Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l'anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.
Per 4 porzioni:
Sai già d’usato, di messo all’asta, di riciclato,
di rovistato, di mezzo e mezzo,
di patteggiato, di concordato un tanto al pezzo;
sai di stantio, di maneggiato,
di cose dette, già strimpellate,
di verità vere a metà, vendute al chilo,
già fatte a fette, impacchettate,
tutto già visto, bollito, detto, confezionato.
Ti ho già assaggiato, centellinato, anche leccato,
Ti ho già provato, messo e rimesso, più del previsto rimuginato.
Ora ti vendo, tempo mio caro, tempo passato, fotografato,
ti cedo in stock, infiocchettato,
sei già all’incanto, in conto vendita, prezzo stracciato,
di mesi ed anni tempo attempato, tempo perduto,
risuscitato, mai ritrovato, tempo fermato;
ti ho già contato, messo in clessidra, rimisurato,
tempo mai dato, messo in deposito, mai riscattato;
ora rescindo, lascio e abbandono,
ti riconsegno, vendo o regalo, restituisco,
cedo in omaggio, dono o baratto,
pur ti pur di disfarmi del tuo pedaggio
pago penali, more, gabelle, tasse con l’aggio .
Ditemi il prezzo, l’affrancatura,
il saldo al netto, l’impiombatura,
ve lo spedisco, ve lo impacchetto,
ve lo rimetto tutto imballato,
con allegato, firma e saluto;
sulla causale: “ tempus inanus”,
da consegnare tutto d’un fiato,
espresso, urgente, anzi immediato;
il trapassato è già in giacenza,
quello recente, senza rimpianti, torna al mittente;
Ve lo rimando, scrivo “venduto”,
“reso”, “ridato”, “riconsegnato”.
Tengo alla fine un unico pezzo,
fatto di niente, senza peccato,
sopravissuto, salvo, scampato,
un pezzo intero, vivo, verace,
in cui confido, ricetto e spero;
tempo lasciato, tempo non tempo,
tempo in mistura, puro e inquinato,
hic et nunc dico, prego e ripeto,
tempo rispondi, fammi esaudito,
tempo clemente, duro, tiranno o indifferente,
fermo, inchiodato, svelto, fuggente,
[ora lo dico:] tempo trovato.
Ritratto minimo
Per E.S.
La vita capìta in uno schiocco di dita.
GIUNONE
Tonda quel tanto che mi dà tormento,
La tua coscia distacca di sull'altra...
Dilati la tua furia un'acre notte!
Rien n´est jamais acquis à l´homme. Ni sa force
Ni sa faiblesse ni son cœur. Et quand il croit
Ouvrir ses bras son ombre est celle d´une croix
Et quand il veut serrer son bonheur il le broie
Sa vie est un étrange et douloureux divorce
Il n´y a pas d´amour heureux
Sa vie elle ressemble à ces soldats sans armes
Qu´on avait habillés pour un autre destin
À quoi peut leur servir de se lever matin
Eux qu´on retrouve au soir désarmés incertains
Dites ces mots ma vie et retenez vos larmes
Il n´y a pas d´amour heureux
Mon bel amour mon cher amour ma déchirure
Je te porte dans moi comme un oiseau blessé
Et ceux-là sans savoir nous regardent passer
Répétant après moi ces mots que j´ai tressés
Et qui pour tes grands yeux tout aussitôt moururent
Il n´y a pas d´amour heureux
Le temps d´apprendre à vivre il est déjà trop tard
Que pleurent dans la nuit nos cœurs à l´unisson
Ce qu´il faut de regrets pour payer un frisson
Ce qu´il faut de malheur pour la moindre chanson
Ce qu´il faut de sanglots pour un air de guitare
Il n´y a pas d´amour heureux
{extra}
Il n´y a pas d´amour qui ne soit à douleur
Il n´y a pas d´amour dont on ne soit meurtri
Il n´y a pas d´amour dont on ne soit flétri
Et pas plus que de toi l´amour de la patrie
Il n´y a pas d´amour qui ne vive de pleurs
Il n´y a pas d´amour heureux
Mais c´est notre amour à tous deux
Un giovanotto serio trova, in un mucchio di detriti di cantiere, una vecchia lampada di foggia un po’ antiquata. La porta a casa e la pulisce, per usarla come fermalibri. Naturalmente appare un genio, Aladino:
- Che vuoi, mio Signore? Ti avverto che puoi esprimere tre desideri che verranno senz’altro soddisfatti.
Passato il primo momento di stupore il giovanotto, senza rifletterci troppo, dice:
- Vorrei diventare molto, molto intelligente!
Aladino obbedisce e fa quello che deve fare. Passa qualche mese; il giovanotto completa rapidamente i suoi studi, ottiene brillantemente la laurea in Scienze naturali, si iscrive secondo percorsi privilegiati a Filosofia teoretica e ottiene anche in questo campo una laurea magna cum laude. Ottiene abbondanti finanziamenti internazionali su un suo programma di ricerca nel quale si impegna con successo. Ma dopo un po’ sente nascere in sè una certa insoddisfazione, e torna a strofinare la lampada.
- Dimmi, mio Signore, che altro desideri? Vuoi più ricchezza, vuoi amore, vuoi potere, vuoi che ti accadano eventi eccezionali?
- No, Aladino, tutto questo non mi interessa. Vorrei solo diventare più intelligente.
Come al solito, il genio obbedisce. Tempestiva conseguenza, il giovanotto ottiene il Nobel e vince numerosi confronti con scienziati del massimo livello, nei numerosi campi nei quali ha ormai consolidato i suoi saperi. Ma di nuovo l’insoddisfazione si manifesta. Decide di spendere l’ultima possibilità e strofina la lampada per la terza volta.
- Eccomi Signore. Ero convinto che l’intelligenza non potesse bastarti. Che cosa desideri adesso?
- Non hai capito, Aladino. L’intelligenza che ho non mi basta, ne vorrei di più.
Aladino appare perplesso.
