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Dedicata al mondo femminile, che investe di sé tutto il clima di questa edizione della biennale, la bella mostra di Kiki Smith è ottimamente allestita alla Fondazione Querini Stampalia per la cura di Chiara Bertola. Le stanze espositive si susseguono come fossero i luoghi di una fantastica abitazione completamente reinventata dall'artista in quella che è titolata Homespun tales: «storie di occupazione domestica» che si dipanano scorrevoli dalle opere all'ambiente, completamente allestito in funzione del «racconto» che vi scorre all'interno. La suggestione per questi lavori è derivata a Kiki Smith dalla collezione di ritratti conservata negli altri piani di Casa Querini: ritratti per lo più femminili dovuti al settecentesco pennello, pianamente borghese e attento osservatore della quotidianità domestica, di Pietro Longhi. L'artista americana mescola le carte e aggiunge il suo proprio ricordo del New Jersey ormai lontano, fantastico e favolistico come queste stanze, decorate a stencil, e la «cucina» dal grande tavolo ligneo con brocche e terraglie e altri strumenti manuali e bambole di pezza e vasetti poveri con fiori umili (ma come capitato per caso, spunta l'invito di una recente personale di Luigi Ontani, un meditato omaggio all'amico, il quale è ritratto proprio nelle vesti dell'Eroe dei due Mondi). È dunque un universo domestico, dove le protagoniste sono intente a occupazioni tradizionalmente femminili, intese nel senso più nobile, e concentrate in un mondo tutto loro (e nostro), che custodiscono gelosamente come piccole «vestali» o «lari». A questo circolo eletto ogni donna può sentirsi a ragione di appartenere, nella installazione filtra un messaggio muto, pacato, ma fortissimo, quasi ancestrale, di riappropriazione-riaffermazione della identità femminile. Ci sono figure di donne - in candido bisquit - collocate sul grandissimo tavolo da pranzo, altre che «occupano» in ranghi sparsi il pavimento, altre ancora più grandi che conducono alla camera da letto (tutti i mobili sono stati costruiti pezzo a pezzo dall'artista) e tutte ci parlano di un mondo matrilineare, occulto e intangibile. Anche il lavoro di Pipilotti Rist, (chi ha dimenticato la leggiadramente vandalica fanciulla per le strade di Zurigo con un fiore di kniphofia come clava in Ever is Over All ?) ci cattura in un universo esclusivamente dedicato a un unico genere: l'impatto emozionale, all'entrare nella seconda «sede» del padiglione svizzero nella chiesa di San Stae, è fortissimo. I visitatori si stendono liberamente sui grandi materassi multicolore sparsi per il pavimento dell'unica navata mentre in alto, sulla volta, appare il più grande, complesso e caleidoscopico «sfondato» della storia artistica. È un affresco tecnologico sofisticato che sdoppia e raddoppia e moltiplica le immagini di quattro proiezioni simultanee nelle quali si dipana la storia infinita di un paradiso terrestre di cielo, acque limpide, vegetazione rigogliosa abitato da una Eva originata dal caos primigenio e sdoppiatasi in una sua gemella/sosia, entrambe felicemente innocenti. Figura femminile archetipica (l'iconografia suggerisce i corpi femminili dei pittori fiamminghi e tedeschi) Eva e la sua doppia non si sottraggono alla minuziosa esplorazione della telecamera tanto ravvicinata che, ad un certo punto, la volta è interamente occupata da un unico occhio, quasi «l'occhio di Dio» (ma di genere femmile, una «grande madre» soccorrevole, mai giudice...) mentre in una divertente inquadratura successiva i capezzoli sono immensi fragoloni rosa decorativi. Le due Eve si muovono libere, in armonia con la natura, ma il «memento mori» calvinista è in agguato e viene simboleggiato, come nella migliore tradizione pittorica, nell'infradiciarsi dei frutti, pomi succosi che, stretti tra le mani o spappolati sotto i piedi ci rendono consapevoli della vanità delle cose (e il maschio è avvertito con sadica ironia: anche i suoi attributi virili, sorretti dolcemente tra le mani in una brevissima sequenza, potrebbero fare la stessa fine). Il suono, come è avvenuto per altri lavori, è accuratamente composto per le immagini e dunque in questo Homo sapiens sapiens (2005) è seducente e rilassante, ricordando la musica new age.

La personale di Karen Kilimnik, ancora un'artista americana, alla Fondazione Bevilacqua la Masa (palazzetto Tito), per la cura di Angela Vettese, ci introduce all'interno di una diversa ricostruzione della «casa»: si tratta di «scenografia» più che di un luogo della memoria o di un «rifugio» intimo e privato. Il décor è fatto di tende sontuose, seggioline dorate (eleganti?), carta azzurra da parati del salotto buono e poi una profusione di ninnoli e chincaglieria ovunque, in un concreto rimando alla pittura. Kilimnik è attirata dalla finzione, la sua pittura è tutta una «mise en scène» perfetta e inquietante, a tratti quasi sinistra, come se da un momento all'altro calasse il sipario. E il gioco dei rimandi, degli ossimori trapassa di stanza in stanza, di lavoro in lavoro, nell'esercizio magistrale di una consapevole citazione.

Titolo originale: Amsterdam General Extension Plan – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Poche città europee possono vantare un’evoluzione più interessante dal punto di vista urbanistico, da quello della bellezza della località geografica e di una planimetria attraente, della capitale olandese. La sua posizione alla confluenza dell’Amstel con lo Y, un ampio canale che collega il fiume al mare, è stato uno dei numerosi fattori che hanno contribuito a ciò. Alla posizione geografica e alle forme del sito possono essere ascritte in primo luogo le linee delle fortificazioni che tanto ne hanno influenzato la crescita, poi le serie di canali – gratchen – e terzo la sua planimetria unica, a forma di semicerchio che si risolve in lati multipli.

Piani per l’ampliamento di Amsterdam sono stati redatti in varie epoche storiche. Quello in corso di esame è di gran lunga il più completo. È basato sulla Legge per la Casa olandese, e riguarda tutto il territorio sino ai confini comunali. Per la sua produzione sono stati necessari quattro anni di estensivi studi sulle condizioni tecniche, sociali, igieniche ed estetiche. Il progetto è stato sviluppato in collaborazione da tutti i settori del Dipartimento ai Lavori Pubblici.

Popolazione

La popolazione attuale e quella probabile futura sono state poste alla base del piano. Nella stima degli abitanti futuri, sono stati tenuti presenti tre fattori: migrazioni, tasso di nascita, mortalità. Per molti anni le migrazioni sono state praticamente stagnanti, e la crescita demografica è stata dovuta all’eccesso delle nascite rispetto alle morti.

Sono state analizzate attentamente le statistiche e si è rilevato che la popolazione raggiungerà probabilmente un massimo attorno all’anno 2000. Tale massimo è stato calcolato in 900.000 persone. Il nuovo piano è stato predisposto per una popolazione probabile fra 960.00 e 970.000 abitanti, perché questa cifra consentiva un certo grado di flessibilità per rispondere a qualunque emergenza dovesse verificarsi nel futuro, in termini di crescita aggiuntiva dovuta a immigrazione in eccesso.

Tenendo presenti queste statistiche, si è ritenuto che fossero disponibili entro i confini comunali ambiti adatti per vari tipi di insediamento, lasciando una quantità di spazi adeguata per il tempo libero e altri tipi di aree aperte. Per determinarne l’organizzazione e la struttura interna, le statistiche sono state minutamente articolate per gruppi di età.

Comunicazioni

La prima tavola mostra i diversi tipi di comunicazioni: strade, ferrovie, canali. La struttura caratteristica della città esistente è quella di un sistema di vie radiali e anulari, ed è lo stesso sistema seguito per quanto possibile nel piano di ampliamento.

La principali radiali sono verso: 1) Ymuiden (Mare del Nord) lungo il canale Noordzee a ovest; 2) Haarlem e la costa, a ovest; 3) Leida e l’Aia, via aeroporto di Schilpol a sud-ovest; 4) Rotterdam, Bruxelles e Parigi a sud; 5) Utrecht, Colonia Hertogenbosch e Lussemburgo a sud-est; 6) Hilversum e Berlino a est; 7) Purmerend e Zuiderzee a nord; 8) Zaandam a nord-ovest. I percorsi (7) e (8) entrano nella zona nord della città, e dopo essere stati ostacolati dal canale Y proseguono verso il centro, dove si uniscono. Il traffico attraversa il canale Y tramite traghetti e a causa del notevole volume causa congestione nel cuore della città. Il nuovo piano prevede il decentramento di queste due arterie canalizzando il traffico dal centro industriale, Zaandam-Alkmaar, attraverso un previsto tunnel sotto il Noordzeekanaal nella parte occidentale della città, e quello dallo Zuiderzee su un previsto ponte nella parte orientale. Il tunnel occidentale per automezzi e ferrovia renderà possibile la rimozione dell’attuale ponte ferroviario mobile (Hembrug) all’entrata del porto occidentale, e aprirà notevolmente l’accesso alla zona dei moli.

Le altre radiali principali convergenti verso la città verranno collegate sistematicamente alle vie interne, e infine a un anello interno che segue i confini della città vecchia.

Le vie d’acqua esistenti, come le strade, si irraggiano dalla città. Il canale del Reno a sud-est, è in corso di ampliamento per consentire la navigazione a navi sino a 4.000 tonnellate. Questa navi in genere sono ormeggiate nel porto occidentale, e per consentire accesso a questa zona senza percorrere lo Y, rallentando il traffico di imbarcazioni e traghetti, si propone di estendere il canale Reno attorno alla parte nord della città.

Anche le ferrovie sono organizzate in forma radiale. Tutte entrano nella Stazione Centrale collocata lungo l’Y di fronte al centro città, causa di molta congestione, in stazione e nella zona. Per allentarla, è in corso di realizzazione un anello ferroviario dal porto occidentale verso ovest e sud attorno alla città esistente, e successivamente verso Utrecht e la Germania. Questa ferrovia si realizza su un’alta diga, così che tutte le strade esistenti e di progetto le passano sotto attraverso arcate. La ferrovia, collegata a tutte le linee radiali e che coordina i vari settori urbani, è una delle caratteristiche più importanti del nuovo piano.

Industria

Fissati questi elementi riguardo al trasporto, sarà possibile localizzare i nuovi spazi per i porti, le zone industriali ecc., in corretta relazione con la città esistente, e con particolare riguardo alla mobilità di persone e merci da e verso i luoghi di lavoro. Il nuovo porto e i bacini, sono già in parte realizzati lungo il canale Noordzee con accesso dal Mare del Nord da ovest e dal canale Reno a est. I nuovi bacini sono pensati particolarmente per gestire navi da carico. Ciascun settore è pensato per una particolare tipologia o categoria. Le estremità chiuse dei docks sono rivolte verso la città in modo tale da poter gestire facilmente il traffico diretto ad essi. Questo tipo di organizzazione rende conveniente assegnare a singole ditte magazzini e depositi.

L’area comprende spazi per industrie di vario tipo, e si prevede che saranno edificati in fretta, aumentando di molto l’entità e importanza di Amsterdam come centro industriale. Alcuni settori, come quello della fabbrica Ford, sono già stati completati.

Un altro quartiere industriale è stato previsto all’altra estremità della città, con facile accesso a canale e ferrovia. Nel piano è stata inserito un totale di nuove zone industriali di 400 ettari, ampliabile se necessario sino a 710 ettari. Le zone industriali esistenti sommano in tutto 150 ettari.

Orticoltura

In passato, molti coltivatori di prodotti ortofrutticoli sono stati espropriati dei propri giardini dalla crescita urbana. I coltivatori si sono spostati su altri terreni ai confini estremi della città, con conseguente perdita di indennizzi da parte della città, e irrequietudine da parte dei coltivatori, che nel tempo avevano portati i propri terreni ad un’alta produttività. Nel nuovo piano un cento numero di aree che non sono ritenute necessarie da acquisire per la crescita urbana sono state destinate particolarmente all’orticoltura. I criteri di selezione per le zone sono state l’adeguatezza dei suoli, buone comunicazioni terra-acqua con la città in generale, e coi mercati di distribuzione in particolare.

Agricoltura

Al momento attuale, entro i confini amministrativi, esistono 8.000 ettari di terreno – ovvero la metà della superficie totale – dedicato all’agricoltura, principalmente all’allevamento di bestiame. Molto di questo spazio sarà necessario per l’ampliamento della città, ma si ritiene che il rimanente debba essere mantenuto all’uso attuale con zone destinate al tempo libero per la popolazione. La città futura avrà una cintura agricola a ovest e a nord. Tale cintura fungerà da separatore con gli insediamenti vicini, mantenendo le relative identità.

Abitazioni

Prima di decidere i criteri per le abitazioni future, sono stati considerati con attenzione i due principali sistemi di crescita della città: concentrazione o aggregazione, e decentramento, il secondo metodo fortemente sostenuto in Olanda e particolarmente a Amsterdam. Sono stati valutati i pro e contro di entrambi i sistemi.

Gli argomenti a favore del decentramento erano:

a) con una popolazione in crescita al ritmo di 7-8000 persone l’anno, e che probabilmente raggiungerà un totale di un milione e mezzo prima che siano passati molti decenni, la città entro quell’epoca presenterà i problemi di congestione da traffico e le altre difficoltà già evidenti in altri centri del paese;

b) la futura popolazione deve essere collocata in gran parte in case unifamiliari entro quartieri giardino. Questi ultimi possono essere realizzati solo se il terreno su cui si costruiscono è a buon mercato, e attualmente inedificato e libero dagli effetti della speculazione.

D’altra parte, un forte argomento a favore delle concentrazione o aggregazione, è la parte importante giocata da porto e industrie nelle attività e benessere della popolazione di Amsterdam. Questi elementi possono essere realizzati e sfruttati economicamente solo se organizzati in modo rigidamente accentrato e concentrato, entro la città o molto vicino ad essa. Con tale concentrazione, e mantenendo i settori residenziali entro i confini municipali, ai lavoratori verranno risparmiati tempo e spese di spostamento da e verso i posti di lavoro.

È stato rilevato, attraverso un’attenta analisi, che questa opzione era possibile e fattibile, ed è stata adottata nel nuovo piano.

Come già detto, i centri produttivi più importanti sono orientati verso il mare, ovvero a nord-ovest della città esistente. Logicamente, settori residenziali si prevedono verso ovest, dove possono essere realizzati con il minimo di difficoltà tecniche e geografiche, grazie alla grande estensione dei terreni aperti. Per le stesse ragioni, si prevedono altri quartieri residenziali verso sud. Per gli abitanti di questo settore è stato progettato un grande parco boscoso con , a est sulla riva opposta dell’Amstel, il previsto quartiere industriale.

L’ampliamento a est è stato guidato da un piano particolareggiato, incluso nella carta di azzonamento del nuovo piano. È solo parzialmente destinato a residenza. La maggior parte è destinata al tempo libero.

Resta solo la zona settentrionale della città, all’estremità opposta dello Y. Fu durante il primo decennio di questo secolo che la città cominciò ad espandersi in questa direzione, con lo sviluppo di alcuni insediamenti per l’industria. I terreni sono bassi, e i suoli poveri, dato che una considerevole parte dell’area è stata utilizzata come deposito di materiali dragati dai canali. Gli spazi erano a buon mercato e si prevedeva di creare un centro industriale sulle rive dello Y, e più oltre di costruire case sufficienti ad ospitare i lavoratori dell’area. A quei tempi, circa trent’anni fa, il traffico era solo questione di biciclette, pedoni, cavalli, e perciò la comunicazione tramite traghetti era considerata sufficiente per le previste necessità di trasporto.

Gli eventi hanno dimostrato che queste supposizioni erano sbagliate. La colonia crebbe, durante e dopo la grande guerra, in modo molto più massiccio di quanto previsto. Al momento attuale ci abitano circa 45.000 persone, in case mono e bi-familiari. Alcune delle abitazioni sono organizzate in gruppi sulle linee di un quartiere giardino. Il traffico è aumentato parallelamente. A complicare la questione traffico, c’è il fatto che solo la metà degli abitanti del settore settentrionale lavora qui, mentre l’altra metà deve attraversare lo Y per raggiungere il proprio impiego nella città vecchia. D’altro canto, circa 7.000 persone che vivono in città devono attraversarlo nella direzione opposta per raggiungere il proprio impiego sulla riva nord. E così Amsterdam si è trovata inaspettatamente ad affrontare i difficili problemi che sorgono da fatto che la città ora si estende su entrambi i lati di un ampio specchio d’acqua utilizzato per la navigazione, problema con cui luoghi come Rotterdam, Anversa o Amburgo si sono misurati per un lungo periodo.

In molte occasioni si era suggerito un tunnel sotto lo Y. In un rapporto pubblicato nel 1931 si affermava che se le difficoltà tecniche di realizzazione potevano essere superate, la galleria si sarebbe dovuta realizzare solo in una particolare posizione, dove il traffico è già complicato e il sistema insediativo congestionato, col risultato che l’aggiunta del flusso da e per il tunnel, soprattutto nelle ore di punta, avrebbe prodotto una situazione intollerabile. In più, sarebbe stato necessario realizzare massicci allargamenti stradali e demolizioni in quella che è la parte più pittoresca della città.

Con queste premesse, il nuovo piano non prevede un tunnel. Il traffico locale in futuro utilizzerà i traghetti, mentre il resto sarà orientato il più lontano possibile verso le strade di circonvallazione su entrambi i lati della città, in modo tale che possano essere utilizzati modi più adeguati di attraversamento del canale.

Caratteristiche e densità delle abitazioni

Entro la fascia definita dalla ferrovia sopraelevata, il sistema residenziale si realizzerà secondo linee molto simili a quello già esistente. La densità è fissata dal nuovo piano in 110 abitazioni per ettaro nelle espansioni occidentali, e 85 per ettaro a sud, con tutte le case in isolati di tre o quattro piani.

All’esterno dell’anello ferroviario il piano prevede un tipo di insediamento residenziale diverso, che può essere descritto meglio secondo le linee della città giardino, anche se non del tipo caratteristico inglese. In questi settori, ciascuno progettato per 40-50.000 abitanti, troveranno posto unità relativamente autonome. Ciascuna sarà dotata di un’area centrale per il commercio, piccole industrie, garages comuni, cinema, scuole ecc., in modo che gli abitanti siano obbligati a utilizzare la città centrale solo per alcune funzioni, come teatri, università, musei o altri usi culturali. La densità residenziale nei due settori occidentali è fissata a 70 abitazioni ettaro. Ciò consentirà a circa il 60 per cento degli abitanti di vivere in case unifamiliari. Nella zona meridionale è consentita una densità lievemente inferiore, esattamente 55 case ettaro.

