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Premessa

Quelli che seguono sono i materiali di una lezione che ho tenuto al Corso per funzionari pubblici ”Conoscere e ripensare per ripensare e pianificare”, organizzato a San Pietro di Casale dal Dipartimento di pianificazione dell’Università Iuav di Venezia.

Il tema che mi era stato assegnato ha costituito anche - nella ricchezza della sua articolazione – la scaletta della mia lezione. Questa si è sviluppata nei seguenti passaggi.

Ho riassunto prima il breve panorama della recente legislazione regionale (dalla lex Toscana 1995 alla lex Calabria 2002), illustrandone quelli che a mio parere ne sono i principali elementi innovativi, sulla base delle pagine raccolte nella prima parte di questo testo.

Ho cercato poi di ragionare su quali siano le strategie territoriali che le nuove leggi consentono di definire e di praticare e quali siano, a questo proposito, i limiti di una pianificazione urbanistica non correlata agli altri strumenti necessari per il governo del territorio. Su questa parte dei materiali che avevo preparato sono poi tornato successivamente, integrando la seconda parte del testo che segue.

Mi sono infine interrogato su quali siano le nuove relazioni tra soggetti che le nuove leggi prefigurano e in relazione alle quali forniscono strumenti (nuovi o reinterpretati), esaminandoli in rapporto ai diversi tipi di soggetti e alla gerarchia tra di essi. Per questa terza parte della lezione ho utilizzato alcuni paragrafi nei nuovi capitoli del mio Fondamenti di urbanistica, la cui quinta edizione aggiornata sarà in libreria alla fine di novembre 2003..

La recente legislazione regionale

[omissis]

Nuove strategie territoriali

Che vuol dire strategie territoriali

Partiamo dalla parola: Strategia

In Italia, e soprattutto nel nostro mondo, spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deforma il significato, i contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jaques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche Bassanini usi quel termine per dire “privato è meglio” turba i suoi estimatori. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo significato reale.

Così per “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.

Sappiamo che è un termine relativo all’ìarte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia.

La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).

Leggiamo qualche testo recente, non dell’arte militare ma di quella aziendale.

In termini concreti, occorre sviluppare piani temporali di lungo periodo, da cui ricavare tattiche di medio e breve periodo come guida per l'operatività quotidiana (pianificazione a ritroso). Ad esempio, se un obiettivo di lungo periodo è dato dal passaggio in 5 anni da 250 milioni a 5 miliardi di fatturato sul mercato tedesco, da esso derivano accordi e appuntamenti con strutture distributive, partecipazione a fiere, visite e ispezioni di mercato le quali andranno calendarizzate a partire dal giorno dopo [2].

Mi sembra una definizione chiara, coerente con quella originaria del termine. Ma vediamo anche un’altra definizione, applicata questa volta alla pianificazione: una definizione di “pianificazione strategica”.

Pianificazione strategica: un po’ di confusione

Vediamo una prima definizione, che proviene da un istituto specializzato, il FORMEZ.

La Pianificazione Strategica è "una disciplina che addestra all'impiego di metodi mirati a migliorare la razionalità delle decisioni (o delle azioni) nella gestione sistematica ed integrata degli affari pubblici".

Essa rappresenta un modo nuovo di concepire la gestione degli affari nella Pubblica Amministrazione, basato sulla razionalità delle decisioni. Una decisione è razionale quando è coerente con i suoi obiettivi e compatibile con le possibilità e i vincoli esistenti e/o con i mezzi a sua disposizione.

Essa costituisce il fulcro di quella "riforma" che è alla base di una "nuova gestione pubblica" ("new public management"), che vede l'introduzione nella Pubblica Amministrazione di una programmazione (o pianificazione) "strategica" fondata sulla realizzazione di qualsiasi intervento secondo "programmi"[3].

Questa definizione mi sembra molto più pasticciata. Fa coincidere, sostanzialmente, strategico con razionale. Significa svuotare del tutto il senso.

A Barcellona

Più interessante, e più coerente col significato reale del termine “strategia”, è l’interpretazione della pianificazione strategica che hanno dato a Barcellona.

Il 9 dicembre 1987 il Comune di Barcellona con una conferenza stampa comunicava ai propri cittadini un progetto per rilanciare il ruolo economico della città. Punti salienti di tale approccio erano l´applicazione di cicli economici alle città, la necessità di affrontare la sfida di un "cambiamento duraturo"e la straordinaria importanza per la città di un evento come le Olimpiadi del 1992. Ma la Barcellona delle Olimpiadi avrebbe continuato a vivere anche negli anni successivi, nel 2000, 2001, 2002 e di conseguenza come sarebbe stato possibile garantire una continuità di sviluppo? [4]

Si trattava, insomma, di vivere gli episodi contingenti (nel caso specifico, le Olimpiadi previste per il 1992) non come evento singolare, ma come tappa di un processo finalizzato a orizzonti più vasti: strategici, insomma. Si trattava di vivere la contingenza non fine a se stessa, ma come evento tattico di una strategia. Per fare ciò, occorreva delineare la strategia prima di affrontare l’episodio tattico. Ecco perchè decisero di utilizzare lo strumento della pianificazione strategica, che “era un concetto noto in ambito militare ed imprenditoriale ma pressoché sconosciuto nella sua applicazione a livello urbano”. In realtà

Prima di quella data esistevano soltanto gli schemi - divenuti obsoleti - della pianificazione indicativa oppure i piani regolatori tradizionali. […] L´aspetto innovativo della pianificazione strategica consisteva nella capacità di far comprendere ai cittadini che il futuro di una città non avrebbe avuto un andamento lineare, bensì sarebbe stato il risultato di un sistema complesso di relazioni tra i cosiddetti agenti economici e sociali presenti sul territorio. Tali relazioni poggiavano da un lato sul consenso necessario per realizzare determinati obiettivi, evitando il libero gioco dell´improvvisazione e le impostazioni aleatorie a fronte dei cambiamenti ambientali, e dall´altro sulla partecipazione e la complicità dei cittadini. In sostanza l´obiettivo si sarebbe potuto realizzare solamente grazie alla definizione di una visione "condivisa" della città, che sarebbe potuta diventare realtà attraverso un piano di obiettivi e azioni [5].

Per concludere su questo punto

Per concludere su questo punto, direi che il concetto di strategia, nel campo del territorio e del suo governo, ha a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro.

Ma assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da ujn regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso.

Al consenso e al modo di costruirlo accenneremo più avanti. Adesso domandiamoci quali scelte scaturiscano dalle recenti legislazioni urbanistiche regionali in termini di contenuti strategici.

I contenuti delle scelte strategiche sul territorio

Le risorse territoriali

Mi sembra che la maggior parte delle leggi urbanistiche regionali attribuiscano un ruolo centrale al’esigenza di impiegare nel modo più razionale le risorse del territorio: quelle elementari e basilari (l’acqua, il suolo, l’energia, l’aria, la vegetazione) e quelle costruite dalla storia (il paesaggio, i centri e i manufatti storici, le riserve archeologiche, l’armatura urbana). Qualche accenno si trova anche alle risorse immateriali.

Il modo più razionale in relazione sia agli impieghi attuali (alle necessità della generazione presente) che agli impieghi futuri (alle necessità delle generazioni future. In questo senso, la maggior parte delle leggi si riferisce alla parola (e, si deve credere, anche al concetto) di sostenibilità.

Evidenti sono le ragioni di ciò.

1. la consapevolezza del loro valore intrinseco delle risorse (per la sopravvivenza biologica, per la salute, per la sicurezza, per la memoria, per la cultura, per il piacere) e dal rischio posto dalla non riproducibilità.

2. la consapevolezza del fatto che il mercato (arbitro esclusivo di tutto ciò che avviene fuori dall’ambito del government) non riconosce quel valore delle risorse, e quindi – ove le risorse siano lasciate sotto il suo esclusivo dominio –quel loro valore rischia di essere distrutto.

3. la consapevolezza del fatto che l’utilizzazione ragionevole e lungimirante delle risorse territoriali esige decisioni regolative e politiche territoriali di lungo periodo, tale essendo l’arco temporale necessario a incidere duraturamente su di esse.

Lo sviluppo economico

Le linee “strategiche” dello sviluppo economico sono ovviamente fondamentali per definire gli scenari territoriali. Le trasformazioni territoriali sono finalizzate agli usi delle sue varie parti, e questi sono in qualche modo funzionali al carattere della vita economica e sociale. Le risorse necessarie alle trasformazioni sono una delle componenti della spesa, pubblica e privata, la cui ampiezza è condizionate dalla situazione economica. E il modo stesso in cui vengono impiegate le risorse territoriali condiziona lo sviluppo economico. Non ci si pensa mai, ma facilitare gli afflussi di investimenti nei settori ad alta intensità di rendita significa scoraggiare gli afflussi nei settori ad alta intensità di profitto.

Ciò detto, la capacità di trovare una sintesi adeguata tra l’esigenza dello sviluppo economico e quella di garantire un uso sostenibile delle risorse territoriali è il vero banco di prova della efficacia delle politiche territoriali omnicomprensive (come la pianificazione strategica ha l’ambizione di essere). Diffiderei fortemente di una pianificazione strategica nella quale si trovi subito, e facilmente, un accordo, una sintonia tra quelle due esigenze. Sospetterei che quella pianificazione strategica si riducesse a una serie di affermazioni generiche.

Il vero problema è che lo sviluppo economico che abbiamo conosciuto negli ultimi secoli è uno sviluppo che ha divorato risorse territoriali restituendo pochissimo: è stato assolutamente in-sostenibile. (I francesi invece di sostenibile dicono durable, durevole. Possiamo dire che l’attuale sviluppo è non-durevole, destinato a non durare, a spegnersi e morire).

Si è parlato di “riconversione ecologica dell’economia”[6]. Oggi si parla di “modernizzazione ecologica dell’economia”. La illustra Edo Ronchi, a proposito del World Summit di Johannesburg (4 Settembre 2002):

La più importante novità di Johannesburg ritengo sia proprio la rilevanza attribuita al cambiamento dei modelli di produzione e di consumo insostenibili, cambiamento collocato tra i tre obiettivi e presupposti fondamentali dello sviluppo sostenibile.[…] In linea generale viene proposto di “sviluppare politiche di produzione e di consumo che migliorino i prodotti ed i servizi forniti riducendo gli impatti sull’ambiente e sulla salute”, aumentando notevolmente l’ecoefficienza, in modo da poter fare di più e meglio, per far fronte ai bisogni di tutte le popolazioni della Terra, con minor consumo di risorse naturali e minore inquinamento.

Si afferma, inoltre, che occorre “aumentare notevolmente e con urgenza la quota globale delle fonti di energia rinnovabile”, insieme ad “un uso più efficiente dell’energia” e ad “un’accelerazione delle tecnologie ad alta efficienza energetica”.

Per i trasporti, altro settore strategico, il Piano indica la necessità di avere trasporti “accessibili, efficienti e comodi”, con tecnologie veicolari, modalità e destinazioni d’uso del territorio che consentano di migliorare la qualità dell’aria delle città e di ridurre l’emissione di gas-serra, nonché la congestione del traffico.[…]

Il terzo settore nel quale viene posta l’attenzione del Piano di Johannesburg riguarda i consumi di materiali per i quali si richiede di “minimizzare e prevenire gli sprechi e massimizzare il riutilizzo, il riciclaggio e l’uso di materiali ecocompatibili…..per minimizzare gli effetti nocivi sull’ambiente e migliorare l’efficienza delle risorse”. l che comporta, tra l’altro, di “promuovere la prevenzione e la minimizzazione dei rifiuti incoraggiando la produzione di beni di consumo riutilizzabili e di prodotti biodegradabili”, nonché “costruire sistemi di gestione dei rifiuti dando la massima priorità alla prevenzione ed alla minimizzazione dei rifiuti, al riuso ed al riciclaggio….”.

Infine, l’attenzione viene posta sui prodotti chimici ed i rifiuti pericolosi, che vengono generati in grandi quantità e diffusi praticamente in tutto il Pianeta, per i quali si richiama la necessità di applicare il principio di precauzione[7].

Mi sembra che la definizione di “modernizzazione ecologica” che emerge da questa esposizione (certamente corretta) del “piano di Johannesburg abbi però un limite. Parla ci correttivi da applicare all’attuale assetto della catena produzione-consumo. A me sembra che nel mirino si dovrebbe porre anche la questione del che cosa produrre, per quale consumo.

A me sembra che l’unica modulazione del tema dello sviluppo economico nell’ambito di una pianificazione strategica non evasiva né contraddittoria con l’opzione ambientalista sia quella che assume in pieno la tensione implicita nell’espressione “modernizzazione ecologica dell’economia”. Non è una direzione di marcia facile, ma è l’unica coerente con la nozione di lunga durata, che è componente essenziale della dimensione strategica della pianificazione.

Le esigenze urbane

Il territorio è il luogo di una economia, ma è prima ancora il luogo di una società. Allora sono le esigenze della società (dell’uomo in quanto membro di una collettività) che devono comparire con evidenza nei contenuti della pianificazione e nutrire la sua dimensione strategica.

Dell’uomo in quanto membro di una collettività: infatti è questa la dimensione dell’uomo che ha dato luogo alla città, e a quel ramo del sapere che dalla città prende nome. La città è nata per soddisfare bisogni che l’uomo e la sua elementare aggregazione non riusciva a soddisfare (o soddisfare in termini funzionalmente, economicamente e politicamente adeguati). La pianificazione è nata per conferire ordine, funzionalità e bellezza alle trasformazioni necessarie per soddisfare quelle esigenze. Ed essa si è allargata dalla città al territorio (dalla pianificazione urbanistica alla pianificazione territoriale) quando quelle stesse esigenze hanno richiesto l’impiego di risorse territoriali anche fuori dalla stretta cerchia delle mura urbane.

Tra trutte le esigenze (l’abitazione, la scuola, la salute, la cultura, la ricreazione ecc.) mi sembra che quello che più ponga problemi ed esiga attenzione, nella prospettiva strategica, sia quello della mobilità e dell’accessibilità. Ciò per almeno due buone ragioni.

Perché il modo in cui è oggi soddisfatta l’esigenza della mobilità rappresenta una delle più vistose componenti dell’insostenibile dissipazione di risorse che caratterizza la nostra epoca, e che minaccia la sopravvivenza della nostra civiltà.

Perché modificare questo modo, e costruire un sistema di localizzazioni e di modalità di trasferimento compatibile con l’imperativo di usare parsimoniosamente le risorse e con l’altro imperativo di garantire accessibilità adeguata, richiede un impegno di vastissima portata, quindi veramente strategico.

Quali strumenti per una strategia territoriale

Gli strumenti tradizionali

Fino a non molti anni fa, nel nostro paese gli strumenti che venivano utilizzati per delineare una strategia territoriale erano o gli strumenti urbanistici (e in particolare quelli d’area vasta), o i documenti politici. In generale, esclusivamente regolativi i primi, meramente esortativi i secondi. Con questi due atributi non intendo dare alcun valore negativo né agli strumenti urbanistici né ai documenti politici (rinnegherei quarant’anni della mia vita), solo indicare i limiti di entrambi quegli strumenti.

Una parentesi interessante si è avuta agli albori dell’avvio dell’ordinamento regionale, quando gruppi di esperti, attorno alle sedi decentrate del Ministero dei LLPP (i Provveditorati regionali alle OOPP), in collaborazione con il neonato Ministero della programmazione economica, diedero vita ai Comitati regionali per la programmazione economica (CRPE) con il compito di “articolare territorialmente la programmazione economica. Tra il 1965 e il 1970 i CRPE fecero un consistente lavoro di analisi, di definizione di scenari, di definizione di progetti territoriali. In molte regioni fu i primo tentativo di definire una identità regionale.

Abbandonata la programmazione economica (prima a livello nazionale, poi nelle regioni) un nuovo tentativo di saldare tra loro i vari momenti e le varie dimensioni di una prospettiva strategica del territorio può essere considerata l’Agenda 21 Locale. Parte dall’esigenza di fare i conti con l’ambiente, ma è passibile di sviluppi interessanti.

L’Agenda 21

Vi parlerò dell’Agenda 21 utilizzando un testo molto chiaro e intelligente[8].

L’Agenda 21 nasce in una sede internazionale

Nel giugno del 1992 il grande Summit della Terra delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), ufficializza definitivamente la concezione dello sviluppo sostenibile a livello internazionale, sottoscrivendo un ampio documento definito “Agenda 21” (un Agenda di azioni per il 21° secolo) dove, in 40 capitoli, vengono tratteggiati gli elementi essenziali per far imboccare a tutte le società umane la strada di una sostenibilità del proprio sviluppo economico e sociale.

L’Agenda 21 è un programma d’azione per tutta la comunità internazionale ma non contiene obblighi giuridici.

L’Agenda 21 è ispirata al principio di integrazione delle politiche ambientali con quelle economiche e sociali e tende a tradurli in pratica in più di un centinaio di aree di programma che spaziano dall’atmosfera ai suoli, alle montagne, alle acque del pianeta ed in numerosi altri campi quali la scienza, la tecnologia, l’informazione ecc

Interessanti sono, ai nostri fini, le ricadute locali della direttiva delineata a Rio De Janeiro.

Secondo il documento di base “ogni autorità locale, dovrebbe dialogare con i cittadini, le organizzazioni locali e le imprese private ed adottare una propria Agenda 21 locale. Attraverso la consultazione e la costruzione del consenso, le autorità locali dovrebbero apprendere ed acquisire dalla comunità locale e dal settore industriale, le informazioni necessarie per formulare le migliori strategie”. In sostanza,

L'Agenda 21 Locale è il processo di partnership attraverso il quale gli Enti Locali (Comuni, Province, Regioni) operano in collaborazione con tutti i settori della comunità locale per definire piani di azione per perseguire la sostenibilità a livello locale.

Non è un documento, nè una serie di documenti, è

uno strumento difficilmente codificabile, considerata la diversa natura dei problemi affrontati e le differenti priorità che contraddistinguono le autorità locali nella loro articolazione gerarchica e nella loro distribuzione territoriale. Un processo, dunque, e non (solo) un prodotto. Non ha senso pensare ad un’Agenda 21 Locale come un Piano d’azione predisposto da un referente esterno all’Amministrazione, senza un confronto con la comunità locale. Non si tratta neanche di un semplice processo di animazione sociale al cui termine si tratti solo di scrivere una carta o un documento di buone intenzioni, senza aver definito, anche dal punto di vista tecnico, gli strumenti per la sua attuazione.

Più precisamente, l’Agenda 21 locale è

un processo di programmazione partecipata, capace di avviare strategie di sviluppo sostenibile, rispondenti alle caratteristiche locali, capaci di guardare al medio- lungo periodo e strutturate in modo integrato.

Secondo gli autori del testo che sto utilizzando, l’Agenda 21 locale ha, tra i suoi requisiti, quello di riguardare “l’integrazione degli aspetti ambientali, sociali, economici e culturali nonché la qualità della vita della popolazione locale”.

I “requisiti minimi” necessari alla costruzione efficace d’una Agenda 21 locale non sono pochi, né facili da ottenere nella maggioranza delle situazioni italiane. Essi sono:

Il coinvolgimento dei diversi attori.

La volontà e motivazione del governo e delle strutture pubbliche locali.

La strutturazione di forme di progettazione partecipata.

La consultazione permanente.

La disponibilità di informazione e l'attività di diagnosi.

La visione strategica e i Target.

La costruzione di un Piano d'azione integrato, da attuarsi sulla base del principio di sussidiarietà.

La capacità di attuazione e di monitoraggio.

Interessanti mi sembrano le valutazioni che nel documento si enunciano a propostio delle debolezze della pianificazione ordinaria.

i diversi strumenti mantengono un carattere “settoriale” e parziale e raramente ricercano epraticano le opportunità di integrazione e di potenziamento reciproco;

le analisi ambientali preliminari sono scarsamente sviluppate e limitate dalle carenze nei datidisponibili;

gli strumenti metodologici per l’analisi ambientale (gli indicatori, i metodi di elaborazione) eper la valutazione (tecniche previsionali, obiettivi di riferimento) sono poco noti e applicati;

il coinvolgimento degli uffici e dei servizi incaricati della protezione ambientale è spesso marginale o attuato solo nella fase finale di approvazione dei piani;

il coinvolgimento di soggetti sociali è limitato ai soggetti più tradizionalmente riconosciuti e non coinvolge in modo allargato il mondo più vasto delle associazioni no-profit e dei comitati locali;

la partecipazione è praticata più come ricerca di consenso che non come coinvolgimento “alla pari”, nella determinazione di obiettivi e nella assunzione di responsabilità;

i piani hanno speso carattere scarsamente operativo ed è poco sperimentata la pratica della costruzione di partenariati e di affidamento a soggetti non istituzionali (no-profit) con procedure basate sul principio di sussidiarietà;

non è ancora consolidata la capacità di progettare soluzioni innovative e azioni positive,l’ambiente è considerato essenzialmente come vincolo da rispettare e non come opportunità di sviluppo;

manca tuttora un approccio di lungo termine nella pianificazione.

Gli autori rilevano che

“queste difficoltà di integrazione della sostenibilità nella pianificazione locale in Italia, possono, almeno in parte, essere affrontate proprio attraverso l’Agenda 21 locale che può cioè cercare di colmare gli spazi ancora vuoti e di innovare questo sistema, interagendo direttamente con esso”.

Anche l’attuazione italiana dell’Agenda 21 non è priva di debolezze. Ma mi sembrano interessanti soprattutto le osservazioni su alcune “intrinseche debolezze concettuali”.

“Sostenibilità, spesso e volentieri, ha dimostrato di contenere troppi margini di genericità e ambiguità; fino ad apparire una parola passpartout che giustifica politiche le più disparate. Troppo spesso nel tentativo di coniugare economia e natura è stato assunto il solo punto di vista dell’economia. Così molte politiche ambientali in realtà sono risultate essere un tentativo di forzare i limiti degli ecosistemi naturali adattandoli alle necessità degli insediamenti umani e ai bisogni delle attività economiche. Molto spesso le politiche ambientali si limitano ad intervenire a valle delle attività di trasformazione dell’ambiente con operazioni di sola mitigazione, di compensazione, di internalizzazione monetaria delle esternalità negative. Quasi mai, invece, partendo dalla necessità della protezione delle risorse naturali si giunge a mettere in discussione processi e prodotti economici. Per indorare la pillola a chi detiene il cordone della borsa si sono dette e ripetute frasi farisaiche del tipo: l’ambiente è una opportunità e può essere trasformato in ricchezza; investire in protezione ambientale è un affare economico. Con questo atteggiamento di ossequioso rispetto delle convenienze economiche molto spesso si evita di affrontare problemi quali quelli della limitatezza delle risorse, dell’entropia e della termodinamica globale, della capacità di carico degli ecosistemi, del “valore” economico dei servizi degli ecosistemi indipendentemente dal loro utilizzo. In definitiva spesso si evita di riconoscere la questione culturale centrale messa in luce dal pensiero ecologico: l’economia è un sottosistema dipendente dal mondo biofisico (ecosfera) e dai processi vitali generati dai flussi di materia e di energia. Le scienze della vita usano unità di misura fisiche, che non sempre è possibile, né utile, contabilizzare in quantità di denaro equivalenti.”

“Il problema della scala territoriale (locale) più opportuna per comprendere le interazioni tra economia e ambiente naturale dovrebbe essere risolto a favore dell’unità eco-geografica fisica che definisce gli ecosistemi omogenei, del bacino idrografico, ad esempio, da una parte, e dell’ecosfera dall’altra. Ma questa semplice constatazione presuppone la capacità di agire una riforma politico-istituzionale non da poco. Senza di ciò l’ambito operativo delle Agende 21 rischia di risultare eccessivamente limitato alla dimensione dei servizi ecologici urbani e – anche nei migliori dei casi – le azioni locali hanno poche possibilità di incidere sulle decisioni che vengono prese ai “piani alti” del sistema politico nazionale e internazionale”.

Tutta la procedura d’azione del processo immaginato dalla Agenda 21 è attraversata dall’idea (a dire il vero un po’ illuministica) di poter avviare un dialogo alla pari e una cooperazione volontaria tra “attori sociali” generici ed equivalenti (associazioni, imprese, cittadini, ecc.) ritenuti interessati ad assumere una visione condivisa di lungo periodo e su un larghissimo spettro di questioni. Non solo, l’accordo dovrebbe riguardare anche le modalità e le azioni necessarie a realizzare il futuro atteso. In una parola attraverso le procedure dell’Agenda 21 si giungerebbe ad una coesione sociale della comunità locale e ad un consenso sull’azione di governo. Siamo alla “joined-up governance”, al governare insieme in nome di un futuro condiviso. Se ciò accadesse sarebbe un vero miracolo, in un’epoca di crisi della rappresentanza politica degli interessi e di caduta della partecipazione democratica. Il rischio invece è che si tratti di una illusione, per un verso, e di una trappola, per un altro”

Tradizione e innovazione

Quel poco di esperienza personale che ho a proposito di Agenda 21, e quel molto di esperienza personale che ho a proposito di amministrazione locale dell’urbanistica, mi inducono a una duplice riflessione: l’una sull’Agenda 21 nel contesto italiano, l’altra, più generale, sul rapporto tra tradizione e innovazione.riflessione.

La possibile missione dell’Agenda locale 21 è quella di porre la questione ambientale al centro delle politiche locali, ispirandone e verificandone le scelte sia sul piano delle trasformazioni del territorio sia su quello dell’allocazione delle risorse finanziarie: condizionando quindi la politica di bilancio e la politica urbanistica degli enti locali. All’utilità generale derivante da questa missione la prassi dell’Agenda 21 locale ne aggiunge un’altra, altrettanto rilevante: essa può arricchire politica urbanistica e politica di bilancio di alcuno nuovi strumenti, capaci di rinsaldare il rapporto dialettico tra governanti e governati, decisori e “decisi” (rinvio alle parole: ascolto, partecipazione, consenso, monitoraggio, verifica).

Questo nella teoria. Ma in realtà, nel calarsi nel contesto reale, le cose stanno andando diversamente. L’Agenda 21 è il compito (e l’ornamento) dell’Assessore all’ambiente, il quale di fatto opera nel modo più separato possibile dall’Assessore al territorio e dall’Assessore al bilancio (così come una volta Assessore all’urbanistica e Assessore ai lavori pubblici nelle giunte degli anni 60, 70 e 90 del secolo scorso). E in genere le competenze sono affidate ad assessori di orientamento politico diverso (come del resto avveniva una volta). Esito finale: nonostante le sue potenzialità, l’Agenda 21 diventa la chiusura in uno scrigno separato delle esigenze di tutela dell’ambiente e di partecipazione dei cittadini.

Sta avvenendo anche in questo caso ciò che avviene in moltissimi altri casi, per moltissime innovazioni proposte (dai “programmi complessi” alla “pianificazione strategica”, dalla “VIA” all’”Agenda 21”. Ci si divide in due categorie di pensatori e operatori.

Da una parte, quelli che, appena una novità appare all’orizzonte, l’abbracciano e vedono solo quella. Trascurano le permanenze, il contesto, le tradizioni e le loro ragioni. Si astraggono dalla realtà, o ne vedono solo la parte che giustifica la loro innovazione. Naturalmente, alla lunga rimangono impaludati nell’odiato contesto, e la sterilità diventa il loro destino. Questa schiera brulica di pensatori.

Dall’altra parte, quelli che in ogni innovazione proposta vedono un rischio e un’intenzione malevola, e quindi restano abbarbicati al contesto, alle tradizioni, alle permanenze, trascurando le loro insufficienze e le possibilità – magari limitate e parziali – offerte nalle innovazioni. Ma finiscono per essere travolti, o emarginati, dall’audience che esse comunque garantisono. In questo partito militano ovviamente più operatori.