- Signore, io non ho difficoltà ad accontentarti. Ma per farlo devo introdurre qualche modifica strutturale, che potrebbe procurarti inconvenienti indesiderati. Se vuoi ti rendo ancora più intelligente, ma è bene che tu sia consapevole di ciò che ti accadrà…
- Cioè?
- Ti verranno le mestruazioni.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
VERSI PER M. T. IN MORTE DEL MARITO
Prima che il tempo violi
i suoi verdi confini
io vorrei darti
la dolcezza dell'ombra prenatale
un clima strano di favole, di canti
un acceso passaggio di stagione
col sole allegro che dilaga
sulla grigia distesa
o l'onda lunga
che segue la tempesta
e placata si allarga sulla riva
a lenire l'asprezza che è passata.
O forse procurarti un talismano
per la fatica tremenda del viandante
che cerca invano di farsi pellegrino.
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PER ALBERTO BURRI
Vivere più di quanto tu non mostri
nelle brevi suture dei tuoi sacchi
nei neri torti in un preciso orrore
nei grandi bianchi spaccati dall'arsura
o fermarsi stremati
e non morire.
Questa è la tua lezione
amico caro di un'età che è morta
con gli enigmi banali e i suoi pudori?
Mi dici con affetto - e tu ci vivi –
che la vecchia saggezza è noncuranza
per il mondo che incombe e i suoi furori.
Vivo sperando sia, ma forse sbaglio,
un segno di viltà dell'esistenza.
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VERSI PER ENRICO E ELENA CERNIA
Vola da noi per sempre il verde canto
e sembra che la morte sia distante
dalla nuvola grigia che confonde
il muto andar degli anni.
Ma poi la giostra sgangherata dei balocchi
scarica nella notte il suo bagaglio:
richiami acuti, gialli, disperati
di una vita malata che si sfalda
fra un colpo e l'altro di un eguale maglio.
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PER MIA MOGLIE NELLE TENTAZIONI DEL DECLINO
Fiore di rosa
facile rima,
amore che non muore
ma riposa
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IL MERIDIANO DI TAORMINA
Ricordi il meridiano che portò
nel tuo rosso uno scontento
un'attesa di futuri rinnovati
nostalgie di stagioni appena mosse
dalla sabbia spazzata dalla duna ?
Io ti aspettavo, ero alla tua portata
ma tu sognavi adagio il chiar di luna.
30-4-75
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Forse ho capito
quanto nel mistero
possa lasciare tua virtù sepolto
perché vivendo lasci sospesa un'eco
(l' arcano che disteso riverbera
dal pozzo abbandonato)
l'ombra - o la traccia? -
di una vita cresciuta come il grano
profetica ed eguale
nel respiro leggero della terra;
o in tumulto d'immagini ingombranti
forse la tua presenza è il capogiro:
il ferino che è in te, che ti conduce
confonde ogni momento le mie carte
porta buio nell'alba
o una luce inattesa all'imbrunire.
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LAGO DI FONDI
Nella luce morente che ci chiama
il tuo sorriso breve e la speranza
prolungano nell'acqua
l'ombra invadente
del verde tra le rive.
Potrei lasciarti
ma devo dirmi ancora:
ciò che non muore in me
dentro di te, vive.
Forse saprai domani
quanta nell'ombra con pazienza,
attento io scopra nel mio canto
la luce che tu dissipi vivendo.
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DA UNA `VALLE VENETA
Brevi miraggi vissuti nei rimpianti
dei giorni ambigui che ho patito per te
il gioco delle alzavole agli stampi
i capricci dorati dei pivieri
l'aspro richiamo dei chiurli dalle valli
l'alta maestà del falco pellegrino
e poi, di sera l'airone cinerino
verso mare
che compare d'incanto
e poi scompare.
Piango e gli affido il tempo che separa
lo stato umano dall'acuta stagione, da quei giorni.
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VERSI PER ANTONIO CEDERNA
Alofite è una pianta che il salmastro
risparmia nella furia del calore:
una traccia superstite di verde
che adatta la sua vita alla violenza;
il deserto non muta nel suo orrore.
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RIMPIANTO PER NICCOLO GALLO
.. . Chi ha avuto da te quest'alta lezione
di decenza quotidiana ...
e. montale, da "La bufera"
L'autunno e le sue erbe
i concerti sommessi degli uccelli
invitano insistenti ad una vita
dove "la siepe" è il limite:
un eterno, per noi che rimuoviamo
- indifesi dal mistero del nulla –
il maestoso rigore dell'inverno.
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A UN AMICO RITROVATO
PER E. SALZANO
Mutua quod nobis ter quínquagena dedisti
ex opibus tantis, quas gravis arca premit,
esse tibi magnus, Telesine, videris amicus.
Tu magnus, quod das? immo ego, quod recipis.
MARZIALE, III, LXI
Hai lasciato un varco nel tuo disprezzo
ed io vi sono entrato a vele spalancate
a mare fresco
ed ho trovato
‘barbara dolce dagli occhi tintinnanti’
la tua muta ‘sbandata già dal sonno’
assorti in giochi irripetibili
sicuri dietro il cristallo terso
del loro universo.
Una serenità da luce estiva
mi ha riportato al tempo dei furori
quando felicemente
avventavamo i ladri, gli ipocriti, i bugiardi
quando davamo a Dio
inesistendo Cesare.
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PER MIO FIGLIO
Passo ogni sera il fiume:
sulle mie spalle
il peso dei rimorsi
(le rapine che prevede il presente)
gli spazi senza suoni, senza rime.
Ma tu mi vieni incontro
una sordina modifica il mio timbro
i tuoi occhi ritardano il tramonto
la tua vita, enigma complicato, mi redime.
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A NANNI, RICORDANDO PAPÀ
Forse dobbiamo ancora tornare alle radici
per trovare un motivo che assolva
l'aridità del suo tempo, la sua rabbia.
Per capire con calma e decifrare
i segnali scadenti del passato.
