ncoppa:

Chi è 'sto ninno ca va vennenn'acqua?

E io responno, co parole accorte:

Só' lacreme d'ammore e non è acqua!...

La Cammesella

di ignoti (1700)

E llevete lu mantesino

- Lu mantesino 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te lo vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levato,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E llevete lu suttanino

- Lu suttanino 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te lo vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levato,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E llevete chisto cursetto

- Chisto cursetto 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te lo vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levato,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E llevete la cammesella.

- La cammesella 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te la vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levata,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E dammece nu vasillo.

- Nu vasillo 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun me lo vuo' da',

me soso e me ne vado da 'cca.

- Ed ecchete 'cca lu vasillo,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

Te voglio bene assaie

versi di Raffaele Sacco, musica attribuita a Gaetano Donizetti (1835)

Pecché quanno mme vide,

te 'ngrife comm'o gatto?

Nenné', che t'aggio fatto,

ca nun mme puó' vedé?!

Io t'aggio amato tanto...

Si t'amo tu lo ssaje!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

La notte tutti dormono,

ma io che vuó durmire?!

Penzanno a nénna mia,

mme sento ascevolí!

Li quarte d'ora sonano

a uno, a duje, a tre...

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Recòrdate nu juorno

ca stive a me becino,

e te scorréano, 'nzino,

le llacreme, accussí!...

Deciste a me: "Non chiagnere,

ca tu lo mio sarraje..."

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Fenesta ca lucive

versi di ignoto, musica attribuita a Vincenzo Bellini (s. d.)

Fenesta ca lucive e mo nun luce...

sign'è ca nénna mia stace malata...

S'affaccia la surella e mme lu dice:

Nennélla toja è morta e s'è atterrata...

Chiagneva sempe ca durmeva sola,

mo dorme co' li muorte accompagnata...

Va' dint''a cchiesa, e scuopre lu tavuto:

vide nennélla toja comm'è tornata...

Da chella vocca ca n'ascéano sciure,

mo n'esceno li vierme...Oh! che piatate!

Zi' parrocchiano mio, ábbece cura:

na lampa sempe tienece allummata...

Addio fenesta, rèstate 'nzerrata

ca nénna mia mo nun se pò affacciare...

Io cchiù nun passarraggio pe' 'sta strata:

vaco a lo camposanto a passíare!

'Nzino a lo juorno ca la morte 'ngrata,

mme face nénna mia ire a trovare!..

Era de maggio

versi di Salvatore Di Giacomo, musica di Mario Costa (1885)

Era de maggio e te cadéano 'nzino,

a schiocche a schiocche, li ccerase rosse...

Fresca era ll'aria...e tutto lu ciardino

addurava de rose a ciento passe...

Era de maggio, io no, nun mme ne scordo,

na canzone cantávamo a doje voce...

Cchiù tiempo passa e cchiù mme n'allicordo,

fresca era ll'aria e la canzona doce...

E diceva: "Core, core!

core mio, luntano vaje,

tu mme lasse, io conto ll'ore...

chisà quanno turnarraje!"

Rispunnev'io: "Turnarraggio

quanno tornano li rrose...

si stu sciore torna a maggio,

pure a maggio io stóngo ccá...

Si stu sciore torna a maggio,

pure a maggio io stóngo ccá."

E só' turnato e mo, comm'a na vota,

cantammo 'nzieme lu mutivo antico;

passa lu tiempo e lu munno s'avota,

ma 'ammore vero no, nun vota vico...

De te, bellezza mia, mme 'nnammuraje,

si t'allicuorde, 'nnanz'a la funtana:

Ll'acqua, llá dinto, nun se sécca maje,

e ferita d'ammore nun se sana...

Nun se sana: ca sanata,

si se fosse, gioja mia,

'mmiez'a st'aria 'mbarzamata,

a guardarte io nun starría !

E te dico: "Core, core!

core mio, turnato io só'...

Torna maggio e torna 'ammore:

fa' de me chello che vuó'!

Torna maggio e torna 'ammore:

fa' de me chello che vuó'!"

‘E spingule frangese

versi di Salvatore Di Giacomo, musica di Enrico De Leva (1888)

Nu juorno mme ne jètte da la casa,

jènno vennenno spíngule francese...

Nu juorno mme ne jètte da la casa,

jènno vennnenno spíngule francese...

Mme chiamma na figliola: "Trase, trase,

quanta spíngule daje pe' nu turnese?"

Mme chiamma na figliola: "Trase, trase,

quanta spíngule daje pe' nu turnese?

Quanta spíngule daje pe' nu turnese?"

Io, che sóngo nu poco veziuso,

sùbbeto mme 'mmuccaje dint'a 'sta casa...

"Ah, chi vò' belli spingule francese!

Ah, chi vò' belli spingule, ah, chi vò'?!

Ah, chi vò' belli spingule francese!

Ah, chi vò' belli spingule ah, chi vò'!?"

Dich'io: "Si tu mme daje tre o quatto vase,

te dóngo tutt''e spíngule francese...

Dich'io: "Si tu mme daje tre o quatto vase,

te dóngo tutt''e spíngule francese...

Pízzeche e vase nun fanno purtóse

e puo' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...

Pízzeche e vase nun fanno purtóse

e puo' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...

E puó' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...

Sentite a me ca, pure 'nParaviso,

'e vase vanno a cinche nu turnese!...

"Ah, Chi vò' belli spíngule francese!

Ah, Chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!

Ah, chi vò' belli spíngule francese!

Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!"

Dicette: "Bellu mio, chist'è 'o paese,

ca, si te prore 'o naso, muore acciso!"

Dicette: "Bellu mio, chist'è 'o paese,

ca, si te prore 'o naso, muore acciso!"

E i' rispunnette: "Agge pacienza, scusa...

'a tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese..."

E i' rispunnette: "Agge pacienza, scusa...

'a tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese

'A tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese...

E tene 'a faccia comm''e ffronne 'e rosa,

e tene 'a vocca comm'a na cerasa...

Ah, chi vò' belli spîngule francese!

Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!

Ah, chi vò' belli spíngule francese!

Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!"

Voce ‘e notte

versi di Edoardo Nicolardi, musica di Ernesto De Curtis (1905)

Si 'sta voce te scéta 'int''a nuttata,

mentre t'astrigne 'o sposo tujo vicino...

Statte scetata, si vuó' stá scetata,

ma fa' vedé ca duorme a suonno chino...

Nun ghí vicino ê llastre pe' fá 'a spia,

pecché nun puó' sbagliá 'sta voce è 'a mia...

E' 'a stessa voce 'e quanno tutt'e duje,

scurnuse, nce parlávamo cu 'o "vvuje".

Si 'sta voce te canta dint''o core

chello ca nun te cerco e nun te dico;

tutt''o turmiento 'e nu luntano ammore,

tutto ll'ammore 'e nu turmiento antico...

Si te vène na smania 'e vulé bene,

na smania 'e vase córrere p''e vvéne,

nu fuoco che t'abbrucia comm'a che,

vásate a chillo...che te 'mporta 'e me?

Si 'sta voce, che chiagne 'int''a nuttata,

te sceta 'o sposo, nun avé paura...

Vide ch'è senza nomme 'a serenata,

dille ca dorme e che se rassicura...

Dille accussí: "Chi canta 'int'a 'sta via

o sarrá pazzo o more 'e gelusia!

Starrá chiagnenno quacche 'nfamitá...

Canta isso sulo...Ma che canta a fá?!..."

Guapparia

versi di Libero Bovio, musica di Rodolfo Falvo (1914)

Scetáteve, guagliune 'e malavita...

ca è 'ntussecosa assaje 'sta serenata:

Io sóngo 'o 'nnammurato 'e Margarita

Ch'è 'a femmena cchiù bella d''a 'Nfrascata!

Ll'aggio purtato 'o capo cuncertino,

p''o sfizio 'e mme fá sèntere 'e cantá...

Mm'aggio bevuto nu bicchiere 'e vino

pecché, stanotte, 'a voglio 'ntussecá...

Scetáteve guagliune 'e malavita!...

E' accumparuta 'a luna a ll'intrasatto,

pe' lle dá 'o sfizio 'e mme vedé distrutto...

Pe' chello che 'sta fémmena mm'ha fatto,

vurría ch''a luna se vestesse 'e lutto!...

Quanno se ne venette â parta mia,

ero 'o cchiù guappo 'e vascio â Sanitá...

Mo, ch'aggio perzo tutt''a guapparía,

cacciatemmenne 'a dint''a suggitá!...

Scetáteve guagliune 'e malavita!...

Sunate, giuvinò', vuttàte 'e mmane,

nun v'abbelite, ca stó' buono 'e voce!

I' mme fido 'e cantá fino a dimane...

e metto 'ncroce a chi...mm'ha miso 'ncroce...

Pecché nun va cchiù a tiempo 'o mandulino?

Pecché 'a chitarra nun se fa sentí?

Ma comme? chiagne tutt''o cuncertino,

addó' ch'avess''a chiagnere sul'i'...

Chiágnono sti guagliune 'e malavita!...

Dicitencello vuie

versi di Enzo De Fusco, musica di Rodolfo Falvo (1930)

Dicitencello a 'sta cumpagna vosta

ch'aggio perduto 'o suonno e 'a fantasia...

ch''a penzo sempe,

ch'è tutt''a vita mia...

I' nce 'o vvulesse dicere,

ma nun ce 'o ssaccio dí...

'A voglio bene...

'A voglio bene assaje!

Dicitencello vuje

ca nun mm''a scordo maje.

E' na passione,

cchiù forte 'e na catena,

ca mme turmenta ll'anema...

e nun mme fa campá!...

Dicitencello ch'è na rosa 'e maggio,

ch'è assaje cchiù bella 'e na jurnata 'e sole...

Da 'a vocca soja,

cchiù fresca d''e vviole,

i' giá vulesse sèntere

ch'è 'nnammurata 'e me!

'A voglio bene...

..........................

Na lácrema lucente v'è caduta...

dicíteme nu poco: a che penzate?!

Cu st'uocchie doce,

vuje sola mme guardate...

Levámmoce 'sta maschera,

dicimmo 'a veritá...

Te voglio bene...

Te voglio bene assaje...

Si' tu chesta catena

ca nun se spezza maje!

Suonno gentile,

suspiro mio carnale...

Te cerco comm'a ll'aria:

Te voglio pe' campá!...

Tammurriata nera

versi di Edoardo Nicolardi, musica di E. A. Mario (1944)

Io nun capisco, ê vvote, che succede...

e chello ca se vede,

nun se crede! nun se crede!

E' nato nu criaturo niro, niro...

e 'a mamma 'o chiamma Giro,

sissignore, 'o chiamma Giro...

Séh! gira e vota, séh...

Séh! vota e gira, séh...

Ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono,

ca tu 'o chiamme Peppe o Giro,

chillo, o fatto, è niro, niro,

niro, niro comm'a che!...

'O contano 'e ccummare chist'affare:

"Sti fatte nun só' rare,

se ne contano a migliara!

A 'e vvote basta sulo na guardata,

e 'a femmena è restata,

sott''a botta, 'mpressiunata..."

Séh! na guardata, séh...

Séh! na 'mpressione, séh...

Va' truvanno mo chi è stato

ch'ha cugliuto buono 'o tiro:

chillo, 'o fatto, è niro, niro,

niro, niro comm'a che!...

Ha ditto 'o parulano: "Embè parlammo,

pecché, si raggiunammo,

chistu fatto nce 'o spiegammo!

Addó' pastíne 'o ggrano, 'o ggrano cresce...

riesce o nun riesce,

sempe è grano chello ch'esce!"

Mé', dillo a mamma, mé'...

Mé', dillo pure a me...

Ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono,

ca tu 'o chiamme Peppe o Giro,

chillo...'o ninno, è niro, niro,

niro, niro comm'a che!...

Vierno

versi di Armando De Gregorio, musica di Vincenzo Acampora (1945)

E' vierno: chiove, chiove 'a na semmana...

e st'acqua assaje cchiù triste mme mantene...

Che friddo, quanno è 'a sera, ca mme vène...

cu st'aria 'e neve, mo ca manche tu.

'Sta freva, ca manch'essa mm'abbandona,

'sta freva, 'a cuollo, nun se leva cchiù!

Vierno!

che friddo 'int'a stu core...

e sola tu,

ca lle puó' dá calore,

te staje luntana e nun te faje vedé'!

Te staje luntana e nun te cure 'e me!

Ca mamma appiccia 'o ffuoco tutt''e ssere

dint'a 'sta cammarella fredda e amara?!

"Ma che ll'appicce a fá, vecchia mia cara,

s'io nun mme scarfo manco 'mbracci'a te!?"

Povera vecchia mia...mme fa paura:

è n'ombra ca se move attuorno a me!...

Vierno!

che friddo 'int'a stu core...

e sola tu,

ca lle puó' dá calore,

te staje luntana e nun te faje vedé'!

Te staje luntana e nun te cure 'e me!

Accarezzame

versi di Nisa, musica di Pino Calvi (1954)

Stasera, core e core, 'mmiez'ô ggrano,

addó' ce vede sulamente 'a luna...

io cchiù t'astrégno e cchiù te faje vicino,

io cchiù te vaso e cchiù te faje vasá...

Te vaso...e 'o riturnello 'e na canzone,

tra ll'arbere 'e cerase vola e va...

Accarézzame!...

Sento 'a fronte ca mme brucia...

Ma pecché nun mme dá pace

stu desiderio 'e te?

Accarézzame!...

Cu sti mmane vellutate,

faje scurdá tutt''e peccate...

Strígneme 'mbracci'a te!...

Sott'a stu cielo trapuntato 'e stelle,

mme faje sentí sti ddete 'int''e capille...

Voglio sunná guardanno st'uocchie belle...

voglio sunná cu te!...

Accarézzame!...

Sento 'a fronte ca mme brucia...

Ma pecché nun mme dá pace

stu desiderio 'e te?

E nu rilorgio lentamente sona...

ma 'o tiempo s'è fermato 'nziem'â luna...

Io mme vurría addurmí 'mmiez'a stu ggrano

tutta na vita...pe' ll'eternitá...

E tu mm'accarezzasse chianu chiano...

e mme vasasse, senza mme scetá...

Accarézzame!...

Sento 'a fronte ca mme brucia...

Ma pecché nun mme dá pace

stu desiderio 'e te?

Lo Guarracino che jéva pe mare

le venne voglia de se 'nzorare;

se facette no bello vestito

de scarde de spine pulito pulito

cu na perucca tutta 'ngrifata

de ziarèlle 'mbrasciolata

co lo sciabò, scolla e puzine

de ponte ongrese fine fine.

Cu li cazune de rezze de funno,

scarpe e cazette de pelle de tunno,

e sciammeria e sciammereino

d'àleche e pile de voje marino,

co buttune e buttunera

d'uocchúe de purpe, sécce e fèra,

fibbia, spata e schiocche 'ndorate

de niro de secce e fele d'achiate.

Doje belle cateniglie

de premmone de conchiglie,

no cappiello aggallonato

de codarino d'aluzzo salato,

tutto pòserna e steratiello

jeva facenno lo sbafantiello,

e gerava da ccà e da llà

la 'nnammorata pe se trovà!

La Sardella a lo barcone

steva sonanno lo calascione;

e a suono de trommetta jeva cantanno st'arietta:

«E Ilaré lo mare e lena,

«e la figlia da sié Lena

«ha lasciato lo 'nnammorato

«Pecché niente l'ha rialato ».

‘O Guarracino 'nche la guardaje

de la Sardella se 'nnammoraje;

se ne jette da na Vavosa

la cchiù vecchia maleziosa,

l'ebbe bona rialata

pe mannarle la mmasciata:

la Vavosa pisse pisse

chiatto e tonno 'nce lo disse.

