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It is easy to say one should not stay with Saddam. He is one of the worst products of the inauspicious combination between the age-long stagnation of Middle Eastern civilizations and the rapacious and short-sighted interests of the West. Those who protested yesterday, when Saddam was an instrument of the West, against the massacres of Kurds, communists and other opponents, can easily say it today. There is therefore nothing to object to the first “not”.

Millions of people (in Europe and in the three Americas, in Asia, in Africa and in Australia) have already said they arenot with Bush: they have marched to oppose Bush’s war and to reject the policy of the US ruling class. The Pope, John Paul II, is saying every week, almost every day, that he is not with Bush. The Italian President, who is the highest representative of the nation, says the same thing. Members of the left wing and centre parties, sharply criticizing the Prime Minister for his tepidness and for his concealed servilism to Bush have said the same thing.

Many of us have said that, while not supporting Saddam, we don’t support Bush either. Where is the scandal? Isn’t saying “not with Bush, nor with Saddam” just saying the simple truth? Why shouldn’t one say such a simple truth?

In general, there are three possible reasons for not saying the truth: ignorance, fear or interest. It is difficult to ascribe ignorance to the members of Parliament, the political leaders, the journalists and the other clerks who have reproached Epifani for his phrase. It is even harder to believe that they can be moved by fear: fear of what, of whom? The CIA has proven not to be very dreadful.

The only reason that is left is interest. But what kind interest has pushed to clouding, to hiding the truth? Certainly it is not an economic interest: we are talking about respected politicians, not about gun merchants or firms for post-war reconstruction. Nor is it a “humanitarian” interest: I don’t believe that the death of an American or of an English soldier could seem to these respected politicians more horrible than the death of an Iraqi soldier. I fear it is only a trivial, petty political interest, an interest of electoral accounting. I fear it is only the concern of losing a few moderate voters. Voters who would have preferred to obtain the UN’s blessing for Bush’s and Blair’s troops, but who have anyway decided to (metaphorically) wear the helmet and to side with the “defenders” of the West, since Bush has taken action.

The policy sustained by Bush and Blair is leading to the suicide of the West: a moral suicide, because the values of justice and truth, which are the base of our civilization, have been trampled on; a strategic suicide, because an inevitable wave of hate towards all of us has been unleashed; a political suicide, because the international institutions, built with difficulty on the ruins of the world ravaged by Nazi-fascism, have been destroyed. The real scandal is that these petty political interests should cover words of truth.

Post scriptum

On January 26, 1998, years before the destruction of the Twin Towers and the proclamation of the horrible theory of preventive war, the PNAC – Project for the New American Century, a US pression group – wrote a letter to President Clinton prompting for a “strategy for removing Saddam’s regime from power,” even with the military. Among those who subscribed the letter are some of the most influential members of the US administration: Dick Cheney, Vice President; Lewis Libby, Cheney’s Chief of Staff; Donald Rumsfeld, Secretary of Defense; Paul Wolfowitz, Deputy Secretary of Defense Peter Rodman, “global security” advisor; John Bolton, Under Secretary of Arms Control and International Security; Richard Armitage, Deputy Secretary of State; Richard Perle, chairman of the Defense Policy Board; William Bristol, chairman of PNAC and Zalmay Khalilzad, Presidential Envoy to the Iraqi Opposition.

È facile dire che non si sta con Saddam. È uno dei peggiori prodotti del nefasto intreccio tra la plurisecolare stagnazione della civiltà mediorientale e gli interessi rapaci e miopi dell’Occidente. È particolarmente facile dirlo anche oggi per quanti hanno protestato ieri per le stragi di curdi, di comunisti e di altri oppositori che Saddam ha fatto quando era strumento dell’Occidente. Nulla da eccepire quindi sul primo “né”.

Ma milioni di persone (in Europa e nelle tre Americhe, in Asia e in Africa e in Australia) hanno già detto che non stanno con Bush: hanno manifestato nelle piazze la loro opposizione alla guerra di Bush, il loro rifiuto netto per la politica dell’attuale gruppo dirigente degli USA. Dice ogni settimana, ormai quasi ogni giorno, che non sta con Bush il Papa dei cattolici, Giovanni Paolo II. Lo dice il Presidente della Repubblica, massimo esponente e rappresentante della nazione. Lo hanno detto anche gli esponenti dei partiti di centro e di sinistra, criticando aspramente il Capo del governo per la sua tiepidezza, per il suo dissimulato servilismo verso Bush.

Siamo davvero in tanti ad aver detto che, oltre a non stare con Saddam, non stiamo neppure con Bush. Allora, perché scandalizzarsi? Dire che non si sta “né con Bush né con Saddam” non significa forse dire semplicemente la verità? Perché non si può, perché non si deve dire una verità così semplice?

In generale, le possibili ragioni per non affermare il vero sono solo tre. O l’ignoranza, o la paura, o l’interesse. È difficile affibbiare l’attributo dell’ignoranza ai parlamentari, ai dirigenti politici, ai giornalisti e agli altri clerici che hanno rimproverato Epifani per la sua frase. È ancora più difficile credere che sia la paura ad animarli: paura di che,di chi? La CIA ha dimostrato davvero di non essere troppo temibile.

Non resta allora che l’interesse. Ma quale interesse può aver spinto a desiderare di annebbiare la verità, di nasconderla? Non certo un interesse economico non stiamo parlando di mercanti di cannoni o imprese di ricostruzione posbellica, ma di stimati dirigenti politici. E neppure un interesse, diciamo così, umanitario: non credo che la morte di qualche soldato americano o inglese possa apparire a qualche stimato dirigente politico piò orrenda della morte di qualche soldato iracheno. Temo che sia solo un piccolo, meschino interesse di politico: anzi, di bottega elettorale. Temo che sia solo la paura di perdere qualche voto su quel versante moderato che magari preferirebbe aver avuto la benedizione dell’ONU alle armate di Bush e Blair, ma che comunque, visto che Bush si è deciso a rompere gli indugi, si è infilato (metaforicamente) l’elmetto in testa e si schierato con i “difensori” dell’Occidente.

La politica di Bush e di Blair ha dato il via a un vero e proprio suicidio dell’Occidente: suicidio morale, per aver calpestato e offeso i valori di giustizia e di libertà, che sono alla base della nostra civiltà; suicidio strategico, per aver scatenato una inevitabile ondata di odio verso tutti noi da parte di una sterminata parte dell’umanità; suicidio politico per aver demolito gli istituti della convivenza internazionale, costruiti con fatica sulle macerie del mondo devastato dal nazifascismo. Che in questo scenario piccoli interessi di bottega politica facciano velo alla pronuncia di parole di verità è veramente, questo si, scandaloso.Post scriptumIl 26 gennaio 1998, anni prima della distruzione delle Twin Tower, della proclamazione dell’orrenda teoria della Guerra preventiva, un gruppo di pressione statunitense PNAC ( Project for the New American Century)scriveva al Presidente Clinton una lettera (l’inserisco qui sotto) in cui si chiede esplicitamente di attuare “una strategia per rimuovere il regime di Saddam dal potere” (“ a strategy for removing Saddam's regime from power”) anche con mezzi militari. La lettera è pubblicata dalla rivista Internazionale, la cui redazione mette in evidenza come tra i firmatari vi siano “alcuni dei nomi più influenti dell'attuale governo degli Stati Uniti. E cioè: Dick Cheney, vicepresidente; Lewis Libby, capo dello staff di Cheney; Donald Rumsfeld, ministro della difesa; Paul Wolfowitz, vice di Rumsfeld; Peter Rodman, responsabile delle ‘questioni di sicurezza globale’; John Bolton, segretario di stato per il controllo degli armamenti; Richard Armitage, vice ministro degli esteri; Richard Perle, ex vice ministro della difesa dell’amministrazione Reagan e ora presidente della commissione difesa; William Bristol, capo del Pnac e consigliere di George W. Bush; e Zalmay Khalilzad, ambasciatore speciale di Bush presso l’opposizione irachena”.

Prima questione: i “diritti edificatori” dei privati. In questo sito la questione è stata ampiamente trattata, e penso che i lettori abbiano compreso che nessun diritto è riconosciuto dalla legge (e dalla giurisprudenza) a chi ha goduto di una previsione urbanistica lucrosa. Le misure “compensative” non sono quindi una necessità, ma una libera scelta della politica. I Reggitori del Campidoglio l’hanno compreso e – a quanto sembra – hanno fortemente ridotto il ricorso all’ambiguo strumento. Bisognerebbe propagandare questa informazione nella altre città d’Italia, perché gli equivoci non germogliano solo nell’Agro romano.

Seconda questione: il consumo di suolo. Ciò che ha unito quelle opposizioni al piano che volevano migliorarlo e non cancellarlo (la grande maggioranza, per fortuna) è la critica al sovradimensionamento e alla sottrazione di altra preziosa risorsa “territorio aperto”; la riduzione delle aree sottratte alla campagna è la correzione più forte che è stata apportata dal Consiglio comunale. Forse i tempi sono maturi per affermare un principio nuovo (in Italia, ma consolidato in altre società). Ogni sottrazione di suolo al ciclo naturale, ogni trasformazione di un paesaggio agrario in un incerto paesaggio urbano, è un prezzo: un prezzo che la società può pagare, ma se ciò è proprio necessario. Occorre perciò dimostrare rigorosamente che ci sono esigenza che la comunità non può soddisfare se non urbanizzando nuovi territori. Occorre commisurare strettamente, rigorosamente e trasparentemente le nuove aree urbanizzate agli accertati bisogni. Occorre, anzi, che il limite che separa le aree urbanizzate e urbanizzabili dal territorio aperto sia la prima scelta di un nuovo piano regolatore, e che sia un confine fisso, invalicabile, una invariante strutturale.

Terza questione: l’urbanistica e la politica. Il piano regolatore non è (non deve essere) uno strumento per regolare il valore economico dei suoli. Questo può essere un effetto, non l’obiettivo. L’obiettivo è (deve essere) porre le premesse perché la città sia amica delle donne e degli uomini, li aiuti a vivere, a risolvere i loro problemi: di fruizione dei servizi, di mobilità sul territorio, di incontro, di accesso ad un’abitazione a prezzi sostenibili, di godimento di ciò di bello e buono che natura e storia hanno prodotto. Assumere questo obiettivo, tradurlo in indirizzi concreti di uso del territorio e di trasformazione dei suoi modi di organizzazione, scegliere le soluzioni tecniche giuste perché ciò avvenga nei necessari atti amministrativi, è compito della politica. È l’urbanistica che è ancella della politica, non viceversa. Ma la politica deve effettivamente guidare la tecnica, deve chiederle di rispondere ai suoi quesiti, di soddisfare le esigenze che le pone in nome delle cittadine e dei cittadini, di oggi e di domani (oppure, se preferisce, in nome dei proprietari fondiari, dei promotori immobiliari, delle componenti dello sfaccettato “blocco edilizio”: ma ciò deve essere esplicito). Ma allora la politica deve assumere la pianificazione urbanistica come un suo compito centrale: quindi deve conoscerla, saperla adoperare per svolgere il suo peculiare servizio. I soprassalti tardivi, le correzioni dell’ultima ora, testimoniano della buona fede e dell’onestà, non della cultura politica, nè della consapevolezza degli strumenti impiegabili per raggiungere i fini.

Ne è passato del tempo da allora: un abisso, se lo misuriamo non in anni ma in eventi: tragedie e glorie, miserie e ricchezze, fatiche, piaceri, speranze, delusioni, mondi nuovi e macerie di universi. Epoche, separate da abissi. Uno snocciolarsi di eventi che ha cambiato il panorama di ciascuno di noi, e quello di noi tutti.

La guerra dei nazisti e dei suoi alleati in orbace e in grigioverde, accorsi per partecipare alla divisione delle spoglie. I bombardamenti delle città, la povertà e la condivisione solidale delle scarse risorse. I bollettini di guerra, e le trapelanti notizie degli uomini massacrati nel gelo e nel deserto dei fronti lontani. La scoperta dell’antifascismo e gli eventi di una Resistenza che si svolgeva accanto a noi. Lo svelamento degli orrori che, nel silenzio miope o complice dei nostri padri, era stato lucidamente perpetrato dal razzismo, non solo altrui.

E poi, la riscoperta della politica, della democrazia, della competizione civile tra idee differenti. La fatica della ricostruzione e l’asprezza dei conflitti. La rottura dell’unità antifascista nel mondo e le nuove barriere al bolscevismo. Le piazze colorate divise dalla bandiere contrapposte ma unite dalla ricerca di valori e interessi comuni. L’austera severità e la minacciosa fermezza delle tute blu in corteo tra i palazzi signorili. Il manifestarsi dei frutti della ricostruzione: benessere, modernità, abbondanza dei consumi, nuovi orizzonti nei commerci e nei costumi. L’ingresso prepotente delle donne nel lavoro e dei valori urbani nella vita di tutti. E la scoperta dei prezzi inconsapevolmente pagati: le città a sacco, le coste devastate, le campagne abbandonate, i boschi distrutti – e insieme, l’affievolirsi dei sentimenti di solidarietà.

E ancora: i tentativi di cambiamento, tra velleità e delusioni e grandi speranze e fragili conquiste. Le molte facce della reazione, fino a quelle devastanti del terrorismo bombarolo di destra (e poi di quello di sinistra). Il crollo di una speranza e l’apertura di nuove complicate relazioni tra il mondo vincente del capitalismo di mercato e quello sconfitto della pianificazione socialista. La nuova frontiera dell’Europa, e la scoperta dei limiti: da quelli del pianeta e delle sue risorse, a quelli della democrazia e delle sue regole.

Fino a questi giorni, alle soglie della guerra dell’”Impero del bene” contro il resto del mondo: Un mondo che si era svelato molto più ricco di civiltà, fedi, religioni, costumi, ancora irriducibili a valori comuni, di quanto avessimo potuto immaginare. Il sorgere, accanto e in contrasto al nuovo imperialismo, di nuove estese solidarietà, gettate su territori tra popoli lontani (quanto memori di quelle solidarietà che avevano sconfitto l’orrore nazifascista?).

Leggere le cronache dell’arrivo dei reduci Savoia a Napoli fa comprendere che è passato ben più di qualche decennio. E scorrere le cronache di oggi è come guardare in un cannocchiale rovesciato.

Vedi, a proposito, i miei ricordi

Sono gli anni che iniziano con la Nota aggiuntiva del ministro La Malfa al Bilancio dello Stato (in cui si additano per la prima volta gli squilibri territoriali come un problema politico centrale per lo sviluppo del paese), con la denuncia degli effetti del quindicennio postbellico e delle devastazioni del territorio in esso compiuta, con la sconfitta della proposta radicale (per l’Italia) di riforma urbanistica ma con il rilancio della pianificazione delle città, la disciplina delle espansioni edilizia, l’introduzione della garanzia di civiltà degli standard urbanistici, lo svelamento degli errori di incostituzionalità del sistema di diritti dominicali. E si concludono (dopo anni costellati di “rumor di sciabole” e di attentati terroristici di matrice fascista) con il logoramento del tentativo di modernizzare il paese mediante leggi che riformassero non, come oggi, la superficie dei meccanismi del potere, ma la struttura sociale ed economica.

In quegli anni politica e urbanistica erano vicine perché servivano l’una all’altra.

La politica, quella che aveva le sue radici nella opposizione al fascismo, aveva scelto di spostare gli equilibri sul terreno dei meccanismi profondi dell’economia, riducendo il potere della rendita a vantaggio del profitto e del salario; come era storicamente avvenuto negli altri paesi europei. Aveva compreso che un assetto ordinato del territorio e delle città era essenziale perché la produzione riducesse i propri costi e la vita delle famiglie fosse più serena. Aveva dunque necessariamente trovato nella pianificazione territoriale e urbanistica uno degli strumenti essenziali per il governo delle trasformazioni della città e del territorio.

L’urbanistica, ancora immersa dell’esperienza della Resistenza, pienamente uscita dall’autarchia culturale, era insofferente della mortificazione implicita nell’arroccamento nella sterilità della denuncia o nell’evasione nei giochi dell’accademismo, nella riduzione dell’azione alla predicazione dell’utopia o al piccolo compromesso professionale. I suoi “militanti”, gli urbanisti, erano divenuti consapevoli che, se il loro mestiere consentiva loro di comprendere le ragioni della devastazioni che vedevano e di possedere le tecniche che avrebbero potuto evitarle e correggerne gli effetti, la possibilità di renderlo operativo dipendeva dal fatto che la politica comprendesse la portata generale della questione e si impadronisse della ricerca delle soluzioni possibili.

Lo studio al sesto piano del palazzone all’inizio di via Nomentana, l’ufficio di Michele Martuscelli, Direttore generale dell’Urbanistica del Ministero dei lavori pubblici, fu uno dei luoghi dove questo incontro divenne concreto. Uomini politici come Giacomo Mancini e Pietro Bucalossi, Francesco Compagna e Lorenzo Natali, Leone Cattani ed Enzo Storoni, Michele Achilli e Alberto Todros, e urbanisti come Giovanni Astengo ed Edoardo Detti, Luigi Piccinato e Giuseppe Samonà, Marcello Vittorini e Italo Insolera, Antonio Cederna e Antonio Iannello (ed economisti come Giorgio Ruffolo e Giuliano Amato, giuristi come Massimo Severo Giannini e Alberto Predieri) discutevano lì i tasselli di un disegno riformatore che non giunse mai ad affermarsi compiutamente, ma di cui non si riuscì (almeno fino ad oggi) a distruggere altrettanto compiutamente gli elementi di civiltà e di modernità (di Europa) che aveva introdotto.

La scomparsa di Michele Martuscelli, e il clima culturale di anni lontani che il suo ricordo sollecita ad evocare, induce a ribadire una convinzione. Uno degli handicap che ancora pesano sul successo di una politica di riforme vere nel nostro paese, che rendono poco credibili gli sforzi volti a contrastare lo sfrenato individualismo del privilegio (evidente bandiera del berlusconismo), che imprimono un sospetto di opportunismo e di labilità alle formazioni politiche dell’opposizione, sta nel fatto che esse sembrano trascurare le questioni del governo delle città e del territorio: sembrano considerare irrilevanti, o fastidiose, questioni che sono vitali per la vita delle cittadine e dei cittadini, e per il futuro del nostro paese.

Voleva essere un’addolorata protesta perché i gravissimi problemi dell’ organizzazione della città e del territorio (creazione e luogo privilegiato della vita degli uomini, oggi e qui devastati scenari del loro disagio quotidiano) vengono da alcuni decenni del tutto trascurati da chi governa e da chi aspira a governare. Eppure, benché neppure una parola sollecitasse a sospettare un’intenzione corporativa, il dubbio a qualcuno è venuto. Mi sono domandato perché. Quando il mio interlocutore è in buona fede penso sempre di avergli dato io l’occasione di cadere in errore: per me non è una formula di cortesia dire “non mi sono spiegato”, invece di “non hai capito”. Dov’era allora l’appiglio dell’equivoco? Perché si è potuto pensare che la lettera fosse in difesa degli urbanisti invece di essere in difesa della città e del territorio?

Ho capito perché. L’invito a firmarla era rivolto agli urbanisti e sono gli urbanisti che l’hanno firmata. L’equivoco non sarebbe nato se mi fossi rivolto, per cercarne l’adesione, a chi usa la città e il territorio e patisce gli errori del suo malgoverno: alle cittadine e ai cittadini. Ma è stato davvero un errore il mio? Riflettendoci mi sono convinto di no, e voglio spiegarne le ragioni.

Non ritengo affatto che gli urbanisti – che noi urbanisti – si sia degli eroi o dei santi. Non ritengo che si abbia un senso civile, una sensibilità politica, una capacità di anticipare il futuro più elevata (né più povera) di chi pratica e condivide altri mestieri e altri saperi. Né credo che la nostra “ comunità scientifica”, che la cultura urbanistica italiana sia stata e sia scevra di errori: come altre comunità e altre culture. Solo che il nostro mestiere, e ciò che ci sforziamo di sapere, ci induce a essere esperti della città e del territorio. Non in concorrenza con gli altri che se ne occupano distintamente da noi (i geologi e i politici, gli economisti e i naturalisti, i geografi e i sociologi, i giuristi e gli statistici, gli architetti e gli ingegneri) ma assumendo per conto nostro la missione di tener conto dell’insieme dei fattori che caratterizzano lo spazio della vita della società, e studiandoci di individuarne l’organizzazione più efficiente rispetto agli obiettivi (di funzionalità, di equità, di bellezza, di durevolezza) che la società si pone (e ci pone). L’organizzazione migliore dello spazio, nell’immediato e soprattutto nel tempo, è il nostro mestiere. Che si interseca e scambia utilità con quello dell’ambientalista e quello del politologo, ma non si confonde né si sostituisce ad essi.

Ecco allora una buona ragione per rivolgersi in primo luogo agli urbanisti quando si vuole protestare perché l’organizzazione e il destino della città e del territorio sono ignorati dalla politica. Sono i primi a comprendere che qualcosa non va e qualcos a si comprometterà irrimediabilmente se la politica trascura il territorio: perché è alla politica che spetta, in ultima analisi, quel “governo del territorio” di cui essi e le loro pratiche sono uno strumento. Certo, tra i clercs sono anche i primi a pagare: quando la politica si disinteressa della città e del territorio (della “casa della società”): anche il loro ruolo sociale decade. Né possono rifugiarsi nella solitudine degli studi, come è dato di fare ai portatori di altri saperi, poiché il loro mestiere è finalizzato all’agire.

Quindi, in definitiva, è anche in loro difesa che gli urbanisti hanno firmato la lettera al direttore di Micromega: non però in difesa del potere della loro corporazione, ma dello specialismo che offrono alla società e del quale la società deve avvalersi, pena l’ accumularsi di sofferenze d disagi, di sprechi e di sopraffazioni.

Mi spaventano quando arrivano dai mass media e dalla e-mail a raffica che scaturiscono dal Paese devastato nella sua sicurezza dai terroristi suicidi dell’11 settembre, quando assumono la forma del dileggio agli europei imbelli e cialtroni che vogliono la pace ad ogni costo. E mi spaventano quando li sento serpeggiare nei nostri discorsi e nelle nostre piazze.

L’editoriale del mio amico americano ricorda quanto siamo vicini, sulle due sponde dell’Atlantico, nel male e nel bene: europei e americani, e soprattutto italiani e americani.

Come loro, anche noi abbiamo oggi un governo democraticamente eletto (con le regole di questa limitata democrazia che siamo riusciti a costruire), ma devastante negli obiettivi che si pone e nei modi in cui li persegue. E non so, francamente, se sia più mortificante per noi l’essere rappresentati dal servilismo strisciante e guitto del tycoon che la maggioranza (risicata) dei nostri concittadini ha scelto per governarci, o per loro il dover essere identificati con l’arroganza trogloditica dell’uomo di affari che una maggioranza (discussa) degli elettori ha sollevato ai fastigi della Casa Bianca.

Come loro, anche noi oggi, 15 febbraio, riempiamo le piazze per protestare per la politica, suicida per la civiltà occidentale, che il padrone e il servo si propongono di scatenare. Come loro, anche noi detestiamo la risposta perdente e omicida del terrorismo, ma vogliamo sconfiggerla con armi diverse da quelle del terrore di massa, e senza negare neppure ai presunti assassini le garanzie che la nostra civiltà ha conquistato al mondo. Come loro, anche noi torniamo ai valori e agli episodi del passato comune per rafforzare la nostra volontà di oggi, per trovare gli antidoti al male che ci circonda.

I valori e gli episodi del passato comune: a questi dovremmo riflettere più tenacemente per combattere i germi dell’intolleranza che serpeggiano al di qua e al di là dell’Atlantico. I valori e gli episodi della lenta e faticosa conquista della democrazia, che per la nostra civiltà ha richiesto secoli di lotte e di maturazioni (e che alle altre civiltà si vorrebbero imporre – come si diceva una volta – con le baionette). Quelli della faticosa conquista dei diritti del lavoro, strappati al capitalismo con quel travagliato e sanguinoso percorso di emancipazione del lavoro che ha il suo simbolo nella festa del 1° maggio (una festa che, non dimentichiamolo, è nata, nel 1886, nelle piazze di Chicago dal sacrificio dei lavoratori americani). Quelli, infine, della resistenza al nazifascismo, che ebbe nell’America di Roosvelt (come nella Gran Bretagna di Churchill e nell’Unione sovietica di Stalin) i protagonisti della sua vittoria.

Ho scelto, come icone di questi giorni, le due immagini affiancate della bandiera della pace e della Guernica di Picasso. Quest’ultima immagine ricorda il primo episodio della resistenza all’intolleranza sanguinaria del nazifascismo. Mi richiama alla memoria un libro che - in questi giorni in cui la bandiera a stelle e strisce rischia di diventare simbolo di ciò che non vogliamo - invito a leggere e a rileggere: Hemingway, Per chi suona la campana: un libro dedicato alla medesima guerra di cui Guernica testimonia gli orrori, e al contributo che dall’altra parte dell’Atlantico venne allora alla salvezza dell’Europa.

Qual è la storia del Primo Maggio?

Che cos’è Guernica?

Che cos’è quel libro di Hemingway?

Perché si chiama “Per chi suona la campana

È una tesi che Cerulli Irelli giudica assolutamente ovvia, mentre ha definito”una sciocchezza” la tesi secondo cui, invece, si dovrebbero “compensare” previsioni di piano che riducano o tolgano edificabilità ad aree “valorizzate” da precedenti previsIoni di piano. Queste affermazioni possono apparire assolutamente controcorrente nel dibattito e nella prassi dell’attuale urbanistica italiana. La “compensazione” è diventata infatti una parola d’ordine. Nel PRG di Roma ha provocato un notevole sovradimensionamento, del tutto immotivato seconda qualunque altro criterio. Ma in quanti comuni italiani si ritiene che cancellare una previsione del piano vigente comporta la necessità di “compensare” il proprietario per la perdita subita”? Eppure, come ho dimostrato rastrellando tutte le sentenze disponibili (della Corte costituzionale del Consiglio di Stato, dei TAR) perfino le lottizzazioni già convenzionate possono essere ridotte anche pesantemente nei loro contenuti, e perfino cancellate, se la decisione è adeguatamente motivata. E senza pagare alcun prezzo (se non quello per i danni reali eventualmente subiti dal proprietario e inoppugnabilmente documentati). Figuriamoci una semplice previsione di PRG.

Adeguatamente motivata. Ecco, in questa frase c’è un limite dell’attuale giurisprudenza. Oggi occorre motivare la riduzione di edificabilità. Vorrei porre un obiettivo certo ambizioso ma, a mio parere, non utopistico: raggiungibile cioè. È ormai amplissima la consapevolezza del fatto che il ciclo biologico naturale è un bene prezioso da cui troppa parte del nostro territorio è stata privata (dal 1945 a oggi il territorio urbanizzato è aumentato del mille per cento). È convinzione sempre più larga che il paesaggio agricolo, boschivo, pastorale è un bene culturale, è un elemento della ricchezza comune. Ebbene, tutto ciò non dovrebbe sollecitare a chiedere una “adeguata motivazione” – anzi, una dimostrazione scientifica – della necessità di sottrare anche un solo ettaro ulteriore di terra al ciclo biologico, al paesaggio non urbano?

Nel piano strutturale di Sesto Fiorentino la Giunta comunale ha deciso si inserire, tra le “invarianti strutturali” (e anzi prima fra esse) la linea che segna il limite delle aree urbanizzate e urbanizzabili. La città ha raggiunto i suoi limiti. Le ulteriori esigenze di spazio possono essere soddisfatte utilizzando meglio ciò che è già stato sottratto alla campagna. È la riproposizione di una regola che, come Camagni, Gibelli e Rigamonti hanno documentato, si sta applicando in diverse aree dell’Europa e degli USA. Assumerla in modo generalizzato sarebbe un buono strumento per tutelare l’ambiente e la cultura.

P. S. A proposito di quest’ultima affermazione. È singolare osservare che una prestigiosa rivista come Micromega, nel numero dedicato a delineare il programma per “un’altra Italia possibile”, dedica due dozzine di capitoli ad altrettanti argomenti (tra cui, appunto, l’ambiente e i beni culturali, insieme alla giustizia e alla sanità, all’immigrazione e all’università, alle carceri e alla sicurezza), e non ne dedichi nessuno al territorio e al suo governo: come se non fosse qui, negli scempi e negli errori che si commettono con la malpianificazione del territorio e delle città, una delle cause maggiori della devastazione dell’ambiente e della dissipazione dei beni culturali.

Even in this sector, the liberalisation brought about by Cacciari’s first administration has determined a break with the traditional policy of control of the transformations of the uses of ground floors, policy which had led previous administrations to resist for years to the opening of the first fast-food restaurant in Campo San Luca. More precisely, this has been possible thanks to the repeal of the municipal resolution which, applying the national law n.15/1987, was an instrument for the local authority to prevent the sprawl of fast-food restaurants and junk stores even more effectively than the land use plan.MoSE (Experimental Electromechanical Module) is a very “hard”, gigantic system of mobile barrage (even though it entails heavy permanent installations) of water in the three openings ( bocche di porto) that regulate the exchange of sea and brackish water. From this exchange does depend the environmental equilibrium: the equilibrium of the water, of the vegetation, of the fauna of the very precious lagoon of Venice. The function of the MoSE should be to automatically close the access of sea water when the sea threatens to exceed a certain level thus causing the flooding of inhabited areas.

It is not easy to understand why this system, which as been designed by a consortium of State contractors firms, should be judged by many of uncertain utility, harmful for the activity of the port (which is one of the main economic resources for the city) and devastating for the ecological equilibrium of the lagoon. To understand their reasons, it should be reminded that the equilibrium of the lagoon has depended for centuries on a daily and minute work of maintenance to manage its numerous natural elements (length and depth of the thousands of canals, characteristics of the vegetation, defence of the coastline, extension of the brackish basin, characteristics of the solid and liquid elements supplied by the rivers) which allow the preservation of the lagoon as it is. Only thanks to this control it has been possible to defend the lagoon from the two natural destinies it could face: to become a swamp and eventually mainland, if the solid supplies were to prevail, or to become an open bay, if the force of the sea was to prevail.

Only a modern systemic vision allows today to preserve that equilibrium, to which is strongly connected the solution of the issue of the exceptionally high tides ( acque alte). Acque alte which have become progressively more aggressive as a consequence of the (now ceased) utilization of underground waters for industrial purposes in Porto Marghera, of the reduction (caused by the successive filling ups and the formation of closed fisheries) of the area where the sea tide can spread out, of the gigantic increase in the section of the channels that bring the sea water (enlarged and deepened to allow the access to oil tankers), of the rise in the sea level (due to the global climatic events).

The dispute between the local political forces concerned about the environment and interested in a sustainable development, and those interested in grasping the chances of economic expansion linked to the public works lies entirely on the contrast of two different projects. Very schematically (I’ll present soon more documents and comments), the first project has as primary aim the re-equilibration of the complex system of the lagoon, by acting on the whole set of elements that compose it; the second project proposes an engineering-type system which is pharaonically expensive, of uncertain effectiveness, certainly harmful for the relevant elements of the ecosystem of the lagoon (and for its whole equilibrium) and entailing irreversible physical transformations.

In these days the second perspective has prevailed, thanks also to a tricky trap in which the local opposers (as reported by the local press) to the MoSE have fallen and to the forcing committed by its powerful supporters.

Notizie a Giuseppina dopo tanti anni

Che speri, che ti riprometti, amica,

se torni per così cupo viaggio

fin qua dove nel sole le burrasche

hanno una voce altissima abbrunata,

di gelsomino odorano e di frane?



Mi trovo qui a questa età che sai,

né giovane né vecchio, attendo, guardo

questa vicissitudine sospesa;

non so più quel che volli o mi fu imposto,

entri nei miei pensieri e n'esci illesa.



Tutto l'altro che deve essere è ancora,

il fiume scorre, la campagna varia,

grandina, spiove, qualche cane latra

esce la luna, niente si riscuote,

niente dal lungo sonno avventuroso.

Uccelli

il vento è un'aspra voce che ammonisce

per noi stuolo che a volte trova pace

e asilo sopra questi rami secchi.

E la schiera ripiglia il triste volo,

migra nel cuore dei monti, viola

scavato nel viola inesauribile,

miniera senza fondo dello spazio.

Il volo è lento, penetra a fatica

nell'azzurro che s'apre oltre l'azzurro,

nel tempo ch'è di là dal tempo; alcuni

mandano grida acute che precipitano

e nessuna parete ripercuote.

Che ci somiglia è il moto delle cime

nell'ora - quasi non si può pensare

né dire - quando su steli invisibili

tutt'intorno una primavera strana

fiorisce in nuvole rade che il vento

pasce in un cielo o umido o bruciato

e la sorte della giornata è varia,

la grandine, la pioggia, la schiarita.

Il Giudice

"Credi che il tuo sia vero amore? Esamina

a fondo il tuo passato" insiste lui

saettando ben addentro

la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.

E aspetta. Mentre io guardo lontano

ed altro non mi viene in mente

che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani

sfrangiato appena tra gli scogli dell'isola,

dove una terra nuda si fa ombra

con le sue gobbe o un'altra preparata a semina

si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.

"Certo, posso aver molto peccato"

rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,

sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.

"Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso"

riprende la sua voce con un fischio

di raffica sopra quella landa passando alta.

L'ascolto e neppure mi domando

perché sia lui e non io di là da questo banco

occupato a giudicare i mali del mondo.

"Può darsi" replico io mentre già penso ad altro,

mentre la via s'accende scaglia a scaglia

e qui nel bar il giorno ancora pieno

sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio

per le ore di libertà e l'uomo che le ha dato il cambio

indossa la gabbana bianca e viene

verso di noi con due bicchieri colmi,

freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.

L'India

Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,

(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)

mentre mostra a lungo lo schermo

sul selciato una moltitudine

stecchita in una posa tra sonno e morte

levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell'alba.