Certo, non basta più il racconto
che leniva, felice, i miei rancori:
“ all'armi siam fascisti!”
le oscure prepotenze provinciali
le necrofore bande
il rogo dei bei libri
e la paura nel vicolo a maestrale.
Ma la sua morte continua ad accadere.
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L'ALTA LEZIONE DI MARIO MELLONI
Non merita di amare
chi per amare
non ha reciso
le sue radici
amare.
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PER UN MINISTRO DC VISTO IN TELEVISIONE
Solo a chi mente
può venire in mente che
mentire si può naturalmente.
Non è barando che potrai colmare
l'abisso che divide
- vasto braccio di mare -
tutto l'astuto dire
dal tuo fare.
Il tuo silenzio è gioia a noi negata.
Misuro la pazienza tra le dita,
ti scaglio i miei pensieri
pattuglia rinnegata
mai tradita.
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Ti ho portato il mio pane
ed ho creduto che la rinuncia
suonasse sacrificio
all'orecchio tuo attento.
Ma tu hai pensato che ne fossi sazio...
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Certo,
ciò che ignori di me non è peccato.
È un peccato che ignori
ciò che di certo in me
ignora ogni peccato.
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Le poesie di questo libretto hanno più di dodici anni. La morte improvvisa le ha lasciate così come si trovavano, in attesa di pubblicazione. Per tutti questi anni, dall’ottobre dell’81, ho sempre rimandato il momento di affrontarle e dare loro una sistemazione (come mettere via i vestiti rimasti appesi nell’armadio, le scarpe, i tanti oggetti disseminati ovunque che di colpo erano diventati altro e restavano lì, intoccati e intoccabili). Adesso mi capita sempre più spesso di pensare che se per un miracolo Peppe tornasse sarebbe molto più giovane di me e di fronte a lui possederei quella saggezza e quella maturità che tanto mi mancavano. E i versi di queste quasi cinquanta poesie sono diventati un dialogo con il passato.
Non sono in grado di farne una lettura critica, posso solo farne una storia. Legarle a degli anni che sembrano lontanissimi; eppure a volte tornano come un panorama a una svolta e noi siamo ancora lì con i nostri gesti e le nostre voci, le luci, gli alberi. Pellicola di un film che può essere proiettato all’infinito.
“Quasimòdo, chi è questo Quasimòdo?...”, il sorriso sarcastico di chi la sa lunga, lui che conosce a memoria le terzine di Dante e ama citare Carducci. Peccato non potergli dire: “Papà, uno che vincerà il Nobel!”.
Siedono uno di fronte all’altro sulle poltrone foderate di cinz sotto al quadro di Balla: un vaso di poinsezie e una collana riflessa nel vetro di un tavolo. Un quadro che a me pare orribile, come le tre oche di alabastro rosa sopra la mensola del termosifone. Intanto loro due parlano, si dovrebbero conoscere, in realtà non esistono due persone più diverse e già si detestano. Di uno mi piace la poesia e l’utopia, dell’altro la chiarezza e la durezza. La mia sofferenza nasce dall’amare queste due opposizioni. Oggi lo so, allora no. Ma il primo è il futuro, le porte che si spalancano una dietro l’altra. Le emozioni di un abbraccio nel buio di un cinema e le fontane scroscianti con i cavalli di pietra bianca pronti a spiccare il volo nell’azzurro di una mattina di vacanza. La felicità degli occhi negli occhi e le risate improvvise, irrefrenabili. L’altro è legato a troppe pagelle, righe nere di quaderno e lunghe, grigie domeniche. È una forza frenante. Sicuramente è destinato a perdere. Ha già perso.
Andavamo sulla Via Appia e Peppe portava in tasca le prime edizioni dello Specchio: Ungaretti, Cardarelli, Montale. Non è che Quasimodo gli piacesse molto. Io porto nella borsa un thermos con il caffè e dei panini, sono vestita di giallo e le biciclette sono appoggiate sul ciglio della strada. La giornata è limpida, piccole nuvole macchiano il cielo, il sole scalda l’erba fra i ruderi. Ventuno anni lui, diciotto io. Una Via Appia spesso ventosa, con le pecore che traversano a frotte seguite dai pastori dalle grandi mantelle gonfie d’aria.
Libretti logorati dall’uso che lui cavava fuori dalla tasca della giacca e mi leggeva con pazienza, le giuste scansioni dei versi. Ho difficoltà a capire, lui paziente mente rilegge e poi spiega, i versi si aprono dalle sue mani come ventagli.
Per quello detesto l’ironia di mio padre, io che pure lo amo moltissimo, detesto il gesto sprezzante che lascia ricadere il libro sul tavolo. “Quasimodo” lo correggo senza guardarlo. A me il verso ride la gazza nera sugli arancisembra bellissimo.
Libri con le pagine che si squinternavano: la guerra non è lontana, sembra ancora ombreggiare quella carta giallina disseminata di pagliuzze. Non sono mai più esistiti libri così preziosi, strappati al caotico e faticoso procedere, lento, del nuovo benessere. Benessere è avere la bicicletta, massimo benessere la vespa. Tre paia di sandali, due costumi da bagno. I biscotti per merenda, una tavoletta di cioccolata da mordere intera.
Un giorno mi perderò nei dedali assolati delle tue città di luce, o meridione... questa è sua. È la Sardegna da dove lo hanno portato via bambino e non è mai più ritornato. Ricordi il meridiano che portò nel tuo rosso uno scontento, un’attesa di futuri rinnovati... Questa era per me, ma era già dopo.
Dopo; subito prima che la poesia si appannasse confusa nei nuovi giorni. Ci piace andare alla ventura / guardando il calo senza paura / il cielo immenso senza orizzonti... Prima che gli amici si sparpagliassero un poco alla volta come pedine su una scacchiera, ognuno per comporre un suo gioco; e la felicità coniugale cominciasse a dare il suo suono di latta nel girolento in tondo dei balocchi. Un suono confortante e rassicurante tanto da ottundere le orecchie. Le biciclette si coprono di polvere finché un giorno non esistono più. Rubate, regalate, chi può dirlo ormai.
