Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage
prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
qui suivent, indolents compagnons de voyage,
le navire glissant sur les gouffres amers.
A peine les ont-ils déposés sur les planches,
que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,
laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
comme des avirons traîner à côté d'eux.
Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid!
L'un agace son bec avec un brûle-gueule,
L'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait!
Le Poëte est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer;
exilé sur le sol au milieu des huées,
ses ailes de géant l'empêchent de marcher.
.............................................
Spesso, per dilettarsi, gli uomini della ciurma
catturano gli albatros, grandi uccelli marini
che seguono, indolenti compagni di viaggio,
la nave che scivola sugli amari flutti .
Appena deposti sulle assi della tolda
questi re dell'azzurro, maldestri e vergognosi
lasciano pietosamente le .grandi ali bianche
trascinarsi come remi accanto a sè.
Quant'è'è goffo e fiacco questo viaggiatore alato!
Lui, prima così bello, quant'è comico e brutto!
Uno tormenta il suo becco con un mozzicone acceso,
l'altro mima, zoppicando, l'infermo che volava.
Il Poeta assomiglia al principe delle nubi
che sfida la tempesta e sbeffeggia l'arciere;
esiliato al suolo in mezzo al baccano
le sue ali di gigante gli impediscono il cammino.
Una biografia di Claude Baudelaire
Le date fondamentali
Il 20 dicembre 2000, con delibera del Consiglio comunale n. 126, ha preso avvio formalmente la formazione del piano strutturale.
Nel periodo compreso tra gennaio 2001 e novembre 2002 è stata svolta l’elaborazione tecnica del piano.
Nel periodo compreso tra dicembre 2002 e maggio 2003 è stata aperta una conferenza di pianificazione con la Provincia di Firenze e la Regione Toscana, conclusa con una intesa preliminare.
Il 10 luglio 2003, con la Delibera del Consiglio comunale n. 46, il piano è stato adottato e successivamente pubblicato in vista della presentazione delle osservazioni da parte dei cittadini.
Il 10 marzo 2004 è stata siglata una intesa formale con la Provincia di Firenze e la Regione Toscana relativa alla verifica di conformità dei contenuti del piano in relazione alle determinazioni delle leggi e dei piani territoriali.
Il 30 marzo 2004, con delibera del Consiglio comunale n. 18, sono state contro-dedotte le osservazioni presentate dai cittadini e il piano è stato approvato.
Il gruppo di lavoro
Il piano è stato redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Edoardo Salzano con l’ausilio di Mauro Baioni.
E’ stato costituito un ufficio di piano diretto da Graziella Beni, dirigente del Comune di Sesto Fiorentino, con personale interno (Gianni Bartolini, Matilde Casciaro, Mila Scala) e collaboratori esterni Davide Martinucci, Francesca Materazzi).
L’amministrazione comunale di Sesto Fiorentino è stata retta, nel periodo di formazione del piano, da una maggioranza di centro-sinistra, guidata dal sindaco Andrea Barducci. Assessore all’urbanistica è stato Pietro Rubellini.
I documenti
Tutti i documenti sono consultabili e scaricabili dalle pagine del sito del comune dedicate al piano strutturale.
L’avvio delle elaborazioni
L’inizio ufficiale delle elaborazioni di un piano strutturale, in Toscana, è sancito da una delibera del Consiglio comunale che ha lo scopo di:
- comunicare ai cittadini, alla regione e alla provincia l’intenzione di rinnovare il proprio strumento di pianificazione;
- indicare gli obbiettivi dell’amministrazione comunale;
- fare la ricognizione delle conoscenze disponibili e di quelle da reperire nella fase di analisi.
Il 20 dicembre 2000, con delibera del Consiglio comunale n. 126, ha preso avvio formalmente la formazione del piano strutturale. In fondo puoi scaricare la relazione tecnica, nota anche come 'documento di avvio'.
La redazione.
Nel periodo compreso tra gennaio 2001 e novembre 2002 è stata svolta l’elaborazione tecnica del piano.
Un glossario, una bussola o un setaccio?
In questi ultimi anni l’affinamento progressivo delle conoscenze e degli strumenti dell’urbanistica ha coinciso con un’inutile complicazione del linguaggio. Il latinorum delle leggi e dei piani è ormai diventato insopportabile, soprattutto quando maschera il vuoto o la confusione delle idee. Dietro le inutili complicazioni, invece, possono risiedere interessanti tentativi di comprendere le dinamiche di trasformazione, le relazioni tra i singoli elementi e l’assetto complessivo, tra ciò che andrebbe conservato per molti anni e ciò che è possibile, o necessario, modificare subito. La legge regionale della Toscana è tutto questo.
La legge urbanistica regionale innova fortemente il contenuto e il linguaggio della pianificazione, introducendo nuove figure pianificatorie e termini di uso non codificato quali "Sistemi", "Unità territoriali organiche elementari", "Statuto dei Luoghi", “invarianti strutturali”. Per queste ragioni, nel corso del lavoro, si è provveduto alla redazione di un glossario che è stato fatto proprio dall’Amministrazione con la decisione di Giunta comunale del 21 febbraio 2002.
In fondo puoi scaricare un glossario dei termini che abbiamo predisposto nel 2001, al fine di rendere esplicita l'impostazione del piano
Il quadro conoscitivo: atlante e indagine mirata
“Le nuove leggi regionali attribuiscono importanza rilevante al sistema delle conoscenze: ne sottolineano la decisività nelle parti generali ed finalistiche della legge, spesso legano con intelligenza le scelte sul territorio alla valutazione del patrimonio conoscitivo, quasi sempre prevedono la formazione di un sistema informativo regionale, coordinato (o coincidente) con quelli delle province e dei comuni” (E. Salzano, Le leggi regionali).
A Sesto Fiorentino abbiamo dedicato alla costruzione di un sistema accurato di conoscenze uno sforzo particolare. Due le direzioni di lavoro:
- la costruzione di un archivio di informazioni di base, concepito come una sorta di atlante delle conoscenze, avente un carattere descrittivo;
- la predisposizione di un set di analisi mirate alla comprensione e alla risoluzione di problemi specifici.
Il piano strutturale parte da un’accurata descrizione del territorio, la assume come fondativa delle scelte di lungo periodo e le traduce in regole di lunga durata (contenute nello statuto dei luoghi).
Pertanto è stato previsto un ampio ventaglio di settori di indagine, in parte affidate consulenti esterni all’amministrazione e in parte svolte dall’ufficio di piano. Lo sforzo compiuto dal Comune di Sesto Fiorentino è stato davvero notevole: oggi il comune dispone di informazioni dettagliate e aggiornate riguardanti i seguenti temi:
- aspetti naturalistiche e uso del suolo
- caratteri idrogeomorfologici;
- aspetti idraulici;
- agricoltura e suo sviluppo nel territorio collinare e nell’area della Piana:
- aspetti socio-economici;
- commercio;
- mobilità;
- formazione storica;
- caratteristiche fisiche e funzionali del territorio urbano;
- spazi e attrezzature pubbliche e d’uso pubblico;
- ricognizione dei vincoli amministrativi.