Né forse la colpisce il primo aspetto

ma un altro più recondito, e vede

una giustizia di diverso stampo

in quella sofferenza di paria

orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.

"Avere o non avere la sua parte in questa vita"

riemerge in parole il suo pensiero - ma solo un lembo.

E io ne tiro a me quella frangia

ansioso mi confidi tutto l'altro,

attento non mi rubi niente

di lei, neppure l'amarezza, ed attendo.

S'interrompe invece. Seguono altre immagini dell'India

e nel loro riverbero le colgo

un sorriso estremo tra di vittima e di bimba

quasi mi lasci quella grazia in pegno

di lei mentre si eclissa nella sua pena

e l'idea di se stessa le muore dentro.

"Perché porti quel giogo, perché non insorgi"

mi trattengo appena dal gridarle,

soffrendo perché soffre, certo,

ma più ancora perché lascia la presa

della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;

"Ascoltami" comincio a mormorarle

e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor

e a lei che sul punto di partire

mi guarda da dietro la lampada

della sua solitudine tenuta alzata di fronte.

"Mario" mi previene lei che indovina il resto. "Ancora

levi come una spada, buona a che?,

lo sdegno per le cose che ti resistono.

Uomo chiuso all'intelligenza del diverso,

negato all'amore: del mondo, intendo, di Dio dunque"

e indulge a una smorfia fine di scherno

per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.

"Davvero vorrei tu avessi vinto"

le dico con affetto incontenibile, più tardi,

mentre scorre in un brusio d'api, nel film senza commento, l'India.

Il poeta e senatore a vita Mario Luzi si era permesso di dire che il treppiede lanciato a Berlusconi aveva fatto ricordare, a lui novantenne, un analogo incidente occorso al cavalier Mussolini, e di suggerire che i gravi momenti di tensione generano episodi di violenza

Napoli, Mergellina, metà agosto, ore quattordici. Il piazzale è vuoto. Un tram è fermo al capolinea: un vecchio tram, di quelli aperti, col trolley.

Un signore esce dal bar, estrae dalla tasca della maglietta una sigaretta, l’accende, aspira lentamente la prima boccata. Poi, a passi lenti, sul selciato rovente, si avvia al tram fermo.

Sale sul predellino, saluta con un gesto il bigliettaio accaldato e scamiciato, unico abitante della carrozza. Si ferma sulla piattaforma, continuando la sua sigaretta.

- Signo’, ‘a sigaretta!, esclama con voce fiacca il tranviere.

Il signore continua a fumare, lentamente.

- Signo’, ‘a sigaretta!!!, esclama con voce appena un po’ più ferma il tranviere.

Il signore continua, ancora qualche boccata. Racogliendo tutte le sue forze, il tranviere ammonisce:

- Signo’, ma nun ‘o sapite ch’in tram nun se po’ fumma’!

- Ma comme, io ‘mo ‘mo aggio pigliato ‘o ccafe’!, replica il signore con gli occhi spalancati e la bocca delusa.

- Ah, quann’è cussi’ scusate tanto, esclama conclusivamente il tranviere.

Questa storiella mi ricorda i polmoni. E un'altra storiella, che si riferisce all'ospedale napoletano delle malattie di petto, il Caldarelli. Eccola

Un'anziana signora alla fermata del tram cerca di decifrare l'illegibili indicazioni delle linee. Passa un giovanotto.

La signora: - Scusate, c'aggio piglia' pe' ghi' 'e Cardarelli?

Il giovanotto, guardandola: - Signo', 'a trubeccolose!

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Fu dalla capitale (regnava Luigi XIV e reggeva Anna d’Austria, assistita dal cardinal Mazzarino) che giunse l’ordine di demolire metà del castello di Epoisse, quando la nobiltà aprì una sanguinosa vertenza - la Fronda - contro la monarchia. Era un castello molto potente, che i Duchi di Borgogna avevano sempre affidato a feudatari loro fedeli. Quello che se ne vede adesso è perciò solo la metà, circondata da robusti bastioni e da un profondo fossato, e protetto dalla proprietà privata che ne consente la visita solo in certi giorni.

Il castello sorge su una larga spianata, difesa da una cinta esterna che racchiude la vasta area dove la popolazione del feudo aveva il diritto di ripararsi in caso di guerra, e di costuire le proprie case. Alcune ne rimangono. Ma rimane soprattutto la splendida colombaia. Il numero delle cellette era proporzionale all’estensione del feudo: era un simbolo, e un appannaggio, della sua ricchezza. A ogni arpento (un terzo di ettaro) corrispondeva una celletta: la colombaia di Epoisses ne contiene tremila.

Questa colombaia è molto bella: nella galleria di fotografie, scattate nel dicembre 2004, si può osservare l’ingegnosa scala rotante e la robusta carpenteria. Come in tutte le costruzioni antiche della Borgogna i tetti erano risoperti di lastre di pietra: per quanto sottili, esse richiedevano travi robuste, che d’alta parte le foreste della regione facilmente fornivano

La galleria delle immagini; cliccando su ciascuna si ingrandisce

Luigi Piccinato, Prolusione: La figura dell’urbanista

Signore, Signori, Amici,

A queste mie parole, anzi ai lavori del nostro convegno, dovrebbe essere posta come base (e quindi sottointesa) una definizione volta a precisare l’ambito della sfera dell’operare urbanistico.

Dovremmo, a parer mio, definire come urbanista quel pianificatore che è capace di tradurre in un piano tecnico pluridimensionale il suo programma. Condizioni sine qua non per questa traduzione sono, da un lato, la capacità di risalire a una sintesi dall’analisi degli elementi di giudizio; dall’altro la capacità di operare questa sintesi in termini di espressione (in senso estetico).

Da tutto ciò discendono vari corollari.

Il primo è che l’urbanista è un pianificatore e che vi possono essere pianificatori che non sono urbanisti.

Il secondo è che l’urbanista opera nella multiforme sfera della tecnica e della conoscenza, ma solo al fine di giungere ad una sintesi che è il piano: e per far ciò si vale di tutti i mezzi che gli consentono di agire in tutti i campi e in tutte le dimensioni (edilizia, viabilità, legislazione, igiene, economia, vita sociale, ecc., ecc.).

Il terzo è che, se il piano è espressione, esso appartiene alla sfera del particolare e nona quella dell’universale; ossia che non esiste un unico piano urbanistico e scientifico che traduca inequivocabilmente e matematicamente un dato programma, ma bensì quest’ultimo può anche essere espresso contemporaneamente in vario modo da diversi piani, ciascuno dei quali rifletterà, più o meno chiaramente, il modo di vedere e di sentire dei vari urbanisti che li possono aver redatti. Ossia la sintesi espressa dal piano pluridimensionale pur valendosi di una tecnica rigorosa, appartiene più alla sfera dell’Arte (in senso vasto) che a quella della Scienza.

Questa definizione, con i suoi logici corollari, scaturisce da una esperienza abbastanza recente e, comunque, il porre a base dell’operare urbanistico il concetto fondamentale della pianificazione economico-sociale è posizione abbastanza nuova nel nostro Paese. Qui da noi fino a non molto tempo fa l’urbanistica si identificava con l’edilizia cittadina, con l’architettura delle città, con la tecnica della città, tendendo soprattutto a risolversi in una intuizione architettonica, sia pure in certo senso vastissima. Tale è stata posta nei compiti dei pochi edili-urbanisti italiani dello scorso secolo, tale in fondo nacque come disciplina, sia pure con più vasti concetti, nelle facoltà d’Architettura una trentina d’anni or sono.

Era questo certo un retaggio dello spirito individualista del Rinascimento non superato, come già invece in Francia attraverso l’Illuminismo e la grande Rivoluzione; aiutato in Italia dalla divisione politica dei Principati e delle Signorie, alimentato dallo spirito della controriforma e dalla assenza quasi totale, fino alla fine del secolo, del lievito dei grandi problemi sociali, posti in altri Paesi dalla rivoluzione industriale.

Invero quella meravigliosa creazione italiana del libero Comune, palestra feconda di contatti sociali, qui, proprio in Italia, morì troppo presto sotto il peso delle Signorie, forse perché, come ebbe a dire il Gramsci, incapace di tradurre il suo ordinamento corporativo in uno Stato. Ma in altri Paesi lo spirito comunale visse più a lungo, generò la base strutturale di tutte le infinite città della colonizzazione europea del basso medioevo e delle città Anseatiche, diede forza e vita a quella coscienza sociale comunale che fa sentire il risolversi del problema dell’individuo in quello della comunità, che permette la democratica partecipazione di tutti i cittadini alla vita politico-economica, che rinvigorisce il senso di responsabilità, che accerta infine in un quadro collettivo più vasto gli interessi economici dei componenti della comunità. Coscienza questa che si conserverà fino alla fine negli altri Paesi e che ha permesso ad esempio il compiersi ininterrotto, attraverso cinque secoli, del piano unitario di Amsterdam e che ci si rivela lungo la storia con segni inequivocabili anche nelle condizioni più difficili, sotto la pressione della autocrazia.

Ne è un segno per esempio il rescritto di Colbert (il creatore della rete stradale organica della Francia) con il quale, in occasione dell’approvazione del piano di Parigi del 1676, proibiva l’ampliamento della città fuori dei suoi baluardi “affinchè sia posto un limite all’ingigantirsi della metropoli, la quale non abbia poi a fare la fine di Babilonia, di Alessandria e di Roma, soffocate dalla loro stessa grandezza”.

E ne è un altro la bella lettera di Vauban a Luigi XIV scritta nei suoi ultimi giorni, quasi una confessione, nella quale egli dice: “Spinto dalla mia coscienza sento il dovere di dire alla Maestà Vostra come, nelle moltissime città da noi create, si sia sempre trascurato e tenuto in nessun conto la vita e le condizioni degli abitanti; di quel popolo cioè che pure ha portato e porta sulle sua spalle i pesi maggiori del regno”.

Per trovare un pur debole segno di tale coscienza in Italia, bisogna scendere alle soglie dell’ottocento, quando Ferdinando IV chiamava il Filangieri per il codice di vita della sua Ferdinandopoli; ma questa era una città da operetta, morta sul nascere, divertimento di sovrano, nata dalla scimmiottatura di Versaglia. E il sovrano riuscì a dar vita piuttosto al Reale Albergo dei Poveri, chiudendoci dentro i diecimila poveri della città di Napoli.

Non v’ha dubbio dunque che la Rivoluzione Industriale, con i suoi problemi acuti, e la grande esperienza colonizzatrice Americana contribuirono a trasformare questa latente coscienza sociale in un vero processo di sviluppo, specialmente nel mondo anglosassone: ed è lì che troviamo il primo delinearsi della figura del pianificatore.

E’ in Inghilterra (proprio a reazione del mondo del liberismo economico) che nascono i primi pensatori moderni, sotto la spinta di un primo socialismo, i quali pongono il problema di una nuova organizzazione economica della società capace di dar vita ad una nuova urbanistica e quello di una nuova urbanistica, capace di garantire una nuova economia. I primi furono gli apostoli del gruppo Ruskiniano che, in un certo senso, sfociarono nella concezione Howardiana; i secondi furono gli industriali del sapone, della cioccolata, del vetro che, all’opposto, ragionarono in termini di puro interesse economico personalistico.

Il tema di un’urbanistica sociale, ossia quello di un’urbanistica (che altra io non ne vedo) è stato dunque posto prima dai sociologi che dai tecnici; e proprio qui, nel mondo anglosassone, si è precisata più che altrove la figura dell’urbanista pianificatore quale ho proposto al principio. In questa atmosfera si è formato il pensiero di Patrick Geddes, quello di Mumford; in questa atmosfera sono nati, ancor prima che fossero proposti da una adatta legislazione, i primi piani regionali inglesi ed il piano della regione di New York, offerto in dono da un mecenate e, benché privo di qualunque sanzione giuridica, accettato spontaneamente.

L’attuale posizione dell’urbanistica in Inghilterra e in America è delineata dunque in un quadro nel quale si compongono da un lato le esperienze accademiche di singole figure di architetti urbanisti; dall’altro le esperienze empiriche di organizzazioni sociali. Gli uni e le altre affermano la base economico-sociale del contenuto del piano; e perciò stesso è possibile colà quella aderenza logica tra il piano e la società che garantisce la bontà e l’efficacia del piano stesso. Diversa invece la posizione dell’urbanista nei Paesi del mondo latino.

Qui è il tecnico urbanista che, per primo e da solo, pone questo principio, mentre intorno a lui vi è, si può dire, il vuoto. Appena ora si delineano in Francia, nell’America latina e in Italia quelle forze di pensiero che intravedono una unità dei fenomeni dell’economia e, perciò stesso, si pongono ad indagare questi fenomeni, preparando quel terreno fertile per l’operare urbanistico attraverso una pianificazione. Ma ancor oggi, di più, si pensa in termini puramente tecnici estetizzanti.

Nella Russia sovietica, all’opposto, la pianificazione ha preceduto, in un certo senso, l’urbanista e gli ha preparato la base, gli ha dato il quadro, gli ha consegnato una Società, superandolo nella rapidità. Semmai dunque, in Russia, è l’urbanista che tarda nel far aderire i suoi piani alla realtà della nuova società che sotto i suoi occhi si sta formando.

Per afferrare compiutamente la dualità: urbanistica - pianificazione (o ciò che è lo stesso, lo sforzo interpretativo da parte dell’urbanista verso la società per la quale egli opera) dobbiamo renderci conto che progresso non è civiltà e che quest’ultima altro non è che la capacità di servirsi del primo in termini etico-sociali; dobbiamo renderci conto che il vertiginoso moltiplicarsi negli ultimi quattro secoli, delle emergenti poste dal progresso tecnico ha proceduto molto più rapidamente che non la facoltà di tradurre in termini di civiltà la comprensione di tali emergenti. Per ciò stesso la società nostra è in crisi.

In verità la interpretazione ottimistica della Storia, posta dalla Francia del diciottesimo secolo con il postulato secondo il quale scienza e civiltà corrono sullo stesso binario, non ci sorregge più.

Noi oggi sappiamo per certo che, affinché quel postulato sia valido, occorre che tutte le facoltà umane si sviluppino proporzionalmente, camminando allo stesso passo; occorre insomma che il dominio razionale della società e dell’individuo sui propri impulsi marci alla pari con lo sviluppo tecnico. Ciò non si è più avverato dal Rinascimento in poi: e se ciò non è, la società stessa si disintegra. E quando una città è distrutta dalle bombe, ciò accade (come dice il Mannheim) perché il dominio tecnico sulla natura è molto più avanzato che non il conoscimento dell’ordine e del governo sociale.

Ora: per giudicare il livello etico-sociale della comprensione del progresso e il suo peso effettivo sulle questioni pratiche della vita della comunità, o (ciò che è lo stesso) per pesare la capacità urbanistica, non ci sono che due indici di misura: quello che segna la portata della capacità di previsione della gente e quello che mostra la portata del suo senso di responsabilità. Mai questi indici ci possono sembrare così bassi come oggi.

In realtà, la nostra società sta compiendo un lungo cammino: dallo stato della solidarietà della orda essa è passata alla tappa storica dell’uomo della concorrenza individuale; ed ora sta entrando in quella della solidarietà del gruppo superindividuale.

Da un lato l’uomo, che fino a ieri si sforzava nella lotta con i soli propri mezzi, giunge oggi a rendersi conto della necessità di unire i suoi capitali con i capitali degli altri, formando così i gruppi di capitali indispensabili nelle grandi imprese industriali. D’altro lato gli operai distaccati dalla terra, i produttori di eccedente economico, attraverso la collaborazione cooperativistica e le lotte sindacali, riescono ad intravedere un mondo socialmente più grande di quello del singolo individuo.

Quello stesso processo che ha spinto gli uomini alla competizione della concorrenza (che altro non è se non una previsione limitata a parti staccate del processo sociale) è causa oggi di una maggiore comprensione della interdipendenza dei fatti e tende a risolversi in una visione totale del meccanismo sociale. Insomma, il livello più elevato di ragione e di moralità sveglia, sia pure oscuramente, negli uomini in gara, una coscienza della pianificazione.

Siamo ancora nella tappa di sviluppo; ed ogni gruppo dominante si sforza di ottenere con ogni mezzo, anche brutale, per sé solo la possibilità di pianificazione: ciò che noi urbanisti chiamiamo pianificazione tendenziosa.

Di qui quel fenomeno strano e curioso, al quale assistiamo, dei vari piani particolari, staccati l’uno dall’altro, anzi contrastanti l’uno con l’altro.

In questo momento assurdo tutti pianificano, ma ancora nel proprio interesse che è individualistico, anche quando abbraccia una sfera più vasta di quella del singolo individuo, la sfera del gruppo.

Quella di oggi è dunque l’epoca della pianificazione tendenziosa a gruppi. Tutti pianificano: fanno i loro piani le città; gli Enti pubblici; le società private, i vari Ministeri; i Comuni e le Provincie; le bonifiche e le ferrovie; i Magistrati delle acque e i Provveditorati delle Opere Pubbliche; le grandi industrie e la Sanità ... ma tutti distaccati gli uni dagli altri, spessissimo anzi in lotta feroce tra loro.

In fondo tutta la nostra vita si svolge dentro a diversi settori pianificati. Ogni giorno milioni di bambini si levano al mattino alla stessa ora e vanno a scuola per studiare secondo programmi prestabiliti, su libri identici e pianificati; migliaia di treni e di piroscafi partono ed arrivano secondo i piani di orari nazionali ed internazionali. Tutti fanno piani e programmi: i padroni di casa, gli industriali, gli impiegati e gli operai ... persino la massaia agisce secondo un piano ed un certo programma quando esce per fare le sue compere!

Ma questi piani sono ancora staccati e tendenziosi: poiché, in fondo, tutti, statisti e teorici, pensano ancor oggi in termini di liberismo economico, mentre invece le istituzioni e gli organi stanno preparando, giorno per giorno e sempre più velocemente, il cammino verso una più vasta e vera pianificazione: verso la pianificazione dei pianificatori, verso il “piano dei piani”. Anche lo stato più liberale sta correndo sui binari della pianificazione ed i suoi organi lavorano pe preparare uno stato sempre più pianificato.

E qui si pone l’altro problema: quello della libertà; e si suole fare distinzione tra dirigismo e pianificazione, e si dice che lo stato deve accontentarsi di intervenire (in tutto s si vuole) ma non porre catene alla libertà.

Ma noi sappiamo che intervenire non è affatto ancora pianificare: intervenire è un fattore negativo o positivo, a seconda se incide semplicemente sulle forze sociali o se dirige le vere forze vitali senza reprimerle. Solo in questo caso l’intervento coincide con la pianificazione ed in questo quadro, e solo in questo, si può concepire la libertà.

In verità il mondo di oggi è ancora prigioniero (ben più di quanto lo fosse il mondo ellenico degli stati cittadini o quello medioevale delle città-stato) della complessità e della vastità dello sviluppo della tecnica: questo così grande fenomeno è ancora troppo grande per noi per permetterci di tradurlo in termini di civiltà e di società. E la sua complessità ha fatto sì che quella indispensabile capacità dello spirito di pensare la nuova serie complessa di azioni sia sempre più limitata ad una élite.

Occorre oggi, non solo creare una nuova e più vasta élite per una società di massa, quanto convertire questa capacità in una vera coscienza universale.

Questo è, appunto, il compito delle nostre università e quello dell’insegnamento dell’urbanistica. E la ragione del nostro convegno di docenti, da un lato, è quella di studiare i mezzi più idonei per preparare i pianificatori capaci di tradurre i programmi in piani tecnici pluridimensionali (ossia gli urbanisti); dall’altro, quella di cercare di universalizzare la capacità dello spirito di pensare e comprendere i complessi fenomeni interdipendenti della società. Ciò che è la base della pianificazione.

In questo quadro, e solo in questo, è possibile operare, ed è raggiungibile la vera, la sola libertà.

Il Presidente apre la discussione sulla prolusione del Prof. Piccinato, invitando i presenti a definire la loro visione dei compiti e della figura dell'urbanista.

Filippo Basile

Il Prof. Basile ritiene che la figura dell’urbanista come ancora è concepita oggi poteva corrispondere alle finalità che l’urbanistica si proponeva nel secolo scorso. Oggi invece questa disciplina, trascendendo i limiti della sistemazione delle città, si è gradualmente estesa fino a comprendere la sistemazione e la valorizzazione degli spazi, prevedendone l’attrezzatura e l’assetto in relazione alle loro caratteristiche e al loro funzionamento. Considera quindi che sia più appropriato adoperare il termine spazioletica per comprendere questa più vasta concezione. Ne consegue che l’urbanistica altro non è che una branca della suddetta dottrina e precisamente la spazioletica urbana, così come la ruralistica è la spazioletica rurale e la colonistica la spazioletica coloniale. Tale ripartizione è da ritenersi organica e armonica e queste considerazioni riflettono le esigenze evolutive della vita d’oggi e la crescente complessità dei problemi di organizzazione spaziale.

Il Presidente richiama i convenuti sul pericolo di estendere la discussione a campi che richiederebbero una trattazione più profonda di quella consentita dalla natura e dagli obiettivi del Convegno.

Giovanni Muzio

Il Prof. Muzio vorrebbe che fossero definiti i compiti dell’urbanista nel campo della pianificazione. Gli urbanisti dovrebbero avere come compito essenziale lo studio delle condizioni di vita dei cittadini e la ricerca dei mezzi per arrivare ad una pianificazione, lasciando ad altre persone il compito della organizzazione dei piani civili, economici e sociali. Il bilancio di vent’anni di urbanistica è piuttosto modesto, e troppi sono i piani redatti senza una vera base e mancanti di un criterio generale; è quindi necessario dimostrare con degli esempi validi quali devono essere le condizioni fondamentali di un piano urbanistico.

Plinio Marconi

Il Prof. Marconi mette in rilievo il dramma della formazione sociale moderna: la ricerca di un nuovo equilibrio tra le esigenze dell’individuo e quelle della collettività. Negli stati comunisti si pensa che la soluzione possa trovarsi nel collettivismo integrale, a costo di sacrificare ogni aspirazione individuale; ma l’individualismo, come il collettivismo, rappresenta una attitudine insopprimibile del nostro spirito. Dalla dialettica composizione dei due verso la quale tende il mondo contemporaneo scaturisce ogni forma sociale. In Italia l’eccessivo individualismo, contro il quale urta ogni provvedimento urbanistico, infirma molte concezioni moderne attinenti alla pianificazione. Sebbene sia possibile, adeguandosi alle condizioni di fatto e ai problemi concreti, ottenere qualche risultato positivo, non vi è dubbio che per giungere a soluzioni più radicali e più vaste sia necessario dare maggior peso agli interessi collettivi. Nell’ambito dell’evoluzione dell’organismo politico-sociale del nostro Paese è inevitabile continuare nella via fin qui pero corsa, senza perdere di vista però gli obiettivi urbanistici più naturali.

Piero Bottoni

L’Arch. Bottoni riprendendo le considerazioni esposte dal Prof. Muzio, sottolinea l’importanza del fatto che i piani vengano impostati con una chiara direttiva politica, sulla cui base l’urbanista sia in condizione di agire. La pianificazione non può essere suddivisa in settori tecnici particolari, in quanto il problema politico-economico-sociale deve essere risolto su un piano unitario e generale, tenendo presente le esigenze nuove che nascono con lo sviluppo della società, la quale sempre più sarà compenetrata di uno spirito umano.

Prof. Capocaccia

Il Prof. Capocaccia premette che, non essendo egli urbanista, trova nelle parole di Piccinato un’impostazione del problema che lo fa letteralmente rabbrividire: l’urbanista, a suo parere è artista, prima ancora di essere tecnico Se mai nella figura dell’urbanista si dovrebbero ritrovare congiunte quelle dello scienziato e dell’artista; ma non è concepibile che questa figura di artista possa essere subordinata a un programma di carattere politico. Il pericolo della pianificazione quale definita da Piccinato è quello di livellare le esigenze e i bisogni dell’individuo fino a socializzare ogni ora, ogni minuto. “La tecnica livellatrice soddisfa i bisogni più comuni e generali dell’individuo, ma il nostro spirito tende ad uno sviluppo in senso opposto. Il nostro compito dovrebbe essere quello di incoraggiare la natura e non metterci contro di essa: una volta soddisfatte le esigenze della tecnica, l’urbanista ha il dovere di aumentare questa individualizzazione e differenziazione umana, la cui libertà deve essere conciliabile con quella degli altri individui. È necessario valorizzare lo spirito che non può essere pianificato e che si differenzia anche quando l’uomo vive in una casa, in un quartiere; occorre in altre parole mantenere questo bellissimo disordine nell’ordine di cui la natura è maestra”.

Il Presidente ringrazia il Prof. Capocaccia, osservando che la sua argomentazione è caratteristica di un’impostazione non tecnica: il problema, per un tecnico, è appunto quello di soddisfare questi bisogni attraverso le difficoltà inerenti al contrasto tra spirito e materia; e nell’indirizzo da darsi alla scuola si riflettono appunto queste stesse difficoltà. Il Presidente invita quindi il Prof. Piccinato a riassumere la discussione e a concludere sull’argomento.

Luigi Piccinato

Il Prof. Piccinato si duole che le sue parole non siano state interpretate nella loro esatta portata. L’urbanista definito come pianificatore deve essere in grado di introdurre il suo piano tecnico in un programma, ma questo programma gli è fornito dalla società. Se non c’è la base di una società già concepita che sappia esprimere i suoi bisogni, è compito dell’urbanista il suscitare questo programma prima che esso sia formulato con esattezza. L’uomo urbanista è anche uomo politico in quanto antevede, intuisce, induce.

“Quanto ai limiti del contenuto dell’insegnamento della disciplina urbanistica, non posso non convenire che nelle nostre Facoltà e nei seminari facciamo fare ai nostri allievi faticose indagini, ricerche di dati e rilevamenti statistici, quale materiale da porsi come base fondamentale per la compilazione del piano regolatore. È chiaro che questo materiale dovrebbe invece essere fornito dagli uffici statistica specializzati in tali indagini, mentre spetta invece all’urbanista l’interpretazione dei dati stessi. Ma poiché gli uffici di statistica non sono ancora in grado di mettere a disposizione dell’urbanista i dati necessari (o per lo meno i dati elaborati nelle forme utili all’applicazione interpretativa urbanistica) dobbiamo logicamente sopperire a tale carenza e spingere i nostri allievi a compiere indagini ed esplorazioni. Ciò ha anzitutto un enorme valore propedeutico e rende cosciente l’allievo che, senza la premessa dell’interpretazione e dello studio della realtà, l’opera dell’urbanista risulterebbe vana esercitazione formalistica e astratta. In secondo luogo questa ricerca contribuisce ad approfondire la conoscenza dei fenomeni ed a formulare proprio in forma urbanistica quel corpus di schede, di dati e di indagini che oggi ancora sono esplorati e redatti con tutt’altro spirito che quello necessario al nostro lavoro e, come tali, a noi sono spesso inutili.

“Rispondendo al Prof. Capocaccia, invece, mi sento in dovere di raccomandare di non fare confusione, come talvolta si fa, tra pianificazione e dittatura; Sono due cose assolutamente diverse. La pianificazione non è in se stessa né buona né cattiva, né democratica né dittatoriale. Può essere una cosa o l’altra a seconda degli uomini e della società che la applicano.

Tanto meno si deve confondere pianificazione con standardizzazione. Gli esempi da me riportati (i treni, le scuole, le industrie, le massaie, perfino gli eserciti) volevano puntualizzare il fatto che noi tutti siamo inquadrati in certe pianificazioni particolari cosiddette tendenziose; ma manca all’opposto la vera, la sola pianificazione, che ha come base il piano generale, il piano dei piani. Tutt’altra cosa che standardizzazione !

“Quanto poi al preteso incidere della pianificazione nel quadro della libertà, non v’à che da riferire ancora una folta al concetto stesso di libertà, il quale non spazia affatto nell’assoluto (sarebbe in tal caso anarchia) ma trova sempre il suo quadro nei limiti dell’interesse generale collettivo e non in quelli dell’interesse soggettivo individuale. La pianificazione urbanistica, lungi dal sopprimere la libertà, da a questa la sua sfera, ne amplia il contenuto ed il significato.

L’attuale catastrofica alluvione del Polesine à un esempio probativo delle conseguenze di una non-pianificazione. Piani parziali hanno presieduto fino ad oggi alle arginature, alle bonifiche, alle strade, all’agricoltura: ma se il problema fosse stato affrontato attraverso il generale coordinamento li tutti i suoi fattori a mezzo di un piano totale dell’intera pianura padana, coordinando il rimboschimento, il tema idraulico, la irrigazione, i bacini idroelettrici, le bonifiche, gli insediamenti umani, le industrie, ecc., non saremmo arrivati a tanto disastro, e avremmo invece dato impulso a nuove energie e a nuove attività, a una più vasta economia entro la quale avrebbe potuto esplicarsi la libertà.

È dentro a questo quadro che opera l’urbanista. E se la società non è in grado oggi di offrirgli questo quadro sta a lui suscitarlo, comporlo, collaborare alla sua formazione. Formare l’urbanista in questo senso è il compito delle nostre Università: chiarire i mezzi per la sua formazione è il tema del nostro Convegno”.

Luigi Dodi

Il Prof. Dodi si richiama al problema della figura dell’urbanista definita nella prolusione del Prof. Piccinato, e propone che il Convegno si pronunci sull’opportunità di assegnare all’urbanista un compito più vasto che non sia quello esclusivamente tecnico, di fornirgli cioè, al di fuori della tecnica, una sua vera cultura. Questo dovrebbe essere il tema della seduta pomeridiana: il problema dell’estensione culturale mirante a formare un urbanista sociale capace di apportare, sia nel campo politico sia in quello amministrativo, un contributo decisivo alla creazione di una nuova coscienza urbanistico-sociale nel nostro Paese.

Prof. Pera

Il Prof. Pera desidera esprimere, anche se in ritardo, il suo pensiero nei riguardi della definizione della figura dell’urbanista. In questa figura si plasmano i compiti che vengono normalmente assegnati all’insegnamento della disciplina urbanistica; il Convegno si deve proporre di dare un orientamento più positivo a questo insegnamento e all’urbanistica nel senso lato della parola. I compiti dell’urbanista, almeno da quanto appare dalla discussione precedente, sono compiti eminentemente artistici e i suoi problemi sono di natura prevalentemente architettonica; in conseguenza la figura dell’urbanista tenderebbe ad essere prevalentemente artistica. Ma l’uomo urbanista deve affrontare nello svolgimento della sua attività, problemi non solo di natura artistica ma anche di natura tecnica, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, dell’igiene, ecc., e di questi problemi non à stato ancora parlato. La sistemazione dei vecchi centri, e in modo tutto particolare dei centri italiani, comporta problemi di natura igienica-economica o sociale che devono essere affrontati e risolti; l’urbanista quindi dovrebbe essere ad un tempo igienista, economista, sociologo. Se si tiene conto di questi multipli aspetti dell’attività dell’urbanista, si vedrà come il compito del docenti sia quello di formare urbanisti sufficientemente preparati ed informati su questi molteplici temi, che contribiscono a formare la complessa natura della professione.

Seduta di Sabato pomeriggio, 24 novembre

Il Presidente apre la seduta dando lettura delle numerose adesioni ricevute, tra le quali un telegramma del Ministro dei Lavori Pubblici, nel quale egli esprime i suoi migliori voti per il Convegno. Propone in seguito di riassumere oralmente la relazione a stampa della Segreteria e invita quindi l’Architetto Turin a voler brevemente riassumere la parte riguardante l’insegnamento nelle scuole estere, da lui curata.

Dopo il riassunto della relazione fatta dall’Arch. Turin e prima di iniziare la discussione sul primo tema del Convegno, il Presidente ritiene opportuno che si dia lettura delle relazioni pervenute, e invita quindi gli autori presenti a riassumere personalmente e colla massima brevità le loro relazioni.

Franco Berlanda, Relazione: Corso liberi di specializzazione

Si legge la relazione dell’Architetto Berlanda sul tema: “Corsi liberi di specializzazione”. In essa si riconosce la necessità urgente di istituire corsi di specializzazione urbanistica, per laureati in Ingegneria e Architettura. Per favorire la realizzazione pratica di tali corsi presso le Università si propone in un prossimo tempo la creazione di corsi liberi sul tipo delle numerose esperienze estere nello stesso campo. Il compito di questi corsi sarebbe quello di migliorare la preparazione individuale dei professionisti e di impostare la pratica del lavoro in gruppo. Gli scarsi risultati raggiunti dai numerosi concorsi per i piani regolatori delle piccole città dimostrano la necessità di una più vasta preparazione; simili lavori, invece, potrebbero essere vantaggiosamente realizzati come parte delle esercitazioni pratiche di detti corsi liberi, eventualmente integrati da visite e conferenze di altri studiosi. In un secondo tempo questi corsi potrebbero essere trasferiti presso le Università, contribuendo a perfezionarne le esperienze didattiche e metodologiche.

Partendo da queste considerazioni e tenendo presente che le difficoltà di ordine finanziario non dovrebbero costituire un ostacolo insormontabile, l’Arch. Berlanda invita il Convegno a sollecitare il Consiglio Direttivo dell’INU affinché provveda alla costituzione di un organismo autonomo collaterale di gestione temporanea che abbia il compito di promuovere corsi di lezioni regolari in varie città; pubblicare un corso di dispense; prestare la consulenza alle amministrazioni locali valendosi delle possibilità di produzione dei corsi sopradetti per completare con un lavoro pratico la preparazione teorica dei nuovi tecnici; raccogliere infine tutte le esperienze didattiche e metodologiche per meglio impostare l’auspicabile creazione della nuova scuola di specializzazione universitaria per urbanisti.

