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La prima volta che ci si viene, se si sta pochi giorni, conviene limitarsi al centro storico. È bello, e abbastanza conservato, nonostante qualche goffagine (presente in tutte le città del mondo) L’impatto con la vita moderna è stato risolto, nei decenni passati, con qualche intelligenza: basta quardare ai grandi spazi verdi dei viali, alla pensilina rotonda di Piazza dell’uomo di ferro, e ai bellissimi tram veloci. Qui per vedere le foto

Sabratha ci presenta resti archeologici di produzione fenicia (il mausoleo) e antico romana (il circo, il teatro, le terme sul mare con tanto di latrine ornate non meno delle altre opere. Fotografie riprese nel maggio 2000; anche testimonianze di igiene antica e di moderna schifezza. Qui la galleria di immagini

Un villaggio tranquillo in una baia piacevole, con piccoli alberghi ed appartamenti in affitto e molti piccoli ristoranti e piacevoli caffe’. Benchè sia stato molto trasformato dal torrismo (con pesanti correzioni di sile: importando quello delle più "fortunate" isole dell'Egeo) conserva ancora presenze e testimonianze cretesi. Non ci sono automobili, nonostante qualche scellerato tetativo di costruire una strada carrozzabile.

Cliccare qui per vedere le foto ed altre informazioni su Loutro

Alcune immagini, scattate alla fine dell'aprile 2000.Cliccare qui per vedere le foto

If thou must love me, let it be for nought

Except for love's sake only. Do not say

I love her for her smile--her look--her way

Of speaking gently,--for a trick of thought

That falls in well with mine, and certes brought

A sense of ease on such a day--

For these things in themselves, Beloved, may

Be changed, or change for thee,--and love, so wrought,

May be unwrought so. Neither love me for

Thine own dear pity's wiping my cheek dry,--

A creature might forget to weep, who bore

Thy comfort long, and lose thy love thereby!

But love me for love's sake, that evermore

Thou may'st love on, through love's eternity.

Se devi amarmi per null'altro sia

Che per amore. Mai non dire

"L'amo per il suo sorriso – il suo sguardo - il suo modo

Gentile di parlare - per il suo modo di pensare

Che si accorda a mio e che un giorno

Mi resero sereno". Mio amato, queste cose,

Possono in sè mutare o mutare per te. – E così fatto

Un amore può sfarsi. E ancora non amarmi

Per la pietà che le mie guance asciuga., -

Può scordare il pianto chi ebbe

Il tuo conforto a lungo, e può perdere il tuo amore!

Amami solo per amore dell'amore,

che cresca in te, in un eternità d'amore.

A word is dead

A word is dead

When it is said,

Some say.

I say it just

Begins to live

That day

Nelle motivazioni l'UNESCO sottolinea la caratteristica struttura della città antica Un esempio classico di zonizzazione verticale: al piano terra le mercanzie e gli uomini, al primo piano la vita familiare, sulle terrazze le donne..

Una delle sette piazze

Ghadames è una delle principali città del deserto, l’antica porta verso il Sahara e l’Africa nera, luogo di transito delle carovane che portavano spezie e schiavi, avorio e metalli preziosi dalle regioni dell’Africa centrale verso i porti del Mediterraneo. Di grande interesse è l’antica città carovaniera, ora quasi completamente disabitata, i suoi anditi bui e freschi, le sue piccole piazze aperte al sole, i suoi orti annidati tra case e muri. Dicono che originariamente fosse la sede di sette (o cinque) tribù, ciascuna delle quali aveva una parte della città, una porta e una piazza.

Oggi la città antica è completamente vuota, poichè la popolazione è stata trasferita nella nuova città costruita attorno all'antica. Ci sono andato nel 2000 e ho fatto un po' di fotografie. Sono raccolte in questa cartella

Di grandissimo fascino è affacciarsi sulle dune del deserto, al di là dell’ultimo mitico avamposto della conquista romana, dove il tramonto sugli spazi smisurati delle colline di sabbia ha suggestioni di cui la fotografia restituisce solo una lontana eco.

Leptis Magna è una grandissima città costiera, sorta nell'età fenicia e sviluppata nell’età augustea, abbellita dall’ Imperatore Settimio Severo (nato in quella città), seppellita dalla sabbia portata dal fiume dopo la distruzione dei Vandali, riscoperta di francesi per estrarne colonne e pietre per costruire Versailles, e poi sistematicamente scavata e messa in valore dagli italiani negli anni Trenta. È tra i siti protetti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.

Secondo Sapere Leptis Magna "è il sito archeologico più esteso e affascinante della Libia, ma anche quello meglio conservato di tutto il Mediterraneo. La città nacque come porto fenicio verso l'anno 1000 a.C. grazie alla sua posizione strategica, che consentiva un facile accesso al mare, e alla presenza della foce del fiume Lebdan. Dopo essere stata in guerra contro i Greci di Cirene si arrese alla dominazione Romana. Fu la città natale di Settimio Severo che, divenuto imperatore di Roma, volle trasformarla in una sontuosa citta imperiale. Fece cosi costruire numerosi ed imponenti edifici pubblici, tra cui l'arco quadrifronte posto all'ingresso di Leptis, la via Colonnata, il Porto, le Terme della Caccia, i grandi Templi attorno al Vecchio Foro, che si aggiunsero al Teatro, al Mercato e alle Grandi Terme Adrianee. La città si ampliò tanto da gareggiare in splendore con la stessa Roma e venne definita la "Roma d'Africa". In seguito Leptis Magna venne sommersa dalla sabbia portata dal wadi Ledban per un errore di costruzione del porto. Solo agli inizi del XX secolo, durante degli scavi, la "Città delle ombre bianche", come venne definita dagli arabi, riemerse in tutto il suo splendore".

Foto scattate nell'aprile del 2001 da Edoardo Salzano.

I ciottoli nascondono una falda d'acqua dolce, e delimitano un'acqua chiarissima. Alcuni appassionati vi restano settimane, altri vi arrivano a piedi o in battello per la giornata. Pochi gli indumenti, numerose le capre, eccezionali le oche.