Numero di abitazioni necessarie

Le nuove aree destinate alla residenza nell’insieme rappresentano una quantità circa identica a quella della città esistente. Questo può sembrare eccessivo al lettore, visto che la crescita di popolazione prevista è, come già detto, solo del 27% rispetto a quella attuale. Ciò si deve ai seguenti fenomeni:

a) il numero medio dei componenti le famiglie è in calo. Circa dieci anni fa era di 3,84 persone. Oggi è di 3,74. In più analizzando i dati di altre città è stato calcolato che la media in tutta probabilità cambierà ancora, raggiungendo le 3,37 per l’anno 2000. Questo “assottigliamento della famiglia” rende necessario costruire più case nel futuro di quante non ne sarebbero necessarie nelle condizioni attuali. La popolazione futura prevista dal piano per ‘anno 2000 è di 960.000 abitanti. La quantità totale di abitazioni necessarie per questa popolazione sarà di 285.179. Quelle esistenti oggi sono 200.176, quindi saranno necessarie 84.300 nuove case.

b) a queste, si devono aggiungere le 13.460 abitazioni necessarie per i piani di demolizione e risanamento.

c) nel corso dello sviluppo urbano, molte case vengono demolite per fare posto a uffici, negozi, ecc. Nel periodo 1920-1930, sono state eliminate così 8.800 abitazioni, sostituite da alte nuove nel suburbio. Contro a questa tendenza, quella della trasformazione di zone a case bifamiliari in case d’affitto. Considerando tutti questi fattori è stato calcolato che il mercato in città, da ora sino al 2000, richiederà 12.000 nuove abitazioni in nuove aree.

d) la città in espansione assorbe entro il nuovo piano circa 1.370 abitazioni esistenti nelle aree rurali circostanti. In tal modo per il 2000 si ritiene debbano essere realizzate un totale di 111.130 nuove case, un numero che rappresenta oltre la metà di quelle esistenti (200.876).

Tempo libero

I bisogni ricreativi della popolazione futura sono stati attentamente considerati e previsti all’interno del nuovo piano. La città attuale è poco attrezzata di parchi, campi sportivi e orti di quartiere. Ma nelle zone esterne esistono alcune aree naturali di grande attrazione, ed è stata posta molta cura per assicurarsi che quando avverrà l’urbanizzazione all’interno o ai margini di esse, essa avverrà in modi tali da preservare per quanto possibile le attuali caratteristiche rurali.

Una delle più belle fra queste zone naturali è quella che si colloca a nord e nord-ovest della città. Conosciuta come “Waterland” l’area possiede numerosi magnifici laghi e corsi d’acqua. Il terreno è inadatto all’edificazione, e la costruzione di strade costosa in modo proibitivo. Di conseguenza, nel nuovo piano l’area è stata conservata allo stato attuale. Si progetta di tracciare sentieri per pedoni e ciclisti e di utilizzare alcuni dei laghi principali per gli sport acquatici: nuoto, canottaggio, vela ecc. Un piano secondo queste linee è già stato redatto per uno dei laghi.

Fra la zona settentrionale del canale Reno e lo Yesselmer a est, c’è una striscia lunga e stretta di terreno di riporto. Sarà trasformata in parco pubblico, a fungere da connessione per pedoni e ciclisti fra i settori residenziali a est e un altro lago interno, pure attrezzato come centro sportivo.

Il lago esistente “Nieuwe Meer”, a sud-ovest, è un altro magnifico luogo, fra i preferiti dalla popolazione durante l’estate per la vela e altre attività. Questo lago costituirà il confine settentrionale di un altra zona boscosa a parco, di superficie pari a quella del Bois de Boulogne di Parigi. A nord del lago si prevedono campi sportivi e zone a orti urbani. Alcuni sono già stati realizzati. Ancora più all’esterno, un nuovo cimitero.

Il fiume Amstel (da cui la città deriva il proprio nome: Amstelredam-Amsterdam) è contornato su entrambi i lati da fasce di magnifici panorami, con sparpagliate qui e là ampie dimore, molte delle quali risalgono al diciassettesimo o diciottesimo secolo.

Il previsto ampliamento sud della città, fra i parco e l’Amstel, è collocato in modo da rendere possibile la conservazione dell’aspetto naturale del fiume. Sono previsti parchi lungo la riva occidentale, insieme a strutture espositive inserite nel contesto. Sulla riva opposta saranno progettati parchi e alcune zone a orti.

Nel piano sono previsti centri per le attività di tempo libero completamente nuovi. Primo, il grande parco a bosco già citato. La città acquisisce queste superfici man mano se ne presenta l’occasione, e parte dell’area è già stata sistemata nell’ambito delle attività di sostegno per la disoccupazione. Secondo, al centro del sistema di borghi giardino a ovest si propone di creare un nuovo lago allagando un’area libera. Una spiaggia per i bagni a nord e un parco tutto attorno faranno di questa zona uno dei più bei centri per il tempo libero di tutta la città.

In più, complementare agli altri progetti in corso, l’idea di riorganizzare le zone ricreative più piccole esistenti e di crearne delle nuove dove necessario. Una difficoltà, in partenza, era quella di determinare la superficie necessaria a persona. Essa varia da circa 5 a 30 metri quadrati, nei diversi contesti nazionali. Oltre ad essere di dimensioni adeguate, questi piccoli spazi aperti dovranno anche essere razionalmente distribuiti nella città per essere accessibili alla maggior quantità di abitanti possibile.

È stato compiuto uno studio sui parchi esistenti, sia riguardo alle dimensioni che all’accessibilità. Nel nuovo piano, si ritiene che 400 metri siano il raggio massimo di percorrenza a piedi da e per un parco, ed è questa la distanza che è stata adottata. In altre parole i parchi sono collocati a intervalli di 800 metri. Per quelli più vasti l’intervallo adottato è di 1.600 metri, in quanto è stata ritenuta di 800 metri la distanza massima approssimativa percorribile a piedi dagli adulti per raggiungerli. Le dimensioni, sia per i parchi locali che per quelli più grandi, sono basate sulla quantità di persone che abitano entro i raggi menzionati.

Per calcolare la superficie richiesta pro capite è stata effettuata una lunga e accurata analisi sugli spazi gioco esistenti. É stato rilevato che “Costerpark”, situato in una zona densamente edificata, è molto vicino alle caratteristiche ideali, sia per quanto riguarda la superficie, sia il numero relativo di utenti. Questo parco ha un’area di 10 ettari, che suddivisa per il numero delle persone residenti entro i 400 metri di raggio da’ 3,5 metri quadri a persona: nel nuovo piano questa cifra è stata adottata come obiettivo. I parchi sono localizzati in modo tale da poter essere coordinati quasi sempre attraverso un sistema di parkways. Calcolando anche il verde di queste arterie, la superficie pro-capite sale da 3,5 a 4,5 mq abitante.

Le strutture esistenti per gli sport degli adulti, in modo simile, sono ora molto al di sotto delle necessità, e nel nuovo piano si prevede di correggere a tali carenze. Gli spazi per lo sport vengono sistematizzati, con alcuni nuovi a coprire le mancanze e altri per sostituire quelli necessari all’espansione della città. Per calcolare la superficie necessaria allo sport sono state adottate le quantità proposte dal Dott. Martin Wagner, di Berlino, nella sua pubblicazione Stadtische Freiflache. Esse sono basate sulla divisione della popolazione per gruppi di età. Sono state apportate alcune modifiche rispetto alle cifre di Wagner a causa del diverso clima e terreno di Amsterdam rispetto a Berlino.

La popolazione è stata suddivisa in 5 gruppi di età. Per i primi due non è necessaria alcuna struttura sportiva, dato che utilizzano i parchi locali minori. Per il terzo gruppo, è stato verificato che solo la metà richiede strutture sportive specifiche. Il Dott. Wagner nel suo metodo di calcolo ha compreso la popolazione sino a 30 anni di età. Ad Amsterdam si è ritenuto che il limite andasse elevato ai 35 anni. Così nel nuovo piano è stata messa a disposizione una quantità piena di superfici destinate allo sport per i residenti da 15 a 35 anni di età. L’area pro capite è di 5 metri quadrati, per quanto riguarda le superfici nette da gioco. A questa va aggiunta l’area per sentieri, edifici di servizio, verde ecc. Per la popolazione futura, che avrà percentuali superiori di persone oltre i 35 anni del limite, la superficie destinata si riduce da 5 metri quadrati a 4.

I campi sportivi sono localizzati in modo tale che i ciclisti li possono raggiungere al massimo in dieci minuti da qualunque parte della città.

Orti urbani

Gli orti esistenti sono distribuiti a caso per la città e i dintorni. Ad Amsterdam, dove l’orto è estremamente popolare, si capisce come essi debbano essere sistematizzati e organizzati, nello stesso modo di case e fabbriche, s si vogliono ottenere risultati soddisfacenti. Un rilievo delle condizioni attuali comparato con quelle di alte città mostra che sono necessari 5 metri quadrati per abitante, ed è la quantità offerta dal piano.

Gli orti sono organizzati in gruppi, facilmente raggiungibili dai nuovi settori residenziali. Ci sarà stretto controllo riguardo a collocazione e progettazione dei capanni e degli spazi.

Conclusioni

Il nuovo Piano di Amsterdam, mentre provvede alla futura regolamentazione e ampliamento della città esistente, è molto flessibile nelle proprie previsioni. Le sue linee principali sono state dettate dalle condizioni attuali, ma entro queste linee principali esiste ampio spazio di revisione per adeguarsi a nuove circostanze man mano si presentino. Soprattutto, il piano è stato concepito in modo tale che possa essere attuato per settori, come e quando i pianificatori futuri riterranno meglio.

L’analisi e il progetto sono raccolti in cinque volumi. Nell’organizzazione generale, nei diagrammi e altre illustrazioni, nell’approccio comprensivo in cui il lavoro si è sviluppato, Amsterdam da’ un esempio che dovrebbe essere emulato da altre città. Molto del lavoro è di carattere pionieristico, e la sua utilità per gli urbanisti corrispondentemente aumentata. Siamo lieti di apprendere che è in fase di esame la richiesta di un’edizione inglese del piano.


Residuo Residuo
Residuo

Carlos Drummond de Andrade

Di tutto è rimasto un poco,

Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa

è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce

captata nel cappello.

Negli occhi del ruffiano

è restata un po' di tenerezza

(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere

che ti coprì le scarpe

bianche. Pochi panni sono rimasti,

pochi veli rotti,

poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.

Del ponte bombardato,

delle due foglie d'erba,

del pacchetto

- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.

È rimasto un po' del tuo mento

nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio

un poco è rimasto, un poco

sui muri infastiditi,

nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto

nel piattino di porcellana,

drago rotto, fiore bianco,

di rughe sulla tua fronte,

ritratto.

Se di tutto resta un poco,

perché mai non dovrebbe restare

un po' di me? Nel treno

che porta a nord, nella nave,

negli annunci di giornale,

un po' di me a Londra,

un po' di me in qualche dove?

nella consonante?

nel pozzo?

Un poco resta oscillando

alla foce dei fiumi

e i pesci non lo evitano,

un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.

Non molto: da un rubinetto

stilla questa goccia assurda,

metà sale e metà alcool,

salta questa zampa di rana,

questo vetro di orologio

rotto in mille speranze,

questo collo di cigno,

questo segreto infantile...

Di ogni cosa è rimasto un poco:

di me; di te; di Abelardo.

Un capello sulla mia manica,

di tutto è rimasto un poco;

vento nelle mie orecchie,

rutto volgare, gemito

di viscere ribelli,

e minuscoli artefatti:

campanula, alveolo, capsula

di revolver... di aspirina.

Di tutto è rimasto un poco.

E di tutto resta un poco.

Oh, apri i flacone di profumo

e soffoca

l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,

e sotto le onde ritmate,

e sotto le nuvole e i venti

e sotto i ponti e sotto i tunnel

e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo

e sotto il muco e sotto il vomito

e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato

e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto

e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti

e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi

e sotto i cardini della famiglia e della classe,

rimane sempre un poco di tutto.

A volte un bottone. A volte un topo.

(traduzione di Antonio Tabucchi)

De tudo ficou um pouco.

Do meu medo. Do teu asco.

Dos gritos gagos. Da rosa

ficou um pouco.

Ficou um pouco de luz

captada no chapéu.

Nos olhos do rufião

de ternura ficou um pouco

(muito pouco).

Pouco ficou deste pó

de que teu branco sapato

se cobriu. Ficaram poucas

roupas, poucos véus rotos

pouco, pouco, muito pouco.

Mas de tudo fica um pouco.

Da ponte bombardeada,

de duas folhas de grama,

do maço

- vazio - de cigarros, ficou um pouco.

Mas de tudo fica um pouco.

Fica um pouco do teu queixo

no queixo de tua filha.

De teu áspero silêncio

um pouco ficou, um pouco

nos muros zangados,

nas folhas, mudas, que sobem.

Ficou um pouco de tudo

no pires de porcelana,

dragão partido, flor branca,

de ruga na vossa testa,

retrato.

Se de tudo fica um pouco,

mas por que não ficaria

um pouco de mim? no trem

que leva ao norte, no barco,

nos anúncios de jornal,

um pouco de mim em Londres,

um pouco de mim algures?

na consoante?

No poço?

Um pouco fica oscilando

na embocadura dos rios

e os peixes não o evitam.

um pouco: não está nos livros.

De tudo fica um pouco.

Não muito: de uma torneira

pinga esta gota absurda,

meio sal e meio álcool,

salta esta perna de rã,

este vidro de relógio

partido em mil esperanças,

este pescoço de cisne,

este segredo infantil...

De tudo ficou um pouco

de mim; de ti; de Abelardo.

Cabelo na minha manga,

de tudo ficou um pouco;

vento nas orelhas minhas,

simplório arroto, gemido

de víscera inconformada,

e minúsculos artefatos:

campânula, alvéolo, cápsula

de revólver... de aspirina.

De tudo ficou um pouco.

E de tudo fica um pouco.

Oh abre os vidros de loção

e abafa

o insuportável mau cheiro da memória.

Mas de tudo, terrível, fica um pouco,

e sob as ondas ritmadas,

e sob as nuvens e os ventos,

e sob as pontes e sob os túneis

e sob as labaredas e sob o sarcasmo

e sob a gosma e sob o vômito

e sob o soluço, o cárcere, o esquecido

e sob os espetáculos e sob a morte de escarlate

e sob as bibliotecas, os asilos, as igrejas triunfantes

e sob tu mesmo e sob teus pés já duros

e sob os gonzos da família e da classe,

fica sempre um pouco de tudo.

Às vezes um botão. Às vezes um rato.

So come comincia la vecchiaia. Tende a scomparire la forza sessuale (ma non il desiderio). Diventa faticoso salire gradini e pendii, senti dolore nei muscoli delle cosce, sebbene continui a camminare bene in piano. Se corri o cammini in salita ti manca presto il fiato, anche se da molti anni hai smesso di fumare. Ci metti molto tempo a ricordarti che l’Università di cui Dereck Drummond è decano si chiama McGill, e che il democristiano di nome Mariano, che hai visto ogni settimana per quindici anni e con cui ti soffermi a chiacchierare in Frezzeria, di cognome fa Baldo. E quando non fai una cosa che ti piacerebbe fare non pensi che la farai più avanti nel tempo, ma che non la farai più. Ecco come è cominciata la vecchiaia, per me.

Ho settant’anni; non sono ancora in pensione perché i professori universitari ci vanno più tardi. Penso che forse non ci andrò mai, perché lavorare mi piace. Mi piace il mio lavoro: mettere insieme le cose con le parole dette e quelle scritte; raccontare e scrivere per gli amministratori e per i ragazzi, parlando e proponendo a proposito di città, territorio, ambiente, pianificazione. Facendo quel mestiere che ho cominciato, quasi per caso, molti anni fa.

Non sono in pensione, ma ho imparato a conservare più tempo per me: a correre meno da una città a un’altra, da un impegno a un altro, da una riunione a un articolo, da una relazione a un’intervista. Tempo anche per i ricordi. Perché con la vecchiaia i ricordi ritornano. E diventano importanti: non più aneddoti che racconti per far sorridere gli amici ma ragioni di vita, possibili chiavi per comprendere te stesso. Per comprendere ciò che sei, e ciò che avresti potuto essere se le cose fossero andate in un altro modo. E anche per lasciare qualcosa di te ai figli e ai nipoti: perché cominci a pensare che forse non sei eterno.

con i telespettatori (i radioascoltatori), ma non abbiamo altro mezzo per condividere con tutto il paese lo sconcerto e la rabbia per come il servizio pubblico in questi giorni viene umiliato. Lasciato ancora una volta senza governo per la feroce contesa intorno al suo controllo, spogliato del 70% degli utili raccolti, privato di grandi opportunità come l’offerta intera dei Mondiali di calcio. E’ uno scenario persino più drammatico di quel che avevamo temuto, in termini di lottizzazione, di asservimento al governo, ai partiti, agli interessi della concorrenza. Noi non ci rassegnamo allo smantellamento del servizio pubblico, convinti di interpretare l’opinione della grande maggioranza degli italiani.” Usigrai

Gli estatici paesaggi, i cavalli, gli elementi vegetali, i ritratti, le cattedrali, la Giudecca e gli altri temi ricorrenti hanno la medesima essenzialità di visione, una stessa commistione di elementi astratti e geometrie naturali, con variazioni tonali e cromatiche in funzione antinaturalista. Una pittura meditativa, che vive di lievi e modulate vibrazioni luministiche, di bianchi calcarei, come calcinati al sole, di neri fumosi e riarsi, di forme sfumate in atmosferiche dissolvenze. I contorni si sfrangiano e ricostituiscono in una spazialità riassorbita da fondali monocromi, luminosi alla maniera dei fondi oro bizantini e tardo gotici; travasano senza soluzione di continuità nelle fitte trame segniche che screziano le superfici o, ancora, s’infondono nelle velature trasparenti d’una gamma coloristica parca e di calibrata intensità: grigi lavici, terre bruciate, ocre, gialli ambra, verdi malva, rosa spenti, pallidi cobalti.

Tutto converge nell’unità poetica dell’immagine, nell’eco di remote memorie e di più recenti suggestioni: plastica etrusca, pitture rupestri e dei monasteri serbi, icone ortodosse, ricordi di Daumier e Klee, impressioni dei mosaici di Ravenna e Venezia in una sincronia di fonti, nella pacificazione del dualismo tra Oriente e Occidente, che è tra le altissime risultanze dell’arte di Music.

Anton Zoran Music nasce nel 1909 a Gorizia, all’epoca città sotto il dominio austro-ungarico. Nel 1922 segue la famiglia in Austria, dove realizza i primi disegni. Tra il 1930 e il 1935 frequenta l’Accademia di Belle Arti a Zagabria, allievo del pittore croato Babic, formatosi presso Von Stuck a Monaco.

Sempre nel 1935, conclusi gli studi, soggiorna a Madrid e a Toledo. L’anno seguente risiede in Dalmazia. Partecipa a due mostre collettive a Zagabria e Lubiana (1941-1942). In seguito all’occupazione italiana di territori dalmati e sloveni, rientra a Gorizia. Nel 1943 espone a Trieste (Galleria De Crescenzo) e alla Piccola Galleria di Venezia. Nel 1944 le SS lo deportano a Dachau, dove disegna in una febbrile e segreta attività le vittime dell’Olocausto. Raffigura grovigli di membra, scarni corpi trasportati a braccia, frutto dell’ “incredibile frenesia di disegnare... come in trans, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta... accecato dall’allucinante morbosità di questi campi di cadaveri... irresistibile necessità... per non farmi sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza”.