Gino Pratelli, Relazione: Dall’educazione alla scienza urbanistica

L’Ing. Pratelli presenta una relazione sul tema: “Dall’educazione alla scienza urbanistica”. Egli considera che l’insegnamento dell’urbanistica debba essere impartito secondo quattro diversi gradi di necessità: educativa; professionale-amministrativa, tecnica di collaborazione; tecnica di progettazione. Per quanto riguarda il primo di questi aspetti, si lamenta spesso la mancanza di una “coscienza urbanistica”. È evidente che le norme della convivenza umana hanno anche aspetti urbanistici e che con l’evolversi e con il complicarsi della vita collettiva e dei principi sociali il diritto stabilisce sempre nuove leggi e regolamenti, tra cui quelli della convivenza nelle sedi. Affinché le leggi sorgano e operino occorre siano precedute e affiancate da una educazione, la cui azione, per quanto riguarda il campo specifico dell’urbanistica, dovrebbe essere esplicata nelle scuole del ciclo dell’istruzione inferiore obbligatoria e nei licei classici-scientifici. Per quanto riguarda l’aspetto professionale, l’insegnamento dell’urbanistica dovrebbe essere impartito a tutti quei professionisti e funzionari che dovranno occuparsene, non tanto nei suoi aspetti tecnici, quanto in quelli amministrativi e giuridici. Nel terzo punto della relazione, l’autore mette in evidenza la necessità di una collaborazione di sempre più numerose categorie di specialisti nello studio preparatorio dei piani urbanistici. Le necessità dell’insegnamento presumono la determinazione delle forme di questa collaborazione, la quale sarà tanto più complessa quanto più progredita sarà la pianificazione stessa. Tra le varie specialità di esperti chiamati a collaborare nell’attività urbanistica, occupano un posto notevole i geografi che apportano il valido contributo dei loro studi sulla geografia urbana, sugli insediamenti, sulle dimore rurali, ecc. Bisogna però tenere costantemente presente che il comune obiettivo di queste diverse discipline non implica una comunità di impostazioni, e che la natura di questa auspicata collaborazione sarà estremamente complessa e richiederà un’accurata definizione. Per ciò che concerne infine gli aspetti tecnici della progettazione, questo sarà il compito specifico degli ingegneri e degli architetti. L’autore si dimostra favorevole alla creazione di corsi di aggiornamento, più adatti che non i corsi di specializzazione, ormai resi superflui dall’obbligatorietà dell’insegnamento dell’urbanistica nelle carriere d’ingegnere e d’architetto. La necessità di tale integrazione culturale si è resa evidente nei recenti convegni tecnici di diversa natura, i quali sono facilmente passati a considerare problemi riguardanti direttamente l’urbanistica.

Vincenzo Andriello, Relazione: Sulla necessità di formare urbanisti specializzati

Il Prof. Andriello dà lettura alla sua relazione a stampa dal titolo: “Sulla necessità di formare urbanisti specializzati”.

“Tra le parole più essenzialmente indicative dell’attitudine caratteristica della mente umana dei nostri tempi figura quella di “pianificare”. La nostra è un’età di piani e di programmi, più o meno necessari, più o meno attuabili; i risultati di questa attività, sono talvolta positivi, spesso discutibili, a volte puri virtuosismi brillanti ma inattuabili. Pianificare non è facile: oltre al personale intuito che deve guidare nella scelta delle migliori soluzioni, c’è bisogno di una conoscenza profonda del problema che si vuole affrontare, in tutte le sue forme e sotto tutte le sue manifestazioni. Più specificamente nel nostro campo la pianificazione comprende, come dice il Mumford, “... la coordinazione delle attività umane nel tempo e nello spazio fondata sui fatti noti riguardanti la terra, il lavoro e l’uomo”. Un’opera così complessa non può più estrinsecarsi coll’ausilio di un semplice tecnico, per quanto esperto e lungimirante; comunque sarà necessario integrare la preparazione di quest’ultimo con una serie di nozioni sociali, scientifiche, estetiche, economiche ed amministrative che gli diano chiara visione dello scopo che egli si propone. Numerosi studiosi stranieri concordano nel riconoscere la necessità di una serie di specializzazioni nel campo della pianificazione, così come si è verificato nel campo della medicina. La necessità di tale specializzazione appare evidente se si esaminano i tre stadi in cui si suddivide attualmente la fatica pianificatrice, e cioè il campo nazionale, il campo regionale e quello locale. Il pianificatore tecnico a cui sarà affidata la parte esecutiva dei piani, non potrà però impadronirsi del contributo dei suoi coadiutori (l’economista, il giurista, il geografo, i diversi esperti tecnici in agricoltura, in comunicazioni, ecc.) se con la sua precedente preparazione non si sarà messo in grado di comprendere e di delimitare l’entità e la portata dei fenomeni a cui tale contributo si riferisce. Il compito dell’urbanista è oggi molto più ampio e complesso di quanto s’intendeva fino ad una generazione fa. Con l’affermarsi delle nuove teorie che sostituiscono al concetto puramente tecnico ed architettonico della sede umana quello organico ed evolutivo, l’urbanista deve possedere l’attitudine a comprendere e ad interpretare i bisogni dei suoi concittadini. Solo immergendo tutta la disciplina urbanistica nello studio dei reali bisogni dell’uomo, sarà possibile evitare i pericoli di un punto di vista rigidamente tecnico o quello di una visione “cosmetica” (o, etimologicamente, ornamentale) egualmente sterile e superficiale.

È necessario conferire allo studioso quell’attitudine diagnostica che lo renda capace di afferrare a prima vista caratteristiche del caso che egli deve trattare. A tale scopo secondo il Lock, sono necessari tre stadi: il primo, di elementare civicità o “citizenship”, il secondo di investigazione o “survey”, il terzo infine di raccolta e di elaborazione delle scienze teoriche. In ogni momento sarà sempre necessario tener presente che lo studioso deve costituire un legame ideale tra il pubblico da una parte e le pubbliche amministrazioni dall’altra. Indipendentemente dall’opportunità dell’insegnamento dei principi urbanistici nelle altre Facoltà che non siano quelle di Architettura e Ingegneria, e della costituzione di appositi corsi post-laurea per coloro che s’indirizzano a carriere tecniche-amministrative, noi insistiamo sulla necessità assoluta di fornire ai laureati sia in ingegneria che in architettura un corredo completo di cognizioni sulla pianificazione oltre che su quella fisica, nonché su tutte le scienze ausiliarie”. II relatore propone un corso biennale suddiviso in due parti: una parte teorica comprendente un gruppo di materie culturali e uno di materia tecniche, e una parte pratica, consistente in applicazioni sulle materie del secondo gruppo.

Corrado Beguinot, Relazione: Sull’insegnamento e sull’istituzione di nuovi corsi

L’Ing. Beguinot, nella sua relazione: “Sull’insegnamento e sull’istituzione di nuovi corsi”, si riferisce innanzi tutto alla specializzazione, fenomeno che si osserva nello sviluppo di tutte le scienze durante gli ultimi due secoli, e che ha portato alla formazione di una quantità di materie di studio e d’insegnamento che prima erano semplici capitoli di altre discipline. Di fronte alle numerose manifestazioni di tale movimento, non c’è da stupirsi che gli studiosi di urbanistica sostengano che l’insegnamento della loro materia debba diffondersi ancor più nei vari rami di scuole ed essere maggiormente approfondito in quelle in cui viene attualmente impartito. L’urbanistica, racchiusa un tempo nella sua stretta definizione di “arte di costruire città”, ha seguito una grande evoluzione che ha esteso il suo campo d’interesse e le ha conferito dignità di scienza. Tuttavia esiste allo stato attuale una sensibile soluzione di continuità tra l’evoluzione della scienza, della tecnica e dell’arte urbanistica, da un lato, e le pratiche realizzazioni dall’altro; è necessario pertanto diffondere la coscienza urbanistica e superare l’incomprensione e gli ostacoli che si frappongono nell’attuazione pratica di questa disciplina. Nel campo delle proposte di ordine pratico il relatore considera opportuno estendere l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Ingegneria a due anni invece di uno; di impartire poche lezioni, in forma di premessa introduttiva di tale materia nelle scuole pre-universitarie; infine di sviluppare il concetto della diffusione della coscienza urbanistica in tutti i ceti della popolazione, in modo da rendere viva, attiva e palpitante la cosidetta politica urbanistica.

Il Presidente ritiene che sarebbe necessario concretare in forma un po’ meno vaga i concetti espressi nelle singole relazioni. Invita quindi i docenti ad esprimere la loro opinione sui vari punti del programma del convegno ed a proporre, sulla base della discussione degli elementi fondamentali, che dovrebbero costituire l’insegnamento dell’urbanistica, un migliore coordinamento dei programmi e dei piani di studio.

Giovanni Muzio

Il Prof. Muzio espone le sue idee a proposito dei programmi di studio delle Facoltà di Architettura e di Ingegneria, nelle quali può vantare una lunga esperienza. A suo avviso il numero delle materie di queste due carriere è eccessivo e sarebbe controproducente aumentarlo. Il compito della nostra scuola non è di fare degli urbanisti; dobbiamo solo cercare di intensificare questo studio per agevolare l’educazione degli urbanisti e creare le condizioni più propizie alla loro formazione. Il miglior mezzo per realizzare questi scopi sarebbe quello della creazione, presso le Facoltà di Architettura e di Ingegneria, di Seminari di Urbanistica post-laurea, i quali non dovrebbero necessariamente conferire un titolo di studio o un diploma di urbanisti. Attraverso questi istituti di urbanistica, ai quali sarebbero ammessi i migliori laureati delle facoltà, si potrebbe procedere a una raccolta preziosa di materiale ed a un coordinamento effettivo dello stesso, per una miglior comprensione dei problemi urbanistici. L’impostazione delle scuole straniere, tra le quali tipiche le americane, è una conseguenza della coscienza urbanistica dei Paesi; da noi l’attività di propaganda per la formazione di questa coscienza nel pubblico dovrebbe partire dalle nostre Facoltà, ma estendere la sua azione a tutti gli stadi dell’educazione, da quello elementare, attraverso il medio, fino all’universitario. Noi dobbiamo cercare d’intensificare lo studio dell’urbanistica istituendo dei laboratori, internati, o seminari di urbanistica in modo da ottenere una specie di specializzazione spontanea; da questi istituti dovrebbero poter uscire ogni anno due o tre urbanisti capaci di affrontare i problemi del nostro Paese.

Il Prof. Muzio si dimostra contrario alla creazione di corsi di perfezionamento, suggeriti da altri convenuti, perchè considera che questo genere di corsi viene per lo più frequentato da persone la cui sola ambizione è quella di aggiungere un titolo o un diploma al loro curriculum. Noi abbiamo bisogno di urbanisti esecutori, di funzionari dell’urbanistica: e questo è un compito che spetta più alle Facoltà di Ingegneria che a quelle di Architettura. Occorrono dei tecnici capaci di raccogliere e interpretare il materiale cartografico e statistico necessario all’urbanistica; questi tecnici non hanno bisogno di essere dei veri e propri urbanisti, in un senso creativo, ma piuttosto dei funzionari, dei veri e propri “sergenti dell’urbanistica”. Queste due premesse: la creazione di una profonda coscienza urbanistica e la ricerca del materiale di studio, sono le condizioni indispensabili per un effettivo progresso degli studi che qui ci interessano; senza di esse mancherà il tessuto fondamentale per una effettiva realizzazione dell’attività urbanistica.

Il Presidente ringrazia il Prof. Muzio per la sua brillante esposizione, frutto della sua nota esperienza e del suo maturato pensiero urbanistico condiviso da molti dei presenti, ed invita altri docenti ad esprimere la loro opinione in proposito.

Virgilio Testa

Prende la parola il Prof. Testa. Egli ricorda di essere l’unico, tra i presenti, dei professori della Scuola di Perfezionamento di Urbanistica creata a Roma negli anni 1935-1937; questo fatto però non gli impedisce di apportare la sua opinione sfavorevole alla creazione di una nuova scuola, di simili caratteristiche. Le scuole professionali di perfezionamento sono generalmente frequentate da un numero estremamente limitato di giovani, e la scuola di Roma non sfuggì a questo destino; nella società odierna i giovani professionisti hanno bisogno di vivere e di guadagnare e non possono quindi disporre del tempo necessario per gli studi cosidetti di perfezionamento. L’esempio delle borse di studio che così spesso vanno deserte conferma questa triste realtà. Si rende quindi necessario creare questo perfezionamento nel seno stesso delle scuole che formano gli individui chiamati domani ad affrontare e risolvere i problemi urbanistici, e inquadrare questo programma in quello più vasto di una riforma della scuola. In un certo senso noi possiamo fare a meno dell’urbanista, ma non della conoscenza delle nozioni urbanistiche; architetti ed ingegneri non possono svolgere coscientemente la loro attività senza avere la base di alcune nozioni fondamentali in proposito. È necessario integrare lo studio dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura e di Ingegneria e superare il semplice studio di acquisizione di un certo numero di nozioni o teorie, totalmente insufficienti per affrontare la realtà dei problemi urbanistici. Una delle lacune più frequenti, per esempio, nella formazione degli urbanisti, è quella riguardante i problemi di natura giuridica o amministrativa; troppi sono gli esempi di ingegneri ed architetti che affrontano problemi edilizi senza conoscere le norme o gli aspetti amministrativi che li regolano. Non esiste nell’insegnamento universitario italiano una materia obbligatoria di legislazione urbanistica. Nella Facoltà di Architettura di Roma, fra le molte materie, ce ne è anche una chiamata “materie giuridiche”, la quale per volontà specifica dei dirigenti della Facoltà è stata trasformata in “politica urbanistica”; ma è questo un corso complementare a carattere facoltativo. In altre parole si può dare il caso (ed è anche troppo frequente) di architetti che conseguono la laurea senza la conoscenza delle materie giuridiche e che, posti di fronte a problemi di questo carattere, sono costretti a ricorrere al consiglio di specialisti e legali. Le conseguenze di questa mancanza di nozioni tecniche amministrative possono essere disastrose; errori apparentemente insignificanti possono recare danni immensi ai privati o alla pubblica amministrazione, come lo dimostrano numerosi esempi quotidiani. In conclusione, il Prof. Testa si manifesta contrario, per il momento, alla creazione di corsi di perfezionamento, i quali potranno semmai venire in un secondo tempo, sulla base di una salda coscienza urbanistica. Occorre piuttosto intensificare l’insegnamento nelle nostre Facoltà ed estenderlo, oltre alla tecnica della progettazione urbanistica, alla vera e propria politica urbanistica, comprendente le nozioni fondamentali di problemi economici, amministrativi e giuridici, che stanno alla base di tutte le soluzioni urbanistiche.

Eduardo Caracciolo

Il Prof. Caracciolo ritiene che l’attività didattica degli Istituti universitari possa scindersi in due parti: una scientifica ed un’altra sociale. Gli elementi di studio sono purtroppo disparati e vengono esaminati successivamente in forma spesso caotica. Attraverso un disciplinamento dei nostri programmi di studio e un coordinamento più effettivo delle diverse attività degli istituti di insegnamento universitario, si dovrebbe poter conferire ai programmi di studio una certa concretezza pratica, tale da preparare i giovani al passaggio dall’attività speculativa dell’università a quella pratica della professione. È necessario stabilire un metodo di lavoro unitario e realizzare un effettivo avvicinamento degli insegnanti; a questo scopo si potrebbe creare ma commissione incaricata di pianificare i programmi di studio e di coordinarli sia dal punto di vista didattico che da quello strettamente scientifico. È questa una piccola proposta di carattere pratico che il Prof. Caracciolo presenta alla considerazione degli altri docenti.

Luigi Piccinato

Risponde il Prof. Piccinato, il quale riconosce di non possedere le doti forensi del Prof. Testa per poter legittimamente assumere la difesa degli urbanisti; si propone invece di portare un atto di accusa agli istituti che preparano gli amministratori e i giuristi. Se da un lato è giustificata la protesta per la mancanza di conoscenze della organizzazione amministrativa e legislativa nell’insegnamento degli istituti che preparano i tecnici, altrettanto ingiustificata e sentita è la carenza quasi totale della conoscenza dello spirito dell’urbanistica nelle sedi degli amministratori e dei giuristi. È appunto il tecnico urbanista che chiede nuova legislazione per poter realizzare i nuovi ordinamenti tecnici: è lui che puntualizza il suo fine tecnico, al quale il giurista deve apprestare il mezzo giuridico per raggiungerlo. Giuristi ed amministratori si difendono costantemente contro i postulati della nuova urbanistica, trincerandosi dietro i ”principi sacri” della legge del 1942, la quale pone dei limiti che non consentono a noi tecnici di raggiungere gli obiettivi indispensabili: noi domandiamo che essi si rendano conto del nuovo spirito della disciplina e dei nuovi nostri bisogni. Se non si vuol giungere ai corsi di specializzazione urbanistica, è indispensabile almeno che sia diffusa la conoscenza dello spirito dell’urbanistica e dei suoi postulati in tutte le altre discipline.

Prof. Pera

Il Prof. Pera procede a dar lettura della sua relazione contenente le proposte per il coordinamento e il miglioramento dell’insegnamento nell’attuale piano di studi. L’attuale insufficienza della preparazione tecnica e culturale richiesta agli urbanisti si deve attribuire prevalentemente al fatto che nelle nostre Facoltà d’Ingegneria l’insegnamento della tecnica urbanistica è stato introdotto circa venti anni addietro. Un ventennio ha rappresentato, nel campo urbanistico, un evolversi così rapido della situazione, un maturarsi dei problemi esistenti e di nuove esigenze, che l’insegnamento inizialmente sufficiente oggi appare totalmente inadeguato; peraltro questo fenomeno si osserva in tutti i campi dell’insegnamento tecnico.

Un primo passo diretto a mitigare l’inadeguatezza dell’insegnamento urbanistico alle necessità dei tempi correnti può essere compiuto attraverso un più stretto coordinamento dei corsi esistenti nelle Facoltà, mediante più intimi contatti con le materie affini (architettura tecnica, architettura e composizione architettonica, costruzioni stradali e ferroviarie, igiene, materie giuridiche, ecc.); mediante lo scambio dei programmi di corso tra i diversi docenti in modo da colmare le eventuali lacune; infine mediante la collaborazione dei docenti nelle applicazioni pratiche e nelle tesi di laurea. Tale integrazione è già in corso di realizzazione presso la Facoltà di Ingegneria di Pisa, e ha portato a risultati veramente notevoli. Per giungere ad una sempre più perfetta integrazione culturale dei futuri urbanisti, si potrebbe arrivare, nel campo applicativo conclusivo delle tesi di laurea, all’inserimento di un esperto per ogni materia affine, in tal modo che ogni problema possa venire trattato e sviscerato sotto i suoi molteplici aspetti. Accanto a questo più stretto coordinamento dei corsi esistenti si potrebbe conseguire un miglioramento culturale procedendo a sfrondare il corso base da tutto ciò che ne abbrevia e ne riduce il necessario sviluppo. Con questa duplice azione sarebbe possibile giungere ad una più completa e perfetta preparazione degli urbanisti che si vanno maturando nelle nostre scuole.

Ludovico Quaroni

Il Prof. Quaroni, dopo aver polemizzato con gli assertori della identità tra architettura ed urbanistica, ed aver portato come prova della sua tesi la totale assenza dal convegno di coloro che sostengono appunto quella identità, passa ad esaminare l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura. “Scopo principale delle Scuole di Architettura è quello di formare la coscienza dell’architetto. Ma quale altra via si potrà seguire per raggiungere questo scopo se non quella di portare la mentalità dello studente a contatto con quella che è la realtà della vita per la quale dovranno dare il loro contributo di lavoro? L’insegnamento dell’urbanistica dovrebbe essere appunto questa azione di sensibilizzazione alla vita degli uomini senza la quale è impossibile progettare; l’urbanistica è la preparazione all’architettura. Purtroppo, però, il tempo a disposizione è pochissimo, e viene tutto impiegato a smantellare la costruzione artificiosa dell’architetto astratto operata in tre anni di insegnamento a base esclusivamente scientifica o artistica, senza posto per l’uomo”. Pur dichiarandosi d’accordo col Professor Testa sulle materie giuridiche come insegnamento fondamentale, reagisce però alla proposta di questo di cambiare il nome della materia in “politica urbanistica “.

Cesare Valle

Il Prof. Valle desidera associarsi a quanto ha detto il precedente oratore sulla durata dei corsi di urbanistica, così come alle proposte dei professori Testa e Piccinato per quanto riguarda le lacune dei presenti programmi di insegnamento. È evidente che occorre da un lato che gli organi amministrativi capiscano i principi dell’urbanistica, dall’altro che i nostri tecnici conoscano gli aspetti amministrativi, legislativi, ecc. I vantaggi che da tale approfondimento delle nozioni legislative risulterebbero per la pratica professionale sono troppo evidenti perchè vi sia bisogno di insistervi. In un altro piano di considerazioni, si osserva spesso una profonda incomprensione tra architetti e ingegneri, tutte le volte che si debbono affrontare insieme problemi di carattere generale; questa incomprensione è tanto più nociva in quanto ha luogo tra professionisti i quali hanno bisogno di più frequenti contatti nel campo dell’attività urbanistica. La natura dell’urbanistica esula oramai dal piano urbano, e ogni sua nuova estensione implica maggiori e più profondi contatti tra l’architetto-urbanista da un lato e le diverse specializzazioni di ingegneri dall’altro. Purtroppo questa collaborazione non si manifesta nemmeno nel campo dell’insegnamento dove malgrado le numerose materie comuni ad ambedue le discipline, ogni Facoltà costituisce un compartimento a sé. È necessario eliminare fin dalla base questo fenomeno di incomprensione reciproca e di naturale diffidenza tra architetti ed ingegneri, che è evidente in tutti gli stadi dell’insegnamento, particolarmente nelle Commissioni miste per l’esame delle tesi di laurea. Per riassumere, la nostra azione si deve esplicare in due campi: 1° estendere l’insegnamento dell’urbanistica e delle materie affini di natura amministrativa, giuridica, ecc., dove ciò sia possibile; 2° estendere l’insegnamento delle nozioni fondamentali e dei principi dell’urbanistica a tutte le specializzazioni dell’ingegneria affinché il fenomeno d’incomprensione sopra osservato tenda a sparire e dia luogo invece ad una valida collaborazione sul piano del lavoro comune.

Luigi Dodi

Il Prof. Dodi - senza contraddire quanto proposto dal collega Prof. Muzio - ritiene che l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura potrebbe essere facilmente portato a tre anni, senza con questo aumentare il numero totale di materie. Difatti il corso di scenografia potrebbe esser fuso in un unico corso con quello di urbanistica, trasferendo in tal modo la trattazione di alcuni problemi dal 4° al 3° anno. Per quanto riguarda l’estensione dell’insegnamento e della conoscenza dell’urbanistica nelle altre Facoltà, il Prof. Dodi si dichiara perfettamente d’accordo sulla necessità di tale provvedimento e cita in proposito una sua personale esperienza, acquisita durante un corso di lezioni di urbanistica impartite, presso il Commissariato di Sanità e d’Igiene, a medici il cui interesse per i problemi della materia si è dimostrato addirittura appassionato. Per ultimo il Prof. Dodi si preoccupa della tendenza, osservabile presso ingegneri civili edili, ad identificare l’urbanistica con l’edilizia cittadina. L’urbanistica è una disciplina di carattere formativo sociale, e non soltanto un ammasso di cognizioni; ed è preoccupante il fatto che i giovani laureati in ingegneria si credano in grado di affrontare, da un punto di vista urbanistico, senza la necessaria base colturale generale, la soluzione di problemi stradali, edilizi, ferroviari, ecc.

Cesare Chiodi

Il Prof. Chiodi confessa la sua perplessità di fronte allo svolgimento della discussione che, partendo dalle alate premesse del Prof. Piccinato, è a poco a poco discesa alla considerazione di problemi pratici ed a difficoltà minute dell’insegnamento dell’urbanistica nelle nostre scuole. Occorre riportare il problema su un campo molto più largo ed impostare la questione da un punto di vista urbanistico generale e non solo tecnico. Vogliamo estendere l’insegnamento in altre scuole? È da augurarsi che si vada formando una certa coscienza urbanistica, ma siamo proprio convinti che quattro o cinque lezioni di urbanistica in un corso di legge, di medicina o di agraria, possano veramente formare una “coscienza urbanistica”? È da temere che l’urbanistica insegnata al di fuori del nostro diretto controllo possa portare a risultati diversi da quelli che noi vorremmo e che Piccinato auspica. Occorre anzitutto che gli insegnanti esperti nella scuola esaminino l’essenza fondamentale di questa disciplina, per poi passare a considerare quali siano gli elementi che debbono formare parte del suo insegnamento. Il Prof. Chiodi si associa al Prof. Piccinato nella visione più ampia, sociale ed umana dell’urbanista, ma tiene a far presente che questi concetti debbono essere impartiti a giovani che pur essendo nell’età migliore per apprendere, forse non posseggono ancora la maturità necessaria per assimilare a fondo tali principi. “La scuola ha certi suoi limiti naturali: essa può insegnare i metodi di lavoro, ma non può insegnare a fare il lavoro. In qualunque campo un giovane laureato è un inesperto per definizione e per età; e se questo è vero per tutte le discipline, quanto più vero sarà per l’urbanistica che richiede da chi la pratica una conoscenza del mondo che i giovani - beati loro! - ancora non hanno. Le nostre aspirazioni sono forse un po’ esagerate; si potrà discutere se invece di un anno sarà meglio farne due o tre, se l’insegnamento dell’urbanistica debba essere esteso a tutte le scuole d’ingegneria civile (sperando che cessi l’assurda divisione dell’ingegneria civile in civile edile, idraulica, e trasporti, ecc.). Che cosa hanno imparato questi ingegneri dei trasporti nella loro pseudo specializzazione ? Nulla che noi non fossimo in grado di fare ai nostri tempi senza bisogno di un titolo speciale. È da sperare per prima cosa che la scuola d’Ingegneria Civile torni ad essere una scuola d’Ingegneria Civile unica, e che quel tanto di urbanistica che è giusto insegnare agli ingegneri debba essere realizzato con un senso di misura e di opportunità”. Tenendo presente le inevitabili limitazioni imposte dall’insegnamento da impartirsi ad una determinata categoria di tecnici, si potrà discutere la convenienza o no di insegnare l’urbanistica in due otre anni. Il Prof. Chiodi si dimostra favorevole piuttosto a un corso di due semestri distribuiti su due anni ; questo sistema permetterebbe allo studente di assimilare più proficuamente le nozioni apprese nel primo corso. È d’uopo tener presente la limitazione dei compiti dell’insegnamento e i pericoli dell’estensione di questa disciplina a categorie di persone che non sono in grado di assimilarne i principi culturali più profondi, come per esempio i periti tecnici o i geometri. Tutt’al più si potrà, nella parte relativa alle costruzioni, insegnare ai geometri quello che dell’urbanistica può servire a questo scopo; ma è consigliabile osservare la maggior prudenza in questo campo.

Sono parimenti evidenti le difficoltà che s’incontrano per la realizzazione pratica dei corsi di perfezionamento o di specializzazione. A meno che questi corsi, tenuti presso gli Istituto di Urbanistica, siano corredati da borse di studio, essi correranno la stessa sorte di tutti gli altri corsi per laureati delle nostre Università, i quali sono frequentati da laureati che non hanno ancora trovato un impiego e che disertano il corso man mano che riescono a trovare una sistemazione. “Per concludere: lasciamo pure che altri insegnamenti facciano, se credono, delle incursioni nel campo urbanistico, ma dal nostro canto tentiamo di sviluppare, nei limiti di tempo e di capacità, tutto ciò che già si fa nelle nostre scuole. Guardiamoci soprattutto dal mettere l’urbanistica in mano a tecnici e periti che non sono in grado di fame il miglior uso”.

Giovanni Michelucci

Interviene il Prof. Michelucci per chiarire la posizione critica di alcune specializzazioni di Ingegneria, ad esempio gli ingegneri industriali, i quali dopo un anno di architettura tecnica si credono senz’altro in diritto di firmare progetti di architettura, protetti dalla legge e forti della loro convinzione di poter assolvere a questo compito sulla base della loro scarsissima preparazione. Un simile fenomeno (e anche su maggior scala) si osserva tra gli ingegneri civili: c’è da domandarsi quindi se impartendo loro un anno di urbanistica essi non si sentiranno in condizione di realizzare progetti urbanistici, così come si ritengono in grado di praticare l’architettura sulla base di un solo corso in materia. La superficiale conoscenza di una disciplina porta alla pericolosa presunzione di saper fare, e questo è un problema molto più generale e caratteristico di tutta l’attività dell’ingegneria. Il problema urbanistico è estremamente complesso, e il Prof. Michelucci si dichiara profondamente perplesso circa l’insegnamento di questa disciplina: a rigore egli ammette di non insegnare afflitto l’urbanistica!

Per quanto riguarda il problema di estendere l’insegnamento dell’urbanistica in altre scuole, il Prof. Michelucci rammenta la sua esperienza presso la Scuola di Servizio Sociale di Firenze, i cui allievi, dopo due anni d’insegnamento, dimostravano un grandissimo interesse per l’urbanistica e perfino un notevole spirito critico. I risultati di queste esperienze così riuscite si vedranno più tardi nell’attitudine che questi laureati dimostreranno nei confronti dei problemi di carattere urbanistico che essi dovranno affrontare. Questo fatto è senz’altro positivo; ma è pur sempre necessario tener presente i limiti di questo interesse e i pericoli inerenti a uno sconfinamento in campi e discipline dei quali si posseggono solo nozioni sommarie.

Nel caso specifico delle Facoltà d’Ingegneria, vi è il problema degli Ingegneri Industriali che, a differenza degli altri Ingegneri, arrivano al corso di Architettura Tecnica senza alcuna preparazione in materia; essi si trovano così a dover realizzare il progetto di una casa, o a volte perfino di un ospedale, senza nessuna delle conoscenze fondamentali dei caratteri distributivi o elementi costruttivi degli edifici.

PARTECIPANTI AL CONVEGNO

Erano rappresentate le seguenti Facoltà di Architettura:

Firenze – prof. Ludovico Quaroni, Ordinario e Direttore dell’Istituto; arch. Giorgio Cuzzer; arch. Elisa Scapaccino

Milano - prof. Luigi Dodi – Ordinario; prof. Mario Morini; prof. Ezio Cerutti; arch. Benvenuto Villa; arch. Alberto Battigalli

Napoli - prof. Giulio Andreoli - Dir. del Seminario “A. Calza Bini”; prof. Mario Zocca - Direttore dell’Istituto prof. Gino Cancellotti; prof. Raffaele D’Ambrosio; arch. Anna M. Pugliese; arch. Arturo Rigillo; arch. Giuseppe Muzzillo

Roma - prof. Plinio Marconi - Ordinario e Direttore dell’Istituto; prof. Giorgio Calza Bini; prof. Michele Valori; arch. Emilio La Padula

Torino - prof. Giorgio Rigotti

Venezia - prof. Giovanni Astengo

e i seguenti Istituti delle Facoltà d’Ingegneria di

Milano - prof. Vincenzo Columbo - Istituto di Tecnica Urbanistica

Napoli - prof. Domenico Andriello - Direttore dell’Istituto di Tecnica Urbanistica

Padova - prof. Giuseppe Tombola – Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica

Roma - prof. Federico Gorio - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica; ing. Domenico A. Durante - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica

Trieste - prof. Piero Bottoni - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica

Sono inoltre intervenuti:

prof. Vincenzo Di Gioia; arch. Ardea Ferrero - del Ministero dei LL.PP.

prof. Franco Ventriglia - dell’Istituto di Costruzioni stradali e Ferroviarie della Facoltà di Ingegneria di Roma

prof. Corrado Beguinot - Direttore del Centro Studi di Pianificazione Urbana e Rurale, presso la Facoltà di Ingegneria di Napoli

arch. Costanza Rispoli - del Centro Studi di Pianificazione Urbana e Rurale, Facoltà di Ingegneria di Napoli

All’inaugurazione ed alla chiusura dei lavori erano altresì presenti i Professori della Facoltà di Architettura di Napoli

prof. Franco Jossa - Preside e Ordinario di Scienza delle Costruzioni

prof. Marcello Canino - Ordinario di Composizione Architettonica

prof. Ferdinando Chiaromonte - Ordinario di Elementi Costruttivi

prof. Roberto Pane - Ordinario di Caratteri Stilistici e Costruttivi dei Monumenti

Hanno inviato la loro adesione :

prof. Cesare Chiodi - Direttore dei Corsi di Aggiornamento di Tecnica Urbanistica presso il Politecnico di Milano

prof. Eugenio Fuselli - Direttore dell’Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica della Facoltà di Ingegneria di Genova

prof. Enrico Mandolesi - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica della Facoltà di Ingegneria della Università di Cagliari.

Comitato Organizzatore

prof. Ludovico Quaroni - Direttore dell’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Firenze

prof. Mario Zocca - Direttore dell’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli

arch. Arturo Rigillo - Assistente ordinario presso l’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli, segretario del Convegno

L’Azienda Autonoma di Soggiorno, Cura e Turismo ha messo a disposizione la Sua organizzazione per assicurare la ricettività e la migliore accoglienza ai Convenuti; col personale interessamento del Suo Presidente On. Tommaso Leonetti e del Direttore Conte Gelasio Gaetani ai quali va il nostro ringraziamento.

In alto Û

DEL CONVEGNO

Venerdì 20 marzo

Ore 9.30 – inaugurazione dei lavori, saluto della Facoltà di Architettura di Napoli ai Convenuti;

ore 10 – relazioni dei singoli Istituti sul lavoro compiuto in base ai deliberati del Convegno di Firenze;

ore 13 – vermouth d’onore offerto dalla Facoltà di Architettura;

ore 15.30-19.30 – discussione sulle Relazioni.