Per vedere le foto e altre informazioni (in inglese) su Glykanera

Maurizio Borghi raccoglie tutti insieme gli scritti in cui Niccolò Tommaseo affronta problemi e questioni linguistiche di carattere teorico, per indagare sull'origine del linguaggio o della scrittura, per discutere sull'unità della lingua italiana, per studiare il rapporto complesso tra popolo e lingua e disquisire di grammatica o sulla possibilità di dare forma all'"indicibile" ( La mirabile sapienza della lingua, Christian Mariotti Edizioni, pagine 226, e 16). È tipico di questo scrittore eclettico, inquieto e ansioso nello studiare e tentare di spiegare tutto, di impostare problemi, di sollevare questioni nella cui elaborazione si avventura per sentieri impervi, spesso cadendo magari in contraddizione. Accade anche in questi scritti, per lo più occasionali, mai sistematici che non sono dissertazioni dottrinali, ma sottili e spesso sofisticati "ragionamenti" — come dice — «intorno alla mirabile sapienza che governa le lingue» e in particolare quella italiana.

Nel Dizionario dei sinonimi Tommaseo definisce così «ragionare»: «È un parlare, rendendo, in qualche modo, ragione a sé e ad altri di ciò che si dice», ben diverso da "discorrere", perché «si può discorrere senza ragione: cosa frequente». Chi «discorre» infatti — spiega — «scorre quasi sopra il soggetto» del suo parlare; chi «ragiona» invece «appoggia» le parole una accanto all'altra in modo da rendere chiaro prima a sé e poi agli altri il senso di ciò che dice.

Pare un principio banale, ma non lo è affatto. Secondo il Dizionario della lingua italiana, compilato sempre da Tommaseo con la collaborazione di Bellini, il «ragionamento» non è «una dimostrazione dottrinale, ma un'esposizione di fatti» nel loro significato o meglio, come si apprende in questi scritti, una particolare conoscenza che si ha dei fatti e che proprio attraverso la parola via via si definisce come tale, per poi magari modificarsi man mano che le parole si snodano o si compongono tra di loro.

Tommaseo è un letterato raffinato, con una tendenza molto spiccata a filosofeggiare. Non si occupa, né tanto meno si preoccupa, di studiare la lingua come veicolo di comunicazione. Tutto al contrario la considera un pozzo inesauribile di «mirabile sapienza»: cioè di conoscenza e di invenzione o meglio ancora di invenzione inesauribile che può espandere all'infinito la conoscenza.

Per lui allora qualsiasi lingua è essenzialmente composta di «traslati». «Per intendere le parole in senso proprio — taglia corto — bisogna essere o arcade o curiale». Chi ha «più corto l'intendimento, e meno sa intendere, usare, e osare i traslati», meno conosce «il mondo esterno come simbolo delle cose invisibili». Non esplicita in questi scritti, ma fermissima, è la polemica con Manzoni: con quella concezione manzoniana che si basa invece sulla «proprietà» del vocabolario, perché una lingua sappia diventare mezzo tra gli uomini per parlarsi e non per imbrogliarsi tra di loro.

Ma l'autore dei Promessi sposi puntava a quella che noi oggi, con una brutta espressione, diciamo una lingua «veicolare»: e ci puntava motivato soprattutto da una preoccupazione morale che imponeva un'equazione necessaria tra parola e verità. Tommaseo disdegna questa impostazione. «Gli affetti — scrive — invigoriscono le lingue, le passioni e i bisogni le fiaccano. Sarebbe il tema di un libro: i significati varii dati alla medesima voce dagli uomini della medesima età in differenti paesi e nel medesimo; e le ragioni di tal varietà. Chi sapesse tutti i significati di tutte le parole di tutte le lingue, saprebbe la storia dell'umanità». Dunque per lui la lingua è tramite di conoscenza e solo incidentalmente di comunicazione.

Devo motivare questo giudizio di cattivo governo? L’ho già fatto in molte occasioni: i documenti sono in eddyburg. Li sintetizzo. Sulle scelte di fondo della città (il MoSE e la devastazione della Laguna, la sublagunare e la turistizzazione selvaggia della città, il destino di Porto Marghera e i provvedimenti da prendere per il rischio della chimica, la politica della casa e il rapporto con la proprietà immobiliare) le giunte che si sono succedute si sono rivelate incerte, divise, e fin dall’inizio sono prevalse le posizioni più corrive con il processo di mercantilizzazione della città e di subalternità rispetto ai poteri forti.

Il sindaco Costa è diventato il più fervido e tenace fautore di questa linea distruttiva, ma essa non è stata inventata all’ultimo momento. I primi atti sono stati compiuti quando era sindaco Cacciari. Tra le prime deliberazioni della sua giunta ci fu lo smantellamento (mediante il bulldozer dell’assessore D’Agostino) di tutti gli strumenti che avrebbero consentito di controllare le destinazioni d’uso: dalla revoca della delibera comunale di recepimento della Legge Mammì sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici, al piano regolatore della città storica che fu profondamente snaturato proprio sul punto del controllo delle destinazioni d’uso. Si avviò (con il progetto Giudecca) il rovesciamento della linea perseguita per un ventennio, con l’accordo di tutti:”nessuna casa nuova se non pubblica e per i cittadini veneziani”. Si avallò la proposta della sublagunare, utile solo ad aumentare l’afflusso del turismo “mordi e fuggi”. E si iniziò con l’atteggiamento remissivo nei confronti del MoSE (“è inutile opporsi, tanto non si farà mai”).

Potrei proseguire. Ma non è questo il punto: il punto è valutare oggi se – una volta constatata l’assoluta incapacità dei partiti, di tutti i partiti, di basare su una critica del passato una proposta diversa per il futuro – l’indispensabile elemento di discontinuità con il passato possa venire dal candidato Felice Casson o dal candidato Massimo Cacciari: poiché è tra questi due che dobbiamo scegliere.

Al primo turno non ho votato per nessuno dei due: il mio è stato un voto sprecato. Adesso non voglio sprecarlo. Non voterò Cacciari, perché è lui che ha avviato la linea che critico, perché è lui che ha abbandonato il campo a metà legislatura, perché è lui che ha incoronato Costa nominandolo suo erede, perchè è lui che ha abbandonato la politica dell’urbanistica all’uomo che rappresenta il più robusto elemento di continuità tra le prime giunte cacciariane e l’ultima.

Voterò invece Felice Casson. Perché è l’unico possibile elemento di discontinuità con il recente passato, pur nella fedeltà ai valori di difesa della città che tutti professano e che lui non ha tradito. E perché ho seguito il suo lavoro di magistrato con stima, con partecipazione, con il costante riconoscimento del suo valore civile: che non può essere estraneo ad alcun mestiere e ad alcun ruolo. Perché ciascuno di noi, quale che sia il suo lavoro, quale che sia la delicatezza del suo ruolo, è innanzitutto un cittadino. Spero vivamente che il cittadino Casson sia eletto sindaco di Venezia, e che sappia dimostrare nel governo della città la stessa autonomia che ha caratterizzato il suo lavoro di magistrato.