Dall’aprile del 1945 è libero. Torna a Venezia, dove dipinge i primi Cavallini, che diverrano un soggetto tipico, assieme alle serie delle Zattere e di San Marco. Nel 1948 espone a Venezia (Biennale) e a Roma (Galleria l’Obelisco). Kokoschka visita più volte il suo studio, molto frequentato anche da Campigli. Vende diversi dipinti alla contessa Pecci-Blunt e alla principessa Caetani (sue collezioniste). Soggiorna spesso in Svizzera, specie a Zurigo e vi esegue le prime litografie (1948), incide per la prima volta a puntasecca nel 1949 a Venezia (le più antiche acqueforti risalgono invece al 1955). Vince, assieme a Corpora, il Premio Parigi per la pittura (1951), esponendo quindi alla Galérie de France a Parigi (1952), con la quale stipula un contratto che gli consente di stabilirsi nella città francese (1953). In questo periodo si afferma professionalmente. Ha uno studio a Montparnasse, un altro presso l’Accademia di Venezia; si fa conoscere a New York (1953-1954), Londra e partecipa alla Quadriennale romana con una sala personale (1955). Ottiene il Premio della Grafica alla Biennale Internazionale di Venezia (1956), alla Biennale di Lubiana (1957) e il Premio UNESCO alla Biennale veneziana (1960). Nel frattempo incrementa l’attività d’incisore e, più tardi, di litografo.

Nel 1962 viene pubblicato il catalogo completo dei suoi disegni dal 1947 al 1961, anno peraltro cui risale l’avvio di una produttiva collaborazione con il gallerista Ugo Meneghini. Vanno citate le ampie retrospettive svoltesi a Parigi (1972), Darmstadt (1977), Venezia (1980), con particolare menzione delle mostre “Music opere” 1946-1985, Venezia, Ala Napoleonica e Museo Correr (1985) e “Zoran Music” all’Accademia di Francia in Roma (1992).

da: http://www.sipleda.it/inside.asp?id=362

Qui la galleria d'immagini

L’eccezionale sussidio decretato dal Regime per l’industria alberghiera in vista dello sviluppo che ad essa si vuol dare per il 1941, determina nuove direttrici di studio e stabilisce nuove grandi responsabilità per tutti coloro che hanno il compito di perfezionare i piani nei diversi settori che ne compongono il quadro organizzativo.

Fra i tanti, il problema della sistemazione dei centri balneari appare in tutta l’evidenza della sua importanza. Gli organi competenti, ancor prima del decreto del 16 aprile u. s., hanno affermato la necessità di porre un nuovo ordine in questo campo per inquadrarlo entro un sistema più vivo e più coscientemente moderno.

L’onorevole Bonomi, Direttore Generale per il Turismo, ha sentito chiaramente che il problema della valorizzazione dei centri balneari è intimamente connesso con lo studio della sistemazione edilizia, e il suo discorso ha avuto una pronta eco in una circolare diramata dalla presidenza della Federazione Nazionale Fascista Pubblici Esercizi, nella quale si mettono alcuni accenti sui principali punti al fine di animare gli organizzati.

Poiché siamo certi che l’iniziativa privata non resterà sorda di fronte a questi autorevoli appelli, ci sembra opportuno di esaminare, sia pure sommariamente, con metodo sistematico e costruttivo, il punto di vista generale della questione.

Lo Stato Corporativo che ha come postulato della sua esistenza, l’organizzazione dei singoli nell’ambito dell’interesse della collettività, deve pretendere che anche in questo campo, in cui sono in gioco, non solo il prestigio della Nazione di fronte agli stranieri, ma uno dei tesori più cospicui della Patria costituito dalle sue terre più belle, le intenzioni dei singoli (intendiamo le buone intenzioni) non debbano solo dar sviluppo a organismi particolari esemplari, ma si concatenino l’una all’altra sì da formare un armonico insieme.

Nella nostra epoca caratterizzata da un dinamismo operante, v’è infatti solo questo pericolo, che l’azione inconsulta pregiudichi e rovini la realizzazione di una idea: l’entusiasmo che l’idea suscita, crea un ciclo economico così affrettato che, ove non si abbia avuto cura di prevederlo e di arginarne gli effetti, ci si trova presto di fronte a condizioni paradossali e opposte a quanto era nel desiderio degli animatori.

Un bell’albergo, un ristorante accogliente , uno stabilimento balneare, sia pure razionalissimo in se stesso, non risolvono il problema se questi edifici non vengono studiati secondo un complesso e completo piano urbanistico che vagli le capacità del luogo; le possibilità, le influenze dei centri vicini, il rispetto del paesaggio e ogni altro particolare essenziale.

Si vuole che non avvenga ciò che purtroppo ancor oggi avviene quasi dappertutto, che, l’incontrollato, contingente favore del pubblico, dia immeritati sviluppi a zone incapaci o, (dato il caso, in fondo raro, di paesaggi immeritevoli) dia quasi uno di quegli sviluppi che i biologi chiamano di cariogenesi (riproduzione malata) e che in termini urbanistici si risolve in un vero e proprio caos. Si osserva nei luoghi di villeggiatura, in genere, e in quelli balneari in ispecie, uno sviluppo morboso di costruzioni che dapprima si affacciano alla riva fino a nasconderla, poi s’addensano alle spalle, formano barriere impenetrabili alla vista del litorale, s’abbarbicano sulle eventuali colline, corrodono il paesaggio, lo deturpano con ferocia e con processo non dissimile da quello che i tumori maligni sogliono perpetrare nei corpi organici.

È questa una naturale reazione, d’ordine sentimentale, all’azione dell’urbanesimo, una delle tante eredità che ci ha lasciato l’ottocento e che dobbiamo oggi faticosamente disciplinare.

Il difetto borghese delle città si riscontra analogicamente nei centri di villeggiatura e, in particolare, in quelli che in principio furono più accessibili: i centri balneari. La bellezza delle nostre terre ha affascinato italiani e stranieri: sono sorti in riva ai nostri mari e ai nostri laghi alberghi mastodontici e casette e casone laddove prima non erano se non schiette case di paesani e qualche villa veramente signorile, trionfante nel paesaggio.

I borghesi hanno creato la “moda” per alcuni paesaggi, si sono buttati sulle terre vergini, hanno incominciato a costruire con cementi ornati, e, in breve, hanno trasformato, a loro esclusivo uso, i paesaggi. Dopo un lustro o due, il capriccioso innamoramento ha fine, e la brama di conquista si spinge verso altre terre vergini e quelle che prima erano state tanto amate sono lasciate nell’abbandono o cedute a quelle persone meno abbienti le quali sono costrette ad accontentarsi di godere dei rifiuti altrui.

Questo ciclo “liberale” che abbiamo tratteggiato è incompatibile con la nostra etica, la nostra economia, tutta la nostra dottrina corporativa.

Se si vogliono, come è doveroso, interpretare nello spirito le parole del Direttore Generale per il Turismo, si devono assolutamente stabilire dei chiari termini urbanistici. Si ribadisca il concetto che il paesaggio non appartiene ai singoli (siano essi enti o privati) ma alla collettività; si stabiliscano, con sempre maggior fermezza e maggiore estensione, in ogni luogo quei punti panoramici che ne definiscono l’aspetto caratteristico e siano questi punti considerati zone sacre e inviolabili.

Occorre procedere programmaticamente con piani regolatori regionali di vasta portata, condotti da competenti secondo criteri obiettivi, con l’ausilio di tutte quelle cognizioni che fanno, ormai, dell’urbanistica, una scienza e non un vagolare empirico e accomodante. (V’è a nostra conoscenza un unico tentativo lodevole fornito dal Piano del litorale della Provincia di Savona, promosso qualche anno fa dall’allora Prefetto S. E. D’Eufemia).

Proponiamo che si divida, secondo un criterio logico, tutto il nostro litorale in zone urbanistiche e si esaminino le condizioni, l’orografia, le possibilità economiche, le ragioni storiche d’esistenza, la funzione rispetto agli abitanti locali, il tipo, l’ampiezza, la gerarchia delle funzioni turistiche. Queste ultime appariranno allora in tutta la loro chiarezza, inquadrate nell’interesse dello Stato il quale potrà determinare precise norme unificatrici e tali che anche l’estetica, cioè la poesia, avrà quella parte che si merita.

Non vogliamo aver l’aria di voler fare tabula rasa su tutto il litorale italiano per ricostruirvi poi, di sana pianta, paesi modello utopistici: si tratta più semplicemente di impedire che il nuovo si eriga sugli errori del vecchio, mosso da una pura ragione di conservazione nostalgica; poiché si ha in animo di costruire, si mediti con spirito spregiudicato e si operi secondo conoscenza: il problema è tutto qui, ma le proporzioni di esso, se pur limitate a delle possibilità realistiche, non appaiono insignificanti; il piano regolatore deve gettare sementi per il futuro nel quale è un fatale rinnovamento di ogni cosa caduca: il futuro sia determinato per quanto è possibile dalla nostra volontà creatrice. È questo un problema totale di civiltà: etica, estetica ed economica.

Mentre questi studi daranno a ogni località il proprio compito e i limiti di una propria cornice, si potrà, entro questa, delineare il quadro e pensare all’architettura.

Vi sono oggi stupende località in riva alle nostre acque dove l’architettura è talmente lontana da ciò che la natura esigerebbe, che i villeggianti possono, a mala pena, condurre la loro vita con disinvoltura: se essi circolano per le vie adiacenti agli stabilimenti balneari con abiti adatti alla vita libera delle spiagge, la presunzione di certi palazzotti non può che metterli in soggezione. Questi palazzi sono altrettanto sconvenienti in mezzo ai villeggianti, quanto lo sarebbero, all’opposto, quei villeggianti se volessero aggirarsi per le vie di Milano o di Roma, o di qualche altra metropoli con quegli abiti. È innegabile che occorre in ogni ambiente umano un’unità di stile e lo stile non può esser dettato che dalle funzioni: nei luoghi balneari hanno ragione i bagnanti e torto i parrucconi, siano essi di pietra o di carne e ossa.

Noi che ci vantiamo di aver dato nei secoli, in ogni regione d’Italia, le costruzioni più logiche e più belle, non dovremmo tardare a chiudere i manuali delle accademie per guardare nel vivo della natura e trarre da essa la soluzione dei problemi architettonici.

In una urbanistica sana, con un’architettura sana, potremo allora passare all’esame i differenti organismi che necessiteranno alle diverse località.

Il Regime ha sviluppato in questi anni il tema delle colonie marine e, l’Esposizione (sia detto per inciso, veramente stupenda), che ora se ne tiene a Roma, dà testimonianza del rapidissimo ritmo realizzativo.

Questo tema tocca evidentemente gli interessi sociali della Nazione; gli interessi turistici (s’intende non solo quelli verso gli stranieri, ma anche quelli verso larghe masse del nostro popolo), il valore dei quali è inutile elencare in questa sede, sono ovviamente assai importanti per l’economia e richiedono organismi architettonici altrettanto aggiornati.

Si potrebbero passare in esame i diversi tipi degli alberghi e degli stabilimenti balneari delle nostre spiagge: mentre per gli alberghi si deve soprattutto lamentare che essi siano stati costruiti, in troppo grande numero, negli anni in cui l’architettura aveva perduto ogni significato di purezza, per gli stabilimenti balneari si dovrebbe fare un più lungo discorso che esula dai limiti di questo scritto; certo è che una revisione totale si impone perchè, anche nelle spiagge, che hanno avuto sviluppi negli ultimi anni, troppo poco, che lontanamente abbia un aspetto di modernità, si può sinceramente lodare. Troppe baracche, troppi rabberciamenti di costruzioni che si sono sviluppate secondo il solo spirito della necessità immediata per far fronte ai bisogni impellenti, troppa varietà di stabilimenti, vi sono, sorti l’uno in concorrenza dell’altro, che ricordano i paesi di ventura dove basta un qualsiasi tetto imbastito, perchè ad esso venga dato il nome di casa.

Questo è abusare della bellezza della natura e del fascino che essa esercita sugli uomini.

Si impone, dunque, dal generale al particolare. dal piano regolatore regionale fino ai tipi di capanne, uno studio approfondito perchè il problema turistico deve essere prima di tutto risolto in funzione delle nostre esigenze di civiltà: non dobbiamo adescare nessuno con mezzi adulatori con civetterie indecorose; siamo pur certi, che, dove potremo ospitare degnamente il turista italiano, potrà venire qualunque marajà, il più esigente, al quale se non daremo da soddisfare curiosità snobistiche offriremo, tuttavia;ben più sostanziali elementi di ammirazione.

Noi crediamo che queste nostre parole, che a qualcuno potranno sembrare in qualche parte troppo amare per quanto definiscono il presente e troppo astrattamente idealizzatrici per quante pretendano dal futuro, interpretino, nella misura delle nostre forze, il sentimento che va chiaramente delineandosi nelle moderne coscienze degli urbanisti italiani, i quali sono tutti convinti che sia ormai giunto il momento di porre argini potenti al dilagare degli arbitri, e parimenti sono consapevoli di poter affrontare con pieno senso di responsabilità, quei problemi che lo Stato corporativo vorrà veder risolti dalla loro competenza.

Le antiche guerre hanno “formato” le antiche città murate

”La città non deve essere quadrata, né con angoli acuti, ma circolare, acciocché sia il nemico da più luoghi scorto, imperciocché da quelle muraglie, nelle quali sorgono molti angoli acuti riesce malagevole le difesa perché l’angolo ripara più il nemico. che il cittadino”, così Vitruvio Pollone nel libro primo del Trattato d’architettura, riguardante la costruzione della città.

Entro questo spazio il cittadino viveva nella sicurezza dalle invasioni nemiche, e la sua proprietà era preservata e salva; su questo principio delle cerchia murarie sino al dominio della polvere da sparo si studiò la città come luogo dove averi e vita delle genti fossero al riparo dal nemico.

Le artiglierie distrussero quel primo disegno di protezione e i successivi: e nulla poté più resistere a queste nuove catapulte.

La guerra “diversa” ha determinato forme diverse alle città, poi le ha liberate delle mura, portandole ai confini della nazione

La città, con l'evoluzione storica che comporta la creazione delle nazioni, perdè la figura di roccaforte; le città si conquistarono “indirettamente” con battaglie combattute in aperta campagna; e da ultimo con l’avvento rivoluzionario delle ferrovie, con le possibilità di spostamenti rapidi e lunghi, la guerra veniva portata ai confini delle Nazioni ove si creavano le trincee, le piazzaforti, insomma la linea di resistenza.

L’agglomerato cittadino fattosi estraneo alla guerra, divenne entità commerciale, industriale, politico-sociale, culturale; la città pacifica si sciolse dalla armatura delle forme planimetriche che le guerre avevano dato alle città nelle successive età storiche.

Mura di Babilonia, mura di Roma, ritorte planimetrie medievali, classici schemi del cinquecento, o del seicento, grandiosi esempi di sistemi difensivi, ecco l’antica arte militare-urbanistica.

Il sistema difensivo è stato creato alla frontiera; l’esempio della Muraglia cinese, si è rinnovato nei leggendari bastioni delle Linee e dei Valli Maginot, Sigfrido, Stalin, Atlantico, Alpino.

Contro l’arma aerea la guerra torna adeterminare una forma della città

Ma se l’uomo ha creato linee di protezione contro l’invasore di superficie, non ha pensato, o non ha osato pensare, benché ve ne fosse la possibilità nell’arma aerea, che uno dei principi fondamentali della guerra sarebbe diventato quello di portare la distruzione nell’interno del Paese, valicando ogni difesa.

La guerra, col bombardamento aereo, torna dunque ad agire sulle città, la città torna ad essere un obbiettivo di guerra. La forma delle città deve tornare ad essere studiata in funzione della guerra.

Ciò non si è ancora osato di fare, sia perchè la mente rifuggiva dal misurare la violenza di una guerra aerea, sia per la poca conoscenza del mezzo aereo, ma anche per la caparbia opposizione della gente alle previsioni che una tragica realtà s’è incaricata di confermare.

Come l’arma aerea trova oggi le città

La città d’oggi è un agglomerato di costruzioni, nato in altri secoli, sviluppato socialmente in epoche recenti ed infine cresciuto con ritmo affannoso nei tempi moderni, con un incremento estraneo ad ogni logica.

Se pensiamo che dalla Grande Guerra, dove l’arma aerea ha avuto il suo primo impiego contro le città, sono passati ben ventiquattro anni, e se pensiamo all’iperbolico progresso dell’aviazione, dobbiamo constatare che una totale incomprensione di un pericolo avvenire ha dominato i colossali sviluppi urbanistici, quasi escludesse l’ipotesi della guerra.

Quale infatti il panorama aereo delle città?

Qui una abitazione, qua una fabbrica, accanto un giardino, poco discosto un deposito di carburante, poi una caserma, quindi ancora una casa, indi un opificio, e non lungi un piccolo deposito con la sentinella, sì, con l’incarico di difendere il difendibile dall’eventuale ignoto o dall’ipotetico cerino, e poi ancora case, case, case ammassate, alte, basse, ricche e povere, vecchie e nuove: tra questo soffoco di alveari umani, alti come goffe cattedrali, i gasometri.

Panorama incredibile, concezione disordinata di fabbricati senza parentele che li avvicinino.

Spettacolo miracolosamente brutto da terra e intrico irrisolvibile dal cielo per chi volesse solo colpire obbiettivi di guerra.

Arma aerea e città future

Facile profezia è che l’arma aerea sarà domani ancor più forte e determinante. Non è quindi più concepibile che nel pensare alle città non si tenga conto di ciò.

Costi quel che costi, meglio spendere oggi per la sicurezza del domani, che non aspettare una seconda rovina con distruzioni irreparabili. Spendere però creando anche un ordine be nefico alla vita di pace.

Aristotele affermava che la “felicità dei popoli alberga nella bellezza delle sue città”, ma aggiungeva che “la città ha da essere munita di mura ... poiché la difesa è tanto utile quanto l’ornamento”.

Da questo asserto portiamoci a considerare dunque l’impianto di una città nuova, di una città ideale per la difesa: poi si arriverà alle possibili correzioni di attuali città.

Zone a sviluppo lineare

Mi rendo conto perfettamente che certe mie vedute contrastano con quelle diffusissime, di assoluta maggioranza, che preconizzano il diradamento delle città, l’allontanamento delle industrie. Contrastano con le tendenze che vogliono “sfollare le città”, creare la “città invulnerabile” nella città sparsa, regionale (idea espressa con ammirevole costanza da Vincenzo Civico).

Io come architetto non concepisco una simile città, perchè non è più una città: come aviatore, ed anche come architetto, poi, vedo determinarsi - attraverso le zone - la forma futura difensiva e difendibile delle città.