Sabato 21 marzo

Ore 9.30-13.30 – programma di attività futura;

ore 16.30 – chiusura dei lavori e discorso conclusivo del prof. Plinio Marconi;

ore 17.30 – inaugurazione della Mostra dei progetti degli allievi della Facoltà di Architettura di Napoli;

ore 19 – cocktail all’Albergo Vesuvio offerto dall’Azienda Autonoma di Soggiorno, Cura e Turismo di Napoli

APERTURA DEL CONVEGNO E RIUNIONE DEL 20 MARZO 1959 – MATTINO

Il prof. Mario Zocca, dichiarando aperto il convegno, legge anzitutto il telegramma pervenuto da parte del prof. Chiodi: “Spiacente non poter partecipare convegno invio miei cordiali saluti”. Indi l’adesione del prof. Fuselli: “Vi prego di accettare la mia adesione anche se prevedo di non poter intervenire”, e quella del prof. Mandolesi: “Causa impegni didattici et viaggio istruzione studenti impossibilitato intervenire convegno prego scusarmi - Distinti saluti Mandolesi”. Dà poi la parola al prof. Andreoli nella Sua qualità di Direttore del Seminario di Urbanistica.

ANDREOLI: Ringrazio tutti i Docenti di Urbanistica qui presenti e quelli che hanno fatto pervenire la loro adesione, per aver voluto accettare lo invito al convegno rivolto dall’Istituto di Urbanistica dell’Università di Napoli, non soltanto per il rilievo spirituale che una così qualificata adunanza conferisce alla Facoltà che l’ospita, ma ancora per l’attualità che il nostro convegno presenta in questo momento nella nostra città. Infatti, oggi Napoli, come anche altre città d’Italia, si trova di fronte a problemi di Urbanistica dai molteplici aspetti. Problemi che si presentano sotto forme veramente poliedriche, che potrei dire multidimensionali, con vari caratteri, varie luci, che s’intersecano, e sopratutto con le varie integrazioni dei gruppi di ricerca, quali il Seminario di Urbanistica, il Politecnico con i suoi due gruppi di Istituto di Tecnica Urbanistica e di Centro per la pianificazione, ed infine l’Istituto di Urbanistica della nostra Facoltà con il lavoro dei tre docenti: Cancellotti, d’Ambrosio e Zocca. Il lavoro di questi diversi centri di studio e di ricerca sta veramente formando, a poco a poco, quello che mancava nella nostra città cioè una coscienza urbanistica, un senso dei problemi urbanistici. Noi ci troviamo per l’Urbanistica ad uno stadio paragonabile a quello nel quale ci trovammo verso il 1912, per i problemi aeronautici. Cioè sentiamo la necessità di avvicinare la grande massa, e principalmente i nostri studenti ai modi di risolvere i problemi specifici, ai modi di concepirli, al linguaggio ed al pensiero urbanistico, a quello che può essere tradizione da un lato e problemi nuovi dall’altro. Come è stato fatto notare altre volte, diventa assurdo ritenere che dei semplici amministratori, non confortati dalla collaborazione culturale, tecnica ed artistica degli urbanisti, possano trovare soluzioni adeguate ai complessi problemi della città . È perciò in questo spirito che sono veramente grato al prof. Zocca per avermi dato la possibilità di partecipare a questo convegno scambiando queste poche parole con voi.

JOSSA - Ho il piacere di portare ai convenuti il saluto della Facoltà di Architettura. Tutti i docenti di questa Facoltà, che si onora di ospitare il vostro convegno, augurano la migliore riuscita dei lavori. Personalmente voglio esprimere il mio compiacimento per il proposito, che stamane realizzate, di tenere un convegno specifico per la vostra disciplina che potrà perciò essere proficuo e concreto; e per il quale formulo i miei più cordiali voti di augurio e di buon lavoro.

ZOCCA: Ringrazio il prof. Andreoli ed il Preside prof. Jossa e tutti i presenti, e poiché già siamo in ritardo sul tempo stabilito vorrei entrare subito nel problema da trattare. Abbiamo avuto un primo convegno a Siena nel 1951, durante il quale si è dibattuto sui problemi dell’insegnamento dell’Urbanistica, che ebbe più un carattere di congresso per il numero degli intervenuti. Però esso non ebbe più seguito; poi per iniziativa del prof. Quaroni l’anno scorso ci fu una piccola riunione riservata ai rappresentanti dei vari Istituti di Urbanistica delle Facoltà di Architettura e d’Ingegneria con uno scopo più modesto, cioè per un lavoro di coordinamento di mezzi strumentali. Si erano anche stabiliti alcuni punti principali di questi mezzi strumentali sui quali discutere. Dunque, un primo mezzo era quello della conoscenza dell’organizzazione, dell’attrezzatura degl’istituti come organizzazione scientifica e anche i loro programmi; il secondo riguardava la bibliografia, cioè l’attrezzatura bibliografica, la classificazione di questo materiale per poter stabilire degli scambi tra i vari Istituti (quindi materiale bibliografico, diapositive ecc.). Poi si è passato ad argomenti di lavoro, di vera e propria attività: uno riguardava lo studio dei centri storici, come risultato di un lavoro di ricerca; un altro riguardava la simbologia, cioè i metodi di graficismo; questo argomento è importante perchè può riguardare anche l’attività professionale. Successivamente si trattò del nostro linguaggio; noi abbiamo un glossario della Federazione Internazionale di Urbanistica al quale abbiamo lavorato; purtroppo più che revisionarlo si sarebbe dovuto fare ex novo. C’erano ancora altri problemi, per esempio quello degli studi relativi ai nuovi quartieri, gli studi in genere sugli insediamenti, tutti aspetti della nostra attività di Istituti che possono venir fuori da questi scambi. Si convenne cioè che ogni Istituto potesse divenire il centro di un determinato ramo a cui facessero capo altri Istituti: come ad esempio si fa per gli studi di geografia. Questo era il primo punto che avrebbe potuto portare a un risultato conclusivo per stabilire anche rapporti con altri Istituti ed enti, o addirittura con centri di attività pratica, come il Consiglio delle Ricerche. Sono argomenti molto importanti, ma adesso occorrerebbe almeno arrivare alla soluzione conclusiva su ciò che si era deciso di fare a Firenze: avere dei programmi a lunga scadenza, ed affrontarli gradualmente. Dunque ora si tratta di vedere l’attività di ogni Istituto in relazione a quello che si era deciso di fare amichevolmente poiché il nostro non è un organismo che impegna ed impone. Penso dunque che il tema sia l’attività dei vari Istituti in relazione al convegno di Firenze. Adesso credo si possa apri re la discussione e prego il prof. Marconi di assumere la Presidenza.

Il prof. Marconi accettando la presidenza del Convegno ringrazia e prega quindi il prof. Andriello di voler prendere la parola per illustrare ai colleghi cosa si è fatto per il glossario internazionale.

ANDRIELLO: Posso ragguagliare su quello che mi ero assunto di fare e cioè la raccolta dei termini. Anzitutto vi è stato, in sede internazionale, un fatto nuovo. Sono stato chiamato a rappresentare l’Italia in seno al nuovo Comitato di coordinamento del glossario internazionale. Abbiamo tenuto delle riunioni all’Aia l’8 e il 9 gennaio. Erano presenti rappresentanti del Lussemburgo, dell’Italia, della Francia, della Spagna, dell’Olanda, dell’Inghilterra. Si è constatato che l’attuale edizione del glossario internazionale soffre di alcuni errori e quindi la necessità di correggerli. Indi si è deciso di fare, d’accordo con l’UNESCO e con l’U.I.A. un nuovo glossario. Di prendere ciò che tali Istituti avevano preparato in materia di abitazioni e di inserirlo nel glossario internazionale. Si è deciso inoltre di estendere linguisticamente il glossario stesso al Portogallo e alla Russia. Comunque saranno fatte delle edizioni in cui si terranno come base le tre lingue ammesse della Federazione Internazionale, che sono l’inglese, il francese e il tedesco, mentre le altre quattro si differenzieranno. Il Comitato quindi, dopo aver scelto le materie di raccolta, si aggiornerà al prossimo Congresso di Perugia. In questo periodo i vari rappresentanti si scambieranno il materiale raccolto per i vari settori loro affidati. È infatti proprio in questi giorni a Napoli il rappresentante spagnolo, che ha già tracciato lo schema di raccolta per le sue materie. Tali materie hanno rapporto con quelle a me affidate, ed egli è qui proprio per concordare il suo lavoro con il mio, così come si farà in rapporto alle materie demandate ad altri. Ho anche comunicato al Presidente della Commissione di Studi dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, prof. Samonà, che avrei ragguagliato la Commissione su questi elementi; ed ho anche manifestato il desiderio che si formasse un piccolo comitato, qui in sede, che ci consentisse di decidere la materia vocabolo per vocabolo. Sembra si voglia fare questo glossario nella forma della classificazione decimale. Si è detto anche di corredare la spiegazione di ciascun termine con una figurina, per quei termini di difficile interpretazione, ma ciò sarà ancora oggetto di discussione. La prossima riunione del Comitato si avrà a Perugia in occasione del Congresso Internazionale. Non ho altro da aggiungere se non la preghiera per i colleghi d’adoprarsi, sollecitamente, per questa raccolta di termini.

MARCONI : Ringrazio il prof. Andriello per quanto ci comunica e prego coloro che volessero interloquire sull’argomento di voler prendere la parola.

QUARONI: Vorrei chiedere ad Andriello che cosa intende per “parte italiana”.

ANDRIELLO: La parte italiana s’intende solo tematica e cioè i concetti generali, i piani, la terra e il suolo, geografia, geologia, il clima, economia, politica dell’alloggio e politica fondiaria, finanziamento, discipline tecniche dell’Urbanistica, discipline tecniche della costruzione, abitazione, architettura, il risanamento, la protezione civile, gli spazi liberi e gli spazi verdi, la circolazione, gli ambienti storici e monumentali. Questa è la tematica di cui noi raccoglieremo i vocaboli. Aggiungo che la Federazione Italiana della Strada, la quale mi pare stia facendo anche un glossario stradale specifico, ha chiesto di far parte del nostro Comitato parte di sua competenza.

QUARONI: Sarei grato ad Andriello se volesse mandarci, come prima collaborazione, un elenco dei glossari esistenti ed una breve notizia sui lavori che si stanno svolgendo.

ANDRIELLO: Posso assicurare Quaroni che provvederò a quanto mi richiede. Voglio intanto dare notizia della istituzione presso l’Istituto di T.U. del Politecnico di Napoli di uno schedario paesistico per il quale sono state distribuite le apposite schede, e sollecito anche per questo la creazione di un piccolo comitato in sede per lo spoglio delle schede stesse.

MARCONI: Alla Facoltà di Architettura di Napoli era stata demandata l’inchiesta sull’organizzazione e sulle attrezzature dei vari Istituti di Urbanistica. Prego quindi i Proff. Zocca e d’Ambrosio di voler relazionare sull’argomento.

ZOCCA: Noi abbiamo iniziato la raccolta di notizie sulle condizioni generali degli Istituti, cioè attrezzatura, attività scientifica e organizzazione bibliografica; riferirà quindi d’Ambrosio sul lavoro svolto.

D’AMBROSIO: Noi abbiamo studiato un questionario che consentisse di raccogliere le notizie concernenti le dotazioni e le attività degli Istituti di Urbanistica e di Tecnica Urbanistica. Questo questionario risponde ad una triplice esigenza: la prima quella di dare una informativa generale sull’Istituto, La seconda: quella di dare una immediata nozione delle possibilità di quell’Istituto nei vari campi, e infine la terza: quella di fornire delle specificazioni in merito alle notizie del secondo gruppo. Per queste tre parti si è visto che era possibile arrivare a delle tabellazioni; più precisamente per la prima parte è stata formulata una scheda di sintesi, per la seconda e terza parte è stata considerata la necessità di poter giungere a delle tabellazioni di notizie in modo da aver subito una visione panoramica di raffronto.

Inoltre in una quarta parte infine si è lasciata al compilatore stesso della scheda la possibilità di esprimersi nei termini e nei modi ritenuti più opportuni. È nato quindi lo schema di coordinamento tra gli Istituti di Urbanistica che abbiamo inviato a voi tutti. La prima parte cioè la scheda A, è quella che riguarda l’organizzazione generale, il personale e un breve riassunto generale. In questa scheda apparirà il nome del titolare della cattedra o del professore incaricato, degli assistenti, il numero medio degli studenti, il numero dei locali e poche altre notizie che è possibile sintetizzare. Il questionario B invece è quello dal quale bisognerà trarre le tabellazioni; esso è diviso in categorie: B1 - B2 - B3 ecc. che riguardano i vari aspetti dell’Organizzazione dell’Istituto. Il questionario C è quello delle specificazioni ed infine il questionario D, più personale, che consente la possibilità di osservazioni, suggerimenti e note. Quindi attraverso i questionari B e C si ottiene una visione panoramica, il quadro generale della situazione dell’Istituto. Attraverso il questionario D si dovrebbe arrivare ad esprimere delle opinioni; quindi non un questionario informativo, ma di proposte. Naturalmente di queste ultime formulazioni occorrerà fare una rielaborazione,che renda possibile raffronti ed accostamenti tra le varie proposte. Oltre all’inchiesta sul la situazione dei vari Istituti, avevamo il compito specifico di studiare uno strumento idoneo alla informazione immediata, cioè uno schedario. Preso contatto con la Remington abbiamo studiato, in collaborazione, uno schedario specifico per l’informazione Urbanistica. Lo schedario in questione è stato impiantato in questo modo: ogni notizia dà luogo a tre registrazioni, una per autore, una per località,ed una terza per argomento. Per cui anche con una notizia sommaria si potrà, attraverso questo schedario, giungere alla informazione esauriente.

Consultando, ad esempio, la scheda di una determinata località, troveremo in essa l’elenco di tutte le opere attinenti. Il carattere delle varie opere è indicato con un codice a colori, riportato sotto la scheda. Si ha così la possibilità di leggere immediatamente per un determinato argomento quali informazioni lo schedario è in grado di produrre. Si tratta non di uno schedario di raccolta, ma per così dire “attivo” capace di fornire le informazioni più vaste. Indirizzando la ricerca sarà possibile, creando tale schedario, costituire un vero e proprio centro di informazioni al quale potrà ricorrere chiunque. Questo è quanto, noi, di Napoli abbiamo fatto dopo l’incontro di Firenze.

ANDREOLI : Il tipo di scheda illustrato da d’Ambrosio è certo molto pratico, ma consiglierei di usare accanto a queste schede anche un tipo di scheda perforata. La scheda perforata permette di poter aggruppare in qualsiasi momento le notizie. La I.B.M. potrebbe fornire le schede e fare il lavoro di selezione, così , ripeto, in qualsiasi momento possono essere colte tutte le notizie, sia analoghe, sia specifiche, ecc.., quindi io propongo una scheda sussidiaria.

Si discute sui vantaggi della scheda perforata ed il prof. Columbo illustra i vantaggi di una semplice scheda colorata usata presso l’Istituto del Politecnico di Milano.

MARCONI: I vari sistemi proposti sono certamente tutti apprezzabili, ma io proporrei di adottarne uno solo, per cui, dopo un accordo in tal senso, pregherei l’Istituto Urbanistico di Milano di volere fornire copia della scheda definitivamente scelta agli altri Istituti.

QUARONI: Convengo con il prof. Marconi sull’ adozione di un unico sistema, per cui penso che se ci sono degli Istituti interessati bisognerebbe che si riunissero allo scopo di esaminare i problemi della schedatura, per affidare poi ad un gruppo più ristretto, ad esempio ad un solo Istituto, lo incarico di provvedere alla formulazione e addirittura alla preparazione, alla stampa ed alla distribuzione delle schede a tutti gli altri Istituti.

Uno degli aspetti del problema è quello del modulo, bisognerebbe arrivare ad un modello adottato da tutti; quanto poi al riempimento delle schede, si era già convenuto nel precedente convegno che non vi è un Istituto che possa far questo per tutti gli altri e si era d’accordo di affidare ad ogni Istituto un settore particolare. Bisognerebbe quindi tener conto di quello che già è stato fatto e studiare ciò che può farsi d’ora in poi. Per proseguire si potrebbe tener conto di ciò che è stato realizzato all’Istituto di Milano ed accordarsi perchè il lavoro d’ora in poi venga svolto per sezioni.

Il prof. Zocca prospetta le due fasi di realizzazione dello schedario cioè quella già realizzata a Milano e quella che potrà realizzarsi con la collaborazione dei diversi Istituti.

MARCONI: Penso che la questione dovrebbe essere dibattuta in modo più circostanziato e cioè interpellando i tre o quattro Istituti adatti allo scopo. Abbiamo già l’Istituto napoletano e quello milanese per cui si può formare allo scopo una piccola commissione e vedere se c’è qualche altro che voglia aggregarsi.

Intanto decidiamo senz’altro che l’Istituto di Milano e quello di Napoli si accordino per definire la questione sulla base del lavoro già fatto e tenendo conto delle proposte avanzate.

La proposta del prof. Marconi è accolta. Il Presidente invita a proseguire la discussione sugli altri argomenti.Per cui passando alla cartografia ed allo studio dei centri antichi invita il prof. Mario Zocca a riferire sull’ argomento.

ZOCCA: È in via di attuazione, sebbene ancora allo stadio embrionale, da parte degli Istituti di Napoli, Palermo e Genova uno studio in merito ai centri antichi. Tale studio ha per oggetto la parte cartografica e il notiziario storico, e,da parte dell’Istituto napoletano, si stanno organizzando ricerche sistematiche, specialmente nella provincia di Caserta.

Si accenna ad un eventuale collegamento con le Facoltà di Ingegneria per il lavoro di raccolta del- le notizie.

MARCONI: Su questo argomento, per quanto riguarda Roma, devo dire che non siamo ancora veramente a punto, poiché la Facoltà si è trovata in condizioni d’una estrema carenza di mezzi. Tutta via ora abbiamo ottenuto, dopo non trascurabili sforzi, nuovi ambienti ed un poco di attrezzatura tecnica. Abbiamo un’aula che è tutta dedicata all’Urbanistica, abbiamo una macchina di proiezione per l’Istituto. Tuttavia le precarie condizioni della Facoltà a cui ho accennato, non hanno vietato di formare un notevole materiale documentario di carattere generale topografico ed economico, interessandosi particolarmente di quei comuni del Lazio, per i quali sono stati fatti dei Piani Regolatori.

L’anno scorso abbiamo pubblicato un fascicolo per alcuni comuni del Lazio e adesso sta per uscirne un secondo.

Passando ora ad un argomento che tocca da vicino il precedente, invito i convenuti a mettersi di accordo su alcuni elementi fondamentali di carattere tecnico riguardanti vari settori: per esempio la rappresentazione cartografica e la simbologia nella stesura dei piani regolatori, che allo stato attuale io ritengo sia un po’ complicata. Vi mostrerò nel nostro incontro del pomeriggio, uno schema che riporta sia lo stato attuale del territorio, sia il piano nei suoi elementi essenziali Penso che tale sistema sia ottimo per la preparazione dei giovani. In secondo luogo è auspicabile che si raggiunga l’unificazione nel campo delle indagini, avendo presente che è necessario polarizzare l’attenzione degli studenti su indagini essenziali e che gli studenti stessi non siano distratti da indagini non producenti; mettere a fuoco cioè i problemi che interferiscono più profondamente nella vita dei centri urbani e che possono essere parametri determinanti nelle soluzioni di piano regolatore. Anche su questo punto, ripeto, sarebbe bene che noi studiassimo il già fatto per elaborare il da farsi. Ciò potrà essere oggetto della discussione di domani. C’è infine un terzo punto su cui vorrei richiamare l’attenzione di voi tutti e cioè la necessità di stabilire un regolamento urbanistico-edilizio tipo. Nella stesura dei piani regolatori noi attribuiamo ai terreni determinate utilizzazioni; siamo tutti d’accordo sul fatto che queste utilizzazioni siano precisamente definite da un regolamento, ma è altrettanto necessario che anche nell’insegnamento questi concetti siano trasferiti con precisione.

Noi distribuiamo ai nostri ragazzi tre tabelle: una dedicata alle indagini, una alla simbologia, una terza al regolamento urbanistico tipo.

Questo è quanto, alla nostra Facoltà , abbiamo fatto dopo il Convegno di Firenze del marzo 1958.

Devo soltanto aggiungere che abbiamo raccolto molto materiale, sia di carattere compositivo su vari quartieri, sia di piani regolatori. Ma tale materiale ancora non è stato utilizzato per formare delle schede.

ANDREOLI: È stato posto ora un problema specificamente didattico ed è un problema che mi sono posto altre volte. E cioè l’allievo deve essere portato ad una conoscenza, per quanto è possibile completa, per cui tutti gli aspetti dei problemi urbanistici devono essere determinati; ma è necessario tenere presente che l’allievo deve essere guidato oltre che alla comprensione di un fatto esistente, alla previsione di fenomeni che non si sono ancora verificati. Per raggiungere tale scopo vi sono due metodi, escludendo quello matematico che non consiglio;nel primo metodo l’esame di una città o di una sistemazione urbanistica in genere è fatto a grandi linee e successivamente si studiano i particolari aspetti della vita e dei problemi del centro oggetto di studio. Nel secondo metodo si può partire da un esempio non definito un centro ideale, e trattarlo sotto tutti gli aspetti; qualsiasi dei due metodi s’adotti, però , mi permetto di darvi un consiglio; cioè d’impostare, in conferenze, in seminari, in colloqui, quella ch’è la ricerca operativa, che dovrebbe porsi i seguenti postulati: in un certo problema quali sono gli elementi interessanti? e quali sono le variabili che possono determinare il tipo di soluzione? e fino a che punto queste variabili sono essenziali? Poiché se non si fa questa analisi preliminare l’insegnamento o cade nel formalismo o nel tradizionalismo.

MARCONI: Oltre che del lavoro svolto dai vari Istituti vorrei che si parlasse anche della situazione nella quale ci troviamo come autori di piani e come suggeritori di azioni di pianificazione ai nostri giovani. Vorrei che si puntualizzasse tale situazione, anche in base a certi elementi di fatto che sono emersi dopo l’approvazione di alcuni piani e che possono indurre a formulare delle critiche circa il modo con il quale i piani sono codificati dalla legge.

Si potrebbe quindi vedere qual’è lo strumento giuridico più opportuno da porre in atto per l’ordinato sviluppo urbanistico delle nostre città, tenendo conto delle situazioni che si sono prodotte. Ciò si potrà ottenere prendendo in esame quei piani già approvati (quindi in atto) e per i quali siamo in grado di verificare l’idoneità delle soluzioni proposte. Ciò ho anche proposto quale tema per il prossimo convegno di novembre dell’INU, e cioè effettuare delle indagini da svolgere nell’ambito degli autori dei piani e delle amministrazioni che sono in possesso di questi strumenti e che devono adoprarli. Tuttavia per il convegno dell’INU si sono prese poi altre decisioni, perchè si è ritenuto che questo anno si dovranno trattare problemi di altro carattere che può definirsi “visivo”. Ma è anche di grande interesse per noi esaminare alcuni problemi specifici, poiché in questo momento ci sono in Italia più di trecento piani regolatori, alcuni già redatti, approvati e in via di esecuzione, altri ancora in istruttoria. Per cui sulla base delle esperienze che si cominciano ad avere si potranno individuare probabilmente i criteri di modificazione di alcuni aspetti di questi piani, in modo da poter adottare in seguito degli strumenti più adatti. È evidente che si devono poter trarre delle conclusioni da quanto si è fatto sino ad oggi. Per cui ciascun autore di piani esponendo le proprie esperienze,potrebbe formulare delle utili proposte, specialmente nei riguardi di modificazione della metodologia oggi individuata ed adottata. Ma intanto, ritornando sugli argomenti all’ordine del giorno dopo Napoli e Roma, prego i rappresentanti dell’Istituto di Firenze, di voler prendere la parola.

QUARONI: Noi di Firenze avevamo preso l’impegno di portare avanti un certo studio sui nuovi quartieri e sui nuclei residenziali e l’abbiamo portato avanti abbastanza. Abbiamo qui al riguardo del materiale che potremo farvi vedere nella riunione pomeridiana.

Praticamente questo nostro studio consiste nel cercare di uniformare un sistema di disegno abbastanza comodo e un sistema di calcolo delle superfici per ottenere una confrontabilità tra i vari progetti. Avremmo potuto far di più se gli architetti progettisti avessero risposto tutti alle nostre richieste. Abbiamo però già un notevole numero di progetti elaborati nel senso che ho precisato e ne avremo ancora altri pronti alla fine di giugno di questo anno. Ci sarà così possibile procedere ad un primo confronto e determinare alcuni dati. Il lavoro è questo: allo studente del primo corso viene assegnato, come tema, lo studio di un quartiere o già realizzato o progettato o in corso di esecuzione. Con un certo metodo piuttosto rigoroso nei formulari di partenza, ma che deve poi adattarsi alla variabilità dei casi specifici, lo studente è condotto man mano ad effettuare un determinato esame; oltre a ciò lo studente ridisegna la planimetria con un sistema unificato e ci consegna il lucido con allegato un formulario che viene calcolato con un sistema pure esso unificato. Nella riunione pomeridiana mostrerò appunto i risultati e come essi vengono da noi utilizzati sul piano didattico. Sarebbe molto interessante per noi avere dei suggerimenti da altri per modificare e migliorare il sistema.

Con tale lavoro ci proponiamo di formare un archivio di tutti i progetti dei quartieri realizzati in Italia, ed estenderlo possibilmente in seguito anche all’Estero.

L’archivio raccoglie quindi da una parte il lavoro critico svolto dallo studente, dall’altra i dati forniti dai realizzatori.

L’Istituto di Firenze ha anche cercato di fare un nuovo esperimento, o meglio cercherà di farlo, di attività urbanistica: ha ottenuto un incarico di piano regolatore dal comune di Alberobello. Questo piano presenta certamente uno straordinario interesse, per cui penso che, con buon profitto, possano lavorarci anche gli studenti. Non so come questo esperimento si concluderà , poiché già sono sorte, data la novità della cosa, delle difficoltà.Tuttavia credo che questo potrebbe essere un aspetto interessante del lavoro di un Istituto di cui si debba tener conto; lo stesso professar Valle, nel Consiglio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, ha fatto presente che il Ministero avrebbe potuto fare qualcosa per conferire agli Istituti degli incarichi di lavoro di carattere urbanistico. È necessario avere presente che, sotto il profilo economico, le disposizioni vigenti stabiliscono che parte dell’introito di tali attività deve essere versata al bilancio generale dell’Università.

Però la cosa potrebbe, forse col tempo, per certi casi particolari, essere producente, senza tuttavia ledere gli interessi delle categorie professionali.

MARCONI: Voglio far presente che v’è in pratica una difficoltà : questo lavoro chi lo presenta? chi lo discute? Certamente però quanto ci ha detto Quaroni è molto interessante.

QUARONI: Indubbiamente sarebbe una cosa interessante, specialmente con l’intervento del Ministero dei Lavori Pubblici, fare per esempio delle esercitazioni, anche sovvenzionate, per scaricare un po’ gli studenti di notevoli spese, specialmente di viaggio. Naturalmente queste esercitazioni dovrebbero essere coordinate tra noi perchè si possa ad un certo momento confrontare i vari risultati con evidente profitto didattico.

MARCONI: Ciò è giusto anche perché spesso le spese nel lavoro degli urbanisti e dei nostri studenti sono impegnative e sarebbe bene sollevare questi ultimi da tale carico.

QUARONI: Comunque volevo dire che gli Istituti dovrebbero sì essere interessati a questo genere di ricerche, ma più per ricerche collaterali al piano regolatore che non al piano stesso. Infatti quest’ultimo è veramente un lavoro di rapporti tra l’urbanista e l’autorità, ma ci sono anche tanti aspetti di indagine e di ricerca che un progettista incaricato non può sempre svolgere in pieno e questo è appunto il caso di Alberobello.

MARCONI: È certamente molto interessante studiare una composizione in un ambiente così caratteristico.

QUARONI: Se gli Istituti di Urbanistica e quelli di Tecnica Urbanistica potessero agire, nello svolgimento delle indagini preliminari ai piani, come enti impersonali, se ne avvantaggerebbero sia i professionisti, sia gli stessi Comuni.

Il Presidente prof. Marconi invita a proseguire la discussione sugli argomenti all’ordine del giorno.

Prende la parola l’Ing. prof. CERUTTI: Illustrerò brevemente le possibilità didattiche dell’Istituto della Facoltà d’Ingegneria di Milano.

Abbiamo appositi locali per i corsi di Urbanistica, dove gli allievi possono esercitarsi con profitto poiché presso questa sezione si trovano i dossier riflettenti la situazione di quasi tutti i centri della Lombardia, materiale sia a carattere storico, sia concernente la situazione esistente nei vari centri. I lavori relativi a questi dossier sono eseguiti dagli stessi allievi ed, in un certo senso, hanno un carattere vario dal punto di vista dell’utilizzazione. Noi facciamo usare agli studenti per l’indagine sui comuni della Lombardia tre schede: una scheda storica, una scheda tecnica ed una scheda con la quale si rilevano i presupposti tematici del Piano Regolatore. Questo metodo adottiamo già da quattro anni e sono stati con esso rilevati duecentocinquanta comuni.

Il prof. MARCONI chiede chiarimenti sul sistema di raccolta del materiale.

CERUTTI: Viene raccolto per ragioni di spazio in formato ridotto, comunque è tutto incasellato e ordinato. A noi interessa la documentazione di ciò ch’è avvenuto nel passato nelle singole città.

Devo lamentare, per la verità una carenza di assistenti i quali essendo in numero ridotto sono impossibilitati a provvedere alla gran massa di lavoro esistente (3 corsi di Urbanistica con circa 300 allievi) cui non si può sopperire con i soli assistenti di ruolo. Ricordo che il nostro Istituto si articola su tre corsi di Urbanistica: I Corso, II Corso e Corso complementare.

QUARONI: A mio avviso sarebbe molto interessante parlare con approfondimento dei nostri problemi didattici, ma penso che parlare solo di essi non è sufficiente. Si deve certamente discutere anche su quanto pone in evidenza Cerutti ma mettiamo in ordine ciò con gli altri argomenti in discussione.

Il Presidente invita a continuare la discussione sugli argomenti all’ordine del giorno.

ASTENGO: È veramente molto interessante considerare il rapporto tra noi e le pubbliche amministrazioni. A queste noi, Istituto di Venezia, ci siamo affiancati e mentre da una parte riceviamo molto materiale cartografico, diamo una contropartita di importanti dati da noi raccolti e una cartografia da noi redatta con una simbologia chiara e riconosciuta. Altro notevole materiale in possesso del nostro Istituto è quello delle diapositive, materiale tutto catalogato e schedato.

DODI: Prego di scusarmi se intervengo per una questione non compresa nell’ordine del giorno dei lavori. Vorrei informare i colleghi di ciò ch’è accaduto ad Assisi dove il Comune ha in un primo tempo deliberato e fatto suo il Piano Regolatore elaborato dall’arch. Astengo. In seguito, dopo la presentazione delle osservazioni, il Comune stesso, invece d’informare il progettista invitandolo a rivedere il piano, ha senz’altro deliberato nuovamente rigettando il piano stesso.

Propongo pertanto di presentare ricorso al Consiglio di Stato, non per la parte che concerne lo interesse dell’arch. Astengo, ma per quanto riguarda la palese infrazione alla legge, e per la tutela della dignità della categoria professionale.

Il Presidente prof. Marconi si dichiara d’accordo con. il prof. Dodi, ed invita a proseguire la discussione sugli argomenti all’ordine del giorno dando la parola al prof. Gino Cancellotti dell’Università di Napoli.

CANCELLOTTI: Circa la parte didattica vera e propria dirò che qui a Napoli siamo in tre e svolgiamo tre corsi di Urbanistica: d’Ambrosio per la parte che concerne la Tecnica, o meglio le Istituzioni di Urbanistica, Zocca per la Storia ed io per la Composizione. Come metodo di studio adotto nel mio corso quello che il prof. Marconi adotta aRoma.

Agli studenti, da vari anni, assegniamo quale tema il Piano Regolatore, anche perchè vogliamo collezionare il materiale per avere la serie di tutti i comuni. Fin da quando era Direttore dell’Istituto il Sen. Calza Bini abbiamo sempre fatto fare Piani Regolatori di centri della Campania, o talvolta dei Comuni di provenienza degli allievi; ciò aveva anche lo scopo di raccogliere materiale d’indagine statistica per il Piano Regionale della Campania. Abbiamo affissa ad una parete dell’Istituto una grande carta della Campania nella scala di 1:100.000, sulla quale controlliamo lo svilupparsi del lavoro relativo ai vari centri. A questo proposito dirò, che noi mettiamo subito gli studenti a contatto con le Amministrazioni Comunali e con i professionisti locali, per ottenere delle indagini il più possibile aderenti alla realtà.

Spesso per i centri non molto lontani, ci rechiamo sul luogo per poter meglio seguire, guidare l’allievo e controllare il metodo di lavoro e i criteri. Per le analisi il sistema che abbiamo ripreso dall’Istituto di Roma, risulta efficiente, ma non trascuriamo di dare agli studenti qualche consiglio per adattare lo schema stesso ad una situazione specifica modificando o aggiungendo qualche categoria d’indagine, quando è necessario.

PUGLIESE: Per il regolamento edilizio ad esempio, spesso incontriamo delle difficoltà , in quanto in genere ci interessiamo di Comuni a carattere agricolo nei quali i tipi edilizi sono, come è ovvio, completamente diversi da quelli di un centro urbano.

Per il Seminario di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli riferisce il prof. D’Ambrosio.

D’AMBROSIO: Il Seminario di Urbanistica della Facoltà di Architettura ha tenuto sinora otto incontri, nei quali si sono trattati specifici argomenti con l’intervento di specialisti in materia. Uno di tali argomenti è stata la legge Urbanistica e il risultato delle discussioni è stato raccolto in un fascicolo, distribuito in occasione del Congresso di Bologna. È in preparazione un programma più ampio per l’anno 1959-60, poiché solo ora il Seminario ha potuto avere una dotazione sia pure modesta che gli consente di organizzare certe attività.