E voterò Casson anche perché il suo antagonista ha dichiarato recentemente (8 aprile 2005) che “gli elettori di destra certamente preferiscono Cacciari”. Io sono un elettore di sinistra.

Titolo originale: Banning Cars from Manhattan – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Proponiamo di escludere le auto dall’isola di Manhattan. I veicoli a motore consentiti saranno autobus, piccoli taxi, quelli per i servizi essenziali (medici, polizia, pulizia, consegne ecc.) e i camion per l’industria leggera.

I problemi attuali della congestione e dei parcheggi sono ingestibili, e le altre soluzioni proposte sono diseconomiche, distruttive, poco salubri, antiurbane, o irrealizzabili.

Non è certo necessario dimostrare quanto la situazione attuale sia intollerabile. “Gli autocarri viaggiano ad una media di dieci chilometri l’ora nel traffico, contro i quasi venti all’ora dei veicoli tirati dai cavalli nel 1911. Durante il divieto ai veicoli non essenziali per la grande nevicata del febbraio 1961, l’inquinamento dell’aria è diminuito del 66%” ( New York Times, 13 marzo 1961). La larghezza delle strade di Manhattan è stata decisa nel 1811, per edifici da uno a quattro piani.

Escludendo le auto private e riducendo il traffico è possibile, nella maggior parte delle zone, chiudere nove su dieci delle streets trasversali e una su due delle avenues nord-sud. Queste strade chiuse, più lo spazio che ora viene utilizzato solo per il parcheggio, forniranno un ottimo patrimonio di terreni per la riorganizzazione dei quartieri. Al momento attuale oltre il 35% dell’area di Manhattan è occupata da strade. Invece dell’organizzazione nella griglia attuale, possiamo pensare a vari tipi di quartieri definiti secondo superblocchi approssimativamente di 350 x 550 metri. Converrà comunque conservare l’attuale sistema stradale nei settori commerciali e terziari di midtown, nel distretto finanziario, e ovunque sia indispensabile l’accesso a camion e auto di servizio. Il nostro fine è di aumentare la qualità della vita in città con un minimo di distruzione dell’attuale schema.

Gli svantaggi di questa radicale proposta sono minimi. Le auto private, semplicemente, non valgono i danni che causano. Meno del 15% delle persone che entrano quotidianamente a Manhattan a su della 65° Strada lo fanno con la loro macchina. Il traffico è congestionato, la velocità lenta, il parcheggio difficile, o impossibile, e sempre più costoso. È stato calcolato che il costo di un garage in un nuovo edificio è di 20.000 dollari per auto, la destinazione a parcheggio è un uso povero dei terreni nel cuore di una metropoli, oltre a interrompere la forma e stile dell’ambiente urbano.

I vantaggi della nostra proposta sono notevoli. Importanti e immediati sono il calo della tensione, del rumore, dell’ansia; la pulizia dell’aria da fumi e smog; la diminuzione dell’affollamento dei pedoni; la sicurezza per i bambini. Poi, non meno importante, guadagniamo la possibilità di diversificare la griglia stradale, rendere più bella la città, progettare una vita urbana più integrata.

Problema e soluzione rappresentano probabilmente un caso unico, limitato all’isola di Manhattan, anche se l’esperimento offrirà una valida lezione anche altrove. Manhattan è un centro mondiale di affari, acquisti, moda, divertimenti, editoria, politica, industria leggera. È visitata quotidianamente da folle di pendolari per lavoro, svago, shopping, turisti, e visitatori per affari. C’è, ed è necessaria, una popolazione densa; e l’area è piccola e rigidamente limitata. Manhattan non può diffondersi all’infinito. Potrebbe facilmente diventare piacevole come Venezia, un’adorabile città pedonale. Ma le macchine se ne devono andare.

Nella prima appendice di Communitas abbiamo proposto un piano per Manhattan, con particolare attenzione alle rive del fiume e ai quartieri lungo esse – dirigendo il traffico attraverso il centro, e sacrificando anche Central Park al miglioramento generale; ma ora crediamo che un primo passo, molto più semplice, verso la città vivibile, sia l’eliminazione di gran parte del traffico.

Manhattan ha perso popolazione verso il suburbio e la campagna circostante, con un grosso incremento del pendolarismo giornaliero. Un centro più desiderabile potrebbe ridurre o addirittura eliminare questa tendenza. È davvero possibile diminuire il pendolarismo all’interno della città. Il complesso residenziale ILGWU vicino al distretto tessile indica il modo. Sarebbe anche utile istituire un ufficio municipale per facilitare l’abitazione nei pressi dei luoghi di lavoro, se si decide così, organizzando scambi di residenza vantaggiosi per tutte le parti. Ciò sarebbe possibile in molte migliaia di casi e vale certamente la pena tentare.

(L’assenza di questo semplice espediente nella nostra società è il risultato di una mancanza di attenzione alla città. Non esiste un ufficio che presieda ai problemi multiformi della comunità, a integrare le funzioni della vita. Cfr. Communitas, Appendice C).

ParcheggiPeriferici

Le auto private escluse dalla circolazione verrebbero ospitate in vari tipi di parcheggi periferici, così come studiati da chi scrive, Louis Kahn, Victor Gruen, e altri.

Al momento attuale le auto di molte migliaia di pendolari sono abbandonate alle fermate suburbane della ferrovia, o a più o meno comode stazioni della metropolitana a Queens, Brooklyn, e nel Bronx. Questo per l’ovvia riluttanza da parte degli automobilisti a entrare in Manhattan. Noi semplicemente proponiamo di generalizzare questa decisione di buon senso, e di utilizzarla come base per altri ulteriori vantaggi.

In aggiunta, proponiamo la costruzione di moli-parcheggio multiuso sull’Hudson e l’East River per le macchine che entrano dai principali ponti e tunnels. Questi moli potrebbero essere organizzati come passeggi, luoghi di ricreazione, o anche residenza, progettati come parte dell’insediamento lungo il fiume proposto nella Appendice A di Communitas.

I moli sarebbero serviti da autobus e taxi. Facciamo un esempio particolare. Un grande magazzino, come Macy’s, potrebbe offrire limousines da qui per i propri clienti, compreso servizio di consegna dei pacchi sino alle auto parcheggiate.