Come spesso avviene, la verità è nella sintesi: nella capacità di introdurre le innovazioni in un contesto di cui si siano comprese le regole: sia quelle che meritano di essere conservate e vivificate, sia quelle che meritino di essere cambiate o cancellate. Ma è certo un’operazione più complessa sia della semplice resistenza al nuovo sia della rozza distruzione del passato.

Governance: significato e limiti d’un termine nuovo

La governance, come nasce

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati[9]. Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali, ed è quindi al modo in cui sono stati applicati altrove che è opportuno fare riferimento.

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni[10].

“[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “ urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “ local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale” [11]

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti diversi, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

“un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti” [12]

altri come

“le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica” [13].

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

“la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali” [14].

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Non è vero che tutti gli attori sono uguali

Possiamo leggere quindi la governance, e la sua applicazione in Italia, anche come un tentativo di coinvolgere nel meccanismo delle decisioni sul territorio soggetti diversi, i quali tutti concorrono ai processi di trasformazione e utilizzazione dello spazio, ma non sono adeguatamente riconosciuti nel meccanismo definito dalle procedure vigenti. Nell’affrontare questo tema occorre però partire da una consapevolezza. Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Ogni attore esprime un interesse. E non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione che occorre compiere è quella che seleziona gli enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto. Allo stesso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali. La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Anche a questo proposito le innovazioni introdotte dalle leggi regionali recenti colgono alcuni risultati rilevanti, senza cedere a mode tendenti alla “concertazione assoluta” e, di conseguenza, alla deresponsabilizzazione di ciascuno dei soggetti coinvolti. Si tratta delle “conferenze di pianificazione” (o simili), cioè di incontri istituzionali dei diversi soggetti pubblici interessati a una questione nella quale sia coinvolta la responsabilità di ciascuno di essi. Si riuniscono, opportunamente documentati; esaminano la questione collegialmente; esprimono illico et immediate il loro parere, se possibile; se le posizioni sono contrastanti, discutono e cercano la mediazione; se è necessario un supplemento di analisi o d’istruttoria decidono lì per lì la data della prossima riunione, nella quale decideranno.

Un tavolo diverso è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali: per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore; e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricorso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Gli interessi privati

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere. Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: il soggetto che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni. Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del retino) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Mi sembra quindi che, mentre la governance istituzionale non pone problemi che non siano “tecnici” alla sua utilizzazione in supporto al government, particolare attenzione deve essere posta a inserire correttamente nel processo delle decisioni i portatori d’interessi privati, in particolare quelli economici. L’ipotesi che si può formulare è che la governance, nel campo del governo del territorio, funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

1. gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

2. gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario – nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto in Italia, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole. Ed è certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio è quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

E la partecipazione?

Coinvolgere nella pianificazione i cittadini (in quanto tali, in quanto utenti della città e suoi “padroni”, e non in quanto proprietari di sue singole parti) è ambizione che l’urbanistica ha sempre coltivato. Con risultati, mi sembra, insoddisfacenti, salvo casi limitati che non hanno costituito precedenti significativi di pratiche diffuse. Il coinvolgimento è relativamente facile (là dove si adoperano tecniche adeguate e, soprattutto, volontà politica determinata) quando si tratta di trasformazioni urbane limitate: l’apertura di una strada, la ristrutturazione di un quartiere esistente, la progettazione di un intervento pubblico d’interesse locale [15]. Ed è facile là dove si tratta di opporsi a un intervento negativo: lì la tensione NIMBY ( Not In My Back Yard: non nel mio cortile) costituisce un buon alimento se l’intervento proposto è negativo. Molto più complesso è lì dove l’argomento è un intero progetto di città o di territorio. Probabilmente non si tratta di un problema tecnico, ma politico. Lo sostiene un intelligente urbanista a tutto campo, Silvano Bassetti. Secondo Bassetti

“se per urbanistica intendiamo la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti; e se per partecipazione intendiamo il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia” [16].

Del resto, ho più volte affermato che urbanistica e politica sono due aspetti connessi d’un medesimo campo di interessi, obiettivi, procedure. In una civiltà politica che si è data la democrazia come regola generale, l’urbanistica è allora necessariamente anch’essa “urbanistica democratica”. Solo che, prosegue Bassetti,

“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione” [17].

Per concludere che

“a partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza” [18].

Con la stessa pazienza con la quale vanno ricostruite la politica e la democrazia.

Che fare?

Pianificare si può

Nuove procedure di pianificazione, nuovi strumenti più adeguati ai problemi nuovi e alle esigenze dei tempi nostri sono stati introdotti non da una palingenetica riforma urbanistica, ma dai legislatori regionali: con norme dove più, dove meno soddisfacenti ed efficaci, ma comunque ormai sottoposte al solo vaglio dell’esperienza. La questione dei vincoli urbanistici, cioè della capacità dell’autorità pubblica di dettare le sue regole nell’interesse della collettività (naturalmente, dove tale interesse voglia e sappia esprimere) è almeno fortemente sdrammatizzata: non occorre infrangere un tabù se si vogliono tutelare spazi per le utilizzazioni pubbliche, se si vogliono risparmiare estese porzioni di campagna dall’invasione edilizia.

Insomma, la pianificazione urbanistica e territoriale si può fare. Che la si faccia bene o male, questo dipende da due sole condizioni: dalla capacità degli urbanisti di fare il loro mestiere, e dalla volontà della concreta società locale per la quale essi lavorano di governare il territorio in modo avveduto e sostenibile[19].E la questione più rilevante mi sembra proprio questa: come realizzare l’incontro tra la capacità tecnica e la volontà politica, tra urbanistica e polis.

La questione del consenso

È probabilmente necessario costruire un processo di pianificazione in cui la tessitura del consenso sia parte integrante. Dove, naturalmente, il consenso non sia il compromesso raggiunto sottobanco tra interessi forti, con la copertura culturale dei tecnici. Dove non accada, per adoperare le parole di Luigi Mazza, che “indagini, trattative, negoziati, conflitti si [svolgano] al di fuori delle procedure normali e [vengano] formalizzati a valle attraverso la registrazione nel piano urbanistico”, talché “il piano regolatore, che istituzionalmente è una legge, diviene soprattutto la registrazione di un contratto redatto sulla base di rapporti negoziali tra soggetti di natura diversa”[20].

Un processo di pianificazione, invece, che rappresenti la sintesi tra esigenze e interessi diversi, culturali e sociali ed economici, i quali trovino il criterio di valutazione in un interesse generale: una sintesi costruita con trasparenza ed attuata con efficacia.

A individuare e praticare un simile processo di pianificazione le tecniche dello strategical planning, quelle più antiche dell’advocacyplanning e quelle più recenti della visionofcities, possono fornire utili suggerimenti. A condizione che non si dimentichi che si tratta di esperienze e tecniche costruite in un paese (gli Usa) dove la pianificazione non ha nessuna cogenza, e quindi la sua efficacia è interamente affidata alla preventiva formazione del consenso: una debolezza intrinseca del processo di pianificazione, rispetto alla quale il modello europeo ha certamente molte più carte da giocare.

Se l’innovazione nei procedimenti della pianificazione non vuol essere una fuga verso nuove utopie o nuove dissipazioni essa deve necessariamente farei conti con le nostre radici, con la nostra storia. Deve quindi, in primo luogo, fare i conti con la politica.

La politica

Più volte ho sottolineato il nesso tra politica e urbanistica, e la sua importanza non solo semantica. L’urbanistica è uno strumento della politica, forse una sua dimensione. Quale politica è allora necessaria perché l’urbanistica possa svilupparsi, agire, essere socialmente utile nell’immediato (cioè come azione, non solo come riflessione)? È una domanda che è lecito porsi; anzi, vitale, se ci si propone di lavorare per un rilancio e uno sviluppo della pianificazione della città e del territorio.

In Italia l’urbanistica è stata storicamente una disciplina legata alle formazioni politiche della sinistra. Così è stato all’inizio del secolo (il sindaco della capitale, Ernesto Nathan, è iscritto nell’Albo d’oro degli urbanisti italiani[21]), così è stato nell’ultimo mezzo secolo, così è stato perfino nel ventennio fascista, quando la legge del 1942 fu promossa e portata all’approvazione per opera delle componenti “di sinistra” di quel regime. Non è così in altri paesi europei, e non è neppure stato sempre così nella nostra penisola. Eppure, il quasi-regime che governa attualmente a sud delle Alpi sembra il più lontano dall’urbanistica tra quanti si sono succeduti. Il che sembrerebbe smentire la tesi – che mi sembra di dover condividere – per cui le formazioni politiche omogenee a una corretta urbanistica non sono necessariamente di sinistra. Quali sono allora i requisiti di una politica omogenea all’urbanistica?

Se quanto ho fin qui raccontato ha un senso, della storia dell’urbanistica fa parte il primato dell’interesse comune sull’interesse del singolo soggetto. Si tratta, mi sembra, di un vero e proprio principio della civiltà europea: della civiltà basata sull’invenzione e sull’affermazione della città come luogo proprio dello sviluppo creativo della società. Una formazione politica che sappia costituire il quadro di riferimento dell’urbanistica, che sappia adoperare i suoi strumenti in relazione ai propri specifici obiettivi sociali, che ne abbia bisogno per la realizzazione del suo proprio specifico progetto di società, è quindi una formazione politica (di sinistra o di destra che sia) che abbia il suo punto di riferimento nell’interesse comune (e sia pure nella sua interpretazione dell’interesse comune). Che perciò abbia un profondo senso dello Stato, non come sua proprietà (questa concezione è stata sconfitta in Europa tra la fine del XVII e la fine del XVIII secolo), ma come luogo di un governo interprete dell’intera società. Qualcosa, quindi, ben diverso da quella particolare destra oggi al potere in Italia.

Le affermazioni che ho svolto più sopra a proposito della scarsa “sostenibilità” della democrazia richiedono però di precisare ulteriormente i requisiti di una politica adeguata. Questa deve avere in sé qualcosa che aiuti a superare quel limite della democrazia che consiste nel suo ridursi all’immediatezza della scadenza elettorale: deve possedere un condiviso progetto di società, capace di indicare un futuro nel quale anche i cittadini non ancora nati abbiano i diritti di cittadinanza, possano disporre dei beni di cui gli attuali cittadini già dispongono. In Italia, oggi, una simile formazione politica non ha ancora dato segni di vita. Significa forse questo che non si possa far altro che chiudersi in una disperata rassegnazione? Certamente no. L’esigenza di un progetto di società (e di città) solidale e sostenibile non è un’invenzione astratta o una raffinata teoria, è un’esigenza del cittadino. Occorre stimolarne la percezione, occorre aumentarne la consapevolezza e trasformarla in atto: canalizzarla in azioni collettive capaci di modificare la politica e, attraverso essa, la società. Ciò che spetta a ciascuno di noi, in quanto cittadino, ma soprattutto a quelli di noi che hanno la città al centro dei propri interessi.

Gli urbanisti

Oggi si tende a sottolineare che è necessario parlare dei mestieri dell’urbanista, poiché questa figura professionale trova impiego in una gamma di occupazioni che non si riduce a quella del progettista di città[22]. È una sottolineatura utile, poiché costituisce una implicita critica, e una tensione al superamento, di una impostazione tradizionale, limitata e non più sufficiente.

A differenza che in altri paesi in Italia l’urbanista è nato come una specializzazione della figura dell’architetto: un architetto che, invece di progettare edifici, progetta città. Quasi con le stesse tecniche (magari integrandole con scienze irrimediabilmente ausiliarie, quasi servili), quasi con la stessa impostazione al cospetto della realtà: il prevalere dell’“idea progettuale”, il ruolo dell’Autore del piano (simile a quello dell’Autore del progetto), la fiducia di poter dominare da solo l’insieme del progetto (del piano), anticipandone nella sua previsione l’intera realizzazione. È interessante osservare (a riprova del fatto che la storia che conosciamo non è l’unica storia possibile) che per giungere a questa soluzione si discusse a lungo tra due proposte alternative. A quella dell’Architetto-Urbanista si contrapponeva infatti la proposta dell’Urbanista come esperto della gestione urbana, e quindi versato non nelle belle arti, ma soprattutto nelle discipline dell’amministrazione e dell’ingegneria civile[23].

Certo è che, nelle successive vicende, il ruolo e la formazione dell’urbanista si sono notevolmente divaricate rispetto all’impostazione originaria. Oggi l’impiego diretto nella amministrazioni pubbliche, o la collaborazione con queste dall’esterno, costituiscono il campo d’applicazione più vasto degli urbanisti. Alla loro formazione è dedicato, a partire dal 1971, uno specifico corso di laurea nelle facoltà di architettura e, a partire dal 2001, una facoltà di pianificazione del territorio[24]. E nella preparazione dei documenti di panificazione nei quali le amministrazioni sono impegnate il ruolo del “progetto di città” appare sempre meno rilevante rispetto a quelli dell’attuazione, della valutazione, del monitoraggio, della ricerca del consenso e delle energie necessarie per la sua implementazione. Un ricorso sempre più largo all’interdisciplinarità, una capacità sempre maggiore di coordinare e finalizzare a un’operazione complessa equipe articolate, una sensibilità alle nuove tecnologie, un’attenzione ai moti della società: questi sono tra i principali requisiti del mestiere (o dei mestieri) dell’urbanista.

Ma qual è il nocciolo del suo ruolo sociale? Diamo uno sguardo fuori d’Italia. “Bisogna sempre ricordare che l’urbanistica è di ordine pubblico e d’interesse pubblico” (“Il convient toujours se rappeler que l'urbanisme est d'ordre public et d'intérêt public”), scrive il documento fondativo del Conseil Français des Urbanistes. “Il primo dovere di un urbanista è di servire il pubblico interesse” (“A planner’s primary obligation is to serve the public interest”), afferma il codice deontologico dell’American Institute of Certified Planners. L’urbanista deve “agire sempre nell’interesse del proprio cliente o committente”, ma con la “consapevolezza che l’interesse pubblico deve restare preminente”, decretano le “Norme di deontologia professionale” del Consiglio Europeo degli Urbanisti. Poiché il concetto di pubblico interesse è oggetto di elaborazione e dibattito, il documento dell’American Institute of Certified Planners si preoccupa di definire i paletti entro i quali l’urbanista deve comunque inscrivere la propria azione. Ne sono elementi essenziali la consapevolezza del carattere sistemico e della lunga portata temporale delle decisioni sul territorio, la completezza e la chiarezza dell’informazione fornita al pubblico, l’attenzione agli interessi delle categorie più svantaggiate, all’integrità dell’ambiente naturale e alla tutela del patrimonio culturale[25].

La stella polare

Quando le tecnologie della comunicazione erano meno sviluppate di adesso un riferimento essenziale per i naviganti erano le stelle e, tra queste, nell’emisfero boreale, la stella polare (che è anche l’ultima ruota del carro, dal nome della costellazione cui appartiene). La stella polare è anche una metafora potente: suggerisce che, quando i riferimenti sono labili, le certezze difficili da individuare, la confusione sovrana e il futuro incerto, diventa vitale cercare un punto di riferimento sicuro, magari lontano e al di sopra delle traversìe del quotidiano e del terrestre.

A me sembra che le indicazioni che emergono dal panorama internazionale della professione dell’urbanista confermino una tesi che è certamente emersa spesso, nella lettura di queste pagine. La tesi che della nostra storia (e dunque anche del nostro presente e, in nuce, del nostro futuro) fa parte il primato dell’interesse comune sull’interesse del singolo “attore”,vero e proprio principio della civiltà europea. Dalla implicita consapevolezza di questo principio, e dalla sua necessità, nascono del resto l’oggetto primario della nostra attenzione, e la disciplina della quale ci occupiamo: la città, e l’urbanistica. È ad esso che occorre allora guardare, come alla stella polare.

Questo capitolo è tratto da E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, nuova edizione novembre 2003.

[2]"Competitività aziendale, personale, organizzativa: strumenti di sviluppo e creazione del valore". Autore Daniele Trevisani. Copyright Studio Trevisani; Copyright: Franco Angeli Editore, Milano.

[3] Formez, http://ambiente.formez.it/)

[4] “Barcellona: la pianificazione strategica compie tredici anni”, da http://www.torino-internazionale.org/Page/t08/view_html?idp=1589

[5] Ibidem

[6] Achlle Occhetto, nel suo intervento al Congresso nazionale del PCI, 1987.

[7] Edo Ronchi, La modernizzazione ecologica dell’economia nell’era della globalizzazione, dal sito www.dsonline.it.

[8]Un’ introduzione all’ Agenda 21 locale, a cura di Gabriele Bollini, Gianfranco Bologna, Andrea Calori e Michele Merla

[9] Si veda: P.L.Crosta, La politica del piano, Franco Angeli, Milano 1995; L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio, Franco Angeli, Milano 1996.

[10] N. Holec, G. Brunet-Jolivald, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.

[11] Ibidem.

[12] A. Bagnasco e P-J. Le Gales, cit in Holec, Brunet, op. cit.

[13] G. Marcou, F. Rangeon e J-L. Thiebault, cit. ibidem.

[14] Ibidem

[15]Si veda R. Lorenzo, La città sostenibile: partecipazione, luogo, comunità, Eléuthera, Milano 1998; La costruzione sociale del piano, a cura di P. Bellaviti, in Urbanistica n. 103/1995.

[16] S. Bassetti, Urbanistica partecipata, in: “Atlas - Rivista quadrimestrale dell’INU Alto Adige”, n. 22, dicembre 2001.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Insisto: adopero questo attributo nel senso preciso in cui lo ha definito la Commissione Brundtland dell’Onu (cfr. cap. 9).

[20] L. Mazza, Trasformazioni del piano, Franco Angeli, Milano 1997, p. 105 e segg.

[21] Ernesto Nathan fu sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Il programma del Blocco del popolo, di cui Nathan era il leader, era centrato su quattro punti: “incremento dell’istruzione elementare, tutela dell’igiene pubblica, politica edilizia limitatrice della speculazione e del monopolio sulle aree e a favore dell’edilizia popolare, partecipazione della cittadinanza all’amministrazione comunale” (si veda: I. Insolera, Roma capitale cit., pp. 94-96).

[22] Si veda: A. Balducci, Come cambiano i mestieri dell’urbanista in Italia, in: “Territorio”, fascicolo 7/1998.

[23] Negli anni tra il 1922 e il 1926 sostenitore della prima proposta, poi vittoriosa, era l’architetto romano Alberto Calza Bini, libero professionista e accademico, propugnatore della seconda Silvio Ardy, funzionario comunale in Liguria e in Piemonte. Materiali su questo dibattito sono in corso di pubblicazione da parte di Giulio Ernesti e Fabrizio Bottini, e sono comunque consultabili in http://eddyburg.it.

[24] Il corso di laurea è stato istituito nel 1971 presso l’Istituto universitario di architettura di Venezia, a opera di Giovanni Astengo, poi trasformata in facoltà; hanno poi seguito analoghi corsi presso le facoltà di architettura di Reggio Calabria, Milano e poi numerose altre sedi universitarie.

[25]

Il sospetto è che il presidente dell'Unione Europea, José Manuel Barroso, non ami l'Italia. La notizia è che il suo portavoce-capo, la francese Françoise Le Bail, ha cancellato la lingua italiana da tutte le conferenze-stampa dei commissari, ad eccezione di quelle che si tengono il mercoledì, unico giorno in cui è garantita la traduzione delle principali lingue dell'Ue. Dunque, l'italiano esce dal gruppo ristretto delle lingue stabili dell'Unione, al quale appartengono l'inglese, il francese e il tedesco. Quanto basta per mandare su tutte le furie il presidente dell'Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, il quale alla difesa della nostra lingua anche nelle sedi istituzionali si dedica anima e corpo da anni. Professore, che significato ha questa decisione? «Se è così, significa che il prestigio della nostra lingua è molto diminuito. Fino a qualche anno fa la conoscenza dell'italiano presso il pubblico colto europeo era maggiore rispetto al tedesco e allo spagnolo. Oggi purtroppo non è più così». Che cos'è successo negli ultimi anni? «È successo che il valore e l'importanza della nostra lingua non sono stati abbastanza difesi nelle sedi istituzionali». Dai politici? Dal governo? Dai nostri rappresentanti in Europa? «I politici non hanno fatto nulla per difendere in Europa il ruolo dell'italiano. Il ministro competente è Gianfranco Fini, il ministro degli Esteri. Vorrei chiedergli: dov'è finito il nazionalista di An? Gli sbandieramenti generici dell'italiano non bastano». Ma perché l'italiano dovrebbe essere privilegiato rispetto alle lingue degli altri Paesi: lo sloveno, il danese, il portoghese, il ceco, l'ungherese, il finlandese eccetera? «Intanto, l'italiano è la lingua di uno dei paesi fondatori, il nostro Paese è stato a lungo il più popoloso dell'Unione, e ora si è fatto scippare la propria lingua come nulla fosse... Fino a due o tre anni fa la nostra lingua era affiancata al tedesco come lingua più studiata fuori dal paese d'origine». Oggi la popolazione europea che parla l'italiano come lingua straniera è il 2 per cento, la metà rispetto allo spagnolo. Dunque? «Un fatto del genere lo fa regredire ancora di più. Io sostengo questo: le lingue dell'Ue sono 20? Bene, manca una politica ufficiale dell'Unione sul problema linguistico complessivo e così si va avanti per vie di fatto che sono dei colpi di mano amministrativi. Invece bisognerebbe decidere una volta per tutte con un programma definito democraticamente e insomma con una politica linguistica vera e propria». Che non esiste? «C'è una Federazione europea delle istituzioni linguistiche, fondata a Stoccolma nel '93, che raccoglie tutte le accademie scientifiche, come la Crusca. Questa Federazione ha dichiarato la necessità di una politica dell'Unione: si è parlato di possibili compensi alle lingue che non vengono usate nelle istituzioni». Che tipo di compensi? «Per esempio finanziare l'insegnamento di queste lingue, sostenere le traduzioni per questi paesi, eccetera. Insomma, intraprendere tutta una serie di iniziative per aiutare quegli idiomi che non godono del privilegio di un uso istituzionale nei lavori dell'Unione. Se questo non si realizza, è una violazione dei diritti della carta europea dove si parla di pari dignità anche sul piano linguistico». Ma non si può certo pretendere che tutti i Paesi siano rappresentati con le loro lingue in sala stampa. Non crede che sarebbe un po' eccessivo? «È vero, se bisogna restringere per motivi economici, è necessario mettere in atto quei compensi di cui dicevo oppure stabilire dei turni che favoriscano ora questa ora quella lingua. Tanto ci sono sempre i traduttori. Queste però non sono decisioni che spettano al direttore di un ufficio ma al Parlamento». Questa decisione sulla lingua italiana va di pari passo con la perdita di prestigio politico del nostro Paese? Ha ragione Chirac? «Indubbiamente sì.

Una breve premessa

È stato Lodo Meneghetti, sulle pagine di Eddyburg, a proporre lo studio per il piano regionale della Valle d’Aosta come uno dei paradigmi fondativi del rapporto fra urbanistica e paesaggio, sviluppato proprio nel periodo in cui la disciplina della pianificazione assume in Italia le forme che le saranno caratteristiche nel Novecento (per il secolo presente, vedremo).

E ha ragione da vendere, Meneghetti, anche oltre i temi che esplicitamente propone, come la sensibilità di una certa parte dell’architettura moderna dell’epoca per i temi del rapporto con la natura e dell’intreccio ambiente/sviluppo. Per capirlo, basta scorrere il testo proposto di seguito, che fu pubblicato su Rassegna di Architettura dopo la mostra che proponeva il Piano, ma cinque anni prima della sua effettiva e definitiva pubblicazione in volume (1943). Ne emergono temi complessi, come il connotarsi in “bonifica integrale” della pianificazione montana, di cui gli aspetti strettamente spaziali rappresentano solo la punta dell’iceberg. Ne emerge, in un passaggio affatto secondario, un anelito a quanto chiameremmo oggi “progettazione partecipata” (leggere per credere). Rinvio comunque il lettore, per un giudizio complessivo, al documento integrale di piano del 1943, ripubblicato dalle Edizioni di Comunità nel 2001. Resta comunque valida la tesi, ampiamente sostenuta dai vari interventi su questo sito, secondo cui ambiente, paesaggio, territorio, tutela e pianificazione, sono anelli inscindibili di una catena naturale e logica. Separali è astorico. Oppure, molto più semplicemente e probabilmente, arbitraria operazione di bassissimo profilo (Fabrizio Bottini)

Uno studio di piano regolatore che esce dai limiti consueti per l’ampiezza del tema proposto e per la varietà dei problemi che intende risolvere.

Parte dall’analisi delle condizioni naturali, sociali ed economiche che si verificano in una vasta zona montana e, tenendo in debito conto quanto l’arte, la natura e le possibilità locali offrono all’interesse dei visitatori, propone piani regolatori e miglioramenti edilizi nei centri maggiori e minori, nuove arterie stradali, il risanamento delle abitazioni, la messa in valore delle bellezze naturali o artistiche, l’incremento delle iniziative artigiane, commerciali e, possibilmente, industriali, la costruzione di alberghi: l’impianto di nuovi e più rapidi mezzi di comunicazione.

È quindi un piano che si può chiamare di bonifica integrale, in quanto, descritte con larga visione le condizioni di fatto attuali degli uomini e dell’ambiente, prospetta i rimedi intesi a risolvere il problema dello spopolamento delle montagne, che si verifica con aspetti identici o simili in quasi tutte le valli alpine e in parte delle prealpine, e costituisce un danno e un pericolo per la Nazione. Dalla fine della guerra mondiale in poi, queste popolazioni, che in passato rimediavano al deficiente reddito economico locale col guadagno ricavato dal lavoro temporaneo all’estero, hanno veduto chiudersi le frontiere senza trovare né in luogo né in patria possibilità di impiego delle loro provate capacità di lavoro. In luogo, la natura del suolo e il clima non permettono che tentativi per un eventuale limitatissimo incremento della produzione agraria, a raggiungere il quale, quand’anche si ottenga, basta il lavoro delle donne, dei bambini e dei vecchi, come in passato, mentre le città non hanno potuto né potranno effettivamente assorbire che una limitata parte dell’esercito di artieri disponibili, cosicché questi sono e dovrebbero rimanere disoccupati o nei centri maggiori o nei propri paesi.

Qualche sollievo a questa situazione è stato già portato col trasporto di famiglie coloniche, o che intendano ritornare alla terra, in zone più adatte, che presentano possibilità di miglioramento agrario, con gli aiuti dati dall’artigianato locale e con la bonifica della montagna a fini turistici.

I compilatori del piano regolatore hanno creduto opportuno di occuparsi anzitutto di quanto si riferisce a quest’ultimo punto, riservando ad un secondo tempo le proposte riguardanti altri problemi la cui importanza appare ad essi quasi secondaria rispetto al turismo, industria caratteristicamente italiana, essi scrivono, che nel caso in questione può assumere un valore preminente date le eccezionali attrazioni naturali dell’ambiente.

Effettivamente per la Valle d’Aosta, e, in genere, per gran parte delle altre, le possibilità turistiche sono certamente quelle che meglio affidano per ottenere un miglioramento dell’economia locale tale da influire sensibilmente sul tenore di vita, l’igiene, l’agricoltura, ecc. Ma l’esperienza insegna che i risultati dovuti a questo fattore non sono decisivi a risolvere il problema capitale che sta nel progressivo spopolamento della montagna, il quale persiste anche nei paesi che turisticamente progrediscono.