Nel programma è compreso un incontro fra i coordinatori dei quartieri C.E.P. e i loro collaboratori che saranno invitati ad affrontare il tema “l’esperienza di progettazione dei quartieri coordinati”. Nell’occasione in collaborazione con l’I.A.C.P. di Napoli e con il Ministero dei Lavori Pubblici sarà organizzata una mostra sui progetti dei quartieri C.E.P. Inoltre contiamo di organizzare una mostra di studi sulla città di Napoli condotti dai nostri studenti.

MARCONI: Ringrazio il prof. d’Ambrosio per quanto ci ha detto e sono certo che il lavoro così articolato sarà molto proficuo. Intanto poiché dobbiamo rivederci nel pomeriggio e data l’ora tarda penso che sia bene sospendere la discussione.

La continuazione della seduta viene rinviata al pomeriggio.

In alto Û

SEDUTA POMERIDIANA

MARCONI: Proporrei che il prosieguo della discussione svolta stamani, circa i compiti che si prefiggono di svolgere gli Istituti, sia rimandata a domani in modo da riprendere gli argomenti. Vorrei invece che per entrare subito in un campo di utilità concreta, tanto dal punto di vista dell’insegnamento quanto da quello della prassi professionale, mettessimo a fuoco alcuni punti specifici. Uno è quello del modo di trattare la grafia dei piani regolatori sia per quanto attiene alla definizione dello stato attuale che per quello che riguarda la definizione delle nuove strutture del piano. Esiste già una simbologia, che quasi tutti adottiamo, ma io penso che essa sia troppo complessa e che si debba adottare una maggiore elasticità e forse una maggiore esemplificazione. Il secondo punto è quello delle indagini che, per quanto mi concerne, io svolgo sullo schema avuto da Milano e che ho adottato, sul quale però si dovrèbbe discutere per arrivare anche su questo punto ad una opinione concorde. Il terzo punto è quello del regolamento urbanistico-edilizio da adottarsi nei casi in cui non sono possibili quelle strutture più libere ottenute con piani particolareggiati. Questi pare siano di difficile adozione, infatti molti comuni che hanno adottato dei piani regolatori generali si sono invece avviati a fare a meno dei piani particolareggiati. Sotto questo aspetto penso perciò che è necessario elaborare dei piani generali che abbiano indicazioni sufficientemente precise. Tanto più che su questo tema è stata recentemente emanata dalla Direzione Generale per l’Urbanistica e le Opere Igieniche del Ministero dei LL.PP. una circolare su “procedura e termini per il rilascio delle licenze edilizie” (prot. N. 6557) che vi prego di considerare con attenzione. L’emanazione di questa circolare accentua la necessità di arrivare a piani generali che già prevedano con sufficiente autonomia e approssimazione quella che è la struttura dei piani. Infatti essa si pronuncia implicitamente anche sull’applicabilità delle misure di salvaguardia sin dall’adozione del piano generale e non soltanto per i piani particolareggiati come qualche Amministrazione locale aveva interpretato. Vale adire che le Amministrazioni, per i due anni dall’adozione del piano, possono sospendere il rilascio delle licenze di costruzione in contrasto con le indicazioni del piano generale stesso. La circolare precisa inoltre che non si tratta di rigetto delle domande di licenza bensì di sospensione e che non può rifiutarsi una richiesta di licenza edilizia per il motivo che la progettata costruzione sia in contrasto con un piano regolatore o con un regolamento edilizio non ancora approvati e quindi non operanti. A tenore di questa circolare i Comuni sono tenuti quindi, trascorsi i due anni dall’adozione del piano generale, a rilasciare le licenze per costruzioni anche non conformi al piano adottato ma non ancora approvato. Di tutto ciò io vi pregherei di prendere atto o per iniziare una azione intesa a far respingere tale concetto, oppure per cercare di adottare nei nostri piani delle strutture che si prestino ad accoglierlo; ciò è molto importante in questo periodo di fervida pianificazione.

Comunque voglio aggiungere ancora che, siccome in effetti la prassi dei piani stabilisce per quasi tutte le zone determinati vincoli e caratteristiche metriche (lasciamo stare il centro che è una questione a parte da trattare con piani particolareggiati), per le zone esterne all’abitato bisognerà sapere fin dove esse sono lontane dall’interesse edilizio. Per tutto il resto bisognerà dare degli azzonamenti, dei reticoli stradali piuttosto ben determinati, quasi capillari. Nell’ambito di questi stabilire tuttavia la rete viaria principale e consentire che, ove si voglia, si possa fare un piano di lottizzazione di un comprensorio anche più vasto di un isolato, rispettando le strade principali e, se si vuole, modificando le altre dando inizio su questa base a dei piani consensuali di lottizzazione. Dove non si può arrivare a tanto, avrà valore quella maglia stradale già definita nel P.R. e quei vincoli di zona, come si faceva nell’anteguerra. Fuori dei limiti dell’espansione urbana vi dovrà essere invece l’indicazione delle zone rurali o del verde agricolo vincolato.

Il prof. Cerutti interviene per mozione d’ordine,affermando che il dibattito non è pertinente al carattere della riunione che deve interessarsi dell’insegnamento e del riordinamento degli Istituti.

MARCONI: In verità si è esorbitato dai temi della riunione, ma fino ad un certo segno; poiché quello che accade nella vita professionale è una delle fondamentali conoscenze che ci consentono di dare un giusto indirizzo all’insegnamento, principalmente in ordine al metodo per i piani regolatori.

CERUTTI: Il nostro scopo è certamente quello di trovare un procedimento di pianificazione elastica che consenta nel tempo gli adattamenti alle situazioni che vanno determinandosi. Ora questo indirizzo fu evidentemente già alla base della legge urbanistica del 1942 poiché essa parla di piani regolatori generali e precisa che i piani particolareggiati vanno redatti di tempo in tempo al momento più opportuno,in funzione delle necessità. Ora se noi ammettiamo per buona l’ultima circolare ministeriale praticamente riproponiamo negativamente un problema che abbiamo per tanti anni cercato di risolvere e che alfine ha avuto una soluzione positiva.

Ma vi è un altro aspetto peculiare per il quale il Comune deve sentirsi impegnato ad una partecipazione attiva a quella che è l’attuazione della pianificazione. Infatti il piano generale, come è noto, non impone nessun obbligo di carattere economico ai Comuni. Per cui, se si passa di colpo dal piano generale a dei piani di lottizzazione, quale è il momento in cui il Consiglio Comunale dovrà approvare la spesa e provvedere a reperire i fondi per la realizzazione dei servizi inerenti ai piani particolareggiati?

MARCONI: Tutto ciò è molto chiaro, ma io volevo soltanto dire poco fa che, anche in questa sede sarebbe stato utile dare un’occhiata ai regolamenti edilizi. Ora vorrei che ci si scambiasse delle idee sui tre punti prima indicati, cioè la simbologia, il regolamento edilizio e le indagini. Poi Quaroni vorrà parlarci degli studi sui quartieri iniziati a Firenze.

QUARONI: Oltre ai problemi interessanti i quartieri, ci sono i problemi che riguardano i centri storici e infine la classificazione bibliografica e del materiale didattico. Ora io voglio chiedere questo: tutti questi punti sono più o meno gli stessi dei quali discutemmo a Firenze e che ci eravamo quasi distribuiti dando semplicemente ad ognuno l’incarico di approfondire un pochino il problema per poi stabilire il da farsi. Oggi siamo in condizioni di poter dire qualcosa di più: per quanto mi riguarda dirò che bisognerebbe stabilire che una, o due Facoltà, per ognuno di questi punti si prendono l’incarico di approfondire la materia fino all’eventuale normalizzazione. Però tutti gli altri istituti possono partecipare a tale Lavoro, perché sarebbe bene che ci fosse in definitiva un criterio generale.

MARCONI: Stamani, infatti, per alcuni argomenti abbiamo già definita tale questione, particolarmente per la bibliografia, ed abbiamo detto che se ne sarebbero occupati gli Istituti di Milano e di Napoli.

QUARONI: Volevo dire a proposito della bibliografia che sarebbe opportuno completarla con la classificazione delle diapositive, delle fotografie e dei films,con le raccolte cartografiche antiche e moderne e studiare i sistemi di conservazione del materiale.

MARCONI:Quali sarebbero le categorie di materiale da classificare?

ZOCCA: Sarebbero la bibliografia con le riviste, ecc.; poi la cartografia, le fotografie e le diapositive.

QUARONI: La Facoltà di Ingegneria di Roma ha già adottato un sistema di classificazione.

ZOCCA: Anche noi abbiamo una classificazione per soggetto e stiamo organizzando quella per località.

QUARONI: Un’altra cosa che vorrei anticipare è la seguente: uno di noi ha fatto uno studio ed è riuscito a determinare per un certo argomento le foto più interessanti per poi farne un certo elenco; esso può dar luogo ad una certa serie di diapositive, per cui può dare copia dei soggetti agli altri, s’intende secondo l’interesse dei ricercatori.

Indi il prof. Quaroni accenna alla necessità di scambiarsi informazioni sui tipi di apparecchi fotografici per stabilire il formato delle diapositive.

MARCONI: Riassumendo: occorrerebbe sapere di ciascun Istituto quali dispositive possiede e di che formato.

QUARONI: Ciò è molto utile, però è bene sapere più ciò che si deve fare, che ciò che s’è fatto, poiché si sa che c’è un lavoro svolto in passato e del quale potremo utilizzare qualcosa, ma è urgente organizzare qualcosa per il futuro.

MARCONI: Le decisioni circa i diversi compiti da distribuire ai vari Istituti si potranno prendere domattina quando saranno presenti tutti i rappresentanti. Intanto credo che si può passare a mettere a fuoco i quattro o cinque problemi a cui abbiamo accennato o proporne degli altri. Io per esempio ho portato con me lo schema che diamo agli studenti per lo studio del piano regolatore: lo possiamo discutere insieme, ma se desiderate esaminarlo con calma, in seguito, nelle diverse sedi, non trovo nulla in contrario.

PUGLIESE: Noi che l’abbiamo già adottato in diversi casi potremmo esporle quello che abbiamo rilevato.

MARCONI: Bene, poiché io desidero perfezionare questi schemi; in modo da giungere a qualcosa di efficiente che possa essere adottato da tutti, anche perché reputo di grande vantaggio una chiarezza di linguaggio comune nella pianificazione.

QUARONI: Vorrei pregare il Presidente di fare un programma dei lavori.

D’AMBROSIO: Ricordo che tra pochi minuti dovremo intervenire all’apertura della Mostra dei lavori degli allievi del nostro Istituto. L’inaugurazione ufficiale avrà luogo domani con l’intervento del Rettore Magnifico prof. Pontieri e delle altre Autorità.

QUARONI: Penso che vi sono due principali argomenti di cui ora possiamo discutere. Uno è quello della distribuzione tra noi di questi sei temi di lavoro.

MARCONI: Credo che siano più di sei, perché stamani ne abbiamo trattati altri. Provvediamo, comunque, a stendere l’elenco.

QUARONI: Per quei centri storici che possono avere anche un interesse diretto per i piani paesistici c’era, mi pare, la proposta di un’indagine a parte. Si era proposto anche di fare dei rilevamenti della parte storica delle città o di piccoli centri, cosa che ha tutto un altro carattere dal rilevamento generale per un piano regolatore.

ZOCCA: Certamente, ma un rilevamento per lo studio storico deve anche collegarsi con la parte cartografica e deve avere una documentazione, oltre che nello spazio, anche nel tempo, che presenti i vari aspetti del centro o del quartiere nelle diverse epoche.

Il prof. Marconi interviene per identificare le categorie di problemi trattati e ne stende una prima suddivisione per materie, che sarà poi completata nel prosieguo della riunione.

QUARONI: Abbiamo sino ad ora discusso del lavoro degli Istituti, ma noi siamo riuniti qui anche per altro e penso che si dovrebbero individuare gli altri gruppi di problemi e distribuirli tra noi.Ad esempio è certamente molto utile esaminare il problema della riforma delle Facoltà per quanto riguarda l’urbanistica e le materie affini, perché da quanto mi risulta non sarebbero stati apportati sensibili cambiamenti.

ASTENGO: Vorrei proporre, se l’elenco degli argomenti di lavoro per i vari Istituti si ritiene chiuso, di discutere ora quali sono gli obiettivi delle singole Facoltà in vista della riforma degli studi universitari.

Dopo breve discussione si decide di stendere un elenco definitivo delle assegnazioni di temi per i vari Istituti. Le assegnazioni definitive risultano dal prospetto riportato alla pagina che segue.

GRAFIA DEI PIANI. Roma (Arch.); Milano (Arch.);

METODI DI RILEVAMENTO E DI ELABORAZIONE NECESSARI ALLO STUDIO DEI P.R. Napoli (Sem.); Venezia (Arch.); Trieste (Ing.);

IDEM PER I CENTRI STORICI E ZONE DI PARTICOLARE INTERESSE PAESISTICO. Napoli (Arch.); Napoli (Ing.); Milano (Arch.); Trieste (Ing.);

NORME URBANISTICHE E EDILIZIE. Roma (Arch.); Firenze (Arch.);

DOCUMENTAZIONE SUI CENTRI RESIDENZIALI. Firenze (Arch.); Roma (Arch.);

RACCOLTA E CLASSIFICAZIONE DEL MATERIALE DIDATTICO. Roma (Ing.); Napoli (Arch.); Milano (Ing.);

GLOSSARIO INTERNAZIONALE. Roma (Ing.); Napoli (Ing.); Genova (Ing.);

TRAFFICO E COMUNICAZIONI. Padova (Ing.); Napoli (Ing.); Napoli (Sem.); Roma (Ing. Istituto Trasporti).

QUARONI. Ora passeremo ad un secondo punto: quale si vuol trattare per primo? La riforma della Facoltà o il lavoro organizzato? cioè degli incarichi dati agli Istituti per ricerche particolari o addirittura per quel lavoro professionale che porti gli studenti ad un contatto più diretto con la realtà urbanistica?

ANDREOLI: A questo proposito vorrei far presente che i Politecnici ricevono sistematicamente dall’industria incarichi di ricerche e di studi. Sarebbe quindi auspicabile che gli Enti locali si avvalessero dell’opera degli Istituti di Urbanistica, cosa che potrebbe essere molto utile da un doppio punto di vista – 1° per un’opera di consulenza di cui potrebbero avvantaggiarsi i gruppi dirigenti - 2° con le ricerche commesse dai vari enti gli allievi potrebbero formarsi una cultura pratica e concreta.

QUARONI: Se mi è permesso vorrei aggiungere un terzo punto interessante, la possibilità cioè che si avrebbe di legare maggiormente gli assistenti agli Istituti, perché troverebbero così una retribuzione e forse, quarto punto, quello di consentire un utile agli Istituti, Ma per questo ultimo vi sono le limitazioni cui ho già accennato.

ANDREOLI: Condivido pienamente, tale apporto creerebbe una schiera di giovani che potrebbero lavorare con entusiasmo e anche senza rimetterci le spese.

QUARONI: Comunque sarebbe interessante sentire se c’èqualche pregiudiziale negativa.

A questo punto il prof. Andriello fa presente che potrebbero aversi delle opposizioni da parte degli Ordini professionali, o Associazioni sindacali.

QUARONI: Però c’è sempre da opporre agli Ordini quanto segue: cioè che in effetti non si toglie del lavoro ai professionisti, poiché il professionista singolo invece di lavorare a suo nome lavora con l’incarico dato all’Istituto. D’altra parte difficilmente si otterranno delle grandi masse di lavoro da determinare una posizione pregiudiziale da parte degli Ordini Professionali.

MARCONI: Per quanto mi riguarda, prescindendo dalla mia qualifica di professionista singolo, penso che questa reazione invece potrebbe esserci. Intanto gli Istituti non possono fare, per esempio, i piani regionali per i quali è consentita solo una azione di consulenza al Ministero. Penso tuttavia che nessuna eccezione potrebbe essere sollevata se gli Istituti svolgessero solo lavoro di indagine, lavoro che in effetti non può svolgere il singolo professionista.

D’AMBROSIO: Vorrei informarvi che alcuni anni or sono questa Facoltà e per essa l’Istituto di Composizione Architettonica, ebbe un incarico notevole, per l’importo di circa un miliardo, relativo alla progettazione del Centro degli Studi di Caserta, per conto dell’Amministrazione Provinciale. In quella occasione il prof. Canino chiese autorizzazione al Ministero e all’Ordine professionale ottenendo da entrambi pareri favorevoli.

QUARONI: Io vorrei chiedere: se non ci fosse la preoccupazione degli ordini sareste favorevoli tutti?

Tutti rispondono affermativamente.

QUARONI: Allora possiamo ammettere in linea di massima che ogni Istituto può accettare i suddetti incarichi dopo aver sentito il parere degli Ordini Professionali e del Ministero. Se mettiamo sulla bilancia da una parte la massa del lavoro professionale distribuito e dall’altra ciò che potrà venire agli Istituti, ci accorgeremo che quest’ultima è una quantità minima. Mentre d’altra parte l’interesse delle Università consiste nella buona preparazione dei tecnici e ciò dovrebbe interessare anche le categorie professionali.

MARCONI: Io penso che questa cosa potrebbe estendersi pericolosamente a danno del singolo professionista.

DODI: Gli Istituti dovrebbero sì preoccuparsi della preparazione di ottimi tecnici, ma sarebbe poco producente se dovessero assumersi dei lavori veramente professionali.

In parte io concordo con quanto è stato obbiettato, perché un conto è mettere sul mercato quello che praticamente si può produrre con le attuali organizzazioni in un Istituto universitario,cioè un lavoro di ricerca, e un conto è rispondere ad una richiesta professionale.

QUARONI: Qui mi sembra che si debba dissipare un equivoco: è chiaro che noi presumiamo che il Direttore di un Istituto, quando accetta un incarico, vagli prima di tutto il valore culturale del lavoro e specialmente i suoi aspetti didattici e morali; per cui non si può affermare che ad un certo punto l’Istituto si trasformi in uno “studio tecnico professionale”.

ZOCCA: La cosa fondamentale è questa: in un piano oltre la fase di progettazione c’è tutta quella parte di contatti amministrativi e politici che l’Istituto certo non può svolgere, sarebbe quindi opportuno limitare l’azione dell’Istituto alla parte di studi per l’impostazione dei piani.

CERUTTI: L’Università o l’Istituto non elaborerebbe dei piani regolatori in concorrenza a lavori professionali, per cui tutto ciò che si è detto è perfettamente accettabile salvo quanto riguarda i rapporti professionali, a meno che non si segua la prassi di chiedere preventivamente all’Ordine Professionale una autorizzazione.

Per quanto riguarda poi il valore del lavoro realizzato negli Istituti, se esso dovesse suscitare osservazioni per eventuali deficienze penso che queste potrebbero essere corrette con evidente utilità didattica.

GORIO: Dobbiamo tener conto che bisogna distinguere quella che è l’attività svolta dagli altri Istituti da quello che potrebbe essere la richiesta per noi. Perché, mentre per gli altri Istituti il richiedente ad es. un’industria) desidera una risposta assolutamente obiettiva, per noi il richiedente ha già una serie di preconcetti e di orientamenti per cui effettivamente la risposta da parte nostra è molto difficile. Quindi, secondo me, bisognerebbe discriminare, nell’accettare questi incarichi i temi che sono di carattere culturale e scientifico da quelli che sono di tipo professionale, e considerare che un piano regolatore per diverse ragioni è certo molto difficile da eseguire in seno ad una Facoltà.

DODI: Comunque in base a certe esperienze fatte in proposito io sarei portato allo scetticismo.

Condivido in pieno il concetto secondo il quale lo Istituto può svolgere opera di ricerca, mentre penso che si troverà certo imbarazzato nell’opera successiva di creazione. Tuttavia riterrei di lasciare ogni Istituto libero di regolare la seconda fase come crede, vagliando obiettivamente i singoli casi come ha accennato Quaroni.

Direi che è possibile stabilire il principio che gli Istituti possano svolgere lavoro di indagine e di consulenza che nella prima fase non necessita del parere degli Ordini professionali. Per l’eventuale seconda fase vi dovrà essere un preventivo accordo con gli Organi a cui si è accennato.

QUARONI: Sarei del parere che possiamo concordare tutti sulla proposta Dodi che mi sembra la più concreta, per cui penso che questo argomento sia chiuso. Ora restano ancora due problemi da discutere: l) l’organizzazione eventuale nostra 2) la riforma dell’insegnamento dell’urbanistica.

Vogliamo discutere prima l’uno o l’altro?

Dopo breve discussione si decide rinviare il prosieguo del dibattito al mattino seguente con il seguente ordine del giorno:

l) Organizzazione fra gli Istituti 2) Riforma dell’insegnamento.

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RIUNIONE DEL 21 MARZO 1959 – MATTINO

QUARONI: Sarà bene che io riassuma ciò che si è detto nella riunione di ieri sera: ci si era proposti di esaminare l’opportunità di organizzarci in una forma associativa che metta tutti gli Istituti o, per essere più esatti, quegli Istituti che l’accetteranno, in condizione di formare una certa organizzazione che possa:

1°) - valersi di una segreteria che potrà essere fissa a rotazione;

2°) - poter essere in grado di parlare in nome di tutti gli altri per chiedere delle sovvenzioni per gli studi A. B. C. ecc. di cui abbiamo parlato ieri ed eventualmente per l’attrezzatura. Vi è il problema dello Statuto di questa Associazione. O addirittura cominciare con lo stabilire, se si ritiene opportuno istituire questo legame fra di noi. Credo che a questo punto si possa aprire la discussione.

ASTENGO: Vorrei sapere se esiste qualcosa di simile in altre Facoltà.

QUARONI: Precedenti ne esistono molti. Vi sono vari centri, ad esempio quelli dello studio di certi caratteri particolari della geografia, non vi è però una federazione di tutti gli Istituti. Ma da informazioni che ho assunto presso il Ministero mi risulta che non vi è nessuna pregiudiziale alla formazione di un Ente federativo. Occorre prima una esatta e assoluta informazione data al Ministero stesso tramite un documento steso notarilmente, dopo di che l’autorizzazione potrà essere concessa.

ASTENGO: Cosa succederebbe dei patrimoni dei vari Istituti, per i quali, d’altra parte, credo che ogni decisione spetti ai Consigli di Amministrazione delle singole Università?

QUARONI: Chiarisco: la formula citata non comporta la unificazione di tutti gli Istituti in uno solo. Ogni Istituto resta quello ch’è, e solo per alcune particolari ricerche o studi aderisce a questo centro. Quindi il patrimonio di questo Centro Studi non ha niente a che vedere con quello dei singoli Istituti ch’è inalienabile.

GORIO: Trovo la proposta interessantissima, ma mi pare ch’è prematuro giungere nella situazione attuale ad una associazione vera e propria. Penso che si dovrebbe formare un piccolo Comitato che studi lo Statuto dell’Associazione o che due Facoltà comincino a far da pilota formando tra loro un’organizzazione alla quale poi possano aderire gli altri Istituti.

L’abbazia cistercense di Fontenay (le immagini sono nella galleria) è stata fondata nel 1119 da Bernard de Clairvaux, in una valle paludosa della Borgogna, a pochi chilometri dalla cittadina di Montbard (dov’era nata la madre di Bernard) e vent’anni dopo l’abbazia di Citeaux (1098). Il vescovo Ebrardo di Norwich fugge dall’Inghilterra, e con il suo tesoro rende possibile concludere i lavori. L’abbazia è realizzata secondo la regola benedettina: “sarà costruita in modo tale che tutto il necessario – l’acqua, il mulino, l’orto – siano nel monastero e che vi si possano esercitare i diversi mestieri, talché i monaci non siano obbligati a rivolgersi all’esterno”.

Fontenay è situato a poca distanza da una giacimento di ferro, da cui i monaci estraevano il minerale che lavoravano nella forgia (il lungo edificio a sinistra nella planimetria). La parete esterna della forgia è ancora fiancheggiata dall’intelligente canalizzazione del corso d’acqua che percorre la valle; essa alimentava il sistema di ruote che dava energia alla forgia. Il sistema rimase funzionante fino al XIX secolo, quando nuovi proprietari passarono dalla lavorazione del ferro a quella della cellulosa. Lungo il torrente, a monte, numerosi bacini consentivano una ricca itticultura.

Planimetria dell'abbazia (cartolina)

La planimetria mostra, a nord-ovest, la lunga navata della chiesa. Su di essa s’innesta l’ala che contiene, al primo piano la camerata, dove dormivano tutti i monaci e, al piano terreno, la sala del capitolo e, dopo l’accesso al giardino dei semplici, la sala degli scrivani. Il terzo lato del chiostro ospitava il refettorio (demolito e poi ricostruito: oggi sede della Galleria Marc Seguin)-Le due grandi celle all’estremo nord-est del refettorio costituivano la cucina, ed erano dotate degli unici due camini del complesso: il piccolo vano tra le cucine e la sala degli scrivani era adoperata per tenere e lavorare gli inchiostri e i pennelli, a ridosso dell’unica parete calda del monastero.

Altri edifici minori erano destinati all’infermeria, dove erano rinchiusi i malati (in-fermerie, fermer = chiudere), agli alloggi degli abati-commendatori (dopo il 1597 l’abate è nominato dal Re, e non più eletto dai monaci: l’abbazia corrisponde a un feudo), il forno, la colombaia, il canile dei duchi.

Due edifici mi hanno soprattutto colpito, nella mia breve visita guidata da Patrice Rauszer (cui sono debitore anche delle informazioni), oltre alla straordinaria e severa semplicità del romanico e alla grazia della natura circostante: il dormitorio e la forgia.

La volta carenata del dormitorio

Il dormitorio è una lunga navata di quasi 60 metri, oggi coperta da una grande carena capovolta: un altro esempio della forza delle carpenterie della Borgogna. In corrispondenza degli archi laterali due bassi muretti separavano i posti-letto, e uno strato di paglia sul pavimento costituiva l’arredamento. In fondo, uno spazio più ampio ospitava il sonno dell’abate. Sul lato verso la chiesa una finestra permetteva ai monaci troppo vecchi per deambulare di seguire i riti liturgici.

La forgia è un edificio imponente, le cui pareti esterne rivelano ancora tracce del ferro e del fuoco che lo abitavano. Possenti pilastri reggono le volte dell’edificio. Restano gli attrezzi del lavoro degli operai metallurgici, e gli ingegnosi sistemi che adoperavano per sollevare il ferro e portarlo sul maglio dove veniva battuto. Lungo la parete rivolta a sud-est corre il canale che alimentava il sistema energetico. Dal XVIII secolo le acque hanno alimentato anche la vasca monumentale, progettata e costruita per il piacere della frivola nobiltà che frequentava i saloni dell’abate-commendatore.

Le immagini sono visibili nella galleria

Nonostante il titolo, e forse anche nonostante le intenzioni, il testo che segue non è in senso stretto una critica al movimento della Città Giardino. Almeno al tipo di movimento che si studia nelle università, e che sta alla base di buona parte dell’urbanistica del Novecento. Trystan Edwards scaglia i suoi ironici strali sulla suburbanizzazione “romantica”, come la chiama lui, ovvero quanto lentamente si sostituirà agli ideali originari del movimento. O forse, questo sarà il ritorno all’ordine dopo il grande tentativo di Howard, Unwin, Adams e compagni, per costruire il loro riformista “sentiero pacifico” usando una parola d’ordine di facile presa. E di facile manipolazione, si comprenderà poi, fino al massiccio snaturamento.

Del resto basta scorrere questo articolo (scritto più o meno agli albori del movimento), per scoprire già maturi tutti i tratti da immaginario piccolo borghese che sono ancora vivissimi anche nelle pubblicità notturne delle seconde case immerse fino al collo e oltre in un dilagante e amorfo verde, nelle fasce anonime e di risibile qualità residenziale di spiagge, colline, ex zone agricole malamente “urbanizzate”. Si colgono sottopelle già in questi primi anni del Novecento i timori per quanto avverrà più tardi: l’automobilismo di massa, e il dilagare di quella che allora era solo una nuova moda quasi esclusivamente londinese, ma che oltreoceano in forme diverse già consumava ampie porzioni di suoli metropolitani (la Garden City di Long Island, New York, è del 1870 circa).

In conclusione, un testo in qualche modo “profetico”, anche senza caricarlo di una consapevolezza che certo gli manca, attaccato com’è ad alcune questioni importanti, ma non certo socialmente pervasive, come la progettazione edilizia di case a buon mercato. Lo stesso Edwards, negli anni Trenta sarà più esplicito col suo opuscolo A Hundred New Towns for Britain, dove sostiene la necessità di mantenere alte densità e impostazione urbana al programma di ricostruzione e decentramento che già si sta delineando. Ma questa è un’altra storia. (fb)

Titolo originale A Criticism of the Garden City Movement– Traduzione di Fabrizio Bottini

Un grande filosofo una volta disse che colui il quale ha come interesse prevalente la regola, anziché l’eccezione, va molto più in là nella conoscenza. Intendeva che quando una cosa è solo particolare o accidentale, e non rappresenta qualche principio generale, non vale la pena di studiarla. Se un certo modo di vivere è auspicato perché siano soddisfatti i bisogni di alcune particolari persone, i loro capricci possono essere oggetto di privata curiosità, ma non di interesse pubblico. Si può ragionevolmente sostenere che questo è un paese libero, e a un uomo non si può proibire di vivere nel tipo di abitazione che più gli aggrada, per quanto eccentrica possa apparire ad altri. Se può farlo in modo non invadente, si salverà dalle critiche più aspre. Le persone possono anche trasgredire le nostre più sacre convenzioni morali, ammesso che lo facciano in segreto e paghino ai vicini un tributo di ipocrisia. Ma quando si manifestano orgogliosamente e pubblicamente, l’importanza delle loro azioni si moltiplica per mille; perché in questo caso è lo stesso valore delle convenzioni ad essere chiamato in causa, e quella che prima era considerata solo un’eccezione tenta di elevarsi al livello di regola. I creatori delle Città Giardino sarebbero profondamente insultati se qualcuno suggerisse che le loro più alte ambizioni siano simili a quelle di un comune uomo d’affari, che esercita il suo riconosciuto diritto di soddisfare una modesta domanda, e di compiacere gli innocui capricci di pochi. Ma quando essi proclamano da alti pulpiti che il loro movimento non è per stravaganti e fissati, ma si fonda su principi universali, nessuno può essere accusato di attaccare le libertà umane se chiede che questi principi siano sottoposti a qualche tipo di accurato esame.

Ci dicono che si tratta di un importante movimento nazionale, e che questi pochi villaggi e sobborghi, che tanto poco assomigliano sia alla città che conosciamo, sia al tradizionale villaggio agricolo, sono i pionieri di centinaia di simili che verranno. Il richiamo è seducente, ed espressi in termini come questi: “Venite via dalla città. Lì la gente morirà per mancanza d’aria. Venite in campagna e vivete in un cottage circondato dal suo piccolo giardino. Le nostre città di oggi non simboleggiano la gloria della nostra razza, ma sono orribili monumenti al fallimento. I nostri antenati ci si spostarono per negligenza. Ma noi oggi non abbiamo scuse. Almeno possiamo evitarle, perché godiamo di strutture di trasporto sconosciute prima. Nonostante per il tempo presente siamo obbligati a sopportare le città come sgradevole necessità, ai loro margini fonderemo i nostri sobborghi fatati, dove gli uomini possano allungare le membra con agio in un dolce paradiso di riposo, lontano dall’empio turbinare e stress del traffico, dall’odore dei loro simili che conducono anguste esistenze dentro infelici comunità. Ma in questa azione, per quanto benefica possa essere, stiamo solo facendo un compromesso con Satana. Essa non rappresenta pienamente il nostro scopo. Quando se ne presenterà l’occasione costruiremo una città del tutto nuova, autosufficiente, e senza nessuna delle caratteristiche delle vecchie, che sinora sono state la nostra rovina. Non ci saranno orride file di case tutte esattamente l’una uguale all’altra, perché l’uniformità è sempre il marchio della stupidità e della noia. Pensando alle diverse classi sociali, non dimenticheremo il lavoratore manuale. Anche se non possiamo sempre dargli una casa isolata, possiamo comunque offrirgli il diletto di un’abitazione a schiera, che è solo di poco meno incantevole. Dobbiamo ad ogni costo eliminare le aspre restrizioni della città. Avremo alberi e verde in abbondanza, naturalmente. Siamo emersi dalla natura un giorno, lasciateci tornare”.

Se si accettano queste proposte, la nostra civiltà dovrà essere sottoposta davvero a trasformazioni di enorme importanza. Significherebbe che il movimento Romantico, che ha sperimentato tante avverse fortune in passato, ha trionfato completamente. Prima di cercare di considerare attentamente in dettaglio i termini della questione, lasciateci immaginare come un membro delle più esclusive sette dell’architettura accademica potrebbe considerare questo appello. Susciterebbe in lui quasi sicuramente una risposta caustica. “Le grandi città” potrebbe dire “sono state create nei tempi passati, e continueranno ad essere considerate un importante risultato. La vostra idea, di non aver niente da imparare dall’impostazione formale che vi compiacete di chiamare monotona, e su cui si è spesa una quantità incalcolabile di genio, è non poco presuntuosa. Il vostro odio per la misura e la disciplina nel progetto non è un segno di originalità, come bizzarramente pensate, ma nasce da debolezza mentale. Inoltre, l’organizzazione degli edifici nella più stretta correlazione reciproca, non ha fallito nel rispondere ai più urgenti bisogni dell’umanità. Ha formato un ambiente dove si risponde alle esigenze del commercio, fiorisce la cultura, sono assicurate le piacevolezze della vita sociale. Nelle città troviamo le strade affollate, alloggi contigui e concentrati insieme, l’imponente piazza, la vasta facciata. La società non abbandonerà queste cose tanto in fretta. Siamo emersi dalla natura un giorno; e ce ne staremo lontani in futuro”.