Strade

Le grandi strade commerciali traversali – Greenwich Avenue, Quattordicesima, Ventitreesima, Quarantaduesima, Cinquantasettesima, Cinquantanovesima ecc. – vengono mantenute come arterie a doppio scorrimento per autobus e taxi; e lo stesso le avenues Prima, Terza, Quinta, Settima, Broadway, Nona, Undicesima. Dovrebbero offrire un’adeguata circolazione al traffico residuo (ma si deve sperimentarlo). Come indicato sopra, si dovrebbe mantenere la griglia stradale esistente a midtown – dalla Trentatreesima alla Cinquantanovesima- a servizio di negozi, teatri ecc., e lo stesso in altri casi particolari (si dovrebbe studiare ciascuna strada individualmente).

Tutte le altre strade diventano percorsi pedonali, larghi abbastanza da servire anche come strada a senso unico per veicoli di servizio: antincendio, spazzatura, posta, e via dicendo.

Lo schema proposto di strade di attraversamento è tale che la distanza massima dalla più vicina fermata di autobus sia sempre inferiore ai 300 metri. Ovvero quella delle fermate di metropolitana. In generale, il servizio di autobus in Manhattan viene ampliato, ripristinando i veicoli a due livelli. Dobbiamo tenere in mente che con la fine della congestione, e l’immensa diminuzione degli attraversamenti pedonali, il limite di velocità per taxi e autobus espressi potrebbe essere innalzato a 40 o 50 all’ora. Dato che c’è meno bisogno di attraversare, è possibile eliminare anche gli attraversamenti pericolosi, e forse realizzare ponti e tunnel pedonali. In generale, visto il miglioramento del servizio di autobus, la gran parte degli spostamenti in città dovrebbe essere più veloce e comoda di quanto non sia ora con l’auto privata.

Ci sarebbero più taxi. Li pensiamo piccoli, metà dell’attuale lunghezza. Potrebbero essere elettrici. È assurdo che i taxi in una metropoli con limiti di velocità siano le stesse auto progettate per gli spostamenti delle famiglie sulle grandi autostrade.

Il sistema della griglia stradale, se aperto e con isolati più ampi, è pratico e offre una certa grandiosità d’aspetto. Per evitare la noia delle prospettive infinite, comunque, raccomandiamo di tagliare alcune strade con edifici o di creare altri effetti spaziali. Ciascuna street e avenue dovrebbe essere studiata a sé come singolo problema artistico. L’ideale, per New York come per qualunque altra grande città, è di diventare un insieme di vasti quartieri integrati, che condividono un centro metropolitano e altre strutture. I quartieri si differenziano perché comprendono una grande varietà di abitanti e funzioni, che possono essere amministrate in modo relativamente indipendente ciascun quartiere. Non c’è motivo perché siano tutti uguali. Un settore prevalentemente di residenza per famiglie, ad esempio, può controllare autonomamente la propria scuola, con bilancio fiscale scolastico amministrato dalla locale Associazione Genitori-Insegnanti. L’Ufficio Centrale per l’Istruzione dovrebbe dettare alcuni standard minimi e provvedere che i quartieri meno privilegiati abbiano una giusta quota della fiscalità generale; ma non deve ostacolare, come avviene ora, qualunque cambiamento o sperimentazione. La speranza è di diminuire drasticamente la quantità di “amministrazione”: al momento attuale ci sono più amministratori nel sistema scolastico di New York City, di quanti ce ne siano in tutta la Francia. Riteniamo anche che l’esercizio locale di iniziativa politica sui vari problemi come scuola, abitazione, urbanistica, possa educare l’elettorato e rendere possibile una vera democrazia. Il quartiere dovrebbe essere pensato per aumentare la fiducia reciproca dei vicini e aumentare la loro responsabilità per quanto riguarda la scuola, i mercati, gli spazi da gioco, lo zoning, e via dicendo. Nell’insieme un complesso simile potrebbe funzionare come unità elettorale municipale minima. Contemporaneamente, tutti i quartieri integrati condividono nello spazio della grande città alcuni negozi, i teatri, gli alberghi, musei, le entità nazionali. Scopo della pianificazione integrata è creare una comunità a scala umana, con raggruppamenti gestibili, intermediari fra individui, famiglie e metropoli; è reagire all’isolamento dell’individuo nella società di massa. Naturalmente, in una regione vasta come quella di New York ci potranno essere molte migliaia di persone che scelgono, esattamente, di essere individui isolati – forse sono venuti qui apposta – ma anche essi costituiscono un particolare e valido contributo al tutto federato, e si può rispondere ai loro bisogni ad esempio in centro, in case albergo, o quartieri pensati allo scopo. È curioso, da questo punto di vista, che gli “individualisti” venuti a New York per sfuggire l’ambiente conformista delle piccole città, trovino di avere tanto in comune l’uno con l’altro, al punto da costituire una famosa comunità, quella intellettuale e artistica del Greenwich Village.

Nel costruire l’ideale di città fatta di comunità federate, il semplice strumento del divieto per le auto private e della riorganizzazione della griglia stradale è una grande passo in avanti. Le nuove strade consentono superblocchi di tre o quattro ettari (per fare un paragone, Stuyvesant Town copre 6,5 ettari). Con invenzioni formali orientate ad ottenere la massima varietà di paesaggi, usi del suolo e altezze degli edifici, esiste una possibilità senza precedenti per decine di soluzioni diverse, che possono superare per bellezza e senso urbano anche le piazze e crescents della Londra settecentesca. C’è spazio per la ricreazione e il gioco. Ad esempio, la lunghezza di un campo da tennis corrisponde a quella della Nona Avenue; qualunque incrocio è adatto a un campo da softball. Visto l’ampio capitale di nuovi spazi resi disponibili, e che ora sono sprecati per traffico e parcheggi per la maggior parte non necessari, è possibile costruire nuovi quartieri in modo più libero, con uno studio attento e senza problemi di rimozione o spostamento di ostacoli, là dove esistono. Raccomandiamo in modo particolare concorsi e consultazioni pubbliche tramite referendum, per evitare le imposizioni burocratiche ed educare all’impegno collettivo sui propri problemi.

Modi di applicazione

La messa in pratica legale del proposto divieto non dovrebbe essere difficile. Al momento attuale nelle strade sono vietati giochi e altre attività. Il sindaco ha chiuso le strade al traffico durante l’emergenza per la rimozione della neve: anche se il suo diritto di imporre il divieto è stato messo in discussione. Abbiamo avuto una tassa sui veicoli; potrebbe essere tanto pesante da diventare proibitiva. Si potrebbe imporre una tariffa di ingresso proibitiva.