E la Sardegna ricompare un’estate dal piroscafo con i suoi odori e le palme alte e polverose sul lungomare di Cagliari. La Morris sobbalza sull’asfalto per arrivare al Poetto, sembra di risentire lo stridere del tram che scaricava tate e bambini insieme alle grandi borse del pranzo da mangiare al fresco dei capanni. La sabbia bianca scotta i piedi, non serve neanche fare il bagno, subito si ricomincia a sudare. Non si resiste, perfino il panino lo abbiamo mangiato a mollo nell’acqua e nell’acqua Peppe fuma con il mare celeste che gli arriva alla cintola. La barca ricorda, la barca di quando erano piccoli che a furia di remi arrivava laggiù, alla Sella del Diavolo. “Ma va ...”. La Sella del Diavolo si staglia laggiù un poco sulfurea, dura nel sole. Lui fuma Gitanes senza filtro, tabacco nero che lascia un buon odore nelle sue mani. Quante? Venti lui dice. Ma mente, sono molte di più.
Qui, dice, venivamo a giocare con i cugini. Dall’alto dei bastioni Cagliari è solo vento e sole. “Ma i palazzi dove sono?”, le tanto magnificate magioni degli avi. Palazzo Aymerich, palazzo Sanjust. Templi familiari di cui ha favoleggiato per anni. Lungo la via in salita le case perdono pezzi di intonaco e i balconi di ferro sono arrugginiti dal maestrale. Una adolescente si fa vento con un ventaglio, ha i capelli raccolti sulla nuca per il caldo e contro un lontano frammento di mare è bella come una piccola maga sospesa nel vuoto del balcone. Sorride. Una delle cugine che è nata dopo la guerra, una delle tante che non ha mai incontrato. Le scale sono buie, i gradini cadono a pezzi. Palazzi, questi?
Forse è stato di ritorno da quel viaggio che ha ricominciato a scrivere poesie. Quando abbiamo cambiato casa e sono cominciati i nuovi silenzi e le nuove luci. Ora le fasi dell’anno si avvertono come una sonda che arrivi al cuore delle stagioni e il freddo e il caldo hanno una violenza con cui bisogna fare quotidianamente i conti. E di colpo il tempo cambia passo. Anche la felicità coniugale ha un sussulto, si deve adeguare, plasmare come una cera sui nuovi suoni. Scarpette si allineano in bagno: bambini corrono, cadono, gridano. Si ammalano, ritagliano figurine di carta. I tuoni squassano la casa e i passi sono come topi giù per le scale. Lui si alza che è ancora buio armeggiando piano, la porta si richiude in un soffio. Se fa freddo si intabarra in un plaid e nel vuoto del primo mattino siede alla scrivania che è stata del suo grande antagonista (“Quasimòdo, chi è questo Quasimòdo?”). Sui fogli si fa strada la sua scrittura minuta, ordinata. Cancella, straccia. Se una bambina appena sveglia gli scivola accanto imbronciata tra la poltrona e il divano, la consola e le dà un foglio per disegnare. La luce si allunga tra gli alberi esili del giardino. Altri, ancora sorretti da tre pali, disegnano figure geometriche nell’aria grigio-azzurra. Luci e ombre a seconda delle stagioni.
Filastrocca di noi bambini
per non giocare con i cerini
per non giocare con i serpenti
e per restare sempre contenti.
Filastrocca lunga e severa
per ricordarti mattina e sera
d’essere buone care e felici
anche mangiando burro e alici.
Filastrocca di questo natale
giocar insieme senza far male...
E poi c’erano le fotografie. Una passione così antica che è difficile darle un’età. Mentre la caccia, anche se a Cagliari da bambino guardava incantato zio Pepi cavare dagli anfratti della giacca macchiata di sangue lepri e pernici, è una scoperta nuova . II gioco delle alzavole agli stampi / i capricci dorati dei pivieri / l’aspro richiamo dei chiurli dalle valli...La caccia con il suo odore di freddo e di cani e le pavoncelle che planano a ventaglio nella piccola valle davanti casa. La valle del Poussin, lui dice. La tramontana scuote gli alberi, li tira con forza fino a spezzarli e il gelo spiffera da ogni angolo della casa. Un anno la neve, tanta che non si poteva uscire con la macchina. La notte siamo andati a piedi a trovare degli amici sulla via di Grottarossa, il vento aveva accumulato picchi bianchi e bizzarri e il cielo era invaso dalla luna. Il silenzio si apriva meraviglioso davanti ai nostri passi mentre la casa diventava sempre più buia e lontana. La neve aveva buttato giù i pali della luce, era solo tutto bianco e blu.
Il vento caldo, il vento forte
porta la neve, sbatte le porte
porta l’estate, la primavera
c’è la mattina, soffia la sera...
Lontano il tempo dei furori quando felicemente / avventavamo i ladri, gli ipocriti, i bugiardi / quando davamo a Dio / inesistendo Cesare... Da quelle mattine sempre più precoci (le cinque, le quattro, ma dove arriveremo?) è poi nata la lacerazione. I deboli e il denaro sono diventati sempre più inconciliabili. Passo ogni sera il fiume: / sulle mie spalle / il peso dei rimorsi / (le rapine che prevede il presente) / gli spazi senza suoni, senza rime... Fotografie scattate una via l’altra a segnare un percorso a zig zag. Plitivice, Praga, Osije. Bambini che saltano alla corda. La Francia. Il Guggenheim di New York. Il mercato della carne a Mosca. La statua di Gorkij. E poi ancora e ancora: le macchine fotografiche appese al collo mentre la cassetta di cuoio rigido gli sega le spalle pesante di obiettivi e di pellicole. Ha sempre la vecchia Rollei; la Closter, la prima (la Closet, come la chiamavano gli amici), è invece sparita. Ma tutto quell’ingombro sembra non avvertirlo, occupato solo a inquadrare e scattare, un fotogramma via l’altro.