Il movimento della Città Giardino è stato iniziato da un gruppo di riformatori sociali. Il suo scopo originario era di attenuare alcune gravi malattie che minacciavano e tuttora minacciano il nostro benessere nazionale. Appariva ovvio, ad essi, che molte migliaia dei loro concittadini soffrivano la vita nei quartieri sovraffollati delle nostre città, e che chiedevano un rimedio a questo stato di cose. Avevano opinioni nette, anche riguardo agli aspetti estetici dell’Urbanistica. Le Città Giardino dovevano essere non solo sane, ma anche belle. Sino ad un certo punto è possibile separare gli aspetti sociali, e quelli estetici, del problema.

Cominciamo dall’aspetto sociale. Nessuno può giungere a sane conclusioni sull’architettura, a meno di considerare sempre come dogma il fatto che l’uomo è più importante della sua abitazione. Se qualcuno la pensa in altro modo, è un idolatra. Dunque, se si può provare che davvero nessuna casa è più salubre di quella unifamiliare di moderate dimensioni, agli architetti dovrebbe essere proibito di progettare le nobili abitazioni in linea, e molti degli altri edifici grandi e monumentali, che danno alla comunità che li ospita un così grande senso di dignità e potere. Ma dobbiamo chiederci se davvero la necessità di questo sacrificio è certa. Se fosse così, non solo le familiari strade dell’East End di Londra dovrebbero essere demolite il più presto possibile, ma anche nel West End, migliaia di abitazioni considerate di lusso e ora molto ambite, sarebbero dichiarate insalubri. Gli abitanti di Grosvenor Square sarebbero obbligati alla caccia di un alloggio più sano. Dovremmo demolire le conigliere di Park Lane. Ora, nel criticare le nostre città spesso si confonde il problema dell’aerazione con quello del sovraffollamento. In alcuni casi l’abitazione può essere malsana perché è impossibile far entrare aria e luce nelle stanze, a causa di gravi carenze costruttive; ma in altri casi può risultare che la casa sarebbe di qualità eccellente se le si fosse consentito di adempiere al suo scopo originario, di soddisfare le necessità di una sola famiglia, anziché i bisogni di cinque o sei. È assurdo condannare un tipo di edificio per quello che gli accade per puro caso, e di strapazzare l’architetto per gli errori del politico. Affrontando le questioni dell’igiene, occorre contrastare la città corrente col sobborgo giardino realizzato in modo estensivo, a densità di 25-30 abitazioni per ettaro. Prendiamo in considerazione in primo luogo gli alloggi delle classi più povere, di persone abituate a pagare un affitto di circa cinque scellini. Si tratta di un prezzo più alto di quanto la maggior parte di esse si possa davvero permettere, e spesso così le famiglie sono obbligate ad una alimentazione insufficiente. Si dovrebbe pensare, dunque, che il loro primo desiderio non sia un cottage molto grazioso, ma un alloggio che gli dia la massima comodità per il denaro che spende. Il bisogno urgente non è un tipo di casa molto diversa da quella che abita da sempre, ma una un po’ più grande, con stanze ariose dove tre bambini possano dormire senza danni per la loro salute. È l’orribile ammucchiarsi di bambini in piccole stanze, a mettere a rischio la loro crescita. Ma bisogna confessare che, nonostante ci siano molte case a buon mercato nei sobborghi giardino, l’economia è stata orientata nella direzione sbagliata. Nell’adottare uno stile pittoresco, si sono acquisite alcune delle peggiori caratteristiche di insalubrità degli edifici medievali; per esempio il piano superiore è stato collocato nel tetto, e ha soffitti bassi e inclinati con abbaini che lasciano entrare poca luce nelle stanze. L’effetto esterno può avere un certo fascino per il pittore di paesaggi, ma è difficile considerare case del genere un buon esempio di edilizia del ventesimo secolo. Che valore ha, avere abbondanza di aria fresca all’aperto, se i nostri romantici ci impediscono di respirarla? Se si sostiene che non è possibile permettersi stanze di forma più razionale, la risposta ovvia sarà che è invece possibile fare a meno delle maggior parte dei lucernari e piccoli abbaini, e mezze travi fittizie in legno, e di tutti gli altri orpelli medievali di cui queste case sono piene. La salute degli abitanti viene prima. Un altro suggerimento che porterebbe a considerevoli economie, è che le case siano costruite in schiere, di preferenza lunghe. È ovviamente un grosso risparmio, se la maggioranza delle case ha solo due pareti esterne. Con questo tipo di organizzazione esse sono meno propense all’umidità e, anche, più calde in inverno e fresche d’estate. Immaginatevi la gioia del selvaggio preistorico quando scoprì questa cosa! Come deve aver battuto le mani per la gioia! Si potrebbe quasi dire, che quando la sua capanna finì di essere isolata, quando molte di esse furono radunate insieme, questo fu uno dei più grandi passi in avanti della civiltà dall’inizio del mondo.

E allora agli urbanisti delle città giardino che cercano l’economia ci si può permettere di consigliare di provare con le vie. Non è un salto nel buio. È una cosa già tentata prima. Le vie sono strade con una fila continua di case su entrambi i lati, e non devono essere in nessun modo monotone. È possibile esprimere intelligenza e spirito nella loro progettazione, senza indulgere in abbellimenti costosi. E ci sono tanti costi in meno per le reti dell’acqua, della fognatura, del gas. Chi lo vuole, un eccesso di tubi! Allora, evitando le stravaganze, possiamo offrire al lavoratore manuale una casa comoda che stia nelle sue possibilità, che abbia stanze di forma e altezze decenti. Per gli scopi dell’aerazione non è obbligatorio che ogni stanza di dimensioni normali abbia una finestra su più di un lato. Con la porta e la cappa del camino c’è abbastanza corrente. Anche nei sobborghi giardino si vedono spesso case con la superficie di un’intera parete priva di finestre: per quanto riguarda la ventilazione, la casa avrebbe anche potuto non essere singola.

Il sostenitore del sobborgo giardino ha un atteggiamento duplice verso i lavoratori. Vorrebbe che chi lavora in città vivesse in periferia, così che almeno la sera e nei fine settimana possa godere almeno alcuni dei vantaggi della vita di campagna. Ma è anche ansioso di riportare un certo numero di persone alla terra, e a stabilircisi definitivamente. Per quanto ammirevoli possano essere questi obiettivi, il modo in cui è stato proposto di raggiungerli ignora completamente i noti istinti del lavoratore, sia in città che in campagna, e nella tradizione del suo passato. Vale la pena di prestare una certa attenzione a un fatto piuttosto importante, che mostra come talvolta i membri delle classi povere mostrino quasi inconsapevolmente la propria disapprovazione per i benintenzionati progetti di chi li vorrebbe riformare. Se uno speculatore costruisce cottages per lavoratori ai margini di un quartiere industriale, capita sovente che essi non vengano affittati e restino vuoti. Ma quando c’è una casa disponibile, anche di scarsa qualità e collocazione, in pieno centro, sarà presa immediatamente, e molte richieste saranno respinte. Quali le cause di questo fenomeno? Non c’è il caso che l’uomo comune ami la compagnia dei suoi simili e voglia stare al centro delle cose? Questo modo di vivere in case rade e sparse è profondamente innaturale. Non c’è bisogno che ogni casa sia isolata, come se l’intero pianeta fosse un ospedale per malattie infettive. Quando Aristotele informò i suoi contemporanei sul fatto che l’uomo e animale sociale, forse non stava dicendo una cosa scontata, ma una verità difficile, che molte persone in tutte le epoche hanno mancato di comprendere. Siamo davvero come api, che devono accalcarsi insieme. Il lavoratore è ben contento di stare un una schiera di abitazioni, di stare sulla porta di casa e parlare coi vicini, e vedere gli altri vicini sull’altro lato della strada. Tutto quello che chiede sono case e strade migliori. Questo forse può essere deplorevole, e forse dovrebbe essere sua ambizione quella di avere un cottage indipendente, ed essere come il mitico Inglese nel suo castello. Può essere diventato pavido di spirito, e non albergare più in petto l’amore per l’indipendenza. D’altra parte, è possibile che dopotutto abbia ragione lui, e che sbaglino i suoi detrattori. Non è molto diverso dai membri delle classi più fortunate, nel fatto di voler stare vicino ai teatri, alle sale da musica, ai cinema, alla piscina pubblica, al parco e a tutte le altre attrazioni che può offrire una città, di cui le più importanti, e di gran lunga, sono la gran folla umana e l’aspetto luminoso e attivo della città. A Londra ci sono file di case lussuose di fronte a magnifici giardini, e a me no di cento metri di distanza stanno indescrivibili catapecchie. Gli abitanti delle prime non hanno alcuna intenzione di abbandonare la città. “Anche noi ci rifiutiamo di lasciarla” gridano gli uomini delle catapecchie. Le nostre città dovrebbero essere tanto belle che chiunque vorrebbe starci dentro. Se sono insalubri, dobbiamo renderle salubri. Se sono tropo rumorose, dobbiamo fare i passi per renderle meno rumorose. Se sono troppo fumose, dobbiamo eliminare i fumi. In fondo, cos’è un sobborgo? La stessa parola “suburbano” implica in qualche modo una seconda scelta, un atteggiamento mentale ristretto e farisaico. Ciò può derivare dal fatto che molti sobborghi sono privi dei peggiori difetti della città, come la polvere o il sovraffollamento, ma non hanno niente della distinzione di un nobile edificio, anche quando è macchiato di fuliggine. Ma di tutti i tipi di sobborgo, forse il più scadente e deprimente è il classico Sobborgo Giardino. Non ha né l’affollato interesse della città, né il fascino quieto della campagna. Non ha né i vantaggi della solitudine, né quelli della società. E si devono sottolineare anche i maggiori inconvenienti di questo modo di vivere. Il lavoratore non vuole attraversare grandi distanze per incontrare amici quando è finita la giornata lavorativa. Alcuni di questi sobborghi sono tanto grandi che c’è bisogno di tram per gli abitanti, ma non si possono utilizzare senza sacrificare l’aspetto rustico tanto desiderato. Visto che le persone di mezzi limitati non hanno carrozze private o automobili, non dovrebbero avere alloggi sparpagliati e lontani l’uno dall’altro.

Esaminiamo ora la proposta di riportare parte della popolazione alla terra. Una delle cause della depressione agricola in questo paese è la mancanza di abitazioni adatte per lavoratori. Si supporrebbe quindi che essi fossero lasciati all’uso indisturbato dei cottages dove già vivono. Ma questo non accade, e sarebbe desiderabile che i dirigenti del movimento Romantico dei nostri giorni potessero contenere le attività criminali dei membri del ceto medio che, nel proprio zelo ad essere tutt’uno con la natura, sono costantemente in cerca di piccoli cottages da fine settimana, e mettono così il lavoratore fuori dalla propria casa. Ma anche coloro che vogliono promuovere l’agricoltura creando villaggi giardino, a causa delle proprie inclinazioni Romantiche, stanno in una certa misura ostacolando i bisogni dei lavoratori. Non hanno considerato elementi importanti della natura umana. Getterebbe un po’ di luce sull’argomento un’occhiata all’Inghilterra com’era prima dell’avvento dell’era industriale. Scopriremmo che nonostante ci fossero parecchie fattorie isolate in tutta la campagna, la gran parte della popolazione era raccolta in una moltitudine di piccoli villaggi, e in quasi ogni villaggio, per quanto piccolo, c’era una via commerciale principale. Cosa illustra, questo, se non l’inveterato desiderio dei lavoratori di vivere nella più stretta prossimità l’uno con l’altro? Ovunque possibile, le case erano costruite a formare vie. Non c’è ragione per cui dovremmo ignorare questa tradizione, che ha dalla propria parte sia l’economia che la convenienza.

Questo per quanto riguarda le classi povere. Si assumeva, da parte dei fondatori di Città e Sobborghi Giardino, che quanto piaceva a loro sarebbe piaciuto anche agli altri. Erano ispirati da una grande passione per la natura. Vediamo sino a che punto è probabile che riescano a soddisfarla. Si può calcolare facilmente che se questo sviluppo estensivo diventasse la regola, entro un certo periodo di tempo ci sarebbe poca vera e propria campagna disponibile. Questo fatto sta iniziando ad essere noto, ci sarà una reazione contro questo modo di edificare, e si scoprirà che chi ama davvero la natura è chi ama la città. Verrà l’epoca in cui il terreno destinato alle case sarà drasticamente ridotto, in modo tale da lasciare che le bellezze della natura possano essere destinate al godimento pubblico. Questa regola è altamente necessaria, perché oggi vediamo piccole case sorgere di continuo nei punti più attraenti. È molto bello, per chi arriva primo. Se una dozzina di spettatori stanno in piedi sparpagliati in vari punti di un teatro, avranno una vista eccellente, ma se lo fanno tutti il vantaggio sparisce. In questo movimento si mostra uno spirito di individualismo estremo: un individualismo che a volte va contro i suoi stessi fini. Molti vogliono case isolate circondate da un giardino proprio. Ciascuna è diversa da quella vicina, e anche le varie stanze vogliono affermare sé stesse. In genere possiamo dire dall’esterno quale è il soggiorno, quale la cucina, e così via. Ma se non c’è qualcosa che la metta in risalto, uno sfondo sul quale ogni casa possa brillare, la sua individualità cessa di esistere. La gente può amare esprimersi, e amare la natura, ma essere incapace di creare bellezza. Possono ottenere poco più dell’opportunità di guardare, dalla finestra di una vistosa stanza da bagno, la natura che hanno dissacrato.

Si ritiene popolarmente che basti amare gli alberi, i fiori e i tramonti per aver diritto di dissertare d’arte. È una grottesca illusione. Prostrarsi di fronte a cose alla cui bellezza l’uomo non ha in alcun modo contribuito, è di solito un segno di decadenza mentale. Ammirare gli alberi non richiede alcuno sforzo, nessun esercizio, nessuna capacità di giudizio. C’è una grande sdolcinatezza alla base del concetto di “Città Giardino”. Con metodi facili, otteniamo risultati dozzinali. Una città può avere dei giardini al suo interno, e si può esprimere del genio nel modo in cui essi sono organizzati. Il verde, subordinato al lavoro dell’uomo, ne enfatizza la bellezza. Ma in una “Città Giardino” il verde viene per primo, e la città arriva dopo. Questa è regressione.

È una cosa pericolosa, quando la gente si mette a costruire una città senza percepire la particolare qualità e bellezza che insita nelle città, a costruire case aggregate senza considerare in che modi questa aggregazione debba influenzare il loro progetto, e l’ha influenzato nel passato. Se c’è una casa isolata in un contesto naturale, ed è il principale oggetto di interesse se ci si avvicina ad essa, è consentita una grande individualità formale; e questo vale per un grande numero di case, ciascuna sul proprio terreno, a tale distanza da non confliggere l’una con l’altra. Ma quando si hanno tante piccole villette che possono essere viste simultaneamente, l’effetto è di agitazione estrema. Non conta quanto singolarmente le case possano essere graziose (e alcune delle case nei Sobborghi Giardino sono molto graziose se le si considera isolatamente): devono essere modificate perché possano entrare in relazione con quelle vicine. Questa necessità non si poggia su una teoria che chiunque ha il diritto di mettere in discussione, ma su un fatto psicologico. Quando ad una unità di percezione corrisponde una unità dell’oggetto percepito, l’atto di osservare è reso piacevole, perché si accompagna ad una pace mentale. Ci sono due classici modi in cui una pluralità di case può essere trattata, e nessuno dei due è stato adottato nei Sobborghi Giardino. Nel primo modo, le case sono mantenute separate, ma si affacciano sulla strada. Predominano semplici forme rettangolari , linee orizzontali, e sono comuni tetti piani. L’altro metodo è di avere strade definite da case continue, e in questo caso l’unitarietà può essere di ordine superiore. Ma non è una soluzione, quella di sparpagliare indiscriminatamente case singole dei più disparati progetti, o anche in gruppi di quattro, o sei, o otto, come si fa comunemente, e contare su un po’ di cespugli per dare l’effetto di una composizione. E in molti degli edifici dei sobborghi giardino si intuisce un vero odio per la progettazione. Anche quando si adotta uno schema formale come una breve schiera o i tre lati di un quadrangolo, l’autore opta per l’insolito, per evitare il formalismo almeno nei prospetti; appiccicherà abbaini dappertutto, e le finestre del piano superiore non avranno nessuna rassomiglianza con quelle di sotto, come se i suoi canoni estetici derivassero da una interpretazione troppo letterale del testo: “Non lasciare che la mano destra sappia cosa fa la sinistra”. Ma se gli edifici non mostrano una struttura nella propria forma, se sono inclini ad essere un po’ allegri, in ogni caso le loro caratteristiche generali rappresentano l’uniformità stessa. Una sola nota li pervade tutti: quella della domesticità di campagna. Abbiamo reso domestiche chiese, sale comuni dei villaggi, banche, negozi.

Sono tutti edifici costruiti nel ventesimo secolo, ma non sono moderni. Questo movimento per la Città Giardino esprime un grande disprezzo per il passato. Il Romanticismo è una rivolta contro la civiltà a causa dei grandi mali che sembrano connaturati in essa. Si assume che, se solo potessimo mettere da parte convenzioni e artifici, tutto andrebbe per il meglio. Gli slums sono cresciuti nelle città, quindi le città devono essere condannate. Questo atteggiamento di impazienza esprime stanchezza di spirito e mancanza di senso della storia.

Vai al secondo articolo di questa polemica, pubblicato nel gennaio 1914

Titolo originale A Further Criticism of the Garden City Movement – Traduzione di Fabrizio Bottini

Nel numero di luglio di questa Rivista, mi sono avventurato in una breve critica al movimento per la Città Giardino, e dato che quella critica è stata oggetto di alcuni commenti, mi è stato permesso dalla cortesia del Direttore di sviluppare ancora un po’ l’argomento. I principali capi di imputazione contro le città giardino, erano che il tipo di insediamento proposto non porta a bellezza, efficienza, economia. È distruttivo della bellezza per due ragioni. In primo luogo porta a deturpare la campagna, col risultato che sempre meno persone saranno in grado di trarre godimento dalle bellezze della natura; in secondo luogo, le case che sono state costruite sinora nei sobborghi e villaggi giardino sono poco adatte ad essere viste in gruppo, perché le loro numerose sporgenze e abbaini le qualificano come case di campagna, che potrebbero figurare molto bene se ciascuna fosse collocata da sola in un proprio paesaggio, e fornita di un ambiente adatto di alberi, prati, siepi. L’effetto non è di spaziosità, perché ciascuna abitazione sembra voler espandere sé stessa, ma non le è consentito, e per questa ragione molti trovano un’esperienza estetica deprimente una visita ai sobborghi giardino. Questo tipo di insediamento non conviene, perché aumenta senza necessità la dimensione urbana, rendendo più difficile per gli abitanti comunicare fra loro; è evidentemente diseconomico, perché è molto più conveniente costruire grosse concentrazioni di case e strade, che non edifici singoli organizzati in modo simile.

Sembra comunque, a molti, che queste considerazioni debbano essere considerate nulla di fronte al basso tasso di mortalità delle città giardino. In un importante articolo sul Manchester Guardian del 14 ottobre, l’autore esprime un certo grado di approvazione sugli aspetti estetici dei miei capi di imputazione, ma è convinto comunque che le statistiche sulla mortalità costituiscano “una formidabile giustificazione al movimento”. Ci viene riferito che per Manchester, Liverpool, e Bethnal Green, i tassi sono rispettivamente del 19,9; 20,3; 25,0 per mille; mentre per Bournville, Letchworth e Hampstead esso sono del 5,7; 4,8; 4,2 per mille. Ora, queste statistiche sembrano a prima vista piuttosto evidenti, ma guardiamole più da vicino per vedere cosa esse realmente dimostrano. Si scopre, che esse ci raccontano soltanto qualcosa che chiunque già sapeva prima, ovvero che se si piantano le persone come vegetali in campagna, i loro tassi di mortalità saranno con scarsa probabilità più alti di quelli di una strada sovraffollata in uno slum. Ma non è questo il punto in questione. Siamo interessati a capire se l’obiettivo di liberare le città dalla congestione non possa essere raggiunto in modo più spedito con qualche altro metodo, diverso da quello suggerito dai promotori del Movimento per la Città Giardino. Alcuni propagandisti sono molto lenti nel riconoscere che ci possono essere due cure per lo stesso male, e che il mettere in discussione un metodo, non significa mostrare approvazione per il male. Esiste una mancanza di candore, alla quale i riformatori sociali sono particolarmente propensi, e spesso essi insinuano che chiunque non accetta la loro panacea deve essere necessariamente un reazionario.

Il bisogno più urgente, è quello di mettere a disposizione un numero molto maggiore di abitazioni, perché si possa prevenire il sovraffollamento. Dobbiamo chiederci come, data una certa quantità di denaro da spendere, possiamo realizzare il maggior numero di abitazioni salubri. Se i piccoli e pittoreschi cottages, ciascuno circondato dal suo terreno, in un sobborgo giardino, sono più economici degli alloggi multipli da affitto in centro città, quanto più conveniente sarebbe il consto medio delle abitazioni, in luoghi dove il terreno si può ottenere a basso prezzo, se esse potessero organizzarsi secondo la vecchia formazione per strade e grossi gruppi? Aumentiamo la dimensione delle città e costruiamone delle nuove anziché, nel nostro odio per ciò che è male nelle città, essere ciechi di fronte alle loro innumerevoli virtù! È piuttosto probabile che se ci si potessero procurare statistiche relative a quelle porzioni di Londra, Birmingham, Manchester, dove le case sono costruite correttamente e non occupate da quantità di persone maggiori di quanto non fossero progettate per contenere, si scoprirebbe che il tasso di mortalità non si confronta sfavorevolmente con quelli di Letchworth o Port Sunlight. Statistiche come queste possono essere difficili da ottenere, ma nessuna altra cosa potrebbe aver peso in questa controversia. C’è un’altra ragione per cui la comparazione di cifre, tanto cara ai sostenitori della città giardino, è davvero priva di valore. Le carenze alimentari sono una causa altrettanto importante di morte prematura, come quelle di aerazione. In un luogo come il sobborgo di Hamspead, la proporzione dei molto poveri è molto inferiore di quanto non sia a Poplar, Lewisham, Bermondsey, Shoreditch, Stepney, Burnley, Liverpool o Stockport. La maggior parte degli abitanti di Hampstead Garden Suburb sono evidentemente del ceto medio, e consumano i propri quattro pasti al giorno con perfetta regolarità. A Bayswater ci sono migliaia di persone altrettanto sane.

Un articolo intitolato “Una difesa del Movimento per la Città Giardino”, comparso nell’ultimo numero di questa Rivista, contiene alcune affermazioni che sembrano fondarsi su un lieve fraintendimento delle questioni in gioco. Se ho espresso il parere che nelle piccole e pittoresche case “sono stati inseriti alcuni dei peggiori e più insalubri elementi dell’edilizia medievale”, non è una risposta l’affermare che “ogni finestra ha almeno 60 gradi di illuminazione”. La difficoltà è che gli abbaini sono spesso tanto piccoli, e i soffitti tanto inclinati, che molta poca luce e aria possono penetrare nella stanza. Chiunque può trovare parecchie di queste stanza da letto a Letchworth o Hampstead. Quando ci viene detto che “si è giunti al progetto dei Garden City Cottages solo dopo che molti architetti avevano partecipato a due distinte mostre, nel 1905 e 1907, organizzate specificamente sul tema”, questo non cambia in alcun modo la questione. La cosa più probabile è che gli architetti in questione siano stati obbligati, come spesso accade, di rinunciare alle migliori idee per compiacere i committenti. Si richiedeva di progettare qualcosa di ordinario e meretricio, e dunque si è progettato qualcosa di ordinario e meretricio. Queste mostre di cottages sono la rovina dell’architettura e non producono nulla, se non reazione. È impossibile realizzare qualcosa di nuovo nel progetto di un’entità così piccola come il cottage per il lavoratore, e i tentativi per essere originali in questo caso portano solo alle eccentricità. É nella strada, nella piazza, e nelle altre grandi formazioni che si trova l’opportunità per grandi risultati artistici, e il fatto che queste ultime siano non solo piuttosto salubri (provveduto che si eviti il sovraffollamento), ma anche molto più economiche del cottage isolato, dovrebbe raccomandarle ai riformatori sociali.

Il mio critico afferma che c’è qualche incongruenza nell’inserire nello stesso testo riferimenti ai “101 ammennicoli medievali di questi cottages” e al “grande disprezzo del passato espresso dal Movimento per la Città Giardino”. Ma non c’è nulla di incongruente. Gli “ammennicoli medievali” sono caratteristiche inappropriate, una incomprensione del passato che si dimostra proprio nell’usarli. Il villaggio medievale ha molta più coesione del sobborgo giardino tipo, con la sua orribile orgia di abbaini. D’altra parte, gli innumerevoli esempi di case singole di città, pur rappresentando – come fanno – un alto standard di architettura domestica, non hanno avuto alcuna influenza sui progetto degli edifici nei sobborghi giardino, senza contare il fatto che questi ultimi sono così vicini l’uno all’altro da poter apparire tollerabili alla vista solo se assumessero quelle forme rettangolari che danno adito, sino ad un certo punto, al mantenimento di una linea. Questi principi sono stati scoperti molto tempo fa, e nessuno deve vergognarsi di affermarli, anche a rischio di venir chiamato “un dogmatico della specie peggiore”, o “un appiccicamento architettonico al passato”. Il progresso consiste nell’edificare su fondamenta che sono già state gettate. Naturalmente, se la rottura delle regole estetiche è produttiva per la bellezza, è tempo di metterle in discussione, ma quando porta a bruttezza e dissonanza, come nelle città giardino, ci sarà dato il permesso di sostenere che le regole sono degne di considerazione. Da un certo punto di vista, molti degli esperimenti della città giardino saranno di grande servizio all’architettura, perché saranno esempi standard di cosa va evitato. Saremo così portati ad apprezzare di più le bellezze possedute dalle nostre città, e scopriremo i meriti di molte delle nostre strade, tanto quiete, dignitose, appropriate, che possiamo passarci attraverso senza essere consapevoli di nulla tranne una sensazione di agio che non ci prendiamo la fatica di definire. Le persone inizierebbero a scorgere virtù mai notate prima in Regent Street, nei quartieri a stucco di Londra, o nelle architetture civiche dei nostri antenati del diciottesimo secolo.

I difensori del Movimento per la Città Giardino citano South Square e “Wordsworth Walk” a Hampstead come esempi di “controllo e disciplina nel progetto”. È difficile trovare molte tracce di “controllo e disciplina” in questa piazza. Visto che si era adottato uno schema formale in pianta, ci si sarebbe naturalmente aspettati un prospetto altrettanto formale, e invece a ciascuna casa si dà un trattamento separato nelle finestre, col risultato che l’effetto complessivo della facciata è un guazzabuglio. Se l’architetto avesse voluto che considerassimo ciascuna casa come entità a sé, e questo fatto fosse stato espresso non solo nel prospetto, ma anche in pianta e nella disposizione delle coperture, non ci sarebbe stato motivo di critica. Ma così come stanno le cose, la forma regolare della pianta, sui tre lati di un rettangolo, ci obbliga a leggere tutte le case all’unisono, come se esse fossero parte di una solo composizione; ma le loro caratteristiche sono tali da non ammettere di considerarle così. Nei fatti, questa piazza è la semplice parodia delle imponenti piazze di Parigi, Londra, Edimburgo, Liverpool, e altri luoghi. E per quanto riguarda “Wordsworth Walk”, sembra che sia stata disegnata sulla carta senza rapporti con il suo stare posata a terra. Qui abbiamo raddoppiati i gruppi di cottages pittoreschi, con un percorso in mezzo; ma, sfortunatamente, a causa dell’inclinazione del terreno su cui è realizzata, un gruppo di cottages è considerevolmente più in alto dell’altro, così l’effetto generale è di penzolamento estremo. In più, è discutibile se qualunque gruppo informale di case sia adatto a far parte di uno schema geometrico, per quanto semplice. È un’ingiustificabile miscela di formale e informale, l’introduzione di un elemento di rigidità in un sistema tollerabile solo quando si metta da parte ogni nozione di rigidità. Quando un soldato abbigliato in modo strettamente convenzionale sta sull’attenti, non c’è alcuna incongruità; ma se uno spazzino fa lo stesso, la trascuratezza del suo aspetto è indebitamente messa in rilievo. Il fascino dell’informale sta nella sua involontarietà, nell’essere il prodotto del caso. Talvolta è piacevole attraversare strade dove non esiste un aspetto ordinato, perché in queste strade (se non c’è agitazione) ci si può soffermare in totale riposo dello spirito, per quanto riguarda l’architettura; ma quando voi raddoppiate un gruppo informale di case, come è stato fatto a “Wordsworth Walk” e in molti altri casi a Letchworth e Hampstead, è evidente che la sistemazione d’insieme è deliberata, col risultato che cominciate a criticarla come tale. Ma proprio in quanto tale, non regge l’esame per un singolo istante; non c’è abbastanza intelligenza in essa ed è totalmente priva di coesione: come è naturale, visto che il progettista stava tentando di cogliere il fascino dell’inconsapevole, da casuale.

Ho avuto occasione di esprimere il parere che nelle città giardino “viene prima il giardino, e poi la città”, i loro difensori dicono: “Il fatto è che stanno assieme nelle corrette proporzioni e correlazioni l’una con l’altra ... e nella maggior parte delle comunità britanniche la città viene prima e il giardino viene raramente, quando c’é”. Si può ammettere che non ci siano giardini a sufficienza nelle nostre città, e che questo sia dovuto in gran parte alla trascuratezza nel periodo di crescita più rapida, seguito alla rivoluzione industriale nel secolo scorso. Ma bisogna insistere sul fatto che i nostri grandi romantici furono in parte responsabili per questa trascuratezza. Al tempo della loro nascita, l’interesse popolare nell’arte prese forma di intensa ammirazione della natura e della pittura di paesaggio; Walter Scott e Ruskin riportarono gli uomini al Medio Evo, così che essi pensarono più a chiese gotiche e a castelli in rovina, che non ai possenti risultati che la parola “città” suggeriva. Durante quell’epoca fatale, si costruì su molti spazi aperti delle nostre città, su molte vecchie piazze del mercato, e allo sviluppo urbano era consentito di avanzare a grandi passi senza traccia di controllo. I promotori del movimento per le città giardino, con il loro odio per le città e la santificazione della natura, sono pure dei Romantici. Gli uomini i cui antenati spirituali provocarono tanti misfatti nelle nostre città, non sono gli uomini che le salveranno. In realtà, alla maggior parte di questi propagandisti, la città come la consideriamo noi non appare degna di alcuna redenzione, e quindi stanno realizzando luoghi di fuga da essa chiamati “Città Giardino”. Un piccolo cottage in campagna: questo è il popolare richiamo. Si assume che tutti possiamo avere un cottage in campagna, e nello stesso tempo tutelare la campagna. Ma quando costruite villini in queste quantità, e tanto vicini da distruggerla, la campagna, il risultato è una città, è in questo caso le abitazioni dominano la natura, e dovrebbero esprimere questo fatto assumendo le grandiose forme dell’architettura civica familiari a tutti. La frase “Città Giardino” suggerisce una moltitudine di case tanto vicine l’una all’altra da doverle chiamare città, e ancora un carattere tale da essere davvero dominate dal verde, negli spazi tra loro, col risultato che la prima impressione avvicinandosi è quella di un parco, o di un bellissimo giardino, punteggiato da edifici. Il promotori della città giardino promettono ai propri clienti un ambiente rustico che non è possibile avere in queste condizioni, e il tentativo di mantenere una finzione di rusticità, quando non ci sono le condizioni, è causa di un tipo di sviluppo che non merita di essere chiamato moderno, o avanzato, ma è di fatto una retrocessione di rango, un affondare nell’organizzazione primitiva di capanne che ha preceduto l’epoca in cui gli uomini furono capaci di architetture continue. A questo si arriva, mettendo prima il giardino, e poi la città.

Avevo affermato che un tipico sobborgo del nuovo genere non avesse “né l’affollato interesse della città né il tranquillo fascino della campagna”, e i miei critici replicano che “la frase ‘affollato interesse della città’ è piuttosto ambigua in questi tempi di quartieri degradati e sporca congestione”. Questo atteggiamento è tipico di molti riformatori sociali; sono così impegnati a tempo pieno nello studio di ciò che è brutto, squallido, mediocre, da non aver occhi per ciò che è nobile. Uno pronuncia la parola “città” e il loro pensiero non vola verso Atene, Roma, Firenze, Venezia, Parigi, Francoforte, Norimberga, Winchester, Oxford, Edimburgo, o anche alle nostre piccole cittadine di campagna tanto famose per la loro bellezza. No, loro pensano a Bermondsey o a Poplar. Se qualcuno parla del fascino delle strade, loro pensano immediatamente a Whitechapel Road, o all’ultima fila di casupole speculative: mai a Regent Street, o a Boulevard Des Italiens. Mi sono riferito alla società che vive nelle città, intendendo che la civilizzazione, così come la conosciamo, è il prodotto della vita urbana, e i miei critici esclamano, “Quale società? Sicuramente non la stanca e pretenziosa atmosfera sociale di una Balham o la rispettabilità snob di una Streatham?”. Stupefacente! Questa frase dovrebbe essere appesa, stampata su una targa, in tutte le sale pubbliche di Balham e di Streatham come esempio della persuasiva eloquenza dei sostenitori della città giardino. Si sarebbe supposto che in un movimento nuovo come il loro anche reclute da posti come Balham e Streatham sarebbero state le benvenute. Anche le personalità più grandi hanno dovuto talvolta inchinarsi, per ottenere i propri scopi. È sempre la vecchia storia: la prosperità si porta appresso l’orgoglio! Ma è ancora possibile affermare che chiunque si prenda il disturbo di visitare questi sobborghi, e studiarne l’aspetto fisico, la generale modestia, l’espressione facciale degli abitanti, troverà che essi sembrano altrettanto intelligenti dei nobili residenti di Letchworth o Golder’s Green. Ma forse è sbagliato dare troppa importanza a questo sfogo (contro Balham e Streatham). Bisogna ricordarsi quel piccolo episodio dell’Iliade, dove si racconta che Ajace ebbe una lite con Agamennone, mostrando tanto poco autocontrollo da massacrare un intero gregge di pecore. Questo è il modo in cui a volte gli innocenti soffrono insieme ai colpevoli!