Il divieto, naturalmente, potrebbe essere interpretato in modo tollerante per consentire alcuni casi e usi di emergenza. Per esempio una famiglia che parte per un viaggio potrebbe usare la macchina per il carico. Nello stesso modo, ci potrebbe essere la possibilità per le macchine di attraversare Manhattan da est a ovest.

È probabile che si possa sospendere il divieto alle auto nei fine settimana, quando il traffico di autobus e camion diminuisce di molto. In particolare nei mesi estivi questo sarebbe conveniente per chi esce di città nel week-end.

Conclusioni

Questa proposta ci sembra una cosa di buon senso. Le automobili hanno causato gravi danni e ne stanno causando di peggiori, la situazione è davvero critica. Le soluzioni proposte sinora però – nuove norme sul traffico, nuove strade, parcheggi sotterranei multilivello – portano tutte il tipico segno della progettazione americana: alleviare il dolore con cure che presto peggiorano la malattia. Ma nel caso particolare di Manhattan, l’elementare cura radicale, di liberarsi delle auto, causerebbe poche difficoltà e avrebbe vantaggi immensi e meravigliosi (naturalmente in città diffuse come Los Angeles o Cleveland, non ci si può liberare delle macchine. E conseguentemente, questi luoghi mancano di centro e senso urbano).

Il vantaggio principale della proposta è che offre una possibilità. Non si limita a curare un male o a fornire un modo di fare la stessa cosa in modo più efficiente, ma apre l’opportunità di pensare a soluzioni ideali, valori umani, nuovi modi di fare le cose. La gran parte dei grandi progetti, però, quelli che si chiamano Urban Renewal, sono diversi dal punto di vista umano. Non si migliorerà la qualità della vita nei nostri centri con un’urbanistica del genere, ma con un po’ di psicologia sociale elementare e di buon senso.

E infine, pensate se uno dei nostri candidati a sindaco si convincesse dei vantaggi della proposta e la facesse entrare nel suo programma elettorale. È difficile da pensare, perché si tratta di una questione concreta, di quelle che non sono mai proposte agli elettori: vengono lasciate a particolari “esperti”, ovvero a interessi particolari. Gli elettori non hanno vere scelte su cui riflettere, e quindi non imparano mai a pensare. Votano invece per la personalità, o secondo l’orientamento etnico o di partito. Le proposte dei concorrenti sono entrambe vaghe, e identiche.

Se si proponesse un piano come questo come punto qualificante, crediamo che il candidato forse perderebbe al primo tentativo, considerato radicale, irresponsabile, avventuroso; ma alla tornata successiva, quando la gente avrà avuto la possibilità di riflettere a fondo sul problema, vedrà che la cosa ha senso.

Nota: il testo originale di questo articolo è anche disponibile online al sito Bureau of Public Secrets ; alcune idee contemporanee per Manhattan dello stesso segno, accennate anche qui, sono riportate in uno degli articoli su Eddyburg riguardanti Victor Gruen ; il caso di Venezia, paradigmatico della città pedonale e citato anche dai Goodman, è ben riassunto in questo estratto di Colin Buchanan dal suo classico "Traffic in Towns" del 1963 (f.b.)

Da Nuova società, n.67, 15 novembre 1975. Intervento in un’inchiesta pubblicata successivamente in volume: Com’è bella la città, Torino 1977.

Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme numero d’elementi che a ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma d’una macchina dal quale si possa capire come funziona.

Il paragone della città con la macchina è nello stesso tempo pertinente e fuorviante. Pertinente perché una città vive in quanto funziona, cioè serve a viverci e a far vivere. Fuorviante perché a differenza delle macchine che sono create in vista di una determinata funzione, le città sono tutte o quasi il risultato d’adattamenti successivi a funzioni diverse, non previste dal loro impianto precedente.(Penso alle città italiane, con la loro storia di secoli o di millenni).

Più che quello con la macchina, è il paragone con l’organismo vivente nell’evoluzione della specie, che può dirci qualcosa d’importante sulla città: come nel passare da un’era all’altra le specie viventi adattano i loro organi a nuove funzioni o scompaiono, così le città. E non bisogna dimenticare che nella storia dell’evoluzione ogni specie si porta dietro caratteri che sembrano relitti di altre ere in quanto non corrispondono più a necessità vitali, ma che magari un giorno, in mutate condizioni ambientali, saranno quelli che salveranno la specie dall’estinzione. Così la forza della continuità d’una città può consistete in caratteri ed elementi che oggi sembrano prescindibili perché dimenticati o contraddetti dal suo funzionamento odierno.

Lento e rapido che sia, ogni movimento in atto nella società deforma e riadatta - o degrada irreparabilmente – il tessuto urbano, la sua topografia, la sua sociologia, la sua cultura istituzionale e la sua cultura di massa ( diciamo: la sua antropologia). Crediamo di continuare a guardare la stessa città, e ne abbiamo davanti un’altra,ancora inedita, ancora da definire, per la quale valgono “istruzioni per l’uso” diverse e contraddittorie, eppure applicate, coscientemente o meno, da gruppi sociali di centinaia di migliaia di persone.

Le trasformazioni degli agglomerati urbani a seguito della rivoluzione industriale, nell’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento, furono incontrollate e catastrofiche, e condizionarono la vita di milioni e milioni di persone; ma dovevano passare decenni prima che gli inglesi si rendessero conto esattamente di cosa stava succedendo .Dickens, che fu forse il primo a sentire il clima di quest’epoca negli aspetti spettrali di Londra e nei contraccolpi sui destini individuali, non registra mai immagini che si riferiscano direttamente alla condizione operaia. Neanche quando deve descrivere una sua visita a Manchester, dove i quartieri operai e il lavoro nelle fabbriche tessili offrono il quadro più drammatico, riesce a dire quello che ha visto, come se una censura interna l’avesse cancellato dalla sua mente.

Poco dopo è Carlyle a visitare Manchester:la sensazione che gli resta più impressa e che ritornerà più volte nella sua opera, dapprima con accenti di angoscia,e poi d’esaltazione,è l’improvviso fragore che lo risveglia all’alba,e di cui lì per lì non comprende l’origine: le migliaia di telati che vengono messi in moto tutt’insieme.