Un principio fondamentale dove imperniare la nascita e lo sviluppo di un aggregato cittadino è la formazione e delimitazione delle sue zone. Tipicamente: la zona residenziale, la zona d’affari, la zona culturale e di svago, la zona industriale.

Questo schema non è tassativo; può variare secondo caratteristiche di vita di diverse città, assumendo particolari sviluppi. (Vi sono città portuali, commerciali, centri agricoli, città culturali, città balneari, climatiche, turistiche, ecc.). Ma questo schema concerne particolarmente le grandi città, le metropoli industriali o commerciali, che sono gli obiettivi più importanti e dannosi dell’arma aerea.

La distribuzione in zone è logica sia negli sviluppi, sia nel determinare una estetica, sia nel coordinare una gamma organizzata di trasporti; infine, questa è la mia opinione, è più logica per la difesa aerea.

Zone, significano nel loro risultato una città lineare con le due zone residenziale e industriale ad un capo ed all’altro della città, e tra queste le altre zone sviluppate secondo le diverse caratteristiche possibili di un agglomerato cittadino.

La zona residenziale sviluppata in altezza

Per zona residenziale intendo quella dove han luogo le abitazioni in genere di ogni categoria di cittadini, perchè considero che una urbanistica veramente civile non deve considerare che possano esistere quartieri ricchi e quartieri poveri, ma che debbano esistere città per uomini, e che si debba provvedere alle abitazioni con il concetto di una pari dignità, per ogni uomo, anche se nella società essi possono avere diverse attribuzioni. Nelle scuole, nell’esercito, nei trasporti, nelle chiese, ecc. non siamo arrivati a questa civile parità?

Nelle zone residenziali saranno le scuole primarie e medie, le chiese ed istituti religiosi, le sale degli spettacoli e divertimenti, l’artigianato minuto, le istituzioni sociali necessarie per la vita di una collettività.

Pur sapendo di essere contro a larghe correnti di idee, scarto a priori per la sistemazione di questa zona il concetto della città-giardino per l’eccessivo e costoso sviluppo in estensione, e, in quanto a difesa, per la spesa antieconomica della costruzione di un numero elevato di ricoveri per ogni singola abitazione, fatalmente, poi, insufficienti; vedo invece la zona residenziale sviluppata in altezza, con costruzioni in cemento armato, le migliori contro l’offesa aerea. Meno spazio coperto, più verde.

Fabbricati aperti; insolazione e orientamento esatti, collegamenti rapidi e semplici, minori spese per gli impianti generali, e, venendo sempre alla difesa, economia per la costruzione di ricoveri, che debbono essere pubblici, collettivi, e come tali efficienti e perfetti. I rifugi sotto le case sono imperfetti e pericolosi e costituiscono un onere a fondo perduto per il costruttore. I rifugi collettivi sotto le strade possono essere adibiti a comunicazioni (vedi Metrò: Londra, Berlino ecc.).

È secondo questo orientamento che bisogna provvedere; il ricovero deve essere accessibile subito anche dalla strada a tutti e su questa deve avere possibilità sicure di uscita. Le fotografie dei crolli dovuti a bombardamento dimostrano, senza possibilità di smentita che il rifugio, posto nei sotterranei di una casa è un errore, poiché non è una casa sola che crolla, ma un gruppo, e generalmente l’edificio si siede, ricoprendo tutto e non dando scampo alle eventuali persone rifugiatesi sotto. E ciò oggi mentre si adoperano ancora esplosivi di relativa potenza.

Zona industriale e sua difesa attiva e fattiva

La zona industriale avrà una sistemazione studiata con un piano generale, ma che dovrà essere concretata secondo le eventualità di sviluppo di una industria rispetto ad un’altra.

In questa zona, alla quale i lavoratori affluiranno, con una gamma di trasporti, dalla zona residenziale, risiederà il possibile obbiettivo bellico.

Ma questo obbiettivo concentrato, può avere una difesa concentrata ed efficiente, può essere occultato con accorgimenti rivelatisi eccellenti, può infine essere costruito “per resistere” alle incursioni. Il prezzo pagato varrà la pena, se eviterà distruzioni. Costruzioni mimetizzate, difficili da individuare, costruzioni in altezza difficili da mirare, costruzioni in profondità, irraggiungibili, dove le bombe torpedini non recano danno se la copertura è costruita sul tipo di ricovero antiaereo, e la bomba perforante o ritardata provoca, al caso, solo danno parziale.

Creare una zona industriale, fa subito pensare che l’individuare l’obbiettivo da parte degli aerei sia più facile, perchè consente di trovare senza troppe ricerche l’area da colpire, ma se ciò è vero è anche vero che sarà anche più facile il concentramento della difesa contraerea e della difesa da caccia in volo, in quanto può essere realizzato nella migliore maniera il complesso protettivo a terra e si può neutralizzare l’attacco in volo data l'esiguità della zona.

Quindi concentramento efficace del tiro antiaereo sia di giorno che di notte, o intervento decisivo dei velivoli da caccia in ogni momento; oppure sbarramento luminoso dei riflettori, abbagliamento per l’invasore, poiché rimane sotto il tiro delle batterie e non può controbattere il caccia intercettatore che si trova avvantaggiato dal combattere dal buio alla luce. Questo accentramento di forze ha un valore altamente demoralizzante per il nemico.

Città aperta

Inoltre solo realizzando la zona industriale, che volente o nolente, in qualsiasi punto si trovi, raggruppata o no, deve essere considerata obbiettivo militare, si ha la possibilità di dichiarare effettivamente (durante lo stato di guerra) città aperta la zona residenziale, zona che effettivamente esclude obbiettivi bellici, ma che in ogni odo se anche questa civile ipotesi non si avverasse sarà più efficiente come difficile bersaglio, col suo sviluppo in altezza, sarà resistente se costruita in cemento armato, sarà sicura ai viventi se provvista di rifugi concentrati, consentirà una sua efficiente difesa attiva ed una sufficiente difesa passiva.

Tra la residenziale e l’industriale, troveranno posto le zone d’affari, sportive, culturali, di svago, e le stazioni (sotterranee) ecc. Esse non hanno necessità costruttive evidenti o diverse dalla residenziale circa la difesa dall’arma aerea: durante il giorno mentre l’attività si svolge intensamente, l’attacco aereo è assai difficile per la facilità d’avvistamento e le conseguenti contromisure; durante la notte le zone si troveranno quasi deserte, e se alcuni enti pubblici devono continuare la loro attività, sarà facile organizzare loro ricoveri perfettamente efficienti.

La zona sportiva e di svago, che non avrà valore come obiettivo bellico, non costituisce problemi difficili.

Organizzate le zone se ne coordineranno le comunicazioni, con trasporti rapidi sotterranei (metropolitane) diretti da punti di maggiore distanza, accelerati tra le zone intermedie, dentro le zone con mezzi normali, sostituendo ai tram i filobus, smistatori ottimi e veloci, e con impianti meno vulnerabili. Aeroporti civili, stazioni (sotterranee) saranno intermedi fra le zone.[...]

Conclusione

Suddividere dunque in zone, creare ricoveri comuni, mimetizzare, sono i problemi che bisogna affrontare e risolvere. Le incognite non esistono più e quindi la soluzione esiste.

Nota: è forse utile un confronto del presente testo, con la cultura anglosassone contemporanea della “urbanistica antiaerea”, nella versione della Commissione Barlow(f.b.)

The morns are meeker than they were -

The nuts are getting brown -

The berry's cheek is plumper -

The Rose is out of town.

The Maple wears a gayer scarf -

The field a scarlet gown -

Lest I should be old fashioned

I'll put a trinket on.

I mattini sono più miti di com'erano -

Le noci stanno diventando marroni -

La guancia della bacca è più paffuta -

La Rosa è fuori città.

L'Acero indossa una sciarpa più gaia -

Il campo una veste scarlatta -

Per non essere fuori moda

Mi metterò un ciondolo.

To make a prairie

To make a prairie it takes a clover and one bee,

One clover, and a bee,

And revery.

The revery alone will do

If bees are few.

Per fare un prato

Per fare un prato basta un filo d’erba e un’ape

Un filo d’erba e un’ape

E un sogno

Un sogno può bastare

Se le api sono poche

a biography in english

una biografia in italiano

Water, is taught by thirst

Water, is taught by thirst.

Land - by the Ocean passed.

Transport - by throe -

Peace - by its battles told

Love, by Memorial Mold -

Birds, by the Snow.

L'acqua è insegnata dalla sete

L'acqua è insegnata dalla sete.

La terra, dagli oceani traversati.

La gioia, dal dolore.

La pace, dai racconti di battaglia.

L'amore da un'impronta di memoria.

Gli uccelli, dalla neve

Ciascuno dei tre temi intrecciati in questo scritto (orario di lavoro, trasporto, tempo libero) ha una propria ambivalenza: rappresenta una necessaria realizzazione dell’uomo moderno e provoca una particolare patologia. L’orario di lavoro eccessivo, o distribuito in turni malsani, determina fatica psicofisica ed è concausa di molteplici malattie e traumatismi [1]. Desoille e Le Guillant hanno riassunto già nel 1957 le numerose ricerche dimostranti una correlazione tra le assenze dal lavoro per malattia e la durata dell’orario settimanale (7% di assenze con 63 ore, 4% con 54 ore, 3% con 40 ore), un rapporto quasi costante tra fatica ed infortuni sul lavoro (che si riducono del 10-20% quando l’orario cala di un’ora al giorno), una incidenza degli orari eccessivi sulla salute mentale (astenia psico-fisica, turbe dell’umore e del carattere, disturbi del sonno, malattie psico-somatiche), un’influenza diretta della fatica sulla resistenza alle malattie infettive (dimostrata anche sperimentalmente sugli animali), e sulla propensione alle tossicomanie [2], Anche l’esposizione agli agenti nocivi fisici e chimici ed alle radiazioni è proporzionale alla durata del lavoro; vi è anzi una progressività per le noxae che si accumulano nell’organismo.

Questi fatti sono noti. Vengono meno riconosciuti, invece, altri fenomeni. Uno è che l’orario complessivo di lavoro, che è la somma delle ore contrattuali o legali (48 settimanali per l’Italia, in base alla Legge del 15 marzo 1923), delle ore straordinarie, del “doppio lavoro” e delle ore trascorse in itinere, da alcuni decenni tende alla stazionarietà o al peggioramento, dopo aver conosciuto una fase di progressiva riduzione tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo [3]. Un secondo fenomeno è che in Italia (ma anche altrove) la durata del lavoro è paradossalmente più lunga per le occupazioni più faticose. Secondo le rilevazioni di M. Ancona [4] sui contratti di lavoro, gli operai dell’industria passano ad orari settimanali di 44, 42 e 40 ore, mentre gli impiegati statali hanno 36 ore. Gli autoferrotranvieri sono passati, dal 1954 al 1966, da 48 a 39 ore per gli impiegati (meno 9 ore) da 48 a 42 per gli operai (meno 6). All’interno della medesima amministrazione statale si ripresenta il paradosso: nelle Poste gli amministrativi hanno 36 ore, gli addetti al traffico ed ai servizi tecnici 42 ore; nella Difesa gli impiegati 36 ore, gli operai degli Arsenali e degli Stabilimenti 42 ore. Gli insegnanti delle scuole medie hanno in Italia gli orari più bassi del mondo: una media di 11 ore e mezzo alla settimana, e sono superati solo dai professori universitari [5]. Un terzo fenomeno è che l’organizzazione del lavoro industriale, saturando le pause e parcellizzando i movimenti in modo ossessivo, tende ad accrescere l’intensità delle ore lavorative, a provocare cioè una maggiore usura psico-fisica con durata del lavoro uguale o perfino inferiore.Patologia del trasporto

Il trasporto urbano e suburbano ha anch’esso la sua patologia, che fu già classificata in uno studio Delle malattie e lesioni che più spesso si osservano sulle linee delle ferrovie, pubblicato nello Stato Pontificio alla vigilia del 1870 [6]. L’autore, dopo aver osservato che la diffusione del trasporto “procura immense utilità alle scienze ed alle arti, e merita perciò di essere bene studiato, sotto il punto di vista della pubblica e della privata igiene”, elencava tre capitoli della patologia.

Il primo è quello “delle malattie che più di frequente attaccano gli impiegati” (gli addetti al trasporto) fra le quali predominavano allora “l’elemento reumatico e l’elemento palustre”. Oggi il quadro è diverso. Le ricerche sulle malattie degli autoferrotramvieri mostrano, insieme alla persistente incidenza delle forme infettive, reumatiche e artrosiche, un’incidenza sensibile di malattie degenerative e psicosomaitche. Rimando a più ampie statistiche per l’insieme della patologia [7]. Sottolineo soltanto che l’arteriosclerosi delle coronarie è altrettanto frequente nel personale viaggiante (20%0) e negli impiegati (21%0), nel primo caso per gli stress lavorativi, nel secondo per la sedentarietà, meno frequente negli operai (12%0). Le ulcere e le gastriti incidono maggiormente nel personale viaggiante (139%0), meno negli operai (81%0), meno ancora negli impiegati (20%), e le malattie nervose e mentali hanno la medesima distribuzione. È stato osservato che questa patologia neuropsichica deriva anche dal fatto che il personale viaggiante “posto di continuo a contatto con il pubblico, subisce le sue lamentele per i disservizi di orario e le scomodità di cui non è responsabile” [8]. Questa patologia professionale degli autoferrotramvieri tende oggi - quando tutti, o almeno i cittadini maschi adulti, diventano per .alcune ore giornaliere trasportatori di se stessi nelle difficoltà del traffico urbano - a divenire una patologia sociale, che colpisce l’insieme della popolazione.

Il secondo capitolo della patologia del trasporto era intitolato dal Tassi “sulle varie lesioni traumatiche, cui vanno soggetti gli addetti alle vie di ferro, e quelli che le percorrono”. Egli descriveva scontri, tamponamenti e perfino lo schiacciamento con “orribile morte” che “tocca a volte a quei guarda-linee e guarda-barriere, che dovendo dare nelle ore notturne il segnale ai treni di passaggio ... sopraffatti dalla stanchezza e dal sonno, si coricano durante la notte con la testa sopra una rotaia della linea, colla fatale speranza d’essere riscossi dal rumore comunicato dal treno che giunge, onde trovarsi all’erta ...”. Con la stessa “fatale speranza , nel XX secolo si è subita l’imposizione prioritaria dell’automobile come mezzo di trasporto urbano e suburbano, ed anche gli infortuni (come la malattie) dei trasportatori professionali sono divenuti infortuni di tutti. Oggi “l’automobile, unitamente alle malattie cardiovascolari ed al cancro, rappresenta la causa più importante di morte nei paesi progrediti”, e sulle strade del mondo “l’uomo si uccide ed uccide senza scopo e senza gloria più di quanto egli non abbia fatto nella seconda guerra mondiale” [9].

Il terzo capitolo trattava dell’influenza del trasporto “sulla salute dei viaggiatori e dei vicini abitanti”: erano qui compresi “nelle grandi metropoli ... gli impiegati e le persone di scarsi mezzi che per ragioni economiche dimorano ben lungi dal centro”, gli odierni pendolari; erano comprese a danno dei viaggiatori le frequenti apoplessie per “le ripetute sorprese, gli spaventi, le corse rapide e prolungate”, ed a danno dell’ambiente naturale “le mutate condizioni telluriche, i trafori, i disterri, il disboscamento dei luoghi”. Anche in questo caso, la novità sta nella estensione del danno: a tutto l’ambiente urbano ed extraurbano, ed a tutti i cittadini. È stato calcolato a Parigi, per esempio, che il pendolarismo “colpisce ora largamente la popolazione scolastica, il cui spostamento quotidiano supera il 10% degli spostamenti complessivi nell’agglomerazione urbana” [10]. La lunga durata del trasporto, che è quasi inevitabilmente legata all’espansione delle città a macchia d’olio, riduce fra l’altro il tempo dedicato allo svago, allo studio ed al riposo.

Tab. 1: Differenze dei giorni di ferie annuali tra operai e impiegati in alcuni settori industriali, prima dei recenti contratti

Metalmeccanici: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Dolciari: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 16 a 30 giorni

Chimici: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Tessili: operai da 12 a 16 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Ceramisti: operai da 12 a 22 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Minatori: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Chi più fatica meno riposa

Giungiamo così alla patologia del “tempo libero”, che dipende dalla sua durata e dal suo impiego. La durata del riposo è regolata, in Italia, dal medesimo paradosso che ho segnalato per la durata dell’orario: chi più fatica meno ha diritto al riposo. Nel settore industriale, prima dei recenti contratti che hanno realizzato un sensibile avvicinamento, i giorni di ferie annuali, che crescono secondo l’anzianità lavorativa, erano così distribuiti tra operai e impiegati (tab. 1). Nell’impiego pubblico, la durata delle ferie è di almeno 30 giorni. La legge sul riordinamento del parastato, in discussione attualmente alla Camera dei Deputati, prevede anzi 30 giorni più le festività del mese, cioè 35 giorni. Il paradosso si accresce: con i contributi previdenziali tratti dal lavoro degli operai, che hanno 2-3 settimane di ferie, si pagano funzionari ed impiegati che vanno in ferie per 5 settimane; e quando l’operaio chiede la pensione, questi uffici previdenziali lo fanno spesso attendere per anni. Oltre alla durata, anche l’impiego del “tempo libero” è razionato secondo criteri classisti. A Roma, quasi tutti gli impianti sportivi sono localizzati nelle zone residenziali dei quartieri ricchi (Flaminio-Parioli ed EUR), mentre sono quasi totalmente sprovviste le borgate e le zone popolari. Per ogni servizio sociale e per le aree verdi, ovunque “la prescrizione quantitativa degli standard minimi per la sistemazione di spazi per le attrezzature viene ad essere non equamente distribuita fra le parti della città, per cui il grado di accessibilità da zona a zona viene ad essere anch’esso diverso”[11]. Le tessere per un sano riposo sono perciò inegualmente distribuite; ma sono sempre più rari coloro che sfuggono a questo razionamento; residenza, trasporto e lavoro congiurano infatti per impedire a qua sì tutti i cittadini il normale svolgimento non solo delle attività culturali, ma perfino delle tre funzioni naturali dalle quali dipende il recupero psico-fisico: alimentazione, movimento, sonno.

Uno studio dei consumi alimentari in Francia in funzione dell’urbanistica[12] ha documentato la riduzione del tempo e del lavoro consacrato alla nutrizione; la “saturazione di vecchi appetiti a lungo latenti”, con la copertura del fabbisogno calorico e l’aumento dei consumi di carne, pesce, frutta; la comparsa, per contro, di tendenze alimentari predisponenti a dismetabolismi e favorenti una delle “malattie del secolo”, l’obesità.