L’inurbanamento della montagna porta opere nuove, una accresciuta circolazione di denaro e di persone, ma in genere non modifica utilmente la mentalità e le attività della popolazione locale. Vi è quindi una necessità di educazione turistica di quelle popolazioni, tale che risolva la soluzione di continuità che ora si verifica tra la vita d’importazione e quella locale, che ammaestri a ricavare profitto dal forestiero con tutte quelle iniziative che vanno dal piccolo albergo, alle case d’alloggio, alle pensioni, all’artigianato, compatibili con le risorse degli abitanti e modeste in sé, ma efficacissime e imponenti ove partecipino effettivamente gli stessi interessati.

Non è qui il luogo per insistere su questo argomento e per un esame dello sviluppo del turismo in confronto alle condizioni ambientali in Val d’Aosta e altrove, ma non va dimenticato che la Svizzera, l’Alto Adige e, in parte, altre valli del nostro confine orientale devono la loro fortuna alto spirito accogliente degli abitanti in gran parte interessati all’incremento dell’industria del forestiero.

Certo, il problema delle valli montane non si limita a quello sopra accennato, e disordini idrici, disboscamento, frane, frazionamento della proprietà, mancanza di buone comunicazioni, deficiente istruzione pubblica, prospettano una situazione, che è all’infuori della buona volontà degli abitanti, supera le possibilità dei privati e degli enti locali e richiede l’intervento dello Stato.

È di questi giorni un provvedimento del ministro Bottai che avoca appunto allo Stato diverse scuole comunali montane della Valle d’Aosta, provvedimento che può apparire modesto ed è invece importante e significativo perchè attesta come al Governo non sfugga che una delle premesse indispensabili, la maggiore, alla rinascita sta anche nella più diffusa e migliorata educazione pubblica.

A questo primo passo altri seguiranno certamente a rimedio alle altre deficienze, nell’interesse della Nazione e delle popolazioni che ne custodiscono i confini.

E intanto, siano benvenuti questi studi che propongono il problema e ne diffondono la conoscenza ad un più largo pubblico, anche se i progetti che ne derivano possono suscitare opinioni non del tutto conformi a quelle dei proponenti, in quanto la constatazione della realtà è fuori d’ogni discussione e unico il fine che si intende di raggiungere.

Nota: qui il commento di Lodo Meneghetti, tra l’altro, anche al Piano per la Valle d’Aosta e alla cultura italiana del paesaggio (f.b.)

Io sottoscritto (d'ora in avanti "l'Augurante") chiedo al mio interlocutore (d'ora in avanti "l'Augurato") di accettare senz'alcun obbligo, implicito o esplicito, i voti più sinceri dell'Augurante (d'ora in avanti "gli Auguri") affinché l'Augurato possa trascorrere nel migliore dei modi (ove nella frase "migliore dei modi" si sottintende da parte dell'Augurante e si presuppone da parte dell'Augurato un atteggiamento che tenga conto delle problematiche di carattere sociale, ecologico e psicologico, che non sia causa di tensione e/o competizione, né comporti o favorisca alcun tipo di assuefazione o di discriminazione, sia sessista, sia di diverso carattere) per la festività coincidente al Solstizio d'Inverno convenzionalmente nota come "Natale", ma che può essere chiamata e celebrata dall'Augurato secondo le sue tradizioni religiose e/ o laiche, premesso il debito rispetto nei confronti delle tradizioni religiose e/o laiche di persone di qualunque razza, credo o sesso diverse dall'Augurato, ivi comprese coloro che non praticano alcuna tradizione religiosa e/o laica. Qualsiasi riferimento a qualunque divinità, figura mitologica, personaggio tradizionale, reale o leggendario, vivo o morto che sia; a simboli (ove sono compresi tra l'altro - ma non limitativamente - canti e rappresentazioni artistiche, letterarie e sceniche) religiosi, mitologici o della tradizione che possa essere ravvisato direttamente o indirettamente nei presenti Auguri non implica da parte dell'Augurante alcun sostegno nei confronti della figura o del simbolo in questione.

L'Augurante chiede inoltre all'Augurato di accettare gli auguri per un felice (ove l'aggettivo "felice" viene definito tra l'altro - ma non limitatamente - come "gratificante dal punto di vista personale, sentimentale e finanziario e privo di complicazioni di carattere medico, dirette o indirette") anno 2005. L'Augurante sottolinea che la datazione "2005" è qui considerata come convenzionale, così com'è considerata convenzionale la data del 1° Gennaio come inizio dell'anno, e dichiara il suo assoluto rispetto per altri tipi di datazione legati alle differenti culture religiose e/o laiche di cui l'Augurante riconosce il prezioso contributo allo sviluppo dell'attuale società multietnica.

Augurante e Augurato convengono inoltre su quanto segue:

- Gli Auguri valgono a decorrere dalla data del presente accordo al 31 Dicembre 2005, dopodiché dovranno essere esplicitamente rinnovati da parte dell'Augurante.

- Gli Auguri non implicano alcuna garanzia che i voti di "felicità" espressi dall'Augurante trovino un effettivo riscontro nella realtà dell'Augurato, il quale non potrà attribuire all'Augurante alcuna responsabilità civile e/o penale e/o morale per la loro mancata attuazione.

- Gli Auguri sono trasferibili a terzi purché il testo originale non subisca modifiche o alterazioni. La libera diffusione del testo non implica tuttavia il pubblico dominio del testo stesso, i cui diritti appartengono in ogni caso al detentore del copyright.

- L'Augurante declina ogni responsabilità derivata dall'utilizzo degli Auguri al di fuori dai limiti prescritti; in particolare, l'Augurante declina ogni responsabilità per eventuali danni fisici o morali all'Augurato e/o a persone e/o sistemi informatici a lui collegati derivati dall'invio degli Auguri mediante E-Mail o qualunque altro metodo di trasmissione, elettronico o di diverso genere, attualmente in uso, in fase di sperimentazione o non ancora inventato.

Ciò stabilito

Buon Natale e Buon 2005

Quattro cose mi hanno colpito. Le racconto nell’ordine degli articoli.

La prima, articolo 3. La pianificazione del territorio avviene “sentiti i soggetti interessati” (comma 2). Si precisa che “le funzioni amministrative” (la pianificazione) “sono svolte in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati ai quali va comunque riconosciuto comunque il diritto alla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti” (comma 3). Fino ad oggi il piano urbanistico esprimeva la volontà dell’amministrazione elettiva, e solo dopo veniva sottoposta al parere dei privati. Adesso il procedimento è invertito: il piano è redatto sulla base delle espressioni di volontà dei “soggetti interessati”. Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di “soggetti interessati” ci si riferisca alla cittadina e al cittadino? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare.

La seconda, articolo 4. “Le regioni individuano gli ambiti territoriali da pianificare e l’ente competente alla pianificazione […]”. Fino a oggi l’ambito e l’ente competente erano quelli dei comuni, della cui competenza a pianificare nessuno aveva mai dubitato. In nome dell’efficienza ci si propone di affidare alle regioni (ma è costituzionale?) la facoltà di annullare una delle fondamentali storiche competenze dei comuni. È giusto?

La terza, articolo 7. L’attuazione del piano urbanistico (è il titolo dell’articolo) non può essere illustrata in poche righe. Basti annotare che si sollecita l’impiego di “strumenti e modalità di perequazione e di compensazione” (comma 2), e che per la prima volta si introduce nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di “diritti edificatori” i quali vengono attribuiti dal piano urbanistico nei modi che dovranno essere regolamentati dalla regione. Ciò palesemente significa ribadire e rafforzare i poteri della proprietà immobiliare. (Significa anche che, fino a oggi, le premesse su cui si basava il di sovradimensionamento del PRG di Roma erano infondate, c.v.d.).

La quarta, ancora articolo 7. Il proprietario di un’area destinata a servizi pubblici (un parco, una scuola, un ospedale) può chiedere al comune “la realizzazione diretta degli interventi d’interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’amministrazione per la gestione dei servizi” (comma 5). Prosegue la marcia verso la privatizzazione di tutto ciò che, dopo la rivoluzione borghese del 18° secolo, si era mano a mano affidato al pubblico nel corso dei successivi due secoli, per correggere le storture di un sistema imperfetto.

L’analisi della legge merita di essere approfondito. Nel farlo, occorrerà verificare quante delle innovazioni (come si vede pesanti) che si propongono nascano dagli ambienti culturali e politici del centrosinistra degli ultimi anni. A mio parere molte. Aspettavano una maggioranza di destra (e quale destra!) per essere tradotte in legge dello Stato.

Se è così, bisogna rispondere. Lo sforzo da fare oggi, l’impegno maggiore che occorre esprimere, è di unire tutte le forze che vogliano opporsi a Berlusconi. Non perché è di destra, non perché sostiene gli interessi politici e ideologici della destra, ma perché sta distruggendo le basi della convivenza civile.

Distrugge lo Stato, basato sull’equilibrio dei poteri e sul primato dell’interesse collettivo su quello individuale. Distrugge la Repubblica, dileggiando i suoi valori fondativi. Distrugge la Democrazia, sostituendo in modo sempre più marcato la “gente” (e gli spettatori) ai cittadini. Distrugge la Politica, riducendola alla difesa dei suoi personali interessi. L’unità di tutti. E in primo luogo l’unità della sinistra, dunque. L’ispirazione degli appelli all’unità (come quello di Giorgio Ruffolo su Repubblica del 9 maggio) sono perciò sacrosanti. Ma unità nella chiarezza. E chiarezza vuole che si prenda atto che la sinistra è “plurale”. In essa convivono posizioni politiche diverse: non solo nella sinistra nel suo complesso, ma anche in quella sua parte (ancora rilevante) che sono i DS.


Nessuno può nascondersi che all’interno di quella formazione ci sono, e svolgono ancora ruoli dominanti, posizioni politiche che hanno oggettivamente cospirato (spirato insieme) con il berlusconismo. Non parlo degli errori politici (quelli che ha compiuto l’on. D’Alema,, per intenderci, che in un’alto paese, dopo aver aperto la strada al suo avversario, si sarebbe ritirato per qualche anno a vita privata). Parlo delle concrete politiche che si sono promosse su terreni rilevanti: l’aver dimenticato che in Italia il mercato ha bisogno di più Stato (nella speranza di togliere voti a Berlusconi), l’aver contribuito alla dissoluzione dell’unità della Repubblica (nell’illusione di tagliare l’erba sotto i piedi a Bossi), l’aver ridotto l’autorità degli strumenti dell’azione pubblica (dal pubblico impiego all’urbanistica) e la centralità dei valori pubblici (dai beni culturali all’ambiente).

Sarebbe interessante domandarsi il perché di questi cedimenti (se lo facessimo ci imbatteremmo del difficile ragionamento sui limiti dell’attuale democrazia). È invece necessario rendersi conto che sono cedimenti non solo rispetto a una impostazione politica di sinistra, ma rispetto a una impostazione di moderna democrazia europea. È a questa che occorre tornare, se si vuole davvero battere il crescente regime e costruire un sistema di alleanze più solido di quello che si tentò con Bossi.

In una cartella che ha come simbolo l’Italia rovesciata (il link è qui sotto) conservo alcuni testi. Un breve profilo del giudice Carfì (a cui dedico anche l’inserimento nell’Antologia della poesia di Leopardi che sembra preferire, “A Silvia”). Un’intervista al magistrato che ha diretto la procura di Milano, D’Ambrosio. E due commenti: uno “da sinistra”, di Ezio Mauro, e uno “da destra”, di Sergio Romano. Per memoria.

Mi sembra che la situazione sia di una gravità eccezionale. L’aggressiva arroganza supera ogni immaginazione. Altro che Bush. E le armi sono potenti: sei televisioni, le principali; alcune case editrici, le principali; il più dotato impero economico d’Italia; e poi, i poteri istituzionali del governo. L’enorme capacità che questo potere esercita colpisce argini che hanno resistito e finora si sono dimostrati efficaci (la presidenza della Repubblica, la magistratura, la stampa cartacea), ma non sono eterni. Possono esercitare una resistenza contro il regime che avanza, non possono sconfiggerlo.

La fine dello strapotere del signor B., e la salvezza della democrazia italiana, possono venire solo dalla politica. Questa una volta ha già fallito, quando non ha inciso – come avrebbe potuto – il bubbone maligno del conflitto d’interessi (ed è stupefacente che i responsabili della sconfitta non abbiano ceduto il passo, come sarebbe accaduto in qualsiasi democrazia non capovolta).

Non sembra esistere una destra alternativa a quella del signor B.: l’Italia è questa, non come vorremmo che fosse. La sinistra esiste, è larga, abbraccia un arco di posizioni e d’interessi capaci di esprimere, nel loro complesso, una maggioranza molto ampia delle componenti sociali, culturali, ideali del paese. Esiste ma è divisa, forse come non mai (eccetto forse negli anni che prepararono il fascismo). Che si aspetta? Se qualcosa non cambierà presto, nelle prossime elezioni politiche aumenterà ancora una volta il partito, via via più grosso e più impotente, di quelli che rifiutano di votare, perché non sanno per chi. “Ma è tardi, sempre più tardi” (E. Montale, Dora Markus).

Si tende così (poco importa se per ignoranza o per sapienza) a far scomparire quella che l’appello “SOS per gli Archivi” (vedi il link qui sotto) definisce “il fondamento dell'identità nazionale”. In che cos’altro risiede infatti quest’ultima se non nella consapevolezza di un comune passato, di un comune tessuto di legami, di costumi, di cultura, di sentimenti, di passioni, di virtù e di vizi, che si è sedimentato nel tempo? È questo l’humus che alimenta le radici della nostra civiltà, dunque di ciò che siamo e ciò che i nostri posteri potranno essere. Riaffiora nella ragione del presente proprio perché le sue testimonianze sono custodite negli archivi, e in essi amministrate e distribuite.

Cancellazione della memoria scritta, e accanto a questo, cancellazione della memoria depositata nel territorio: è una direzione parallela nella quale sempre più velocemente ci si incammina. Così avviene quando si abbandonano i centri storici al degrado provocato dalla banalizzazione turistica e dalla devastazione delle grandi opere (penso a Venezia e alla sua Laguna perché ci vivo, ma non solo a questo sito), quando si cancellano dal territorio le tracce di antichi armoniosi rapporti tra la natura e il lavoro dell’uomo, quando si assume quale unico motore e arbitro delle trasformazioni territoriali l’interesse individuale alla valorizzazione del proprio privato patrimonio immobiliare, piccolo o grande che sia.

Altra direzione, del resto, non può essere seguita dagli eventi, se si abbandona quel metodo della pianificazione urbana e territoriale, che fu inventato due secoli fa proprio perché gli interessi comuni non potevano trovare altri strumenti per correggere le storture provocate dallo spontaneismo del sistema economico.

Se ci si pensa, ci si rende conto che viviamo proprio in una strana stagione. Alla cancellazione del passato fa da complemento la cancellazione del futuro. Se è vero, come a me sembra indubbio, che la politica ha perduto ogni tensione verso il futuro, verso un progetto che non consista semplicemente e immediatamente nella conservazione o nella conquista del potere. Ciò che investe più d’un mandato elettorale non interessa più nessun politico. Ciò che interessa più d’una generazione non interessa più nessun cittadino (anzi, nessun membro della “gente”). Come stupirsi allora se scompare ogni valore che non sia quello del successo immediato? (Guardate la lettera di Fatarella nella Posta ricevuta, per avere un’immagine efficace del clima di oggi, dei guasti già provocati).

Sarà allora una stagione lunga quella in cui siamo immersi, quella in cui il passato e il futuro non contano più? La sua durata dipende anche da quanto ciascuno di noi vuol fare e sa fare.

Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna. Da allora, l’8 marzo si è intrecciato alla vicenda del progressivo affrancamento delle donne dalle condizioni imposte alla loro umanità e dignità dall’altro sesso (e più precisamente, dalle regole dei sistemi economico-sociali che si sono succeduti nei secoli).

È una festa quindi, quella di oggi, che sollecita a riflettere in molte direzioni. Perché è nelle molte direzioni che il progresso economico, politico, sociale e culturale ha percorso nel secolo scorso che il movimento delle donne ha dato il suo contributo: non solo all’affermazione dei diritti di un genere maggioritario me emarginato, ma a quello della società nel suo insieme. ”Che ‘a piasa, ‘a tasa e ‘a staga a casa”, è il vecchi detto veneto: se avesse accettato questo tabù posto al suo ruolo (piacere, tacere, fare la casalinga) molte delle conquiste di cui oggi tutti ci gioviamo non sarebbero state raggiunte (o lo sarebbero stato molto molto più tardi). Vogliamo ricordarne alcune?

Il suffragio universale, che ha reso la democrazia lo strumento realmente utilizzabile per basare il governo sulla volontà del popolo: il migliore degli strumenti fin qui inventati dall’uomo, nonostante i suoi difetti. Condizioni di lavoro migliori per tutti nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici, ottenuti grazie all’ingresso delle donne nelle vertenze sindacali. I nuovi diritti civili di tutti i soggetti, maschi e femmine, raggiunti nel nostro paese grazie alle grandi battaglie per la liberazione della donna degli anni Sessanta e Settanta. E l’odierna campagna mondiale per la pace, che si ricollega alle infinite manifestazioni animate dalle donne (quasi geneticamente ostili a tutto ciò che minaccia la specie) in tutto il corso del secolo che sta alle nostre spalle.

Poiché sono urbanista, voglio ricordare il contributo che diede il movimento delle donne, negli anni Sessanta, all’introduzione anche in Italia di uno strumento essenziale per rendere più vivibile la città: gli standard urbanistici. In quegli anni era forte la rivendicazione organizzata, soprattutto delle associazioni delle donne, per ottenere più spazio nelle città per gli asili, il verde, le scuole: come strumento per essere sollevate dall’obbligo del lavoro casalingo, come tensione a uscire dalle mura domestiche e impadronirsi della città. La rivendicazione condusse a stabilire, per legge (765/1968), che i piani urbanistici dovevano riservare, per ogni abitante, un certo numero di metri quadrati nella città a spazi pubblici e di uso pubblico. Naturalmente non basta una soglia quantitativa per migliorare la città e renderla più vivibile. Serve – una volta raggiunto quell’obiettivo - il lavoro degli urbanisti, e quello degli amministratori; servono l’elaborazione e l’attenzione della cultura e della politica, che alimentano e sorreggono gli operatori sul campo.

Il lavoro di questi attori non si è sempre diretto nella direzione giusta, né sempre con la necessaria intelligenza e determinazione. Spesso, troppo stesso gli standard sono stati considerati un mero adempimento burocratico, e non un primo passo verso la progettazione di una città radicalmente diversa da quella attuale. Spesso gli standard sono stati utilizzati come pedaggio da pagare (più scarsamente possibile) per uno sviluppo urbano misurato in termini di cubature edificabili.

Spesso, non sempre. E uno degli auguri che vorrei fare oggi a tutte le donne (e a tutti gli uomini) è che gli esempi positivi si moltiplichino e si generalizzino. Che le conquiste quantitative strappate nei decenni trascorsi non vengano tradite, ma tradotte nella qualità di una città finalmente resa amica delle donne e degli uomini.

L’altro augurio nasce da questi giorni, in cui governi inetti minacciano di gettare il mondo nell’abisso di una guerra targata USA. Queste tre lettere ci spingono oggi a ricordare che la festa di oggi esprime anche la solidarietà con le 129 donne che, quasi un secolo fa, morirono negli USA per i loro e i nostri diritti. Mimosa e pace, sulle due sponde dell’Atlantico, come un arcobaleno.

Il dialogo non è possibile con chi nega, con parole che sono fatti, secoli di maturazione della democrazia liberale.

Con chi pretende di riassumere in se stesso i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) la cui separazione e il cui equilibrio sono garanzia di libertà per tutti.

Con chi crede di essere il rappresentante diretto di tutto il popolo italiano, quando è solo il rappresentante di un coacervo di forze (la Casa delle libertà) che è stata eletta da una risicata maggioranza degli elettori.

Con chi presume che, per aver conquistato il ruolo di Presidente del consiglio grazie alle sue fortune, gli sia lecito costruire una sua propria e particolare Giustizia (allo stesso modo in cui si è costruito un proprio e particolare Mausoleo).

È difficile comprendere che cosa possa fare la politica, in un regime parlamentare, al cospetto di simili perversi poteri. Resistere è certo necessario: applicando con rigore le regole la propria professione e la propria “missione”.

Come ha dimostrato di saper fare la magistratura; adoperando gli strumenti del proprio potere di garanzia.

Come ha dimostrato di saper fare il Presidente della Repubblica, eletto (anch’egli indirettamente, come B.) da una ben più larga maggioranza.

Come ha dimostrato di saper fare la stampa non asservita al Monarca, che non si riduce alla pattuglia dei giornali più affilati nella denuncia.

Come hanno dimostrato di saper fare i cittadini (di sinistra, di centro e anche di destra) gioiosamente riuniti nella protesta dei girotondi.

Ma resistere non è sufficiente: deve entrare in campo la politica. E perciò la fonte di preoccupazione più grande (placata l’onda dell’indignazione) è quella delle divisioni che dominano ancora nel campo degli oppositori. Soprattutto (duole dirlo a un uomo di sinistra) nel territorio della sinistra.

È accaduto altre volte che le divisioni della sinistra aprissero la strada a lacerazioni dell’intera società, e della stessa storia dell’umanità: avremmo potuto ricordarlo anche tre giorni fa, nel Giorno della memoria. Compito della politica è quindi oggi costruire l’unità del dissenso a questo regime: l’unità quindi di un progetto che proponga al paese la ricostruzione delle basi dello Stato del diritto, della libertà di tutti, del primato degli interessi comuni. All’interno di questo progetto ciascuno maturi ed esprima le proprie posizioni per confrontarle dialetticamente con le altre.

Malgrado le apparenze, gli italiani non usano parole come pane, vino, religione, laicismo, tasse, zucchero, terrorismo, tram, sciopero, padre, madre, carciofo, pomodoro, panettone, maremoto, Dio, amore, malinconia, morte. Non credete alle vostre orecchie ingannevoli: queste parole non si ascoltano mai. Gli italiani amano (o amavano) soltanto due locuzioni avverbiali: E QUANT´ALTRO e IN QUALCHE MODO.

Credo che e quant´altro sia nato quattro o cinque anni fa: all´improvviso, come un atollo del Pacifico; e mi piacerebbe moltissimo sapere chi lo ha usato per la prima volta. Ma i dizionari tacciono. Allora, ascoltavo ogni minuto: «Amo Gesù, la Madonna e quant´altro». «Con mia moglie e mia suocera, abbiamo fatto un viaggio bellissimo a Venezia, Padova e a quant´altro». «Vada al Supermec (rivolto alla domestica filippina) e compri un chilo di patate, due etti di bresaola e quant´altro»; «Adoro Oriana Fallaci, Umberto Bossi e quant´altro». Era un momento di grande euforia, in cui la fantasia linguistica italiana camminava, per le strade di Milano e di Roma, ciondolando come un´ubriaca.

Ora, i tempi gloriosi di e quant´altro stanno per finire. Non sento più nell´aria quella gioia trionfale, quella estatica ecolalia, con cui venivano affacciate possibilità indeterminate. Temo che e quant´altro sia esausto: come cioè, no, a monte, a valle, praticamente, al vostro livello, al massimo livello. Quando le usiamo troppo, le parole si affaticano, impallidiscono, si spossano, si ammalano e finalmente muoiono. Oggi tutti dicono: IN QUALCHE MODO. Per esempio, durante la trasmissione Otto e mezzo, una giornalista simpatica e gentile come Ritanna Armeni dice in qualche modo ogni venti secondi; e ogni volta un´ombra rattrista il suo profumato accento siciliano.

Non è facile comprendere cosa significhi in qualche modo. Secondo il dizionario Zingarelli (1930): «ammettendo per qualche ragione una cosa». Secondo il Devoto-Oli (1990): «considerando con approssimazione». Secondo il Dizionario Garzanti dei Sinonimi e dei Contrari (2001): «come si può, alla bell´e meglio». Secondo il De Mauro (2000): «cercando di risolvere una situazione, un problema anche in modo non ortodosso, arrangiandosi alla bell´e meglio». Secondo lo Zanichelli (2004): «Alla meno peggio, in un modo o nell´altro».

Chi parla non obbedisce ai dizionari; e le gambe troppo obese, lente e tarde dei dizionari non riescono mai a inseguire le fantasie frivole e capricciose che riempiono la bocca degli innumerevoli parlanti. Oggi, in qualche modo significa pressappoco: «Sto parlandovi di una situazione così intricata, aggrovigliata e complessa, che nemmeno io riesco a comprenderla: ma, colla mia mente ugualmente delicata e complessa, cercherò di esprimerla in tutte le sue possibilità e sfumature, così da portarvi vicinissimi alla verità, sebbene non possa coglierla esattamente. Mi dispiace. Mentre questo lungo discorso viene concentrato in tre sole parole, lo sguardo di chi vi parla è perplesso e inquieto, mentre le mani vagliano, accennano, soppesano, oscillano, come bilance, attorno all´imponderabile.

C´è un´altra possibilità. Forse in qualche modo non significa niente: è pura materia verbale, che finge di essere una parola, come molte espressioni di ogni tempo. Gli uomini hanno sempre amato la vacuità fonica: così, nei romanzi di Dickens, Mrs. Nickleby, Mr. Peckniff, Mrs. Gamp, Mr. Micawber bevono suoni, centellinano suoni, masticano e divorano suoni, giocano coi suoni, nuotano arditamente nell´oceano ondoso e tumultuoso dei suoni, specialmente se non vogliono dire nulla.

Qualche sera fa, seduto davanti alla televisione (beata porta del sonno), ho assistito a uno spettacolo prodigioso. Stava parlando un professore di storia, che appartiene a una potentissima famiglia cattolica di Bologna: formata da dodici fratelli, quattordici mogli, quarantotto figli, ventidue cognati, sessanta biciclette, per non parlare dei suoceri e delle suocere, dei nipoti, e dei vicini e lontani parenti. Con fatica, i suoni uscivano dalle immense orecchie del professore: dagli occhi piccoli, puntuti e cattivissimi: e, talvolta, persino dalla bocca. E quant´altro si intrecciava con in qualche modo: praticamente con piuttosto che e al massimo livello. Le parole estenuate e livide dalla noia si irraggiavano in tutti i sensi, aleggiavano nello studio televisivo, s´impigliavano tra i peli elegantissimi della barba di Giuliano Ferrara, sfioravano il bel volto di Ritanna Armeni: la quale, in qualche modo, non capiva niente, come io non capivo, come nessuno riusciva, disperatamente, a capire. Ma tutto questo avveniva, come diceva compiaciutissimo il professore, al massimo livello.

Vedi anche: Per favore, non diciamo...

E' ben noto che solo dopo molte esitazioni furono inserite nella legge sull'espropriazione per pubblica utilità le norme relative alla formazione e all'esecuzione dei piani regolatori edilizi e di ampliamento e che, decisa la loro introduzione, si cerca di ridurre al minimo la facoltà dei Comuni di disporre sistemazioni edilizie, per non turbare troppo profondamente gl'interessi della proprietà immobiliare.

Tale circospezione era perfettamente spiegabile all'epoca, ormai lontana, di approvazione della predetta legge, poiché ben diversa era in quei tempi la condizione dei centri abitati; e le ragioni, che potevano consigliare a regolare la loro trasformazione o a dettare norme per il loro ampliamento, non avevano ancora raggiunto quel grado di importanza ch'esse hanno oggi conseguito.