Bisognerà attendere che un giovane tedesco, figlio del proprietario d’una di quelle fabbriche tessili,scriva un saggio famoso,perché Manchester,quella Manchester,diventi il modello più tipico e più negativo di una città industriale. Perché solo lui, Friedrich Engels, riunisce in sé parecchie condizioni che gli altri non avevano:uno sguardo che proviene dall’esterno(in quanto straniero) ma anche dall’interno(in quanto appartiene al mondo dei padroni), un’attenzione al “negativo” propria della filosofia di Hegel in cui s’è formato, una determinazione critica e demistificatoria cui lo porta l’orientamento socialista.

Sto riassumendo il libro recente di uno studioso americano (Steven Marcus, Engles, Manchester e la classe lavoratrice, 1974) che ricostruisce come il giovane Engles riesca nel suo primo libro a vedere e a descrivere quello che gli altri avevano sotto gli occhi ma cancellavano dalla loro menti. L’intento di Steven Marcus –un critico letterario che applica con intelligenza la sua indagine a testi extraletterari -, è quello di rintracciare la genesi di un’immagine insieme visuale e concettuale, che appena viene espressa appare subito evidente e incontrovertibile, ma che è il risultato d’un processo conoscitivo non così ovvio e “naturale” come sembra.

L’esempio di Manchester studiato da Marcus mi serve come illustrazione retrospettiva dell’idea che stavo cercando di mettere a fuoco riferendomi all’oggi. Penso alle tante città italiane che in questi mesi sembra stiano tornando a guardarsi in faccia, dopo anni attraversati come alla cieca. Nuove amministrazioni succedono al malgoverno durato decenni interi:un lungo periodo che ha visto l’urbanizzazione di masse enormi, senza alcun piano che prevedesse il loro inserimento, un’epoca in cui la forza degli interessi particolari palesi o nascosti ha corroso ogni progetto di sviluppo sensato. E’ con occhi nuovi che oggi ci si pone a guardare la città, dove composizione sociale, densità di abitanti per metro quadrato costruito, dialetti, morale pubblica e familiare, divertimenti, stratificazioni del mercato,modi di ingegnarsi a sopperire e alle deficienze dei servizi, di morire o sopravvivere negli ospedali, di imparare nelle scuole o nella strada, sono elementi che si compongono in una mappa intricata e fluida, difficile a ricondurre all’essenzialità d’uno schema. Ma è di qui che bisogna partire per capire - primo - come la città è fatta, e – secondo - come la si può rifare.

Infatti, la chiaroveggenza critica della negatività d’un processo ormai avanzato non può oggi bastarci:questo tessuto con le sue parti vitali( anche si solo d’una vitalità biologica e non razionale) e con le sue parti disgregate o cancerose è il materiale da cui la città di domani prenderà forma, in bene o in male, secondo il nostro intento se avremo saputo vedere e intervenire oggi,o contro di esso nel caso contrario.Tanto più l’immagine che trarremo dall’oggi sarà negativa, tanto più occorrerà proiettarci una possibile immagine positiva versi la quale tendere.

Detto questo, sottolineata cioè la necessità di tener conto di come città diverse si succedono e si sovrappongono sotto uno stesso nome di città , occorre non perdere di vista quale è stato l’elemento di continuità che la città ha perpetuato lungo tutta la sua storia, quello che l’ ha distinta dalle altre città e le ha dato un senso. Ogni città ha un suo ”programma” implicito che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista, pena l’estinzione. Gli antichi rappresentavano lo spirito della città, con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che l’operazione comporta, evocando i nomi degli dei che avevano presieduto alla sua fondazione: nomi che equivalevano a personificazioni d’attitudini vitali del comportamento umano e dovevano garantire la vocazione profonda della città, oppure personificazioni d’elementi ambientali, un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione, che dovevano garantire della sua persistenza come immagine attraverso tutte le trasformazioni successive , come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, veder cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dei.

Un piatto del Sud della Sardegna, ogni tempo. Le fregole sono una sorta di couscous sardo: si ottengono lavorando in grumi del diametro di 3-4 mm, acqua e farina e poi tostando. L’origine del nome è probabilmente legata al fatto che si chiama fregolo il complesso delle uova emesso dalle femmine dei pesci, ed è proprio a delle uova di pesce che somigliano le fregole). Si trovano in commercio, anche aromatizzate, in pacchi da mezzo chilo, nei negozi che vendono prodotti tipici. Arsella, invece, è il nome sardo, di origine genovese e di etimo latino (da arcella, diminutivo di arca, astuccio) della vongola. La preparazione è semplice, il risultato garantito. Si prepara un brodetto di pesce, molto liquido e un po’ rosato con aggiunta di pomodoro, con avanzi della lavorazione di altri piatti (teste, code, brodo di lessatura di calamari o polpi, ecc.), aglio, sale q.b. Si mescola il brodo all’acqua di cottura delle fregole, che vanno versate, come la pasta, a bollitura. Le fregole impiegano intorno ai dodici minuti per cuocere, per cui, dopo averle versate nell’acqua bollente, in una padella si fanno aprire 3-4 etti di vongole veraci, con pochissimo olio e un aglio vestito. A dieci minuti di cottura con coperchio, il fuoco sotto le vongole va spento. Nel frattempo le fregole saranno pronte, ma non vanno scolate, piuttosto va eliminato con il mestolo un po’ del brodo di cottura, fino a raggiungere la proporzione 1/1. A quel punto si aggiunge alla minestra di fregole la padellata di vongole aperte con tutti i gusci. Si lascia riposare qualche minuto e si porta in tavola in una zuppiera.

Ingredienti

(le quantità sono per una crostata medio/grande)

500 gr. di farina;

250 gr. di zucchero;

250 gr. di burro o di margarina (la ricetta originale prevede, in verità, lo strutto, che ormai non si trova facilmente e che, comunque, è assai pesante);

5 rossi d’uovo;

buccia grattugiata di un limone;

un pizzico di sale.

Preparazione

Su un ripiano, mettere la farina a fontana (fare, cioè, con la farina una specie di ciambella). Al centro, gradatamente, mettere lo zucchero, il burro ammorbidito (non sciolto) i rossi d’uovo, il sale e la buccia grattugiata del limone. Impastare con le mani. Questa pasta non va lavorata molto e, quindi, appena gli ingredienti si sono amalgamati, fare una palla e avvolgerla in un panno, indi porla in frigo a riposare per mezz’ora.