Nel sito del piano strutturale sono disponibili le tavole più significative dell'atlante.
Questo libro è un brano di storia, di storia come io l'ho vissuta. Pretende solo di essere un racconto particolareggiato della Rivoluzione d'Ottobre, cioè di quelle giornate in cui i bolscevichi, alla testa degli operai e dei soldati di Russia, si impadronirono del potere dello Stato, e lo dettero ai Soviet.
Nel libro si parla soprattutto di Pietrogrado, che fu il centro, il cuore stesso della insurrezione. Ma il lettore deve ben rendersi conto che tutto ciò che avvenne a Pietrogrado si ripeté, pressappoco egualmente, con una intensità più o meno grande, e ad intervalli più o meno lunghi, in tutta la Russia.
In questo volume, il primo di una serie alla quale lavoro, sono obbligato a limitarmi ad una cronaca degli avvenimenti di cui sono stato testimone, ai quali ho assistito personalmente o che conosco da fonte sicura. Il racconto propriamente detto è preceduto da due capitoli che tracciano brevemente le origini e le cause della Rivoluzione d'Ottobre. So bene che questi due capitoli saranno di difficile lettura, ma essi sono essenziali per comprendere ciò che segue.
Il lettore si porrà certamente numerose domande.
Che cos'è il bolscevismo? In cosa consiste la forma del governo fondato dai bolscevichi? I bolscevichi erano favorevoli all'Assemblea Costituente prima della Rivoluzione d'Ottobre; perché dunque la disciolsero poi, essi stessi, con la forza? E perché la borghesia, ostile all'Assemblea Costituente fino alla comparsa del pericolo bolscevico, assunse poi la difesa di questa stessa Assemblea?
Tutte queste questioni non potevano trovare qui una risposta. In un altro volume: Da Kornilov a Brest-Litovsk ,dove proseguo il racconto degli avvenimenti fino alla pace con la Germania, descrivo l'origine e la funzione delle varie organizzazioni rivoluzionarie, l'evoluzione del sentimento popolare, lo scioglimento dell'Assemblea Costituente, la struttura dello Stato sovietico, lo sviluppo e la conclusione dei negoziati di Brest-Litovsk.
Iniziando lo studio della insurrezione bolscevica, è necessario rendersi ben conto che la disorganizzazione della vita economica e dell'esercito russo, fine logica di un processo che risale al 1905, non cominciò il 25 Ottobre (7 Novembre) 1917, ma parecchi mesi prima. I reazionari, privi di ogni scrupolo, che dominavano la corte dello zar, avevano deliberatamente deciso di provocare una catastrofe per poter concludere una pace separata con la Germania. La mancanza di armi al fronte, che ebbe per conseguenza la grande ritirata dell'estate 1915, la scarsezza dei viveri negli eserciti e nelle grandi città, la crisi della produzione e dei trasporti del 1916, tutto ciò faceva parte di un gigantesco piano di sabotaggio, la cui esecuzione fu frenata a tempo dalla Rivoluzione di Marzo.
Durante i primi mesi del nuovo regime, malgrado la confusione seguente a un grande movimento rivoluzionario, che liberava un popolo di 160 milioni di uomini, il popolo più oppresso del mondo intero, la situazione interna e la capacità di combattimento degli eserciti migliorarono, infatti, di molto.
Ma tale «luna di miele» durò poco tempo. Le classi possidenti volevano una rivoluzione esclusivamente politica che, strappando il potere allo zar, lo trasmettesse a loro. Esse volevano fare della Russia una repubblica costituzionale sul modello della Francia o degli Stati Uniti, o una monarchia costituzionale, come quella inglese. Le masse popolari volevano invece una vera democrazia nella città e nelle campagne.
William English Walling, nel suo libro II messaggio della Russia, consacrato alla rivoluzione del 1905, descrive esattamente lo stato d'animo dei lavoratori russi che dovevano poi, quasi unanimemente, sostenere il bolscevismo:
I lavoratori comprendevano bene che, anche sotto un governo liberale, essi avrebbero rischiato di continuare a morire di fame se il potere fosse rimasto ancora nelle mani di altre classi sociali.
L'operaio russo è rivoluzionario, ma non è né violento, né dogmatico, né stupido. Egli è pronto alla lotta sulle barricate, ma ne ha studiato le regole e, caso unico fra i lavoratori del mondo intero, le ha imparate dalla pratica. È risoluto a condurre fino alla fine la lotta contro il suo oppressore, la classe capitalista. Non ignora che esistono ancora altre classi, ma esige che esse prendano nettamente posizione nel conflitto accanito che si avvicina.
I lavoratori russi riconoscevano tutti che le nostre istituzioni politiche [americane] sono preferibili alle loro, ma non desideravano affatto di passare da un dispositivo all'altro, [quello della classe capitalista]...
Se gli operai russi si sono fatti uccidere e sono stati impiccati a centinaia a Mosca, a Riga, a Odessa, se essi sono stati, a migliaia, imprigionati nelle galere russe ed esiliati nei deserti e nelle regioni artiche, non è per conquistare i privilegi discutibili degli operai dei Goldfilds e di Cripple-Creek...
Si sviluppò così in Russia, nel corso stesso di una guerra esterna, in seguito alla rivoluzione politica, la rivoluzione sociale che si concluse con il trionfo del bolscevismo.
A. J. Sack, direttore dell'Ufficio di informazioni russe per gli Stati Uniti, ed avversario del governo sovietico, ha scritto nel suo libro La nascita della democrazia russa:
I bolscevichi si costituirono in Consiglio dei ministri con Lenin, presidente, e Leone Trotsky, ministro degli affari esteri. Quasi subito dopo la rivoluzione di Marzo, la loro andata al potere era apparsa inevitabile. La storia dei bolscevichi dopo la rivoluzione è la storia della loro ascesa costante...
Gli stranieri, gli americani in particolare, insistono frequentemente sulla ignoranza dei lavoratori russi. È esatto che questi non possedevano l'esperienza politica dei popoli occidentali, ma erano notevolmente preparati nella organizzazione delle masse. Nel 1917 le cooperative di consumo, contavano più di 12 milioni di aderenti. Lo stesso sistema dei Soviet è un ammirabile esempio del loro genio organizzatore. Inoltre non vi è probabilmente sulla terra un altro popolo che conosca così bene la teoria del socialismo e le sue applicazioni pratiche.