L’intensità del traffico, ad esempio, era assai limitata anche nelle città più popolose e non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella che si nota oggi in alcuni centri urbani, nei quali l'enorme sviluppo dei mezzi di locomozione e trazione meccanica ha reso tanto penosa la circolazione da far pensare che non bastino più sventramenti e demolizioni, ma che, anche per non intaccare le peculiari caratteristiche di alcune città, convenga deviare nel sottosuolo un parte del traffico, con la costruzione di adatte reti metropolitane, quando non siano sufficienti altre provvidenze intese a dare un diverso ordinamento ai servizi di trasporto in comune [1].

Altrettanto dicasi per i bisogni d'igiene e di decoro edilizio, che a termini delle disposizioni in vigore possono giustificare l'approvazione di piani regolatori e di ampliamento, dato il grande cammino compiuto dal 1865 ad oggi nella valutazione dell'importanza dei bisogni stessi e nella ricerca dei mezzi più idonei per soddisfarli.

E' evidente, quindi, che in una revisione dell'attuale legislazione urbanistica il problema dei piani regolatori dovrà essere affrontato con la convinzione assoluta della necessità di ampliare notevolmente il contenuto dei piani stessi, per eliminare i molteplici inconvenienti cui dà luogo l'attuale insufficienza delle norme in materia di sistemazioni interne e di sviluppo dei centri abitati.

Ma l'opera di revisione non potrà riguardare soltanto il contenuto dei piani regolatori: anche i criteri relativi alla loro estensione dovranno essere opportunamente riveduti per accertare se non debbasi allargarne la funzione regolatrice oltre la cerchia del territorio dei singoli comuni, per disciplinare la sistemazione della rete stradale e lo svolgimento dell'attività edilizia in una intera regione.

Lo sviluppo assunto dagli scambi commerciali, il movimento turistico più notevole e altre cause collegate col diffondersi dei moderni mezzi di locomozione, per cui sono resi possibili rapidi spostamenti d'individui fra località assai distanti, hanno modificato essenzialmente quello stato di fatto in forza del quale ciascuna città poteva considerarsi, agli effetti del traffico, come area isolata, avente cioè poca o nessuna influenza sulle regioni limitrofe. La vita attiva che si svolge in un centro urbano si fa sentire spesso a molti chilometri di distanza dalla cerchia delle sue mura, dando luogo non soltanto ad un aumento del traffico ma bene spesso anche al sorgere di nuovi nuclei edilizi (città giardino, sobborghi industriali, villaggi operai, zone orticole, ecc.), che della città rappresentano un complemento necessario, fino a formare con essa una vera e propria inscindibile unità.

Oggi, quindi, allo stesso modo come si verifica un rapporto d’interdipendenza fra lo sviluppo dei quartieri periferici e la sistemazione delle zone interne, esiste un legame assai stretto fra la vita dell'aggregato edilizio urbano e quella del territorio che lo circonda per un raggio più o meno grande: ciò che obbliga a considerare come oggetto di disciplina urbanistica un «comprensorio» ben più esteso del comune isolato, cioè la «regione».

A tale necessità, che può manifestarsi indipendentemente dall'esistenza di centri urbani, in tutte le località dove siasi sviluppata una intensa attività industriale o dove interessi turistici o bellezze panoramiche consiglino a regolare i mezzi di comunicazione e l'attività edilizia tenendo presenti i vantaggi o i danni che da determinati provvedimenti saranno per derivare alle varie località, è stato convenientemente provveduto altrove con la formazione di piani regionali, di cui numerosi esempi si hanno negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Germania.

Negli Stati Uniti essi sono puramente facoltativi: compilati sotto la sorveglianza della «Division of Building and Housing» del Bureau of Standards, istituito presso il Dipartimento del Commercio, si prefiggono in genere di evitare uno sviluppo disordinato delle costruzioni o la congestione del traffico. Al 1° Gennaio 1931 essi avevano raggiunto il numero di 67 [2].

In Inghilterra la compilazione di piani regionali ha luogo sotto la direzione di Comitati composti di rappresentanti delle amministrazioni interessate (Joint Committees), ai quali queste delegano, con o senza restrizioni, i poteri di cui dispongono in materia di piani regolatori [3]. Secondo l'estensione della delega queste commissioni assumono il carattere di semplici collegi consultivi incaricati della semplice preparazione del piano, salvo a ciascuna amministrazione il diritto di determinarsi liberamente in merito alle proposte da essi presentate, ovvero, caso ben più raro, la veste di organi incaricati della preparazione e attuazione del piano, funzionando in modo analogo ai consorzi amministrativi creati in Italia per l'impianto o lo svolgimento dei pubblici servizi.

Il numero dei «Joint Committees» va aumentando continuamente. Nell'anno 1927 essi erano già 53, riunendo autorità locali [4] ed un territorio complessivo di 7 milioni di acri con una popolazione di 19 milioni di abitanti. Alla fine del 1930 essi erano saliti a 60, comprendenti 880 autorità locali, sopra un'estensione di 52.600 Kmq., con una popolazione di 31 milioni di abitanti.

L'esempio più importante di piani regionali è quello de «La più grande Londra», che riguarda una superficie complessiva di 1846 miglia quadrate e alla cui compilazione sovrintende un «Joint Committee» composto di rappresentanti del Consiglio della Contea di Londra, delle amministrazioni municipali della città e degli altri Consigli di contea e «County boroughs» interessati. Alla del suddetto Comitato funzionano Comitati regionali o rappresentanze speciali intercomunali. Il piano viene redatto per zone e sottoposto per l'approvazione al Ministro dell'Igiene, la cui attività si estende in Inghilterra molto al di là della semplice tutela della salute pubblica e i cui poteri in materia di piani regolatori sono assai estesi, soprattutto per quanto riguarda l'imposizione di speciali obblighi ai proprietari dei beni immobili. I Comitati regionali, composti in maggioranza di urbanisti, sono particolarmente incaricati della coordinazione dei vari progetti. Alle spese necessarie per il loro funzionamento si provvede con i proventi di un'imposta sulla proprietà fondiaria ammontante a 1 80 di penny per ogni lira sterlina di rendita [5].

In Germania esistono già vari esempi di piani regionali, la cui compilazione e attuazione segue più o meno l'esempio della regione della Ruhr. Quivi funziona una Federazione (costituita in forza della legge prussiana del 5 Maggio 1920), la quale esercita funzioni amministrative in parte di coordinazione e in parte di sostituzione dell'attività dei comuni. Essa estende la sua giurisdizione alle circoscrizioni amministrative di Düsseldorf, Arnsberg e Münster, e, nell'ambito del territorio in esse comprese, ha per compito di:

1) collaborare nella formazione di piani di allineamento e di sistemazione, modificando o correggendo eventualmente piani approvati in precedenza. In particolare ha il diritto di fissare l'allineamento di strade che toccano il territorio di più Comuni ed assumerne altresì la costruzione [6];

2) accelerare la costruzione di piccole ferrovie, particolarmente di quelle interessanti il traffico fra i Comuni appartenenti alla Federazione;

3) riservare o creare spazi liberi da costruzione [7];

4) preparare i piani di sviluppo dei centri abitati [8];

5) emanare o abrogare ordinanze sulle nuove costruzioni o sugli alloggi, udito il parere delle Amministrazioni municipali interessate;

6) provvedere alla esecuzione della legge prussiana del 10 Agosto 1904, riguardante la costruzione di case.

Le singole amministrazioni municipali possono provvedere alla compilazione del piano regolatore riguardante il rispettivo comune, salvo alla Federazione il diritto di rivederlo ed eventualmente richiederne la modificazione per accordarlo al piano regolatore regionale. I Comuni rurali, essendo generalmente sprovvisti di organi tecnici idonei, danno incarico alla Federazione di redigere il piano regolatore locale [9].

In Francia gli articoli 8 e 9 della legge urbanistica del 1924 prevedono la formazione di piani regionali attraverso l'istituzione di consorzi ( syndicats de communes) in conformità alle prescrizioni contenute negli art. 116 e 169 della legge 5 Aprile 1884. La procedura in essi prescritta, che pone i comuni interessati allo stesso livello a richiede quindi il pieno accordo di tutti, non è stata però ritenuta applicabile alla regione Parigina, dove i Comuni limitrofi alla Capitale sono in tale condizione di dipendenza dal nucleo urbano centrale da non poter logicamente opporre i loro piani regolatori particolari alle esigenze della regione di cui fanno parte e dove, quindi, si richiede una autorità che, essendo al disopra delle varie amministrazioni, possa accordare gl'interessi contrastanti [10].

Al riguardo giova tener presente che negli ultimi cinquanta anni l'aggregato edilizio parigino, per effetto della sempre crescente immigrazione, ha invaso successivamente i dipartimenti della Senna, della Senna e Oise, e della Senna e Marna e sta per invadere anche quello dell'Oise; d'altra parte lo sviluppo industriale verificatosi senza la guida di un criterio coordinatore ha riempito i dintorni di Parigi di stabilimenti industriali, creando cause molteplici d'insalubrità, danneggiando il paesaggio e aggravando la crisi degli alloggi.

Un sentimento di rispetto per le circoscrizioni municipali esistenti, che ci permettiamo di considerare eccessivo [11], ha impedito al Governo di rimediare ai suddetti inconvenienti, decretando l'aggregazione a Parigi dei territori dei comuni limitrofi venuti a far parte della città. Fu ritenuto invece che alle varie necessità potesse rimediarsi con opportuni provvedimenti da parte del Consiglio generale della Senna: ma se questo è stato possibile fino a qualche tempo fa, quando la zona d'influenza della città non si estendeva oltre il dipartimento della Senna, non lo è più da quando, come si è detto, essa è penetrata in altri dipartimenti. E' stato quindi necessario pensare a un provvedimento che permetta di assicurare una direttiva unica nella sistemazione della regione Parigina e si è giunti così alla compilazione del disegno di legge su «L'aménagement de la région parisienne» che ha riportato l'approvazione della Camera il 20 giugno 1930.

In base alle norme in esso contenute, la preparazione di un piano regionale sarà effettuata a spese dello Stato dal «Comité supérieur de l'aménagement et de l'organisation générale de la région parisienne», istituito nel 1928 e, dopo udito il parere dei Comuni, delle Camere di commercio, delle Camere d'agricoltura, delle Commissioni urbanistiche dipartimentali e dei Consigli Generali interessati, sarà approvato e dichiarato di pubblica mediante una legge che determinerà le modalità e i mezzi finanziari per la sua attuazione.

Entro un anno dalla predetta dichiarazione di pubblica utilità i comuni compresi nella regione dovranno provvedere alla compilazione del piano regolatore o modificare quello precedentemente approvato per metterlo in accordo col piano regionale. L'esecuzione dei lavori da questo previsti avrà luogo a cura dei comuni interessati, per la parte riguardante il rispettivo territorio, o dei consorzi di comuni, rimanendo allo Stato il compito di eseguire lavori recanti modificazione o ampliamento della rete delle strade nazionali o delle ferrovie d'interesse generale.

In Italia un primo tentativo ufficiale di compilazione di piani regionali è stato fatto dalla Commissione nominata nel 1930 dal Governatorato di Roma, con l'incarico di procedere alla preparazione del nuovo piano regolatore dell'Urbe. L'autorevole consesso, partendo dal principio che i problemi dello sviluppo futuro della Capitale sono intimamente legati all'assetto delle comunicazioni con i nuclei abitati ai confini dell'Agro Romano, in ispecie nella direzione dei Castelli e del mare, tracciò fra l'altro uno schema inteso a disciplinare gli allacciamenti della metropoli con i predetti centri satelliti, mediante ritocchi alle comunicazioni ferroviarie a tranviarie, con la costruzione di un'altra autostrada, la creazione di una grande arteria litoranea e con opportuno collegamento del nuovo porto di Ostia col quartiere industriale di San Paolo [12].

Detto piano non ha ricevuto sanzione legale in occasione dell'approvazione del piano generale edilizio e di ampliamento, avvenuta col citato decreto legge 6 luglio 1931, n. 981, dato il suo carattere di larga massima. E' da ritenere tuttavia che l'approvazione sarebbe mancata anche se esso fosse stato molto più dettagliato, in quanto stenta a penetrare nella grande maggioranza del popolo italiano la convinzione se non della necessità almeno della grandissima utilità dei piani regionali.

Ancora ha presa sulla coscienza comune il concetto che il piano regolatore rappresenti un vincolo troppo grave alla proprietà edilizia, un espediente a favore delle amministrazioni municipali per svolgere programmi edilizi spesso temerari, un incentivo a compiere vere e proprie distruzioni di ricchezze e non già un mezzo per aumentare il valore del patrimonio fondiario attraverso il miglioramento delle condizioni igieniche, estetiche e di traffico dei nuclei abitati. Ogni estensione che si voglia dare a questo istituto, entrato a suo tempo nel diritto vigente quasi contro la stessa volontà del legislatore, è guardata con diffidenza, ed ogni difficoltà che presenti nel suo svolgimento è considerata come ostacolo insormontabile. La stessa Commissione reale per la riforma delle leggi sull'espropriazione per pubblica utilità nominata nel 1926 non credette nel suo progetto di far cenno alcuno dei piani regionali, ciò che potrebbe far ritenere che il problema non solo non sia urgente ma che debbasi ritenere non esservi bisogno alcuno di portarlo in discussione.

Noi riteniamo, tuttavia, che debba essere affrontata sollecitamente la disciplina giuridica di questa importante materia. Vi sono, infatti, anche in Italia esigenze alle quali può farsi fronte soltanto se determinati criteri vengono applicati sopra un territorio ben più vasto di quello di un solo comune. L'esempio di Roma, la cui circoscrizione municipale è molto più estesa di molte provincie e dove pure si è intesa la necessità di abbozzare un piano regionale, sta a dimostrare che occorre pensare seriamente a mezzi idonei per la disciplina delle costruzioni e per la sistemazione della rete delle comunicazioni in zone di territorio abbraccianti varie circoscrizioni comunali contermini.

Fra i bisogni più importanti sono da tener presenti:

1) Tutela del panorama. - Esistono in Italia paesaggi deliziosi, la cui suggestività dipende in gran parte dalla speciale ubicazione dei nuclei abitati, dalla varietà della vegetazione, dalla disposizione delle strade, da un complesso insomma di elementi imponderabili, i quali, tutti insieme, concorrono a formare delle bellezze uniche al mondo. Ed invero la nostra terra «per la sua conformazione, principalmente montuosa; per le sue lunghe riviere, sulle quali digradano, ultime propaggini appenniniche, aspri promontori e verdi colline, spesso tagliate da valli e da burroni profondi; per la sua antichissima storia che ha impresso in ogni angolo, su ogni pietra, su ogni zolla la poesia dei ricordi, è ricca, come nessun altro paese in Europa, di singolarissimi aspetti, di curiosità geologiche, di cose interessantissime, poste in siti spesso remoti, viventi in una vita propria, confuse in confini determinati, che permettono di apprenderle in uno sguardo, di descriverle con pochi tratti, di misurarle talvolta» [13]. Orbene, questi scenari meravigliosi possono esser resi ancora più interessanti da una saggia disciplina dell'attività edilizia, così come possono essere irreparabilmente deturpati da abbattimenti di alberi, da costruzioni non intonate all'ambiente, da edifici male disposti, da impianti industriali o ferroviari che non tengano conto della necessità di lasciare immutate alcune zone caratteristiche.

L'introduzione di norme di piano regolatore, aventi carattere obbligatorio per tutti i Comuni compresi nella regione, s'impone, pertanto, come unico rimedio per assicurare l'integrità di un patrimonio nazionale che ci è tanto invidiato.

Del tutto inadeguato è, infatti, il potere concesso al Ministero dell'Educazione Nazionale dall'art. 4 della legge 11 giugno 1922, n. 778, nei casi di nuove costruzioni e ricostruzioni, di prescrivere distanze, misure ed altre norme necessarie perché le nuove opere non danneggino l'aspetto e il pieno godimento delle bellezze panoramiche. Non possedendo alcun mezzo per far giungere a tempo la sua azione, la Direzione Generale di Antichità e Belle arti, deve attendere che le sia indicata la nuova opera: e, quando le giunge la segnalazione, nella maggior parte dei casi nulla può fare perché lo scempio è già avvenuto.

In base alle norme contenute nella legge suddetta il Ministero dell'Educazione Nazionale ha facoltà altresì di notificare ai proprietari l'interesse panoramico di determinati immobili e impedire in tal modo che si inizi qualsiasi trasformazione: ma, come abbiamo già rilevato, le bellezze paesistiche sfuggono ad una precisa identificazione, e quindi si dovrebbe finire per notificare più della metà degli immobili presenti nel territorio italiano; il che è assolutamente inconcepibile, date le formalità che debbono accompagnare la notificazione e i ricorsi cui questa può dare luogo.

Per salvare il paesaggio è stato anche escogitato l'espediente dell'emanazione di decreti ministeriali affissi per sei mesi all'albo pretorio dei Comuni interessati, recanti il divieto di «ostruire le scene panoramiche o di offenderle in qualunque modo con opere non in armonia con i luoghi o in assoluto contrasto col godimento di essi». Senonchè un provvedimento di questo genere, che fu adottato molto opportunamente per Capri e per Taormina, non potrebbe essere esteso agli innumerevoli luoghi degni di particolare tutela dal punto di vista del paesaggio, perché il carattere semplicemente negativo di esso finirebbe per arrestare qualsiasi iniziativa e turberebbe interessi altrettanto gravi quanto quelli che si vogliono tutelare. Invece un piano regionale ben congegnato può, attraverso opportune indicazioni sulla futura dislocazione dei nuovi nuclei edilizi e sulla particolare sistemazione di determinate zone, costituire una preziosa guida per i proprietari d'immobili nell'accertamento di quello che ad essi è permesso fare sui loro beni, permettendo così di fissare programmi per la migliore utilizzazione dei terreni o delle costruzioni senza il pericolo che durante l'esecuzione delle opere intervengano divieti o sospensioni da parte delle autorità preposte alla tutela del paesaggio.

2) Miglioramento del traffico. - Il perfezionamento dei sistemi di trasporto a trazione meccanica ha aumentato enormemente il numero dei veicoli e la loro varietà nei riguardi della velocità, ciò che rende necessario esaminare la possibilità di una ripartizione del traffico su strade diverse, alcune riservate ai mezzi veloci e leggeri (autostrade) altre ai carichi pesanti e lenti o ai veicoli facenti servizio locale [14], accertare le modificazioni da introdurre nei nuclei edilizi di minore importanza attraversati da strade di grande comunicazione, provvedere alla creazione di nuove arterie di collegamento, che facilitino gli scambi tra il centro urbano e altri centri minori in istretta relazione con esso. A tal fine particolarmente utile può riuscire un piano regolatore che si estenda ad una regione abbastanza vasta e che disciplini anche gl'impianti ferroviari, non solo per evitare che la loro presenza costituisca una barriera al deflusso del traffico stradale verso determinate direzioni, ma anche per ovviare alla possibilità di un errato impiego di capitali nella costruzione di ferrovie, le quali non potrebbero offrire oggi tutti quei benefici che indubbiamente avrebbero recato molti anni fa, quando l'automobilismo era ben lontano dall'attuale sviluppo.

Sotto questo punto di vista, anzi, non è esagerato pensare alla opportunità di compilare in un avvenire più o meno lontano un piano regolatore nazionale (comprendente i vari piani regionali convenientemente coordinati fra loro), di cui si notano già le prime basi nel programma di azione dell'Azienda autonoma della Strada, programma che dovrà inevitabilmente risultare sempre più strettamente coordinato al piano regolatore generale delle comunicazioni ferroviarie.

3) Economia nell'impianto e nel funzionamento dei servizi pubblici. - Un piano regolatore, che coordini le iniziative e i provvedimenti volti ad assicurare la sistemazione e lo sviluppo dei nuclei abitati esistenti in un territorio abbastanza esteso, permette a ciascuna amministrazione di raggiungere con una spesa minore il soddisfacimento di determinati bisogni (approvvigionamento idrico, comunicazioni tranviarie intercomunali, impianti per deflusso e smaltimento di acque luride, ecc.).

Esso può inoltre evitare inconvenienti particolarmente gravi nel funzionamento di alcuni servizi pubblici. Al Congresso internazionale di Scienze amministrative, tenuto a Madrid nell'ottobre 1930, un delegato francese, parlando della necessità di ordinamenti amministrativi locali che permettano di risolvere determinati problemi interessanti varie circoscrizioni municipali, segnalò il caso di due comuni contermini, l'uno dei quali prendeva da un piccolo lago l'acqua per uso potabile e l'altro ne aveva fatto luogo di scarico e di smaltimento delle immondizie; e fece presente come inconvenienti di questo genere, moti dei quali sussistono nella «banlieu» parigina, potranno facilmente essere superati soltanto attraverso un piano regolatore appoggiato nella sua applicazione su norme coercitive per tutte le amministrazioni interessate.

Senza dubbio, non esiste in Italia alcuna città nella quale siasi verificato uno stato di cose anche lontanamente paragonabile alle condizioni della regione parigina, dove circa sei milioni di abitanti (quasi il sesto della popolazione dell'intera Francia) vivono agglomerati in uno spazio inferiore alla cinquantesima parte del territorio dello Stato. Si tratta di un fenomeno di addensamento unico al mondo, che non ha riscontro nemmeno a Londra, a New York e a Berlino. Ciò non toglie, peraltro, che uno stato di cose analogo, sebbene in misura ridotta, possa verificarsi in avvenire anche nel territorio circondante qualcuno dei nostri centri urbani, per cui l'adozione di norme intese a disciplinare la materia dei piani regionali farà sì che non si debba mai lanciare gridi d'allarme simili a quelli che per Parigi sono contenuti nella relazione della Commissione parlamentare francese incaricata di esaminare il progetto di piano regionale del quale abbiamo già parlato [15].

4) Zonizzazione. - La storia di questi ultimi anni è caratterizzata da un accrescimento enorme della popolazione delle città [16], da cui è derivato un incremento più che notevole dell'attività edilizia, come necessaria conseguenza della penuria di abitazioni, palesatasi in alcuni luoghi con fenomeni veramente preoccupanti.

Qua e là, peraltro, si è manifestata la tendenza da parte di persone, che nei centri urbani svolgono la loro attività a fissare l'abitazione in comuni vicini o in nuclei edilizi sorti a qualche chilometro dalla città, e ciò principalmente sotto la spinta di ragioni economiche o per il desiderio di trascorrere in tranquillità le ore destinate al riposo.

Questa tendenza, che è stata favorita dalla facilità e dal basso costo delle comunicazioni esistenti fra la città e le località predette, potrà ricevere grande impulso in avvenire col progressivo perfezionamento delle comunicazioni stesse e col costante miglioramento delle reti stradali, che ovunque si sta attuando. Essa, comunque, dovrà essere favorita dalle amministrazioni cittadine come mezzo per alleggerire il traffico e rendere meno ardua la soluzione dei problemi collegati col troppo rapido sviluppo dell'aggregato edilizio.

E' di sommo interesse, peraltro, che ai vantaggi realizzati nelle città non si contrappongano gravi inconvenienti causati dal sorgere caotico di costruzioni ai margini del loro territorio, ciò che può facilmente verificarsi, specialmente quando la speculazione di proprietari di terreni suscettibili di fabbricazione non venga attentamente controllata e tenuta a freno con l'applicazione di opportune norme fissate in ben congegnati piani edilizi. Evidentemente, se un piano regionale avesse disciplinato lo sviluppo delle costruzioni e l'impianto di opifici nella «banlieue» parigina, oggi non si avrebbero a deplorare quei mali che la relazione De Fels ha messo in evidenza.

Si comprende quindi facilmente perché nello studio del piano regionale della «Greater London» il Joint Committee incaricato della compilazione si sia molto preoccupato della questione del sorgere di costruzioni a nastro lungo le strade di maggior traffico ( ribbon development), consigliando l'esercizio del potere di espropriazione dei terreni attigui alle strade principali conferito al Ministro dei Trasporti, e abbia voluto approfondire il problema del «decentramento» delle industrie in modo da distendere sopra un più vasto territorio il traffico da esse prodotto [17].

E poiché gli stessi inconvenienti, sia pure con intensità minore possono verificarsi in molte città italiane, specialmente in quelle dove le industrie si sono maggiormente sviluppate, deve considerarsi come impellente la necessità di una vasta rete di piani regionali, che elimini tempestivamente questo pericolo.

In altri termini, il principio della zonizzazione deve applicarsi anche nel campo della regione, attraverso un piano che determini l'uso al quale ciascuna parte del territorio può essere assegnata, in relazione alle sue speciale caratteristiche, alla posizione geografica e ai rapporti con altre località (zone agricole, zone industriali, zone residenziali, ecc.), e che assicuri una conveniente riserva di spazi liberi, avuto riguardo non soltanto ai bisogni presenti ma anche a quelli futuri.

Sotto questo punto di vista la zonizzazione rappresenta l'unico mezzo per evitare che terreni particolarmente adatti per l'impianto di parchi, zone di ricreazione, ecc. siano irrimediabilmente deturpati da costruzioni prima dell'effettiva destinazione della superficie a tale uso: essa quindi costituisce anche un mezzo per aumentare le attrattive turistiche nei dintorni delle città più importanti, questione che si ricollega alla tutela del paesaggio, di cui abbiamo già parlato, e che ha enorme importanza per il nostro paese, il quale nello sviluppo del turismo vede una fonte non disprezzabile di ricchezza.

Come è ovvio, la destinazione di alcuni terreni agli usi sopraindicati, nell'interesse della popolazione non di un solo centro abitato ma di un'intera regione, potrà far apparire equa la distribuzione del carico finanziario fra tutti i comuni avvantaggiati, anche se l'attuazione del piano regionale sia fatta a cura dell'amministrazione municipale nel cui territorio sono situati i terreni medesimi: ma a tale distribuzione di oneri potrà, se necessario, facilmente provvedersi, applicando al piano regionale il principio del concorso nella spesa, in vigore per le opere pubbliche, considerando cioè i vari comuni obbligati al pagamento di un contributo in misura proporzionale all'utile risentito.

Disciplina giuridica dei piani regionali

Per la formazione e per l'esecuzione dei piani regionali sono sufficienti le norme attualmente in vigore?

Come è facile rilevare dalla lettura delle disposizioni contenute nella legge 25 giugno 1865, questa non fornisce alle amministrazioni municipali i poteri che sarebbero necessari. Nè applicabili possono considerarsi le norme vigenti in materia di Consorzi, poiché gli articoli 10 e 12 del R. Decreto-legge 30 dicembre 1923, n. 2839, portante modificazioni alla legge comunale e provinciale, chiaramente dispongono che la costituzione di consorzi fra comuni deve avere per oggetto «spese o servizi di carattere obbligatorio, quando i comuni stessi non siano in grado di provvedervi isolatamente». Esula quindi da questo campo la materia dei piani regolatori, che implica la determinazione di norme, alle quali ciascun comune consorziato dovrebbe sottostare nello svolgimento dell'attività riguardante sistemazioni edilizie e stradali nel proprio territorio, e l'esecuzione di opere pubbliche connesse con tali sistemazioni.

Ai bisogni che in passato si sono manifestati in qualche comune, per la cui soddisfazione era necessario disporre in tutto o in parte del territorio di altri comuni, si è cercato di rimediare con modificazioni alla circoscrizione territoriale, disponendo cioè variazioni di confini o fusioni di più Comuni in uno solo. Al riguardo è da tener presente che già l'art. 14 del testo unico della legge comunale e provinciale 20 marzo 1865, allegato A) aveva disposto l'unione coattiva di più comuni nell'interesse di quello fra essi, che, non avendo territorio oltre il limite della zona fabbricabile (comune murato) o non avendolo sufficiente, fosse costretto a collocare sul territorio degli altri una parte importante dei suoi servizi [18].