Questa, a sua volta, è uno dei quadri clinici (gli altri sono a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, dell’equilibrio neuro-vegetativo ed ormonale, ed ovviamente dell’apparato locomotore) che hanno come concausa la riduzione del moto corporeo o ipocinesi[13]. È interessante la ricerca, che propone il Cerquiligni, delle “ragioni storico-culturali che hanno indotto l’umanità a cadere nell’errore di credere che “in fatto di lavoro il fa ancora meglio, e che in fatto di alimentazione sia vero il contrario”, ed è anche interessante l’ipotesi che ciò sia dovuto al fatto che “l’umanità ha sin troppo sofferto e tuttora in gran parte continua a soffrire la più dura necessità di diuturne ed estenuanti attività fisiche per procacciarsi un nutrimento che, per la maggior parte delle genti e ancora al giorno d’oggi, risulta impari non solo a ripagare il dispendio energetico corrispondente al lavoro richiesto dal suo stesso ottenimento, ma addirittura ad assicurare un ottimale processo di sviluppo ed un mantenimento al minimo regime motorio che un’esistenza umana possa comportare”. La propensione al poco movimento ed al molto cibo, non appena la tecnologia lo consente sarebbe perciò una scelta reattiva, un desiderio di riequilibrio storico spinto all’opposto eccesso. Vediamo però come è organizzato il lavoro industriale: “le macchine sono affiancate da cronometristi **[14]** millesimi di secondo) il movimento di alcuni gruppi muscolari e di immobilizzare gli altri gruppi superflui”[15]; i quadri di comando degli impianti meccanizzati sovraccaricano di stimoli e chiedono risposte rapidissime ad alcuni organi sensoriali, mentre neutralizzano altri sensi “distraenti”; la divisione del lavoro frantuma l’integrità psicofisica dell’operaio e lo spinge alla passività. Vediamo anche come è organizzata la scuola: la lunga immobilità corporea nei banchi e la supina permeabilità ad accogliere cumuli acritici di nozioni sono stati i due pilastri che hanno retto per secoli tutta l’impalcatura educativa, mentre l’attività nei laboratori, la ricerca sul campo, le ore ginnico-sportive, la pedagogia dell’apprendimento, la collaborazione didattica, la democrazia faticano ad affermarsi nelle istituzioni scolastiche. Vediamo infine come è organizzata la città; le distanze fra edifici sono inferiori ai minimi requisiti igienici, il verde at **** vengono ristretti e poi aboliti per far posto alle automobili, le piazze e i cortili diventano parcheggi. L’infarto del traffico, con le auto come corpuscoli circolanti che rompono le arterie stradali ed invadono il tessuto urbano, blocca ogni flusso vitale nella città.

Propensione al poco movimento? Certamente: ma è favorita, organizzata, utilizzata per trarre il massimo profitto dal lavoro salariato, la massima acquiescenza della scuola, la massima rendita dalla proprietà fondiaria, il massimo guadagno dalle automobili e dal petrolio.

Turbe dell’alimentazione, del movimento, ed infine del sonno. Dopo le ricerche di Begoin sulle telefoniste[16], nelle quali riscontrò ipersonnia diurna (34% dei casi), insonnia notturna (difficoltà di addormentarsi prima delle 1-2 del mattino, oppure risveglio dopo tre o quattro ore di sonno), sonno agitato e poco riposante (53% dei casi) con sogni ed a volte incubi “professionali”, molti hanno constatato che le ore di sonno vanno riducendosi di quantità e peggiorando di qualità reintegrative, per molte categorie di lavoratori e per gran parte della popolazione urbana[17], anche a causa dei rumori, dell’eccesso di illuminazione artificiale e del difetto di isolamento delle abitazioni.

Se otto ore vi sembran poche ...

Alla ricerca del silenzio e del riposo nella domenica o nelle ferie estive i cittadini si spostano verso il mare, i monti, le campagne. Ma qui subentra le bruit dans de loisir: “È paradossale - scrivono studiosi francesi del rumore urbano - pensare che il cittadino, logorato da una vita troppo attiva, depresso da troppe preoccupazioni, traumatizzato psicologicamente dai troppi rumori che incontra nella vita, consacra il suo svago ad attività frastornanti”[18]. La colpa, tuttavia, non può essere attribuita alla musica jazz che impera nei luoghi di vacanza (orchestre che superano, secondo Mounier, Kuhn e Morgon, i 95 decibel, raggiungendo fra 125 e i 2.000 hertz 122 decibel). Il Detti nota giustamente che “le condizioni della casa, del quartiere, e della città, e la maggiore mobilità dovuta prevalentemente al mezzo privato accrescono il senso di rifiuto per la città e quindi la naturale tendenza ad usufruire del riposo settimanale, dei ponti e delle ferie fuori delle città ... gli effetti provocano i grandi esodi, la congestione dei servizi di trasporto, del sistema viario e le alte perdite umane per incidenti”. Gli effetti consistono anche “nella crescita greggia ed abnorme dei luoghi di villeggiatura balneare e montana che ormai costituiscono dei veri e propri sistemi urbani ... in questi ambienti si stanno riproducendo gli stessi difetti di congestione che ha la città dalla quale si sfugge, e qui il prodotto ha aspetti speculativi e consumistici a scapito di quelli che dovrebbero interessare il riposo, la salute, le forme di vita e di svago per compensare i difetti della residenza stabile e del lavoro”[19].

Si riproduce, quindi, nel “tempo libero” la stessa patologia professionale ed urbana, la stessa carica di violenza sull’uomo che esiste nel lavoro e nella città[20]. Si giunge quindi ad una nuova fase, nella quale la lotta per la salute non può essere più condotta su fronti separati, ma richiede un’azione integrata nel lavoro, nella residenza, nel trasporto, nel “tempo libero”. Se riflettiamo alla storia dell’intreccio di fattori morbosi e di misure sanitarie collegate a questi molteplici aspetti della vita umana[21], possiamo dire probabilmente che nell’ultimo secolo si sono susseguite tre fasi. Nella prima, descritta in Francia da Villermé ed in Inghilterra da Engels[22], agiva una costellazione di fattori lavorativi, nutritivi, e abitativi sinergicamente patogeni. Villermé scrive che i tessitori cominciavano il lavoro all’alba per terminarlo alle 10 di sera, e vi erano “bambini di 4 anni che facevano questo mestiere”; i ragazzi “abitavano a volte due leghe dalla fabbrica e vi giungevano in inverno tra il freddo e la neve”; il riposo non raggiungeva 6 ore; l’alimentazione era insufficiente: gli operai “portavano in mano o nascondevano sotto la veste il pezzo di pane che doveva bastar loro fino al rientro in casa”; gli alloggi erano cantine, granai o case sovraffollate ove i proprietari “come in rue du Guet, facevano inchiodare le finestre per impedire che aprendole o chiudendole si rompessero i vetri”. La speranza di vita ad 1 anno (superata cioè l’altissima mortalità infantile) era allora 43 anni per gli industriali, 37 per i domestici, 20 per gli operai qualificati e 11 anni per i manovali delle filande. Il movimento operaio e l’opinione pubblica progressista lottarono per decenni sul triplice terreno della riduzione degli orari, del risanamento delle abitazioni e del fabbisogno alimentare. Le mondine del vercellese cantavano Se otto ore vi sembran poche j provate voi a lavorar, e troverete la differenza tra lavorare e comandar. I proletari di tutti i paesi intonavano la canzone delle 8 ore[23] di J.G. Blanchard: Noi vogliamo cambiare le cose - siamo stanchi di lavorare senza scopo - Noi vogliamo gioire del sole e dei fiori - 8 ore per lavorare - 8 ore per riposare - 8 ore per vivere e sognare.

In Italia, lo SFI (sindacato ferrovieri italiani) distribuiva gli orologi da tasca con sovraimpresso nel quadrante otto ore di lavoro, otto ore di riposo, otto ore di studio. Si giunse così, tra molte resistenze e dure lotte, alla seconda fase, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nella quale gli orari furono ridotti, molte abitazioni vennero risanate, e nuovi quartieri più salubri costruiti, l’istruzione fu resa obbligatoria, e la durata media del taylorismo - fordismo nell’industria -, con la trasformazione delle città in metropoli, con l’esasperazione della motorizzazione privata si è entrati in una terza fase, in una nuova costellazione sinergica di fattori patogeni: lavoro legalmente ridotto nell’orario, ma più intenso e prolungato di fatto; fabbisogno calorico soddisfatto ma disordini orari e qualitativi della nutrizione; appartamento più o meno salubre in agglomerati urbani malsani; trasporto lungo e rischioso; e nuovi fattori psico-sociali di malattia. Scrive Le Guillant che oggi, per il lavoratore “è tutta l’esistenza ad essere coinvolta nella fatica: la sua posizione verso i problemi del lavoro e dell’ordine sociale, le sue difficoltà personali, materiali e morali, la distanza che deve percorrere per andare in fabbrica o in ufficio, il modo come abita, come sono i rapporti con la moglie, i figli, gli amici, ciò che mangia e ciò che beve, come sono il suo svago e le sue attività sindacali e politiche ... Tutto ciò entra in gioco, in maniera talvolta decisiva, nel suo adattamento agli sforzi che gli vengono richiesti. Incessantemente questi aspetti individuali intervengono a spiegare una rottura del suo equilibrio, l’abbandono di un posto, un infortunio, una malattia”[24].

In questa terza fase, in sostanza, si ripropone con una nuova patologia del lavoro, del trasporto e del “tempo libero”, una nuova subordinazione dell’intero ciclo della vita umana alle esigenze di valorizzazione del capitale. Chi visita ora la grande azienda petrolchimica SIR, nata in questi anni a Porto Torres, viene condotto nel piazzale interno, tra i tubi e gli impianti, tra i fumi ed i rumori, ad ammirare un elegante edificio residenziale con 600 posti-letto, al quale si è dato il nome poetico-dialettale Sa domo (la casa), costruito con l’intento di alloggiare in azienda i tecnici e gli operai (soprattutto i crumiri, in occasione di scioperi): purezza dell’aria, riposo distensivo, rapporti familiari, vita democratica, relazioni sociali, attività culturali, tutto sacrificato agli interessi aziendali. Ma questa aberrante eccezione conferma una regola che è comune agli insediamenti “normali”, al rapporto lavoro-residenza che si è configurato con lo sviluppo “della città come città-territorio. come sistema sociale globale dove si salda, dentro il processo complessivo di produzione, momento lavorativo e tempo libero, produzione e consumo”[25]. Sul piano economico, l’intreccio fra profitto e rendita condiziona oggi la fabbrica come la città; sul piano sanitario, il lungo e disagevole trasporto e la “malaria urbana” rendono difficile il ripristino della capacità lavorativa. e d’altra parte lo sfruttamento proietta la sua ombra patogena sulla intera giornata del lavoratore.

Lotte popolari per il diritto alla salute e al riposo

Negli ultimi anni, per reagire a questo sinergismo di noxae patogene e per affermare il diritto alla salute, al riposo, allo studio, vi sono state esperienze di lotte popolari senza precedenti, di cui alcuni circoli scientifici (per esempio, la Società Italiana di Medicina del Lavoro e l’ Associazione per l’Igiene e la Sanità Pubblica) hanno colto e approfondito il valore pratico e conoscitivo. Tali esperienze riguardano l’orario, il trasporto, il “tempo libero”, ed in qualche caso l’integrazione di questi tre temi. Sull’orario di lavoro, M. Ancona sottolinea la novità delle seguenti rivendicazioni sindacali: la durata del lavoro, “deve considerare tempi di lavoro anche i tempi esterni alla fabbrica, tuttavia connessi al lavoro, cioè il trasporto; la valutazione dell’orario di lavoro deve essere fatta in base ad un rapporto non tanto estensivo quanto intensivo (ritmi ambiente-salute)”[26]. S. Garavini sottolinea[27] il valore di un’altra richiesta: “la non obbligatorietà degli straordinari, o almeno la fissazione di limiti molto ristretti, è una conquista sindacale formale molto recente in Italia, già in Italia non generale, e quasi sconosciuta in altri paesi capitalistici sviluppati (è stata peraltro una delle rivendicazioni delle lotte contrattuali degli operai dell’auto in USA)”. G. Marri riprende questo accenno e riassume in quattro punti le linee sindacali volte a limitare la durata estensiva e intensiva del lavoro:

1) una spinta generale per la riduzione della settimana a cinque giorni lavorativi, spinta accompagnata dal rifiuto, che si va allargando a settori sempre più importanti della classe operaia, a compiere lavoro straordinario;

2) un rifiuto sempre più deciso a lavorare di notte, cioè un rifiuto ad ammettere la necessità sociale del lavoro a ciclo continuo;

3) l’applicazione sempre più diffusa del principio della non delega e della validazione consensuale nella determinazione dei tempi, dei ritmi di lavoro e delle pause, come mezzo per contenere e ridurre la durata intensiva della giornata lavorativa;

4) una spinta generale all’ aumento delle ferie annuali[28].

Queste tendenze ad attenuare la fatica operaia riducendo l’orario reale (somma delle ore contrattuali più ore straordinarie più trasporto, moltiplicata per l’intensità del lavoro e per i cicli malsani, cioè notturni o alterni) hanno un duplice significato, biologico e sociale, che tramuta gli interessi di una classe - i lavoratori salariati - in valori generali.

Sul piano biologico, mi pare che le rivendicazioni e le parziali conquiste ottenute tendano a recuperare il ritmo vivente della specie Homo Sapiens e dei singoli individui che la compongono, violentato dal ritmo imposto dal lavoro morto (il capitale, secondo la definizione marxiana) e che quindi, tra tanto parlare e assai meno realizzare nel campo della protezione della natura, rappresentino una delle poche esperienze di recupero della naturalità a noi più cara e più vicina, quella dell’uomo stesso [29].

Sul piano sociale, mi pare che le rivendicazioni e le parziali conquiste ottenute tendano ad affrontare una delle principali distorsioni che ha subito in questo secolo, e particolarmente negli ultimi venti anni, l’economia italiana: la riduzione della popolazione attiva, che alla data dei vari censimenti [30] risultava la seguente:

anno 1911: 48,2%; anno 1931: 45,3%; anno 1951: 43,5%; anno 1961: 39,8%; anno 1971: 34,7%.

La riduzione della durata e dell’intensità degli orari implica necessariamente maggiore occupazione nelle attività produttive. Si aggiunga che le Confederazioni Sindacali hanno ottenuti in numerosi accordi aziendali (p. es. FIAT, Alfa Romeo) l’impegno di investimenti nel Sud, e che per favorire lo sviluppo della occupazione nel mezzogiorno si sono dichiarate disponibili ad esaminare la temporanea sospensione della “settimana corta” e una diversa organizzazione dei turni, purché l’orario venga ridotto a 36 ore e siano migliorati i trasporti ed i servizi sociali.

“Fattore umano” e scelte obbligate

Su questo terreno le tendenze sindacali dei lavoratori dell’industria realizzano una prima saldatura con il riequilibrio degli insediamenti territoriali, condizione per il decongestionamento delle aree metropolitane, e con lo sviluppo dei trasporti pubblici, condizione per alleviare la fatica e gli infortuni del traffico urbano e suburbano. Questo medesimo risultato non può essere ottenuto puntando in modo esclusivo o prevalente sul “fattore umano negli incidenti del traffico”. Lo psicologo che introdusse in Italia questa tendenza, padre Gemelli [31] ricordava in un Convegno del 1959 che negli Stati Uniti “l’azione esercitata per prevenire gli infortuni automobilistici è posta sotto il segno di tre E: Engineering, ossia misure di ordine tecnico; Enforcement, ossia misure d’ordine repressivo; Education, ossia misure d’ordine psicologico”. I risultati sono noti: la somma delle tre E dà oltre cinquantamila morti all’anno. Padre Gemelli restringeva il “fattore umano” al piano individualistico, anziché allargarne la dimensione alle scelte sociali dell’uno o dell’altro mezzo di trasporto, dell’uno o dell’altro insediamento lavorativo e residenziale. Considerava che l’incidente è “precipuamente dovuto al comportamento del conducente del veicolo”, che nella guida “il fattore fondamentale è dato dalle caratteristiche dell’intelligenza”, e che perciò “la psicotecnica ci permette di selezionare coloro che hanno le qualità attitudinali per diventare buoni conducenti”. Il limite di questa impostazione, che pure ha qualche validità, è emerso subito anche sul piano scientifico. Già nel medesimo Convegno il Mitolo, oltre ad analizzare la costituzione infortunistica come “complesso psico-somatico congenito e caratteristico della personalità individuale che si manifesta con una specifica tendenza ad incorrere nell’infortunio” [32], dimostrava l’influenza (tutt’altro che congenita) sugli infortuni della fatica alla guida, delle intossicazioni “volontarie”, degli inquinamenti ambientali, dell’orario lavorativo. Ma il limite è emerso soprattutto sul piano sociale: quando chiunque lavora compie la scelta coatta di avere un proprio autoveicolo, la selezione psicotecnica dei conducenti ideali ha ben poco senso; e come misura preventiva, è certamente più efficace la riduzione del volume del traffico privato incentivando e rendendo più celere il trasporto pubblico.

I lavoratori autoferrotramvieri (ed i ferrovieri per gli spostamenti a lunga distanza), dopo esser stati vittime passive delle distorsioni della città e del trasporto, ed aver a volte perfino sollecitato, per maggiori compensi, prolungamenti straordinari di orario, sono divenuti cavie ribelli. Hanno chiesto orari ridotti, ed insieme ad alcune amministrazioni comunali hanno ottenuto la chiusura dei centri storici al traffico privato, corsie e strade preferenziali per i mezzi pubblici, acquisto di nuovi autobus, maggiore velocità commerciale, provvedimenti che alcuni anni fa rischiavano l’impopolarità ma che la crisi energetica e la congestione urbana hanno poi dimostrato, agli occhi di tutti, essere indispensabili. Vi è da augurarsi che le esperienze dell’ austerity automobilistica, di cui nel ’73-‘74 l’Italia ha più subito le improvvisate stranezze e i danni economici, che goduto i potenziali vantaggi, siano utilizzate per invertire almeno questo aspetto del “modello di sviluppo”: i trasporti e gli insediamenti.

Anche per la ripartizione e per l’uso del “tempo libero” vi sono recenti acquisizioni pratiche e concettuali del movimento dei lavoratori e delle amministrazioni locali. Nell’accordo aziendale firmato il 9 aprile di quest’anno alla FIAT per gli stabilimenti del gruppo veicoli industriali, per esempio, è stato concordato un interessante esperimento di scaglionamento delle ferie, in cinque turni di tre settimane ciascuno, dal 17 giugno al 29 settembre, con un giorno di ferie in più per chi usufruisce del primo o dell’ultimo turno: continuità produttiva, maggiore occupazione, decongestionamento della rete turistica diventano così, anziché brandelli di un incomprensibile puzzle, obiettivi raggiungibili. Nell’accordo che ha chiuso il 12 aprile la vertenza Italsider vi è un intreccio di misure che riguardano sia il lavoro che il “tempo libero”, sia la fabbrica che l’ambiente esterno: adeguamento degli organici evitando il ricorso allo straordinario; miglioramenti ecologici (trattamento delle acque di scarico, recupero dei fumi, rifacimento di alcuni impianti partecipazione dei lavoratori alle rilevazioni ambientali con addestramento e dotazione delle necessarie apparecchiature; erogazione da parte dell’azienda dello 0,8% delle retribuzioni a favore degli Enti locali che si impegnano in programmi sociali (case e trasporti). Parallelamente si sono affermati, per ora più nei programmi che nella realtà, principi nuovi di riassetto del territorio sulla base di due priorità agricoltura e mezzogiorno) che potrebbero decongestionare le aree metropolitane; si è sviluppato il movimento per lo sport come servizio sociale; si sono rivalutati il verde urbano, l’attività motoria, il trasporto pubblico; si sono estese nuove forme dì partecipazione democratica come i comitati di quartiere e di circoscrizione che possono saldare il Comune alla popolazione, come i Consigli sindacali di zona che possono saldare la fabbrica al territorio.