William English Walling scrive a questo proposito:
I lavoratori russi sanno, nella loro maggioranza, leggere e scrivere. La situazione estremamente turbata nella quale si trovava il paese da molti anni, ha fatto sì che essi hanno avuto il vantaggio di avere per guide non solo i più intelligenti tra di loro, ma una grande parte degli intellettuali, egualmente rivoluzionari, che comunicarono loro il proprio ideale di rigenerazione politica e sociale della Russia...
Molti scrittori hanno giustificato la loro ostilità contro il governo sovietico con il pretesto che l'ultima fase della rivoluzione fu solamente una lotta di difesa degli elementi civili della società contro gli attacchi brutali dei bolscevichi. Furono invece proprio tali elementi, le classi possidenti, che, di fronte al potere crescente delle organizzazioni rivoluzionarie di massa, tentarono di distruggerle ad ogni costo e di sbarrare la strada alla rivoluzione. Per rovesciare il ministero Kerenski e per annientare i Soviet esse disorganizzarono i trasporti, provocarono dei torbidi interni; per vincere i Consigli di fabbrica, chiusero le officine, fecero sparire combustibile e materie prime; per schiacciare i Comitati dell'Esercito, ristabilirono la pena di morte e cercarono di provocare la disfatta militare.
Evidentemente esse gettavano così benzina, e della migliore, sul fuoco bolscevico. I bolscevichi risposero predicando la guerra di classe e proclamando la supremazia dei Soviet.
Tra questi due estremi, più o meno caldamente appoggiati da gruppi diversi, si trovavano i socialisti detti «moderati», che comprendevano i menscevichi, i socialisti rivoluzionari ed alcune frazioni di minore importanza. Tutti questi partiti erano ugualmente attaccati dalle classi possidenti, ma la loro forza di resistenza era spezzata dalle loro teorie stesse.
I menscevichi ed i socialisti-rivoluzionari proclamavano che la Russia non era matura per la rivoluzione sociale e che solo una rivoluzione politica era possibile. Secondo loro le masse russe mancavano dell'educazione necessaria per la presa del potere; ogni tentativo in tale senso non avrebbe che provocato una reazione, la quale avrebbe facilitato ad un qualsiasi avventuriero senza scrupoli la restaurazione del vecchio regime. Perciò quando i socialisti «moderati» furono obbligati dalle circostanze a prendere il potere, non osarono servirsene.
Essi credevano che la Russia dovesse passare, a sua volta, per le stesse tappe politiche ed economiche dell'Europa Occidentale, per arrivare, infine, contemporaneamente al resto del mondo, al paradiso socialista. Si trovavano quindi d'accordo con le classi possidenti per fare della Russia soprattutto uno Stato parlamentare — alquanto più perfezionato, tuttavia, delle democrazie occidentali — ed insistettero, perciò, per la partecipazione delle classi possidenti al potere. Di là ad una politica di sostegno, non vi era che un passo. I socialisti «moderati» avevano bisogno della borghesia; ma la borghesia non aveva bisogno dei socialisti «moderati». I ministri socialisti furono obbligati a cedere, a poco a poco, sulla totalità del loro programma, via via che la pressione delle classi possidenti aumentava.
E finalmente, quando i bolscevichi ebbero abbattuto tutto quel castello di compromessi senza base, menscevichi e socialisti rivoluzionari si trovarono nella lotta a fianco delle classi possidenti. Questo stesso fenomeno noi lo vediamo oggi riprodursi, presso a poco, in tutti i paesi del mondo.
È ancora di moda, dopo un anno di esistenza del regime sovietico, parlare della rivoluzione bolscevica come di una «avventura». Ebbene, se si deve parlare di avventura, fu veramente tra le più meravigliose in cui si sia impegnata l'umanità, l'avventura che aprì alle masse lavoratrici il terreno della storia e che fece tutto dipendere ormai dalle loro vaste e naturali aspirazioni. Ma aggiungiamo che era pronto, prima di novembre, l'apparato per mezzo del quale le terre degli agrari potevano essere distribuite ai contadini; che i Consigli di fabbrica ed i sindacati erano costituiti, per realizzare il controllo operaio dell'industria, e che ogni città, ed ogni villaggio, ogni distretto, ogni provincia, aveva i suoi Soviet di deputati operai, soldati e contadini pronti ad assumere l'amministrazione locale.
Qualunque giudizio si dia del bolscevismo, è certo che la rivoluzione russa è uno dei grandi avvenimenti della storia dell'umanità e che la conquista del potere da parte dei bolscevichi è un fatto d'importanza mondiale. Come gli storici si sforzano di ricostruire nei suoi più piccoli particolari la storia della Comune di Parigi, così essi desiderano sapere ciò che è accaduto a Pietrogrado nel novembre 1917, lo stato d'animo del popolo, la fisionomia dei suoi capi, le loro parole, i loro atti. Ho scritto questo libro pensando ad essi.
Durante la lotta le mie simpatie non erano neutre. Ma tracciando la storia di quelle grandi giornate ho voluto considerare gli avvenimenti come un cronista coscienzioso che si sforza di fissare la verità.
New-York, 1° gennaio 1919.
Il testo integrale del libro di John Reed è qui, in italiano
Una biografia di John Reed, in inglese
Little David was in his 4th grade class when the teacher asked the children what their fathers did for a living.
All the typical answers came up-fireman, policeman, salesman, doctor, lawyer, etc.
David was being uncharacteristically quiet, so the teacher asked him about his father.
My father's an exotic dancer in a gay cabaret and takes off all his clothes in front of other men and they put money in his underwear. Sometimes, if the offer is really good, he will go home with some guy and make love with him for money.
The teacher, obviously shaken by this statement, hurriedly set the other children to work on some exercises and took little David aside to ask him,
Is that really true about your father?
No, said David, He works for the Republican National Committee to re-elect George Bush, but I was too embarrassed to say that in front of the other kids
IO NON HO MANI
Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l'ufficio
di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere
custode
della vostra solitudine:
sono
salvatore
di ore perdute.
|
L’esecuzione del disco da cui è tratto questo brano è dell’orchestra Les Musiciens du Louvre, diretta da Marc Minkowski; le voci sono di Isabelle Polenard, Jennifer Smith, Nathalie Stutzmann, John Elwes. Il disco è Erato
Lascia la spina
cogli la rosa;
tu vai cercando
tu vai cercando
il tuo dolor.
Lascia la spina
cogli la rosa;
tu vai cercando
il tuo dolor.
Canuta brina
per mano ascosa,
giungerà quando
nol crede il cuor.
giungerà quando
nol crede il cuor.
Canuta brina
per mano ascosa,
giungerà quando
nol crede il cuor.
giungerà quando
nol crede il cuor.
Lascia la spina
cogli la rosa;
tu vai cercando
il tuo dolor.
tu vai cercando
tu vai cercando
il tuo dolor.
Lascia la spina
cogli la rosa;
tu vai cercando
il tuo dolor.
Tu vai cercando
tu vai cercando
il tuo dolor.