Le suddette disposizioni, integralmente riportate nei successivi testi unici, fino a quello ultimo del 4 febbraio 1915 (art. 119), dettero la possibilità al Governo di rimediare a gravi difficoltà, nelle quali alcuni grandi Comuni erano venuti a trovarsi [19].

Con l'art. 8 del R. Decreto 30 dicembre 1923, n. 2839 fu estesa la portata dell'art. 19 del predetto Testo Unico, stabilendo che l'ampliamento del territorio di un comune potesse esser disposto non soltanto quando esso fosse riconosciuto indispensabile per l'impianto, l'incremento o il miglioramento dei servizi pubblici, ivi comprese le opere portuali, marittime, fluviali o lacuali, ma anche nel caso in cui l'insufficienza del territorio risultasse d'impedimento allo sviluppo economico del Comune stesso.

Successivamente con Decreto-legge 17 marzo 1927, n.383, venne conferita al Governo la facoltà di provvedere entro un biennio ad una revisione generale delle circoscrizioni comunali per disporre l'ampliamento e la riunione o comunque la modificazione del territorio dei vari Comuni anche all'infuori dei casi sopraindicati: ed in base a tale facoltà numerosi provvedimenti sono stati attuati, i quali hanno più che notevolmente ampliato la circoscrizione di grandi Comuni [20].

Questi provvedimenti hanno permesso a molti centri urbani importantissimi di risolvere problemi assai difficili di sistemazione interna e di sviluppo dell'abitato, in quanto è stata data loro la possibilità di disporre l'ampliamento di arterie stradali, di distribuire razionalmente edifici e di sistemare impianti per servizi pubblici senza la preoccupazione di ostacoli insuperabili, quali prima di allora avevano incontrato nella inerzia o nella resistenza delle amministrazioni municipali contermini.

L'inerzia o la resistenza furono determinate talvolta dalla naturale incomprensione di determinate necessità attinenti allo sviluppo cittadino, ma più spesso dalla mancanza dei mezzi finanziari indispensabili per trasformazioni edilizie o sistemazioni stradali relativamente assai costose. E poiché sotto questo punto di vista le condizioni dei Comuni non sono molto cambiate, non è da attendersi nemmeno per l'avvenire una larga collaborazione fra amministrazioni di circoscrizioni municipali contigue per lo svolgimento di una conveniente attività urbanistica.

D'altra parte sarebbe mera illusione il credere che a tutti i bisogni, cui abbiamo accennato in precedenza, sia sempre possibile provvedere con aggregazioni al centro urbano di comuni finitimi o con la fusione in uno solo di più comuni obbligati a risolvere d'accordo determinati problemi. A parte la considerazione che, ingrandendo a dismisura il territorio dei Comuni, le rispettive amministrazioni finirebbero inevitabilmente per perdere la visione esatta dei vari problemi di carattere locale, non si potrebbe mai spingere troppo oltre tale ingrandimento senza andare incontro a difficoltà di carattere amministrativo, finanziario e politico tutt'altro che lievi. Giunti a un certo limite, le questioni relative allo sviluppo edilizio o al funzionamento dei servizi pubblici interessanti più comuni non possono essere affrontate che attraverso la fissazione di norme, alle quali tutte le amministrazioni siano tenute a conformarsi, norme che nei piani regionali trovano la loro sede naturale e la forma più conveniente di attuazione.

In rapporto a tali piani debbono tuttavia porsi varie questioni: a) quale debba essere la loro estensione; b) quale la forma e il contenuto; c) chi dovrà provvedere alla compilazione; d) in quale modo dovranno essere attuati.

Estensione del piano regionale. - Come è ovvio, ogni piano regionale deve abbracciare le circoscrizioni territoriali di tutti i Comuni la cui vita e il cui sviluppo siano in qualche modo legati fra di loro o gravitino sul centro urbano, sì da far ritenere che determinati provvedimenti, volti alla modificazione e allo sviluppo dell'abitato, alla sistemazione della viabilità, all'impianto o alla trasformazione dei servizi di trasporto o di altri servizi pubblici adottati in un comune possano direttamente influire sugli altri e dar luogo ad un miglioramento o ad un peggioramento delle condizioni economiche, igieniche, estetiche o di traffico dell'intera zona cui il piano si riferisce.

Non si possono quindi fissare «a priori» limiti all'estensione dei piani regionali: è da ritenere peraltro che ciascuno di essi non debba in nessun caso oltrepassare i confini della Provincia, sia perché questa rappresenta una entità territoriale basata sopra comunanza d'interessi e di tradizioni e sopra condizioni topografiche ed economiche che distinguono quasi sempre nettamente il territorio appartenente a circoscrizioni diverse, sia perché molto più difficile risulterebbe certamente la compilazione e l'attuazione del piano quando dovesse procedere da organi dipendenti da autorità amministrative di provincie diverse.

D'altra parte, mentre i piani regolatori dei singoli comuni debbono costituire tante maglie del piano regionale, coordinati, quindi, ai criteri generali informatori di questo, i vari piani regionali sono destinati a rappresentare il tessuto di un piano regolatore, sia pure ideale, abbracciante tutto il territorio dello Stato, ciò che autorizzerà l'autorità centrale ad esigere la modificazione di piani regionali appartenenti a provincie diverse, quando qualcuno di essi presentasse caratteristiche tali da contrastare con i principi posti a fondamento dei piani regionali attigui.

Contenuto e forma del piano regionale. - Il contenuto del piano regionale potrà evidentemente essere diverso a seconda delle condizioni del territorio, della natura delle industrie che in esso vengono esercitate, del grado di sviluppo della produzione agricola, della vastità della rete ferroviaria, della presenza o meno di porti, canali di navigazione, ecc. In ogni caso, peraltro, esso dovrà predisporre tutti i provvedimenti necessari per assicurare la sistemazione e lo sviluppo dei vari nuclei abitati, attraverso un coordinamento dei piani regolatori esistenti o che potranno in seguito essere preparati dalle amministrazioni municipali interessate.

Nel piano regionale, pertanto, saranno indicati:

1) l'allineamento delle strade più importanti, sia di quelle già costruite, sia di quelle che dovranno esserlo in avvenire;

2) le modificazioni da apportare alle vie interne degli abitati in relazione alle esigenze del traffico svolgentesi nelle strade suddette: tali modificazioni saranno segnate nel piano regionale come indicazione di massima e dovranno essere opportunamente sviluppate nel piano regolatore speciale di ciascun comune;

3) la distinzione delle zone destinate all'agricoltura da quelle suscettibili di impianti industriali e da quelle in cui potranno sorgere case d'alloggio;

4) l'indicazione delle caratteristiche dei nuclei edilizi di futura costruzione (città giardino, ville signorili, case operaie, ecc.);

5) le zone di rispetto e cioè i nuclei abitati o i terreni che per ragioni igieniche, artistiche o panoramiche, non debbano subire trasformazioni o che possano essere solo parzialmente modificate con l'osservanza di determinate cautele;

6) la natura e l'ubicazione degli spazi liberi (parchi, giardini, zone sportive, ecc.) o degl'impianti indispensabili per il funzionamento di servizi d'interesse generale (acquedotti, collettori per smaltimento di acque luride, mattatoi, tranvie intercomunali, aeroporti, opere per la navigazione, lavori di protezione contro inondazioni, stabilimenti di assistenza e d'igiene, ecc.).

Organo incaricato della preparazione del piano regionale. - Due possono essere le soluzioni: o affidare la compilazione all'amministrazione del Comune più importante della regione, intorno al quale gravitano gli altri comuni come centri satelliti; o demandarla ad un organo tecnico regionale.

La prima soluzione appare indispensabile per quelle regioni nelle quali esista una città assai popolosa o un centro industriale importante, la cui vita influisca in modo preponderante su quella di tutto il territorio, determinando speciali correnti di traffico, attivi scambi commerciali, movimento turistico, ecc. La seconda soluzione è da preferire in quelle località in cui non esista un nucleo abitato, che rappresenti il fulcro della vita della regione, ciò che può verificarsi in una zona mineraria, in una regione litoranea, in un territorio affollato di stazioni climatiche, ecc.

Non è consigliabile affidare un compito così delicato ad assemblee o a commissioni formate da rappresentanti dei Comuni compresi nel territorio, cui il piano si riferisce, perché, più ancora che la diversità di opinioni in rapporto ai vari problemi, gl'interessi eventualmente in contrasto dei vari enti rappresentati farebbero degenerare in vana accademia il lavoro d'indagine circa le condizioni speciali delle varie località, la determinazione dei rispettivi bisogni e lo studio dei mezziper soddisfarli: in ogni caso farebbero mancare quell'unità di vedute assolutamente indispensabile in così delicata materia.

Si è d'avviso quindi che la compilazione del progetto, quando non possa provvedervi la città considerata come centro della regione, debba essere affidata a persona o ente scelto dallo stesso organo incaricato di esaminarlo e proporne l'approvazione, il quale dovrebbe fissarne in precedenza i criteri fondamentali per evitare eventuali insuperabili contrasti con interessi la cui tutela sia esercitata dallo Stato per mezzo di altri organi centrali o locali.

In ogni caso, poi, a garanzia degl'interessi dei singoli Comuni, dovrebbero essere resi obbligatori la pubblicazione preventiva del progetto e l'invito a tutte le amministrazioni municipali a presentare eventuali deduzioni e reclami: lo stesso invito dovrebbe esser rivolto all'Azienda statale della strada e all'Amministrazione provinciale, per le conseguenze che il piano regionale può avere nei riguardi della rete stradale affidata alla loro gestione o di stabilimenti di loro pertinenza.

Dovrebbe infine essere reso possibile il contraddittorio fra ente compilatore e comuni o proprietari interessati e favorita una la rga collaborazione da parte degli organi di associazioni sindacali in modo da assicurare la perfezione assoluta del progetto prima della sua definitiva approvazione.

Esecuzione del piano regionale. - In altri paesi, dove da tempo è in uso la compilazione di piani regionali, l'attuazione di questi ha dato luogo a difficoltà non lievi, in quanto non esiste un organo autorizzato a ordinare ai vari enti il compimento di opere d'interesse comune previste dai piani stessi, modificando eventualmente i rispettivi piani regolatori locali.

Il piano regionale rappresenta in detti paesi una importante obbligazione morale, ma in molti casi non basta per attuare una perfetta collaborazione fra le varie amministrazioni municipali nella fase esecutiva, indubbiamente la più delicata, anche per le conseguenze che può avere sugli altri Comuni interessati il fatto che un'amministrazione municipale non osservi gli obblighi fissati nel piano medesimo. E' perciò che tutte le commissioni incaricate di provvedere alla compilazione di piani regionali in Inghilterra hanno fatto presente nei loro rapporti la necessità di creare uno speciale organo (Executive Committee), avente il compito di controllare il perfetto accordo dei piani regolatori locali con quello regionale e di sovrintendere all'esecuzione di questo, tanto per le opere di competenza delle singole autorità locali quanto per quelle da compiersi mediante accordo fra tutti gli enti interessati [21].

Riteniamo quindi che, introducendo nella nostr alegislazione urbanistica norme sulla compilazione dei piani regionali, debba anche provvedersi all'istituzione di una funzione di vigilanza, che ne assicuri la perfetta attuazione, sia nella sostanza che nel tempo.

Giova osservare a questo proposito che l'esecuzione del piano regionale rende necessari due ordini di provvedimenti:

a) eventuali modificazioni ai piani regolatori dei vari comuni della regione per adattare gli allineamenti, i criteri di zonizzazione e la disposizione di opere pubbliche alle direttive generali stabilite dal piano regionale;

b) esecuzione di opere pubbliche giudicate indispensabili per raggiungere gli scopi posti a fondamento del piano regionale.

Mentre i provvedimenti della prima categoria sono facilmente attuabili o per libera determinazione dei Comuni interessati, ai quali sia rivolto apposito invito dall'autorità tutoria, o d'ufficio, quando l'invito risulti inefficace, non altrettanto facile si presenta l'attuazione dei provvedimenti della seconda categoria. Per questi, infatti, trattasi di stabilire anzitutto la data dell'esecuzione e le modalità di finanziamento, materie sulle quali i Comuni interessati possono manifestare delle intenzioni non rispondenti alle reali necessità. Il verificarsi di siffatta eventualità può far perdere al piano regionale gran parte della sua efficacia, specialmente quando dall'esecuzione di una determinata opera in un Comune dipenda la possibilità di eliminare difficoltà al traffico o al regolare funzionamento dei pubblici servizi nell'intera regione.

La visione di questi inconvenienti, molto gravi per la regione parigina, dato ch'essa occupa circoscrizioni dipartimentali diverse, ha spinto uno studioso della materia a proclamare che l'attuazione del piano della «più grande Parigi» dipenderà unicamente dalla soluzione del problema dell'autorità dirigente e che tale soluzione potrà essere conseguita con l'unificazione dei servizi pubblici d'interesse generale nell'ambito dell'amministrazione dipartimentale della Senna [22].

Noi non crediamo che in Italia si debba arrivare fino a questo punto, sia perché, come abbiamo già avuto occasione di rilevare, non esistono nel nostro paese casi di agglomerazione urbana che possano anche lontanamente paragonarsi a quella parigina, sia perché la legge comunale e provinciale permette la fusione di più comuni nei casi in cui si presentino legami assai stretti fra circoscrizioni comunali contermini ovvero si manifesti la necessità di unificazione per il migliore funzionamento di importanti servizi pubblici, sia perché a molti servizi d'interesse comune può provvedersi con l'istituzione di appositi consorzi amministrativi.

Rimane però sempre l'opportunità di una direzione unica per quanto riguarda la data di esecuzione delle singole opere e questa potrà essere ottenuta anzitutto indicando nelle norme di attuazione allegate al piano regionale l'ordine di successione di quelle più importanti e affidando inoltre al Prefetto il compito di imporre ai Comuni obbligati al compimento delle singole opere di provvedervi entro un certo termine, sotto minaccia di esecuzione d'ufficio.

Il Prefetto dovrebbe anche essere autorizzato a imporre all'amministrazione provinciale l'esecuzione delle opere di sua competenza e a sollecitare gli organis tatali (Azienda della strada, Amministrazione feroviaria, ecc.) ad attuare i provvedimenti che il piano regionale avesse posto a loro carico e dei quali fosse accertata l'indifferibilità.

Esaminato, come modestamente abbiamo cercato di fare, il problema dei piani regionali sotto tutti gli aspetti, appare evidente che la sua soluzione, mentre risulta ormai improrogabile, in vista di bisogni cui i piani regolatori comunali non possono sufficientemente provvedere, non comprometterà in alcun modo nè gli interessi delle amministrazioni municipali nè quelle dei proprietari di immobili.

Infatti l'introduzione dei piani stessi, in forma obbligatoria o facoltativa, non sarà per recare pesi troppo gravi nè alle une nè agli altri. Al contrario, anzi, è da ritenere che tanto gli enti pubblici quanto i proprietari potranno esserne notevolmente avvantaggiati.

Spariranno per i Comuni molte delle difficoltà, cui essi oggi vanno incontro nel determinare i criteri di estensione dell'abitato e nel procedere alle sistemazioni relative, in quanto queste non risulteranno intralciate da eventuali contrarie iniziative adottate da altri enti o da privati, fuori della cerchia dell'abitato o oltre i limiti della circoscrizione municipale.

Lo Stato e le Provincie non vedranno resa più difficile la loro azione nel campo delle opere pubbliche da provvedimenti delle amministrazioni in contrasto con le direttive poste a fondamento delle opere stesse o da un impiego dei beni privati tale da renderne più onerosa l'attuazione.

I proprietari infine potranno con maggiore tranquillità predisporre l'utilizzazione degl'immobili loro appartenenti, senza la preoccupazione di vedere in un'avvenire più o meno lontano compromessi i risultati della loro attività dall'adozione di iniziative, da parte degli enti pubblici, contrarie alla forma di sfruttamento dei beni stessi a suo tempo prescelta.

Saranno così evitati in molti casi l'abbattimento di costruzioni o la trasformazione di immobili, cui oggi è quasi sempre subordinata l'esecuzione di opere pubbliche, provvedimenti questi che, se sono ampiamente giustificati da un interesse superiore da tutelare, rappresentano tuttavia delle vere e proprie distruzioni di ricchezza e, come tali, hanno una ripercussione non favorevole sull'economia privata e di riflesso su quella della collettività.

[1]Cfr. Ugo Vallecchi: Il problema del traffico in rapporto ai piani regolatori urbani e regionali. Relazione al XIII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori nel Volume edito dalla «International Federation for Housing and Town Planning», London, 1931.

[2]The American City, Agosto 1931, pag. 3.

[3]Henry Puget: La legislation anglaise en matière d'urbanisme, Bruxelles, 1931.

[4] E' opportuno tener presente che l'ordinamento amministrativo inglese diversifica profondamente dal nostro. Per «autorità locale» si devono intendere i Consigli dei Boroughs, o i Consigli dei distretti urbani o rurali. Solo un centinaio di città costituiscono dei boroughs: per quelle che non lo sono la compilazione e attuazione del Piano Regolatore è compresa nelle attribuzioni del «District», circoscrizione creata sopratutto per provvedere al funzionamento dei servizi della viabilità e dell'igiene.

[5]First Report of the Greater London Regional Plan Committee, Dicembre 1929.

[6] Nel periodo 1927-1930 la Federazione ha intrapreso direttamente la costruzione di 130 km. di strade destinate a facilitare le comunicazioni su un territorio di 4571 kmq.

[7]Alla data del 1° Giugno 1931 l'estensione degli spazi verdi intercomunali, di cui la Federazione ha assicurato il mantenimento, rappresentava più di un terzo della superficie totale del territorio su cui la Federazione stessa esercita la sua giurisdizione.

[8] Mediante questi piani, aventi carattere obbligatorio per le autorità locali, è possibile alla Federazione fissare per una determinata zona lo spazio necessario alla circolazione e le aree rispettivamente destinate alla costruzione di case, a stabilimenti industriali, a pubblici passaggi, ecc.; quando ciò non sia stato fatto attraverso il piano regolatore generale.

[9] «Landesplanung und Verwaltungsgebiete in Ruhrgebiet» (International Housing and Town Planning Bulletin, Maggio 1930, n. 22).

[10] Confr. Francois Latour: Le «plus grand Paris» problème d'autorité, Paris, 1930.

[11]Tale rispetto è stato spinto fino al punto di conservare l'autonomia del Comune di Montmartre, che, come è noto, occupa una delle zone centrali di Parigi.

[12] Cfr. Relazione programma al Capo del Governo sul progetto del Piano regolatore di Roma, redatta dall'Accademico Marcello Piacentini, pubblicata nel volume «Piano Regolatore di Roma - 1931, anno IX», edito dal Governatorato di Roma, pag. 21.

[13] Relazione dell'avv. Luigi Parpagliolo sulla «difesa del paesaggio», Le Vie d'Italia, aprile 1931.

[14] Cfr. E.Fuselli: Il problema del traffico in rapporto ai piani regolatori regionali. Studio pubblicato nel volume delle Relazioni al XIII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori.

[15]Il relatore On. De Fels, parlando delle attuali condizioni delle banlieu parigine dichiara: «Cette formidable, cette monstrueuse agglomération humaine, qui n'a pas de précédent dans l'histoire, se développe presqu'au hasard et crèe pour la nation tout entière une très grave menace politique, sociale et économique. «Politiquement, la grande pitié des banlieues conduit trop souvent à la misère et au mécontentement justifié. Ce sont peut-être le seules régions de France qui transforment, par suite des difficultés qu'ils y recontrent, le spetits propriétaires en revoltés contre l'ordre social. Au sein de populations si énervées et si déprimées, les voix des orateurs communistes rencontrent des échos nombreux. Depius dix ans, autour de la capitale, la «ceinture rouge» s'est reserrèe.

«Socialment, dans ces milieux, où les plus élémentaires principes d'hygiène individuelle et familiale et social ne sont pas respectés, la santè publique est menacée. Dans les taudis, dans les cités empuanties par la fumée des usines, la tubercolose et le cancer trouvent un milieu favorable. La mortalité enfantine atteint un coefficient tragique. Par manque d'oeuvres sociales, par pénurie d'écoles des enfants errent abandonnés, sans contrôle, sans surveillance. Faute d'espaces libres, de terrains de de sports organisés, la jeunesse ne peut arriver à son complet développement. L'avenir de la race est en péril.

«Economiquement, les pertes de richesses, les manque à gagner, sont aussi faciles à déterminer. On travaille mal dans le désordre. Une organisation irrationelle pour l'habitation, la circulation, les transports, le zoning entraîne, comme conséquences, une absence de coordination et de liason entre les divers facteurs de la production et un perte de temps énorme. Cette élévation des fraix généraux des entreprises se traduit finalement par une perte de richesse et un affaiblissement dans la concurrence internationale.

«Ainsi, les problemes posés par la région parisienne dépassent largement le cadre des préoccupations locales. Ils intéressent toute la collectivité francaise. Aucun citoyen si làches que soient le sliens qui le rattachent à la capitale, n'à le droit de demeurer indifférent devant une situation qui peut divenir tragique. Mais c'est aussi son intérêt bien entendu, qui lui interdit toute abstension».

[16] Come risulta dal seguente prospetto negli ultimi sessanta anni la popolazione di molti capoluoghi di Provincia si è raddoppiata o triplicata ed in alcuni addirittura più che quadruplicata (di seguito: Città, Censimento 1871, Censimento 1901, Censimento 1931).

Bari 50.524, 77.478, 171.810; Bologna 115.957, 152.009, 246.280; Brescia 38.906, 70.614, 118.839; Catania 84.397, 149.295, 227.765; Cosenza 15.962, 21.545, 36.113; Firenze 167.093, 205.589, 316.286; Genova 130.269, 234.710, 608.096; Grosseto 6.316, 9.599, 23.997; La Spezia 24.127, 65.612, 107. 958; Milano 199.009, 491.460, 992.036; Napoli 448.335, 563.540, 839.390; Roma 244.484, 462.783, 1.008.083; Taranto 27.546, 60.733, 105.946; Terni 15.037, 30.641, 62.741; Torino 252.644, 335.656, 597.260; Venezia 128.901, 151.840, 260.247.

[17]Cfr. Relazione citata della Commissione per il piano regionale de «La più grande Londra», pag. 4.

[18] Siffatta necessità, che sussiste tuttora per alcuni Comuni nei riguardi della stazione ferroviaria, si verificò in passato abbastanza spesso per servizi cittadini importanti, come il gazometro, l'impianto di distribuzione idrica, ecc., e talvolta perfino per il cimitero e la casa comunale.

[19]Fra i vari provvedimenti adottati citiamo l'ampliamento dei comuni di Milano (1873), Siena (1876), Lodi (1877), Pistoia (1877), Brescia (1880).

[20] Sedici capoluoghi di provincia hanno ricevuto notevoli ampliamenti del territorio dal 1923 in poi, come risulta dai seguenti dati statistici: [di seguito Città, Numero di Comuni o Frazioni aggregate, Superficie del territorio annesso in ettari, Popolazione dei comuni annessi al Censimento 1921]. Aquila 9, 42.920, 23.882; Bergamo 4, 1.227, 9.063; Brescia 1, 1.103, 4.426; Cagliari 4, 7.224, 18.117; Campobasso 3, 6.148, 6.431; Genova 16, 18.042, 174.633; Gorizia 1, 1.215, 2.431; Imperia 3, 1.865, 21.896; Messina 1, 807, 1.477; Milano 13, 12.939, 98.288; Napoli 8, 9.855, 92.947; Parma 5, 25.197, 39.267; Reggio Calabria 14, 17.957, 48.703; Rieti 3, 12.190, 8.373; Venezia 5, 13.132, 35.561; Verona 5, 8.319, 24.650; Viterbo 3, 3.607, 6.519.

[21]Cfr. Relazione della Commissione per il piano regionale della «Grande Londra», pag. 5. Cfr. anche «Report prepared for the North West Surrey Joint Town Planning Committee», pag. 49.

[22]Francois Latour, Op. cit., pag. 26.

L'articolo è intitolato "Note sull'origine e diffusione del pomodoro", ed è illustrato da alcune ricette di Ippolito Cavalcanti, tradotte dal napoletano del suo libro Cucina teorico-pratica col corrispondente riposto, Napoli 1839. Non sapevo che i vermicelli si potessero cucinare a crudo. Mario Moraca mi dice che sua nonna ancora li cucinava così.

Timpano di vermicelli con pomidoro cotti crudi

Per ogni 225 grammi di vermicelli ci vanno 900 grammi di pomidoro, peró debbono essere di quelle tonde e non molto grandi.

Prendi la casseruola proporzionata per numero di coperti, che dovrai servire, farai in essa una verniciata di sugna (strutto), dipoi dividerai per metá li pomidoro, e li porrai nel fondo della casseruola, con la parte umida al di sotto, e la pelle al di sopra, e sopra di esse ci porrai un altro filo di pomidoro anche divise per metá, con la differenza, che la parte umida delle seconde resterá alla parte di sopra, e cosí sará coverto tutto il fondo della casseruola; ci porrai del sale, del pepe, e sopra di esse adatterai li vermicelli crudi, spezzandoli siccome é la larghezza della casseruola, e ne coprirai li pomidoro; sopra i vermicelli porrai gli altri pomidoro divisi sempre per metá, che spruzzerai di sale, pepe, e sopra di esse situerai gli altri vermicelli di contraria posizione degli antecedenti, e cosí praticherai finché si sará riempita la casseruola; l'ultimo suolo (strato) di pomidoro li situerai, con la pelle dalla parte di sopra, e per ultimo ci porrai il condimento; sia olio, sia strutto, sia burro, sará sempre prima liquefatto, e quindi lo verserai nella casseruola, che farai cuocere come al timpano.

Debbo prevenirti ancora, che se ti piace farlo di magro ci farai de' tramezzi di alici salate, ed allora ci porrai foglio; se volessi condirlo con burro, o strutto, potrai farci de' tramezzi (strati) di fettoline di mozzarella; par, che mi sia bastantemente spiegato per questa inetta operazione, e laddove non giunga la mia insinuante spiegazione, supplirá la tua perspicacia.

da Ippolito Cavalcanti, Cucina teorico pratica col corrispondente riposto..., Napoli 1839, pp. 57-8.

Il sito di I frutti di Demetra, gustoso bollettino di storia e ambiente

Considero questa ricetta una delle più grandi invenzioni della cucina napoletana, è il giusto equilibrio della materia, dove i sapori degli ingredienti (poveri) si fondono trasformando una semplice verdura in una pietanza divina.

Chiaramente per ottenere buoni risultati in cucina bisogna partire dalla buona qualità degli ingredienti.

Ingredienti per 4 persone:

- 2 cespi di scarola liscia

- 50 gr di olive nere di Gaeta

- 20 gr di capperi sotto sale sciacquati, possibilmente delle isole siciliane

- 15 gr di pinoli

- 25 gr di uvetta sultanina, da lasciarla rinvenire in acqua tiepida

- un cucchiaio di pecorino grattugiato

- un cucchiaio di pangrattato fresco

- 4 filetti di acciuga sott'olio

- 2 cucchiai di buon olio extravergine di oliva

- un'idea di aglio, prezzemolo, sale e pepe

Preparazione:

Lavate le scarole lasciandole intere e scartando soltanto le foglie più esterne. Scottatele in abbondante acqua salata in ebollizione per tre quattro minuti. tiratele su con la schiumarola, passatele velocemente sotto l'acqua fredda, appoggiatele sul colapasta e lasciatele intiepidire.

Riunite in una ciotola le olive snocciolate e spezzettate, l'uvetta sciacquata e asciugata, i pinoli, i capperi, il pecorino, i filetti d'acciuga a pezzetti, poco prezzemolo e qualche pezzettino d'aglio, 1/2 cucchiaio di pangrattatto, e mescolate il tutto. Asciugate le scarole premendole delicatamente fra le mani, poi dividete ogno cespo in due.