Si può sostenere che il movimento per la città giardino è servito al suo scopo. Era sin dall’inizio un movimento settario, che traeva origine dalla protesta contro il sovraffollamento delle nostre città. Ci sono ampie prove che la coscienza popolare ora è pienamente consapevole della gravità dei mali causati dalla scarsità di abitazioni, e a questo risultato i sostenitori della città giardino hanno grandemente contribuito. Ma se Hampstead e Letchworth sono indubbiamente più salubri di Poplar, molti riconosceranno che essi non rappresentano il migliore, né il più economico, tipo di insediamento. Una città ben sistemata, senza fumi e quieta, con il traffico ben controllato, con strade e case organizzate in modo compatto; una città che ha sufficienti parchi, piazze e altri spazi pubblici, ma che contiene anche una considerevole popolazione in un’area relativamente piccola; una città compatta, con un numero limitato di case singole abbastanza grandi poco all’esterno, e immediatamente dopo una natura illimitata: questo è un ideale che pare più attraente della diffusa monotonia della Città Giardino.

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Testo dal sito US Department of Transportation, Federal Highway Adiministration, sezione storica - Titolo originale, Edward M. Basset; The Man Who Gave us “Freeway” – traduzione di Fabrizio Bottini

Il concetto di parkway, dedicata alla guida per motivi di tempo libero, incarnava molte idee progettuali che sarebbero state integrate nelle expressways, compresa un’ampia fascia di rispetto, il controllo degli accessi, l’eliminazione degli incroci a livello con altre strade, e corsie separate a mescolarsi alle caratteristiche del paesaggio. Portando un passo più in là il concetto di parkway, si deve a un avvocato newyorkese di nome Edward M. Basset l’aver coniato il termine “ freeway”, a descrivere una infrastruttura urbana ad accesso controllato basata sull’idea della parkway, ma aperta al traffico commerciale.

Basset era nato a Brooklyn, diplomato allo Amherst College nel 1884, e aveva insegnato a scuola mentre frequentava la Law School della Columbia University. Si laureò nel 1886, e iniziò la libera professione nel 1892.

Nel 1916, Basset sviluppò la prima ordinanza integrale di zoning degli Stati Uniti, a regolare usi, altezze, superfici delle costruzioni. Da qui, è talvolta chiamato “Il Padre dello Zoning Americano”. Il suo impegno pubblico comprende un breve servizio alla House of Representatives (1903-1905), la nomina da parte del Governatore Charles Evans Hughes alla Public Service Commission (1907-1911), e le posizioni di consigliere nello Zoning Committee di New York, nel Regional Plan of New York and its Environs, e nella City Planning Commission. In quanto membro dello Advisory Committee on City Planning and Zoning, Basset fu nominato dal Segretario al Commercio Herbert Hoover alla carica di presidente della National Conference on City Planning.

Basset vedeva le “ freeways” – strade per il flusso libero del traffico – come adattamento di molti dei concetti della parkway, a servire il trasporto anziché il tempo libero. Là dove le parkways erano dedicate alla ricreazione, la freeway serviva alla mobilità. Per marcare la distinzione, Basset delineò tre tipi di grandi arterie:

Basset, scrivendo in qualità di presidente della National Conference on City Planning, spiegò questi concetti in un articolo, The Freeway: a New Kind of Thoroughfare, pubblicato nel febbraio 1930 da The American City:

”Tutti sanno che le nuove vie e strade pensate per incrementare la capacità di traffico veicolare gradualmente vengono ad ingombrarsi, in alcuni punti, fino a limitarla. Ciò è causato dalla crescita delle strade di attraversamento, degli accessi privati, nuove officine, stazioni di servizio, spazi per le attività commerciali e i parcheggi delle automobili. Man mano il traffico diventa più intenso, aumentano gli ostacoli, col risultato che una strada intesa ad accogliere traffico veloce lo vede ridotto a molto meno della capacità progettata. Anche quanto si eliminano gli incroci a livello più importanti, le corsie d’accesso, le officine e stazioni di servizio, i negozi e le auto parcheggiate sono causa di grandi limitazioni.

Una parkway consente un flusso di traffico più libero, perché le vie laterali e le corsie d’accesso private non possono entrarci, e le officine, stazioni di servizio e negozi non possono allinearsi sul ciglio. I proprietari frontisti non hanno diritto di aria, luce, accesso sulla parkway . Per essere chiari, occorre pensare alla parkway come a un parco allungato. È ben noto che le autorità possono realizzare attorno a un parco una recinzione o un muro, lasciando solo ingressi pubblici. Comunque, una parkway non è destinata a un uso generale: visto che è un parco allungato, deve essere utilizzata per scopi di tempo libero, e di conseguenza il traffico è limitato a questi tipi di veicoli.

Avvertiamo sempre più il bisogno di un nuovo tipo di grande strada, che sia come una highway nel poter contenere sia traffico commerciale che per il tempo libero, ma che sia come una parkway nel poter prevenire l’ingombro dei suoi margini. Non abbiamo un nome, per una strada di questo tipo. Non abbiamo una legge, in questo paese, che regoli una strada di traffico di questo tipo. Se si potesse trovarle un nome, questo nuovo tipo di grande strada entrerebbe immediatamente nella pratica e nella terminologia della pianificazione urbana. Suggerisco di chiamarla freeway . È una buona e breve parola anglosassone. Ricorda la libertà dagli incroci a livello, dagli accessi privati, da fabbriche e negozi. Non avrà marciapiedi e sarà libera da pedoni. In generale, consentirà un libero flusso di traffico veicolare. Può essere adatta alle parti più intensive delle grandi città, per il passaggio ininterrotto di una gran numero di veicoli”.

Il figlio e socio di studio di Basset, Howard, insieme all’urbanista Latham C. Squire spiegherà ulteriormente il concetto in un articolo, A New Type of Thoroughfare: The “Freeway”, pubblicato ancora da The American City nel novembre 1932. La freeway, raccontano, sarà di immediata utilità pratica per gli accessi ai ponti “dove il traffico concentrato verrebbe liberato da usi superflui e parassiti”. Le freeways sarebbero anche pratiche per strade di circonvallazione, consentendo al traffico di passaggio di aggirare i distretti terziari e commerciali, e diminuire la congestione locale. L’articolo riassume i vantaggi del concetto di freeway:

“1. Il libero flusso di traffico è garantito in modo permanente perché non è consentito alcun accesso locale, eccetto in alcuni punti ben posizionati. Saranno messe a disposizione probabilmente tre o quattro corsie in ciascuna direzione, eccetto dove si aggiunge una ulteriore corsia alle entrate e uscite dei freeway business centers , e agli incroci con altre arterie. Il freeway business center risolve il problema della perdita di tempo necessaria per uscire dalla strada verso un centro commerciale di quartiere per acquistare cibo o altri generi.

2. La freeway è il tipo più sicuro possibile di grande strada. È interamente eliminata l’interferenza del traffico locale. Il freeway business center nel mezzo della carreggiata non è accessibile al traffico locale, ed è progettato secondo criteri di comodità, bellezza, sicurezza.

3. La freeway incrementa i valori delle proprietà. Gli schermi di alberi e arbusti collocati su entrambi i lati della carreggiata forniscono il mezzo migliore per attutire i rumori del traffico, e nascondono completamente la vista della strada. In tal modo le proprietà laterali sono rese altamente desiderabili ad uso residenziale. La stretta prossimità a una freeway è un sicuro vantaggio.

4. Gli automobilisti sulla freeway , naturalmente, avranno bisogno di rifornimenti di ogni tipo, come benzina, olio, ricambi, pasti, farmaci, ecc. Tutto si può acquistare nei freeway business centers posti nel mezzo della freeway a intervalli di quindici chilometri sul tracciato. Saranno progettati in modo che negozi e stazioni di servizio siano invisibili dal tracciato, attraverso piantumazioni adatte, e organizzati in modo che l’accesso dalla freeway non interferisca in alcun modo col libero flusso del traffico. Per questi business centers non si prevede nessun accesso locale. Sono ad uso esclusivo dei viaggiatori sulla freeway .”

La sicurezza si poteva aumentare in vari modi. La maggior parte delle corsie era larga tre metri, ma quella esterna raggiungeva i cinque. Questo aiutava l’automobilista “timido”, che avrebbe altrimenti avuto paura di uscire di strada. Sulle curve (con raggio di 300 metri), una “striscia a parco” impediva di “tagliare all’interno” sul lato sbagliato della carreggiata dopo la curva. Piccoli alberi piantati nelle strisce a verde avrebbero impedito di essere abbagliati dal fari del traffico in arrivo. Nei rettifili, una stretta striscia di alberi, larga due metri, con basse ondulazioni, poteva essere posizionata sulla mezzeria ad impedire “scivolamenti laterali” e scontri frontali. L’articolo suggeriva anche l’uso di pareti o recinzioni lungo la fascia di rispetto, per impedire a persone o animali di sconfinare sulla carreggiata.

La freeway avrebbe risolto anche il problema delle attività commerciali lungo la strada. La regolamentazione dei bordi stradali nei centri rurali e suburbani era stata dibattuta “negli ultimi otto o dieci anni”. L’articolo spiegava:

“I margini delle più trafficate strade statali e di contea oggi non sono desiderabili per un uso residenziale, per due ragioni: primo, a causa del rumore e della confusione provocati dal flusso continuo di traffico; secondo perché quasi invariabilmente, in particolare nei centri rurali, la presenza sporadica di usi commerciali come cartelli pubblicitari, chioschi di hot-dogs, stazioni di servizio, officine di riparazione e simili, l’ha resa ancora più indesiderabile. Nelle comunità rurali la domanda per questi usi commerciali non è grande a sufficienza da coprire che una piccola porzione delle proprietà frontiste. Dunque, se il resto delle proprietà non è appetibile a usi residenziali e non può essere venduto per altri usi, molte volte non c’è mercato per nessuna utilizzazione. Il risultato è quello che è stato chiamato motor slum”.

L’articolo a questo proposito cita Benton MacKaye, l’ecologista pianificatore regionale considerato “Padre dello Appalachian Trail”:

“Il motor slum in aperta campagna è, oggi, una macchia vistosa quanto il peggiore degli antichi slums industriali urbani”.

L’articolo afferma che a evitare di creare “un nastro, lungo chilometri, di motor slums” la freeway è un approccio “più efficiente”.

In chiusura, l’articolo riassume il valore della nuova strada:

“La freeway si svilupperà come una expressway di tipo ideale; arteria di traffico libero e costante, economicamente solida, dotata di bellezza e fascino: una combinazione ideale”.

Nota: il testo di Benton MacKaye sul "road slum" citato, apparso su The New Republic nel 1930, è disponibile per chi fosse interessato anche in italiano, nella sezione "strade" del mio sito (fb).

Un articolo di G.C.Argan (Urbanistica e architettura, in Le arti, 1938, pp.365-73) e quello del Calzecchi (Urbanistica e Monumenti, in Costruzioni, n.165, 1941), mi inducono a qualche riflessione sui problemi da loro prospettati.

Il fatto che muove le molte discussioni su questo argomento è senza dubbio questo: l’accelerazione del processo sociale, con le complesse e urgenti trasformazioni di vita da esso implicate, pone molte delle nostre città onuste di storia di fronte alla necessità di modificazioni o adattamenti rapidi e sostanziali.

Non cade dubbio (per quanto, in troppi casi particolari, ci sarebbe assai da discutere ...) sulla legittimità delle esigenze di natura economica e sociale che sollecitano tali modificazioni nella struttura delle nostre vecchie città, ma non c’è neppure alcun dubbio sulla legittimità di tutelare e di risparmiare dalla distruzione edifici o ambienti storici, che non rappresentano soltanto delle entità artistiche o spirituali, ma sono altresì dei beni economici, valori insomma dei quali è compartecipe, in forme dirette o indirette, l’intera collettività.

E’ doloroso, è angoscioso il vedere come, nel passato e nel presente, l’incontro di queste due esigenze sia stato sentito tanto spesso con mancanza di responsabilità sociale; come si sian potuti produrre e si producano gli episodi di Milano, Bologna, Piacenza, Firenze, qualificati con tanto vigore e ragionevolezza dal Calzecchi nei loro aspetti non solo antiartistici, ma antiurbanistici; esempi ai quali si potrebbero aggiungere quelli di Padova, Torino, Napoli, Roma, Lucca, Brescia, Vicenza, e tanti, troppi altri.

Ciò spiega le preoccupazioni sempre più frequenti sia di definire la natura, i compiti e i limiti dell’Urbanistica, sia di sollecitare, proporre e attuare provvedimenti pratici capaci e adeguati alla risoluzione dei concreti problemi che si presentano nelle nostre città.

L’Argan si preoccupa soprattutto di dare una definizione d’indole generale dell’urbanistica nei confronti dell’architettura come arte. In sostanza, egli dice questo: l’urbanistica non è creazione propriamente artistica, ma problema di cultura e di metodo, cioè critico e storicistico. L’urbanista «deve individuare il valore dei diversi fatti storici, riconoscendone l’identica legittimità». Di fronte al fatto che le città non sono sorte secondo schemi unitari (come quelli ideali dell’Alberti o del Filarete), ma si sono storicamente configurate, ogni volta che si presenti il caso di necessità della coesistenza di antico e di moderno, l’urbanista, che è critico, come deve comportarsi? Premesso che «i caratteri economici dell’urbanistica sono da coordinare con quelli estetici» e che l’urbanistica, sempre in quanto critica, comprende il restauro, le conciliazioni ambientali e simili, l’urbanista, scartata la soluzione neoclassica, nella quale a parere dell’Argan ciascun organismo «è soltanto una funzione plastica relativa a un generale ordinamento prospettico», ed è perciò astratta, deve fare in modo da giungere alla «esistenza simultanea di diversi elementi architettonici in uno spazio costruito attraverso una prospettiva non più geometrica, ma mentale, che ogni contingenza riduca, se non all’unità suprema dell’arte, all’unità di quel piano di cultura e di gusto che legittima l’arte contemporanea».

L’Argan così si esprime perché ha in mente di confutare ancora una volta la mentalità, purtroppo non in tutti sorpassata, dei rifacimenti o completamenti «in stile», e vuol giustificare teoricamente la possibilità dell’inserzione di edifici od organismi nuovi in complessi antichi ed espressi da diversi gusti ed esigenze. Quanto all’argomento fondamentale al quale affida tale giustificazione, vale a dire la presunta «unità di quel piano di cultura e di gusto che legittima l’arte contemporanea», esso non può essere accettato, ad evidentiam, come un dato; ed esigerebbe per la convinzione ulteriori specificazioni. Direi anzi che possa essere un argomento di tal genere soltanto a patto di essere esaurientemente aperto e definito.

L’Argan inoltre restringe volontariamente il suo sforzo di chiarimento al problema esclusivamente estetico, e formulato in termini molto generali, della possibilità della architettura moderna di convivere in modi artisticamente legittimi con quella antica.

Per raggiungere questo risultato, si tratterebbe, se bene intendo il suo discorso assai involuto, di riportare sul piano ordinario di considerazione storico-critica, di gusto adeguato alla qualità intrinseca di ogni fenomeno artistico (col quale tutti noi reagiamo quando ci troviamo di fronte a un complesso ambientale o monumentale, isolandone idealmente, per la comprensione, le singole compiute espressioni formali), anche i fatti di coesistenza che avvengano ai nostri giorni fra architetture antiche e nuove. Una formazione urbana di coesistenza di antico e nuovo non dovrebbe esser così lasciata al caso, vale a dire che quella operazione di «prospettiva mentale» dovrebbe presiedere e non seguire alla formazione urbanistica; l’Argan si augura anzi che anche per l’architetto creatore che si trovi a inserire la sua opera in un ambiente artisticamente preformato, tale «dato urbanistico» o di «prospettiva mentale» sia premessa essenziale, sullo stesso piano dei dati naturali o sociali. Anche la riaffermazione di questo punto di vista, pur di sempre bisognevole ricordo nel suo limite particolare, è da considerare acquisita.

Il Calzecchi è in sostanza sullo stesso piano, ma anziché preoccuparsi di giustificare astrattamente la palese (se pure entro certe condizioni) possibilità di convivenza di antico e di nuovo, rileva ciò che è avvenuto in casi storicamente concreti. Non c’è bisogno di difendere o di assalire l’architettura moderna; meglio vedere, fuor di questa inutile polemica, che cosa avviene in realtà. Di regola, si osserva l’assoluta intolleranza (che non fu propria, in genere, degli architetti del passato) da parte degli ingegneri e architetti attuali per ogni coordinazione con le architetture o gli ambienti architettonici storici. Ciò produce, in nove casi su dieci, degli effetti gravissimamente dannosi sull’aspetto delle nostre città. Con l’aggravante che molto spesso, con questi interventi radicali, se si risolvono privati e privilegiati interessi, non si risolvono affatto quei problemi pratici - di traffico, di economia, di commercio, ecc. - in nome dei quali le discussioni e le ricostruzioni sono state attuate. Perciò, conclude il Calzecchi, se la conservazione dei monumenti artistici e degli antichi ambienti costituisce ancora un interesse materiale e ideale per la collettività, coloro che sono da essa demandati a esercitarne la tutela devono prima e più di ogni altro investirsi dei problemi pratici dell’urbanistica, affinché le riforme considerate necessarie nelle nostre vecchie città avvengano con un equilibrio che non comprometta, le une a scapito delle altre, né le ragioni storico-artistiche, né quelle economiche. Occorre perciò frustrare ogni interesse particolaristico, per tener conto soltanto, con responsabilità adeguata, dell’interesse comune.

Non si può ragionevolmente dissentire (tralasciamo di proposito punti secondari) da queste osservazioni principali dell’Argan e del Calzecchi, che confluiscono nel punto comune della salvaguardia necessaria dei monumenti e degli ambienti artistici e storici del passato, pure in coordinazione con le esigenze economiche e con la legittimità di espressioni architettoniche del nostro tempo. Da questa premessa è possibile dedurre una serie di norme di conciliazione, forzatamente più o meno elastiche, e specificamente negative, che possono limitare, correggere, coonestare, in certe condizioni, casi particolari. E sarebbe già, senza dubbio, un’acquisizione di notevole portata, e altamente augurabile in confronto a ciò che si vede.

Ma quel che si sente di insufficiente, di provvisorio, e direi di evasivo, nelle soluzioni proposte, deriva in sostanza dalla indeterminatezza in cui si lascia, come di solito, la nozione stessa di «urbanistica». Su questa, a mio parere, dovrebbe convergere lo sforzo di chiarimento, anziché accettarla ed usarla come un dato esterno, o di già sicuro e preciso adoperamento. Senza questo chiarimento, ogni integrazione che si tenti fra i problemi di architettura, antica o moderna, e quelli di urbanistica, manca allo scopo, per la genericità, la approssimazione o l’oscurità in cui è lasciato uno dei termini essenziali.

Quanto dico potrà maravigliare, chi pensi che sull’urbanistica esistono persino vasti e poderosi «Trattati». Tuttavia, anche riportandosi a questi, è facile osservare che il riferimento al concetto di urbanistica non passa mai, o quasi mai, alcune specificazioni tecniche, provvedimenti, proposte e soluzioni puntuali, lasciando nell’astratto o nell’indefinito la forza o le forze determinanti, fondamentalmente condizionali.

Le teorie più diffusamente emergenti e note della tecnologia urbanistica raggruppano, grosso modo, i problemi e i compiti urbanistici in alcuni punti:

1) Analisi dell’aspetto storico-artistico del piano e dell’alzato delle città (implicante la conservazione dei monumenti e dell’ambiente, talora del paesaggio), e fissazione dei criteri estetici andamentali delle trasformazioni edilizie e urbane.

2) Studio dei dati topografici locali e regionali, geografici, climatici, ecc.

3) Studio delle generatrici dei piani urbani, della «funzione urbana» e della «dinamica urbana», in rapporto alle determinanti economiche e politiche; stesura dei piani regolatori.

4) Studio della rete stradale, dei problemi del traffico, della tecnica dei servizi pubblici, ecc.

5) Identificazione dei centri di vita politica, religiosa, commerciale, amministrativa, tecnica, industriale, ecc., e distinzione delle parti funzionali dell’agglomerato urbano (stadi, parchi, zone industriali e annonarie, zone di abitazione e di riposo, comunicazioni, servizi, ecc.).

6) Studio delle esigenze di igiene urbana.

7) Sfruttamento dei dati statistici.

8) Legislazione.

9) Problemi di specifica tecnica edilizia.

10) Calcolo delle esigenze sociali, economiche, politiche, che motivano la trasformazione urbana.

Si badi che questo è un decalogo soltanto per caso: si potrebbe senza dubbio aggiungere qualcosa, qualche punto rifondere in un altro, e via. Qui si è voluto soltanto presentare, ricavandolo dalle stesse definizioni, l’insieme dei compiti riconosciuti come proprii e connecessari dagli urbanisti. Si noterà la loro latitudine, espressa anche dalle definizioni generali più correnti della «scienza urbanistica»: «complesso delle discipline che hanno per oggetto i vari aspetti della vita degli agglomerati urbani», o «studio generale delle condizioni, delle manifestazioni, e delle necessità di vita e di sviluppo delle città».

Tale latitudine non è in sé stessa illegittima, qualora si tenga fermo che quel «complesso di discipline» o «studio generale» vogliono soltanto esprimere gli oggetti specifici di preparazione tecnica, di competenza professionale dell’architetto urbanista. Si ritiene giustamente necessario che questi, prima di tracciare, ad esempio, un piano regolatore, consideri tale serie di problemi, e in relazione ad essi progetti ed attui provvedimenti correlativi.

Ma assumere questo insieme di asserzioni meramente tecnologiche come il concetto stesso di «urbanistica», o peggio riferirsi ad esse come a definizione di esauriente, pacifica chiarezza, non è legittimo. Ed è facile provarlo. Basti osservare ad esempio che, se i motivi sociali, economici e politici che originano le trasformazioni urbanistiche, e i mezzi per effettuare tali trasformazioni, possono essere sullo stesso piano nella mente e nell’attività tecnico-esecutiva dell’urbanista, non lo sono però in sé stessi, com’è evidente. Questa distinzione è necessaria.

Anzi, si può senz’altro affermare che, se la tecnica urbanistica, entro i limiti dello sviluppo e del progresso dei suoi mezzi, può rappresentare, in quanto tecnica, una costante, il fattore etico-politico è per eccellenza la variabile. Perciò, quando si consideri che l’importanza della variabile storica, del fattore etico-politico sulle realizzazioni tecniche è determinante, e che l’inverso non avviene (ne sia prova il fenomeno più vasto in questo senso: il carattere impresso all’architettura dalla vita economico-sociale negli Stati Uniti d’America), occorrerà dunque definire anzitutto, e con la massima chiarezza, il primo motore, l’insieme di forze sociali-economiche-politiche che pone e risolve il problema della trasformazione urbanistica. Dico risolve, perché il concreto risultato di una attuazione urbanistica può essere diversissimo, a seconda della qualità del fattore etico-politico che la informa. Non può cader dubbio, ripeto, sul fatto che sia la tecnica urbanistica ad adeguarsi in forme consone alla forza sociale storica che sollecita la trasformazione urbanistica.

Tutto questo mi pare semplice buon senso; ma prima di passare a illustrarlo con qualche sommaria esemplificazione, mi sembra utile ricapitolare i punti essenziali a cui si è giunti.

Parlare di urbanistica fuori di una determinata concezione etico-politica, non ha senso. L’urbanistica non è semplicemente una tecnica, per quanto, come ogni iniziativa spirituale e storica, abbia la sua necessaria tecnica. Qualunque sistematica che prescinda da questa proposizione è inetta, per astrazione, a contenere o a risolvere il problema, dimostrandosi soltanto come una guida o un programma tecnologico, per uso empirico.

In relazione poi ai saggi da cui siamo partiti, ritengo opportuno aggiungere queste obbiezioni, che non dirimono i punti giusti in essi contenuti, ma vogliono piuttosto integrarli e inverarli rispetto al problema qui posto.

Assorbire o isolare il problema urbanistico soltanto o prevalentemente nell’aspetto estetico (Argan-Calzecchi) è certo sempre utile, necessario a chiarirne ulteriormente alcune esigenze; ma limitarlo ad esso risulta parziale e insufficiente, rispetto alla totalità del fenomeno quale noi lo consideriamo qui. Giacché non mi sembra esauriente, anche in linea semplicemente «scientifica» o descrittiva, il dire: si è volontariamente limitata la nostra attenzione a risolvere un problema parziale; poiché di tale soluzione particolare si presuppone il raccordo con un ben chiaro concetto generale, che è appunto quello che a mia opinione non si può considerare tale. D’altro canto la critica dell’avvenuto e la sollecitazione di provvedimenti atti ad ovviare i lamentati errori (Calzecchi), dovrebbe logicamente sboccare in una proposta circostanziata di legislazione, per avere tutto il suo valore; altrimenti non si può che lottare sul terreno del provvisorio e del casuale, e senz’armi, o con armi diseguali; s’intende, rassegnandosi a risultati condegni.

Ma una proposta effettiva di legislazione non può basarsi su considerazioni di dettaglio, su circostanze parziali o fortuite, su particolari tecnici, su esigenze polemiche, su argomenti esclusivamente negativi o limitativi, non può implicare soltanto fatti o problemi frammentari. Anche basandosi sui rilievi fatti dall’Argan e dal Calzecchi, che pure restano validi e precisi, si finirebbe al più per restringersi a una regolamentazione, in cui il problema stesso della tutela non potrebbe essere risolto organicamente e positivamente nei suoi aspetti necessari; una soluzione piena o almeno sufficiente non può trovarsi, è evidente, fuori dalla correlazione con la definita qualità della innovazione urbanistica, dunque con il movente etico-politico di essa.

Dunque, una proposta effettiva di legislazione, in quanto vuol dare carattere esecutivo, organico e generale, a un insieme di principi ritenuti di comune interesse per la collettività, non può ignorare la forma dello stato, non può disinteressarsi dal definire quelle condizioni e fini, quella costituzione della socialità, che pongono in modi specifici il problema urbanistico.

Per convincersi della necessità di questa premessa, basti dare un’occhiata alle varie leggi in materia urbanistica che sono attive in Europa e in America: si vedrà che esse risultano, nella loro varietà, dalle forze e dalle tendenze delle varie forme di socialità. Diverse le concezioni e le realtà etico-politiche, diverse anche le concezioni urbanistiche. Anche se alcune, molte applicazioni o soluzioni tecniche dei problemi urbanistici sono simili o eguali, credo che sia tutt’altro che pacifico affermare, per esempio, che l’urbanistica sia simile o eguale in Inghilterra e in Germania, in Danimarca e in Bulgaria. Si intenda bene che le differenze non dipendono tanto dalla diversa (chiamiamola così) struttura naturale di quelle collettività, quanto da ciò che esse socialmente e politicamente sono, e intendono essere nel procedere storico del mondo. Mi sembra che torni ora opportuno, per maggiore chiarezza, mostrare con qualche esempio sommario la connessione fra l’urbanistica e il suo principio etico-politico. Ciò può farsi in due modi, cioè sia provando le nostre osservazioni su fenomeni storici o su realtà esistenti, sia verificandole in ordine a ipotesi o programmi di socialità, che per comodo di esposizione e con riguardo sufficiente alle esigenze del nostro problema particolare, fisseremo in forme estremamente riassuntive, comprensive quanto antitetiche, ma insieme caratteristiche.

Cominciamo dai primi. Consideriamo per esempio l’urbanistica in Germania dopo l’avvento al potere del regime hitleriano, e delle ideologie nazionalsocialiste. Al centro del problema urbanistico sono due elementi (si veda per tutto questo il volume del Wernert su L’Arte nel III Reich, 1936): gli edifici pubblici e le strade. Soltanto intorno a queste due affermazioni preminenti gravitano, subordinandosi ad esse, le altre innumeri esigenze dell’edilizia privata o collettiva: le quali, o sono state sottoposte ad alcune norme estetiche di carattere limitativo (che colpiscono, come è noto, alcune forme architettoniche sorte nel dopoguerra, indicate come non tedesche - e facile è vedere l’ingerenza di questi o simili provvedimenti nel problema urbanistico), o non sono state rinnovate con originalità di intenti e di mezzi (vedasi ad esempio il quartiere operaio di Britz, a Berlino). Sono state spesso sottolineate dai teorici e dai responsabili le ragioni di stato, politiche e militari, le quali hanno presieduto alla costruzione della rete autostradale di migliaia di chilometri, che ha subordinato alla sua effettuazione una quantità di problemi urbanistici relativi (questo, di fatto come di diritto), e condizionato persino la costituzione di un corpo di «Architekte der Landschaft». Senza voler più che accennare alla costruzione pur significativa di una quantità di grandissimi edifici statali o del partito N.S., richiesta dalla nuova conformazione dello Stato (e si ammetterà che tale attività edilizia, quando sia sistematica e vasta, incida spiccatamente sull’aspetto urbanistico), occorre menzionare però una serie di edifici e di organismi tipici, sorti in tutto il paese, necessari perché le masse popolari possano in modi adeguati ergersi in quelle unanimità di volontà, di sentimento e d’azione, che sono tanto caratteristiche dell’ordinamento della nuova Germania: enormi stadi, colossali arene e sale, giganteschi anfiteatri, e specialmente i «Thingstätte», destinati alle rappresentazioni di massa dei «Thingspiele», moltiplicatisi in tutta la Germania.

Si metta insieme tutto questo, si pensi agli «architetti di masse» del Ministero della Propaganda, che fissano e dispongono non solo i grandi spazi necessari, ma lo stesso ordinamento e allenamento periodico delle masse che in essi dovranno sfilare, disporsi, cantare inni, salutare, ascoltare i discorsi dei capi, nei riti e nelle cerimonie in cui il «Volksgenosse» si immerge nel sentimento della sua emanazione dal «Deutschtum»; si aggiungano tutte le implicazioni di varia natura recate da questo insieme di fatti e costumi, immediatamente e irrevocabilmente, sulla struttura della vita collettiva e urbana; e si comprenderà agevolmente che l’urbanistica, nel III Reich, ha questi caratteri in virtù della costituzione e della volontà dello Stato; né se ne possono considerare, almeno di valore sensibile o importante, di diversi.

E ora, cambiamo continente, trasportiamoci negli Stati Uniti d’America, e consideriamone alcuni fenomeni urbanistici altrettanto tipici (per i quali mi riferisco all’eccellente volumetto del Carbonara L’Architettura in America, 1939). Questo, come in genere tutti gli studi dedicati all’architettura americana, suggerisce intanto una osservazione preliminare, che ha il suo significato: non vi si parla mai di edifici «pubblici», intendendoli come quelli dove si concentra e si svolge la vita politica, governativa e amministrativa. Né in se stessi, né in quanto possano implicare un vivo problema urbanistico. Forme caratteristiche dell’architettura americana non sono queste, come non lo sono, per altro esempio, le chiese, ma sì le abitazioni, gli ospedali, le scuole, gli edifici per la produzione, il commercio, il consumo. E questo perché? Perché è caratteristica della vita sociale americana la riduzione delle attività di governo a meri servizi amministrativi, che non richiedono nessuna speciale affermazione, nessun prestigio. Ciò vuol dire anche, naturalmente, che nelle contingenze urbanistiche si tiene sempre pochissimo conto di questo fattore; al quale, invece, in altri paesi, ne vien dato uno assai elevato, quando non eminente.

Ma vediamo un fenomeno anche più caratteristico. E’ noto come gli americani, quando sentono e praticano in ogni ramo di attività sociale il «teamwork», la collaborazione nel lavoro, altrettanto conservano, per ragioni storiche ed etico-politiche, una vigorosissima volontà di libertà individuale, sia sotto forma di «self-governement», che di volontà di piena realizzazione ed espansione della propria vita. Ciò si riflette, urbanisticamente parlando, nella spiccata, insopprimibile tendenza generale degli americani a fruire di una casa individuale isolata: si calcola che negli Stati Uniti la percentuale di abitazioni di questo tipo oscilla fra il 40 e il 70% secondo i vari Stati, cifra di per se stessa enorme, e dimostrativa della profondità e della larghezza della esigenza. Ci sono poi altri sintomi significativi di questa volontà o tendenza generale. Fra essi, basti menzionare le sempre più larghe manifestazioni di opinione, che partono non solo dalle classi più interessate del popolo, ma dagli stessi industriali e da molti statisti, in pro del principio (che forse ha la sua lontana origine nel George) che il possesso della terra per la casa (come quello dell’aria, dell’acqua e dei suoi derivati, primo fra tutti l’elettricità) è un diritto primordiale di ogni uomo. Come si reagisca contro i vincoli storico-sociali che limitano ancor fortemente la possibilità di un simile possesso diretto, lo mostrano vari fatti di vasta portata: per esempio i villaggi numerosissimi di case mobili a rimorchio, la diffusione delle case prefabbricate montabili su terreni pubblici, e d’altro canto le iniziative del governo federale, e di costruire case adatte a persone di piccolo reddito, che nel limite dell’economia realizzino quei vantaggi di isolamento e di prossimità alla terra cui l’americano medio aspira, e di creare dei villaggi semirurali, le «greenbelt towns», collegate con mezzi di trasporto economici e rapidi coi grandi centri urbani e industriali. L’ideale-limite è la «Broadacre City Usonia» di F.L.Wright, che raccoglie e potenzia i bisogni e le tendenze diffuse in una visione anticipatrice, ma limpida e precisa, pratica. E, si badi, alla base di questo profondo rivolgimento, che va accentuando sempre più la sua pressione, non sono ideali astratti o ipotesi dottrinarie, ma convinzioni radicate di comune utilità economica. A questo proposito è significativo come, in nome del maggior rendimento della produzione industriale decentrata e autonoma e dell’osmosi diretta fra industria e agricoltura, i grandi capitani d’industria, come il Ford, coincidano con le aspirazioni degli operai e dei tecnici.