La Sardella 'nch'a sentette

rossa rossa se facette,

pe lo scuorno che se pigliaje

sotto a no scuoglio se 'mpizzaje;

ma la vecchia de vava Alosa

sùbeto disse: « Ah schefenzosa

«De sta manera non truove partito,

«'ncanna te resta lo marito.

« Se aje voglia de t'allocà

«tanta smorfie non aje da fa;

«fora le zeze efora lo scuorno,

«anema e core e faccia de cuorno

Ciò sentenno la sii Sardella

s'affacciaje a la fenestrella,

fece n'uocchio a zennariello

a lo speruto 'nnammoratiello.

Ma la Patella che steva de posta

la chiammaje faccia tosta,

tradetora, sbrevognata,

senza parola, male nata,

ch'avea 'nchiantato l'Alletterato

primmo e antico 'nnanunorato;

de carrera da chisto jette

e ogne cosa 'Ile dicette.

Quanno lo 'ntise lo poveriello

se lo pigliaje Farfariello;

iette a la casa e s'armaje a rasulo,

se carrecaje comm'a no mulo

de scoppette e de spingarde,

pòvere, palle, stoppa e scarde;

quatto pistole e tre baionette

dint'a la sacca se mettette.

'Ncopp'a li spalle sittanta pistune,

ottanta mbomme e novanta cannune;

e comm'a guappo Pallarino

jeva trovanno lo Guarracino;

la disgrazia a chisto portaje

che mmiezo a la chiazza te lo 'ncontraje:

se l'afferra po crovattino

e po ‘lle dice: «Ah malandrino!

«Tu me la lieve la 'nnammorata

«e pigliatella sta mazziata».

Tùffete e tàffete a meliune

le deva pàccare e secuzzune,

schiaffe, ponie eperepesse,

scoppolune, fecozze e conesse,

scerevecchiune e sicutennosse e

ll'ammacca osse e pilosse.

Venimmoncenne ch'a lo rommore

pariente e amice ascettero fore,

chi co mazze, cortielle e cortelle,

chi co spate, spatune e spatelle,

chiste co barre e chílle co spite,

chi co ammènnole e chi co antrite,

chi co tenaglie e chi co martielle,

e chi co torrone e sosamielle.

Patre, figlie, marite e mogliere

s'azzuffajeno comrn'a fere.

A meliune correvano a strisce

de sto partito e de chillo li pisce.

Che bediste de sarde e d'alose!

De palaje e raje petrose !

Sàrache, diéntece ed achiate,

scurme, tunne e alletterate!

Pisce palumme e pescatrice,

scorfene, cernie e alice,

mucchie, ricciòle, musdee e mazzune,

stelle, aluzze e storiune

merluzze, ruongole e murene,

capodoglie, orche e vallene,

capitune, aùglie e arenghe,

ciéfere, cuocce, tràecene e tenghe.

Treglie, trèmmole, tratte e tunne,

fiche, cepolle, laune e retunne,

purpe, secce e calamare,

pisce spate e stelle de mare,

pisce palumme e pisce prattielle,

voccadoro e cecenielle,

capochiuove e guarracine,

cannolicchie, òstreche e ancine.

Vòngole, cocciole e patelle,

pisce cane e grancetielle,

marvizze, màrmure evavose,

vope prene, vedove e spose,

spinole, spuonole, sierpe e sarpe,

scàuze, 'nzuoccole e co le scarpe,

sconciglie, gàmmere e ragoste,

vennero 'nfìno cole poste,

capitune, sàure e anguille,

pisce gruosse e piccerille,

d'ogni ceto e nazione,

tantille, tante, cchiù tante e tantone.

Quanta botte, mamma mia!

che se divano, arrassosia

a’ centenare le barrate!

a’ meliune le petrate!

Muorze e pizzeche a beliune!

A delluvio li secuzzune!

Non ve dico che bivo fuoco

se faceva per ogni luoco!

Ttè, ttè, ttè, ccà pistulate!

Ttà, ttà, ttà, llà scoppettate

Ttà, ttù, ttù, ccà li pistune!

Bu, bu, bu, llà li cannune !

Ma de cantà so già stracquato

e me manca mo lo sciato;

sicché dateme licienzia,

graziosa e bella audienzia,

'nfì che sorchio na meza de seje,

co salute de luje e de leje,

ca se secca lo cannarone

sbacantànnose lo premmone.

Quando entrò nelle aule dove si insegnava la meccanica, Ulrich fu subito in preda a un entusiasmo febbrile. A che serve ormai l'Apollo del belvedere, se si hanno davanti agli occhi le forme nuove di un turboalternatore o il meccanismo di distribuzione di una locomotiva! Chi può interessarsi ormai alle chiacchiere millenarie sul bene e sul male, quando s'è trovato che non si tratta di “Valori costanti" ma di “Valori funzionali", così che la bontà delle opere dipende dalle circostanze storiche e la bontà degli uomini dall'abilità psicotecnica con la quale si sfruttano le loro capacità! Il mondo è semplicemente buffo se lo si considera dal punto di vista tecnico; privo di praticità in tutti i rapporti umani, estremamente inesatto e antieconomico nei modi; e chi è abituato a svolgere le sue faccende col regolo calcolatore non può ormai prendere sul serio una buona metà delle asserzioni umane.

Il regolo calcolatore consta di due sistemi di numeri e di linee combinati con straordinaria accortezza: due tavolette scorrevoli verniciate di bianco, a sezione trapezoidale piatta, mediante la quale si risolvono in un baleno i più intricati problemi, senza sciupare inutilmente un solo pensiero; è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore. Quando si possiede un regolo calcolatore, e arriva qualcuno con grandi affermazioni e grandi sentimenti, si dice: "Un attimo, prego, prima calcoliamo il limite d'errore e il valore probabile di tutto ciò".

Quest'era senza dubbio una rappresentazione efficace dell'ingegneria. Essa costituiva la cornice di un'affascinante futuro autoritratto che rappresentava un uomo dai lineamenti energici, con una pipa tra i denti, un berretto sportivo in testa e splendidi stivali alla scuderia, in viaggio tra Città del Capo e il Canadà per realizzare grandiosi progetti... Fra un affare e l'altro si può anche trovare il tempo per ricavare dal pensiero tecnico qualche idea per organizzare il mondo e governarlo, o di formulare massime come quella di Emerson, che dovrebbe esser scritta sulla porta di ogni officina: "Gli uomini passano sulla terra come profezie del futuro, e tutte le loro azioni sono prove e tentativi, perché ogni azione può essere superata dalle successive". Anzi, per esser precisi, questa massima era di Ulrich che l' aveva composta mettendo insieme parecchie massime di Emerson.

È difficile dire come mai gli ingegneri non corrispondano poi del tutto a questo quadro. Perché, ad esempio, portano sovente una catena d'orologio che sale in un mezzo arco acuto dal panciotto ad un bottone più in alto, o la dispongono sulla pancia in festoni ascendenti e discendenti, come arsi e tesi di una poesia? Perché amano appuntarsi nella cravatta denti di cervo o piccoli ferri di cavallo? Perché i loro abiti sono costruiti come gli elementi di un'automobile? Perché, soprattutto, non parla no quasi mai d'altro che della loro professione; e se parlano di altro lo fanno in modo speciale, rigido, esterno, senza correlazioni, che al di dentro non và più in giù dell'epiglottide? Naturalmente, ciò non vale per tutti, ma vale per molti; e quelli che Ulrich conobbe quando prese servizio per la prima volta in un ufficio di fabbrica erano così, e quelli che conobbe la seconda volta erano anche così. Si rivelarono uomini strettamente legati alle loro tavolette da disegno, amanti della loro professione e in essa ammirevolmente valenti; ma proporre loro di applicare l'audacia del loro pensiero a se stessi invece che alle loro macchine, sarebbe stato come pretendere che facessero di un marIello l'uso contro natura che ne fa un assassino.

Vellutata di zucchine e curry

INGREDIENTI

zucchine, 1 kg

cipolle, 1 grossa

olio, 2 cucchiai

curry, 1 cucchiaino

brodo, ½ litro

yogurt greco, 125 gr

cerfoglio o prezzemolo

sale, pepe nero

PREPARAZIONE

Far riscaldare l’olio e far cuocere per 3 minuti la cipolla finemente tritata, aggiungere il curry e il brodo;

tagliare a rondelle le zucchine e unirle al brodo, rimestare, salare e portare all’ebollizione;

abbassare la fiamma, coprire e far cuocere per circa 25’, comun que finchè le zucchine non sono morbide;

far intiepidire, poi passare al mixer finché le zucchine non diventano una crema;

mettere ib frigo e conservare finché serve.

Prima di servire incorporare lo yogurt, aggiustare di sale, aggiungere pepe nero macinato fresco e il cerfoglio (o prezzemolo) tritato;

servire con crostini di pane con formaggio caprino spalmato.

FONTE

La ricetta e’ tratta da D di Repubblica del 26 giugno 2004. Lì la ricetta è dosata per 20 persone; ho diviso le dosi per 4, abbondando un po’ con le zucchine. Qui sotto riporto la ricetta originale.



VELLUTATA DI ZUCCHINE E CURRY

Per 20 persone

In una capace casseruola, scaldate 8 cucchiai di olio di oliva; unite 4 grosse cipolle pelate e tritate finemente e fate rosolare per 3 minuti. Spolverate con 4 cucchiaini di curry, rimestate e bagnate con 2 I di brodo vegetale bollente. Affettate a rondelle 3,5 kg di zucchine; unitele al brodo, rimestate e salate. Portate a ebollizione, abbassate la fiamma. coprite e fate cuocere lentamente per circa 25 minuti o finché le zucchine sono tenere. Fate intiepidire la zuppa e passatela al mixer per ottenere una crema. Conservatela in frigo; al momento di servire, incorporate 500 g di yogurt greco, rimestate bene, regolate di sale, cospargete con pepe nero macinato al momento e con 2 cucchiai di cerfoglio o prezzemolo tritato; accompagnate con crostini spalmati di caprino fresco.

Ingredienti: 1 confezione di pasta sfoglia già pronta ( o se siete così in gamba fatevela da soli....)ricotta (un pò più della metà di una confezione standard)pinoli o mandorle (a occhio)latte2 zucchinebasilico1/2 cipolla ( n.b. se la cipolla non vi piace vanno bene anche due spicchi di aglio ). 2 uovaparmigiano grattugiato o qualsiasi altro formaggio và bene. Procedimento: Tagliate a fette sottili le zucchine, fate altrettanto con la cipolla ( se avete optato per l'aglio mettete gli spicchi interi in modo poi da eliminarli a fine cottura) . Mettete il tutto in una padella con olio, sale e pepe.Fate cuocere le verdure prima soffringgendole un pò e poi finendo la cottura aiutandovi con l'acqua. Lasciatele nella padella e appena si saranno un pò freddate aggiungete le foglie del basilico sminuzzate con le mani.A questo punto stendete la pasta sfoglia in una teglia da forno stando attenti a lasciare dei bordini che vi aiutino a contenere il ripieno. Stendete sul fondo della pasta uno strato di ricotta che avrete precedentemente ammorbidito con un pò di latte e a cui avrete mescolato i pinoli ( volendo anche un pò di noce moscata).Sopra la ricotta stendete le zucchine e ricoprite il tutto con le uova che avrete già sbattuto a parte con un pò di latte ( o ancora meglio...panna liquida da cucina), il formaggio grattugiato e il sale. Infornate a circa 200° per una mezz'ora o comunque fino a quando non vi sembri cotta.

Ingredienti

Per 4 persone:

tagliatelle all'uovo fresche 250 gr.

panna 1/2 bicchiere

3 porri

una bustina di zafferano

mezzo dado da brodo

parmigiano reggiano grattugiato

burro, sale, pepe

Preparazione

Mondate i porri eliminando la parte verde, lavateli e affettateli molto sottilmente.

Fateli stufare su fiamma dolce con una noce di burro (olio) e, successivamente, bagnateli con un mestolino di acqua bollente in cui avrete sciolto il dado e lo zafferano.

Aggiungete la panna praticamente a fine cottura, a fuoco bassissimo, rigirando spesso.

Salate e pepate.

Condite le tagliatelle, lessate in abbondante acqua salata, con la salsa ai porri e abbondante parmigiano grattugiato.

Premessa

Questa ricetta mi è tornata in mente leggendo qualche giorno fa un articolo su una sedicente manifestazione “ slow fish”, dove un cuoco proponeva audaci esperimenti di nouvelle cuisine (ma si usa ancora?) mescolando pesci e formaggi in strati trecce, contaminazioni varie.

Lasciando lo slow fish, il cuoco e i formaggi alle loro rarefatte atmosfere, ho sbirciato in frigo è mi è tornata in mente una vecchia ricetta, letta una trentina d’anni fa probabilmente su un settimanale femminile, e che avevo provato moltissime volte in altrettante lievi varianti. Per il rispetto che si deve a pesci lenti, cuochi audaci, e formaggi misti, la ribattezzerò Nouvelle Zucchine.


Ingredienti

Ci vogliono, appunto, le zucchine, diciamo due medie per ogni scatoletta piccola di tonno (che è la base del ripieno). Il formaggio da audacemente mischiare è del comune parmigiano grattato (un cucchiaio abbondante per ogni scatolina di tonno). Poi uno spicchio d’aglio, una cucchiaiata abbondante di pangrattato, olio d’oliva e sale. Come si intuisce, sono possibili da subito varianti, ma restiamo in tema.

Preparazione

Innanzitutto si accende il forno, per risparmiare tempo, regolandolo a 180° o poco più. Poi si tagliano le zucchine a metà per il lungo, badando di posarle prima su un piano, e tagliando poi secondo una linea parallela, in modo da poter posare le due metà senza che traballino. Con un cucchiaino si svuotano le mezze zucchine, come se fossero piroghe, grattando delicatamente per evitare rotture, e badando a non assottigliare eccessivamente le pareti e il fondo, ma contemporaneamente a non lasciare troppo piene le due estremità. La polpa raccolta, va leggermente salata, mescolata, e messa in un piatto inclinato a “fare acqua”. Salare leggermente anche le canoe di zucchine, e lasciarle per il momento su un piatto.

Per il ripieno, tritare lo spicchio d’aglio, mescolare con il formaggio grattugiato, con il tonno, con la polpa delle zucchine ben strizzata, infine aggiungere gradatamente pangrattato senza asciugare troppo. Salare, mescolare, e riempire le mezze zucchine con il composto.

Nel frattempo, il forno si sarà ormai scaldato a sufficienza. Ungere d’olio d’oliva il fondo di una pirofila, disporre le zucchine ripiene badando a non rovesciare briciole di contenuto (altrimenti il formaggio potrebbe poi bruciare rovinando il profumo) sul fondo, e versare qualche goccia d’olio sopra il ripieno. Lasciar cuocere a 180° per circa tre quarti d’ora (il tempo varia a seconda dello spessore delle “canoe”.


Buon appetito. L’unica variante che mi viene in mente al momento, è quella per gli appassionati di internet: sostituire al tonno qualche fetta di SPAM, la famosa pressatella grasso-speziata che ha dato il nome alla pubblicità spazzatura indesiderata. Ma forse è molto meglio il tonno (ma sarà uno slow fish, o no?)

La cattedrale di San Stephan: Una visione storica

Le immagini sono di origine molto diversa: i signori Hawelka sono ripresi da una cartolina, i café Demel e Sacher sono illustrati dai loro dépliant, San Stephan e Karl Marx Hof da immagini tratte da internet con Google, gli interni di Hawelha e l'edificio di Holstein sono mei scatti. Il tutto è visibile in questa galleria di immagini.

Per saperne di più sul Karl Marx Hof (il grande e celebrato esempio della politica edilizia della socialdemocrazia mitteleuropea), vi consiglio il libro di Manfredo Tafuri la qui recensione trovate nel file qui sotto.