Ponete la metà in un piatto largo, con l'interno rivolto verso di voi e il torsolo in basso, allargate le foglie ed eliminate il torsolo e farcite ogni mezza pianta con un po' del composto preparato. Partendo dal torsolo, ripiegate verso il centro i bordi delle scarole in modo da chiudere completamente l'imbottitura e da formare un grosso involtino.

Ungete una pirofila da forno con un po' d'olio e disponetevi gli involtini di scarola uno accanto all'altro, cospargeteli con il resto del pangrattato e bagnateli con un po' d'olio. Mettete nel forno precedentemente scaldato a 180 gradi per circa mezz'ora fino a che il pangrattatto non avrà formato una crosticina dorata. Togliere dal forno e lasciare raffreddare, la scarola va servita tiepida.

La galleria raccogli immagini ottenute razzolando in internet. Qui una biografia di Henry Cartier-Bresson

RELAZIONE DELL'ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA

A CURA,DELLACOMMISSIONE PER LO STUDIO DEI PROBLEMI DEL PIANO REGIONALE [da: Rassegna del Primo Convegno per la Ricostruzione Edilizia, Milano 14-16 dicembre 1945, Edizioni per la Casa, 1946]

La Commissione ritiene necessario che i problemi relativi ai Piani Regionali, con speciale riguardo alle necessità della Ricostruzione, siano resi noti al pubblica a mezzo della stampa, della radio, e di conferenze, affinché risulti ben chiaro, sia a coloro che saranno i responsabili di quanto si farà nei prossimi anni, sia a coloro che a detti piani dovranno attenersi, che è indispensabile, per iniziare in maniera organica il lavoro della Ricostruzrone della Patria, ricorrere a detti Piani Regionali, coordinatori di tutti i problemi urbanistici interessanti i vari territori.

La Commissione fa voti affinché il risultato dei propri studi sia preso in esame econsiderato attentamente da tutti i Ministeri e gli Enti interessati alla Ricostruzione.

Nella prima fase dei suoi lavori, la Commissione ha stabilito di analizzare il problema del Piano Regionale nel quadro della Ricostruzione Nazionale; ha pertanto considerato l’opportunità dello studio di un Piano Regionale in quelle zone che sono situate nell’interno del territorio o lungo le coste, dove più a lungo ha sostato la linea di combattimento. Infatti è ovvio che per organizzare la vita ed i traffici in queste zone, è necessaria l’impostazione di un vasto programma di opere che coordini le reti stradali e ferroviarie, lo sviluppo dei Piani di Ricostruzione degli aggregati urbani distrutti, regoli lo sviluppo industriale, agricolo ed economica del territorio eche sopratutto provveda affinché ciascun Ente non operi indipendentemente, ma nell’interesse generale della regione.

A tal fine ha stabilito il programma di studio nei suoi elementi:

1) Rete delle comunicazioni(strade, ferrovie e trasporti pubblici, aeroporti, porti, idroscali, vie fluviali).

2) Azzonamento(industriale, di bonifica, paesistico, turistico, di cura e soggiorno ).

3) Spostamento dei centri abitati distrutti dalla guerra e piani di Ricostruzione dei centri danneggiati.

4) Ente coordinatore efinanziatore dei Piani Regionali.

Occorrerà determinare attentamente quanto èpossibile fare di definitivo sin da adesso, quanto è raccomandabile rimandare ad un secondo tempo piuttosto che compromettere con soluzioni inadeguate l’avvenire delle zone in esame, quanto deve venire interdetto e vincolato per non ostacolare le future realizzazioni, quanto infine, perché legato a s oluzioni ideali, ma in questo momento economicamente irrealizzabili dovrà essere procrastinato. Pertanto tali realizzazioni dovranno essere eseguite tenendo conto delle disponibilità finanziarie dell’attuale momento.

Base iniziale, per procedere nello studio dei Piani Regionali di Ricostruzione, èl’esatta conoscenza di tutti i dati statistici interessanti i territori in esame, necessari per uno studio organico e razionale. Pertanto, oltre ai dati relativi agli abitati danneggiati (quali l’elenco degli edifici distrutti, gravemente o lievemente danneggiati, a numero dei vani distrutti e degli abitanti senza tetto ecc.), occorre che siano predisposte tutte quelle indicazioni statistiche che possano, con l’eloquenza delle cifre, rendere palesi le caratteristiche dei diversi centri urbani e della regione, quali erano prima dei danneggiamenti ed individuare i problemi da risolvere.

Sarà così necessario conoscere i dati demografici, quelli relativi ai servizi elettrici, dell’acqua e del gas, all’intensità di circolazione dei vari mezzi di locomozione e alle industrie in genere, nonché quelli economici, metereologici in genere e di appartenenza a professioni,arti e mestieri.

Tutte queste cognizioni, utili in ogni momento per la vita organizzata di qualsiasi comunità, dovrebbero essere predisposte ed aggiornate in ogni Comune, specialmente in questo momento iniziale della Ricostruzione.

PRIMO ELEMENTO -Rete delle comunicazioni (strade,.ferrovie e trasporti pubblici, porti, vie fluviali, aeroporti, idroscali)

A) Strade.

Considerato che per le distruzioni subite dalla rete ferroviaria e le difficoltà per un sollecito ripristino, le strade. nazionali e secondarie devono essere messe in efficienza al più presto possibile, al fine di poterle utilizzare per il transito degli autoveicoli onde risolvere il sistema dei trasporti, base della nostra Ricostruzione e del nostro lavoro, si provveda a quanto segue:

Riesame dei tracciati delle arterie più importanti che formano la spina dorsale di tutto il sistema di comunicazioni, specialmente dove queste attraversano aggregati urbani o allungano inutilmente il percorso; eventuale allargamento delle sedi stradali e ripristino delle opere d’arte danneggiate e distrutte, migliorando o addirittura trasformando i ponti, i sopra e sotto passaggi, specialmente negli incroci con le linee ferroviarie, onde eliminare o ridurre al minimo i passaggi a livello, secondo i progressi compiuti in questo campo da tutto il mondo.

Opportuna ubicazione delle stazioni di rifornimento, officine di riparazioni, posti di pronto soccorso.

Collegamento dei nuovi centri urbani previsti con i rispettivi centri economici, come impianti industriali, zone agricole e fonti di rifornimento in genere.

Creazione di vincoli riguardanti la distanza delle nuove costruzioni dal ciglio stradale (p. es. ml. 20 per le statali, ml. 10 per le provinciali, comunali e di bonifica; per le strade di montagna e di collina a mezza costa i limiti predetti potranno essere ridotti opportunamente quando venga costituito adeguato vincolo di non costruzione sul lato opposto della strada).

B) Ferrovie e trasporti pubblici.



a) Per le line ferroviarie principali e secondarie:

1) Premettere ad ogni programma di ricostruzione. e di riassetto un accurato esame della linea alla stregua dell’esperienza del periodo critico dei trasporti ferroviari sottoposti alla concorrenza degli autotrasporti e tenuto conto dei progressi tecnici conseguiti e conseguibili in un prossimo futuro, così da abbandonare senz’altro le linee ferroviarie che a causa del tracciato, delle loro caratteristiche costruttive, o per altre ragioni non possono risultare vitali e non siano suscettibili di conveniente trasformazione.

2) Nel programma di Ricostruzione e di riassetto, ispirato naturalmente a criterio di graduazione secondo l’importanza del traffico affluente alle diverse linee, contenere la tendenza a ricostruire gli impianti tal quali erano, provvedendo:

a) a studiare, in base alle correnti dei traffici attuali e futuri, alla luce dei più recenti concetti tecnici e delle acquisizioni dell’esperienza, rettifiche di tracciato od anche più radicali trasformazioni inquadrate in un generale riordinamento della rete, nonché modificazioni delle relative caratteristiche piano-altimetriche che consentano di ridurre le distanze virtuali fra i nodi più importanti e di conseguire maggiori velocità di percorso;

b) a riesaminare le ubicazioni delle stazioni, eventualmente spostandole in località più convenienti, avuto presente lo sviluppo attuale e futuro degli aggregati urbani;

c) a prevedere (previo un esame integrale economico-finanziario) spostamenti del tracciato ferroviario in prossimità di importanti città o di stazioni climatiche di cura e soggiorno, ove quello impedisca o trattenga lo sviluppo urbano, disponendo altrimenti convenienti modifiche di impianti e costruzioni (cavalcavia, sottovia, ecc.) così da assicurare la continuità delle comunicazioni stradali fra le zone adiacenti le ferrovie.

3) Per i grandi centri urbani, ove sia da proporsi la ricostruzione o lo spostamento della stazione centrale, evitare la soluzione della stazione di testa, in ogni caso da essere disposta radialmente, ed ogni notevole allontanamento dal centro cittadino, ed altresì escludere la eccessiva importanza dei fabbricati di stazione concepiti come monumentali porte di città, esuberanti al loro contenuto funzionale.

4) Prevedere, secondo un piano di rapida attuazione, la soppressione dei passaggi a livello in corrispondenza delle strade di grande traffico statali e provinciali e nei centri urbani la costruzione di cavalcavia e sottovia così da assicurare la continuità fra i quartieri adiacenti a tracciati ferroviari di cintura e di penetrazione.

5) Nei confronti delle ferrovie in regime di concessione urge più che mai un esame accurato sulle possibilità di vita di ogni linea, anche tenuto conto del traffico viaggiatori e merci realmente pertinente in base ai critèri vigenti; ove questo non sia modificabile. Esaminare in questa sede eventuali passaggi di gestione dallo Stato all’industria privata o viceversa, così da costituire complessi vitali ed efficienti, eliminando sterili concorrenze e sopprimendo tronchi di evidente inutilità.

6) Prevedere allacciamenti di adeguata potenzialità noti impegnanti la viabilità ordinaria, con le zone industriali, i porti e gli scali fluviali.

7) Imporre con provvedimenti di imperio una più larga zona di vincolo e divieto nei confronti delle nuove costruzioni rispetto alle linee ferroviarie principali (ad esempio, ml. 20 dall’asse galleria, piede del rilevato o ciglio della trincea, e per le secondarie e foranee ml. 10).



b) Per le comunicazioni foranee e vicinali d’interesse locale:

1) Studiare come questione pregiudiziale ed essenziale, un piano organico, da attuarsi anche gradualmente in periodo non breve, di tutte le comunicazioni di interesse locale, inteso a costituire un sistema di rapidi trasporti efficienti ed economici sia fra centri e centri, sia soprattutto con funzione centripeta di disurbanamento nei confronti dei grandi agglomerati urbani.

2) Tale studio, anche tenuto conto degli impianti di trasporto pubblico già esistenti e del loro stato di efficienza e di danneggiamento, prevederà una razionale distribuzione dei vari sistemi di trasporto (ferrovie rapide, tranvie, linee filoviarie ed automobilistiche, funicolari, funivie ecc.) secondo i tracciati più opportuni e le necessità e caratteristiche del traffico, così da conseguire la massima e più conveniente efficienza dei trasporti nelle più favorevoli condizioni economiche. Interessa anche in questo caso evitare la frettolosa ricostruzione di impianti tecnicamente superati e di efficienza inadeguata, o comunque prevedere, nel piano economico, la eliminazione prossima di tali impianti (p. es. tranvie extraurbane su sede stradale).

3) In corrispondenza delle grandi città le stazioni ferroviarie delle linee foranee saranno da ubicarsi il più possibile ravvicinate ai centri vitali urbani, in opportuna coordinazione con i diversi mezzi di pubblico trasporto di superficie; con tracciato di penetrazione in trincea, in sotterraneo o in viadotto, così da non interrompere le comunicazioni stradali fra i quartieri adiacenti.

c) Trasporti pubblici urbani:

1) Provvedere ad un piano organico come per le comunicazioni foranee ed a una ridistribuzione dei vari sistemi di trasporto, prevedendo entro un futuro assai prossimo la estromissione dalle strade urbane delle tranvie non previste in sede separata.

C) Vie fluviali. - Opportunità di provvedere al riattamento ed utilizzazione dei sistemi di canalizzazione esistenti e riprendere i lavori già iniziati per realizzare la linea navigabile Milano-Po. Provvedere a rimettere in efficienza i canali a scopo promiscuo esistenti nell’Emilia, nella Toscana e nel Lazio, onde agevolare il trasporto dei prodotti della terra ai centri industriali di lavorazione.

D) Aeroporti ed idroscali. - Necessità di adattare gli impianti attuali alle nuove esigenze indirizzate verso la aviazione civile, che certamente avrà grande sviluppo, date le difficoltà delle comunicazioni marittime e terrestri, non escludendo tuttavia modeste aliquote di campi-scuola, di collaudo, di studi ed esperienze.

Tenere conto che la necessità dei campi di fortuna è oggi assai meno sentita, date le attuali ridotte probabilità di avaria; la loro esistenza potrà tuttavia utilmente adattarsi allo sviluppo di una aviazione economica e turistica (taxi aerei).

Studiare una adeguata distribuzione di basi aeree per una rete nazionale, collegando i centri principali, in considerazione del fatto che una linea frazionata in molteplici scali, sottopone le macchine ad un tormento eccessivo e richiede numerose e costose infrastrutture che aumentano le spese di esercizio senza offrire possibilità di adeguate entrate. Tener presente che, in condizioni normali, su brevi percorsi; la concorrenza dei mezzi terrestri ha nettamente ragione su quelli aerei, specialmente per la posta e le merci.

Pertanto, dato che a causa del rendimento economico della gestione le reti aeree nazionali toccano solo poche basi ed ancora meno ne toccano le linee internazionali, sarà indispensabile provvedere a tutti quei collegamenti terrestri e marittimi in coincidenza con le linee aeree, onde consentire anche a quei centri che non sono toccati dai percorsi aerei di usufruire dei grandi vantaggi di questi.

E) Porti.

Tenuto conto che il funzionamento dei porti è vitale per la rinascita della Nazione, specie in questo periodo di difficoltà per i trasporti interni, e che pertanto l’opera di Ricostruzione va affrontata con la maggiore urgenza e con la massima energia, è necessario in un primo tempo:

1) ridare efficienza ai porti minori dove con più facilità può svilupparsi il traffico di cabotaggio, utilissimo per una equa distribuzione in tutto il Paese dei prodotti delle singole regioni italiane;

2) nei porti di maggiore importanza ricostruire le banchine e le attrezzature che dovranno servire ad agevolare le importazioni dei generi alimentari che vanno immagazzinati in silos, frigoriferi e che sono destinati allo sbarco di materie prime indispensabili per la ricostruzione;

3) ripristino in tutti i porti degli scali di alaggio per la riparazione dei natanti affondati. Dopo la esecuzione dei lavori più urgenti si dovranno rimettere in efficienza tutti i porti e pertanto occorre studiare il Piano Regolatore di ciascun porto onde adeguare ogni scalo al compito che gli sarà assegnato dalla economia del dopoguerra.

A tale scopo si fa presente la opportunità dell’ampliamento dei servizi dei porti, là dove sono stati distrutti dei quartieri cittadini limitrofi agli impianti portuali, al fine di migliorare, se è necessario, la efficienza dei porti stessi;

4) tenere conto della necessità di comode e facili comunicazione tra le zone industriali e i porti;

5) nei porti che funzionano anche da basi navali, studiare una conveniente separazione della zona destinata al traffico commerciale dalle zone di competenza militare.

SECONDO ELEMENTO - Azzonamento (industriale; di bonifica, turistico, paesistico, di cura e soggiorno).

A) Industriale.

Per le industrie totalmente distrutte o anche assai gravemente danneggiate occorrerà ponderare attentamente i casi in cui, esse possono essere ricostruite, o debbano, per molteplici ragioni, essere trasferite, in relazione alle fonti di materie prime ed alla mano d’opera. Vincolo indispensabile per quelle industrie le cui caratteristiche lo richiedano, è quello della netta separazione di qualsiasi complesso industriale dai centri residenziali delle masse operaie, ed in generale di tutta la popolazione di un aggregato urbano.

Questo vincolo trae motivo non solo da concetti immediati di protezione antiaerea, in caso di futuri conflitti, ma anche da necessità di profilassi igienica, di difesa della popolazione dai nocivi effetti dei fumi e delle esalazioni e di allontanamento delle sorgenti di rumore e di polvere, con la conseguente possibilità di rendere le zone residenziali tanti luoghi di soggiorno veramente tranquilli. La distanza tra le industrie e le zone abitate potrà variare, a seconda delle condizioni ambientali, delle caratteristiche e dell’importanza delle industrie stesse.

Pertanto, qualora le zone abitate a contatto con le industrie risultino distrutte, sarà opportuno trasferirle altrove e destinare le zone distrutte ad altro scopo.

B) Di bonifica (agraria, di prosciugamento, di rimboschimento).

Nella fase attuale, cioè all’inizio dell’opera di Ricostruzione, specialmente nelle zone devastate dalla guerra, i temi fondamentali si ripresentano spesso come nella fase iniziale.

È perciò doveroso predisporre in sede di Piano di Ricostruzione regionale i progetti di bonifica studiati dagli organi competenti in materia tecnico-agricola.

In molte zone di Italia i vari tipi di bonifica si sovrappongono e si completano e pertanto è necessario istituire dei Comitati locali a vasta rappresentanza.

È bene tener presente la massima importanza che assume nelle bonifiche una razionale distribuzione gerarchica della rete stradale che deve tener conto dei traffici locali e di quelli di attraversamento e così pure la ubicazione dei centri rurali e la loro funzione civile ed amministrativa.

C) Turistico, paesistico, di cura e soggiorno.

È di attualità un esame degli aspetti turistici e paesistici nell’ambiente dei Piani Regionali per la Ricostruzione, poiché il nostro Paese è dotato di una serie di luoghi naturalmente belli, che valorizzati costituiranno una fonte di ricchezza.

Pertanto si raccomanda la applicazione della legge 29 giugno 1939 n. 1497 e del regolamento 3 giugno 1940 n. 1357 perla tutela delle bellezze naturali, che dispone che le Sovrintendenze possono redigere dei Piani Regionali paesistici (zone di rispetto, rapporti tra aree libere ed aree fabbricabili, distribuzione e vario allineamento dei fabbricati ecc.).

TERZO ELEMENTO - Spostamento dei centri abitati distrutti dalla guerra e piani di ricostruzione dei centri danneggiati

Non è raro il caso in cui un centro sia stato fortemente danneggiato o totalmente distrutto dal passaggio della guerra. Si presenterà allora durante la fase di ricostruzione, il problema se convenga o meno spostare il centro in posizione più idonea alla mutata necessità dei tempi ed al dinamismo particolare della vita moderna.

Nel caso in cui uno spostamento del genere sarà opportuno tenere presente che il nuovo rispetto al vecchio aggregato urbano, a conveniente distanza ed in adatta posizione, vincolando a zona rurale lo spazio intermedio, ed in facile comunicazione con arterie stradali al riparo per quanto è possibile, dai venti più molesti ed in luogo soleggiato.

Per la ubicazione dei nuovi centri abitati il problema deve essere impostato sopra un approfondito esame del luogo sotto l’aspetto della salubrità, dell’edificabilità del suolo, predisponendo lo studio dei dati metereologici e del soleggiamento della zona soprattutto affrontandolo secondo i dettami della moderna urbanistica.

Sarebbe molto opportuno poter arrivare ad una legge che stabilisca, in caso di ricostruzione di un centro distrutto in località diversa, o in caso di creazione di un nuovo centro, che tutto il terreno fabbricabile debba essere demanializzato, sottratto cioè a qualsiasi interesse speculativo privato. Con tale provvedimento il suolo cittadino non graverebbe più come fattore economico sulle costruzioni e pertanto sarebbe più facile impostare il nuovo aggregato urbano su basi estensive e conforme ad una nuova concezione dell’Urbanistica moderna, secondo la quale tutta l’area libera dalle costruzioni diviene un vero e proprio parco pubblico, libero a tutti i cittadini, nel quale le costruzioni sorgono isolate, immerse nel verde, razionalmente disposte, di limitata altezza, senza cortili o chiostrine.

Le costruzioni dovrebbero essere affrancate dal vincolo del filo stradale, e solo dovrebbero essere soggette alla legge di un buon orientamento. Naturalmente, pur lasciando le maggiori libertà alla iniziativa dei singoli, si dovrebbe addivenire ad opportune norme vincolatrici, onde evitare di cadere nel disordine.

Anche in sede di Piano Regionale di Ricostruzione si può prendere in esame la convenienza di porre un limite alla esuberante urbanizzazione dei vecchi centri, e fissare la densità di abitanti da attribuire ad una zona e a una nuova comunità, per il funzionamento delle comunicazioni, per le esigenze economiche e commerciali.

In merito al vincolo da porre alle vecchie città affinché queste non siano soggette ad irrazionale ed anormale accrescimento, occorrerà che siano stabiliti limiti di estensione territoriale, limiti di densità di popolazione (che per un centro di oltre 100.000 abitanti non dovrebbe superare il limite di 300 abitanti per ettaro) e infine il numero limite di abitanti per vano (che non dovrebbe mai superare l’unità).

Nella determinazione delle caratteristiche dei nuovi centri, anche molto piccoli, questi limiti debbono essere osservati ed imposti per mezzo di vincoli di regolamento edilizio e per le caratteristiche delle zonizzazioni prescelte.

QUARTO ELEMENTO - Ente coordinatore e finanziatore del piano regionale

L’iniziativa per la progettazione di un Piano Regionale può essere presa da più Comuni o dal Prefetto della Provincia o dai Prefetti di più Provincie finitime interessate alla sistemazione.

Ritenuta la necessità di provvedere al Piano Regionale, il Provveditorato alle OO.PP. dovrebbe promuovere la costituzione di un Ente Coordinatore e Finanziatore che agisca alle sue dipendenze e sotto il suo controllo diretto, salvo ratifica del suo operato da parte del Consiglio Superiore dei LL.PP.

Farà parte di questo Ente coordinatore e finanziatore una apposita Commissione di studio che, posto il problema nei suoi termini essenziali, dovrà procedere alla redazione vera e propria del Piano, avvalendosi di tutti quei dati statistici già predisposti dei quali si è fatto cenno nelle premesse.

Dovranno essere rappresentate in tale Commissione tutte le categorie interessate, quali i tecnici relativi alle opere civili e ai vari rami (agricoli, idraulici, stradali, ferroviari, dei trasporti in genere), esperti igienisti, sociologi, statistici ed amministrativi, industriali, finanzieri ecc. E tutti gli studi, le proposte, le idee di costoro dovranno essere vagliate e riassunte dai tecnici progettisti scelti tra persone chiaramente competenti in campo urbanistico (Architetti o Ingegneri urbanisti) alle quali sarà demandato il compito di stendere il piano esecutivo dettagliato.

Dopo l’approvazione del Piano, che è, per legge, di competenza esclusiva del Ministero dèi LL.PP., si procederà alla costituzione di un Comitato Esecutivo, il quale, rispettando la logica successione dei tempi indicata nel progetto, ne curèrà la realizzazione.

Di tale Comitato Esecutivo, sempre costituito da un Collegio di urbanisti provetti, farà altresì parte una Sezione Amministrativa, che dovrà iniziare immediatamente la compilazione dello schedario dei contribuenti alle spese da affrontare per la realizzazione del Piano Regionale.

Detto schedario assume una importanza di primo ordine in tali casi, poiché è da esso che potrà stabilirsi l’aliquota esatta di tassazione, specie per i singoli proprietari terrieri o di fabbricati, in confronto dei quali si procederebbe in analogia ,di quanto viene ora effettuato dai Comuni, allorché una nuova opera (strada, fognatura ecc.) migliora un determinato quartiere, applicando cioè una tassa di miglioria.

Anche le aliquote afferenti alle amministrazioni comunali e provinciali, alle industrie e via dicendo, dovrebbero essere detèrminate con lo stesso criterio (quote proporzionali al numero degli abitanti ecc.). Il contributo indispensabile dello Stato dovrà parzialmente essere corrisposto subito, onde permettere all’Ente di entrare praticamente in funzione. Tale contributo, fissato per legge, terrà conto della estensione del comprensorio sotto progetto, e dovrà essere posto a disposizione dell’Ente non appena questo sia costituito.

Superata infine la fase realizzativa delle grandi opere, l’Ente verrà mantenuto, ma ridotto negli organici per vigilare sulla realizzazione delle opere residue.

Nota: per un confronto almeno parziale (di tematiche se non di contesto politico), si veda l'estratto della Commissione Barlow disponibile in italiano in questa stessa cartella, qui (f.b.)

Non vi è reggitore di pubblica amministrazione che, tra i fattori di benessere, non ponga, come elemento di prima necessità insieme al pane, la casa, e che, per ottenere pane, casa ed un generale benessere, non si preoccupi di raggiungere un’armonica organizzazione di tutte le funzioni della vita attiva della collettività. Nascono così continuamente in ogni paese civile dei vasti piani per attuare in breve volgere d’anni il programma di tale organizzazione sociale ed economica e per risolvere il problema delle abitazioni, che assilla ogni paese del mondo. Lavoro e casa, due elementi strettamente coordinati fra loro, rappresentano due facce del poliedrico problema dell’attuale vita sociale, ed attendono sempre quella armonica soluzione d’insieme che, purtroppo, ben raramente è raggiunta. Così, ad esempio, è successo per il piano grandioso per la costruzione d’abitazioni in Germania del 15 novembre del 1940, piano preparato e seguito da ampi studi, e dettagliati progetti tecnici ed economici, e che impegnava un ingentissimo sforzo di energie e di capitali (oltre 60 miliardi di lire ai prezzi attuali possono essere calcolate le spese per le costruzioni del prossimo anno, indipendentemente dalle ricostruzioni causate dalla guerra, allora non . previste!). Però, tranne un rapidissimo cenno alla scelta del terreno fabbricabile ed alla densità delle nuove case, al solo scopo di ottenere una buona difesa passiva antiaerea, mancava in tale piano un’impostazione generale del problema, che, precisando i principi e gli scopi immediati ed ultimi, garantisse il raggiungimento di quell’armonia apportatrice del vero progresso all’intera collettività. Ora, mancando una sana impostazione del problema, impostazione eminentemente sociale-economica, dalla quale discende l’impostazione urbanistica, si può chiedere se tutte queste enormi energie e capitali saranno bene impiegati, o se, in ultima analisi, a parte un immediato benessere per il singolo inquilino della nuova casa, non si convertiranno per l’intera società in un danno, in un peggioramento della passata e dell’attuale situazione.

È stato appunto per la visione chiara del problema, scaturente da un principio etico chiarissimo e tendente a scopi ben definiti, che il messaggio natalizio del 1942 di Papa Pio XII destò non poca sorpresa e vivo compiacimento nel campo degli urbanisti, i quali sentirono proclamati e caldamente raccomandati con l’autorità dell’alto magistero, quali presupposti di un nuovo ordine sociale, dei principi eminentemente urbanistici, da loro lungamente caldeggiati, ma raramente fatti proprii dai vari reggitori di popoli.

È noto che tale messaggio pone come “origine e scopo essenziale della vita sociale la conservazione, lo sviluppo ed il perfezionamento della persona umana”. Da questo principio semplice e chiaro scaturiscono i precetti pratici per il raggiungimento dell’assetto sociale: il primo enunciato nel citato messaggio è il seguente, che testualmente trascrivo: “Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio, si opponga a eccessivo raggruppamento degli uomini, quasi come masse senza anima”...