Il fucile Winchester, la coppia di Lebeaux che olia con cura guardando con un occhio solo dentro la canna. L’alta maestà del falco pellegrino / e poi, di sera / l’airone cinerino / Terso mare / che compare d’incanto / e poi scompare... Vicino a Osije il vecchio casino di caccia degli Esterhàzy aveva un pianoforte in camera da letto e una stufa di maioliche verdi. Nel bosco un cervo dagli occhi folli aveva incrociato il sentiero, gli zoccoli battevano paurosi la terra e le grandi corna si aprivano come ali la strada tra gli alberi. Poi all’imbrunire quelle medesime corna avevano cozzato sorde nel campo di mais mentre i cervi in amore si disputavano le femmine. Passa nell’aria un nulla ed è la strage.
Ma forse sarebbe più giusto fare una cronaca secca. Raccontare di quando le disgraziate vicissitudini familiari seguite alla guerra avevano prosciugato ogni fonte di reddito e per guadagnare era andato nel cantiere dello zio ricco a fare il marcatempo. Diciannove anni, appena iscritto all’università. E subito si era schierato dalla parte degli operai finché quello zio, fiutata l’aria, non lo aveva pregato di restarsene a casa. Allora si era messo a vendere i libri di Einaudi a rate. Da Einaudi, a Via degli Uffici del Vicario, poteva capitare di incontrare Pavese, Calvino, Emilio Cecchi. E poteva anche capitare che uno di loro ti invitasse nella sua casa piena di libri. So poco della sezione comunista che frequentava, so molto dei circoli del cinema dove era di casa. I film da cineteca li aveva visti tutti, quelli nuovi, quelli importanti, non aspettava mai la seconda visione.
La storia del marcatempo doveva ripetersi ancora, essere dalla parte dei più deboli era come una malattia endemica. Tutto sarebbe stato più semplice se fosse rimasto uno fra loro. Più faticoso, ma meno lacerante. Invece io l’ho traghettato dall’altraparte, non l’hoportato perché ho voluto portarlo, ma perché erodall’altra parte. Molto più semplice che venisse lui. Tanto prima o poi tutto si sarebbe aggiustato, avremmo fatto tornare i conti.
I conti non sono mai tornati ma per molti anni la nostra gioventù, i bambini, i libri, hanno tenuto insieme la giostra sgangherata dei balocchi.Quelle domeniche a tutto tondo sono state l’accordo che legava fra loro le note. Mai più esisteranno domeniche come quelle, il pallone che vola in alto, le grida, le corse, la terra battuta, l’erba e la polvere. L’urlo: gol! L’andare e venire dei bambini tra cani, crostate, tazze di tè, fette imburrate di pane. Tramontana e gerani, porte a vetri che sbattono e voci confuse insieme. Tante, da ogni parte. finché siamo stati giovani.
Nel 1968quando sono successi i fatti di Praga eravamo in Sardegna in vacanza. L’autunno seguente è andato al Congresso del Partito Comunista a Bologna. Non ricordo se era già iscritto o si è iscritto subito dopo. Una decisione che doveva liberarlo di tanti fantasmi ma avrebbe fatto saltare tutti i conti. Viene al tramonto da ponente il vento / e mi porta chiarezza / e molti mali...Ora nel silenzio dell’alba non ci sono più solo poesie, ora scrive lunghi promemoria, programmi, prende appunti che chiude in una cartellina scura. Insegna la domenica mattina in Sezione. Aiutava tutti. Anche i questuanti che avrebbero stroncato un bue.
I libri si sono moltiplicati. Li leggeva e li mandava alle biblioteche dei più sperduti e dimenticati paesi d’Italia. I più deboli tornavano a essere i privilegiati. E la cultura umanistica insegnava che senza conoscenza non c’è salvezza. Lui cominciava dalla conoscenza.
Quella mattina che è morto c’era il sole. È stato come un cataclisma, come se fossimo stati due ragazzi con tutta la vita davanti e le ombre e l’affetto avessero potuto durare in eterno insieme ai sogni e alla rabbia. Non c’erano più parole, non c’era più niente. Di colpo si è sfasciato il castello di carte. Vola da noi per sempre il verde canto / e sembra che la morte sia distante.. Ma poi la giostra sgangherata dei balocchi / scarica nella notte il suo bagaglio: / richiami acuti, gialli, disperati...
C’è nell’ “Allegria” di Ungaretti una poesia che aveva ritrovato negli ultimi tempi, da quando aveva cominciato a sentire quel cuore come un artiglio nel petto. Un cuore che aveva cominciato a mordicchiare la sua vita e si era già portato via le robuste Gitanes dal tabacco nero. Le partite a pallone. Le lunghe nuotate al largo.
Morire come le allodole assetate sul miraggio.
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha pii voglia.
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato.
Una poesia che apparteneva a quei primi libretti scalcagnati dalle pagine gialline. Se ne è andato con quella poesia in tasca.
Questo libretto era pronto così, in attesa di un editore che lo volesse pubblicare. Perché lo leggessero altri. perché attraverso la poesia conoscessero il suo amore per i versi e quello per la tagliola.
Alcune delle poesie che compaiono qui nella sezione “Un pascolo nel tempo” erano già comprese nella raccolta dello stesso titolo pubblicata nel 1972. Molte sono state però ritoccate, talvolta smontate e rimontate, a formare nuove composizioni.
Rosetta Loy
Taniello, ch'ave scrupole
mò che se vo' nzurà,
piglia e da Fra Liborio
va pe' se cunfessà.
«Patre - le dice - i' roseco,
i' pe nniente me mpesto;
ma po' dico 'o rusario,
e chello va pe cchesto...
Patre, ncuollo a li ffemmene
campo e ncoppa a 'o bordello;
ma sento messe e predeche...
e chesto va pe chello.
Iastemmo, arrobbo... 'O prossimo
spoglio e le dongo 'o riesto;
ma po' faccio 'a lemmosena...
e chello va pe' cchesto.