Non vi sarà bisogno d’altre citazioni e conferme, credo, per illustrare come l’insieme di queste aspirazioni, nell’articolazione complessa e vasta delle iniziative e dei mezzi multiformi, ponga e determini l’urbanistica americana secondo condizioni e soluzioni nettamente speciali. E si potrebbe continuare di questo passo citando altri esempi, da Kalun a Kharkow, da Lechtworth a Littoria; ma qui non si cerca l’abbondanza delle prove o dei riferimenti, ma soltanto quel che di essi è sufficiente per schiarire un concetto. D’altronde, si potrebbe far ricorso anche ad esempi assai più delimitati e parziali: mi limiterò a ricordare, a proposito della sistemazione del centro di Milano, alla quale il Calzecchi muove così appropriate e giuste critiche, che questo problema fu risolto in base a un concetto erroneo e impreciso, per allora e in seguito, che si ebbe dalla funzione della città e conseguentemente del suo «centro». A rileggere e a meditare ciò che scriveva il Cattaneo, quasi cent’anni fa, proprio su tal problema, ci si rende conto che la soluzione da lui proposta, mentre aveva per obbiettivo principale di risolvere un problema di ambiente architettonico, attingeva da considerazioni di natura economica dei limiti tali per cui, se anche tale soluzione fosse stata attuata, non avrebbe compromesso come la posteriore, lo sviluppo moderno, industriale e commerciale, della città. Giacché quella del Cattaneo non era una proposta - che allora era già stata fatta - di un centro permanente e determinante, ma di una semplice sistemazione intorno al monumento più significativo della città, il Duomo. Valutando bene le esigenze e possibilità attuali, si poteva poi incontrare con agio e libertà quelle probabili del processo storico; mentre le effettuazioni urbanistiche poi avvenute non ebbero (non conta che fossero proposte da professionisti architetti) che la giustificazione assai scarsa e di interessi privati, e di anacronistico prestigio, e di approssimativo estetismo.

Venendo alla seconda serie di esempi, sarà inutile distendervisi, dopo quanto si è detto finora. Grosso modo, parlando molto in generale come è lecito in questo caso, distinguiamo le forme di organizzazione sociale in due ipotesi-limite: chiameremo la prima, in cui si affermi particolarmente il principio di autorità dello stato, centrlistico-gerarchica, e la seconda, di criteri opposti, periferico-autonomistica. Nella concretezza della vita storica, non incontreremo forse mai forme così assolute e pure di socialità, naturalmente, per quanto elementi di esse compaiano su per giù in ogni Stato moderno; ma, come ripeto, a noi preme ora soltanto di persuadere che l’urbanistica non può prescindere dal fattore etico-politico, e perciò è lecito, nell’occorrenza, schematizzarlo. Non occorrerà spender parole per dimostrare che sia luna che l’altra di quelle possibilità di quelle possibilità di organizzazione sociale comporterebbero orientamenti e fenomeni (non solo nel campo strettamente politico, ma economico, amministrativo, culturale, privato, ecc.) tanto esclusivi quanto antitetici, e in ogni modo tali da implicare attuazioni urbanistiche, detto in senso più generale, altrettanto esclusive.

E’ chiaro allora che l’aspetto storico delle città, il traffico, il decentramento o l’accentramento, e simili, non hanno né possono avere quella autosufficienza generica che loro si conferisce (alla pari con tanti altri problemi e mezzi specificamente tecnico-esecutivi) nelle ordinarie trattazioni di urbanistica e nell’opinione comune. Essi acquistano significato e realtà soltanto in rapporto ai fattori etico-politici di cui sono espressione diretta; anzi, a parità di mezzi come a parità di problemi, le soluzioni urbanistiche - come si è anche storicamente mostrato - possono essere per questa ragione, nella loro essenza, diametralmente opposte.

L’Urbanistica non ha sempre fortuna in Italia.

Nell’epoca podestarile i piani regolatori erano un campo fertile per le esercitazioni e le improvvisazioni di estrosi amministratori, con dannose ripercussioni anche nel campo giuridico per la varietà e la discordanza degli indirizzi e delle norme delle singole leggi speciali di approvazione dei piani delle diverse città.

Vi era allora la comoda giustificazione della mancanza di una vera e propria legge urbanistica e della insufficienza della vecchia legge del 1865.

Per porre ordine in tanta confusione e per consolidare finalmente in un testo organico i principi giuridici e le norme procedurali e pratiche destinate a disciplinare questa complessa materia venne varata 1a legge 17 agosto 1942 che costituiva e costituisce ancora - salvo qualche necessario ritocco formale - un congegno giuridico e tecnico ben studiato ed atto a indirizzare e consolidare una dottrina ed una prassi urbanistica anche nel campo del diritto e della procedura.

Ma a questo punto intervenne la Costituente, la quale volle sancito nella nuova Costituzione il principio che la facoltà normativa nella materia urbanistica fosse delegata all’Ente Regione (art. 117).

Indulgendo alle tendenze del momento i nostri legislatori non si accontentarono di assecondare il legittimo desiderio della periferia di uno snellimento delle pratiche procedurali attraverso un decentramento delle funzioni esecutive, ma vollero senz’altro andare molto più in là impegnandosi anche sul terreno normativo.

Ammesso il principio che gli Enti regionali possono legiferare nel campo urbanistico ne deriva inevitabilmente una discordanza nella giurisprudenza e nella procedura che certamente non giova alla fondazione di una dottrina costante in una materia già di per sé nuova e incandescente e come tale non ancora entrata nella coscienza del pubblico, degli amministratori, dei magistrati.

Un piano regolatore non consta solo di vistosi disegni. Per dare esecuzione ad un programma urbanistico non bastano un bel progetto e della buona volontà. Occorrono pure norme di legge che consentano di modificare, nell’interesse superiore della collettività, situazioni di fatto e di diritto, imporre vincoli, limitare il diritto di proprietà o disciplinarne l’esercizio, conguagliare o compensare benefici e danni fra i singoli, riequilibrare insomma quel complesso di rapporti giuridici ed economici che dalla esecuzione di un piano viene alterato.

Se nel nostro Paese si consente ad ogni Regione di legiferare a suo talento è facile intuire quale confusione ne possa derivare e come ci si allontani dalla auspicata formazione di una coscienza o di un giure urbanistico. Né giova molto l’osservare che la legislazione regionale dovrà pur sempre ispirarsi alle direttive della legislazione nazionale, perchè, delle due, l’una o la facoltà normativa è circoscritta a puri oggetti di dettaglio, ed allora è destinata ad esaurirsi in essi, o tale facoltà incide anche nei principi informatori generali ed allora la confusione è inevitabile.

Qualche prima avvisaglia ci fa opinare per questa seconda ipotesi.

E già si profilano pure nuovi e maggiori sviluppi dei concetti sanciti dalla Costituzione.

Prima ancora che l’ordinamento regionale sia stato istituito, vi è qualche provincia che - valendosi della particolare situazione di alcune nostre regioni - già sta allestendo la sua legge urbanistica provinciale.

Ne ho sott’occhio una e, se debbo lodare l’impegno e la diligenza colla quale gli Amministratori provinciali hanno assolto il loro compito, non posso non esprimere la mia viva preoccupazione per il profilarsi di una situazione di cui non mi pare si siano sufficientemente considerati i pericoli.

La legge provinciale sull’urbanistica e sii piani regolatori di cui si tratta è accompagnata da un’interessante ed esauriente relazione nella quale senz’altro viene subito nettamente affacciato il problema che si erano posti i promotori della nuova proposta di legge e cioè : se fosse opportuno muoversi sulla linea della legge nazionale o se, traendo ispirazione, in piena libertà, da recenti sviluppi dottrinali e da esempi legislativi di altri stati (p. e.Svizzera e Inghilterra) si dovessero battere vie completamente nuove.

Nel caso attuale è prevalso il primo concetto: non pertanto il dilemma si è posto e si porrà domani a tutte le altre Province o Regioni, e non è da escludere che taluna di esse sia indotta ad abbandonare la linea della legge nazionale e sia proclive a trarre ispirazione in piena libertà dalle leggi di un altro stato vicino o lontano, orientale od occidentale, democratico o totalitario.

Inoltre vi è da domandarsi, anche dal semplice punto di vista dell’economia legislativa, quale convenienza vi sia nell’avere una legge urbanistica nazionale (la vigente del 1942 o quell’altra qualsiasi che il Parlamento Nazionale avesse il tempo e la buona volontà di varare) se ogni Regione o Provincia potrà con piena libertà non tenerne conto.

La nuova legge provinciale che ho sott’occhio, non arriva, come si è detto, all’abbandono delle direttive della legge nazionale, introduce però alcune modificazioni che non sono di semplice snellimento burocratico o di adattamento a situazioni locali, ma incidono nettamente in alcuni tradizionali istituti giuridici della nostra legislazione: per esempio nella materia delle espropriazioni per pubblica utilità.

Intanto si dichiara apertamente che le disposizioni della legge fondamentale dello Stato del 25 gennaio 1865 relativa alle espropriazioni per pubblica utilità saranno applicate finché la Regione non avrà diversamente provveduto e questa mi pare che sia una interpretazione molto estensiva e assai preoccupante delle facoltà che la Costituzione consente alla Regione.

Mi è difficile immaginare, in una materia tanto complessa e delicata e di fondamentale portata nei riguardi della concezione e della interpretazione del diritto di proprietà, quale è quella delle espropriazioni per pubblica utilità, una molteplicità di indirizzi, di principi e di norme variabili da regione a regione o da provincia a provincia del nostro Paese e mi auguro che ciò non sia mai.

Ma intanto la citata legge provinciale anticipa l’applicazione di criteri contrastanti colle leggi nazionali.

Cito il caso tipico della retrocessione dei beni espropriati e non adibiti allo scopo per cui l’espropriazione era stata chiesta ed ottenuta.

La retrocessione è ammessa dagli artt. 60 e 63 della legge 25 giugno 1865 e dall’art. 18 (ultimo comma) della legge 17 agosto 1942.

La legge provinciale in esame “avuto riguardo al permanente bisogno di beni immobili che hanno i Comuni, specie alla periferia, in vista di allargamenti edilizi attuabili in futuro, anche se finora impediti da circostanze particolari, e se riflette alle oscillazioni del valore della moneta per cui non sarebbe equa la semplice restituzione dell’area da una parte e del prezzo dall’altra” nega senz’altro il principio della retrocessione, sopprimendo nel proprio testo tutto ciò che a questo riguardo fa legge nazionale del 1942 stabilisce.

Nessuno è più di me convinto, e non da oggi, della opportunità di dare ai Comuni i mezzi per crearsi le necessarie dotazioni (impropriamente chiamate demani) di aree per agevolarne lo sviluppo, ma che l’abolizione del diritto di retrocessione - a parte le altre discutibili motivazioni giustificative sopra riportate - possa essere invocato anche a questo scopo in una legge locale in contrasto colle disposizioni delle leggi fondamentali dello Stato mi sembra assai pericoloso.

Che, se ciò fosse ammesso, si avrebbe il caos giuridico proprio in una materia estremamente delicata.

Il criterio autonomistico provinciale affiora anche là dove la nuova legge tratta dei piani territoriali.

In contrasto colle tendenze dei pianificatori più avanzati, che vorrebbero che i piani territoriali derivassero da un piano urbanistico nazionale, ed in difformità dalla legge del 1942, che demandava al Ministero dei lavori pubblici la compilazione di tali piani appunto in previsione di un coordinamento nazionale, la legge provinciale che stiamo esaminando stabilisce invece che l’iniziativa dello studio sia di stretta competenza della Giunta provinciale e che l’approvazione avvenga per deliberazione del Consiglio provinciale.

Essa non prevede neppure, in ordine al coordinamento nazionale, una preliminare intesa colle Amministrazioni statali interessate, come opportunamente prevede la legge del 1942.

E ciò è evidentemente assai poco prudente, perchè non è possibile lo studio di un piano territoriale (destinato ad inserirsi in un piano nazionale) senza un preliminare affiatamento con gli Organi Centrali aventi governo e gestione di strade, ferrovie, trasporti, acque, ecc., se non si vuoi ricadere negli errori lamentati nel passato ed ai quali le disposizioni della legge del 1942 miravano appunto a riparare.

La legge particolare, che abbiamo sott’occhio, introduce pure alcune varianti alla legge nazionale, che incidono sul contenuto stesso e sulle caratteristiche tecniche dei piani regolatori.

Essa abbandona ad esempio il concetto, stabilito dalla legge nazionale, che il piano regolatore generale di un Comune debba considerare la totalità del territorio comunale. Non è il caso di ripetere ancora i motivi per i quali gli studiosi di urbanistica hanno sempre sostenuto la necessità di una visione completa del problema urbanistico di un Comune, visione alla quale gli stessi limiti territoriali amministrativi costituiscono uno spazio troppo angusto. Il che non vuole affatto dire che tutta l’area del Comune debba essere urbanizzata e coperta di una ideale rete di strade e di isolati fabbricabili, bensì proprio l’opposto.

È solo la visione generale del piano che può garantire la non fabbricazione o una disciplinata e moderata fabbricazione rada fuori dalle aree urbanizzate. Il che non sembra essere stato rilevato dagli estensori del progetto di legge provinciale, che nella relazione scrivono: “La legge nazionale chiama piano generale quello che considera la totalità del territorio comunale; la città di X ... per avere un piano regolatore generale dovrebbe quindi estenderlo a tutti i sobborghi; egualmente per ogni nostro Comune rurale che sia provvisto di prati e boschi in montagna, il piano generale dovrebbe comprendere anche le zone dove un edificio non sorgerà mai”. Ma è appunto per garantire le caratteristiche di quelle zone nelle quali non debbono sorgere gli edifici che anche esse vanno comprese nel piano generale e come tali tenute sotto controllo dall’autorità comunale coi mezzi che la legge prevede e consente!

E così di articolo in articolo noi vediamo smantellata da questa legislazione locale l’edificio giuridico della legge urbanistica nazionale.

Basti ricordare ancora che la legge provinciale, che stiamo scorrendo, modifica persino le sanzioni penali stabilite dalla legge del 1942, cosicché entro il territorio dello Stato italiano, la medesima infrazione può avere sanzioni penali diverse solo che si valichi la molto simbolica linea di un confine provinciale.

Ci permettiamo di fare queste osservazioni non tanto come critica specifica del progetto di legge che ci è occorso di esaminare, quanto per segnalare dubbi e pericoli di portata più generale.

Più sopra abbiamo riportato il richiamo che gli estensori della nuova legge fanno alla legislazione svizzera. Non so a quale legge cantonale intendessero richiamarsi perchè in Svizzera la legislazione urbanistica è di competenza cantonale.

Ma proprio nel recente Congresso di Rabat della Unione Internazionale Architetti furono i nostri colleghi svizzeri a segnalare la situazione difficile, di fronte alle necessità della vita moderna, derivante alla Svizzera dalla molteplicità della sua legislazione urbanistica, ad auspicare la formazione di una unica legge federale ispirata ai concetti unitari degli altri Stati europei.

È per lo meno strano che proprio noi che siamo arrivati, attraverso un lungo periodi di studio e di discussioni, alla formulazione di una legge organica nazionale, si faccia ora un passo indietro, ritornando ad un particolarismo locale che è inconciliabile coi moderni indirizzi urbanistici, intesi ad una visione sempre più vasta organica e generale dei problemi della viabilità, dei trasporti, delle abitazioni, delle industrie e della difesa delle caratteristiche e delle risorse locali, che formano l’essenza dell’urbanistica.

Soprattutto preoccupa la deleteria influenza che le deviazioni particolari possono esercitare sul consolidarsi della tecnica, del diritto, del costume nel campo urbanistico.

Pensiamoci fin che siamo in tempo.

Nota: in questa stessa sezione "Testi per un Glossario" sono disponibili altri scritti di Cesare Chiodi (fb)

Titolo originale: Town-Planning - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sotto i migliori auspici, si è svolta questa settimana a Londra un’importante conferenza sull’Urbanistica. L’incontro è stato organizzato dal Royal Institute of British Architects, e lo sforzo è stato, crediamo, commisurato alle migliori tradizioni dell’Istituto. Anche se non si tratta in senso stretto del nostro campo, visto che l’urbanistica è, nel miglior senso del termine, questione di interese generale, crediamo ci sia consentito qualche commento in materia.

A guardare la grande, sbalorditiva raccolta di disegni appesi alle pareti della Burlington House, appare evidente come gli urbanisti possano essere classificati grosso modo come orientati a due linee particolari di lavoro. Alcuni concentrano i propri sforzi nell’abbellimento, trasformazione, glorificazione delle città esistenti; i membri dell’altro gruppo si applicano ai più quotidiani bisogni della gente. Se quest’ultima categoria è di origine relativamente recente e concentrata nelle nazioni di cultura Occidentale, per quanto riguarda la prima non c’è nulla di moderno. Si tratta semplicemente dello sviluppo moderno di un movimento, talvolta sbilanciato verso l’utilitarismo, talvolta verso lo spettacolare, che esiste dall’alba dei tempi.

L’ambizione dei moderni appartenenti a questa classe che aspirano a distinguersi, è di produrre piani generali che partono da un grande punto centrale, o da una serie di centri interconnessi. Questa idea è vecchia quasi come il mondo. Con tutta probabilità, il primo congresso di urbanistica di cui sono disponibili gli atti è quello tenuto “in una pianura nella terra di Shinar”, in cui la principale risoluzione prese forma nelle parole “Andiamo, e costruiamo una città e una torre ...”. Lo scopo principale di questa torre, richiedeva fosse facilmente accessibile da tutte le parti della città, così si può dedurre che le strade dovevano irradiarsi da essa in tutte le direzioni. È evidentemente un piano dominato da un elemento centrale, e il prototipo di molte delle idee di oggi. Ma questo movimento democratico originario non ebbe successo, e di conseguenza, fino a tempi relativamente recenti, l’urbanistica come movimento popolare rimase dormiente. Il lavoro comunque non si fermò, ma divenne, anziché movimento popolare, interesse per pochi.

Ci sono testimonianze di tentativi coronati dal successo, di fare urbanistica su grande o piccola scala in ogni parte del mondo: magnifiche concezioni di grandi menti, spesso realizzate in modo tanto grandioso da rimanere ancor oggi oggetti di ammirazione. I tesori degli imperi Greco e Romano spiccano, forse, più in alto, e formano i resti di piani che, tenendo conto delle condizioni dell’epoca in cui si sono evoluti, erano probabilmente insuperabili. Le prodigiose idee dell’Antico Egitto sono fonte incessante di meraviglie. E gli esempi non si limitano a queste terre. Hanno avuto spazio in tutti i paesi dove ha posato piede la civiltà. Nonostante il piano di tipo Orientale di regola sia organizzato da un differente punto di vista e il risultato di conseguenza radicalmente diverso da quello Occidentale, alcuni degli esempi dell’Est sono comunque magnifici. Nei resti di Fatehpur Sikri, la grande creazione di Akbar, il cui desiderio era di farne una capitale degna delle pompe di corte, ci sono alte concezioni, che pochi uomini oserebbero tentare di mettere in pratica. Il felice trattamento del forte a Agra, l’area circostante il Taj Mahal, o i domini della moschea di Aurungzeb a Benares, sono ciascuno a modo proprio dei successi. Nelo stesso modo, la China può vantare grandi risultati, mentre il Giappone mostra nelle varie epoche città di grande splendore, pianificate in modo pratico e realizzate durante il breve periodo della vita di singoli promotori. Per esempio, Kamakura, costruita dal grande Shogun Yoritomo, era famosa per la sua magnificienza tanto quanto Osaka, realizzata più tardi dall’eroe nazionale, Hideyoshi, e famosa per la sua dimensione e i grandiosi edifici. Ma col passare del tempo e l’ascesa e declino delle dinastie, queste città, originate e realizzate per il capriccio di dittatori, sono o completamente cambiate in carattere, o hanno seguito la sorte dei loro grandi fondatori. La solidità dell’Egitto sta sepolta in un sudario di sabbia e macerie. Le glorie di Babilonia e Ninive sono svanite. I palazzi dell’India sono deserti. L’imponente splendore della corte di Akbar, per qualche ragione mai scoperta, si ritirò dalla città su cui aveva riversato tanta copia di pensieri, già durante la vita del suo fondatore, e ora il luogo è silenzionso come il suo mausoleo a Sikundra. Dell’orgoglio di Kamakura resta poco più di qualche viale, e il famoso Daibutsu, mentre le glorie di Osaka ora sono coperte dalla più vasta messe di ciminiere che si possa trovare in un paese dell’Oriente.

Ma se molte famose opere sono ora relegate nell’oscurità, lo spirito dura ancora. Anche se non arriva da padroni oppressori, o da despoti benevoli, la pianificazione su vasta scala è ancora un lavoro apprezzato. La modificazione delle città esistenti attrae gli architetti tanto quanto la progettazione di nuove, e apre un campo tanto vasto da non porre alcun limite all’immaginazione. È una cosa abbastanza facile riprogettare, per esempio, tutta Londra su un tavolo da disegno, cancellando con una gomma tutte le zone congestionate, e disegnare al loro posto ampi viali fiancheggiati da imponenti masse di edifici. È piuttosto facile sognare grandi prospettive, o lasciar vagare la fantasia a risistemare parchi e rive. Questi esercizi sono interessanti, ma non sono in nessun modo una cosa nuova; solo a Londra se ne sono fatti innumerevoli. I suggerimenti di Wren da questo punto di vista sono ben noti, e i piani elaboratamente concepiti da Sir John Soane per abbellire la Metropoli sono ancora conservati al museo di Lincoln’s Inn Fields. Ma i progetti di Soane fecero la stessa fine di altri, precedenti e successivi, e per la stessa ragione. La trasformazione della città è soprattutto un problema di spesa, e gli aspetti pratici di qualunque proposta devono necessariamente essere considerati. Nei tempi antichi non era difficile emanare un editto che ordinava, se necessario, la spietata distruzione di interi quartieri, se stavano ad ostacolare trasformazioni che qualche signore aveva preso a cuore. Oggi le cose sono diverse. Bisogna prendere in considerazione il trasferimento degli abitanti, e l’intero piano deve essere organizzato con dovuta attenzione alle proprietà. Non mancano certo, esempi di miglioramenti che diventano alla fine un problema, e di errori di giudizio simili commessi da importanti uffici.

Nelle questioni di riforma urbana, sembra operino due scuole di pensiero. Qualcuno sarà orientato ad ottenere strade ampie e dritte, e per questo scopo, nel suo sognante entusiasmo, si scaverà un percorso (sul tavolo da disegno) attraverso aree edificate, senza riguardi per le spese, col solo obiettivo di ottenere una “bella prospettiva” che termina in un capolavoro di architettura monumentale. Qualcun altro, insisterà sulla conservazione degli edifici antichi, con l’opinione che non si tratti mai di ostacoli allo sviluppo, salvo che nella mante di chi li considera tali. Il Professor Baldwin Brown chiama i piani del primo tipo “ clean slate and paper projects”, e crede che i monumenti storici debbano essere il punto centrale, con i piani a svilupparsi attorno ad essi. Qui, naturalmente, siamo di fronte alla discussione su cosa sia un monumento storico. Nelle grandi città, ci possono anche essere le condizioni per avere un’opinione esperta sul tema, ma cosa possono fare le piccole? Non esiste un’autorità centrale per giudicare, e gli amministratori locali, per quanto possano essere persone di valore, nella maggior parte dei casi non hanno alcun concetto dei valori archeologici, né degli aspetti artistici. Probabilmente, è per dare un aiuto in questi casi che Mr. Leonard Stokes, Presidente della Royal Institution of British Architects, negli ultimi giorni, ha sostenuto l’idea del despota benevolo che direbbe: “È cosa giusta, e sarà fatta”, o “Diventerà necessario fra non molto, e bisogna provvedere”. Nei progetti famosi del passato, il responsabile è stato in gran parte un singolo individuo. Ora, soffriamo il mescolarsi di molte e non allenate personalità. Nei tempi passati, gli urbanisti erano gli stessi signori: uomini di grandi idee. Ora quel lavoro è lasciato alle decisioni di uomini comuni. Un tempo i “si” e i “no” dell’urbanista erano assoluti, ma chi troverebbe un censore in grado di misurarsi coi bisogni moderni? Ma di un’autorità del genere esiste il bisogno quando, in mancanza di cognizioni e gusto, le città diventano tanto orribili nel cosiddetto interesse della comunità.

Il desiderio di una lunga prospettiva spesso supera, nei piani degli entusiasti, altre considerazioni che dovrebbero avere un certo peso. E spesso il rischio è di esserne poi travolti. Qui a Londra, che tanto spesso è oggetto di piani di trasformazione, l’atmosfera della città non è molto adatta a magnifiche lontananze. Le brevi distanze qui vanno molto lontano, e se le strade ampie sono da apprezzarsi in qualunque modo, l’idea che ne ha di solito l’artista o architetto assorto nella creazione sul suo tavolo da disegno può essere molto diversa da quella, pratica, di quello che è “l’uomo della strada”. Una via diritta può perdere la sua bellezza se è troppo lunga, e nello stesso modo non è possibile obiettare a nessun cambio di direzione, se è ben studiato. Se una curva è organizzata a largo raggio, e chiamata “ fine sweep”, può anche essere accettata da i più esigenti, come una delle migliori scelte d’effetto. Si può osservare, come spesso si fa, che la strada dritta è la migliore perché rappresenta quella più breve fra due punti dati. Ma questo è vero solo quando accade che i due punti si trovino sulla strada in questione. Come ognuno sa, le città degli Stati Uniti sono organizzate per blocchi rettangolari senza, di solito, nessuna strada diagonale. L’idea è la semplicità in persona. Non c’è niente di più facile per ricordarsi le direzioni: “Tanti isolati dritto e poi tanti isolati a destra o a sinistra”. Ma non ci sono scorciatoie, bisogna sempre aver a che fare con i due lati di un triangolo, e da qui deriva l’uso frequente del tram, da e per il centro, con il suo biglietto a tariffa urbana, per distanze che noi ci vergogneremmo di percorrere se non a piedi.

Oggigiorno, gli Stati Uniti si vantano di possedere una scuola di progettazione urbana in cui la pianificazione spettacolare di ampi spazi è paragonabile solo alle dimensioni del paese. Non si esita davanti alle più radicali trasformazioni, e non sono rari i piani per la completa riforma di intere città. Sulle pareti della Burlington House si possono ora vedere disegni provenienti dall’America, su spazi progettati e rappresentati su questa immensa scala. Come esempi di abilità in entrambe queste direzioni, i disegni sono piuttosto eloquenti, e di particolare efficacia quelli di Mr. Jules Guerin. Qui, la Chicago che sarà giace distesa ai nostri piedi, con magnifiche strade e viali, una superba costa a parco, con ampie propaggini protese dentro il lago a formare il porto. Questa scala di progettazione, bisogna ammetterlo, non deve sorprendere in un paese dove si intraprendono ricostruzioni come quelle delle stazioni di New York.Per apprezzare in pieno le proposte in mostra alla Burlington House bisogna avere una visuale a volo d’uccello sulla città. Pochi, al livello del suolo, potrebbero sperare di cogliere l’idea. Un’idea grandiosa, ma dopotutto le belezze dovrebbero essere anche commisurate in qualche modo alla nostra vita. Quando le cose diventano troppo vaste sono anche un po’ noiose, e all fine opprimenti.

Se questi piani si devono valutare a volo d’uccello (un punto di vista che, nella vita, pochi uomini sono in condizione di sperimentare) perché la loro bellezza possa dispiegarsi, Mr. J. Burns dovrebbe farci salire in cima al Monument per vedere quanto siano brutte certe parti di Londra. La postazione è certamente ottima per alcuni scopi, ma se si deve riprogettare Londra perché appaia bella sia sopra che sotto il livello del terreno, oltre che dall’alto, non è necessaria solo un’ideale lavagna pulita, ma prima di qualunque altra cosa gli architetti dovrebbeo imparare daccapo come confrontarsi con coperture e retri, cortili e camini, per cui ora non si fa niente di utile. Non c’è dubbio, che si possa far molto per rendere Londra migliore, più bella, più adatta ad una vita sana, ma cosa sia meglio fare è difficile da decidere. È facile parlare in generale, raccomandare l’abolizione delle stazioni di testa dalla zona della Metropoli, o la soppressione dei viadotti ferroviari, l’apertura di ampie strade, e via dicendo. Ma questi, e altri piani di maggior utilità, sono possibili sono spendendo grosse cifre di denaro pubblico, la cui erogazione non può avvenire senza la garanzia di adeguati ritorni. La ri-pianificazione (sic) delle città esistenti può anche essere un problema relativamente facile, per gli architetti. Nella pratica, le possibilità di ricostruzione sono limitate dalla capacità delle amministrazioni di sostenere il relativo carico economico. Le strade ampie da sole non risolvono il problema. La famigerata Bowery di New York è un po’ difficile da definire come ampia via, e il nostro East End fornisce un esempio simile di grandi strade progettate su ampia scala, e fiancheggiate da case in cui le condizioni di vita sono ben lontane dagli ideali a cui mirano i riformatori urbani.

Detto questo, bisogna aggiungere che è stato fatto molto a Londra in termini di ricostruzione, e che molte altre città d’Inghilterra sono eminenti esempi sia di pianificazione generale che di ri-pianificazione; ad esempio, Bath, che può vantarsi di una vasta e illuminata progettazione. Ma molto resta ancora da fare. Non si potrebbe forse trovare una città più adatta per incominciare, di quella resa familiare da George Eliot col nome di St. Ogg’s. A St. Ogg’s le strade non sono che una serie di strettoie, tortuose e squallide, mentre nascoste all’interno giacciono, fra spianate terrose e mattoni sgretolati, stanno se non gemme di architettura almeno tesori archeologici, in forma di antiche sale che risalgono ai tempi di John of Gaunt, o come dice qualcuno a epoche precedenti, Normanna o Sassone.

Qualche volta, l’opportunità di una ricostruzione può venire da una grave calamità. Casi di questo tipo sono numerosi, anche ai tempi nostri. L’occasione però, bisogna ammetterlo, non sempre è stata colta. Ma di regola una ricostruzione può procedere solo lentamente e con cautela. D’altra parte, le aree urbane esterne sono più plasmabili nel verso giusto, e qui si dovrebbero incoraggiare le costruzione secondo linee salubri e di ampie vedute. Quando si pensa che, secondo Mr. J. Burns, ogni quindici anni in questo paese si aggiungono aree urbane per una dimensione pari a quella del Buckinghamshire, si capirà l’importanza di questo problema. Si è iniziato un movimento salutare, e in questo non siamo secondi a nessuno nel Continente negli sforzi per offrire agli abitanti un ambiente di vita migliore. Gli esempi di questi sforzi appesi alla pareti della Royal Academy, sono vari. Comprendono le città giardino d’England, e per l’estero si va dal progetto per Kalgoorlie agli schemi della nuova Khartoum, da Prince Rupert in Canada ai Cinnamon Gardens di Colombo, alle periferie di Singapore. E se chi ne è in grado sta per essere fornito di un ambiente migliore e più aperto che in passato, per la vita di uomini e donne, è anche giusto che chi non sa farlo da solo sia assistito in una direzione simile. Quindi è del tutto coerente con gli ideali del movimento, se sulle pareti della Burlington House appaiono progetti per una città giardino dei ragazzi. Questa idea, ora sviluppata in pieno, è il risultato di una lunga esperienza al villaggio per ragazze del Dr. Barnardo a Barkingside. Il nuovo villaggio per ragazzi consisterà di 28 case su 20 ettari di terreno a Woodford Bridge (un contrasto, rispetto ai grandi isolati della Stepney Causeway). Il progetti sono dell’architetto W. A. Pite, che ha così avuto il privilegio di ideare uno dei migliori villaggi giardino in corso di realizzazione. Il piano merita successo, perché ad esempio invece di cambiare vita quando le abitudini sono già formate, si parte già da giovani con un’idea nuova, e nessuno dubita che salutari principi di vita possano essere instillati nei giovani che vivono in un ambiente del genere, piuttosto che nell’East End di London, facendoli così cittadini migliori di quanto avrebbero altrimenti avuto la possibilità di essere.

Nota: La versione originale di questo testo (insieme a molti altri preziosi contributi storici) è disponibile al sito gestito dal professor John Reps alla Cornell University . Per qualche comparazione, storica e non, consiglio di vedere, almeno su questa stessa sezione di Eddyburg, i testi di Patrick Abercrombie del 1910 su Chicago e Washington, e l'excursus storico-urbanistico nella "voce" enciclopedica curata da Giovanni Astengo (fb)

La calunnia è un venticello

La calunnia è un venticello

Un'auretta assai gentile

Che insensibile sottile

Leggermente dolcemente

Incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

Sotto voce sibilando

Va scorrendo, va ronzando,

Nelle orecchie della gente

S'introduce destramente,

E le teste ed i cervelli

Fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

Lo schiamazzo va crescendo:

Prende forza a poco a poco,

Scorre già di loco in loco,

Sembra il tuono, la tempesta

Che nel sen della foresta,

Va fischiando, brontolando,

E ti fa d'orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

Si propaga si raddoppia

E produce un'esplosione

Come un colpo di cannone,

Un tremuoto, un temporale,

Un tumulto generale

Che fa l'aria rimbombar.

E il meschino calunniato

Avvilito, calpestato

Sotto il pubblico flagello

Per gran sorte va a crepar.

Cesare Sterbini

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