Ecco posto in primo piano, per la soluzione del problema sociale, il postulato che in urbanistica è studiato e risolto nello questione dell’inurbamento, questione che ha agitato gli urbanisti per vari decenni e che, salvo nei particolari, li ha trovati unanimi nella soluzione. Ma questa soluzione, se anche condivisa da quel politico che ha voluto esaminare questa faccia del problema sociale, non è stata generalmente raggiunta; anzi, da noi si è conseguito il risultato diametralmente opposto.

Si è anche gridato: “Sfollare le città!”, ma in realtà i piccoli centri, le vallate particolarmente, si spopolarono e le città vertiginosamente si ingigantirono. Le cifre della statistica parlano assai chiaro: l’inurbamento è un fenomeno universale, e lo si trova nelle regioni più impensate. Nell’Australia, ad esempio, il cinquanta per cento della popolazione vive nelle grandi città (di oltre cento mila abitanti)!

In Italia, all’inizio di questo secolo, gli abitanti nelle grandi città erano 3.206.000; dopo quarant’anni essi salirono a 8.643.000. Torino negli ultimi cento anni ha più che quintuplicato il numero degli abitanti raggiunto nei suoi primi diciannove secoli di prospera vita; Milano l’ha quintuplicato in meno di ottanta anni. La causa di questo rapidissimo raggruppamento di tanti individui è ben nota: con l’avvento della macchina a vapore, l’industria nacque e si sviluppò nelle città, luogo di incrocio delle ferrovie, indispensabili per il trasporto di carbone per l’energia, delle materie prime per la lavorazione, del prodotto finito per lo smercio; luogo di facile offerta di mano d’opera e di residenza dei primi industriali. Attirate dall’industria, le masse rurali affluirono alle città: il loro primitivo perimetro, rappresentato dall’antica cerchia delle mura, talvolta romane od anteriori ancora, che aveva subito un cauto allargamento con la cinta medioevale e quella dei bastioni, si dilatò rapidamente dalla metà del secolo scorso in successive cinte daziarie ed anelli di circonvallazione, conferendo alle città la caratteristica forma di espansione “a macchia d’olio”. Tutto questo ampliamento gravitò, soffocandolo, sull’antico nucleo che, tranne qualche malaugurato “sventramento” che sfigurò il più delle volte il nobile volto dell’antica gloriosa città, rimase nella intelaiatura viaria e nella consistenza edilizia, invariato. Il corpo urbano ingigantì in pochi decenni, il cuore rimase sostanzialmente quello dei secoli precedenti: con l’estensione della città i mezzi di trasporto, particolarmente i nuovi (tranvie ed automobili) aumentarono in proporzione ancora più rapida di quella degli abitanti e si ingolfarono nella ristretta rete viaria, attratti dalle nuove sedi amministrative e commerciali. Pure l’edilizia residenziale nel vecchio nucleo si intensificò, sia in elevazione che in estensione, si intristì, e non più aggiornata dalla moderna tecnica, che rendeva più appetibili le nuove case negli ampliamenti, fu abbandonata da buona parte dei cittadini più facoltosi ai più miserabili, che contribuirono sempre più a declassarla: diradamento e risanamento divennero problemi sempre più urgenti e meno risolti. Purtroppo, oltre che spugne di microbi, molti quartieri cittadini divennero sentine di vizi, e, un più grave del problema viario ed edilizio del corpo urbano, divenne il problema sociale, intellettuale e morale del singolo cittadino, particolarmente del nuovo inurbato.

Sradicato dalla sua terra, lontano dalla sua chiesa, dalla sua contrada, ove la sua famiglia aveva vissuto per generazioni fedele alle divine ed umane istituzioni, in fraternità di spirito e di lavoro con i compaesani, devoto ai suoi vecchi, premuroso che i figli conservassero la stima e la fiducia del vicinato, l’inurbato, trovatosi in un ambiente completamente nuovo, che in nulla gli ricordava l’antico, separato dalle istituzioni e dalle persone alle quali si sentiva affezionato, andò rapidamente trasformandosi non solo nelle sue attività produttive, ma anche nel suo intimo psicologico, intellettuale e morale. Generalmente privo di una sufficiente elevatezza spirituale e culturale, che gli avrebbe concesso di ancorarsi ai suoi principi e di esercitare il proprio senso critico su quanto vedeva, sentiva e leggeva, divenne facile preda del compagno più scaltro, dell’organizzatore più eloquente, del foglio più allettante ; non più a contatto con la natura, con la madre natura, nel libero lavoro dei campi, ma nel lavoro meccanico dell’officina sfibrante alle prese con la materia bruta, l’inurbato non trovò certo l’ambiente favorevole al suo sviluppo intellettuale: il buon senso rurale, che vince mille sofismi cittadini, fu sommerso dalle frasi fatte. Peggio ancora si verificò per il suo sviluppo morale; soffocata od isterilita venne in lui quella virtù che, ignorata o trascurata dal sociologo e dall’urbanista, è pur sempre onnipresente nel pensiero e nell’azione del rurale e dell’artigiano del piccolo centro: la bontà. Quella virtù che affiora sul volto di chi la possiede con il sorriso, che ben raramente si scopre nei consessi cittadini, restò per solito assopita, perchè non più abitualmente esercitata e ricambiata verso tanti sconosciuti, preoccupati solo da questioni economiche, incuranti dell’altrui alletto. Venne in città per star meglio; raramente realizzò il suo sogno; quasi mai divenne migliore; quasi sempre divenne per il suo stabilimento un “pezzo” del macchinario, per il pubblico ignoto un numero di matricola dell’anagrafe, della cooperativa, del partito. La sua personalità naufragò nell’oceano urbano, e di tale naufragio la collettività non poté certo avere vantaggio.

Già dalla fine dell’ottocento, e più ancora agli inizi di questo secolo, allarmati dai casi patologici dell’elefantiasi urbana, eminenti pubblicisti, sociologhi ed urbanisti particolarmente anglo-sassoni (Ebenezer Howard, Raymond Unwin) coadiuvati, se non preceduti da industriali avveduti e di buon senso (Lever, Cadbury) scopersero finalmente che, anziché attirare i rurali nelle grandi città per dar loro da lavorare, meglio era fermarli in campagna, portando loro il lavoro. Nacquero così le città giardino (Letchworth, Welwyn) in Inghilterra, ed altrove, i “satelliti”, organismi completi di carattere non solo residenziale ma anche amministrativo, culturale e produttivo, atti a vivere di una vita quasi del tutto indipendente dal primitivo nucleo. Contemporaneamente, intelligenti piani regolatori di grandi città industriali, particolarmente tedesche, impressero alla città una forma stellare, ampliandola solamente lungo le strade che radialmente uscivano dal nucleo centrale, o, meglio ancora, svilupparono attorno ad esso dei grandi sobborghi autonomi, separati dal primitivo nucleo cittadino da aree libere da costruzioni, riservate all’agricoltura o allo svago dei cittadini, con forma di corone circolari (Colonia) o di tanti triangoli, come di tanti cunei penetranti nel corpo umano.

Cosi l’espansione della “macchia d’olio” urbana venne arrestata: l’edilizia isotropa, massiccia e caotica cittadina venne interrotta, frazionata ed ordinata; il pericolo di un sempre più grave soffocamento per il primitivo nucleo venne cosi scongiurato.

Però queste varie concezioni di espansioni cittadine, tutte a schemi eminentemente radiali, non evitarono l’inconveniente della continua attrazione del centro esercitata su tutto il sistema metropolitano, con il conseguente pericolo di un sempre maggior intensificarsi tanto del traffico quanto dell’edilizia.

La malattia della City diveniva incurabile? La sua esistenza, con l’evolversi dell’arma aerea, non costituiva inoltre il più ambito obbiettivo per disorganizzare non la città soltanto ma tutto il potenziale bellico nazionale? Ed era proprio escluso che, con l’andar del tempo, i borghi autonomi od i satelliti, particolarmente se vitali ed efficienti, per necessità di ampliamento non si sarebbero saldati fra loro, allargando ed inspessendo cosi la cintura che già soffocava la città?

Da queste considerazioni, oltre che da logiche conseguenze di dottrine sociali, si concretò il nuovo tipo della città sovietica (Prof. Miljutin). Non più la metropoli gravitante su un centro, su un punto, bensì su un asse, lungo tutta una linea, percorsa da fluidissime arterie di traffico, ai lati delle quali, come tanti nastri paralleli, si affiancano ben caratterizzate e separate fra loro le varie zone dalle diverse funzioni (produzione, giardini, residenze ), libere di espandersi indefinitamente lungo l’asse. I percorsi quotidiani e comuni alla massima parte degli abitanti (dalla casa ai luoghi di lavoro, di acquisti, di studi, di divertimenti ecc.) avvengono trasversalmente ai nastri: brevi, frequenti e quindi comodi e non sovraccarichi di traffico; i percorsi di eccezione (per una minima parte della popolazione per motivi poco frequenti) avvengono lungo l’asse e sono favoriti da mezzi di trasporto rapidissimi e potenti.

Innegabilmente questo nuovo schema si dimostra molto allettante, poiché molti inconvenienti di carattere viabile, edilizio ed igienico vengono eliminati: però questa continuità, questa uniformità di zone si conformerebbe al nostro modo di vivere, al nostro assetto sociale, alle nostre esigenze spirituali? Sarebbe atta a salvaguardare, e potenziare la personalità dell’abitante? O non sarebbe più consono al nostro costume, alla nostra civiltà, il tentare di comporre i vantaggi della città radiale a satelliti con quelli della città sovietica assiale a nastri paralleli indefiniti? Perché non si potrebbe creare tanti piccoli centri, aventi ciascuno una autonomia assai spinta ed una caratteristica di funzione non unica ma predominante (amministrativa, culturale, militare, assistenziale ecc. ecc.) distribuirli lungo un asse, rappresentato da una vallata o da un corso di fiume ad andamento pressoché rettilineo, o da una importante direttrice di traffico in una regione ricca di risorse naturali e di attività economiche? Ogni piccolo centro, costituito essenzialmente dalle residenze e dalle sedi di pubblica utilità, potrebbe avere nelle vicinanze degli stabilimenti per adatte industrie: altre industrie di maggior importanza, o gruppi organici di industrie interdipendenti, potrebbero costituire da essi soli dei piccoli centri indipendenti posti lungo l’asse (mai attraverso ad esso, per non strozzarlo e non essere tagliati in due), separati ma non lontani dai centri residenziali. Il problema della dislocazione delle industrie è assai delicato; oltre alle esigenze tecnologiche, di trasporti, commerciali, di difesa antiaerea, di igiene ecc., occorre tener presente un lato della questione importantissimo: quello umano. Su questo richiama l’attenzione di quanti hanno a cuore il vero benessere sociale Pio XII nel suo messaggio: “Curino essi - sono Sue parole - che i luoghi di lavoro e le abitazioni non siano così separati, da rendere il capo famiglia e l’educatore dei figli quasi estraneo alla propria casa”.

Se noi esaminiamo l’attuale ubicazione delle industrie nelle nostre città, constatiamo che talvolta esse sono in mezzo alle abitazioni, con conseguente probabile danno all’igiene ed alla tranquillità degli abitanti, con l’intralcio delle loro dimensioni alle comunicazioni interne, con il pericolo permanente dell’offesa aerea e, con scarsissimi vantaggi ed abbondanti inconvenienti per un loro regolare funzionamento. Altre volte sono dislocate all’estremità opposta di quartieri operai, con conseguenti sacrifici per viaggi inutili e peggioramento della circolazione in genere ed in particolare di quella dei pubblici mezzi di trasporto nelle ore più critiche. Altre volte infine sono dislocate addirittura fuori e ben lontane dal centro di provenienza della mano d’opera impiegata. Così oltre all’inurbamento, oltre ai quotidiani molesti ed antieconomici attraversamenti cittadini, la cattiva dislocazione dell’industria provoca quelle grandi migrazioni diurne delle popolazioni rurali che si recano a lavorare nella metropoli; migrazioni temporanee, ma che sono sovente preambolo di migrazioni stabili nell’urbe. A dare un’idea dell’ordine di grandezza di questo grave disordine, cito alcune cifre affiorate da uno studio di piano regionale del 1938, eseguito per conto dell’Amministrazione provinciale di Milano: sono settanta mila le persone che ogni giorno trasmigrano in città, da una zona che supera i 40 chilometri di raggio, con un impiego medio di due ore di viaggio per ogni persona. È superfluo richiamare l’attenzione sugli inconvenienti economici, igienici, psicologici e morali per i singoli operai, di questi viaggi intrapresi tutti i giorni in tutte le stagioni, con qualsiasi tempo, con mezzi scomodi (biciclette, ferro-tranvie insufficienti, con orari sfasati, ecc.). Ma è più che opportuno il richiamo sulle tristi ripercussioni che questa mancanza di organizzazione ha sull’andamento della famiglia, sulla sua unità, e sull’assistenza ed affetto dei suoi componenti.

Ora non sarà difficile nel tipo di città proposto, trovare una buona ubicazione delle industrie corrispondenti ad ogni centro residenziale: distinte da questo, ma non molto distanti, qualora non siano nocive o necessitino di particolari servizi tecnologici e di trasporti, sparse e frazionate il più possibile (ricordiamoci che l’autotreno aveva, pure da noi, vinto la ferrovia anche dal lato economico, contribuendo efficacemente ad un diffuso decentramento delle industrie). Ad altre speciali industrie sarà sempre possibile assegnare particolari località (presso canali navigabili: per le industrie nocive, a valle delle residenze rispetto ai venti dominanti, ecc.), tali però da essere sempre facilmente raggiunte con comodi percorsi, dagli abitanti di uno o più centri. Non sarebbe cosi difficile realizzare l’ideale di urbanisti e sociologhi a questo riguardo: raggiungere dalla propria abitazione il luogo di lavoro con un comodo percorso a

Naturalmente tale percorso è in dipendenza alla vastità che si vuol assegnare a questi centri. Anche questa è una questione ampiamente dibattuta in urbanistica. I Russi progettano queste loro città assiali per oltre cento mila abitanti. Gli Inglesi per le loro città giardino proponevano prima trenta poi cinquanta mila abitanti; il tedesco Gottfried Feder, dopo una minutissima indagine ha recentemente proposto, per la città ideale, ventimila abitanti. Anche questa ultima città è una entità già notevole e complessa e supera per numero di abitanti i centri di parecchi capoluoghi di nostre provincie (Aosta, Cuneo, Grosseto, Chieti, Potenza ecc.).

Il criterio adottato dai più di creare degli aggregati umani di grandezza tale che i necessari pubblici organismi abbiano a funzionare in piena efficienza, non mi pare troppo convincente ed esclusivo. Più logico mi pare proporzionare l’organo alla funzione e non viceversa: l’ideale nel nostro caso sta nello stabilire l’ottimo numero di abitanti per ogni aggregato, ed a questo proporzionare i vari organismi, i vari “servizi” richiesti. E per stabilire questo numero di uomini mi pare migliore criterio assumere un metro prettamente umano. In un aggregato gli individui si amano, si aiutano, si comprendono, cercano insomma di essere migliori, quando si conoscono reciprocamente. Raramente si ha stima, fiducia, affetto verso un ignoto: l’estraneo ha generalmente minor ritegno a mal operare, minori stimoli alla rettitudine (anche nei recenti fatti di questo periodo turbinoso, raramente i nativi del luogo si sono abbandonati ad eccessi di odio e di ferocia). Ora l’esperienza insegna, per esempio, che chi ha cura d’anime o di corpi riesce ad abbracciare con la mente e con il cuore la massima parte degli abitanti di un aggregato non superiore ai cinque-seimila abitanti: qualora non si esiga una conoscenza profonda e duratura di tutta la popolazione, ma si ritenga sufficiente una conoscenza dei più notevoli membri di ogni famiglia (conoscenza facilmente estensibile, caso per caso, ai rimanenti componenti), allora tale numero potrà essere aumentato di un paio di migliaia. Ottomila abitanti ritengo essere l’ottimo per questi centri, per queste cellule delle grandi città. Quanto ai cosidetti “servizi”, agli organismi cioè di pubblica utilità e di notevole importanza che hanno da servire alla vita materiale della collettività, e al suo sviluppo e perfezionamento fisico, intellettuale e morale, ritengo necessari e sufficienti per un aggregato di ottomila persone la scuola e la chiesa. È bene sottolineare l’importanza della scuola (scuola elementare pubblica con le cinque classi), tanto più se, come avviene nelle nazioni più progredite, e come sarebbe molto conveniente .avvenisse ora nei nostri piccoli centri, la scuola dovesse costituire il centro di cultura fisica ed intellettuale (palestre, biblioteche, sale di conferenze, ecc.) non solo per i ragazzi dell’età scolastica, ma per l’intera popolazione.

Dell’importanza della scuola vi è un richiamo esplicito e nobilissimo nel messaggio pontificio: “che tra scuole pubbliche e famiglia rinasca quel vincolo di fiducia e di mutuo aiuto, che in altri tempi maturò frutti cosi benefici, e che oggi è stato sostituito da sfiducia colà ove la scuola, sotto l’influsso o il dominio dello spirito materialistico, avvelena e distrugge ciò che i genitori avevano istillato nelle anime dei figli”! Per trasferire questo richiamo nel campo urbanistico, occorrerà che il vincolo tra casa e scuola sia concretato con un’armonica fusione tra il quartiere residenziale e l’edificio scolastico, ben distanziato e proporzionato, costruito su terreno sicuramente o gradevolmente accessibile, sufficiente ed in giusti rapporti con le aree destinate alle altre pubbliche necessità. In un’analisi urbanistica avevo proposto l’edificio scolastico per circa 720-800 allievi (due aule maschili e due femminili di 36-40 allievi per ciascuna delle 5 classi): tale edificio dovrebbe conciliare le esigenze dell’insegnamento, della comodità e dell’economia. Ottocento allievi circa rappresentano appunto la popolazione scolastica di una intera popolazione di carattere cittadino di otto mila abitanti (La media delle percentuali degli alunni delle elementari sull’intera popolazione urbana è appunto di 10,02%, con un minimo per Torino e Milano del 6-7 per cento ed un massimo per Ferrara e Bari dell’11-12 per cento). Pure la chiesa parrocchiale con ottomila anime potrà già vivere di una vita florida e con la piena efficienza delle sue istituzioni ed organizzazioni, senza compromettere il contatto che i fedeli hanno da mantenere con il proprio pastore, personalmente responsabile verso Dio e gli uomini della salute del suo gregge. Questi due organismi hanno da costituire il nucleo spirituale dell’aggregato, e per l’efficienza della sua alta missione dovrà essere integrato da un giardino di quartiere, che lo protegga dagli inconvenienti della vita attiva dei cittadini, e sia di diretta utilità per gli abitanti dilla zona circostante, che si suppone di edilizia saggiamente intensiva, e quindi bisognosa di spazi a verde. A questo centro spirituale, ritenuto baricentrico rispetto all’intera popolazione, si potrà agevolmente pervenire a piedi dal punto maggiormente lontano in meno di cinque minuti (densità urbana di circa 180 abitanti per ettaro).

Per gli altri organismi di minor importanza di uso generale e quotidiano di carattere commerciale-amministrativo, richiesti da una popolazione di 8.000 abitanti, non credo che vi siano difficoltà di proporzionamento e di collocazione per un efficiente loro funzionamento.

È però ovvia l’osservazione che se i singoli aggregati fossero destinati ad una popolazione superiore agli ottomila abitanti, essi potrebbero essere dotati di tutti quei “servizi” che, pur non essendo di uso generale e quotidiano, rappresentano sempre una grande comodità per la popolazione: sono appunto questi edifici ed istituzioni che tanto fanno invidia al rurale e che per essi sovente si inurba (scuole medie o di specializzazione, centri finanziari, assistenziali, ricreativi, .ecc.).

Questo è pacifico: ma non ritengo difficile una soluzione a favore dei piccoli centri. Essa può consistere nel disporre due o più piccoli centri presso un comune nucleo costituito da tali “servizi” più complessi: questo nucleo ha da essere completamente isolato dai piccoli centri da zone vincolate a verde, preferibilmente boschive, il miglior elemento di separazione e di congiunzione.

A tali nuclei di “servizi” si potrà pervenire a piedi mediamente in dieci minuti, ed in un quarto d’ora circa dal punto più lontano del sistema. Tali percorsi, paragonati a quelli delle grandi città sono più che comodi ed economici, non richiedendo pubblici mezzi di trasporto. Ferro-tranvie con frequenti servizi di vetture del tipo di littorine, metropolitane, autostrade, autocamionali, ampie strade ordinarie e canali navigabili correranno esclusivamente su proprie sedi, anche distanziate fra loro, parallelamente all’asse; il percorso sarà fluidissimo non essendo rallentato da alcun ostacolo. La maggior parte degli abitanti dei piccoli centri si servirà dei mezzi di trasporto pubblici nei soli casi d’eccezione, quando cioè hanno da trasferirsi in altri centri, od a quelle grandi istituzioni amministrative centrali, bancarie, commerciali, di alta cultura, di specializzazione ospitaliera, teatri d’opera, campi di gioco per competizioni nazionali, esposizioni, aeroporti, stazioni di ferrovie di andamento trasversale al grande asse, ecc., tutti organismi che sarà bene accostare alle grandi vie di comunicazioni, isolati o conglobati, secondo i casi, ai centri residenziali.

Per quanto riguarda queste zone residenziali il messaggio pontificio contiene frequenti richiami ed offre saggissimi ammaestramenti, tutti di grande ed urgente attualità. Ma ritengo per ora soprassedere, rappresentando essi in certo qual modo un particolare nel quadro generale dell’impostazione del problema sociale. In quest’ora di ricostruzioni morali e materiali, urge conseguire i mezzi morali per bene impiegare quelli materiali; è questa l’ora di definire i programmi d’azione realmente morali e spirituali e non soltanto economici e tecnici. Il programma urbanistico consisterà non tanto nel rendere la vita dei cittadini più comoda, bensì di renderla migliore. La grande città per “l’eccessivo aggruppamento degli uomini, quasi come masse senz’anima”, corrompendo la dignità ed intaccando i diritti della persona umana, offuscando la luce degli spiriti e minando la sanità dei corpi, corrompendo la santità dei costumi famigliari ed allentando i vincoli della fraternità umana, ha rivelato troppi fattori negativi per il progresso della civiltà.

Senza rinunciare ad evidenti benefici del progresso industriale ed urbano, occorre dare nuove forme alle città e nuovi ordinamenti ai cittadini. Quali dovranno essere queste forme e questi ordinamenti ? Spetta ai sociologhi ed agli urbanisti approfondire tali studi; spetta a tutti gli uomini di buona volontà seguire l’esempio di Pio XII, che tali studi ha elevati.

I fontanili sono più complessi (come quello di Santigny) o più semplici (come quello di Pisy). I primi sono dotati di vari spazi per le diverse utilizzazioni dell'acqua (abbeveratoi per differenti tipi di animali, lavatoi, luoghi per attingere). Alcune immagini sono nella galleria a loro dedicata.

Tutti sono caratterizzati dalle solide travature di sostegno dei tetti. Come quelle della splendida colombaia del castello di Epoisse, testimoniano la ricchezza dei boschi, che oggi stanno riprendendo terreno grazie all'abbandono delle coltivazioni, e la pesantezza delle coperture, fomate prevalentemente da sottili lastre di pietra

La salute delle popolazioni delle città italiane, si legge a turno in quotidiani e periodici, è minacciata, come tutte le cittadinanze del mondo civile, dall’ammorbamento dell’atmosfera. Il problema, certo, è grave e urgente, anche perché va assumendo aspetti sempre nuovi e proporzioni via via più preoccupanti.

A dare l’allarme e a risvegliare l’interesse pubblico sono occorsi, negli ultimi anni, alcuni gravi episodi, entrati ormai a far parte, si può dire, della storia delle grandi calamità naturali. Il primo di questi risale all’inverno del 1930: in Belgio, nella vallata della Mosa, in seguito all’accumularsi del fumo di trenta stabilimenti industriali, compariva, lungo un’estensione di una ventina di chilometri, una densa nebbia. Giallastra di colore, con l’odore e il sapore propri dell’acido solforico, la nube portò lo sterminio al suo passaggio: mille persone venivano colpite da gravi affezioni polmonari, altre settanta ci lasciavano la vita. Accidenti analoghi, sempre a causa dello stesso fenomeno, si verificavano nell’autunno 1948 a Donora, negli Stati Uniti, dove moriva una ventina di persone, mentre il quaranta per cento della popolazione locale cadeva ammalata, e a Paza Rica, nel Messico, due anni più tardi.

L’episodio più tragico accadde nel dicembre del 1952, quando varie località delle isole britanniche, in particolare la regione londinese, rimasero per quattro giorni sotto una coltre di nebbia scura e pesante. Durante l’infuriare del fenomeno (gli inglesi si affrettarono a coniare un nuovo vocabolo, smog, da smoke, fumo, e fog, nebbia) a Londra si riscontrò, nello spazio di sei giorni, un aumento della mortalità di 4000 persone.

Se questi episodi (ovviamente noi ci siamo limitati qui a riferire quelli che più hanno colpito l’opinione pubblica) assumono il carattere di sporadiche catastrofi naturali, per il concorrere anche di molteplici fenomeni meteorologici (inversione termica, nebbia, stasi di vento), oggi nessuno dubita più che le attività industriali, il traffico stradale e le stesse moderne comodità domestiche delle grandi città siano fonte, per le sostanze nocive che diffondono nell’aria, di un inquinamento continuo e, alla fine, dannoso per la salute.

L’immissione nell’aria che respiriamo di sostanze estranee, individuabili in concentrazioni o per periodi tali da influire sul nostro benessere, avviene in un’infinità di modi, per opera sia della natura sia dell’uomo. Pensiamo alla sospensione di particelle di litosfera, di ceneri di vulcani, di cristalli di sale marino, di pollini o spore fungine; pensiamo al solleva mento della polvere stradale, costituita da particelle minerali, organiche e organizzate e alla diffusione di deiezioni essiccate.

Tuttavia l’inquinamento maggiormente nocivo alla salute umana è, senza dubbio, quello determinato dalla diffusione nell’aria di gas, vapori e particelle solide generati dalla combustione di determinate materie (ciminiere di fabbriche, comignoli di impianti di riscaldamento, tubi di scappamento di veicoli), o esalati da rogge, fontanili, canali e fogne scoperte, o derivati dalle diverse lavorazioni industriali. Il fenomeno è più grave per i grossi centri, dove gli effetti dell’industrializzazione, della motorizzazione e della densità del traffico stradale si fanno sentire in misura maggiore.

Gli elementi incriminati sono, in primo piano, i prodotti di combustione, i quali rappresentano, per così dire, il “fondo” di tutti gli inquinamenti aerei. La concentrazione nell’aria di questi prodotti, attesa anche la maggior facilità tecnica del loro dosaggio, è presa abitualmente come indice della contaminazione atmosferica.

Oggetto di continui studi è l’ossido di carbonio, che si origina dalla combustione incompleta del carbonio ed è contenuto in percentuale variabile dal 4 al 14 per cento nei gas di scarico dei motori a scoppio. Se può essere mortale negli ambienti chiusi, assai meno dannoso risulta nell’aria libera perchè, grazie alla sua estrema diffusibilità e ossidabilità, rapidamente si diluisce e scompare. È provato che il gas è pericoloso quando raggiunge la concentrazione dello 0,05 per cento, quale può osservarsi negli strati inferiori dell’atmosfera, nei punti di traffico più intenso. Bisogna però aggiungere che ancora non conosciamo con esattezza quanto danno possa venirci dall’inalazione pressoché continua dell’ossido di carbonio, in concentrazioni tali che senza procurare disturbi acuti, siano forse sufficienti a determinare una lenta intossicazione cronica.