E mo, Patre, sentitela
st'urdema cannonata:
a sora vostra, Briggeta,
me l'aggio nsaponata...»
Se vota Fra Liborio:
«Guagliò, tu si’ Taniello?...
I' me nsapono a mammeta,
e chesto va pe cchello!»
NOTE
Nzurà= sposare
Roseco = molesto, brontolo
Me mpesto = mi arrabbio
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento
Salvatore Quasimodo
Una biografia di Salvatore Quasimodo
E venne un tempo
che le tentazioni diventarono così potenti
che pochi resistettero
La loro coscienza cominciò a turbarli
Un’ombra c’è in ciascuno di noi,
un altro me stesso che ci perseguita e tormenta
che s’insinua nella nostra coscienza
furtivamente come un ladro di notte
insistendo ferendo e amareggiando
”Sei tu lo stesso - domanda – sei tu lo stesso
che proclamava la nuova primavera
il vero amore e pane per tutti
che negava che la felicità fosse fatta
col sudore e col sangue d’altri uomini
che cercava nel suo popolo
la forza e la ragione.
Sei tu lo stesso - domanda –
che oggi si vende a chi paga di più
sei tu lo stesso”
Sono proprio io. Lo stesso
che sparava pallottole di giustizia
che durante le marce si fermava sul bordo del sentiero
per un fiore o il sorriso d’un bambino
che nelle notti chiare in cima alle montagne
tendeva la mano per cogliere le stelle
che lasciava lo spirito vagare nello spazio
e là, come un tamburo
annunciava il nuovo canto.
Sono lo stesso, ma oggi
i bambini fuggono quando passo
e gli specchi riflettono un’anima torpida
sfigurata corrotta.
Ah, in quale momento del percorso
i nostri passi si smarrirono?
Dovunque tentiamo di nasconderci
il nostro antico giuramento ci perseguita.
Devo imparare di nuovo
a perturbare l’universo, a rifiutare
il conforto dei palazzi
a dividere con i diseredati
il desiderio di virtù.
Il mio altro me stesso me lo insegnerà
Il testo portoghese (e francese)
Città azzurra
città fredda
città mobile e ferma
con le facciate al sole,
ancor nell'ombra il piede delle case.
Ombra ai cancelli e ai pini
e al sonno di piccoli bambini
rimasti nella casa senza madre.
Città di corse e soste
alle otto del mattino,
studenti, impiegati, manovali
e donne col rossetto e il giornale.
Città che indugi e che prorompi
alla periferia
mentre mi allontano a lavorare,
città di tutti e mia.
Difficile é il mio tempo,
ma io non mi lamento.
Mai ti dirò:
- Torniamo indietro,
Torniamo donne a casa -
Tu, casa più grande della mia,
ancor feroce al tenero mio amore
come caverna al primordiale,
ti chinerai sul gioco dei bambini
con libere movenze
che la luce non rompe
che l'ombra non incrina,
Perché tu sei nel tempo
destinata a finire
il tuo cemento,
a fiorire la tua maternità,
città di tutti e mia,
città! Che l'architetto
fa di vetro
e noi di sangue.
Da Luigia Rizzo Pagnin, Il borghese agli agguati, Edizioni de “Il rinoceronte”, Padova, 1964
OCCHIAZZURRA
A te occhiazzurra questi canti deve
uno che ha sete e alle tue labbra beve;
che antichi come lui, come te nuovi,
se giri tutto il mondo non ne trovi.
DA « PIANISSIMO »
Padre che muori tutti i giorni un poco
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e di te non t'accorgi e non rimpiangi;
se penso la fortezza con la quale
hai vissuto, il disprezzo ch'hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino,
sotto la rude scorza
l'istintiva poesia della tua anima;
il bene ch'hai voluto alla tua madre,
a tua sorella ingrata, a nostra madre
morta;
tutta la vita tua sacrificata;
e poi ti guardo così come sei
io mi torco in silenzio le mani.
Contro l'indifferenza della Vita
vedo inutile anch'essa la Virtù;
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre
che ridi se mi vedi e tremi quando
d'una qualche premura ti lo segno,
di quanto fui codardo verso te.
Benché il rimorso mi si alleggerisca
che più giusto sarebbe mi pesasse
sul cuore, inconfessato.
Io giovinetto imberbe ti guardai
con ira, padre, per la tua vecchiezza.
Stizza contro te vecchio mi prendeva...
Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s'oscurava, in faccia
alla finestra; e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo;
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere,
ma con quelle più amare te lo chiedo
che non vogliono uscire dai miei occhi.
Un pensiero soltanto mi conforta
di poterti guardare a ciglio asciutto;
il ricordo che piccolo, pensando
che come gli altri uomini dovevi
morire pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lagrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell'infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d'aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.
Esco dalla lussuria. M'incammino
per lastrici sonori nella notte.
Rimorso non mi punge o turba. Sono
solo tranquillo: immensamente.
Pure
qualche cosa è mutato in me, qualcosa
fuori di me. Ché la città mi pare
fatta paurosamente vasta e vuota;
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i traini e conti l'ore.
A queste vie simmetriche e deserte,
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità. Mi pare
d'esser sordo ed opaco come loro,
d'esser fatto di pietra come loro.
Il mio padre e la mia sorella sono
lontani, come divenuti estranei,
come sepolti già nella memoria.
Tra me e loro s'è frapposto il mio
peccato come immobile macigno.
E mi dicesser che mio padre muore
sento bene che adesso non potrei
piangere.
Son confinato fuori della vita,
una macchina io sesso che obbedisce,
come il traino e la strada necessario.
Ma non riesco a dolermene.
Cammino per lastrici sonori nella notte.
Il mio cuore si gonfia per te, terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi son nuovi: tutto quello
che vedo è come per la prima volta;
e l'aspetto più umile e consunto,
tutto m'intenerisce e mi dà gioia.
In te mi lavo come dentro un'acqua
dove si scordi tutto di se stesso.