Ho ricordato queste esperienze pur conoscendone i limiti geografici, là precarietà, l’insufficienza, rispetto a opposte tendenze che aggravano anziché attenuare, il sinergismo dei fattori patogeni che agiscono nel lavoro, nel trasporto, nel “tempo libero”. Sono esperienze, però, che indicano una strada necessaria, anche se difficile e contrastata [33]. Per estenderle e per consolidarle, vorrei sottolineare i seguenti orientamenti:

1)Sul piano politico, molto dipende dall’attività dello Stato sia per le scelte produttive e sociali, sia per l’organizzazione deI servizi ( trasporti, sanità, scuola, sport). Basta pensare a! ruolo che potrebbero avere le Unità Sanitarie Locali sia nell’individuazione dei “sinergismi patogeni” che nella mobilitazione di capacità tecniche di forze popolari per l’attuazione di adeguate misure preventive.

2)Sul piano amministrativo, è stato sottolineato il valore della pianificazione urbanistica per attenuare fattori morbosi quali “l’inquinamento atmosferico, l’inquinamento delle acque e del suolo, il rumore, la disritmia e l’incoordinazione delle attività comunitarie, il sovraffollamento e la promiscuità, la difficoltà dei rapporti sociali, la potenzialità lesiva della motorizzazione” [34].

3)Sul piano legislativo, oltre all’urgenza del Servizio sanitario nazionale (che ha subito ora, nei programmi governativi, un ulteriore slittamento per studiare e per “verificare modalità e tempi di applicazione”), va ripresa la proposta di regolare con nuove norme l’orario di lavoro ed il riposo settimanale e annuale dei lavoratori, per generalizzare nell’industria le conquiste delle categorie sindacalmente più forti, per riequilibrare il rapporto operai-impiegati, per scoraggiare e colpire i frequenti abusi, per affrontare questioni mature come quella delle festività infrasettimanali e dello scaglionamento delle ferie.

4)Sul piano concettuale, infine, ricerche interdisciplinari e azioni coordinate dovrebbero tendere a colmare la separazione fra le conoscenze che abbiamo accumulato sui singoli brandelli dell’attività dell’uomo (il lavoro, il riposo, il trasporto, la residenza, il sonno, lo studio, le relazioni familiari e sociali), senza riuscite finora ad inquadrarli in una visione unitaria [35]. Anche per questo aspetto, esperienze degli ultimi anni come il recupero del tempo di studio nel lavoro operaio, come la spinta verso relazioni comunitarie nei quartieri dormitorio, come la partecipazione popolare alla vita della scuola, come l’apertura del microcosmo familiare verso la società, come lo sviluppo delle associazioni culturali di base, forniscono interessanti basi per la ricerca e stimoli crescenti al rinnovamento della città.

[1]Carozzo S., La fatica quale fattore e concausa di malattia, Istituto di Medicina Sociale, Roma 1964, pp. 117-126.

[2]Desoille H., Le Cuillant L., Effects de la fatigue sur la santé des travailleurs, Conference internationale sur l'influence des conditions de vie et de travail sur la Santé, Cannes, 27-29 settembre 1957.

[3]Sabatucci F., La durata del lavoro nei principali paesi industrializzati, Quaderni di Rassegna sindacale, n. 26. L’orario di lavoro, giugno 1970, pp. 80-98.

[4]Ancona M., Orario di lavoro, settimana corta, ferie,Bulzoni, Roma 1974.

[5]Legalmente, è vero che per essi l’anno è di sei mesi, la settimana di tre giorni, il giorno di un’ora e l’ora di quarantacinque minuti. La proposta del tempo pieno fu respinta nel 1967 con bizzarre argomentazioni: l’on. D’Amato, DC, sostenne: “non credo che Archimede, per esempio, dovesse essere impiegato full time. Come altrimenti avrebbe potuto gioiosamente gridare eureka? All’immagine di Archimede che faceva il bagno quando scoprì la famosa legge si associa il ricordo di Newton cui la caduta di una mela propiziò la scoperta della legge di gravità. E così per Galileo ecc.” (cfr. F. Froio: Università: mafia e potere, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 56-65). La proposta del tempo pieno è stata respinta dalla maggioranza (DC, PSI, PSDI, PRI) anche in occasione del D.L. 1° ottobre 1973, Provvedimenti urgenti per l’Università.

[6]Tassi E., Delle malattie e lesioni che più spesso si osservano sulle linee delle ferrovie, ed in ispecie delle romane, con alcune riflessioni circa la necessità di un regolare servizio sanitario proprio delle medesime, Tipografia Belle Arti, Roma 1869.

[7]Berlinguer G., Malattie e igiene del lavoro degli autoferrotramvieri, Istituto di Medicina Sociale, Roma 1962, pp. 208, cfr. la bibliografia alle pp. 195-199.

[8]Saginario M., Sugli aspetti neuropsichici, nella Tavola rotonda Il problema delle malattie professionali degli autoferrotramvieri, Patronato INCA, Parma, 13 dicembre 1964. gi Cfr. anche la relazione di A.C. Dettori, Le malattie cardiovascolari.

[9]Tizzano A., La statistica negli infortuni stradali sotto il riflesso sociale, clinico e medico-legale, nel vol. L’aspetto medico dell’incidente stradale, Atti del Symposium di Salsomaggiore, 8-9 maggio 1959, pp. 15-16.

[10]Relazione ciclostilata per gli Etats generaux des trasports et de la circulation dans la regione parisienne, Salle de la mutalité, 16 giugno 1973.

[11]Ancona M., cit., pp. 75-78.

[12]E. Detti, Relazione urbanistica al Convegno, Orario di lavoro e tempo libero, ARCI-UISP, Roma, 15-16 novembre 1973, in corso di stampa.

[13]Claudian J., Vinit F. e altri, Evolution de la consommation alimentaire en fonction de l’urbanisation, nel vol. Maladies de la vie urbaine, Masson, Paris 1973, p. 67 e segg.

[14]Cerquiglini S., Le basi fisiologiche e Dagianti A., Fisiopatologia della malattia ipocinetica, nel quaderno n. 115 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, L’ipochinesi malattia sociale, 25 novembre 1971.

[15]Nella relazione di Wyss V., del Servizio sanitario FIAT su L’attività sportiva del lavoratore: aspetti fisiologici (nel Quaderno n. 88 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, Lo sport dei lavoratori, 27 marzo 1969) si afferma che l’attuale fatica nell’industria rende impossibile la pratica sportiva per i lavoratori.

[16]Begoin J., Le travail et la fatigue, La Raison, nn. 20-21, l° trimestre 1958, pp. 53-54.

[17]Sulla fisiologia del sonno e del suo ritmo biologico cfr. M. Jouvet, Veglia, sonno, sogno: l’approccio biologico, nel vol. a cura di tu R. Venturini, I livelli di vigilanza: coma, sonno, ipnosi, attenzione, Bulzoni, Roma 1973, p. 75 e segg. Sulla patologia del riposo in rapporto al lavoro cfr. W. Menzel, Il ritmo diurno e notturno dell’uomo e il lavoro a turni alterni, Benno Schwabe und Co., Bale, 1962, pp. 189 (con 811 riferimenti bibliografici).

[18]Mounier P., Kuhn, Morgon A., Le bruit dans la ville, nel cit. vol. Maladies de la vie urbaine, p. 14.

[19]E. Detti, Rel. cit. È da osservare che anche in questo caso silenzio, spazio e riposo del hanno un gradiente classista: i contadini, per esempio, vengono espulsi dalle campagne e inurbati, e le loro case sono vendute e trasforma te in residenze per week end e per l’estate. Vi è chi perde la tranquillità e chi la compra.

[20]I giornali italiani del 10 aprile 1974 hanno riferito statistiche sugli omicidi nelle città americane, elaborate da A. Barnett, del MIT, secondo il quale “un neonato che nasca oggi in una delle cinquanta grandi città degli USA ha più probabilità di venire ucciso di quanta non ne avesse avuto un soldato americano durante la seconda guerra mondiale”; egli ha riscontrato che “su 79 persone nate quest’anno a Boston almeno una dovrebbe venir assassinata nel corso della sua vita. Il rapporto si riduce ulteriormente a New York (una su 67) e tocca un livello allarmante a Washington (una su 40) e Detroit (una su 35)”.

[21]Sull’intreccio fra lavoro e riposo, cfr. Berlinguer G., La macchina uomo, Editori Riuniti, Roma 1960, ed il più recente Orario di lavoro e tempo libero, La critica sociologica, n. 28, inverno 1973-1974, pp. 8-30.

[22]Villermé L.R., Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de soie, 2 voll., Parigi 1840; Engels F., Die lege der arbeitenden Klasse in England, Leipzig 1845.

[23]Per una storia di queste lotte, ed anche per un’efficace interpretazione marxista del rapporto lavoro-riposo, cfr. Toti G., Il tempo libero, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 19-108.

[24]Le Guillant L., prefazione al cit. vol. di Begoin D.P., Le travail et la fatigue pag. l2.

[25]Delle Donne M., Città e società civile, Ed. dell’Ateneo-Officina, Roma 1973, p. 9.

[26]Ancona M., cit., pp. 8-9.

[27] Garavini S., Relazione sindacale al Convegno Orario di lavoro e tempo libero, cit.

[28] Marri G., La salute,nel cit. Quaderno di “Rassegna Sindacale” L’orario di lavoro, pp. 123-126.

[29]Gli aspetti sociali del ritmo biologico umano sono totalmente ignorati nel vol. di Gedda L., Breuci G., Cronogenetica. L’eredità del tempo biologico, Mondadori, Milano 1974. Gli autori ricordano che la natura vivente conosce ritmi circadiani (da dies), ritmi catameniali (da mensis), e ritmi annuali. Mentre i vegetali sono soprattutto soggetti a questi ultimi, l’uomo ha alcuni ritmi catameniali (mestruazioni della donna, e relative fasi ormonali) ed un forte ritmo circadiale, che condiziona sia la fisiologia (sonno, temperatura corporea, flusso espiratorio massimo, globuli bianchi nel sangue, tasso circolante ed escrezione urinaria dei corticosteroidi, sodio, potassio, aldosterone ecc.), sia la patologia (crisi parossistiche dell’asma notturno, ritmi delle allergie agli antibiotici, afflusso sanguigno nel polpaccio nella claudicazione intermittente, microfilarie dell’oncocercosi nel sangue periferico ecc.). Ricondurre il lavoro umano al tempo diurno, e consentire nelle ore lavorative l’equilibrio fra dispendio e recupero, rappresenta una conquista culturale che integra nella razionalità sociale degli uomini il substrato biologico della nostra esistenza.

[30]Annuario statistico italiano, 1973, Istituto centrale di statistica, Roma, p. 21.

[31]Gemelli A., Il fattore umano negli incidenti del traffico, nel cit. Symposium L’aspetto medico dell’incidente stradale, pp. 7-11.

[32]Mitolo M., Il problema della fatica e gli incidenti stradali, ivi, p. 268.

[33]Per l’orario, per es., nella cit. relazione di S. Garavini si ricorda che “il costo del lavoro, a parità di tempo complessivo di lavoro delle maestranze di un’impresa, tende a crescere con il numero di lavoratori occupati entro quel tempo complessivo di lavoro”; ciò spiega la resistenza padronale alle riduzioni di orario, ed il frequente ricorso agli straordinari.

[34]La programmazione urbanistica come metodica di medicina preventiva, Quaderno n. 4 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, 18 dicembre 68, relazioni di T, Martelli, P. Montelli, M. Cosa, G. Vecchioni, M. Nicoli.

[35]Anche per le varie età della vita sorge analoga esigenza: non mi pare più accettabile, infatti, l’idea che un terzo della vita umana sia dedicata nell’età giovanile alla preparazione, un terzo al lavoro e l’altro terzo al riposo. Sarebbe più giusto parlare di preminenza della formazione, del lavoro e del riposo nelle varie età.

Creatrice di nuove terre o esaltatrice della capacità produttiva delle terre vecchie, la bonifica è indubbiamente il principale mezzo di azione contro le tendenze urbanizzatrici. Ma non è il solo.

Ora, la difesa della ruralità ha tale importanza per l’avvenire del Paese da non permettere di trascurare nessuno degli altri modi di contribuirvi. Cosi meritano segnalazione due studi recentissimi, dell’Ing. Vincenzo Civico e del Dott. Augusto Alfani, che additano due provvedimenti efficaci contro la deruralizzazione (V. Civico, “Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione”, Critica Fascista n. 14, 1942; A. Alfani, Il libro e l’istruzione tecnica contro la deruralizzazione, Firenze 1942).

Decentramento delle industrie

Il Civico, traendo occasione dalle decisioni del Governo a favore dello sviluppo delle industrie in quelle parti d’Italia che attualmente ne sono meno dotate, propugna la creazione di appositi nuovi centri urbani invece della costituzione, o dell’ampliamento, di zone industriali annesse a città esistenti, specie se queste già sono grandi.

Quasi tutti gli argomenti da lui addotti a sostegno dell’indirizzo che propone varrebbero, a suo avviso, a far riconoscere la utilità di questo al fine della difesa della ruralità.

Di tale utilità, con qualche riserva che esporremo, noi pure siamo convinti; ma principalmente per ragioni diverse da quelle del Civico, come diremo.

Va da sé che nei nuovi centri proposti non difettando lo spazio, almeno inizialmente, sarebbe agevole cosa creare quartieri residenziali sani ed ariosi, come il Civico osserva. Ci sembra invece illusoria la sua fiducia di riportare con quelli, stabilmente, la popolazione tutta a contatto diretto della campagna; assicurandole così la maggiore sanità fisica e morale che è poi cagione del potenziamento della razza.

A realizzare questa forma, attenuata ma pur sempre utile, di ritorno alla terra egli conta essenzialmente sulla possibilità di contenere entro limiti modesti lo sviluppo dei nuovi centri abitati, negando l’autorizzazione ad impianti che dovessero eccedere questi limiti; e sulla possibilità di contrarre gradua]mente le città esistenti, disponendo il trasferimento in altri centri, nuovi, degli impianti attuali in occasione della loro necessaria rinnovazione.

Ma è attuabile questo trasferimento?

I requisiti che rendono adatta una località all’esercizio di una attività industriale sono molti e vari e generalmente lasciano alla scelta un campo piuttosto ristretto. Prevalgono di solito, ineluttabilmente. le esigenze economiche; la riduzione del costo di produzione e di quello del trasporto dei prodotti ai mercati di consumo.

Giustamente lo stesso Civico ricorda che devesi aver molto riguardo alla vicinanza delle principali materie prime, delle fonti di energia, di una abbondante popolazione, nonché alla comodità e, poteva aggiungere, alla brevità delle comunicazioni coi luoghi di provenienza di altre materie prime, o sussidiarie, e con quelli di collocamento dei prodotti.

Egli nega che questi requisiti si trovino più spesso riuniti, nella maggiore misura possibile, nelle città, specie se grandi. A noi sembra invece innegabile che non casualmente l’industria abbia tanto contribuito allo sviluppo di città felicemente ubicate, che siano ad esempio dotate di buoni porti marittimi o corrispondano a fondamentali nodi ferroviari; particolarmente da quando gli elettrodotti ad alta od altissima tensione hanno reso molto economico il trasporto della energia idroelettrica a qualsiasi distanza.

Non possiamo infatti pensare che il creatore di una nuova industria dia qualche peso a diverse considerazioni, come quella della maggiore agevolezza di vita civile offerta al personale da una città che già sia modernamente attrezzata. A conferma, sono molte le città da secoli raccolte in una lor vita comoda prevalentemente intellettuale, e pressoché prive di industrie, mentre non mancano gli esempi, anche da noi, di città che l’industria ha create dal nulla, dotandole di ogni attrezzatura civile.

II trasferimento, sia pure graduale, delle industrie esistenti ci sembra dunque assai problematico e in definitiva non vantaggioso, in genere, alla economia della Nazione, perchè la loro ubicazione è già la più conveniente.

E spesso risulterà pure impossibile, e non giovevole al Paese, limitare lo sviluppo di nuovi centri industriali. Ben vero, vi sono taluni cicli produttivi che consigliano di procedere alle fasi successive di una lavorazione a catena in località diverse, talora anche molto distanti l’una dall’altra, al fine di giovarsi in ciascuna fase dei requisiti locali più favorevoli alle sue particolari esigenze. (Pensiamo ad esempio, da noi, all’industria dell’alluminio). Di solito però dalla coordinazione di varie industrie risulta invece la opportunità di sviluppare in una medesima località l’intero ciclo produttivo. Chi ragionevolmente potrà allora vietare che il nuovo centro industriale si accresca fino a togliere ai quartieri residenziali quella immediatezza di rapporti con la campagna che pur sarebbe desiderabile?

Confessiamo poi di non avere compreso perchè il camerata Civico confidi di ottenere, mediante il decentramento delle industrie, una maggiore loro protezione dalle offese belliche aeree.

L’argomento, come vedremo, non è privo di addentellato col problema della preservazione della ruralità, e così rientra pure nel nostro tema.

Il nostro accorto Autore non dice già di attendersi una migliore difesa dagli aerei come effetto della dispersione degli obbiettivi, cioè del maggiore numero loro e della minore entità di ciascuno di essi; giustamente perchè oggi anche un solo stabilimento industriale costituisce non trascurabile oggetto di offesa bellica e perchè il crescere del numero, della velocità e della autonomia dei mezzi aerei va togliendo importanza al problema del raggiungimento pressoché contemporaneo, in una medesima incursione, di numerosi obbiettivi distribuiti in .un ampio territorio. La disseminazione dei possibili obbiettivi di offesa, a nostro avviso, varrebbe invece a complicare il problema della difesa controaerea, moltiplicando le località da difendere attivamente.

E non crediamo nemmeno che il Civico abbia pensato ad una maggiore facilità della difesa possiva. È infatti ormai quasi unanime il riconoscimento che - ove si tratti comunque di obbiettivi densi, cioè di popolazione agglomerata - la difesa passiva riesce meno costosa e più efficace quando le abitazioni sono riunite in edifici di cinque o sei piani, che costituiscono da sé una buona copertura dei ricoveri sotterranei e consentono economicamente di assegnare a questi la capacità per ogni abitante, la robustezza, la protezione antigas, i servizi e la molteplicità di sicuri accessi che normalmente si richiedono.