Vai alla galleria di immagini di Vienna

La vita deve essere piacevole in questa "città del sale", fin dai tempi in cui la governavano vescovi-principi.

La sua origine è romana (un oppidum sul Moenchesberg), poi fu rifondata dal Vescovo di Worms, poi San Ruperto, nel 696.

Le immagini sono state scattate quasi tutte nell'autunno del 2003, durante un convegno dell'International Making Cities Livable Conferences (fuorchè quella qui accanto, che è tratta da una cartolina postale); le più belle sono qulle delmercato dei fiori. Le potete vedere andando alla galleria di immagini qui.

Vai alla galleria di immagini di Salzburg

Chi siamo, dove andiamo, cosa vogliamo? Sembra un dilemma degno del migliore Snoopy, nel bel mezzo della sua notte buia e tempestosa, e invece è una domanda che forse bisognerebbe farsi più spesso. Una domanda in buona parte alla base del singolarissimo “progetto di pianificazione regionale” di Benton MacKaye proposto di seguito. Un testo forse troppo poco conosciuto in Italia, ma che ad esempio già trent’anni or sono Francesco Dal Co definiva “originale sintesi tra la sorgente scienza regionalista e la “filosofia della natura” del pensiero trascendentalista” . Forse fin troppo originale, verrebbe da dire, e soprattutto antitetico al filone principale e vincente del pensiero legato alla pianificazione territoriale: non propone sistemi più efficienti per la residenza, la produzione, i trasporti, ma un diverso rapporto fra tempo di lavoro e tempo liberato, fra produzione e natura, fra individuo e società. Detto in estrema sintesi, questo filone di pensiero regionalista, che discende logicamente da Patrick Geddes anche se con particolarissimi accenti americani, è lontano mille miglia dalla logica efficientista che negli stessi anni Venti vede svilupparsi questa branca della pianificazione territoriale soprattutto al servizio dell’efficienza produttiva metropolitana: dal bacino carbonifero della Ruhr, ai primi studi di Raymond Unwin sulla Greater London, al piano regionale di New York coordinato da Thomas Adams, tutti i maggiori sforzi metodologici e organizzativi si focalizzano sulla “produzione di ricchezza”. MacKaye si sofferma invece a chiedersi: che ce ne facciamo adesso, di tutta questa ricchezza?

Naturalmente c’è molto di più, nel suo breve “progetto di pianificazione regionale”, a partire dal trauma della guerra mondiale appena finita, dal dramma della disoccupazione e del parallelo spopolamento delle campagne, e conseguenti dissesti (frane, inondazioni). C’è anche un’idea socialista di sviluppo, in un’epoca in cui la parola non suona vagamente oscena all’orecchio americano, per cui curiosamente in questo 1921 si usa in modo ripetuto lo slogan New Deal . C’è soprattutto, la consapevolezza di parlare di una piccola cosa come i campi da “giovani esploratori”, ma dal piccolo spunto nasce un ragionamento complesso, che si conclude significativamente con un dilemma pure tipico di questi anni: abbiamo evocato forze gigantesche, dove e come le vogliamo guidare? MacKaye, e più tardi insieme a lui i compagni della Regional Planning Association of America , evocano in qualche modo l’idea di Ebenezer Howard, di preparare gli spazi fisici ad una più libera società del futuro. Contemporaneamente, oltre oceano, un architetto svizzero con grandi capacità di comunicazione sta guardando dall’alto del suo ufficio le stesse, grandi forze dormienti della metropoli e della società. Anche lui ha una ricetta per trasformare quegli spazi. Ma questa è un’altra storia. (fb)

Un sentiero sugli Appalachi. Progetto di pianificazione regionale, Journal of the American Institute of Architects, ottobre 1921 (An Appalachian Trail: a Project in Regional Planning, traduzione di Fabrizio Bottini)

Qualcosa è cresciuto, in questi anni duri, qualcosa che nel frastuono della guerra è andato perso per la consapevolezza pubblica. È il lento e calmo svilupparsi dei campi per il tempo libero. Non si tratta di qualcosa di urbano, né di rurale. Sfugge all’attivismo dell’uno, e alla solitudine dell’altro. Sfugge anche alla maledizione, comune ad entrambi: l’alta tensione della lotta economica. Qualunque comunità affronta un problema “economico”, in vari modi. Il campo lo affronta attraverso la cooperazione e il mutuo aiuto, altri attraverso la competizione e la mutua spoliazione.

Noi esseri civilizzati, urbani o rurali, siamo potenzialmente indifesi, some canarini in gabbia. La capacità di confrontarci direttamente con la natura, senza il riparo della confortante barriera della civilizzazione, è uno dei consapevoli bisogni dei tempi moderni. È lo scopo del movimento degli “esploratori”. Non che si voglia tornare allo stato dei nostri antenati del Paleolitico. Noi vogliamo la forza del progresso senza le sue miserie. Vogliamo le comodità senza le vanità. La capacità di dormire e cucinare all’aperto è un buon passo in avanti. Ma lo “scouting” non deve fermarsi qui. Si tratta solo di un finto passo fuori dalla nostra condizione di canarini. Bisogna colpire molto più a fondo di così. Dovremmo ricercare la capacità non solo di cucinare il cibo, ma di raccoglierlo con meno aiuti – e meno intralci – dalle complessità del commercio. E tutto questo sta diventando giorno per giorno di importanza pratica crescente. Praticare lo “scouting”, dunque, ha connessioni naturali con il problema della vita.

Un nuovo approccio al Problema della Vita

Il problema del vivere, alla base, è un problema economico. E questo da solo è brutto abbastanza, anche in un periodo di cosiddetta “normalità”. Ma la vita è stata considerevolmente complicata ultimamente, in vari modi: dalla guerra, da problemi di libertà personali, e da “minacce” di un tipo o dell’altro. Si sono creati aspri antagonismi. Stiamo subendo la pessima miscela di alti prezzi e disoccupazione. È una condizione mondiale: risultato di una guerra mondiale.

Lo scopo di questo breve articolo non è quello di soffermarsi al livello di queste grandi questioni. La cosa più vicina ad una sfacciataggine del genere, sarà quella di suggerire posti a sedere più comodi e più aria fresca per coloro che devono affrontarle. Un grande professore una volta disse che “l’ottimismo è ossigeno”. Stiamo caricandoci di tutto l’ossigeno possibile, per il grande compito che ci sta davanti?

”Aspettiamo” ci dicono, “fin quando sarà risolto questo maledetto problema del lavoro. Poi avremo tutto l’agio di fare grandi cose”.

Ma supponete che mentre stiamo aspettando, l’occasione per fare sia passata?

Non c’è bisogno di dirlo, che dovremmo lavorare sul problema del lavoro. Non solo la questione “capitale e lavoro”, ma il vero problema del lavoro: come ridurre l’ingrata fatica quotidiana. Sforzi e fatiche della vita dovrebbero, aumentando gli apparecchi che risparmiano lavoro, formare una porzione sempre minore della giornata e dell’anno lavorativo medio. Tempo libero e fini più alti dovrebbero formare una porzione crescente della nostra vita.

Ma questo tempo libero, significherà davvero qualcosa di “più alto”? È una bella domanda. L’arrivo del tempo libero creerà da solo un problema: si “risolve” quello del lavoro, e nasce quello del tempo libero. Sembra non ci sia scampo, dai problemi. Abbiamo trascurato di migliorare il tempo libero che sarebbe nostro come risultato della sostituzione di pietra e bronzo con ferro e vapore. Molto probabilmente siamo stati imbrogliati sulla massa di questo tempo libero. L’efficienza dell’industria moderna è stata collocata al 25 per cento delle sue ragionevoli possibilità. Può essere una stima troppo alta, o troppo bassa. Ma il tempo libero che riusciamo ad avere, è forse utilizzato secondo un’efficienza più alta?

L’approccio comune al problema del vivere si rapporta al lavoro piuttosto che al gioco. Possiamo aumentare l’efficienza del nostro tempo di lavoro? Possiamo risolvere il problema del lavoro? Se si, possiamo ampliare le opportunità per il tempo libero. Un approccio nuovo, invertirebbe questo processo. Possiamo incrementare l’efficienza del nostro tempo disponibile? Possiamo sviluppare le opportunità del tempo libero come aiuto per risolvere il problema del lavoro?

Un’energia non sfruttata: il nostro tempo disponibile

Quanto tempo abbiamo a disposizione, e quanto potere esso rappresenta?

La grande massa del popolo che lavora – lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, casalinghe – non hanno tempo messo da parte per “vacanze”. L’impiegato di solito ha un permesso di due settimane, pagato, ogni anno. Gli impiegati del Governo hanno trenta giorni. Gli uomini d’affari abitualmente si concedono due settimane o un mese. I coltivatori possono stare lontani dal lavoro per una settimana o più alla volta, sostituendosi l’un l’altro. Le casalinghe possono fare lo stesso.

Per quanto riguarda il lavoratore dell’industria – in fabbrica o in miniera – la sua “vacanza” media è sin troppo lunga. Dato che è “congedo senza stipendio”. Secondo recenti statistiche ufficiali, il lavoratore industriale medio degli Stati Uniti, in tempi normali, è impegnato circa quattro quinti del tempo: diciamo 42 settimane l’anno. Le altre dieci settimane è occupato a cercare occupazione.

Proporzionalmente il tempo davvero disponibile per l’Americano medio adulto appare, quindi, davvero scarso. Ma una buona quantità ha a disposizione (o si prende) circa due settimane l’anno. Il lavoratore industriale durante le stimate dieci settimane fra i due lavori deve naturalmente continuare a vivere e mangiare. I suoi risparmi possono consentirgli di farlo senza eccessive preoccupazioni. Potrebbe, se si sentisse di risparmiare tempo dalla sua caccia al lavoro, e se fossero disponibili strutture adatte, passare due delle sue dieci settimane in una vera vacanza. In un modo o nell’altro, quindi, l’adulto medio in questo paese potrebbe dedicare ogni anno un periodo di circa due settimane a fare cose di sua scelta.

Qui c’è un enorme energia non sfruttata: il tempo disponibile della popolazione. Supponiamo che anche solo l’un per cento fosse dedicato a uno scopo particolare, come l’aumento delle strutture per la vita comune all’aria aperta. Si tratterebbe di più di un milione di persone, che rappresentano oltre due milioni di settimane all’anno. È l’equivalente di 40.000 persone occupate a tempo pieno.

Una base da campo strategica: la linea degli Appalachi

Dove potrebbe, questa forza imponente, fissare il suo campo strategico? I terreni da campo, naturalmente, hanno bisogno di zone naturali. Fortunatamente in America ce ne sono ancora disponibili. Sono zone non costruite, o poco costruite. Eccetto negli Stati Centrali le aree che rimangono naturali sono per la maggior parte fra le catene montuose: Sierras, Cascades, Montagne Rocciose a ovest, e i Monti Appalachi a est.

In varie aree del paese sono state destinate ampie zone all’uso per campeggi e altri scopi simili. Molte di queste sono nell’ovest, dove si collocano ampie zone di proprietà dello Zio Sam. Sono lo Yosemite, lo Yellowstone e altri Parchi Nazionali, che coprono circa due milioni e mezzo di ettari. È stato compiuto uno splendido lavoro, adattando questi parchi all’uso. Anche il sistema delle Foreste Nazionali, che copre circa cinquanta milioni di ettari – principalmente all’ovest – è attrezzato a scopi di tempo libero.

È stato attivato un grande servizio pubblico in questi Parchi e Foreste, per la vita all’aria aperta. Sono stati chiamati “campi da gioco per il popolo”. E lo sono, per la gente dell’ovest, e per quelli dell’est che si possono permettere tempo e soldi per un lungo viaggio in una carrozza Pullmann. Ma i terreni da campo, per essere della massima utilità alla gente, dovrebbero essere il più vicini possibile ai centri di popolazione. E questo significa all’Est.

Accade fortunatamente che ci sia, lungo la parte più popolata degli Stati Uniti, una fascia piuttosto continua di terreni poco edificati. Sono contenuti entro una serie di catene che formano i Monti Appalachi. Parecchie aree di Foresta Nazionale sono state acquisite in questa fascia. Le montagne, che in parecchie occasioni possono competere con i panorami dell’Ovest, stanno a un giorno di viaggio da centri che contengono più di metà della popolazione degli Stati Uniti. La regione si estende attraverso i climi del New England e della cotton belt; comprende popoli e ambienti del Nord e del Sud.

La linea del crinale teorico degli Appalachi si affaccia sulla maggior parte delle attività nazionali. Le aspre terre di questo crinale formano la base strategica per un campo nazionale del gioco e del lavoro.

Pensiamo ad un gigante, ritto sul crinale di queste montagne, con la testa che sfiora le nuvole fluttuanti. Cosa vedrebbe dal suo punto di osservazione, passeggiando per tutta la lunghezza della catena da nord a sud?

Partendo dal Monte Washington, il punto più settentrionale a nord-est, l’orizzonte mostra uno degli antichi territori di caccia degli Stati Uniti, i “Northwoods”, terra di abeti puntuti che si estende dai laghi e fiumi del Maine settentrionale a quelli degli Adirondacks. Passando attraverso le Green Mountains e i Berkshires fino ai Catskills, il gigante vedrebbe per la prima volta l’est affollato: una catena di fumose città-alveare che si estende da Boston a Washington e contiene un terzo della popolazione dello spartiacque Appalachi. Oltre il Delaware Water Gap e il Susquehanna, sulle pittoresche pieghe degli Alleghany oltre la Pennsylvania, noterà altre colonne di fumo: i grandi impianti fra Scranton e Pittsburgh che sputano la materia base dell’industria moderna, ferro e carbone. Per contrasto e respiro, passa oltre il Potomac vicino a Harpers Ferry, e si spinge nei boschi selvaggi degli Appalachi meridionali, dove trova conservati molti degli aspetti dei tempi di Daniel Boone. Qui trova insieme sul Monogehela il carbone nero del bitume e quello bianco dell’energia idrica. Continua lungo la grande divisione dell’Ohio superiore, e vede scorrere acque infinite, a volte in terribili inondazioni, acque capaci di generare immense energie idroelettriche e di portare la navigazione verso corsi d’acqua minori. Guarda oltre il Natural Bridge e sui campi di battaglia attorno a Appomatox. Si trova infine nel mezzo della grande fascia boscosa di Carolina. Ora sta in cima al Mount Mitchell, il punto più alto a est delle Montagne Rocciose, e conta sulle sue lunghe e grandi dita le opportunità che ancora aspettano di essere colte, lungo la linea di crinale che ha appena percorso.

Per prime, annota le possibilità per il tempo libero. Lungo gli Appalachi Meridionali, lungo i Northwoods, e anche lungo gli Alleghanies che serpeggiano fra le fumose città industriali di Pennsylvania, vede ampie aree di foreste intatte, terre a pascoli, corsi d’acqua, che con attrezzature adeguate e tutela potrebbero far respirare una vera vita agli sgobboni delle città alveare lungo la costa Atlantica e altrove.

Per seconde, annota le possibilità per la salute e il recupero. L’ossigeno nell’aria di montagna lungo il crinale degli Appalachi è una risorsa naturale (e una risorsa nazionale) che irraggia verso il cielo il suoi enormi poteri salutari, di cui solo una piccolissima percentuale è usata per il recupero umano. È una risorsa che potrebbe salvare migliaia di vite. I sofferenti di tubercolosi, anemia, malattie mentali, attraversano l’intero spettro della società umana. Molti di loro sono senza prospettive, anche quelli economicamente garantiti. Stanno in città, e anche in campagna. Perché il coltivatore, e specialmente la moglie del coltivatore, non sfugge allo stritolamento della vita moderna.