Lascia la spina
cogli la rosa;
tu vai cercando
il tuo dolor.
Com'era Georg Frederic Haendel (galleria di immagini)
E' in una parallela di via Sangallo. I piatti sono davvero molto buoni e molto curati, le cose semplici e quelle raffinate sono tutte ugualmente saporite. L'ultima volta (14 ottobre 2004) ho mangiato un ottimo antipasto (alici alla tempura), un primo di pasta molto buono e un eccezionale flan di cioccolato farcito di frutti di bosco. Eravamo in tre, abbiamo bevuto una bottiglia di delizioso vino bianco che non conoscevo (Sovente della Fattoria di Poggio Capponi, a Montespertoli) e un bicchiere di vino assortito con i dessert, e abbiamo pagato 28 € a testa. Locale sobrio, elegante, quieto. Se volete prenotare +39 055 489957, per e-mail:
vinolio@vinolio.com; il sito è qui: www.vinolio.com
A conferma che in Italia per sentirsi avanzati si usa l'inglese a sproposito, valga quanto successo a Genova venerdì scorso: due ministri (Moratti e Siniscalco) sono accorsi al capezzale del vacillante presidente della regione, Sandro Biasotti, per rafforzarne la candidatura alle prossime regionali. L'hanno fatto con una cena di gala nei pressi di Portofino e con una seduta pubblica nella quale il fisico Roberto Cingolani è stato nominato alla guida del nascente IIT, Istituto Italiano di Tecnologia, da mesi narrato come una sorta di Mit italico. Il sorridente Siniscalco, quello che nei giorni scorsi ha chiamato «shadow toll» il pedaggio sulle superstrade, ci ha fatto dunque capire che per essere davvero moderni occorre che IIT venga pronunciato «ai-ai-ti», all'inglese. Ora che gli inglesi chiamino «naiki» la Nike di Samotracia può essere un segno di ignoranza della cultura classica, ma che I-I-T si debba storpiare in quel modo è del tutto nuova (a parte il fatto che gli americani verosimilmente lo pronunceranno «double-ai-t», ovvero «doppia I». Per parte sua Cingolani ha sintetizzato gli indirizzi di studio con la locuzione «humanoid robotics», un termine preso a prestito dal Mit di Boston e dalla giapponese Waseda university. Secondo Moratti, che di queste cose non ne capisce, queste ricerche riguarderanno anche la salute («di cui è inutile che vi ricordi quanto è importante»), ma nella letteratura scientifica corrente la «robotica umanoide» indica sostanzialmente un ramo dell'intelligenza artificiale applicata.
Il tutto è avvenuto nei locali dell'ex manicomio di Quarto che un primario basagliano, Antonio Slavic, negli anni `80 trasformò da inferno a luogo della socialità e della creatività artistica. Venerdì invece Quarto ha ospitato il «board of trustees» (Comitato di indirizzo e regolazione dell'istituto) dell'Ai-Ai-Ti, e per gli ex matti creativi non ci sarà più posto, anche se per legge il patrimonio degli ex ospedali psichiatrici deve restare agli ex ospiti e alle loro famiglie.
Nota: a questi patiti degli americanismi a tutti i costi, un suggerimento per dare un nome al loro modello di sviluppo: "Lacrimarum Valley" (fb)
Pianefforte ’e notte
Nu pianefforte ’e notte sona luntanamente, e ’a museca se sente pe ll’aria suspirà.
È ll’una: dorme ’o vico ncopp’ a sta nonna nonna ’e nu mutivo antico ’e tanto tiempo fa.
Dio, quanta stelle ncielo! Che luna! E c’ aria doce! Quanto na bella voce vurria sentì cantà!
Ma sulitario e lento more ’o mutivo antico; se fa cchiù cupo ’o vico dint’ a ll’oscurità.
L’anema mia surtanto rummane a sta fenesta. Aspetta ancora. E resta, ncantannose, a penzà.
Chi è Salvatore Di Giacomo
Cosa rappresentava un refuso per lo scrittore che rileggeva un proprio testo in bozze di stampa o per il correttore professionale delle medesime, una persona in carne e ossa china su fogli di carta? Un momento di speciale attenzione per una segnatura a margine secondo simboli standardizzati. Invece per il lettore che avrebbe potuto incapparvi nonostante i filtri precedenti era una rara avis, un’evenienza inattesa, semmai annotata come curiosità. Tecnicamente uno scambio nell’ordine dei caratteri di una parola: se si guarda in un dizionario vecchio ma non troppo come il Novissimo Melzi del 1973 si coglie l’atto materiale originario: "lettera scambiata per un’altra nello scomporre i caratteri e posta nella cassetta di un’altra lettera". Ma oggi quel vocabolo che profuma di piombo – infatti refundere (versare) richiama la linotype che fonde le righe in un sol pezzo – è l’anacronistica copertura del significato generico usuale di "qualsiasi errore di stampa" (vocabolari moderni), altro anacronismo giacché l’errore non avviene in alcuna stampa. Per decenni la lettura di migliaia di testi non fu infastidita da quell’infiltrazione. Retrocedendo nel tempo ritrovo la garanzia che gli editori davvero seri, consapevoli del compito culturale, offrivano, anche negli anni più difficili. I libri Einaudi della collana "Universale": ne riprendo in mano ora qualcuno del 1943: Lo Spettatore, di Joseph Addison (1711), i Canti del popolo greco, di Niccolò Tommaseo (1842), Una storia vera (Dialoghi) di Luciano di Samosata… Carta brutta, gabbia della pagina non ben allineata coi bordi, inchiostratura non sempre perfetta; ma nessun refuso, nessun errore neanche quando avrebbe potuto infilarne la traduzione (ma all’inglese di Addison ci pensava un certo Mario Praz). Quanti errori avremmo potuto tollerare nel Moby Dick edito da Frassinelli Tipografo nel 1942 con la traduzione di Cesare Pavese? Ben pochi o nessuno. E la modestissima milanese Universale Economica, simbolo il canguro? Ecco qui il notissimo soldato di Jaroslav Hasek nei quattro volumetti del 1951 letti e riletti in una buona traduzione dal ceco senza il minimo intoppo. Bastarono in seguito pochi anni per ottenere libri sempre meglio costruiti sotto ogni aspetto. Uno dei più bei prodotti editoriali di ogni tempo furono negli anni Cinquanta i primi "Coralli" di Einaudi, quelli legati in cartone vegetale vivo e dotati di una riproduzione a colori fra nome dell’autore e titolo: non avremmo accettato refusi di sorta leggendo un Pavese o un Fenoglio o un Bellow o un Robbe-Grillet; altrimenti avremmo protestato duramente. Poi, per un lungo periodo non contò la maggiore o minor preziosità editoriale: l’omino chino sui fogli delle bozze di stampa faceva comunque il suo dovere, non era ancora tempo di tagli e risparmi, di fallimenti, fusioni, appropriazioni di forti sui deboli, da cui poteva derivare anche una minor cura del testo. Ma, indipendentemente dai processi di ristrutturazione (e distruzione) dell’editoria, venne il punto di rottura circa la garanzia di assoluta correttezza del testo. L’impiego del computer e i nuovi sistemi di produzione cambiarono il regime, se così posso dire, del testo e della caccia all’errore. I libri privi di refusi – nel significato improprio attuale – si diradarono mentre apparve una novità: invece di incontrare specialmente parole sbagliate, ossia insensate, trovavi vocaboli sensati ma completamente estranei alla frase o a una sua parte; oppure il vocabolo mancava, o era di troppo. Molte altre curiosità sbucarono: ne parlerò poco più avanti concludendo su un caso recente. Il libro che per primo mi stupì dopo diversi esercizi di paziente lasciar correre è L’uomo che non era Maigret. Ritratto di Georges Simenon, di Patrick Marnham, La Nuova Italia, 1994: un numero di errori sufficiente a rendere fastidiosa la lettura, non ancora a farti gettare il libro dalla finestra, come avrei dovuto fare nella circostanza seguente.