Vogliamo anzi notare qui - ed è questo l’addentellato preannunciato - che dalla considerazione della vulnerabilità bellica viene ancora diminuita quella ragione di preferenza, ai fini della ruralità, degli appositi nuovi centri industriali della quale precedentemente si è discusso.

Le cennate dimensioni degli edifici, comunemente ammesse come le migliori nei riguardi della difesa passiva antiaerea, consentiranno pur sempre, infatti, di dotare i desiderati nuovi centri di quartieri residenziali sani ed ariosi, più economicamente che nei pressi di grandi città in relazione al minore costo delle aree; ma la distribuzione delle abitazioni in parecchi piani renderà comunque praticamente inutile di assegnare loro ampiamente orti e giardini atti a determinare nella popolazione industriale una certa attività rurale, sia pure soltanto collaterale, integrativa, dopolavoristica. Così quella forma, già molto superficiale, di ritorno alla terra di cui si è discorso verrebbe a ridursi ad una cotale prossimità delle abitazioni alla aperta campagna: troppo modesta circostanza perchè sia lecito sperarne un concorso non trascurabile al potenziamento della razza attraverso la formazione di abiti rurali.

Venendo di nuovo alle considerazioni belliche, esaminiamo la sola precisazione esplicita a che il Civico ci offre: i nuovi centri industriali dovrebbero essere ubicati in modo da risultare il più possibile sottratti alle offese belliche.

Ora, la possibilità di sottrazione a tali offese non può dipendere, già oggi, dalla distanza dai confini del territorio nazionale se questo è, relativamente, poco esteso. Non resta dunque che pensare di cercarla in una maggiore difficoltà di sorvolo; quale ancora si può avere, specie in talune circostanze stagionali, nelle regioni montagnose molto elevate ed incise da vallate profonde.

Ma quali dei requisiti che rendono una località più adatta alle attività industriali si potranno trovare in regioni di tal sorta ? Dato, come si è detto, che la più frequente possibilità di produrre sul luogo energia idroelettrica va perdendo di importanza, converrà collocare nuovi stabilimenti industriali in profonde vallate, racchiuse da alte montagne, solamente quando si debbano trasformare materie prime locali, oppure materie prime assai ricche, di trasporto pochissimo oneroso; come sempre è stato riconosciuto.

Gli altri argomenti che il Civico adduce a conforto della propria tesi - mentre pur riconosce giustamente che una nazione moderna, pena la sua decadenza, non può essere soltanto rurale - sono quelli stessi che ordinariamente vengono enunciati contro lo sviluppo industriale in genere, quale promotore prevalente della urbanizzazione.

Questi argomenti sono noti: l’industria spopola le campagne, sottrae braccia al lavoro della terra, mina le basi della salute e della potenza della nazione, che posano soprattutto sulla sua ruralità; lede inoltre gli stessi organismi urbani, addensandovi eccessivamente le fonti di lavoro e determinandone la elefantiasi.

Ma non teme il Civico che il primo gruppo di questi argomenti possa ritorcersi proprio contro di lui?

Mettere l’industria, per cosi dire, a portata di mano di ogni contadino, col disseminarla in tutto il territorio nazionale significherebbe moltiplicarne la forza di attrazione che oggi, in ragione delle distanze, non basta ancora a distogliere dalla terra poderose masse rurali.

È esperienza ormai fatta che la creazione di un nuovo centro industriale in aperta campagna ha in questa l’effetto immediato di frangere i nuclei famigliari e di fare abbandonare le lavorazioni agricole ai vecchi ed ai ragazzi.

E troppo magro compenso avrebbe la causa della preservazione della ruralità del Paese nella vicinanza alla campagna dei quartieri residenziali degli auspicati modesti centri industriali.

Tuttavia, proprio da quelle vecchie considerazioni di carattere generale ricaviamo le preannunciate ragioni, non viste dal Civico, le quali a parer nostro militano veramente a favore della sua tesi.

Il nuovo centro urbano, dedito quasi interamente ad attività industriali, per vivere chiede alle circostanti campagne diversi e più abbondanti prodotti, proprio mentre esse vengono disertate dai rurali validi. D’altra parte gli utili dell’industria cercano spesso nell’agricoltura un investimento, se non molto lucroso, sotto vari aspetti assai allettante: in pagine magistrali, a tutti note, ampiamente dimostrava già il Cattaneo il generale vantaggio di questo fenomeno economico sociale. L’effetto ultimo, sulle campagne, della creazione di un nuovo centro industriale è dunque necessariamente la bonifica; ed è, conseguentemente, la stabile sistemazione rurale di numerose famiglie contadine provenienti da altri territori, sovrapopolati, le quali vengono a sostituire quelle locali che la campagna hanno derelitta, mentre a loro volta sarebbero altrimenti affluite all’industria. Cosi l’industria e l’agricoltura cooperano all’armonico progresso del Paese e la ruralità di questo, in complesso, viene accresciuta.

Perciò noi siamo favorevoli alla creazione di nuovi centri industriali proposta dal Civico; pur senza nasconderci che la sua possibilità verrà frequentemente limitata da motivi economici, anche nazionali, che renderanno preferibile, tutto ben considerato, la aggregazione di nuove industrie a centri industriali esistenti dove cause storiche ed etniche hanno finora troppo esiguo lo sviluppo delle attività industriali, bene il Regime tende a promuoverne l’incremento; ma non è improbabile che anche quivi le nuove industrie opportunamente sorgano di preferenza nelle più importanti città portuali e ferroviarie. Quando però i giusti motivi a favore di tali ubicazioni non risultino molto accentuati, siamo col Civico nell’auspicare che l’industria si diffonda nelle campagne, perchè gioverà indirettamente alla ruralità del Paese, col dare generale impulso alle trasformazioni fondiarie.

Sui compiti della urbanistica

A queste nostre opinioni si potrà forse obbiettare che noi vediamo ogni fenomeno sotto la specie della bonifica.

Ma una obbiezione analoga, a parer nostro non senza fondamento, può muoversi al camerata Civico.

Vogliamo riferirci al titolo del suo interessante studio, il cui significato è bene chiarito nelle sue premesse.

Queste, sono le premesse: realizzare la organica distribuzione della popolazione è, nèlle città. uno dei compiti essenziali della urbanistica; ma oggi la unità urbanistica non è più la città, è la nazione; dunque oggi spetta alla urbanistica studiare la distribuzione organica della popolazione in tutto il territorio naziona1e; e lo strumento tecnico a ciò adatto la urbanistica già lo possiede, è il Piano regolatore territoriale.

Proprio da questo strumento tecnico già pronto pensiamo noi che il Civico sia condotto a gravare la urbanistica di tanto peso.

Ai cultori delle discipline matematiche è nota la fecondità dell’algoritmo. A risolvere un particolare problema - anche pratico, se opportunamènte schematizzato - si inventa una operazione nuova, accertandone la legittimità attraverso la verifica del suo inquadramento nelle leggi logiche fondamentali. Forgiato cosi un nuovo strumento tecnico, sembra poi quasi che questo lavori da sé. Il nuovo algoritmo trova infatti applicazione nei campi fisici più inopinati e porta a vere scoperte, ossia alla previsione di fatti che poi l’esperienza conferma.

Ma ciò dipende dal carattere astratto della matematica pura e dalla possibilità di ridurre ad un comune schema matematico i più disparati fenomeni fisici privandoli di tutte quelle note che concretamente li specificano, li differenziano e che pure sotto un certo profilo sono prescindibili. non sono essenziali.

Questo processo di astrazione non è invece possibile nello studio dei multiformi complicatissimi fenomeni della distribuzione della popolazione che si faccia allo scopo di disciplinarla, di indirizzarla - entro certi limiti - al raggiungimento di particolari fini. La sola astrazione qui consentita, anch’essa di carattere matematico, si traduce nelle indagini statistiche comparate che porgono un filo conduttore alla ricerca di intricati e non evidenti rapporti di causa ad effetto.

Solo il politico, con la propria sensibilità, con le proprie facoltà di sintesi, sia pure giovandosi di questo sottile filo conduttore, può percepire nella loro unità molteplice ma inscindibile cosi complessi fenomeni, dove confluiscono i caratteri naturali ed antropici delle varie zone del Paese, le esigenze tecniche ed economiche, le tendenze sociali e, se il politico è grande, la sua volontà di dominare e regolare gli eventi quanto all’uomo è consentito.

Saremmo ingiusti però se non dicessimo che ciò il Civico lo ha intuito. Invero egli soggiunge: che la distribuzione della popolazione è effetto della distribuzione dei mezzi e delle possibilità di vita, la quale secondo lui si riassume nella distribuzione del lavoro (Di qui il sottotitolo del suo studio, la sua formula distribuire il lavoro per distribuire la popolazione); che la distribuzione del lavoro è compito politico; che solo quando il politico ha distribuito il lavoro, può operare l’urbanista.

Pensiamo noi che la distribuzione della popolazione, se in definitiva è effetto anche della distribuzione del lavoro, inizialmente a sua volta influisca su questa, in qualsiasi provvedimento non potendosi mai prescindere dalla situazione che si vorrebbe correggere. Ma più ci preme osservare che quando il politico ha distribuito il lavoro - cioè nel caso in esame quando ha stabilito dove debbono sorgere le nuove industrie - l’ulteriore compito dell’urbanista si riduce sostanzialmente a quello tecnico, già noto e riconosciuto come a lui spettante, di studiare il piano regolatore della nuova città o della nuova zona industriale ad ampliamento di una città esistente. E allora non si comprende più perchè il Civico abbia affermato prima - citiamo testualmente - che o “uno dei compiti essenziali dell’urbanistica è quello di realizzare la organica distribuzione della popolazione su tutto il territorio nazionale”.

Biblioteche tecniche rurali

Una differenza essenziale fra le opinioni del Civico e dell’Alfani è nella precisazione delle cause principali della urbanizzazione. Secondo il Civico, ci si inurba sostanzialmente nella speranza, talora illusoria, di trovare da lavorare meglio e di più. Secondo l’Alfani, una delle maggiori cause di inurbamento è nello squilibrio che si è andato stabilendo, specie negli ultimi due secoli, fra le condizioni culturali dell’operaio delle industrie e quelle del lavoratore dei campi: dunque ci si inurberebbe principalmente mossi da un desiderio di istruzione.

Ci piace che entrambi gli Autori non diano rilievo, da noi, a cause secondarie quali l’attrattiva, non di rado fallace, di una vita più comoda e piacevole. È un giusto riconoscimento della intima serietà del nostro popolo.

Ciò premesso, diciamo che la ragione principale di insoddisfazione del lavoratore dei campi secondo l’Alfani, di ordine spirituale pure non essendo priva di riflessi materiali come vedremo, ci persuade di più; anche perchè dal riconoscimento di essa l’Alfani , è condotto a proporre un piano concreto di azione interessante e indubbiamente atto a contribuire efficacemente alla difesa della ruralità del Paese e, nel contempo, al suo progresso agricolo.

Bisogna, dice l’Autore, far si che il contadino “acquisti, nel proprio campo, una cultura, uni coscienza ed una competenza tecnica non inferiori a quelle dei camerati delle industrie”.

Non è vero, soggiunge, che “in sé e per sé il lavoro agricolo si presti meno del lavoro industriale ad un’elevazione culturale e tecnica di chi vi è addetto”.

Né è vero “che i rurali latini, e più specialmente italiani, abbiano meno bisogno di una minuziosa istruzione tecnica, che degenererebbe per loro in pedanteria, perchè si suppongono capaci di supplirvi con la genialità innata, improvvisando secondo le necessità”.

”I nostri lavoratori agricoli sono, nella maggior parte dei casi, una massa di ignari, ma non di inesperti, perchè nati e vissuti in stretta aderenza alla pratica; son dotati di una squisita logica, non artefatta, e sono fini conoscitori degli uomini e delle cose; posseggono inoltre una non comune resistenza fisica e sopportano spesso grandi disagi e privazioni. Se qualche volta sono, e molto più spesso a torto si sentono, inferiori agli altri lavoratori si è perchè non adeguatamente ci si è occupati finora di potenziare con l’istruzione tecnica il loro intuito e il loro attaccamento alla tradizione, sviluppando la loro personalità, dando loro la coscienza del proprio valore”.

”Questo altissimo scopo - capace di elevare anche materialmente ed economicamente il livello di vita del lavoratore dei campi e quindi di ovviare ai pericoli della deruralizzazione - si otterrà riscattandoli dall’ignoranza di cui non hanno colpa”.

Ricordato quanto già fa il Regime per la educazione e l’istruzione del popolo in genere ed accennato in particolare alle varie vie che si presentano, e già in parte sono seguite, per la elevazione tecnica dei contadini, il camerata Alfani precisa il suo pensiero proponendo una azione educativa continua e capillare, che avrà come arma principale il libro di agricoltura adatto ai lavoratori.

”Il libro è la vis, la scintilla che tiene deste le forze dello spirito, lo strumento più vigoroso per far avanzare la tecnica”.

La forma preferibile di questo strumento, per chi può dedicarsi alla lettura solo saltuariamente, è l’opuscolo monografico; attraente, chiaro, elementare.

Opuscoli di tal sorta costituiranno la fondamentale dotazione della auspicata biblioteca tecnica del rurale; la quale però dovrà anche essere fornita di numerosi manuali completi, sempre “piani e di facile comprensione, per quanto possibile rigorosamente scientifici”, atti a soddisfare la crescente sete di sapere dei frequentatori.

Qui non possiamo tentare di riassumere le numerosissime idee, notevoli e originali, esposte dall’Autore in oltre venti dense pagine circa la pratica organizzazione e il funzionamento della auspicata istituzione. Notiamo soltanto che da lui giustamente sono posti in massima luce i compiti degli istruttori, ai quali sarebbe affidata la capillarità dell’azione.

”Veri apostoli, gli istruttori dovrebbero essere scelti fra i migliori agronomi, educati ed istruiti in modo da renderli sempre meglio adatti al loro compito, per mezzo di appositi corsi di studio”. Spetterebbe ad essi indirizzare le letture dei singoli contadini, graduate secondo il progredire della loro preparazione; accompagnando la consegna di ogni libro con adatti commenti e al momento della restituzione discutendone “con garbo e senza parere per controllare se ha prodotto l’effetto desiderato”. Dotati di nozioni di psicologia e capaci di impartire lezioni dimostrative e di tenere letture pubbliche commentate negli ambienti più vari, gli istruttori dovrebbero saper discendere dalle altezze della scienza per legarsi alla pratica e conoscere sempre meglio quella mentalità peculiarissima che sono chiamati a modificare. Entusiasti ed energici, e abili ad insegnare anche l’ordine e la disciplina, dovrebbero avere una “profonda comprensione della mentalità dei lavoratori, possibile solo se frutto di un grande amore per loro”.

Sappiamo tutti di analoghi apostolati, nelle campagne; e però a noi non sembra utopistica la fiducia di trovare giovani di scienza e di fede che accettino fervidamente questa missione altamente umanitaria e patriottica. Essi medesimi potranno largamente cooperare, a nostro avviso, all’arricchimento della biblioteca tecnica del contadino con opuscoli particolarmente adatti ai singoli ambienti dove operano, compilati sotto la guida di agronomi più anziani ed esperti. Ma intanto si deve - e si può confidare che questi ultimi assumano il non lieve carico di formare l’ossatura della biblioteca stessa, costituita dei manuali fondamentali e degli opuscoli relativi a quelle pratiche agricole che, adattandosi agli ambienti più vari, si prestano alla più ampia diffusione. Quale compito più allettante, a coronamento di una vita dedicata all’insegnamento ed allo sviluppo agricolo del Paese?

INGREDIENTI

farina, 700 gr

lievito di birra disidratato, 1 bustina

olio, 1-2 decilitri

sale q.b.

scarola, 1,5-2,0 kg

aglio, 2 spicchi

olive nere di Gaeta, un buon pugno

capperi salati, due cucchiai

pinoli, un cucchiaio

uva passa, un cucchiaio

peperoncino, secondo gusti

uova, 1 tuorlo

PREPARAZIONE DELLA PASTA

Far sciogliere il lievito in acqua tiepida

Disporre la farina a fontana e versare nel cavo il lievito e l'olio

Mescolare con una forchetta

Aggiungere acqua tiepida poco a poco sempre mescolando, ora con le mani, finché non si è formata una pasta consistente ma morbida

Lavorare con energia per almeno un quarto d'ora, poi lasciar riposare qualche minuto (il dettaglio qui sotto)

PREPARAZIONE DEL RIPIENO

Lavare e scolare la scarola, e lessare in poca acqua bollente, meglio se a vapore: strizzate bene, tagliate con 4-5 colpi di coltello

Disossate le olive e lavate i capperi

Soffriggete in una padella l'aglio e il peperoncino

Aggiungete le olive, i capperi, i pinoli e l'uva passa

Dopo pochi minuti aggiungete la scarola a lasciate soffriggere per 5-10 minuti

Se c'è troppo liquido, eliminatelo

CONFEZIONE DELLA PIZZA

Ungete una teglia di circa 24 cm di diametro

Dividete la pasta in due parti diseguali

Stendete la parte più grande e foderate la teglia, portando via la parte che esce dal bordo

Rapidamente stendete la parte più grande, formate un disco del medesimo diametro della teglia e con esso coprite la scarola, rivoltando i bordi in modo da saldare le due parti della pasta

Con un pennellino passate sulla superficie il tuorlo

Infornate a circa 200 °C e lasciate cuocere finché non è bella dorata in superficie

SERVIRE

Tiepida o riscaldata o fredda, se è ben fatta è sempre buona


Gli ingredienti (a meno della farina). Non confondete la scarola (a foglie liscie) con analoghe verdure. E cercate le olive di Gaeta (di Itri), sono del tutto particolari. Basta poco spazio per impastare e per stendere la pasta

Ecco la pizza completata e adornata, chiusa… …e aperta

Come si fa la pasta

Un’amica mi ha chiesto di spiegarle nel dettaglio il modo in cui faccio la pasta. Ecco, la pasta la faccio così.

Prendo un vassoio bianco grandicello col bordo rialzato, verso al centro la farina (tra 600 e 1000 grammi), foggiandola a fontana

A parte ho fatto sciogliere un cubetto di lievito di birra o, più spesso, una bustina di lievito in polvere in un bicchiere grande d'acqua tiepida.

Al centro della farina metto un pizzico di sale, un cucchiaio d'olio (a occhio, dalla bottiglia), magari un goccio d'aceto che la fa venire più croccante; piano piano verso l'acqua tiepida con il lievito, mescolando con la forchetta.

Quando è diventata una melma abbastanza solida comincio a metterci dentro le mani cercando di fare una palla. Ma ti sfugge da tutte le parti. Si attacca e si stacca, si appiccica alle mani e tra le dita e non ne vuole sapere di assumere una forma autonoma. Devi capire quando vuole un po' d'acqua (te ne è rimasta un po' nel bicchiere, e ce la versi) o quando vuole un po’ di farina (se hai qualcuno che ti aiuta è meglio, se no impiastri il pacchetto della farina con le mani infangate ma chi se ne frega).