La maggior parte dei sanatori esistenti sono perfettamente inutili per coloro che soffrono di malattie mentali: le più terribili, di solito, fra le malattie. Molti di questi malati potrebbero essere curati. Ma non solo attraverso una “terapia”. Hanno bisogno di ettari, non di medicine. Migliaia di ettari di queste terre di montagna dovrebbero essere dedicati a loro, e intere cittadine r progettate e attrezzate per le cure.

Subito dopo le possibilità per il tempo libero e le cure, il nostro gigante annota, come terza grande risorsa, le possibilità della fascia degli Appalachi per l’occupazione sulla terra. Questo solleva un problema che sta diventando urgente, grave e prioritario: la redistribuzione della popolazione.

La popolazione rurale degli Stati Uniti, e degli Stati Orientali adiacenti agli Appalachi, è ora scesa sotto quella rurale. Per l’intero paese è crollata dal 60 per cento del totale nel 1900, al 49 per cento nel 1920; per gli Stati Orientali è caduta, nello stesso periodo, dal 55 al 45 per cento. Nel frattempo l’area pro capite di terra coltivata è scivolata, negli Stati Orientali, da 1,35 ettari a meno di 1 ettaro. È un restringimento di circa il 28 per cento in 20 anni: negli Stati dal Maine alla Pennsylvania è stato del 40 per cento.

Nella fascia degli Appalachi ci sono probabilmente 10 milioni di ettari di pascoli e terre agricole che aspettano di essere messi a frutto. Qui c’è spazio per un’intera nuova popolazione rurale. Qui c’è un’opportunità – se solo se ne potesse trovare il modo – per quella contro-migrazione dalla città alla campagna che si è tanto spesso invocata. Ma il nostro gigante che riflette su questa risorsa è abbastanza giudizioso per sapere che il suo uso dipende da un nuovo patto per il sistema agrario. Lo sa se si è mai chinato a dare uno sguardo agli occhi infossati del “cracker” in Carolina, o dello “hayseed” nelle montagne verdi.

Il territorio a foreste, come quello agricolo, potrebbe dimostrarsi un’opportunità per l’impiego permanente all’aria aperta. Ma ancora ciò dipende da un nuovo patto. La forestazione deve sostituire la devastazione dei tagli indiscriminati per legname, e la conseguente occupazione occasionale. E questo il gigante lo sa se ha guardato ai taglialegna senza fissa dimora “non me ne frega niente” dei Northwoods.

Queste sono le visuali, queste le opportunità, viste dallo spirito osservante dal crinale degli Appalachi.

Le potenzialità di un nuovo approccio

Poniamo ora all’osservatore saggio e preparato la particolare questione che ci sta di fronte: quali sono le possibilità di un nuovo approccio al problema della vita? È praticabile, e vale lo sforzo, lo sviluppo di una vita comunitaria all’aperto, come uscita e pausa dalle varie pastoie della civilizzazione commerciale? Dall’esperienza di osservazioni e riflessioni sul crinale, ora è possibile dare una risposta.

Ci sono parecchi possibili guadagni, da un approccio simile.

Primo, ci sarebbe “ossigeno”, che sta per parecchio ottimismo. Due settimane trascorse davvero all’aria aperta – ora, quest’anno e il prossimo – sarebbero un po’ di vita vera per migliaia di persone che sarebbero sicure di averne prima di morire. Avrebbero un po’ di divertimento, indipendentemente dal “risolvere problemi”. Questo non recherebbe alcun danno ai problemi e aiuterebbe le persone.

Poi c’è un problema di prospettiva. La vita, in due settimane sulla cima di una montagna, mostra tante cose sulla vita nelle altre cinquanta settimane giù in basso. Queste ultime potrebbero anche essere viste nel loro insieme, a parte il caldo, il sudore, le irritazioni, Ci sarebbe l’occasione di tirare un respiro, di studiare le forze dinamiche della natura, e le possibilità di scaricare un po’ su di loro il peso portato ora dalle spalle degli uomini. Il rilassato studio di queste forze potrebbe produrre un più ampio, misurato, illuminato approccio ai problemi dell’industria. Che apparirebbe nella sua vera prospettiva: uno strumento per la vita, e non un fine in sé stessa. Una vera separazione della vita ricreativa e non industriale, sistematicamente da parte del popolo e non spasmodicamente da parte di pochi, dovrebbe enfatizzare la propria distinzione da quella industriale. Dovrebbe stimolare la domanda per ampliare l’una e ridurre l’altra. Dovrebbe immettere nuovo entusiasmo nel movimento sindacale. Vita e riflessioni di questo tipo dovrebbero porre in luce il bisogno di andare alle radici dei problemi industriali, e di evitare pensiero superficiale e azioni precipitose. Il problemi del coltivatore, del minatore di carbone, del taglialegna, potrebbero essere studiati intimamente e con minima parzialità. Un approccio di questo genere dovrebbe dare l’equilibrio che porta alla comprensione.

Infine, questi sarebbero nuovi elementi per soluzioni costruttive. L’organizzazione di una vita da campo di genere cooperativo tenderebbe a risucchiare popolazione dalle città. Venuti da visitatori, non vorrebbero più tornare indietro. Diverrebbero desiderosi di stabilirsi in campagna, di lavorare all’aperto, di giocare all’aperto. I vari campi avranno bisogno di rifornimenti. Perché non produrre cibo, oltre che consumarlo, su un piano cooperativo? Campi per la produzione di alimenti dovrebbero venire come conseguenza naturale. C’è anche bisogno di legname. Si dovrebbero incoraggiare operazioni su piccola scala nelle varie Foreste Nazionali degli Appalachi. Il governo ora afferma che ciò è parte della sua politica forestale. La vita da campo stimolerebbe la forestazione così come una migliore agricoltura. L’occupazione, in entrambe, tenderebbe ad aumentare.

Quanto queste tendenze possano svilupparsi, nemmeno l’osservatore più accorto potrebbe dirlo. Si dovrebbe procedere passo dopo passo. Ma le tendenze almeno si sarebbero stabilite. Sarebbero canali tracciati verso realizzazioni nel campo della vita: tagli trasversali a quelli che ora portano ad una distruttiva cecità.

Un progetto di sviluppo

Sembra, dunque, che alla fine valga la pena di dedicare qualche energia per trovare un modo migliore per l’uso del tempo libero. Il tempo disponibile per l’uno per centro della nostra popolazione sarebbe equivalente, come calcolato sopra, all’attività continuativa di circa 40.000 persone. Se questa gente fosse sul crinale, e tenesse gli occhi aperti, vedrebbe le cose che poteva vedere il gigante. A ben vedere, una forza di 40.000 persone sarebbe di per sé un gigante. Potrebbe percorrere la linea del crinale e sviluppare le varie opportunità. È questo il lavoro che proponiamo: un progetto di sviluppo delle opportunità, per il tempo libero, la salute, il lavoro, nella regione degli Appalachi.

Il progetto è per una serie di comunità dedicate al tempo libero attraverso la catena montuosa degli Appalachi, dal New England alla Georgia, collegate da un sentiero percorribile a piedi. Lo scopo è quello di costituire la base per uno sviluppo più esteso e sistematico della vita comunitaria all’aperto. È un progetto di architettura residenziale e comunitaria.

In questo saggio non viene proposto un piano per organizzare o finanziare il progetto. L’organizzazione è materia di dettaglio, da affrontare con cautela. Il finanziamento dipende da interessi pubblici di carattere locale nelle varie regioni interessate.

Ci sono quattro caratteristiche principali del progetto Appalachi:

1 – Il Sentiero

L’inizio di un sentiero degli Appalachi esiste già. È iniziato a comporsi da parecchi anni, in diversi luoghi lungo la linea. Si è fatto un lavoro particolarmente buono nel costruire sentieri da parte dello Appalachian Mountain Club, nelle White Mountains in New Hampshire, e da parte del Green Mountain Club in Vermont. Quest’ultima associazione ha già costruito il Long Trail, nei più di 300 chilometri attraverso le Green Mountains: quattro quinti della distanza dalla linea del Massachusetts a quella del Canada. È un progetto che logicamente sarà ampliato. Quello che le Green Mountains sono per il Vermont, gli Appalachi sono per gli Stati Uniti dell’est. Quello che si ipotizza, quindi, è un “lungo sentiero” sulla completa estensione della linea teorica di crinale degli Appalachi, dalla cima più alta al nord alla cima più alta a sud: da Mount Washington a Mount Mitchell.

Il sentiero si dividerà in sezioni, ciascuna consistente preferibilmente in una porzione ricadente in uno Stato, o un suo sottomultiplo. Potrebbero sorgere difficoltà per l’uso di proprietà private, specialmente nelle terre agricole lungo gli attraversamenti tra una catena montuosa e l’altra. Potrebbe essere talvolta necessario ottenere una concessione dallo Stato per l’uso dell’esproprio. Queste questioni potrebbero facilmente risolversi, premesso che ci sia sufficiente interesse pubblico locale per il progetto nel suo insieme. Le varie sezioni dovrebbero trovarsi sotto una specie di controllo generale federale, ma in questo saggio non si fanno ipotesi riguardo a tale forma organizzativa.

Non tutto il percorso di una sezione può naturalmente essere realizzato in una volta. È una cosa di parecchi anni. Al massimo, i lavori intrapresi in una singola stagione dovrebbero completare un segmento utilizzabile, come fino in cima o attraverso una vetta. Una volta completato, dovrebbe essere aperto all’uso locale e non attendere il completamento di altre sezioni, Ciascuna porzione costruita dovrebbe, naturalmente, essere mantenuta in modo rigoroso, senza consentirne il degrado per disuso. Un sentiero ha l’utilità del suo segmento minore.

Il sentiero potrebbe essere reso, a ciascuno stadio di realizzazione, di immediato valore strategico nella prevenzione e lotta agli incendi boschivi. Stazioni di guardia potrebbero venire localizzare ad intervalli lungo il percorso. Un servizio forestale antincendio potrebbe essere organizzato in ciascun segmento, e mantenersi in contatto coi servizi dei governi Federale e Statale. Il sentiero diverrebbe così una linea di lotta contro gli incendi.

2 -Campi rifugio

Si tratta delle abituali strutture parallele dei sentieri che sono state realizzate nelle White e Green Mountains. Sono gli attrezzi d’uso del sentiero. Dovrebbero essere collocati a distanze opportune, tali da consentire un comodo trasferimento di una giornata dall’uno all’altro. Dovrebbero essere sempre attrezzati per dormire e alcuni per servire pasti, come nel caso degli chalets svizzeri. È richiesta una rigida regolamentazione per essere sicuri che queste attrezzature siano usate, e non abusate. Per quanto possibile l’apertura e costruzione del sentiero e dei campi rifugio dovrebbe essere fatta da lavoratori volontari. Per il volontario “lavoro” è davvero “gioco”. Lo spirito di cooperazione, come è comune in queste imprese, dovrebbe essere continuamente stimolato. Tutta l’opera dovrebbe essere condotta senza profitti. Il sentiero deve essere ben vigilato: contro il ladro e contro il profittatore.

3 - Gruppi di Comunità

Sorgeranno naturalmente da rifugi e locande. Ciascuno consisterà in un piccolo gruppo sul o vicino al sentiero (magari sulla riva di un lago) dove è possibile vivere in abitazioni separate. Una comunità del genere può occupare un certo spazio, cinquanta ettari o magari di più. Questo dovrebbe essere comperato e mantenuto come parte del progetto. Di esso non si dovrebbero vendere singoli appezzamenti. Ciascun campo sarebbe una comunità proprietaria del proprio spazio, e non un’impresa immobiliare. L’uso delle abitazioni private, come altre fasi del progetto, dovrebbe avvenire senza profitti.

Questi campi comunitari dovrebbero essere accuratamente progettati in anticipo. Non si dovrebbe consentire che divengano troppo popolosi, il che sarebbe contrario allo stesso principio per cui sono stati creati. Più persone dovrebbero essere sistemate in più gruppi, non in gruppi più grandi. C’è spazio, senza affollarsi, nella regione degli Appalachi, per una popolazione parecchio numerosa alloggiata in questi campi. La loro localizzazione dovrebbe formare un elemento portante della pianificazione e struttura regionale.

Queste comunità sarebbero usate per vari tipi di attività non-industriali. Potrebbero eventualmente organizzarsi per scopi particolari: tempo libero, cura, e per l’istruzione. Si potrebbero istituire scuole estive o campi didattici stagionali, e organizzare corsi scientifici viaggianti e sistemati nelle varie comunità lungo il percorso. L’accampamento comunitario dovrebbe diventare qualcosa più di un “campo da gioco”: dovrebbe stimolare qualunque filone di impegno non-industriale all’aperto.

Campi per l’alimentazione e l’agricoltura

Questi non si potrebbero organizzare da subito. Verrebbero più tardi, come sviluppo successivo. Il campo agricolo è il naturale sviluppo di quello comunitario. Qui con lo stesso spirito di cooperazione e azione concertata, i cibi e prodotti consumati nella vita all’aria aperta saranno seminati e raccolti.

I campi per l’alimentazione e l’agricoltura possono essere fondati come comunità speciali nelle valli adiacenti. Oppure combinati coi campi comunitari, aggiungendo terre agricole circostanti, Il loro sviluppo potrebbe fornire un’opportunità concreta di sperimentare praticamente una questione fondamentale nel problema di vivere. Sarebbe il modo di provare il “ritorno alla terra”. Sarebbe una possibilità per chi è ansioso di sistemarsi in campagna: aprirebbe una possibile fonte di impiego nuovo, e di cui si avverte il bisogno. Comunità di questo tipo sono ben rappresentate dalla Hudson Guild Farm in New Jersey.

Legna da ardere, legname vario e da costruzione sono altri bisogni di base per campi e comunità lungo il sentiero. Anche essi possono essere coltivati nei boschi come parte dell’attività di campo, anziché acquistati al mercato del legname. Il nucleo di una attività del genere è già stato attivato a Camp Tamiment, in Pennsylvania, su un lago non lontano dal percorso proposto per l’Appalachian Trail. Il campo è stato stabilito da un gruppo di lavoro di New York City. Hanno realizzato una segheria su un appezzamento di 800 ettari e hanno costruito i capanni della comunità col proprio legname.

I campi agricoli possono essere supplementati da campi legname tramite acquisizione (o affitto) di terreni boscosi. Dovrebbero naturalmente essere gestiti con criteri di forestazione così da avere una certa quantità costante di legname in crescita. La questione potrebbe essere sviluppata attraverso un contratto di vendita legname a lungo termine col Governo Federale riguardo a qualcuna delle Foreste Nazionali degli Appalachi. Anche questa sarebbe un’opportunità di occupazione stabile, solida, salubre all’aria aperta.

Elementi di un fascino drammatico

I risultati che si possono ottenere nella vita da campo e di esplorazione, sono patrimonio comune di quanti ci sono cresciuti. La comunità di campo è santuario e rifugio dalla competizione quotidiana della vita produttiva. Essenzialmente, è un ritrarsi dalla logica del profitto. La cooperazione sostituisce l’antagonismo, la fiducia il sospetto, l’emulazione la competizione. Un sentiero sugli Appalachi, con i suoi campi, le comunità, le sue sfere di influenza lungo la linea del crinale, dovrebbe con una ragionevolmente buona gestione riuscire in questi obiettivi. Che hanno al proprio interno gli elementi di un profondo, drammatico fascino.

Il fascino della vita da scout può essere il più formidabile nemico del fascino del militarismo (una cosa da cui questa nazione è minacciata tanto quanto le altre). Si avvicina moltissimo, tra le altre cose sinora ipotizzate, ad offrire quanto il professor James una volta definì un “equivalente morale della guerra”. Fa appello agli istinti primordiali di eroismo combattente, di servizio volontario e lavoro per una causa comune.

Istinti che sono forze racchiuse in ogni essere umano, e che chiedono uno sbocco. Questo è oggetto di giuramento per il ragazzo o la ragazza del movimento scout, ma non dovrebbe limitarsi ai giovani.