Ad agosto ho acquistato per la prima volta uno dei volumi della collana "Ottocento" di La Biblioteca di Repubblica, precisamente Il ritorno alla brughiera di Thomas Hardy, il n. 32. Infatti possiedo gli altri trentun testi, letti in edizioni talvolta vecchie ma nell'insieme dignitose, traduzione compresa (ciò vale anche per gli altri due maggiori romanzi di Hardy, Via dalla pazza folla e Tess d'Urberville). Ebbene, la lettura è stata lunga, faticosa, spezzata: un tormento. La causa? L'inusitata numerosità di errori di sconcertante varietà. Sessantotto casi – un primato nell'ambito delle mie letture – sono veramente troppi; data anche la loro cadenza e dunque l'attesa nervosa della loro sicura apparizione hanno vietato il piacere previsto. Non posso trascrivere l'elenco che mi sono costruito, ad ogni modo c'è di tutto un po': mancanza o eccedenza di parola, inversione di termini, sbagli in articoli determinativi e indeterminativi, preposizioni, congiunzioni; singolari al posto di plurali e viceversa, locuzione positiva invece che negativa, errori ortografici (quantaltri, sopra- (a capo) vissuto...), e anche qualche refuso classico. Come è potuto succedere? E il revisore che il traduttore (Paola Giuliani) ringrazia, che testo ha visto? Mi è chiaro: ci si è fidati ciecamente di un programma di correzione automatica ignorando l'assoluta insufficienza di un qualsiasi strumento di questo tipo. Appunto: lui non è come l’omino correttore di bozze, non può recepire l’insesatezza, coglie solo il termine inesistente nel suo "personale" (ma guarda) dizionario sicuramente limitato. Per questo vale l’elenco proposto sopra. Eppure qualcosa non ha funzionato nemmeno nel controllo ortografico più semplice, altrimenti mancherebbero i due esempi citati e qualche altro come la parola ripetuta di seguito o la mancanza di un carattere. Chi si fida del programma automatico, poi, saprà che quel prepotente ti può cambiare una parola che non riconosce, spesso un nome proprio, con un’altra quasi uguale per caratteri ma bizzarra. Infine: se è vero che il revisore ha letto il testo, deve averlo fatto solo come rapida scorsa al video trascurando la maggior sicurezza concessa dalla carta stampata: una brutta abitudine sempre più diffusa non giustificata da un ipotetico minor costo.
Penso dubbioso all’enorme portata dell’iniziativa editoriale di Repubblica e alle centinaia di migliaia di copie per ogni volume settimanale. Temo che tutti o gran parte facciano cattiva compagnia a quello del nostro povero Hardy. Nessuno è intervenuto. Forse i libri sono acquistati e per lo più collocati in bell’ordine numerico su uno scaffale e lì rimangono.
Lodovico Meneghetti
'O VIENTO
Pe' mare, na dummeneca d'estate,
c' 'o cuttariello 'ncalma, sott' 'o sole...
LI' afa è accussì pesante
ca, si parie, te stancano 'e pparole.
Na cupola celeste e trasparente
me pare 'o cielo, ca cummoglia Napule
e se perde, luntano, senza fine.
Aunìte o sparpagliate
pe' Pròceta, Pusilleco, Surriento,
chesti vvele latine,
arze 'e calore e stanche,
nchiummate a mmare, senza n'ombra
pareno tanta palummelle janche
appezzàte ogneduna cu na spingula...
Che pace! Che silenzio
Stiso 'ncuperta, 'e spalle e 'o pietto 'a fore,
Penzo surtanto ca... nun penzo a niente...
Nu vuzzo 'e piscatore
vota nnanza « Donn' Anna »,
sotto a stu sole ardente...
(Sbatteno 'e terzarule lentamente
'rifaccia a sti vvele 'npanna...)
A ttemmone, 'o cchiù viecchio marenare,
c' 'a cicca mmocca, meglio d' 'o ffumà,
mo guarda a mmare,
mo dà n' uocchio e mo mbrusunèa c' 'o viento ;
pecchè, p' 'a gente 'e mare,
'o viento è comme a ‘na perzona viva
ne sanno 'a voce, 'e mmosse, 'o tradimento;
ne sanno 'e bbon' azione e 'a nfamità...
Ogge, è cchiù infamo e dispettuso ancora
Nun ce aggio avuto sciorta !
... Ma che cuntrora !
Che cuntrora schiattosa !
calma eterna 'ncopp' a st' acqua morta
nce nfonno 'a mano e quase nun s'è nfosa...
St' addore 'e fune 'e buordo e de lignamme,
vernice, « piccepaino »,
stu senzo 'e salimastro e de catramme,
ca quanno nun c' è viento, cchiù se sente,
me trase int' 'e ccervelle, acutamente...
Tengo n' arzura 'incanna...
(... Sbatteno 'e terzarule lentamente
'nfaccia a sti vvele 'npanna...)
Ma, a nu mumento a n' ato,
llà... fore Capre... ancora cchiù luntano,
‘na macchiulella blù,
ma accussì blù ca pare quase nera,
se stennie 'ncopp' all'acqua...
È n'ombra, è niente
te pienze tu ;
ma ll' ommo 'e mare, fisso,
cu ll' uocchio afflussiunato,
già, primm' 'e te, l' ha visto,
zitto eh' è isso è 'o viento...
... 'Oi lloco... 'Oi lloco...
Rèfola ca s'accosta chiano chiano,
se fa desiderà...
Pare cumm' a na femmena,
ca se ciancèa nu poco
primm' 'e se fa vasà...
Po 'a macchia blù se spanne ; e mo so' ttante
ca se ncrucèano mmiez"o golfo 'e Napule...