Il più tipico e costante dei componenti gassosi nocivi nell’atmosfera libera è però l’anidride solforosa, che è esalata dai grossi impianti di riscaldamento, particolarmente quelli alimentati con carboni molto ricchi di zolfo. Si tratta del più micidiale nemico dei nostri polmoni, allorché la sua concentrazione nell’aria supera lo 0,01 per mille: nemico subdolo, per giunta, perchè le esalazioni solforose di modesta entità sfuggono alla segnalazione soggettiva, in secondo luogo perchè gli stessi dati denunciati dagli strumenti in una rilevazione istantanea non possono darci la misura del rischio cui gli individui sono esposti.

V’è poi il pulviscolo. Il pulviscolo è composto di particelle di carbone o di fuliggine, di residui carboniosi incombusti, di ceneri, di sostanze catramose, e una volta che si è diffuso nell’atmosfera vi rimane sospeso più o meno a lungo, a seconda della sua natura e delle con dizioni meteorologiche.

E non è tutto. Altri inquinamenti chimici dell’aria sono anche causati dai gas solfidrici, fluoridrici, cloridrici, nitrosi, ammoniacali, dal fosforo, dall’arsenico, dal cloro, dagli idrocarburi policiclici, dalle aldeidi: tutti residui e rifiuti, quantitativamente e qualitativamente diversissimi, delle lavorazioni industriali, nelle quali sono da vedersi altrettante sorgenti di contaminazione.

Se è pacifico che il mezzo più idoneo per eliminare o ridurre gli effetti di codesto inquinamento è la diluizione, il miglior alleato l’uomo lo trova dunque nel favore dei fattori fisici della stessa atmosfera: il vento, la pioggia, l’alta temperatura, l’alta pressione, disperdendo e, per l’appunto, diluendo le sostanze nocive presenti, ne diminuiscono ovviamente la pericolosità. Fattori negativi, tali da aggravare il pericolo dell’inquinamento, sono, al contrario, il freddo, la bassa pressione, l’aria stagnante e, più di ogni altro, la nebbia, poiché la nebbia, è risaputo, mantiene in sospensione le particelle di fumo e fissa i gas tossici solubili presenti nell’aria. Ecco perchè i maggiori danni l’avvelenamento dell’atmosfera li produce nella stagione invernale, durante la quale al “fango atmosferico” che copre le città come una cappa, si aggiunge il fumo dei camini delle case. Il che spiega perchè da noi il flagello è avvertito quasi esclusivamente nelle città del Nord, per essere oltrechè fitte di industrie, le più fredde e le più nebbiose.

L’effetto immediato, e più facilmente rilevabile, è la diminuzione della luminosità dell’aria e della frazione di radiazioni solari che arriva al suolo. Sappiamo, per esempio, che a Parigi la trasparenza dell’aria è diminuita, nel corso di trent’anni, in ragione del trenta per cento, e che le giornate nebbiose sono quasi raddoppiate. Ed è nota l’influenza che il solo affievolirsi dell’irradiazione solare può avere, a lungo andare, sullo stato generale della nostra salute.

Una dimostrazione indiretta del danno che lo smog procura ai nostri polmoni, ci è offerta dalle alterazioni a cui va soggetta la vegetazione. In un ambiente carico di anidride solforosa, le foglie ingialliscono e cadono avanti tempo, specie nel caso che si tratti di piante a foglie perenni.

Negli Stati Uniti si è potuto osservare che le piante verdi in fase di sviluppo subiscono alterazioni profonde, tra l’altro le pagine inferiori delle foglie assumono una colorazione nuova, a volte argentea a volte bruna, Codesta modificazione è stata anzi presa quale indice della tossicità dello smog nelle città maggiori delle Americhe e dell’Australia: alla prova, nessuna metropoli dei due continenti è risultata indenne. La crescita delle giovani piante è addirittura ridotta del cinquanta per cento, ed è questo un fatto che serve a darci un’idea concreta dell’effetto nocivo che l’invisibile nemico può avere sugli organismi viventi. Ed è ciò che più conta. Gli scienziati sanno infatti che l’inquinamento atmosferico ci avvelena; non sempre invece sono in grado di procedere a una discriminazione dell’azione nociva che le singole sostanze esercitano sugli apparati dell’organismo umano. Quel che è certo è che lo smog ci procura un sacco di disagi e di molestie, irrita gli occhi, la gola e le vie respiratorie, favorisce l’insorgere di cefalea, provoca nausea e tosse, si fa sentire sull’appetito, dà insonnia e irritabilità, produce dolori toracici. Le conseguenze di tali disturbi sono difficilmente calcolabili, quando si tratti di stimoli che perdurano e si ripetono nel tempo.

Dal punto di vista medico tuttavia l’aspetto più grave del problema è costituito dalle vere e proprie malattie che la contaminazione atmosferica può provocare e favorire. Anzitutto lo smog si ripercuote sulle vie respiratorie. Le particelle solide cadendo sulle mucose possono lederle; a loro volta le lesioni (delle mucose) facilitano l’assorbimento dei vapori tossici disciolti nell’aria e l’attecchimento di germi patogeni. Il danno alla respirazione si ripercuote poi direttamente sulle funzioni del cuore; infine l’assorbimento dei gas tossici può portare un nocumento imprevedibile a tutti gli organi e alle loro funzioni.

I rapporti fra morbilità e contaminazione dell’aria non sono ancora oggi completamente delucidati. Le statistiche quindi non possono dirci molto (notizie precise potranno darcele, semmai, dopo che sarà stato possibile condurre osservazioni prolungate, su vasta scala, e che si saranno raccolti dati attendibili sugli indici di inquinamento). Nondimeno i risultati approssimativi delle inchieste che sono state fatte fino a ora e le considerazioni generali dettate dall’esperienza, sono tali da consentirci una valutazione realistica del problema igienico.

Nell’inverno del ‘52 gli Uffici governativi inglesi rilevarono che i decessi per bronchite superavano di otto volte la media stagionale degli anni precedenti, quelli per polmonite di tre volte, e in sensibile aumento erano anche quelli per tubercolosi e cancro polmonare. Si poté osservare inoltre una netta correlazione fra la percentuale di anidride solforosa presente nell’atmosfera, e l’andamento della “morbilità “.

In America, ovunque si siano rese possibili precise rilevazioni, si è potuto assodare che esiste una corrispondenza largamente persuasiva fra indici di mortalità per malattie dell’apparato respiratorio e quartieri urbani sottoposti a inquinamento atmosferico. Un’indagine condotta nell’ambito di un ospedale su 180 ricoverati affetti da malattie polmonari, ha permesso di stabilire una stretta correlazione fra il decorso clinico del male e il grado dell’inquinamento dell’aria, determinato mediante prelievi eseguiti ogni ora. Un’altra inchiesta, promossa nella città di Los Angeles, ha dimostrato questo; che nelle zone cittadine dove l’aria è più inquinata, tra i sofferenti di forme cardiache si riscontra un frequente peggioramento clinico e una più alta mortalità

Un più recente studio esamina invece i rapporti che esistono tra contaminazione atmosferica e cancro. L’azione cancerigena delle ceneri, del catrame e di altre sostanze che inquinano l’aria che respiriamo è sicuramente sospetta, anche se non propriamente dimostrabile sull’uomo. Meglio documentata è la natura del danno che deriva dalla presenza di idrocarburi policlinici, e in particola re del benzopirene, che si contiene sia nel nerofumo sia nei gas di scappamento dei motori. E benché una parola definitiva non possa essere ancora pronunciata, è lecito affermare che l’aria delle città industriali, di traffico intenso, costituisce una fonte non trascurabile di sostanze cancerogene, che ha certamente parte nel sensibilissimo aumento di casi di cancro polmonare riscontrato negli ultimi decenni. Ne è una conferma il fatto che il cancro polmonare si manifesta con predilezione in Paesi economicamente progrediti, così come è più facile che insorga nei centri industriali e nelle città piuttosto che nelle campagne.

Oggi in tutti Paesi, non escluso il nostro, si vanno conducendo studi e inchieste sui rapporti tra patologia umana e avvelenamento dell’atmosfera nelle città. Ma fin da questo momento possiamo dire che il problema, diventato ormai universale, è tra i più urgenti, la purezza dell’aria che respiriamo essendo per l’uomo fondamentale. Non solo, ma come dicevamo all’inizio è destinato a farsi sempre più complesso, con aspetti nuovi. Domani non si tratterà più soltanto di diossido di zolfo liberato nell’aria dalla combustione di benzina e nafta, dovremo fare i conti con quantitativi sempre maggiori di residui liberati dal materiale di fissione atomica. Inoltre il problema va a collegarsi, sempre in tema di igiene e di sanità pubblica, con l’inquinamento delle acque di superficie - fiumi, laghi, mari - dovuto allo scarico di quantità sempre crescenti di rifiuti liquidi industriali.

È anzitutto un problema di educazione sanitaria, al pari di quello dei rumori, perchè soltanto la coscienza del danno che ne viene e delle possibilità di evitarlo può costituire il sicuro presupposto di un’efficace prevenzione. Problema, quindi, di responsabilità e di competenza sanitaria, anche se il controllo e le soluzioni pratiche devono essere necessariamente affidati ad appositi organi tecnici. Problema, infine, di carattere locale, perchè, se le leggi generali valgono a sottolineare la necessità di una sorveglianza e a fissare criteri di massima, le norme profilattiche devono rispondere a condizioni ed esigenze che variano da regione a regione, mentre l’applicazione può essere più opportunamente attuata attraverso regolamenti e ordinanze locali.

L’esempio di altri Paesi, come Germania, Inghilterra, Russia, Stati Uniti, dove vigono rigidi regolamenti d’igiene industriale, ci fa persuasi che una soluzione radicale del problema è fattibile. E gli stessi accorgimenti che sono in atto a Milano (dove funzionano alcune stazioni, mobili e fisse, per il prelevamento e il dosaggio giornaliero di campioni atmosferici) danno per dimostrato che è possibile difendersi efficacemente dall’invisibile nemico dell’uomo moderno che è diventato lo smog.

Salgado

Con "Clima: le ragioni di uno sviluppo sostenibile" il fotografo brasiliano Sebastiao Salgado ha proposto (in una mostra recentemente organizzata dall’Istituto dei beni culturali della Regione Emilia-Romagna) un suo viaggio tra i continenti, a testimonianza degli effetti devastanti di uno sviluppo troppo spesso senza regole e sordo alle esigenze dell'ambiente. La mostra si soffermava in particolare sul cambiamento climatico in atto e lo raccontava prendendo spunto dalle condizioni dei più poveri nel mondo.

La mostra è documentata nel sito dell’Istituto dei beni culturali, e ne riporto alcune nella galleria di immagini intitolata a Sebastiao Salgado. Ma ne ho aggiunte altre, che ho scaricato rovistando in internet. Sono quelle contrassegnate con i numeri a due cifre: raccontano di persone, di terra, di povertà.

Da sempre attento ai temi dell'ambiente, Salgado ha fondato assieme alla moglie Lelia Wanick l'Instituto Terra, un'organizzazione senza scopo di lucro alla quale ha ceduto i 700 ettari della sua ex fazenda di famiglia, trasformandoli in area protetta. L'obiettivo principale dell'Instituto Terra è quello di promuovere programmi e azioni concrete per la conservazione e il recupero ambientale nelle aree della Foresta Atlantica, una delle più minacciate al mondo.

Altre immagini di Salgado

Da qualche anno, in Italia e in molti Paesi europei, tre aggettivi si moltiplicano e si diffondono con straordinaria esuberanza, come fossero animati da una linfa più feconda delle altre parole. Questi aggettivi sono: il massimo, il grande e il grosso.

Ogni giorno, leggiamo sui giornali: «il nostro massimo specialista di letteratura moldava»: ce n´è uno solo; e forse la letteratura moldava non esiste. Oppure: «il nostro massimo esperto della letteratura italiana dal 2001 al 2004»: dopo il 2001, la letteratura italiana non ha dato segni di vita.

Quanto al «nostro massimo francesista», o al «nostro massimo germanista», o al «nostro massimo storico moderno», o al «nostro massimo sociologo», o al «nostro massimo semiotico», ce ne sono moltissimi: si litigano tra loro, nella rissa dei seguaci, ed è impossibile scoprire le gerarchie di questo guazzabuglio.

Massimo è un aggettivo amato dai professori universitari, dagli scrittori e dai critici: serve a blandire un potente, a implorare una cattedra, a elemosinare una recensione, ad ottenere un invito alla prima della Scala, l´8 dicembre.

Grande è molto più diffuso. Nessuna legge può impedire ai cinquantasei o cinquantasette milioni di italiani di credersi grandi. Grande è dovuto a tutti: come il certificato di nascita, la cittadinanza, la patente, il voto, il pane, il vino, il panettone di Natale, un viaggio a Parigi. In realtà, oggi non esistono grandi di nessuna specie. Non ci sono né grandi scrittori, né grandi filosofi, né grandi storici, né grandi pittori, né grandi critici letterari, né grandi cardinali, né grandi economisti, né grandi giuristi, né grandi idraulici, né grandi uomini politici, né grandi editori, né grandi cuochi, né grandi attori, né grandi elettricisti, né grandi registi, né grandi architetti, né grandi direttori d´orchestra, né grandi giornalisti. Ci sono soltanto moltissimi falsi grandi, di qualsiasi genere.

Col tempo si è formata un´immagine del falso grande.

Per quanto ne so, egli possiede una grandiosa coscienza di sé, l´alone dorato degli angeli, una virtù d´amianto, una bontà (fintamente) affettuosa, un incalzante amore per gli altri, la cordiale risata e la cordiale pacca sulla schiena, una loquela inarrestabile, un lieve pizzico di spiritualità, e quella «marcia in più», che secondo l´elegante espressione di Giuliano Amato, distingue le religioni. Soprattutto, è avvolto da una pia unzione, da un balsamo o profumo, che impregna ogni poro della sua pelle e ogni bottone del suo vestito.

Tutti gli italiani sanno che si tratta di falsi grandi: perché il grande narratore produce pessimi romanzi, il grande poeta liriche infami, il grande economista disastri finanziari, il grande politico Stati in rovina, il grande industriale stabilimenti spettrali, mentre il grande banchiere, prima di farsi impiccare a un ponte di Londra, aspira come un´idrovora i conti correnti e le azioni dei suoi clienti. Ma non c´è niente da fare. Se uno viene riconosciuto grande dalle sette reti televisive, dal Corriere della Sera e da Repubblica, non perderà mai il proprio nome, sebbene dica e faccia meravigliose sciocchezze. Alla fine, arriva la morte. Il falso grande precipita nell´abisso definitivo, tra il sollievo, l´allegria, gli scherni e gli schiamazzi. Ma non è sempre certo: abbiamo appena visto alcuni falsi grandi pianti e compianti, con verissime lacrime, da milioni delle loro vittime.

Di grosso, mi riesce più difficile cogliere il significato preciso.

Ogni settimana, un mio conoscente, con la berretta in testa, il cranio accarezzato da pochi capelli bianchi baluginosi, gli occhi spiritati, mi dice con ammirato stupore: «Sa, il tale è un grosso personaggio». Chi è grosso è sempre un personaggio. Ciò suppone un corpo sovrabbondante, un´anima adiposa, l´occhio dilatato e spento, un´ostentata virilità, una grandiosa stolidità, qualche inciampo nel parlare e scrivere l´italiano, e una fitta frequentazione del Maurizio Costanzo Show e di Porta a Porta.

Non abbiamo bisogno né di massimi, né di grandi, né di grossi. Certo, Augusto, Gengis Khan e Stalin erano grandi. Eppure Augusto, coi suoi lineamenti delicatissimi e quasi femminei, fu uno dei peggiori assassini della storia; Gengis Khan ricoprì di piramidi di crani le pianure dell´Asia centrale; e se non fosse morto nel suo lettuccio al Cremlino, Stalin avrebbe reso l´Unione Sovietica un deserto popolato soltanto da gulag e sedi marmoree del P. C. (b), dove il suo sguardo d´aquila poteva estendersi, senza incontrare resistenza, fino all´infinito. Senza massimi, falsi grandi e grossi, potremo vivere benissimo: spiritosi, educati, colti, civili, tolleranti, amabilmente mediocri - e decenti, per usare una parola che Eugenio Montale amava.

Certo, ci mancherebbero i grandi scrittori e pittori.

Ma ce ne sono stati tanti nel passato; e la vita non basta a leggere e rileggere, vedere e rivedere con gioia sempre nuova Omero, Ovidio, Apuleio, San Paolo, Chuang-Tzu, le Mille e una notte, Grünewald, Giorgione, Montaigne, Il sogno della camera rossa, Leopardi, Dostoevskij, Monet, Kafka; e tutti gli altri che hanno scritto e dipinto silenziosamente per noi - ultimi, infimi sudditi dell´universo.

At the beginning of the century the West was facing a challenge. The West is the civilization born on the shores of the Tigris and Eufrates, which had further developed on the delta of the Nile and in the planes of Galilea, on the islands of the Aegean Sea and in the Peloponnese, then on the shores if the river Tiber and from there spreading to the whole of Europe, and finally – enriched through the assimilation of cultures of indigenous and allogenous peoples – took root beyond the Atlantic ocean under the aegis of freedom. The challenge was ambitious but possible: to export the values, which the West had been strenuously building up throughout the centuries, through a dialogue and an exchange among equals. An exchange, which would have made possible the assimilation of the different and precious values grown within other civilizations and other histories.

The arrogant and violent initiative of Bush and of the potent power group, of which he is expression, is to be blamed for this opportunity having been lost. The ponderous (and often blind) American military has not only broken the army of Saddam: it has smashed the hopes for the development of the world based on a dialog among cultures and faiths. This is the rationale for the persistent preaching of Wojtyla, the only one among the powerful of the world who understood the stakes of the game, and therefore the most consistent opponent of this war.

At the other extreme (the inner doll of the Matrioshka), there is the suicide of Italy. Subjected to the worst political class that has ever inhabited the land between the Alps and the Sicilian channel, prey of a bizarre array of characters, united by the stubborn will to consistently and systematically substitute private interests to public ones, to pillage the future in the name of the maximum exploitation of the present, the nation seems to be condemned to a fatal end. There is in fact no sign of an alternative really capable of presenting itself as such, that is embodying alternative values to those of Mr. B., capable of giving coherent answers with such values. An alternative united because it can be enriched through diversity of positions, and engaged in outlining the strategy and the program of a government opposition.

The most confused sector is certainly the left. The left should be held responsible and yet it should be a source of hope: for its wealth of ideals, for its potential organizational strength, even for its residual consistency, for the attention that it deserves for the most vital reaction against berlusconianism (that of the “girotondi”, of the unions, of the rainbow flags). Today the left is divided in a conflict that is pernicious because it is tenaciously closed in a sterile game of labels, of personalism, of the small-scale tactics of the party bureaucracies. It should be said: to be blamed are the faults (or the mistakes) of those who have ruled and still rule the political formations of the left, who have been repeatedly defeated and (an anomalous case in the democratic world) yet were not able to leave the scene after the defeat.

Between one and the other suicides there is the suicide of Europe In this case, more than suicide we should talk of murder. It seems clear enough to me that not to answer as Chirac and Schröder did would have meant subjection to the arrogance of Bush and the loss of any hope of an autonomous position of Europe on the stage of world politics. Europe would be reduced to the role of satellite, as Mr. B. would like. And nevertheless, in the midst of the difficult path towards the enlargement of its borders and the establishment of its constitution, towards the overcoming of the purely economic conditions and becoming Europe in the sphere of politics and of the civic values, the continent has seen the reemergence of the borders between the different states and the reduction of its political weight. As a consequence the hope of playing a strategic role of dialog and peace among civilizations, religions, and cultures becomes more remote.

And nevertheless I believe that it is here, in Europe’s ability to again take up its path, that hope lies that the values of the West devastated by Bush’s war might yet be recovered for the future. Haven’t we seen, anyway, a united Europe, beyond the differences between governments, in the peace demonstrations, and through the connections to analogous protests and hopes beyond the oceans?

It is easy to say one should not stay with Saddam. He is one of the worst products of the inauspicious combination between the age-long stagnation of Middle Eastern civilizations and the rapacious and short-sighted interests of the West. Those who protested yesterday, when Saddam was an instrument of the West, against the massacres of Kurds, communists and other opponents, can easily say it today. There is therefore nothing to object to the first “not”.

Millions of people (in Europe and in the three Americas, in Asia, in Africa and in Australia) have already said they arenot with Bush: they have marched to oppose Bush’s war and to reject the policy of the US ruling class. The Pope, John Paul II, is saying every week, almost every day, that he is not with Bush. The Italian President, who is the highest representative of the nation, says the same thing. Members of the left wing and centre parties, sharply criticizing the Prime Minister for his tepidness and for his concealed servilism to Bush have said the same thing.

Many of us have said that, while not supporting Saddam, we don’t support Bush either. Where is the scandal? Isn’t saying “not with Bush, nor with Saddam” just saying the simple truth? Why shouldn’t one say such a simple truth?

In general, there are three possible reasons for not saying the truth: ignorance, fear or interest. It is difficult to ascribe ignorance to the members of Parliament, the political leaders, the journalists and the other clerks who have reproached Epifani for his phrase. It is even harder to believe that they can be moved by fear: fear of what, of whom? The CIA has proven not to be very dreadful.

The only reason that is left is interest. But what kind interest has pushed to clouding, to hiding the truth? Certainly it is not an economic interest: we are talking about respected politicians, not about gun merchants or firms for post-war reconstruction. Nor is it a “humanitarian” interest: I don’t believe that the death of an American or of an English soldier could seem to these respected politicians more horrible than the death of an Iraqi soldier. I fear it is only a trivial, petty political interest, an interest of electoral accounting. I fear it is only the concern of losing a few moderate voters. Voters who would have preferred to obtain the UN’s blessing for Bush’s and Blair’s troops, but who have anyway decided to (metaphorically) wear the helmet and to side with the “defenders” of the West, since Bush has taken action.

The policy sustained by Bush and Blair is leading to the suicide of the West: a moral suicide, because the values of justice and truth, which are the base of our civilization, have been trampled on; a strategic suicide, because an inevitable wave of hate towards all of us has been unleashed; a political suicide, because the international institutions, built with difficulty on the ruins of the world ravaged by Nazi-fascism, have been destroyed. The real scandal is that these petty political interests should cover words of truth.

Post scriptum

On January 26, 1998, years before the destruction of the Twin Towers and the proclamation of the horrible theory of preventive war, the PNAC – Project for the New American Century, a US pression group – wrote a letter to President Clinton prompting for a “strategy for removing Saddam’s regime from power,” even with the military. Among those who subscribed the letter are some of the most influential members of the US administration: Dick Cheney, Vice President; Lewis Libby, Cheney’s Chief of Staff; Donald Rumsfeld, Secretary of Defense; Paul Wolfowitz, Deputy Secretary of Defense Peter Rodman, “global security” advisor; John Bolton, Under Secretary of Arms Control and International Security; Richard Armitage, Deputy Secretary of State; Richard Perle, chairman of the Defense Policy Board; William Bristol, chairman of PNAC and Zalmay Khalilzad, Presidential Envoy to the Iraqi Opposition.

È facile dire che non si sta con Saddam. È uno dei peggiori prodotti del nefasto intreccio tra la plurisecolare stagnazione della civiltà mediorientale e gli interessi rapaci e miopi dell’Occidente. È particolarmente facile dirlo anche oggi per quanti hanno protestato ieri per le stragi di curdi, di comunisti e di altri oppositori che Saddam ha fatto quando era strumento dell’Occidente. Nulla da eccepire quindi sul primo “né”.

Ma milioni di persone (in Europa e nelle tre Americhe, in Asia e in Africa e in Australia) hanno già detto che non stanno con Bush: hanno manifestato nelle piazze la loro opposizione alla guerra di Bush, il loro rifiuto netto per la politica dell’attuale gruppo dirigente degli USA. Dice ogni settimana, ormai quasi ogni giorno, che non sta con Bush il Papa dei cattolici, Giovanni Paolo II. Lo dice il Presidente della Repubblica, massimo esponente e rappresentante della nazione. Lo hanno detto anche gli esponenti dei partiti di centro e di sinistra, criticando aspramente il Capo del governo per la sua tiepidezza, per il suo dissimulato servilismo verso Bush.

Siamo davvero in tanti ad aver detto che, oltre a non stare con Saddam, non stiamo neppure con Bush. Allora, perché scandalizzarsi? Dire che non si sta “né con Bush né con Saddam” non significa forse dire semplicemente la verità? Perché non si può, perché non si deve dire una verità così semplice?

In generale, le possibili ragioni per non affermare il vero sono solo tre. O l’ignoranza, o la paura, o l’interesse. È difficile affibbiare l’attributo dell’ignoranza ai parlamentari, ai dirigenti politici, ai giornalisti e agli altri clerici che hanno rimproverato Epifani per la sua frase. È ancora più difficile credere che sia la paura ad animarli: paura di che,di chi? La CIA ha dimostrato davvero di non essere troppo temibile.

Non resta allora che l’interesse. Ma quale interesse può aver spinto a desiderare di annebbiare la verità, di nasconderla? Non certo un interesse economico non stiamo parlando di mercanti di cannoni o imprese di ricostruzione posbellica, ma di stimati dirigenti politici. E neppure un interesse, diciamo così, umanitario: non credo che la morte di qualche soldato americano o inglese possa apparire a qualche stimato dirigente politico piò orrenda della morte di qualche soldato iracheno. Temo che sia solo un piccolo, meschino interesse di politico: anzi, di bottega elettorale. Temo che sia solo la paura di perdere qualche voto su quel versante moderato che magari preferirebbe aver avuto la benedizione dell’ONU alle armate di Bush e Blair, ma che comunque, visto che Bush si è deciso a rompere gli indugi, si è infilato (metaforicamente) l’elmetto in testa e si schierato con i “difensori” dell’Occidente.

La politica di Bush e di Blair ha dato il via a un vero e proprio suicidio dell’Occidente: suicidio morale, per aver calpestato e offeso i valori di giustizia e di libertà, che sono alla base della nostra civiltà; suicidio strategico, per aver scatenato una inevitabile ondata di odio verso tutti noi da parte di una sterminata parte dell’umanità; suicidio politico per aver demolito gli istituti della convivenza internazionale, costruiti con fatica sulle macerie del mondo devastato dal nazifascismo. Che in questo scenario piccoli interessi di bottega politica facciano velo alla pronuncia di parole di verità è veramente, questo si, scandaloso.Post scriptumIl 26 gennaio 1998, anni prima della distruzione delle Twin Tower, della proclamazione dell’orrenda teoria della Guerra preventiva, un gruppo di pressione statunitense PNAC ( Project for the New American Century)scriveva al Presidente Clinton una lettera (l’inserisco qui sotto) in cui si chiede esplicitamente di attuare “una strategia per rimuovere il regime di Saddam dal potere” (“ a strategy for removing Saddam's regime from power”) anche con mezzi militari. La lettera è pubblicata dalla rivista Internazionale, la cui redazione mette in evidenza come tra i firmatari vi siano “alcuni dei nomi più influenti dell'attuale governo degli Stati Uniti. E cioè: Dick Cheney, vicepresidente; Lewis Libby, capo dello staff di Cheney; Donald Rumsfeld, ministro della difesa; Paul Wolfowitz, vice di Rumsfeld; Peter Rodman, responsabile delle ‘questioni di sicurezza globale’; John Bolton, segretario di stato per il controllo degli armamenti; Richard Armitage, vice ministro degli esteri; Richard Perle, ex vice ministro della difesa dell’amministrazione Reagan e ora presidente della commissione difesa; William Bristol, capo del Pnac e consigliere di George W. Bush; e Zalmay Khalilzad, ambasciatore speciale di Bush presso l’opposizione irachena”.

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