La costruzione e tutela di un sentiero sugli Appalachi, con le varie comunità, interessi e possibilità, potrà essere almeno uno di questi sbocchi. C’è un lavoro per 40.000 anime. Il sentiero potrebbe essere realizzato, letteralmente, come linea di battaglia contro il fuoco e le inondazioni,e anche contro le malattie. A battaglie come queste, contro i nemici comuni dell’uomo, manca sempre – e vero – la “botta” che evoca l’uomo contro l’uomo. C’è solo un motivo: la pubblicità. Il militarismo è stato reso colorato, in un mondo di grigiore. Ma la cura della campagna, che instilla la vita da scout, è un elemento vitale in qualunque protezione della “casa e patria”. Ciò che già esiste, può essere reso spettacolare. Qui c’è qualcosa che vale la pena di mettere in scena.

Nota: dello stesso autore è disponibile sul mio sito un saggio del 1930 che riprende in modo pure inusuale un altro tema allora di estrema modernità: le autostrade. Lo Appalachian Trail, anche se non sembra aver segnato sinora in modo indelebile la cultura della pianificazione, è comunque una grande iniziativa tangibile, viva e operante. Trovate informazioni soprattutto al sito della Appalachian Trail Conference

Un ultimo, curiosissimo link è quello con il sito della Royal Holloway University of London, Department of Italian, dove un testo biografico-critico su Benton MacKaye è usato come esercizio di traduzione dall'inglese in italianovalido per gli esami della sessione 2000. (fb)

Silvio Ardy , Proposta di creazione di un Istituto Italiano di Urbanesimo e di Alti Studi Municipali, Congresso Internazionale dell'Urbanesimo, Torino 28 maggio 1926, IV Tema, S.A.V.I.T. Società Anonima Vercellese Industria Tipografica, MCMXXVI. Il testo integrale, con una nota introduttiva di Fabrizio Bottini

INDICE

Che cos’è l'Urbanesimo

. premessa

. i fenomeni urbanistici

. se l'Urbanesimo sia una scienza

Come lo si coltiva all'estero

. sguardo generale

. l'Union Internationale des Villes

L'urbanesimo in Italia

. enti, esposizioni, congressi

. l'Urbanesimo in Italia è soprattutto in azione

. necessità di un Ente Nazionale di coltura urbanistica

L'Istituto come scuola

. l'Istituto della Sorbona

. considerazioni

L'Istituto Italiano (nella II parte)

. i criteri informatori

. inquadramento fra gli attuali Istituti d'insegnamento superiore

Il programma

. corso comune

. sezione tecnica

. sezione amministrativa

. ordinamento della scuola

. diplomi

L'Istituto come Associazione Urbanistica (nella parte III)

. servizi generali

. servizio di consulenza

. dei Soci, del Consiglio Generale e della Presidenza

Bilancio dell'Istituto

Conclusione

Nota introduttiva

Introducendo la sua raccolta di saggi sulle origini dell’urbanistica moderna italiana, qualche anno fa Giulio Ernesti descriveva così la fine degli anni Venti: “L’architetto urbanista forzava ed esaltava il ruolo fondamentale della componente artistica, la preponderanza dei valori estetici, sino ad ipotizzare l’assorbimento dell’urbanistica nella sfera dell’architettura, a considerarla parte dell’architettura e quindi di sua specifica competenza. Era possibile così negare la necessità di istituti particolari e sostenere come sufficiente l’insegnamento che dell’urbanistica veniva impartito nelle scuole di architettura”.

”Istituti particolari”: come quello, appunto, proposto da Silvio Ardy a Torino nel 1926, avversato dal sindacato fascista architetti che vede anche e soprattutto nell’urbanistica l’occasione per una nuova visibilità sociale e potere professionale. Del resto, l’immagine pubblica degli uffici municipali non usciva benissimo dalle sfide urbanistiche dei primi anni del Novecento: la modernizzazione aveva lasciato molte profonde e indesiderate tracce nelle principali città italiane, e gli apparati tecnici e amministrativi dei Comuni (forse senza tutte le colpe), erano in qualche modo visti come i responsabili dei ritardi nell’affrontare l’emergenza. Ardy riconosce anche questi aspetti, ma vuole rilanciare ruolo e competenze dei civil servants italiani, attraverso la nuova disciplina complessa dell’Urbanismo, modellata soprattutto sul modello francese delle alte scuole amministrative.

È un approccio complesso, e per molti versi sorprendente nell’accostare competenze che per il lettore di oggi appaiono difficilmente conciliabili, ma che a ben vedere rappresentano ancora un possibile riferimento, non solo di tipo storico, per riflettere sul rapporto fra interesse pubblico, ricerca, professione, città. La figura che si afferma, come ben sappiamo, è quella dell’architetto libero professionista, legato o meno alla cultura comprensiva internazionale dei CIAM (che rappresenta per lustri pur con ovvie lacune il portato positivo di questa tendenza), e l’ipotesi di Ardy per un super-tecnico urbanista pubblico rimane in ombra, come pura testimonianza. Ha scritto Luigi Falco che questo è “il segno dell’inversione della tendenza che aveva fino ad allora visto predominare i tecnici municipali, ed è il primo segnale dell’emergere della nuova figura degli urbanisti professionisti”, divenuti poi, dal secondo dopoguerra ai nostri giorni, gli urbanisti tout court, lasciando le altre, numerose figure attive nel campo disciplinare in una posizione defilata. Resta, con tutte le eccezioni e sottolineature del caso, il valore non solo testimoniale della proposta di Ardy, che forse meglio di altri individua, se non altro, il ruolo strategico di una figura complessa, probabilmente di carattere manageriale e/o di apparato organizzativo, modernamente assimilabile ad un centro studi anziché ad uno studio/bottega professionale, in altre parole più adatto ad affrontare la complessità di quanto non si siano dimostrate, sul lungo periodo, le pur alte intuizioni e intenzioni della cultura architettonica coeva.

Non un “modello”, quindi, né un’occasione mancata, ma certo una ricca fonte di spunti di riflessione, che vale la pena di proporre integralmente al lettore di oggi, in forma comparata con altri “profili” di urbanista. (Fabrizio Bottini)

CHE COS'E' L'URBANESIMO

Premessa

Esiste in Italia, fin dal 1895, un Regio Istituto Nazionale di Archeologia, che ha il pregevole compito - e lo assolve egregiamente - di coordinare e promuovere gli studi dei gloriosi avanzi del passato, la ricerca dei ruderi di Città sepolte che testimoniano della nostra più lontana civiltà.

Non esiste ancora in Italia un Istituto che coordini e promuova gli studi per il più razionale sviluppo delle Città moderne e per il loro buon governo edile, igienico, sociale, mentre tutti i grandi e medi centri della penisola stanno seguendo un ritmo di fervido rinnovamento, prodigandosi in nuove opere grandiose che sopravanzano le antiche, e portandosi ad un altissimo livello di civiltà che può ben chiamarsi romana grandezza.

L'Istituto Italiano di Urbanesimo non è stato ancora nè attuato nè concepito, e sarà grande onore di questo Congresso avergli dato un soffio di vita.

I fenomeni urbanistici

Ma che cos'è l'Urbanesimo?

E' per esso come per il Diritto: nasce cioè con la consociazione umana. Dal momento in cui più famiglie si riuniscono nello stesso angolo della terra per procacciarsi il cibo ed aiutarsi nella difesa delle belve o dai vicini, questa forma primordiale di convivenza genera digià dei bisogni, delle aspirazioni, delle norme e consuetudini che la vita fisica impone, se anche è appena abbozzata quella morale e non è ancora nata quella intellettuale.

Così, a rigore, uno spirito primitivo di urbanesimo si sprigiona anche dal pagus, poiché a scegliere il luogo ove i nomadi si son fermati hanno contribuito la vicinanza del corso d'acqua, la posizione alta e difendibile sulla roccia, la prossimità di boschi per la caccia e per la legna, i terreni fertili da coltivare, le vie di comunicazione per qualche primo scambio di prodotti.

E' tuttavia con l' urbs che si sviluppa veramente l'arte di costruire e orientare le Città, che si ricerca il miglior terreno per la fondazione, si traccia la cerchia delle mura, si scelgono le posizioni più adatte per il tempio, il foro, il circo, le terme, il palazzo pretorio, le prigioni, si cotruiscono gli acquedotti e le cloache, si aprono le grandi vie selciate.

E quando una organizzazione sociale comincia a delinearsi, da un lato si afferma con più precise tavole il Diritto, dall'altro si sviluppa rapidamente, e per la forza stessa delle cose, l'arte urbanistica, che deve provvedere nel miglior modo a tutti i servizi - materiali, morali ed intellettuali - di cui ha bisogno la popolazione; anzitutto per non emigrare, per non ribellarsi, per non perire - interesse supremo anche dei tiranni -, in secondo luogo per prosperare nei commerci, per crescere in generazioni robuste, atte alla potenza militare, per raggiungere lo splendore delle lettere e delle arti.

Ma non mai come nella turbinosa vita della Città moderna l'arte del buon governo sociale si è dimostrata così difficile.

In una civiltà che non è mai stata così complessa, e che pertanto richiede di venir sempre più e sempre meglio ordinata, il progresso raggiunto dall'industria, dal commercio, dalle comunicazioni, da ogni ordine di scienze e di arti e dalla morale stessa, impone l'immediata inderogabile soluzione di problemi tecnici, sanitari, amministrativi, economici, sociali, che tutti attengono non solo al benessere della cittadinanza, ma alla sua stessa conservazione.

I fenomeni urbanistici giganteggiano, ed a stento li segue l'arte urbanistica, non ancora e dappertutto la scienza.

Un primo fenomeno preoccupante è quello dell'inurbamento: la grande industria svuota le campagne ed attira nuova popolazione alla Città, che non ha sempre l'attrezzatura sufficiente per riceverla.

Occorre pensare all'ampliamento dell'edilizia, su piani organici e suscettibili di ulteriore sviluppo, lasciare spazi verdi, disciplinare il sorgere febbrile degli edifizi, acquisire al demanio comunale vasti terreni per combattere il caro-terreni, commisurare la qualità delle case alla potenzialità economica dei ceti medi e popolari, promovendo la costruzione di case operaie, di città giardino, di quartieri per impiegati e professionisti; e nel contempo dettare norme per l'igiene e l'estetica di ogni tipo di abitazione. Indi occorre provvedere queste nuove zone di mercati, di scuole, di comunicazioni, di illuminazione, di tutti i servizi stradali, di uffici di polizia e di stato civile, dei servizi sanitari e di assistenza.

Un secondo fenomeno è il progresso intellettuale e morale, che impone un nuovo trattamento della Città e della Cittadinanza.

Per restare nel campo edilizio, le nuove generazioni male si alle vecchie case malsane degli antichi quartieri: sventramenti e sistemazioni nel centro medesimo della città si rendono necessari; la formazione di quartieri signorili, di quartieri d'affari, di Città degli studi diventa un canone dell'arte urbanistica. Nuovi centri cittadini vengono ricavati per decongestionare il traffico degli antichi: si abbattono gallerie, si innalzano ascensori, si gettano dei ponti, si abbattono storiche mura, si creano corsi, passeggiate e giardini.

Dal lato igienico si moltiplicano le cure per prevenire, isolare e curare le malattie contagiose, sia degli uomini che degli animali; la polizia degli alimenti richiede vigilanza oculatissima; i mercati e i macelli vengono riformati con nuovi criteri; l'eliminazione dei rifiuti domestici è oggetto di assillanti studi.

Dal lato sociale ai grandi bisogni di un'imponente popolazione si va incontro con istituti che l'autorità pubblica continuamente crea od incoraggia: dagli asili d'infanzia agli Uffici di collocamento, dal ricovero dei vecchi indigenti ai dormitori pubblici, dagli alberghi popolari ai posti di pronto soccorso, è infinita la serie dei servizi e delle provvidenze che alla Città fanno carico.

Nel campo economico sono i servizi industriali in cui essa interviene, quasi sempre direttamente, perché la loro estrema importanza per ogni ordine di cittadini le comanda di non lasciarli in balia delle private speculazioni: la fornitura del gas, dell'energia elettrica, dell'acqua, talora di importanti alimenti, come il pane, il latte, il ghiaccio, la carne congelata; il problema delle comunicazioni, i servizi di trams, di autobus, di linee metropolitane, di funicolari, di vaporetti, di vetture o automobili pubbliche; ed il problema della circolazione.

Nel campo colturale, otre ai nuovi moderni edifici delle scuole primarie, è lo studio dei bisogni ambientali, delle aspirazioni, della composizione stessa dei vari ceti cittadini che occorre compiere per sapere quali ordini di scuole secondarie, professionali, superiori creare o mantenere o sviluppare.

E tutto questo movimento, quest'azione, questo formidabile sviluppo di vita urbana devono essere regolati da un organismo centrale direttivo, il quale ha pure i suoi problemi interni da risolvere, anzitutto quelli giuridico-amministrativi, in secondo luogo quelli finanziari.

Un errore, un ritardo, un cattivo funzionamento di quest'organo possono provocare gravi sciagure, la paralisi di un dato servizio, la decadenza generale della Città: un nuovo ritrovato, un nuovo impianto, un tempestivo benefico intervento possono portare lenimento a pietose miserie, scongiurare pericoli sociali, dare un vivo impulso alla vita economica cittadina.

Se l'Urbanesimo sia una scienza

Per cui possiamo ora rispondere alla domanda che ci siamo in principio rivolti. Senza volerci avventurare in definizioni che siano modelli di docimastica, possiamo ritenere che l'Urbanesimo sia quella scienza che studia lo sviluppo edilizio, demografico e sociale delle Città ed il progresso dei servizi pubblici locali.

I due grandi pilastri su cui poggia questa scienza di avanguardia sono dunque l'edilizia e la demografia: l'urbs e la civitas.

Ma - si dirà - è veramente l'urbanesimo una scienza nuova? O, per avventura, il suo contenuto non è già quello di altre scienze?

L'obbiezione ha una parvenza di fondamento come, a ben guardare, l'ha per altre grandi correnti del pensiero umano, alle quali pure il carattere di scienza è stato giustamente riconosciuto.

La scienza urbanistica infatti si vale di tutte le atre scienze: dell'igiene come dell'economia politica, dell'ingegneria come del diritto, e vive con esse una feconda vita di relazione. Ma essa non è un semplice mosaico di altre discipline: perché le scevera, le elabora e le amalgama per armonizzarle in un tutto ispirato ad un'unica accezione: la vita urbana.

Non è dunque una fibra completamente nuova che ne forma il tessuto, ma è la colorazione che la distingue da tutte le altre. E noi di un colore nuovo da dare a questa complessa materia abbiamo veramente bisogno: sentiamo la necessità di uomini che vedano le policrome discipline sotto il colore unico del buon governo della Città: di reggitori che tutte le scienze e tutte le arti sappiano sfruttare per giungere al supremo interesse civico di avere delle cittadinanze ordinate, laboriose, sane, bene alloggiate, favorite di ogni mezzo per il loro benessere, sì da farne meravigliosi perfetti strumenti per le sempre crescenti fortune della Patria.

COME LO SI COLTIVA ALL'ESTERO

Sguardo generale

Non possiamo affermare che in tutti gli altri Paesi l'arte urbanistica sia già divenuta una scienza. Riconosciamo questo merito soltanto alla Francia, perché essa ha creato l'unico Istituto di alta coltura urbanistica - di cui avremo occasione di parlare largamente - non accontentandosi dell'Associazione Urbanistica. Questa Associazione però esiste in quasi tutti i più importanti Stati e si può dire manchi solo da noi.

Ora, se un'Associazione non può svolgere ancora un'opera didattica diretta, essa serve mirabilmente però a quegli scambi intellettuali fra gli studiosi ed a quell'azione viva nella pubblica opinione che a poco per volta preparano il nascere della scienza.