'O mare, fino a mmo, janco, abbagliante,
sott' a stu sole 'e fuoco,
cagna culore : mo è turchino - ardesia
nu velluto turchino - ardesia... 'Oi lloco...
Mpruvisamente,
comme schezzechiasse appena appena,
pare ca mille e mille àcene 'arena,
attuorno a nuie, chioveno a mmare e 'o pogneno,
'o stuzzicano, 'o smoveno....
'Aguanta 'a scotta... Forza...
L'arberatura schioppa... 'E vvele sbanneno,
ruciulèa sottaviento nu binocolo...
'O còttero va « orza »...
Nu poco ancora... N' atu ppoco ancora...
Pare eh' affonna, pare,
cu 'a murata 'int' all'acqua e a chiglia 'a fore...
... Che viento frisco!
... E quant' è bello, 'o mare
ca fragne a ppoppa e sciaqquettèa p' 'a prora...
Alle soglie d'autunno
in un tramonto
muto
scopri l'onda del tempo
e la tua resa
segreta
come di ramo in ramo
leggero
un cadere d'uccelli
cui le ali non reggono più.
18 agosto 1935
Ricordo un pomeriggio di settembre,
sul Montello. Io, ancora una bambina,
col trecciolino smilzo ed un prurito
di pazze corse su per le ginocchia.
Mio padre, rannicchiato dentro un andito
scavato in un rialzo del terreno,
mi additava attraverso una fessura
il Piave e le colline; mi parlava
della guerra, di sé, dei suoi soldati.
Nell'ombra, l'erba gelida e affilata
mi sfiorava i polpacci: sotto terra,
le radici succhiavan forse ancora
qualche goccia di sangue. Ma io ardevo
dal desiderio di scattare fuori,
nell'invadente sole, per raccogliere
un pugnetto di more da una siepe.
Milano, 22 maggio 1929
Ricordo che, quand'ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l'argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c'era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un'aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l'orizzonte;
socchiudevo un po' gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.
Milano, 24 aprile 1929
E' bello camminare lungo il torrente:
non si sentono i passi, non sembra
di andare via.
Dall'alto del sentiero si vede la valle
e cime lontane ai margini
della pianura, come pallidi scogli
in riva a una rada - Si pensa
com'è bella, com'è dolce la terra
quando s'attarda a sognare
il suo tramonto
con lunghe ombre azzurre di monti
a lato - Si cammina lungo il torrente:
c'è un gran canto che assorda
la malinconia -
Milano, 9 agosto 1934
Venezia. Silenzio. Il passo
Di un bimbo scalzo
Sulle fondamenta
Empie d’echi
Il canale.
Venezia. Lentezza. Agli angoli
Dei muri sbocciano
Alberi e fiori:
come durasse
un’intera stagione il viaggio,
come se maggio
ora
li sdipanasse
per me.
Al pozzo di un campiello
Il tempo
Trova un filo d’erba tra i sassi:
lega con quello
il suo battito all’ala
di un colombo, al tonfo
dei remi.
22 ottobre 1933
Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggere
per lasciare un’impronta.-
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
altre cose intendendo-
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.
16 ottobre 1933
O lasciate lasciate che io sia
Una cosa di nessuno
Per queste vecchie strade
In cui la sera affonda-
O lasciate lasciate ch’io mi perda
Ombra nell’ombra-
Gli occhi
Due coppe alzate
Verso l’ultima luce-
E non chiedetemi- non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l’arcana folla
dei miei fantasmi-
e non cercate- non cercate
quello ch’io cerco
se l’estremo pallore del cielo
m’illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge ad entrare-
Non domandatemi se prego
E chi prego
E perché prego-
Io entro soltanto
Per avere un po’ di tregua
E una panca e il silenzio
In cui parlino le cose sorelle-
Poi ch’io sono una cosa-
Una cosa di nessuno
Che va per le vecchie vie del mondo-
Gli occhi
Due coppe alzate
Verso l’ultima luce.
Milano, 18 ottobre 1930
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d'un cancello angusto
al limitare d'un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all'irruente fuga
d'una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell'anima
e la porta dell'anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l'assalto è più duro.
E l'ultimo giorno
- io lo so -
l'ultimo giorno
quando un'unica lama di luce
pioverà dall'estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l'onda mostruosa,
l'urto tremendo,
l'urlo mortale
delle parole non nate
verso l'ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull'arcano cielo dell'ombra,
sarà
- tu lo sai -
la pace.
Milano, 10 febbraio 1931
per la pastafrolla:
3 etti di farina
1 etto e mezzo di burro
1 uovo
1 etto e mezzo di zucchero
1 cucchiaino di lievito per dolci
oppure: comprarla surgelata
per il riempimento:
amaretti
marmellata di arance
fare 2 sfoglie: la superiore più sottile della inferiore
stendere la sfoglia inferiore, ricoprire con marmellata di arance (o altra a piacere)
bagnare gli amaretti nel cognac o altro liquore a piacere e disporli sopra la marmellata a distanza di 1 o 2 cm
ricoprire con il secondo strato di pastafrolla
mettere in forno per mezz'ora a 180 gradi (variabile secondo le caratteristiche del forno)
LAMENTO PER IGNACIO SÁNCHEZ MEJÍAS
(1935)
Alla cara amica
Encarnación López Júlvez
1 - Il cozzo e la morte
Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.
Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavan come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!
2 - Il sangue versato
Non voglio vederlo!
Di’ alla luna che venga,
ch’io non voglio vedere il sangue
d’Ignazio sopra l’arena.
Non voglio vederlo!
La luna spalancata.
Cavallo di quiete nubi,
e l’arena grigia del sonno
con salici sullo steccato.
Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.
Ditelo ai gelsomini
con il loro piccolo bianco!
Non voglio vederlo!
La vacca del vecchio mondo
passava la sua triste lingua
sopra un muso di sangue
sparso sopra l’arena,
e i tori di Guisando,
quasi morte e quasi pietra,
muggirono come due secoli
stanchi di batter la terra.
No.
Non voglio vederlo!
Sui gradini salì Ignazio
con tutta la sua morte addosso.
Cercava l’alba,
ma l’alba non era.
Cerca il suo dritto profilo,
e il sogno lo disorienta.
Cercava il suo bel corpo
e trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentir lo zampillo
ogni volta con meno forza:
questo getto che illumina
le gradinate e si rovescia
sopra il velluto e il cuoio
della folla assetata.
Chi mi grida d’affacciarmi?
Non ditemi di vederlo!
Non si chiusero i suoi occhi
quando vide le corna vicino,
ma le madri terribili
alzarono la testa.
E dagli allevamenti
venne un vento di voci segrete
che gridavano ai tori celesti,
mandriani di pallida nebbia.
Non ci fu principe di Siviglia
da poterglisi paragonare,
né spada come la sua spada
né cuore così vero.