La mia miseria lascio dietro me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finché vicino a te mi sentirò
così bambino, fin che la mia pena in te si scioglierà come la nebbia
nel sole
io non maledirò d'essere nato.
Io mi sono seduto qui per terra,
ambe le mani aperte sopra l'erba,
guardandomi amorosamente intorno.
E mentre così guardo mi si bagna
di calde dolci lacrime la faccia.
Taci, anima mia. Son questi i tristi
giorni in cui senza volontà si vive,
i giorni dell'attesa disperata.
Come l'albero ignudo a mezzo inverno
che s'attrista nell'ombra della corte,
io non credo di mettere più foglie
e dubito d'averle messe mai.
Camminando solo
tra la gente che m'urta e non mi vede,
mi pare d'esser da me stesso assente.
E m'accalco ad udire dov'è ressa,
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volgo al frusciare d'ogni gonna.
Per la voce d'un cantastorie cieco
per l'improvviso lampo d'una nuca
mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime
mi s'accendon negli occhi cupidigie.
Ché tutta la mia vita nei miei occhi
ogni cosa che passa la. commuove
come debole vento un'acqua morta.
Non sono che uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei.
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.
Nel mio povero sangue qualche volta
fermentano gli oscuri desideri.
Vado per la città solo, la notte;
e l'odore dei fondaci, al ricordo,
vince l'odor dell'erba sotto il sole.
Rasento le miriadi degli esseri
sigillati in se stessi come tombe.
E batto a porte sconosciute; salgo
scale consunte da generazioni.
La femmina che aspetta sulla soglia
l'ubriaco che rece contro il muro
guardo con occhi di fraternità.
E certe volte subito trasalgono,
nell'andito malcerto in capo a cui
occhi di sangue paiono i fanali,
le mie nari che fiutano il Delitto.
Mi cresce dentro l'ansia di morire
senza avere il godibile goduto
senza avere il soffribile sofferto.
La volontà mi prende di gettare
come un ingombro inutile il mio nome.
Con a compagna la Perdizione
a cuor leggero andarmene pel mondo.
6
A volte sulla sponda della via
colto da un infinito scoramento
mi seggo e dove vado mi domando,
perché cammino. E penso la mia morte
e vedo me già preso nella bara
troppo stretta, fantoccio inanimato.
Quant'albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi! Di ciò che abbiam sofferto,
di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo.
Le generazioni passan come
onde di fiume...
Una mortale pesantezza il cuore
m'opprime. Inerte mi par d'esser fatto
come qualche antichissima rovina
e guardare succedersi le ore,
gli uomini mutare i passi, i cieli
all'alba colorirsi, scolorirsi
a sera:..
Magra dagli occhi lustri, dai pomelli
accesi,
la mia anima torbida che cerca chi le somigli
trova te che sull'uscio aspetti gli uomini.
Tu sei la mia sorella di quest'ora.
Accompagnarti in qualche osteria
di bassoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto.
Cadavere vicino ad un cadavere,
bere dalla tua vista l'amarezza
come la spugna secca beve l'acqua.
Toccare le tue mani, i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
e sentirmi
guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre !
Nessuna gioia vale questo amaro
poterti fare piangere, potere
pianger con te!
Talora nell'arsura cittadina
un canto di cicala mi sorprende.
E subito ecco m'empie la visione
di campagne prostrate nella luce
e stupisco che ancora al mondo sian
alberi ed acque - le presenze buone
che bastavano un giorno a consolarmi...
Con questo
stupor sciocco l'ubriaco
riceve in viso l'aria della notte.
Ma poiché sento l'anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com'albero con tutte le radici,
sorrido a me smarritamente e come
in uno sforzo d'ali i gomiti alzo...
CAMILLO SBARBARo è nato a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. - Opere: Resine (Caimmi, Genova, 1911); Pianissimo; Trucioli (Vallecchi, Firenze, 1920); Liquidazione (Ribet, Torino, 1928).
Una biografia completa di Camillo Sbarbaro
Chi costruiva Tebe dalle sette porte?
Nei libri leggo i nomi dei re.
I re hanno trascinato i blocchi di pietra?
E tante volte distrutta Babilonia,
Chi di nuovo la riedificò?...
... La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li fece? Su chi
trionfarono i Cesari? La tanto decantata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?...
Il giovane Alessandro conquistò l'India,
egli, da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva neanche il cuoco con sé?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
affondò. Nessuno pianse oltre di lui?
Federico II vinse la guerra dei sette anni.
Chi la vinse oltre di lui?
Ogni pagina una vittoria.
Chi preparò il banchetto per i vincitori?
Ogni dieci anni un grand'uomo!
Chi ne pagò le spese?...
Poiché dei mondi sognati
non incontrai che la creta
e delle stelle intraviste
non ho che il gelo
poiché la vicenda si compie
senza eroismo
senza bellezza
senza passione
io sono morta da tempo
e qui c'è qualcuno che scrive.
I LEONI SUL SAGRATO
C'è un luogo dove dormi
e il tuo respiro
io non lo sento, non lo sento mai.
Fra i nostri due riposi
è la città spavalda
strade, fragori, alterchi, gente e tetti
e come due leoni sul sagrato
remoti e fermi, chiusi in una forma,
noi vigiliamo la nostra distanza.
CONFESSIONE
E scrivo male
perché ho tanta pena
e parlo piano
perché non mi ascolti
e piango zitta
perché mi vergogno.
CHANSONNETTE
Colui che amo
sa che lo chiamo
lo chiamo piano
lo chiamo invano
nella mia mano
sta la sua mano
finché lo chiamo
cosí pian piano
E se lo chiamo
con voce forte
le nostre mani
scioglie la morte.
LE TUE MANI
Le tue mani
sono sottili e chiare
mani gentili e deboli
carezzevoli alla fronte
use ad asciugar lagrime
ad aprirsi in elemosina.
Mani come le tue
conoscono tutto lo sporco soffrire
di tutti i mondi.
Hanno stretto le grate aspre
e graffiato le porte chiuse
e sanguinato di ferite ignobili.