Non deve certo stupire se la Germania, la Francia, l'Inghilterra, gli Stati Uniti hanno affrontato prima di noi le spinose questioni che sono imposte dai grandi agglomerati urbani. Berlino e Parigi hanno ciascuna 4 milioni di abitanti, Londra ne ha 7 e New York ne ha quasi 8, mentre la nostra città più popolosa non arriva al milione: la creazione di grandi sobborghi, di Città satelliti o Città giardino è stata dunque per esse uno sbocco inderogabile.

Oltre a ciò, nei Paesi della grande industria le Città sorgono rapidamente e quasi per generazione spontanea attorno alle caminiere delle fabbriche, e l'applicazione dei postulati urbanistici ha luogo sotto la spinta della necessità. Da noi vi sono rarissimi esempi di Città affatto nuove: Messina che va ricostruendosi dopo il terremoto, le cittadine delle Terre Liberate, la Città dell'Aniene, Ostia, Mussolinia.

Comunque bisogna apertamente riconoscere che l'attività urbanistica è all'estero assai più sviluppata.

In tutti i campi si tengono Esposizioni e Congressi, il più delle volte internazionali.

Per l'anteguerra, senza risalire alle particolari mostre del Muncipio di Parigi nelle Esposizioni del 1889 e del 1900, occorre ricordare le Esposizioni dello «Städte Bau» di Dresda (1903), di Berlino (1910), di Düsseldorf (1912), quella di «Town Planning» a Londra (1910), accompagnata da una importante Conferenza e seguita nel 1911 da una manifestazione di carattere permanente, la «Cities and Town Planning Exhibition» presentata a Londra, Edimburgo, Dublino e Belfast.

Ed ancora a Düsseldorf, nel 1922, aveva luogo una interessante Esposizione dei piani regolatori.

Del dopoguerra basti ricordare per l'igiene l'Esposizione ed il Congresso di Strasburgo del 1923, organizzati da quell'«Institut d'Hygiène et de Bactériologie» per il centenario di Pasteur, in cui fu ampiamente trattata, fra l'altro, la questione delle spazzature domestiche; e la imminente Conferenza-Esposizione di Vienna per trattare dei problemi dell'abitazione e dell'ordinamento edilizio; conferenza che tien luogo alle precedenti del 1913 (Parigi), 1914 (Londra), 1919 (Bruxelles), 1920 (Londra), 1922 (Parigi), 1923 (Gothenbourg), 1924 (Amsterdam), e 1925 (New York), tutte organizzate da quella «Federation Internationale de l'Amenagement des Villes, des Campagnes et des Cités-Jardins», che raggruppa l'analoga «Association Française», la «Societé des Urbanistes Belges», la «Stadtsingeniörkkontoret di Göteberg, la «International Federation for Town and Country Planning and Garden Cities» di Londra, ed altre consimili.

Vienna, del resto, passa per una delle grandi capitali meglio ordinate, ed il suo piano regolatore è stato testè adottato dalla Città di gerusalemme per il suo ulteriore sviluppo.

Dal canto suo l'Unione delle Città Polacche, che già nel 1925 ha tenuto una Mostra a Posen, ha organizzato per Maggio e Giugno - contemporaneamente cioè alla Mostra di Torino che ci ospita - una analoga Esposizione Edilizia.

Un'altra Esposizione di Attività Municipale - sulla falsariga di quella di Vercelli del 1924, che le ha fornito tutti gli elementi - si sta preparando a Bukarest.

Anche nei piccoli Stati nordici del resto, come la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, la Finlandia, gli studi urbanistici sono assai in onore, e corrispondono al senso d'ordine, alla cura dell'igiene, al benessere economico, alle minori preoccupazioni politiche di quei popoli.

Una visita d'istruzione potè essere, nel 1921, effettuata con profitto dai più autorevoli membri e Funzionari del Consiglio Municipale di Parigi alla Città di Stoccolma, per rendersi conto di quei servizi amministrativi, sanitari, scolastici, edilizi e di beneficienza.

L'Union Internationale des Villes

Ma, fra tutti gli Enti urbanistici stranieri, merita di essere maggiormente illustrata per la sua attività ed importanza l'«Union Internationale des Villes et Communes», che ha sede a Bruxelles, ed alla quale l'Italia ha in questi ultimi anni aderito.

Essa, contando nelle sue file quasi tutte le Unioni Nazionali d'Europa, oltre ad alcune del Nord America e ad una quantità di Città isolate, ed essendo in relazione con le Unioni Nazionali degli altri continenti, rappresenta il più grande sforzo per il coordinamento ed il progresso dell'attività comunale nel mondo.

Delle Unioni affigliate sono fra le più salde quelle della Francia, dell'Italia, del Belgio, dell'Olanda, della Polonia, della Svizzera, della Finlandia, della Svezia, della Norvegia, della Rumenia, della Cecoslovacchia, del Canadà: ma essa sta per guadagnare anche quelle dell'Inghilterra, della Germania, degli Stati Uniti, del Giappone.

L'Union persegue i suoi scopi anzitutto con le «Tablettes documentaires», indicazioni periodiche e sistematiche di studi urbanistici generali o particolari e di opere, che essa pubblica nella sua rivista «Les Sciences Administratives»; in secondo luogo, coi suoi Congressi.

Importantissimi sono stati i tre Congressi sinora riuniti.

Il primo, quello di Gand del 1913, ha, secondo noi, gettato veramente le basi dell'urbanesimo. Esso era diviso in due Sezioni: «L'arte di costruire le Città» e «L'organizzazione della vita comunale», ed era accompagnato da una esposizione documentaria.

Vi parteciparono 161 Città di tutti gli Stati, fra cui 5 italiane: Roma, Napoli, Torino, Firenze, Vercelli; e 50 Associazioni, fra cui 3 italiane: l'Unione Statistica delle Città Italiane (Firenze), l'Istituto per le Case Popolari ed Economiche di Milano e la Società Umanitaria, pure di Milano.

Nella prima Sezione furono presentate e discusse 30 Relazioni, di cui nessuna italiana; nella seconda 33, di cui una italiana: quella del Prof. Ugo Giusti per l'Unione Statistica.

Dopo la lunga parentesi della guerra, la serie dei Congressi fu ripresa, e si tenne il 2° ad Amsterdam nel 1924. Assai meno importante del primo, vi parteciparono 75 Città; fra cui solo Milano, delle italiane, mandò i suoi rappresentanti: e vi fu discussa in modo particolare la questione dell'organizzazione dei rapporti fra le Città di tutto il monda attraverso le loro Unioni Nazionali e dello sviluppo delle reciproche informazioni; nonché quella della collaborazione dei Municipi all'opera dei grandi organismi internazionali, specie in materia d'igiene, di sanità e di provvidenza sociali.

Il 3° Congresso, imponentissimo, ebbe luogo a Parigi nel 1925 e raccolse 700 delegati, rappresentanti 35 Stati e 300 Città, di cui 25 Capitali. La partecipazione italiana fu notevole. Oltre all'Associazione dei Comuni Italiani, che l'aveva organizzata, ed all'Unione Statistica, presenziarono il Congresso i rappresentanti di Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Perugia, Alessandria, Vercelli e del Comitato della Mostra Italiana di Attività Municipale.

I temi, per il cui svolgimento furono presentate relazioni italiane che apparvero fra le migliori, furono cinque, di cui due di carattere organizzativo, e gli altri tre a carattere veramente urbanistico: «Il regime municipale nei diversi paesi», «La politica fondiaria dei Comuni e la sua influenza sul problema dell’abitazione» e «Le grandi agglomerazioni urbane».

L'URBANESIMO IN ITALIA

Enti, Esposizioni e Congressi

Esiste in Italia una scienza dell'Urbanesimo?

Rispondiamo: esistono degli studiosi. Dall'archivista che ricostruisce le linee perimetrali della sua città nei secoli, all'amministratore tecnico che studia appassionatamente la miglior direzione di un piano di ampliamento; dal privato benefattore che si dedica alla creazione di un suo grande Asilo Modello, al demografo che indaga la composizione di un particolare strato sociale; dall'Ingegnere Municipale che cerca la soluzione di aspre difficoltà per una nuova rete di fognatura nel suo Comune, al funzionario cui è stato confidato l'impianto di un moderno ufficio del Lavoro e di Previdenza, tutti studiano isolatamente una parte specifica della scienza urbanistica a un dato effetto locale, superando con encomiabili sforzi le difficoltà che offre la mancanza di una vera scienza; pochi tessono, olteché per sè, per gli altri in un determinato campo; nessuno raccoglie, coordina queste membra sparse - economiche, amministrative, tecniche, sociali - in una grande teoria urbanistica, che deve pur formare il substrato necessario per lo studio del buon governo delle Città, il terreno di coltura per lo sviluppo di queste stesse particolari discipline.

E' dalla sintesi che scaturisce più ordinata, più efficace, più vitale l'analisi; è di armonia che vivono non solo gli uomini e le cose, ma tutte le creazioni intellettuali e scientifiche.

Soltanto la vita primordiale è individuale: la vita civile è collettiva, si basa sulla organizzazione e sullo scambio.

Ora, in Italia non esiste ancora nè un Istituto, nè un'Associazione Urbanistica.

Qual è dunque lo stato attuale dell'Urbanesimo nel nostro paese?

L'Associazione dei Comuni Italiani, la Confederazione degli Enti Autarchici, l'Unione Statistica delle Città Italiane si occupano in parte di urbanesimo, pubblicando pregevoli Riviste e Bollettini propri, indicendo Congressi, partecipando a quelli internazionali.

L'ultimo convegno nazionale dell'Unione Statistica, tenutosi a Roma nel Marzo 1925, ebbe ad esempio per temi: Gli Atti dello Stato Civile - L'ordinamento degli Uffici Municipali di Statistica - Numeri indici del costo della vita - Sviluppo della Statistica Municipale.

Il Segretario dell'Unione Statistica, Prof.Giusti, ed il Segretario dell'Associazione dei Comuni, Dottor Verratti, hanno pubblicato recentemente una apprezzatissima, coscienziosa «Indagine sulle acque potabili nei Comuni del Regno». Recente e istruttivo è pure il loro studio dell'anno scorso sui Bilanci dei principali Comuni italiani.

Una manifestazione squisitamente urbanistica e completa in ogni sua parte fu la I° Mostra Italiana di Attività Municipale, tenuta in Vercelli nel 1924 (imitata poi da quella Polacca del 1925 e da quella Rumena del 1926) alla quale concorsero tutte le principali Città Italiane con la dimostrazione dei loro servizi, e che sollevò tanto entusiasmo fra gli Amministratori, i Funzionari, gli studiosi ed il gran pubblico stesso, da far nascere l'idea di ripeterla a base internazionale.

L'idea fu accolta dall'Union Internationale des Villes, e la nuova grandiosa manifestazione, assicurata dall'Italia, sta preparandosi a sorgere.

In occasione della Mostra 1924 furono tenuti a Vercelli i Congressi Nazionali degli Amministratori Tecnici ed Ingegneri Municipali, dei dirigenti delle Aziende Municipalizzate, del Dazio e dello Stato Civile.

Ottima la partecipazione italiana al già citato Congresso dell'Union Internationale des Villes, tenutosi a Parigi nel Settembre 1925: sia per il numero di delegati, sia per la presentazione degli elaborati sui diversi temi, che nel complesso superarono per organicità e per importanza quasi tutti quelli delle altre Nazioni. Uno dei temi, forse il più importante, «Il regime municipale nei diversi Paesi» era stato anzi proposto dagli italiani alla Conferenza preparatoria di Basilea, e cura dell'Avvocato Molinari e del Dott. Verratti ne era stato il questionario: degli stessi fu la relazione.

Sul tema «La politica fondiaria dei Comuni e la sua influenza sul problema delle abitazioni» chiara e lodevole fu la relazione dell'Avv. Testa di Roma; ed in fatto di piani regolatori eccellente impressione suscitò quella dell'Ing. Chiodi «Come viene impostato dalla Città di Milano lo studio del suo nuovo piano di ampliamento» con opportuni riferimenti a Parigi, a Vienna, a Bruxelles.

Così sul tema «Le grandi agglomerazioni urbane» la miglior relazione fu indubbiamente quella italiana, presentata da Municipio di Milano e stesa dall'Avv. Visconti.

Altri Congressi e Mostre su argomenti particolari di interesse urbanistico non sono mancati in Italia: basti accennare alla riuscitissima Mostra Didattica di Firenze (1925), alla Mostra Internazionale della Strada ed al V° Congresso Internazionale della Strada che si terranno a Milano nel prossimo Settembre: basta guardarci attorno, in questa magnifica II° Mostra Internazionale di Edilizia, che ci ospita, e ricordare il gruppo di Congressi che l'accompagnano e la illustrano, di cui specialmente quelli dell'Edilizia e dell'Igiene hanno col nostro maggiori affinità.

Qui a Torino sta poi felicemente sorgendo, per iniziativa della Confederazione Nazionale Inquilini, un Istituto che potrà avere un grande avvenire e grandi benemerenze: l'Ente Nazionale delle Città giardino, che si propone di svolgere la propria attività in ogni città d'Italia.

E' quasi superfluo infine accennare alla veramente gloriosa «Associazione Italiana per l'Igiene» che con tutti i suoi mezzi ha saputo acquistarsi titoli alla riconoscenza degli italiani, e gli igienisti raduna ogni anno a Congresso.

Non abbiamo inteso con questo di dare un quadro completo, ma soltanto un saggio delle più recenti manifestazioni collettive che attengono all'urbanesimo in Italia.

Impossibile dare anche un sommario elenco della letteratura urbanistica, che tratta di svariatissimi oggetti. Ma, a dimostrazione dell'importanza assunta anche da noi dagli studi delle singole discipline, accenniamo alle più importanti Riviste Tecniche, sanitarie ed amministrative.

Riviste e Bollettini Municipali - Sono fra i più ricchi e portano il più cospicuo contributo all'arte urbanistica, illustrando con genialità di esposizione e spesso con suggestivo senso d'arte le iniziative, i progetti, le realizzazioni delle rispettive Città, e presentando pure periodiche minutissime statistiche mensili della vita municipale:

- Capitolium, Rassegna di Attività Municipale del Governatorato di Roma - Città di Milano - Rivista della Città di Venezia - Il Comune di Genova - Bollettino del Comune di Napoli - Bollettino dell'Ufficio del Lavoro e della Statistica della Città di Torino - Il Comune di Bologna - Il Comune della Spezia - Il Comune di Ravenna - La Città di Brescia, etc.

Sono pure assai interessanti, specie dal punto di vista statistico:

- Bollettino Statistico del Comune di Firenze - Bollettino Statistico del Comune di Trento - Bollettino dell'Ufficio del Lavoro e della Statistica del Comune di Trieste - Bollettino Demografico del Comune di Foggia - Bollettino Statistico del Comune di Padova - Bollettino di Cronaca amministrativa e di Statistica del Comune di Verona - e pubblicazioni analoghe di Como, Varese, Cremona, Alessandria, etc.

Riviste Tecniche:

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L'urbanesimo in Italia è soprattutto azione

E' detto in una pubblicazione dell'Istituto d'Urbanesimo francese che in Francia le applicazioni della scienza urbanistica sono singolarmente in ritardo sulla scienza stessa.

Il contrario accade in Italia, dove l'arte urbanistica è largamente applicata, mentre ancora non si può dire che esista la scienza.

E veramente meraviglioso è il risveglio edilizio e sociale delle nostre belle Città italiane, degno non soltanto di un grande popolo che cresce di mezzo milione all'anno, ma dell'avvenire imperiale, nel senso più squisitamente morale, cui si va rapidamente preparando.