A un certo punto comincia a rassodarsi e compattarsi: hai vinto! Continui a lavorarla, togliendo il vassoio (se non l'hai già fatto) e premendo direttamente sul piano (meglio se di legno, io ho solo un pianetto di plastica). Lavorala per una quindicina di minuti, in tutte le direzioni, soprattutto col sottopalmo (è quella parte del palmo che si avvicina al polso). Quando diventa bella elastica (la comprimi e si riallarga) E’ fatta.

Io non la lascio riposare. La divido subito in due parti diseguali. Spolvero sul piano un po' di farina, e infarino il mattarello. Sul piano stendo la palla più grande, la schiaccio e la lavoro col mattarello, girando ogni tre-quattro colpi soprattutto per evitare che s'appiccichi al piano o al mattarello.

Prendo la teglia, la ungo e ci deposito dentro la sfoglia, che è tanto grande da sporgere dal bordo da tutte le parti. Appoggio la teglia così foderata da una parte e lavoro analogamente l'altra palla più piccola. Quando anche questa fatta, riempio la teglia foderata del suo contenuto (la scarola imbottita), appoggio sopra la seconda sfoglia e, cominciando da un lato e girando via via, unisco i due lembi (sopra e sotto), taglio l'eccedenza, li avvoltolo un po' e comprimo, aggiustandoli alla fine con i rebbi di una forchetta.

Con la parte che avanza a volte faccio cuoricini e stelline per decorarla, a volte faccio una pizzetta, a volte la butto per impazienza.

INGREDIENTI

Sei pomodori belli grandi, regolari e maturi

Riso a chicchi grandi che non scuociono, 9 cucchiai

Prezzemolo, un bel mazzo

Menta o mentuccia, qualche foglia

Aglio, due spicchi

Olio, sale, pepe quanto basta

PREPARAZIONE dei pomodori

Lavate i pomodori, tagliate la calotta con un coltello affilato e svuotatelo, facendo attenzione a non rompere la pelle

versate nei pomodori svuotati una goccia d’olio e un po’ di sale

Passate il sugo, buttate i semi e conservate l’acqua

PREPARAZIONE del riso

Fare un battuto con l’aglio, il prezzemolo, la menta, un pochino d’olio, sale e pepe

Mescolare il riso con il battuto aggiungendo un po’ dell’acqua dei pomodori

CONFEZIONE

Collocate i pomodori in una teglia di dimensioni adeguate, lasciando un po’ di spazio

Riempite ogni pomodoro con il ripieno, badando che resti vuoto un quarto del cavo

Aggiungete l’acqua dei pomodori

Coprite ogni pomodoro con la sua calotta

Tagliate a pezzetti un paio di patate e riempite con i pezzetti gli spazi tra i pomodori

Versate sul tutto un filo d’olio e una spolverata di sale

Mettere in forno e lasciate cuocere a fuoco medio per circa 30-40 minuti

SERVIRE

Tiepidi o, meglio, freddi

FONTE

Variazioni personali su base Talismano della felicità

INGREDIENTI

patate, 1 kg

pomodori, 500 gr

cipolle, 3 belle grosse

origano

sale, pepe, olio

PREPARAZIONE

Tagliare le patate, dopo averle ovviamente pelate e lavate, a fette abbastanza sottili

Disporle in un ruoto (teglia) di circa 25-30 cm di diametro, alternando a uno strato di patate uno strato di cipolle tagliate a fette e qualche pomodoro anch’esso tagliato

Cospargere ogni strato di origano, sale e pepe

Alla fine cospargere di abbondante olio

COTTURA

Infornare a temperatuira di circa 170 °C e lasciar cuocere finchè le patate di sotto sono belle abbrustolite (circa 2 ore)

Servire caldo , tiepido o freddo

FONTE

Ricordi d’infanzia rinfrescati da: Jeanne Carola Francesconi, La cucina napoletana, Newton Compton Editori, 1993

INGREDIENTI

farina, 400 gr

burro, 200 gr

radicchio trevigiano, 4-5 ciuffi

porri, 2-3

groviera e fontina, 150 gr

parmigiano, 100 gr

uova, 2

olio, sale, pepe, vino

PREPARAZIONE

Lasciar intiepidire il burro a t° ambiente e mescolare rapidamente con la farina, aggiungendo un po' d'acqua tiepida fino a raggiungere la consistenza plastica giusta

Lasciar riposare la pasta in frigo per almeno un'ora

Stendere la pasta in una teglia di 20-22 cm, sovrapporre un foglio di carta da forno e un peso, infornare e cuocere finché non è appena imbiondita; nel frattempo:

Tagliare a rondelle i porri e lasciarli imbiondire in una padella con poco olio

Aggiungere le foglie del radicchio e mezzo bicchiere di vino e far cuocere a fiamma bassa, prima coperto poi scoperto per eliminare l'acqua

Stendere sul guscio di pasta brisée le verdure

Stendere il formaggio tagliato a scagliette

Sbattere due uova, aggiungere sale e pepe e stendere la crema sul resto

Infornare e lasciar cuocere a fuoco moderato finché non è gratinata

SERVIRE

Calda o tiepida, anche riscaldata

INGREDIENTI

pasta sfoglia, 1 confezione

spinaci, 700 gr

ricotta, 300 gr

uova, 2-3

parmigiano, 100 gr

noce moscata, a piacere

PREPARAZIONE

Togliere dal freezer la confezione di pasta sfoglia e, senza aprirla, lasciarla ammorbidire a temperatura ambiente

Lessare gli spinaci, strizzarli bene e tritarli

Mescolare bene la ricotta, le uova, metà del parmigiano grattugiato, la noce moscata

Tagliare la pasta sfoglia in tre pezzi uguali e stenderne due col mattarello infarinato

Ungere una teglia di circa 25 cm e foderarla con la pasta

Cospargere il fondo della fodera con pangrattato

Versare l'impasto e pareggiarlo, e coprirlo con il resto del parmigiano grattugiato

Stendere il resto della pasta e coprire l'impasto chiudendo bene i bordi

Decorate con il resto della pasta e spennellate con un tuorlo o con un po’ di burro fuso

Infornate a 180° e lasciate cuocere per circa 40'

SERVIRE

Preferibilmente tiepida, anche riscaldata


Gli ingredienti Il risultato

L'ho assaggiata a Roma, da Gabriella Bellelli De Lucia e al ristorante il Matriciano. Cercando in Google ho trovato tre o quattro ricette identiche. Ho fatto qualche variazione, e mi è venuta bene. Perciò, vi do la mia ricetta. Ricordate che gli ingredienti ci sono tutti solo prima del caldo, quindi sbrigatevi

Ingredienti

un chilo di fave

un chilo di piselli

quattro cipollotti

quattro carciofi romaneschi

u cespo di lattuga

un etto di pancetta

due cucchiai d’olio

sale

Preparazione

sbaccellate le fave e i piselli, tagliate sottilmente i cipollotti, togliete tutto il duro dai carciofi e tagliateli a spicchi, tagliate la lattuga a striscioline

nell’olio fate rosolare la pancetta tagliata a dadini e i cipollotti

aggiungete via via i carciofi, la lattuga, il sale e infine le fave e i piselli

fate cuocere a fuoco lento in pentola coperta (io adopero una larga pentola di coccio), aggiungendo un po’ d’acqua solo se è necessario

Va mangiata tiepida, ed è ottima

A proposito dell’estensione in superficie assoluta dal progetto di nuovo piano regolatore, si leggono nella relazione illustrativa del progetto stesso le seguenti parole: “Per esteso che possa apparire il piano che si è studiato, sarebbe stato desiderabile che esso, nelle sue linee fondamentali, fosse prolungato oltre i confini del Comune. Sarebbe, in altre parole, stato desiderabile che il territorio del Comune avesse avuto ampiezza proporzionata a quella che già oggi è la zona abitata. Ora, mentre nella parte occidentale e meridionale oltre la zona abitata si ha un vasto territorio tuttora adibito a scopi agricoli che consente al Comune di raggiungere con provvedimenti tempestivi la sua sistemazione, nella parte settentrionale ed orientale l’opera disciplinatrice del Comune giunge con grande ritardo e sarebbe conveniente un ampliamento del territorio comunale di tale estensione da permettere al Comune di riprendere la sua funzione che deve essere, essenzialmente, antiveggente. Che se tale estensione non si potesse ottenere, si dovrebbe auspicare lo studio di un piano regionale il quale, pur lasciando ai singoli comuni una giusta autonomia per quanto riguarda la soluzione dei loro particolari problemi, regolasse la sistemazione della regione circostante a Milano in modo che essa tutta si informasse a direttive unitarie”.

Poiché l’estendere ulteriormente il territorio comunale è così vasto e complesso problema che sfugge alla competenza di chi considera la questione esclusivamente nei riguardi tecnici; e poiché è poco probabile che a tal soluzione si addivenga in tempo prossimo, si deve considerare l’altra possibilità: lo studio di un piano regionale.

Molto si è già scritto, al riguardo, dagli studiosi di urbanistica e parecchi equivoci sono anche stati fomentati. Non v’è concorso che si rispetti che non richieda almeno uno schema di piano regionale. Ora, è bene senz’altro avvertirlo, un piano regionale può tornare utile e conveniente quando si verifichino determinate situazioni e non già intorno a qualsiasi centro abitato. Un piano regolatore richiede, anzitutto, l’esistenza di una “regione” che costituisca, in certo modo, il complemento della città; che questa regione abbia stretti rapporti di lavoro e di scambi con la città; che la popolazione vi sia disseminata in centri secondari che siano tributari della città capoluogo; che si determini naturalmente un orientamento di fenomeni che renda opportuna la considerazione unitaria dei problemi che interessano la regione.

Un piano regolatore non può consistere semplicemente nel progetto di una rete di strade turistiche che abbia lo scopo di valorizzare i dintorni del capoluogo e di avvicinarli alla popolazione agglomerata ; ma deve comprendere, oltre la migliore organizzazione della rete stradale, la sistemazione idraulica del territorio, la predisposizione delle possibilità di sviluppo dei vari servizi e, soprattutto, di quelli di trasporto considerati da un punto di vista generale, prescindendo, cioè, dagli egoismi del capoluogo e dagli egoismi dei centri secondari per assurgere alla visione integrale della migliore organizzazione della vita civile nel territorio. Si deve raggiungere, se è lecito così dire, una visione corporativa delle applicazioni urbanistiche alla regione. così che ne risulti per tutti proporzionato vantaggio nell’orbita del vantaggio della regione.

La regione circostante a Milano è tra le pochissime in Italia per le quali tornerebbe non solo assai conveniente, ma sarebbe necessario lo studio di un piano generale, come già avvenne in condizioni analoghe per le regioni industriali di Essen, di Merseburg e per moltissime regioni inglesi. Lo sviluppo intenso delle grandi opere pubbliche, la sempre maggiore importanza assunta dai pubblici servizi hanno sempre più accentuata la stretta interdipendenza che esiste tra Milano e la regione che la circonda; interdipendenza che, diciamolo subito perchè non si equivochi, non deriva da una particolare attitudine assimilatrice del centro metropolitano, ma dai reciproci rapporti che determinano una differenziazione di funzioni tra Milano ed i centri secondari della regione milanese, così che e Milano ed i centri secondari dànno e ricevono alla loro volta e sarebbe difficile concepire le funzioni degli uni che non fossero integrate dalle funzioni degli altri.

In proporzioni ben maggiori, quali derivano dall’accresciuta potenzialità dei mezzi di comunicazione, dall’intensificarsi dei rapporti industriali e commerciali, dall’affluire delle masse lavoratrici e dei prodotti finiti alla città dove è il mercato e l’emporio di vendita, si è verificato oggi quello stesso fenomeno per cui settant’anni addietro Milano città sentì il bisogno di fondersi coi cosiddetti “Corpi Santi” che assediavano la città e reciprocamente si intralciavano paralizzando le energie che invece, dopo l’unione dei due enti, si svilupparono formidabili.

Oggidì il problema è assai più vasto e sarebbe probabilmente errato il procedere per aggregazioni a formare una Milano mastodontica difficile ad amministrare con quei criteri unitari che si addicono ad un unico ente. Sarebbe invece grandemente utile e desiderabile che i grandi problemi interessanti la regione potessero essere considerati da un punto di vista generale allo scopo di raggiungere la miglior soluzione indipendentemente da quelli che possono essere i piccoli desideri locali.

Il problema dei trasporti, in primo luogo, può avere una soluzione integrale sia nei riguardi della rete stradale, sia nei riguardi dei mezzi di trasporto, soltanto quando lo studio della loro progettazione non dipenda né dai criteri prevalenti nell’interesse del capoluogo né da quelli voluti dai centri minori, ma si ispiri bensì all’interesse complessivo della regione e, soprattutto, ai rapporti reali che tra il capoluogo e la regione esistono.

Non altrimenti deve considerarsi il problema delle acque. Il piano regionale deve studiare la questione nel suo complesso, né può concepirsi che un Comune o un gruppo di Comuni possa scaricare i propri rifiuti in un corso d’acqua senza preoccuparsi se quel corso d’acqua riuscirà poi molesto ai Comuni che traverserà, uscito che sia dai propri confini territoriali. Ancor meno si può pensare che un Comune solo si addossi l’onere di formare una riserva di verde nel proprio territorio evitando, per esempio, la distruzione di un annoso bosco, quando ciò sia di vantaggio per tutta una regione.

Abbiamo accennato solo sommariamente ad alcuni tra i problemi che un piano regionale dovrebbe risolvere. Uno studio più approfondito ne rivelerebbe altri non meno importanti. Certo è che, allorquando una regione è densa di abitati, quando pel legame di interessi che la unisce essa rappresenta un organismo compiuto, le stesse ragioni che militano per la formazione di piani regolatori per le città militano per la formazione di piani regolatori regionali.

La meta è sempre la stessa: evitare il sorgere disordinato di servizi; evitare di dover domani disfare ciò che imprevidentemente fosse stato fatto oggi. In questo momento Londra spende somme enormi per dare un assetto unitario alla sua rete di metropolitane formatasi caoticamente sotto l’impulso di interessi volta a volta prevalenti. L’esempio vale per tutti gli impianti che interessano una regione: impianti che in un piano regionale devono essere previsti nelle loro grandi linee lasciando ai singoli centri la possibilità di soluzioni varie, purché si inquadrino nella soluzione generale dei singoli problemi che deve essere dal piano preventivamente determinata.

Fortunatamente non mancano esempi del modo con cui si può raggiungere la meta senza che nello studio del piallo prevalgano interessi di singoli centri; e neppure mancano esempi dell’organizzazione amministrativa più conveniente per lo studio di un piano regolatore.

Nota: ho reso disponibile un file PDF scaricabile, dove si vedono un po' meglio le immagini (f.b.)

INGREDIENTI

melanzane, 1,5 kg abbondante

peperoni rossi e gialli, 1 kg

cuori di sedano, 2-3

patate, 2-3 medie

cipolle, una grande o 2 piccole

olive di Gaeta (o pugliesi), una manciata abbondante

capperi sotto sale, un cucchiaio abbondante

aceto, mezzo bicchiere circa

zucchero, un cucchiaio circa

passato di pomodoro, un mestolo

prezzemolo, una buona manciata

olio d'oliva

sale

PREPARAZIONE delle VERDURE

Tagliare le melanzane a cubetti. i peperoni a pezzi e i cuori di sedano a segmenti corti 2-3 cm

Friggere separatamente i sedani, le melanzane e i peperoni, aggiustarli di sale e metterli da parte anche mischiati

PREPARAZIONE del CONDIMENTO

Soffriggere le cipolle tagliate sottili nell'olio necessario

Quando sono appena appassite, aggiungere il passato di pomodoro

Appena il pomodoro è cotto, aggiungere l'aceto e lo zucchero, le olive e i capperi, il prezzemolo

PREPARAZIONE FINALE

Versare le verdure nel condimento e lasciar cuocere alcuni minuti mescolando

Lasciar raffreddare

Servire oppure conservare

CONSERVAZIONE

Per conservare per alcuni mesi, versare in boccioni di vetro, chiuderli ermeticamente e bollirli in una pentola

FONTE

Elaborazione personale, e soprattutto semplificazione, di una ricetta di Ada Boni, Talismano della felicità

INGREDIENTI

p atate, 5-6 grossette

peperoni rossi e gialli, 3-4

pomodori, 2-3

melanzane, 1-2

cipolle piccole o cipollotti, un paio

aglio, uno spicchio

olive di Gaeta (o pugliesi), una manciata abbondante

capperi sotto sale, un cucchiaio abbondante

basilico, una buona manciata

olio extravergine d'oliva

sale

PREPARAZIONE

La ricetta che vi presento è tra le più semplici: consiste nel tagliare a pezzi tutte le verdure, metterle in una teglia condendola con l’olio e cuocerla al forno a temperatura media, girando un paio di volte durante la cottura, che complessivamente dura un’oretta.

Va mangiata di preferenza tiepida

FONTE

La ricetta mi è stata suggerita da Gabriella Bellelli De Lucia; io ho aggiunto capperi e olive, se volete metteteci un peperoncino, o aggiungete un po’ di “olio santo” prima di mangiarla.

INGREDIENTI

melanzane regolari, 1 kg

cipolle, 1 piccola

sedano, una costa

pomodoro passato, 500 gr

prezzemolo, un bel ciuffo

basilico, qualche foglia

olive di Gaeta snocciolate, 10-15

capperi, un cucchiaio

aglio, 1-2 spicchi

aceto, ½ decilitro

zucchero, 40 gr

mandorle, 50 gr

olio

PREPARAZIONE

Tagliare le melanzane a cubetti

Friggerle poche alla volta

Far cuocere il pomodoro passato per 20 minuti con due cucchiai di olio di frittura, la cipolla, il sedano, lo zucchero, l'aceto, i capperi, le olive, le mandorle, il basilico, l’aglio

Aggiungere le melanzane e lasciar cuocere ancora per 10 minuti

SERVIRE

A temperatura ambiente

FONTE

Proprio non ricordo

INGREDIENTI

melanzane regolari, 6

pomodori maturi, 4

prezzemolo, un bel ciuffo

basilico, un bel ciuffo

olive di Gaeta snocciolate, 10-15

capperi, un cucchiaio

aglio, 1-2 spicchi

olio



PREPARAZIONE

Tagliare le melanzane a metà e tagliuzzare l'interno in diagonale a incrocio senza intaccare la buccia

Tritare i pomodori, le erbe, l'aglio, le olive, i capperi e unire l'olio

Accomodare le melanzane in una teglia e coprirle con l'impasto

Ornare mettendo sopra ogni mezza melanzana quello che vi piace: qualche filetto di pomodoro Sammarzano o qualche mezzo pomodorino pugliese, qualche oliva, ciuffetti di basilico

Condire con un ulteriore filo d'olio

Infornare e lasciar cuocere a fuoco moderato per 40-50'

SERVIRE

A temperatura ambiente

FONTE

Ricetta suggerita da Daniela Tortora

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