Hanno giocato e perduto.
Hanno raccolto un premio
e dissipato,
compiuta una fatica
e disperso il vantaggio,
carezzato l'amore
e ucciso.
LA ZOLLA
lo sono la tua zolla
calda e oscura
dove fermenta la seminagione
che inonda l'acqua
e il sole brucia e assecca.
Sono la zolla verde
che darà il frutto della tua stagione
sono la zolla nera
che poi l'aratro gelido discosta.
Verde una spiga nuova
vicino a me trema nel vento e aspetta.
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina O Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Dino Campana
Una biografia di Dino Campana, con musica
No more be griev'd at that which thou hast done:
Roses have thorns, and silver fountains mud:
Clouds and eclipses stain both moon and sun,
And loathsome canker lives in sweetest bud.
All men make faults, and even I in this,
Authorising thy trespass with compare,
Myself corrupting, salving thy amiss,
Excusing thy sins more than thy sins are;
For to thy sensual fault I bring in sense, -
Thy adverse party is thy advocate, -
And 'gainst myself a lawful plea commence:
Such civil war is in my love and hate,
That I an accessary needs must be
To that sweet thief which sourly robs from me.
Non essere piú presa da pena per quello che hai fatto:
Hanno spine, le rose, e fango l'argentea sorgente:
Le nuvole e le eclissi intorbidano luna e sole,
li cancro ripugnante vive nel bocciuolo piú tenero.
È umano commettere errori, ne commetto uno io stesso
Quando mi provo a discolparti facendo paragoni,
Corrompendo me stesso per porgere unguento al tuo male,
Scusando i tuoi peccati piú di quanto non converrebbe;
Poiché un senso vado trovando ai tuoi falli sensuali,
- Diventa tuo avvocato chi dovrebbe invece accusarti, -
Intento in piena regola una causa contro di me:
Tale guerra civile tra amore e rabbia infuria in me,
Che non posso non diventare complice necessario
Di quella dolce ladrona che acerbamente mi depreda.
William Shakespeare
Sonetto XXXV
da “40 sonetti di Shakespeare”
Traduzione di Giuseppe Ungaretti
Arnoldo Mondadori Editore, 1966
Confine
Confine diceva il cartello
cercai la dogana, non c'era
non vidi dietro il cancello
ombra di terra straniera.
Qual rugiada e qual pianto,
quai lacrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto delle stelle?
E perchè seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l'erba fresca in grembo?
Perchè nell'aria bruna
s'udian quasi dolendo, intorno intorno
gir l'aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Reggono ma per poco
gli sguardi amorosi,
cincie presto buttate
a saggiare i dirupi.
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Nulla scompone l’agave.
Urge dentro
l’unico fiore.
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Il respiro giusto
nel tempo assegnato.
Altro non è dato sapere
di chi ha costruito i sentieri.
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Oltre i terrazzi il ponentino
soffia nei pini
passi di danza.
I cipressi sono già sulle punte.
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Tace il ramarro.
Urla il suo verde.
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Non si mostra
il gatto selvatico.
Dalle forre
inarca
lamenti d’amore.
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Sull’acqua
si accoccola appena.
Vento o mare il gabbiano
sa l’arte
di farsi cullare.
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Come per accordo
con la signora
dell’ombrellone accanto
ci salutiamo
un anno sì un anno no.
Non si può
chiedere tutto
all’estate.
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Stare presso.
Questo
a noi è concesso.
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Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finche' dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e' risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varra' piu' niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che .
Considero valore sapere in una stanza dov'e' il nord, qual'e' il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.
Chi è Erri De Luca
Un sito franco-italiano dedicato a Erri De Luca
Una presentazione di
Ne traggo qualche notizia sull’autore:
“Salvatore Esposito è nato a Bagnoli il 6 gennaio 1923: frequentò la scuola tecnico industriale: interruppe gli studi per otto anni durante i quali fu aggiustore meccanico, e, con l'occupazione alleata, fece il muratore al P. B. S.: riprese gli studi al liceo artistico, frequenta l' Architettura. È operaio dell'Ilva-Bagnoli. Le sue prime poesie le scrisse in napoletano sotto lo influsso di Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo. Conosce i classici meglio che i contemporanei.”
Il mio corpo è mille cicatrici
Cucite da mia madre
Con un filo di pianto
Ognuna e dolce come una bestemmia
Argentina nel mare della rabbia
Piove cielo nel lago d’erba
le mani nascoste alle mani
Guancia di carne
Su guancia di pane
Senza lacrime Immoto
Disfarmi
Capodanno vestito di flanella
Col sole sulle snelle ciminiere
E ottavini nell'ugola
Della sirena vorticosa
E' un fanciullo viziato
che mangia solo pastasciutta
e attende
un Messia riveduto
armato di fucile e bombe a mano
Ci viene addosso
Fermo alla sua sedia
Col dito teso
Quanto è lungo il braccio
Che plana sui disegni
L'irrequiete
Gambe da trampoliere
S artigliano al felpato linoleum
E urla le sue idee
Col naso adunco
Le spinge avanti a furia di spalla
Senza cravatta e senza rancore
Fra me e l’azzurro
Madre
E oltre
Le case al sole
Ma quando t'inabissi alla seggiola
e il gatto ritorna ai tuoi piedi
Il sole
L’azzurro
Le case
Ritornano all'abbraccio dei miei occhi
Alla riva di casa fra rottami
Di un giorno inghirlandato
Di mimose e pensieri leggeri
L'onda del tempo mi ha scaraventato
E alla collina
S'è dissolta in languore
Sul balcone fiorito
Più non vibrano voci
Ora severi
I covoni di coke si fan cupi
li carroponte è fermo nell'attesa
La notte incombe triste alla cimasa
La rondine è tornata il petto nero
Il macinino del caffè ci culla
Come bambini dopo un lungo pianto
Scaturito così per un nonnulla
L'aquilone di un canto
Un uomo ha sciolto nella via
M’è parso alla penombra di morire