Fuse da un cinquantennio nell'unità nazionale dal Risorgimento, esse avevano perduto un poco della loro magnifica individualità, che fu la ragione prima della loro storia, non soltanto politica, ma intellettuale; mentre il commercio e l'industria progredivano, mentre l'agricoltura si perfezionava, sopita sembrava, per gli inciampi degli organismi centrali e per le difficoltà finanziarie medesime in cui si dibattevano esse e lo Stato, la loro attività edilizia ed urbanistica.

Ma oggi, in questa splendida ripresa di tutti i valori nazionali, cui gli altri popoli assistono ormai con chiara ammirazione, è lo Stato medesimo che le incita a valersi dei risanati bilanci: è la madre che tende ancora la mano ai suoi figli, perché, non paga di aver assicurata loro la vita di ogni giorno col tranquillo lavoro, vuole ch'essi si elevino a nuovo civile splendore.

E allora vediamo lo stesso Capo del Governo, dopo avere innalzato l'Urbe immortale alle sue vere funzioni ed alla sua vera degnità di Capitale, tracciare al Governatore, nell'atto di insediarlo, le linee della formidabile rinascita, perché Roma, centro di attrazione universale, ritorni faro di nuovissima civiltà e ritrovi il suo fulgido cammino.

E non soltanto la grandiosità dell'impresa, ma la sua stessa rapidità dovrà ricordare la maniera romana.

Molto si era fatto già in tre anni, dal 1923 al 1925, per togliere la Capitale ad uno stato di disagio di cui tutte le Amministrazioni si erano sempre invano lagnate col Governo.

Ora, in cinque anni si dovrà svolgere per Roma questo imponente programma:

1. - Opere destinate a risolvere contemporaneamente problemi della circolazione nell'interno della città e problemi di assetto edilizio.

2. - Opere destinate a promuovere lo sviluppo delle costruzioni per nuove case secondo determinati criteri di agevolazione a favore di gruppi produttori:

a) Inizio del quartiere dell'Artigianato.

3. - Opere destinate ad assicurare un assetto decoroso ad alcuni istituti di cultura:

a) Completamento degli edifici dell'Università.

b) Sede dell'Accademia di Belle Arti, della Scuola Superiore di Architettura e del pensionato artistico.

c) Nuovo palazzo per le esposizioni a Valle Giulia.

4. - Opere destinate a promuovere la liberazione di antichi monumenti e l'assetto di alcune zone di grande interesse archeologico:

a) Liberazione del Teatro Marcello.

b) Assetto del Foro Olitorio e della Piazza della Bocca della Verità.

c) Primi lavori di liberazione dell'area del Circo Massimo.

d) Sistemazione della regione della Via Appia Antica.

Milano, dalla tenace volontà realizzatrice, si è costituita un formidabile programma di opere pubbliche per 700 milioni, da svolgersi pure in cinque anni:

Nuove case popolari per 50 milioni; case per i dipendenti comunali; pavimentazione di strade, quali in granito e quali in asfalto; costruzione di nuove strade, acquisto di altri 12 potenti compressori, sviluppo della fognatura, per un complesso di 100 milioni; esecuzione del piano regolatore con larghi espropri e sistemazione di interi quartieri al centro; completamento della Città degli studi.

Dieci nuovi impianti di sollevamento dell'acqua potabile, di cui quattro pressoché ultimati in Città e sei per servire gli 11 Comuni recentemente aggregati, con una spesa di 12 milioni; nuovo macello, costruzione del tubercolosario; nuovo Palazzo degli Uffici municipali; nuovo Palazzo di Giustizia; nuovo Osservatorio Astronomico; Palazzo degli Archivi; Museo Industriale; Galleria d'Arte moderna.

Quanto al problema delle comunicazioni, che nella metropoli lombarda investe enorme importanza, non solo continuano i lavori della nuova Stazione centrale ferroviaria, ma si pensa a nuovi scali merci ed a nuove linee alla periferia.

Anche il servizio tramviario sta per ricevere un potente impulso con nuove linee di autobus elettrici od a benzina, nuove linee tramviarie, di cui una di circonvallazione più eccentrica dell'attuale, e la riforma del materiale con vetture a grande capacità ed a quattro motori.

Nè per attuare questo suo gruppo di moderne iniziative Milano ha creduto di disfarsi, come qualcuno proponeva, di qualche suo importantissimo servizio industriale municipalizzato; ma ha scelto la via del prestito, giustamente confidando per l'ammortamento nelle sue ricche risorse contributive.

Segnaliamo poi, fra i numerosissimi provvedimenti di ordine urbanistico del Municipio di Milano che è impossibile elencare, il particolare studio del problema della circolazione, ch'essa ha cercato anche di volgarizzare con una Mostra e con proiezioni cinematografiche, e l'istituzione di un servizio di ordinamento professionale per limitare il numero degli spostati.

Napoli sta risolvendo coraggiosamente i suoi leggendari problemi che formarono sempre la base di vane promesse politiche in materia di larga platonica letteratura.

In attesa di portare a termine il piano regolatore con un finanziamento di 80 milioni, l'Amministrazione ne ha disposto lo stralcio per alcune zone, per aprire nuove vie e valorizzare larghi territori vicini al centro. I progetti per il Rione Arenella (24 milioni), il Rione Materdei (5 milioni), la nuova via Ponti Rossi Capodichino (2 milioni), la nuova via Posillipo Alta Moggia Canzanella (1 milione e mezzo), e la nuova via Piazza Arenella-Due Porte (1 milione), sono approvati; due tronchi della nuova via Posillipo Alto (6 milioni) sono in corso. Si pensa pure all'ampliamento della fognatura (12 milioni).

Per le Case popolari si sono ottenute a mutuo 60 milioni.

Per l'edilizia scolastica occorre notare che per 40.000 sui 50.000 alunni di Napoli il Comune, in mancanza di fabbricati proprii, affittava case private e inadatte. Ora per 10.000 alunni sono in corso di costruzione moderni edifici scolastici; per gli altri 30.000 si stanno progettando, con una spesa di 50 milioni; e ciò varrà anche a mitigare la crisi degli alloggi, poiché le case private saranno restituite all'uso di abitazione.

Per ingrandire il suo territorio, Napoli dal 1918 sta provvedendo anch'essa alle necessarie aggregazioni dei piccoli Comuni contermini.

Sta inoltre per iniziare la nuova grande via litoranea da ovest ad est (4 milioni) per decongestionare il traffico di Piazza Municipio, Via S.Carlo, Piazza S.Ferdinando, Piazza Plebiscito e Via Cesario Console.

Genova, che troppo ristretta nel suo vecchio territorio si è testè annessa 19 Comuni contermini, portando la sua popolazione a quasi 600.000 abitanti, sta febbrilmente adattandosi al nuovo posto che le viene a spettare fra le Città italiane.

Il fervore delle opere pubbliche, dei risanamenti, delle demolizioni di colline, delle grandi passeggiate a mare, è per Genova una tradizione; da quando, trent'anni fa, si spianava l'antica Via Giulia per farne la moderna Via XX Settembre, sino a pochi anni or sono, quando si apriva la superba strada del Lido.

Ma ora essa deve pensare agli accresciuti bisogni proprii e dei Comuni aggregati, qualcuno dei quali, come Sampierdarena, costituisce un centro demografico di 50.000 abitanti, e tutti sono saturi di vita industriale e svolgono una intensissima attività economica.

Il piano regolatore, uno dei più difficili per la varietà delle zone, per le pendenze, per l'angustia della lingua di terra ove si stringe Genova vecchia, fra le colline e il mare, procede tuttavia in vari punti, come nella zona di Albaro; si studia l'allargamento della Via Carlo Felice, nel cuore della Città, e si progetta una strada di allacciamento fra la Stazione Principe e la Via Milano, preventivata in 3 milioni.

La fognatura segue le fabbricazioni delle nuove zone. Si sta costruendo la grande diga dell'acquedotto di Val Noci, il quale costerà 30 milioni. Per le case popolari e relative strade si lavora già per 50 milioni. Nuove strade sono continuamente necessarie per seguire le costruzioni incessanti, che ormai hanno raggiunto quasi il culmine delle colline: 4 milioni costa soltanto la Via Napoli, che si svolge sulle alture; 15 milioni costeranno le due nuove gallerie fra le Piazze Corridoni e Corvetto.

Si progettano per 2 milioni gli edifici per i servizi generali, l'autorimessa e il piano caricatore della nettezza urbana.

Procede la costruzione del grandioso Ospedale di S.Martino, i cui due ultimi padiglioni sono costati oltre 2 milioni.

Le scuole di ogni ordine - che per Genova costituiscono un giusto titolo di orgoglio - vennero accresciute dal 1922 ad oggi di 5 caseggiati, del costo di 10 milioni, arditamente superandosi gravi difficoltà per le fondazioni su terreno a forte pendenza. Altre due scuole sono in progetto, e più di 3 milioni il Municipio ha speso per collocare la R.Scuola di Ingegneria Navale nel bel palazzo Cambiasio di Albaro.

In Piazza di Francia infine si sta progettando, col Monumento ai Caduti, un grande Palazzo dell'Arte e dello Sport della grande Genova.

Quanto alle comunicazioni, v'ha in progetto, oltre ad un'autorimessa per gli autobus, (2 milioni), la costruzione della Metropolitana, da Sampierdarena a Quarto dei Mille, preventivata in 150 milioni.

Torino, che veramente conserva tutta la sue regalità, grande centro intellettuale e industriale, tranquillo e operoso, sta procurando nuova copia di energia alle sue fabbriche mercè la grandiosa derivazione del torrente Orco, da cui ricaverà 150 milioni di Kwo, con una spesa di 100 milioni di lire. E nuovi impianti termici di riserva sta apprestando per la propria azienda Elettrica Municipale.

L'aumento di materiale mobile e nuovi depositi per l'Azienda Tramviaria (5 milioni), la sottostazione per l'alimentazione della rete tramviaria (5 milioni), l'aumento di potenzialità dell'Acquedotto, la costruzione del pontone fisso lungo il Po per la linea aerea con Trieste, nuovi Lavatoi pubblici, nuove scuole (13 milioni), il nuovo Archivio di Stato (2 milioni e mezzo), i nuovi impianti ai mercati (1 milione), fanno parte del grandioso programma.

L'acquisto di nuove autoinnaffiatrici, nuovi pozzetti raccoglitori delle spazzature, nuove pavimentazioni in asfalto o in congelamento bituminoso nelle strade cittadine; l'allargamento di Via Roma ed il risanamento dei fabbricati laterali, la sistemazione di nuove vie e nuovi cavalcavia ferroviari; nuovo ponti sul Po e sulla Stura; nuovi canali di fognatura bianca e nera (circa 5 milioni all'anno), la deviazione di altri (2 milioni e mezzo), l'Asilo infantile modello, le «Scuole Materne», il nuovo Ospedale e le nuove Cliniche Universitarie (52 milioni di cui 23 del Comune), il nuovo Mattatoio (45 milioni), l'edificio della Colonia Marina a Loano (3 milioni), le Case Popolari: 4000 locali, il progetto della Città giardino, costituiscono altrettante iniziative che tornano di alto onore alla bella Città subalpina, come la lotta contro l'accattonaggio ed altri importanti provvedimenti sociali.

Anche per Palermo è recentemente venuto, nonché l'indicazione, l'aiuto del Governo, che nel suo programma di resurrezione del Mezzogiorno ha voluto comprendere fra le prime la grande Città siciliana, facendole concedere dal Consorzio di Credito per le opere pubbliche un mutuo garantito dallo Stato di 300 milioni per opere di miglioramento igienico-sanitario, ed assegnandole 11 anni di tempo per eseguirle.

Ed ecco l'elenco dei lavori che verranno compiuti:

Ricostruzione e sistemazione di strade (35 milioni); Risanamento dell'abitato e piano regolatore (105 milioni); Case ultrapopolari (28 milioni); ricostruzione dell'antica fognatura della Città e costruzione della nuova nei nuovi rioni (47 milioni); Nuovo Macello (12 milioni); Sistemazione del Lazzaretto e dello Stabilimento di Disinfezioni (3 milioni e mezzo); Bagni popolari (3 milioni e mezzo); Nuovi edifici scolastici (35 milioni); Nuovi edifici per servizi sanitari municipali (4 milioni); Istituti scientifici e cliniche (27 milioni).

Bologna pure ha nel suo immediato programma di rinnovamento cittadino:

Il completamento delle opere relative al vecchio piano regolatore e di ampliamento, e lo studio del nuovo piano di ampliamento per la zona collinosa in cui la Città va espandendosi; l'esecuzione di una razionale rete di fognatura, l'assetto definitivo degli Istituti Superiori e delle cliniche, e l'esecuzione di tutte le opere stradali ed edilizie inerenti, nuove Scuole Professionali, nuove Scuole Elementari, Scuole all'aperto e Colonie scolastiche per i fanciulli gracili.

Ed ancora:

L'ampliamento della rete tramviaria, l'aumento della portata dell'acquedotto del Setta (in corso di esecuzione) ed il coordinamento dei diversi acquedotti cittadini, la trasformazione dell'illuminazione cittadina a gas in elettrica, il nuovo aerodromo e la nuova Piazza d'Armi, le nuove caserme alla periferia, il nuovo Cimitero.

Venezia, regina dell'Adriatico, non dorme sugli allori della sua storia.

In condizioni naturalmente assai difficili per il disimpegno in forma moderna dei più vitali servizi, essa ha cercato e cerca di superare ogni ostacolo, provvedendo anzi all'impianto di nuovi servizi nelle isole di Burano, Murano e Pellestrina che si è recentemente annesse.

Il maggior titolo d'onore per Venezia in questo periodo è certamente la colossale opera di formazione della Zona Industriale, del Quartiere Urbano e del Porto Commerciale Marghera, in cui sono stati investiti circa 500 milioni, per ricavare, la posto di una regione malarica, saldi terreni e profondi canali, innalzarvi numerosi ed importanti stabilimenti industriali e dare vita ad una vera Città nuova e moderna. Trasformazione che fa onore, otreché a Venezia, all'ingegno ed all'iniziativa italiani.

Degna di nota è pure la politica edilizia del Comune, che, oltre a concedere premi di costruzione, ha acquistato la Piazza d'Armi per erigervi case, e si prepara a fabbricare i vasti terreni che possiede al Lido. Ed al nuovo quartiere di Sant'Elena stanno sorgendo 3800 nuovi locali per cura dell'Istituto Autonomo delle Case Popolari.

Abbiamo inteso sinora dare soltanto degli esempi della formidabile attività urbanistica delle principali Città italiane che sono alla testa della vita nazionale. Ne daremo ora pochi altri di Città minori, scelti nelle più varie regioni d'Italia, ed anche qui non per formare un elenco, ma per dare un'idea dello sviluppo urbanistico dei medi e piccoli centri.

Alessandria ha trovato nella munificienza di un suo cittadino, l'illustre Senatore Borsalino, la soluzione di due gravissimi problemi che si erano ormai fatti indilazionabili: l'acquedotto già in corso, che costerà 4 milioni, e la fognatura, di prossimo inizio, che ne costerà 8. Sta provvedendo poi alla costruzione del nuovo macello e di un mercato coperto, per 5 milioni.

Verona ha compiuto la sistemazione del suo Castelvecchio, adattandolo a Museo, a Pinacoteca e a Casa della Musica. Ma essa sta creando anche una superba Passeggiata ai Colli, sul tipo del famoso Viale di Firenze.

Trento vuole rinnovare con sistemi moderni la sua rete di fognatura (20 milioni), ha in corso di approvazione il piano regolatore, che già applica alla periferia; sta costruendo il nuovo tronco della strada per l'altipiano di Lavarone, con ponti e viadotti; costruirà un nuovo edificio scolastico al Fersina (4 milioni) ed un Foro Boario. Ha in costruzione un nuovo gruppo di case economiche per 8 milioni.

Di Parma basta ricordare il grandioso lavoro della fognatura, già in corso, ed il quartiere giardino per impiegati ed operai.