Comporre secondo la ricetta desiderata. Questa pasta ha bisogno (normalmente, ma dipende dagli ingredienti del dolce) di 40/50 minuti di cottura in forno preriscaldato a 180°.

Si tratta di una torta al cioccolato di vecchissima tradizione, nota, in Emilia, nella versione elaborata dalla mitica pasticceria Mimì di San Giovanni in Persiceto, fornitrice della real casa. Ma dal 25 giugno 2005 è, per noi, semplicemente, la torta di eddyburg.

INGREDIENTI

cioccolato fondente 200 gr.

burro 100 gr.

zucchero 200 gr.

3 uova

2 cucchiai di farina

una bustina di vanillina

zucchero a velo (per il decoro)

PREPARAZIONE

Sciogliete a bagnomaria cioccolato e burro a pezzetti. Mescolate lo zucchero e i tuorli d'uovo, lasciando all'impasto una consistenza grumosa, aggiungete due cucchiai rasi di farina, la bustina di vanillina e il composto di cioccolato. Da ultimo, con grande delicatezza, unite gli albumi montati a neve fermissima.

In forno a 180° per 35 minuti. Spolverizzate con zucchero a velo.

Corollario birichino: la torta fa parte del pregiatissimo Ricettario del cornuto, in quanto di rapidissima esecuzione e facilissima riuscita...Il marito al rientro serale: "Cara, cosa hai fatto oggi?" "Caro, ho cucinato per te tutto il giorno, sentirai che torta sublime!"

Qui lo statuto dell'associazione Amici di eddyburg.it (onlus)

I quadri di ogni esercito hanno il dovere di conoscere il.proprio Paese, i Paesi vicini e quelli che, in relazione all’indirizzo politico del Governo, possono costituire probabili teatri di guerra in eventuali futuri conflitti. Per consentire tale conoscenza vengono compilate monografie geografiche-militari, in cui lo studio dei vari elementi geografici (fisici, biologici, antropici) è fatto in funzione di esigenze puramente militari. Lo studio comprenderà quindi una prima parte essenzialmente riferita all’inquadramento geografico-topografico della regione ed una seconda relativa alla raccolta di dati su corsi d’acqua, laghi, bacini artificiali, centrali elettriche, stabilimenti industriali, rotabili, ferrovie, porti, aeroporti, ecc., ecc., la cui influenza sulle operazioni militari è di enorme importanza.

In breve lo studio geografico militare di una determinata regione costituisce la base indispensabile per la compilazione dei piani operativi e per le predisposizioni di carattere logistico da adottare. Infatti, quelle volte in cui un esercito si è presentato ad operare lontano dal proprio ambiente geografico (guerre coloniali) senza aver preventivamente studiato profondamente il nuovo ambiente, si è trovato, soprattutto inizialmente, in condizioni di assoluta inferiorità specie per quanto si riferisce alla organizzazione logistica in genere.

L’ambiente geografico è costituito da un complesso di elementi la cui conoscenza è necessaria per le deduzioni di carattere militare. Così ad esempio, dallo studio del terreno è possibile precisare le zone idonee all’impiego di G.U . motorizzate e corazzate, i tratti maggiormente idonei a grandi sbarchi dall’aria e dal mare, le zone naturali di ostacolo, ecc. ; dalle condizioni climatiche è possibile dedurre le predisposizioni di natura logistica da adottare, quale epoca dell’anno meglio si presta allo svolgersi di grandi operazioni militari, ecc. ecc.

Abbiamo citato il terreno, il clima, ma tutti gli elementi di natura geografica propri di una data regione fanno sentire più o meno fortemente il loro peso nelle operazioni militari. È necessario quindi procedere allo studio di tutti questi elementi; esso potrà essere alquanto sommario o molto particolareggiato in relazione alla posizione del Paese in esame rispetto al proprio, alla sua estensione, alle particolarità di ordine fisico, biologico ed antropico che presenta ed infine allo scopo per il quale lo studio stesso viene eseguito.

Nasce perciò un criterio di differenziazione per la compilazione di tali studi, in cui la scala da adoperare può essere: geografica, corografica, topografica.

Lo studio a scala geografica, riferito in genere a regioni di notevole estensione, deve fornire le linee maestre del vari elementi geografici, di modo che il militare possa avere una visione completa delle condizioni fisiche (terreno, clima, acque), biologiche (flora e fauna) ed antropiche (ambiente umano, risorse, comunicazioni, condizioni politiche e sociali) della regione stessa, da cui trarre quelle considerazioni atte a meglio definire le direttive di carattere strategico-logistico sia di natura offensiva che difensiva. In breve da un lavoro monografico a scala geografica uno S.M. deve poter ricavare tutti quegli elementi geografici necessari per la soluzione di un problema strategico-logistico.

Lo studio a scala corografica, limita in genere la sua visione a regioni meno estese, coincidenti spesso con unità geografiche ben distinte che possono o meno far parte di una determinata unità politica o possono anche appartenere a più unità politiche (esempio la regione alpina). Questo studio che analogamente al precedente riguarda tutti gli elementi geografici citati, ha però uno sviluppo più profondo in quanto non può limitarsi a tracciare le linee generali della regione, ma deve scendere in maggiori dettagli per fornire agli S. M. delle G.U. notizie e dati necessari per una completa, buona, anche se non minuta, conoscenza della regione in cui eventualmente la G.U. stessa può essere chiamata ad operare.

Ed infine si passa allo studio monografico topografico in cui la zona che si considera è veramente assai limitata. Trattasi di uno studio minuto che serve ad integrare la descrizione del terreno svolta nelle monografie corografiche cercando di dare maggiore sviluppo alle comunicazioni, alle risorse logistiche, alla vegetazione (specie boschi), alla popolazione, ecc.

Abbiamo esaminato lo studio dell’ambiente geografico nel suo complesso; ciò non esclude, che, sempre ai fini militari, l’ambiente possa essere esaminato sotto particolari aspetti dando cosi luogo a studi di origine diversa aventi cioè scopi ben definiti e circoscritti. Ad esempio si possono avere studi di carattere logistico in cui si cerca di esaminare solo gli elementi (comunicazioni, risorse, ecc.) che possono essere utilizzati nel campo dei servizi; di carattere organico in cui si cerca di stabilire il potenziale umano di una data regione, ecc. ecc.

Sono studi questi che pur essendo caratterizzati soltanto da uno o più elementi dell’ambiente geografico, richiedono però sempre una visione generale degli altri elementi in cui venga messo bene in evidenza l’influenza di questi ultimi sui primi. Solo così si possono ricavare delle considerazioni armoniche e complete su cui basare lo studio di carattere militare.