Come un fiume di leoni
la sua forza meravigliosa,
e come un torso di marmo
la sua armoniosa prudenza.
Aria di Roma andalusa
gli profumava la testa
dove il suo riso era un nardo
di sale e d’intelligenza.
Che gran torero nell’arena!
Che buon montanaro sulle montagne!
Così delicato con con le spighe!
Così duro con gli speroni!
Così tenero con la rugiada!
Così abbagliante nella fiera!
Così tremendo con le ultime
banderillas di tenebra!
Ma ormai dorme senza fine.
Ormai i muschi e le erbe
aprono con dita sicure
il fiore del suo teschio.
E già viene cantando il suo sangue:
cantando per maremme e praterie,
sdrucciolando sulle corna intirizzite,
vacillando senz’anima nella nebbia,
inciampando in mille zoccoli
come una lunga, scura, triste lingua,
per formare una pozza d’agonia
vicino al Guadalquivir delle stelle.
Oh, bianco muro di Spagna!
Oh, nero toro di pena!
Oh, sangue forte d’Ignazio!
Oh, usignolo delle sue vene!
No.
Non voglio vederlo!
Non v’è calice che lo contenga,
non rondini che se lo bevano,
non v’è brina di luce che lo ghiacci,
né canto né diluvio di gigli,
non v’è cristallo che lo copra d’argento.
No.
Io non voglio vederlo!!
3 - Corpo presente
La pietra è una fronte dove i sogni gemono
senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.
La pietra è una spalla per portare il tempo
Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.
Ho visto piogge grigie correre verso le onde
alzando le tenere braccia crivellate
per non esser prese dalla pietra stesa
che scioglie le loro membra senza bere il sangue.
Perché la pietra coglie semenze e nuvole,
scheletri d’allodole e lupi di penombre,
ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,
ma arene e arene e un’altra arena senza muri.
Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.
Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:
la morte l’ha coperto di pallidi zolfi
e gli ha messo una testa di scuro minotauro.
Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.
Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,
e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,
si riscalda in cima agli allevamenti.
Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.
Siamo con un corpo presente che sfuma,
con una forma chiara che ebbe usignoli
e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.
Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!
Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,
né pianta gli speroni né spaventa il serpente:
qui non voglio altro che gli occhi rotondi
per veder questo corpo senza possibile riposo.
Voglio veder qui gli uomini di voce dura.
Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:
gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano
con una bocca piena di sole e di rocce.
Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.
Davanti a questo corpo con le redini spezzate.
Voglio che mi mostrino l’uscita
per questo capitano legato dalla morte.
Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume
ch’abbia dolci nebbie e profonde rive
per portar via il corpo di Ignazio e che si perda
senza ascoltare il doppio fiato dei tori.
Si perda nell’arena rotonda della luna
che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;
si perda nella notte senza canto dei pesci
e nel bianco spineto del fumo congelato.
Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s’abitui alla morte che porta.
Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!
4 - Anima assente
Non ti conosce il toro né il fico,
né i cavalli né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bambino né la sera
perché sei morto per sempre.
Non ti conosce il dorso della pietra,
né il raso nero dove ti distruggi.
Non ti conosce il tuo ricordo muto
perché sei morto per sempre.
Verrà l’autunno con conchiglie,
uva di nebbia e monti aggruppati,
ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi
perché sei morto per sempre.
Perché sei morto per sempre,
come tutti i morti della Terra,
come tutti i morti che si scordano
in un mucchio di cani spenti.
Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L’insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.
Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi.
La vita e le opere di Federico Garcìa Lorca
Er deserto
Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna
d'annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.
Prima... che pposso dí?... pprima me vojjo
fa ccastrà dda un norcino a la ritonna.
Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com'un ojjo.
che ssi strilli nun c'è cchi tt'arisponna!
Dove te vorti una campaggna rasa
come sce ssi passata la pianozza,
senza manco l'impronta d'una casa!
L'unica cosa sola c'ho ttrovato
in tutt'er viaggio, è stata una bbarrozza
cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.
26 marzo 1836
L'UMANITÀ
Venuta dalla dura terra fuori nei campi
la stirpe degli uomini era piú dura:
senza malanni del corpo,
al gelo, al caldo, a qualunque sorta di cibo,
poteva egualmente resistere, tanto
era dentro connessa di solide ossa e più grandi,
legata di fortissimi nervi le carni.
Trascinavano come bestie una vita sparsa e lunga.
Il curvo aratro non c'era,
nessuno sapeva far molle il suolo col ferro, aprirlo
ai virgulti e tagliare con la ronca
i rami secchi alle piante:
Un frutto che al sole e alla pioggia spuntasse,
dono terrestre, calmava quei petti. E mangiavano
sotto le querce le ghiande cadute,
gli àlbatri che allora crescevano
sempre e molti e piú grandi, e li vedi
che adesso diventano rossi soltanto d'inverno.
Così del duro cibo che offriva
la florida infanzia del mondo i poveri.mortali
si accontentavano.
Quando avevano sete i fumi li chiamavano
come la voce lontana dell’acqua
chiama ancora le bestie assetate sulle rupi.
E andavano per le grotte silvestri guardando
i ruscelli che bagnano i sassi muschiosi
e vanno verso l'erba del piano.
Non sapevano ancora trattare le cose col fuoco
e vestirsi il corpo delle spoglie
degli animali: ma stavano nelle macchie
e coprivano di cespugli le squallide membra
costretti dalla tempesta nelle fessure
delle montagne.
D'ogni costume, d'ogni legge ignoranti
non potevano curarsi del bene comune:
chi trovava una preda la teneva per sé,
da solo imparando il rischio della vita.
E Venere univa i corpi degli amanti
nelle foreste: la foia invincibile
menava dal maschio la femmina o la stessa forza
dell'uomo o un compenso che era
una manciata di ghiande o un bel frutto maturo.
Meravigliosamente erano agili nelle membra;
e armati di pietre o di grossi tronchi di alberi
cacciavano le belve per le boscaglie;
molte ne vincevano e altre poche scansavano
al riparo di qualche antro nascosto.
Di notte si mettevano per terra, nudi
sotto le foglie: e non cercavano
urlando per i campi la luce del giorno perduta
nelle ombre: ma sepolti nel silenzio del sonno
aspettavano che -il sole tornasse all'orizzonte:
avevano già visto da fanciulli la vicenda
del buio e della luce; e non c'era nessuna
meraviglia per loro, nessuna paura
che sparito per sempre il lume del sole
una infinita notte restasse sulla terra:
ben altro affanno avevano: c'erano le belve
a. rendere incerto, fatale il riposo.
E se un cinghiale appariva o un leone affamato
scappavano dai lor tetti rocciosi
e pallidi nel cuor della notte cedevano
agli ospiti feroci il giaciglio di fronde.