Lucca ha compiuto il suo nuovo Acquedotto Urbano (10 milioni) ed ha in costruzione la fognatura dinamica per le acque nere a tipo separatore (3 milioni e mezzo). Ha pressoché ultimati lo Stabilimento dei Bagni Popolari, l'ampliamento del Cimitero Urbano (1 milione mezzo) e gruppi di case popolari (5 milioni).

Ha inoltre in progetto un piano di sistemazione del centro cittadino, con galleria centrale (6 milioni), un piano di ampliamento fuori delle antiche mura (5 milioni), Edifizi scolastici (3 milioni), lavori stradali e impianti di illuminazione (2 milioni), ed il Palazzo delle Poste e Telegrafi (2 milioni e mezzo).

Vicenza ha costruita nell'ex Piazza d'Armi 8 nuove Case Popolari, ed altre per 3 milioni ne costruirà presso Porta Nuova e San Rosso. Altre case per gli impiegati sorgeranno presto. Ha Provveduto e sta provvedendo alla sistemazione edilizia del suo centro cittadino e di altre zone, creando nuove strade e quartieri di villini, e studiando il piano di ampliamento. Ha restaurato la «Casa della Scuola» e nuovi edifici scolastici.

Progetta un nuovo Mercato coperto, con annessi magazzini e abitazioni, nuove strade, una Borsa Merci, un Campo di atterraggio, un Campo Sportivo ed il nuovo Cimitero. Sta studiando infine la sua fognatura, da eseguirsi per zone.

Treviso ha trasformato il suo impianto di illuminazione a gas in elettrico, ha municipalizzato il servizio del gas, ha in corso l'esecuzione dell'acquedotto (4 milioni), sta pensando alla Città-giardino sull'area dell'ex Raffineria, all'apertura di un nuovo pubblico Giardino all'ex Ciclodromo; ha costruito case operaie anche a S.Angelo e nuovi padiglioni per i Cronici.

Savona ha in progetto Case Popolari per 8 milioni.

Casale sta sistemando la strada di circonvallazione con selciati e rotaie in granito (2 milioni).

Vercelli ha in corso i progetti del nuovo piano regolatore, dello sventramento del quartiere del Carmine, della fognatura, dell'arginatura del Sesia, di nuove Scuole; ha costruito e sta costruendo Case Popolari, sta rimodernando il suo Macello, ha acquistato materiale modernissimo per l'estinzione degli incendi e per l'innaffiatura delle strade.

Asti ha eretto un nuovo Mercato coperto ed un nuovo edificio scolastico, provvede al piano regolatore e di ampliamento della zona Sbocchi Nord, e sistema le sue strade.

Busto Arsizio, fra le più progredite cittadine industriali che fanno corona a Milano, sta provvedendo al miglioramento di tutti i suoi servizi, che è impossibile enumerare. Citiamo soltanto i nuovi Caseggiati scolastici, le Colonie Alpine e Marine, il nuovo Palazzo della Corte di Assise, l'allargamento del Cimitero, la nuovo arteria per la Stazione Ferroviaria, ecc.

Ed a titolo di onore segnaliamo le opere pubbliche in corso in una sola cittadina del Mezzogiorno, Molfetta: Fognatura (5 milioni), Risanamento della Città vecchia (2 milioni), nuovo Macello (2 milioni), nuovo Palazzo di Città (2 milioni), nuovo quartiere popolare (4 milioni), Piazzale della Stazione (1 milione).

Il Mezzogiorno, del resto, ha trovato la sua ora, ed è in pieno risorgimento. Una statistica ci informa che nel solo mese di Marzo vi sono state terminate ben 104 opere pubbliche, e sono stati disposti 215 appalti, concessioni e lavori in economia per un importo di 113 milioni.

Questo, a grandi tratti, l'imponente movimento urbanistico delle Città Italiane, dal solo punto di vista delle opere pubbliche. Altrettanto ci sarebbe da segnalare sotto l'aspetto amministrativo e sotto quello delle istituzioni sociali. Basterebbe sfogliare un solo periodico: Il progresso sociale del Mezzogiorno, organo del Comitato per la propaganda della previdenza nell'Italia Meridionale, per sentirsene orgogliosi.

Necessità di un Ente Nazionale di Coltura Urbanistica

Riteniamo dunque non solo maturo il tempo, ma singolarmente propizia l'ora per la creazione di un Istituto Nazionale di Urbanesimo e di Alti Studi Municipale. Riteniamo anzi ch'essa ne indichi la necessità:

1°) perché occorre oramai, di fronte a così varia e diffusa attività urbanistica, immettere un flotto continuo di sangue nuovo negli organismi municipali, creando, con apposita scuola, degli amministratori e funzionari di alta competenza, i quali dovranno oggi coadiuvare, più tardi sostituire i predecessori, portando nella soluzione dei vasti problemi urbani univesalità di concezione, razionalità di attitudini e modernità di postulati scientifici.

«Una grande Città» scriveva or non è molto, rendendo conto di un primo periodo della sua gestione, il Generale Donato Etna, Commissario straordinario di Torino - uno dei grandi centri meglio ordinati in Italia - «in cui il magnifico incremento delle industrie e dei commerci, l'incessante sviluppo edilizio, il culto delle arti e delle scienze, il continuo crescente benessere, determinano ognora nuove esigenze, richiede nell'amministrazione della pubblica cosa una costante e vigilante cura, una chiara, larga visione dei problemi immediati e mediati, un ininterrotto studio di sempre maggiori e più acconce provvidenze».

Ora, se alla mancanza, in genere, di studi speciali ha potuto supplire finora l'esperienza intelligente di lunghi anni di pratica professionale, che ci ha dato valentissimi Amministratori e Funzionari ed opere mirabili, oggi che il ritmo accelerato dell'urbanesimo pulsa senza tregua, è urgente e indispensabile preparare questi uomini nella scuola, sì che immediatamente essi possano gettare sulla bilancia della rinascita nazionale la loro forza intellettiva, la loro giovinezza entusiasta, la loro volontà creativa.

2°) perché occorre pure un centro di raccolta, di elaborazione e di divulgazione dei dati scientifici e delle applicazioni pratiche che possono servire a meglio indirizzare l'attività municipale - che si svolge in un campo difficilissimo e con incalcolabili conseguenze sociali - nonché un organo tecnico di consultazione per i centri minori, che non dispongono di personale specializzato.

E' giunto il tempo di nazionalizzare anche la produzione intellettuale dei Municipi; cioè di considerare acquisito alla Nazione tutto ciò che di meglio in ciascuno di essi si studia, si compie, si innova, perché altri possa valersene, e sia possibile, con un largo generoso scambio, attuare in tutto il Paese nuove civili conquiste.Tratteremo prima dell'Istituto come Scuola, poi dell'Istituto quale Associazione Urbanistica.

L'ISTITUTO COME SCUOLA

L'insegnamento organico e razionale dell'urbanesimo non ha luogo attualmente che in Francia. L'Italia sarà dunque il secondo Paese che lo introdurrà fra i suoi studi di alta coltura.

Negli altri Stati le varie discipline che concorrono a formare la scienza urbanistica sono insegnate separatamente nei diversi Istituti d'istruzione superiore.

Nella Svezia, ad esempio, che abbiamo già citato come un buon ambiente di studio, la parte tecnica è insegnata alla Scuola Tecnica Superiore di Stoccolma ed all 'Istituto Chalmers di Gothenbourg: la parte amministrativa ed economica all 'Istituto per gli Studi di Previdenza sociale e di Politica comunale della Capitale.

In Inghilterra v'è, annessa alle Università di Londra e di Liverpool, una Facoltà speciale per i piani regolatori della Città ed i progetti municipali, oltre alle ordinarie facoltà di Ingegneria, e per la parte amministrativa la « London School of Economics».

In Polonia, dove esiste una fiorente Associazione Urbanistica, si sta studiando una Scuola speciale di scienze amministrative e comunali, in cui molto posto sarebbe riservato allo studio dell'Urbanesimo.

Lezioni di urbanesimo vennero recentemente tenute presso la Scuola Tecnica Superiore di Vienna.

Scuole speciali, che sono ben lungi dal comprendere tutta la materia, esistono in altri Paesi: la Verwaltungs Akademie di Berlino, la Facoltà di Scienze Sociali ed Economiche di Colonia, la Scuola Libera di Scienze Politiche a Parigi.

L'Istituto della Sorbona

L'Institut d'Urbanisme invece, annesso alla Facoltà di Diritto della Sorbona, rappresenta il più completo ed armonico centro di studi in questa materia.

Sorto nel 1919 come «Scuola di Alti Studi Urbani» per cura del Consiglio Generale del Dipartimento della Senna, fu da questo ceduto nel 1924 all'Università di Parigi.

Ha per iscopo di preparare dei buoni Funzionari Comunali e Provinciali. Vi sono ammessi i laureati o diplomati di Istituti superiori, i diplomati dei licei e collegi femminili, ed anche coloro che, sprovvisti di tali titoli di studio, a giudizio del Consiglio dei Professori dimostrino una coltura generale sufficiente per seguire l'insegnamento.

Il numero degli allievi fu di 294 nel 1919, di 64 nel 1920, di 183 nel 1921, di 326 nel 1922, di 181 nel 1923, di 153 nel 1924-25, dei quali molti di nazionalità straniera, nessuno italiano.

L'insegnamento, impartito da Docenti scelti fra Professori Universitari, fra gli specialisti che i loro studi e lavori hanno imposto alla pubblica attenzione e tra i Funzionari in servizio od a riposo, comprende due anni di studio, con 115 ore di lezione ciascuno e 12 corsi di conferenze.

Esso è unico per tutti gli allievi, e si divide in 5 Sezioni, corrispondenti ciascuna ad un Corso fondamentale, al quale sono annesse delle Conferenze destinate ad approfondire lo studio di determinate questioni.

Una prima Sezione è dedicata alla Evoluzione delle Città, cioè allo studio dell'origine e delle trasformazioni subite.

Una seconda alla Organizzazione sociale delle Città, studia cioè la popolazione dal punto di vista demografico e sanitario, economico, intellettuale e morale.

Una terza si occupa della Organizzazione Amministrativa, ed espone la teoria della responsabilità del Comune e dei suoi agenti. Vi sono annesse conferenze sulla «Banlieu» (sobborghi) parigina, sulla organizzazione speciale delle Capitali, sulla vita municipale all'estero.

Una quarta Sezione studia l'Organizzazione economica, cioè l'utilizzazione della terra, le conseguenze dello sviluppo industriale moderno, il plus-valore dei terreni; nonché la ragione economica delle Città-giardino. Ne fanno parte conferenze sulla Municipalizzazione dei pubblici servizi.

Un'ultima Sezione ha per oggetto infine l'Arte e Tecnica della Costruzione delle Città, cioè i piani di miglioramento, di abbellimento, di estensione. Comprende delle conferenze sull'«Arte dell'Ingegnere Municipale», sulle strade, sulle fognature.

Il diploma rilasciato agli allievi, dopo la favorevole prova in tutti gli esami e lo svolgimento di una tesi finale, è assimilato a quelli degli Istituti Superiori per i concorsi agli impieghi della Prefettura della Senna e ad altri pubblici Uffici.

Una speciale Sezione di perfezionamento amministrativo è riservata agli impiegati comunali e provinciali, od anche a chi possegga una istruzione sufficiente a seguirne l'insegnamento.

Considerazioni

Esposti così brevemente gli scopi e l'ordinamento dell'Istituto della Sorbona, occorre dichiarare, con tutta lealtà ed ammirazione, che esso ha per così dire scritto le tavole di fondazione di questa nuova scienza, e non v'è studioso al mondo che non gli debba grandissimo onore.

Per il nostro Paese noi riterremo consigliabili alcune varianti.

L'Istituto Francese si rivolge ai laureati di qualsiasi Facoltà - medicina come ingegneria, legge come lettere e filosofia o storia naturale - ed anche ai semplici diplomati dei licei e dei collegi femminili, e li chiama a sè per farne degli urbanisti.

Nessun dubbio che l'urbanesimo come scienza possa essere assimilato da coloro cui gli studi superiori di qualsiasi ramo, (meglio quelli secondari) abbiano conferito la necessaria maturità intellettuale: come arte però esso non ha luogo ad essere praticamente applicato se non da parte di coloro che ad una funzione urbanistica effettivamente dovranno dedicarsi.

Quali sono queste funzioni? Quelle degli alti Funzionari Municipali anzitutto: Segretari, Ragionieri, Ingegneri, Architetti, Ufficiali Sanitari dei grandi e medi Comuni. Per cui saranno in prevalenza i laureati od i laureandi in Legge, in Scienze Sociali, in Scienze Politiche, in Studi Commerciali, in Ingegneria, in Architettura, in Medicina che potranno praticamente profittarne.

Ne profittano certamente anche gli Amministratori elettivi, ufficio che tutti possono essere chiamati a coprire: ed allora, in considerazione che le loro funzioni, per quanto tecniche, sono pur sempre transitorie e parziali in relazione alla completa attività della persona, noi ammetteremo anche i diplomati delle Scuole Secondarie in qualità di Uditori.

Ma per i Funzionari - che possiamo definire Amministratori fissi e specializzati - non si può a nostro avviso, richiedere meno di una preparazione superiore e specifica, della quale gli studi urbanistici non sono che una integrazione e un coronamento.

Osserviamo infatti che dei 62 allievi che l'Istituto francese ebbe nell'anno scolastico 1924-25, (esclusa la Sezione di perfezionamento amministrativo) soltanto 5 erano già impiegati municipali e 16 studenti di facoltà universitarie, cioè possibili funzionari futuri. Il terzo al massimo degli iscritti aveva dunque la possibilità di specializzarzi nelle alte pubbliche funzioni, a cui prevalentemente l'arte urbanistica sarebbe devoluta.

Ed ecco infatti le professioni dei 15 diplomati nei primi 4 anni di vita dell'Istituto (dal 1922 al 1925):

Funzionari Tecnici4

Funzionari Amministrativi 2

Professionisti 3

Altri di cui non risulta la condizione 6

Ciò significa che l'Istituto francese ha prevalentemente il carattere di un corso di alta coltura generale.

Questo spiega anche perché nei programmi dei singoli corsi ufficiali accada talora di trovare una profonda trattazione della parte generale, (una Sezione intera, delle cinque dell'Istituto, è per esempio dedicata alla rievocazione storica della formazione della Città), mentre a conferenze accessorie è riservata la parte pratica dell'insegnamento, quella che si addentra nel vivo dei servizi pubblici, come circolazione e trasporti, tipi e costruzioni di strade, luce, gas, nettezza urbana, acqua potabile, fognature.

Così il laureato in legge assiste anche ad una serie di conferenze su «L'arte dell'ingegnere municipale», mentre l'Ingegnere dedica una parte dei suoi studi all'organizzazione giuridica e alle finanze dei Comuni.

E' vero che, annessa all'Istituto, vi è una Sezione di Perfezionamento Amministrativo, in cui il titolo di ammissione è soltanto la qualità di impiegato comunale o provinciale, o senz'altro un grado di istruzione sufficiente. Essa consiste, per il primo anno, (corso preparatorio 60 lezioni), in elementi di diritto costituzionale, civile e commerciale; e nel secondo (corso complementare 30 lezioni) in nozioni sul funzionamento dei Municipi e in lavori pratici di contabilità comunale.

Ma questo ramoscello inserito per apprezzabili ragioni pratiche nella grande quercia non ha rapporto con l'insegnamento urbanistico dell'Istituto.

La Sezione contava nell'anno scolastico 1924-25 N.91 alunni inscritti, di cui 52 impiegati comunali, 23 impiegati di altre pubbliche amministrazioni e 16 impiegati di amministrazioni private.

Nota: Il testo prosegue con la descrizione della Scuola Italiana alla Parte II

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