E come adesso allora i mortali
lasciavano in pianto il dolce lume della vita:
ciascuno era pasto alle belve: ciascuno
inghiottito dai denti vedeva il suo corpo
chiudersi vivo dentro un vivo sepolcro,
e le gole dei monti si riempivano di gemiti.
Chi poi straziato nel corpo riusciva a fuggire
tenendo le mani tremanti sulle piaghe
chiamava orribilmente la morte;
e morivano cosí spasimando e senza soccorso:
non sapevano cosa fossero le ferite.
E col tempo fecero le capanne, impararono
l'uso delle pelli per coprirsi e il sacramento
del focolare
La donna fu paga di un solo connubio,
e quando si videro assomigliati nei figli
cominciarono a ingentilirsi.
Il fuoco fece che i corpi intirizziti
non potessero piú stare sotto il cielo scoperto;
l'amore quietava le forze
e i fanciulli ammansivano con le carezze
la rude superbia dei padri.
(V, 922-995: 1008-1016)
traduzione di Enzio Cetrangolo
LA TERRA
E come vedo le grandi membra del mondo
consumarsi e rinascere,
come ci fu nel tempo un principio
del cielo e della terra:
così ci sarà delle cose una rovina infinita.
La terra e il fuoco periranno
e le acque e il vento e lo spazio.
Vedi la terra: parte ne brucia
la violenza ferma del sole,
parte ne batte il molto passare dei piedi
ed esala spire di polvere, nembi
volanti sul vigore del vento;
e la pioggia ne allaga le glebe, le piene
dei fiumi le rodono, scavano rive radenti.
E ogni cosa nutrita, cresciuta da lei
in lei finisce, madre del tutto e sepolcro.
(V, 243-246: 248-249: 251-259)
Traduzione di Enzio Cetrangolo
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
Come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
Inserisco qui le dispense delle lezioni del corso di Fondamenti di urbanistica che ho tenuto all’IUAV dal 1993 al 2002, in formato word, nonché le presentazioni in powerpoint che ho utilizzato per la prima parte del corso. Per ragioni tecniche ho dovuto depurare queste ultime dalle numerose immagini.
Le dispense sono state sistemate e sviluppate nel mio libro Fondamenti di urbanistica, Laterza, Bari 1998 (V edizione 2004)
Qui sotto i titoli dei capitoli delle dispense, cui si riferiscono anche le presentazioni in powerpoint.
capitolo 1 – Introduzione: La città e il territorio, oggi
capitolo 2 - Dall’esperienza individuale all’esperienza storica
capitolo 3 - Crisi della città industriale e nascita dell’urbanistica moderna
capitolo 4 - Le basi dell’urbanistica d’oggi in Italia
capitolo 5 - Alcuni aspetti strutturali della città
capitolo 6 - Il dopoguerra e la ricostruzione
capitolo 7 - Dal territorio alla casa, dalla casa al territorio
capitolo 8 - Gli anni di Tangentopoli
capitolo 9 - L’ambiente entra nella pianificazione del territorio
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La quercia
sembra non curarsi
dei ciliegi in fiore.
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Vecchio stagno
tonfo di rana
suono d'acqua
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Sera:
tra i fiori si spengono
rintocchi di campana
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Passero amico,
risparmialo, il tafano
che gioca tra i fiori
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Stanchezza:
entrando in una locanda,
i glicini
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Stagione delle piogge:
i miei capelli di nuovo
intorno al pallido viso
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Erba estiva:
per molti guerrieri
la fine di un sogno
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Silenzio:
graffia la pietra
la voce delle cicale
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Separazione-
le spighe dell’orzo
tormentate tra le dita
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Un banano nel temporale;
il gocciolio dell’acqua nel catino
scandisce la mia notte
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Sono arrivato fino a qui
senza morire –
e finisce l’autunno
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Chiare cascate:
tra le onde si infilano verdi
gli aghi dei pini
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Su un ramo secco,
si posa un corvo,
crepuscolo autunnale.
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------------------------------
Nel nostro mondo,
sovrastiamo gli Inferi,
guardando i fiori!
-------------------------------
L'uccello in gabbia
osserva, invidioso,
la farfalla.
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Nel nostro mondo, anche
le farfalle sono stanche
sono stanche di vivere.
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Il giorno irrompe -
il colore del cielo
si cambia d'abito.
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Nel mio villaggio
persino le mosche pungono
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Mi recherà qui un pesce
il fluire del ruscello?
Brume di primavera
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Pioggerella primaverile-
lecca, un topolino,
il fiume Sumida
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Ranocchietto ossuto,
non lasciarti sconfiggere!
Issa è qui, a incoraggiarti
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Più numerose le primavere
più i lunghi di'
recano lacrime e lamenti -
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la neve si scioglie:
nel villaggio frotte
di bambini
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Ad ogni cancello
la primavera comincia
dal fango sui sandali
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In questo mondo,
frenesia anche nella vita
della farfalla
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In questo mondo
contempliamo i fiori;
sotto, l’inferno
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Si sveglia
e sbadiglia, il gatto;
poi, l’amore
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Tra dio
e il mendicante sboccia
il fiore di u
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in un frullo
si libra
la grande lucciola
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Giovinezza:
rende bello persino
i morsi della pulce
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Anche per le pulci
è forse lunga la notte
e solitaria
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Vento d’autunno:
a sé mi paragona con gli occhi
il mendicante
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Perle di rugiada:
in ognuna vedo
il mio villaggio
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Kaki di montagna:
è la madre a morderne
le parti più aspre
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Un filo di fumo
disegna adesso
il primo cielo dell’anno
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Il mio paese:
benché sia piccolo,
i boschi sono miei.
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C'ero soltanto.
C'ero. Intorno
cadeva la neve.
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Dopo la riforma del 1999 abbiamo inserito, nel primo semestre del corso di laurea dell’IUAV in Scienze della pianificazione urbana e territoriale, un corso introduttivo volto a dare, in termini molto semplici, le parole essenziali per comprendere ciò di cui si sarebbe parlato nel resto del triennio. Il corso fu denominato “Glossario e strumenti urbanistici”. Il suo dichiarato proposito era: “comprendere i termini elementari relativi al territorio e alle sue componenti, agli attori, soprattutto istituzionali, e agli strumenti principali impiegati per pianificare, programmare, progettare, effettuare le trasformazioni territoriali“.
Inserisco le schede in formato powerpoint che ho utilizzato in una delle versioni del corso (2002). Esse sono così articolate:
Premessa: Le parole
A) Il territorio e le sue componenti
B) Gli attori e le istituzioni
C) Gli strumenti urbanistici nella legge del 1942
D) I piani urbanistici attuativi e la rendita immobiliare
E) Gli standard urbanistici: la misura degli spazi pubblici
F) L’edificabilità: dalla licenza alla concessione
G) Strumenti per considerare l’ambiente
H) Gli strumenti urbanistici “anomali