Precisato cosi, scopo e limiti di uno studio geografico militare di una data regione, cerchiamo di tracciare, sulla base di studi al riguardo effettuati da insigni cultori di geografia militare (Generali Sironi, Porro, De Ambrosis ed altri), una sintesi degli argomenti da prendere in esame e le norme principali per la compilazione di un organico lavoro monografico, che tenga conto degli elementi necessari per lo sviluppo di operazioni militari in relazione ai moderni mezzi.

Abbiamo cercato di definire un metodo che possa essere applicato sia per la redazione di monografie geografiche, sia corografiche, sia infine topografiche; le modificazioni deriveranno più che altro dal peso che, dal punto di vista militare, possono avere i vari elementi geografici, nei diversi casi.

Nell’esposizione che segue ci si riferisce essenzialmente ad uno studio monografico a scala corografica che è quello che meglio si presta per una trattazione completa in quanto le deduzioni di carattere militare da esso derivanti hanno interesse sia per gli organi centrali che per gli S.M. periferici nella compilazione dei rispettivi piani operativi.

I criteri di guida nello svolgimento dello studio monografico sono essenzialmente tre:

- descrizione dei vari elementi geografici o topografici così come essi si presentano; descrizione quindi a carattere obiettivo;

- raccolta di dati statistici presso gli enti civili (nazionali, regionali, provinciali, ecc.). In regioni arretrate di civiltà (zone coloniali) un tale compito è difficile, non sempre possibile e comunque i dati che si ottengono sono molto empirici;

- considerazioni militari: riguardano l’influenza che i vari elementi possono esercitare sulle operazioni militari in genere, prescindendo da specifiche ipotesi operative. Esse pur avendo carattere essenzialmente oggettivo, risentono però notevolmente della valutazione personali del compilatore.

SCHEMA DEGLI ARGOMENTI DA TRATTARE IN UNO STUDIO GEOGRAFICO MILITARE

Esso normalmente comprende: PREMESSA:

- limiti della regione;

- criteri seguiti nella compilazione del lavoro;

-cartografia da consultare.

Parte I - ASPETTI FISICO-BIOLOGICI.

Cap. 1° - TERRENO: configurazione planimetrica: studio inteso a determinare le dimensioni lineari e planimetriche, nonché la posizione geografica riferita sia alla terra (posizione astronomica), sia all’ambiente geografico circostante (isola, penisola, regione marittima., ecc.);

- configurazione altimetrica: studio descrittivo delle forme complessive e particolari della regione con brevi cenni sulla costituzione litologica.

Cap. 2° - CLIMA: esame dei vari elementi: temperatura, venti, precipitazioni umidità, nebulosità e studio dei loro effetti sugli altri elementi geografici, specialmente sul rivestimento vegetale e sull’uomo.

Cap. 3° - ACQUE: studio dei corsi d’acqua (fiumi, canali), laghi, paludi, stagni, nevi, ghiacciai, acque sotterranee, lagune, mare.

Cap. 4° - VEGETAZIONE: esame delle forme di vegetazione naturale e di coltivazioni predominanti.

Cap. 5° - AMBIENTE ANIMALE: brevi cenni limitati agli animali apportatori di malattie (zanzare; ecc.), a quelli velenosi o feroci ed a quelli utili.

Cap. 6° - CONSIDERAZIONI MILITARI: dal complesso degli aspetti fisico-biologici della regione trarre tutte quelle deduzioni che possono avere influenza sulle operazioni militari; cosi ad esempio dal:

Terreno: zone di ostacolo, linee di facilitazione al movimento e tratti idonei allo sbarramento, zone idonee all’impiego di G.U. motorizzate e corazzate, praticabilità riferita ai diversi mezzi d’impiego, zone idonee a sbarchi aerei o dal mare di unità consistenti, cavità sotterranee che per la loro capacità possono essere utilizzate ai fini militari, zone maggiormente soggette a frane, ecc.

Clima: epoca più idonea per eseguire operazioni di grandi masse, particolare attrezzatura logistica per operare in determinate zone, scelta più conveniente delle truppe d’impiego, epoca di utilizzazione di alcuni porti nelle regioni nordiche, influenza delle grandi piogge sulle operazioni militari (sull’altopiano eritreo-etiopico esse impongono una sosta in estate), influenza dei venti violenti (esempio, sulle coste della Somalia non è possibile lo sbarco di grossi piroscafi durante il periodo del monsone di S.O.), influenza delle forti escursioni termiche giornaliere ed annuali (specie nelle regioni non temperate esse esigono particolari previdenze di carattere logistico), ecc.

Acque: corsi d’acqua (fiumi e canali) che per il loro andamento e per il loro valore di ostacolo possono essere utilizzati ai fini della difesa, possibilità di inondazione ai fini militari, influenza delle zone paludose sulle operazioni militari, influenza della scarsezza di acqua (le regioni desertiche e carsiche impongono l’organizzazione di un servizio idrico imponente), ecc.

Vegetazione: influenza sulla praticabilità ai vari mezzi di trasporto e combattimento, copertura dall’alto e da osservatori terrestri, impiego delle G.U. ecc:

Parte II. - ASPETTI ANTROPICI.

Cap. 7° - AMBIENTE UMANO: popolazione assoluta, densità, movimento, ripartizione in relazione all’attività economica, religione, lingua, insediamento sparso ed accentrato, centri urbani.

Cap. 8° - COMUNICAZIONI: stradali, ferroviarie, via acquea (marittime, fluviali, lacuali), via aerea.

Cap. 9° - RISORSE ECONOMICHE:

- agricoltura in senso ampio;

- allevamento del bestiame;

- industrie ( estrattive, edili, elettriche, tessili, meccaniche, chimiche, ecc. );

- commercio: interno; esterno (importazione ed esportazione); di transito.

Cap. 10° - CONDIZIONI SOCIALI E POLITICHE: organizzazione amministrativa, giuridica, militare, politica. Libertà esistenti, giustizia sociale.

Cap. 11° -CONSIDERAZIONI MILITARI: riferite a:

- l’ambiente umano: prevedibile massa degli armati della regione, utilizzazione ai fini militari della popolazione in relazione all’attività civile, individuazione di obiettivi a carattere strategico (grossi centri urbani), possibilità di accantonamento, ecc.

- le comunicazioni: ripartizione della regione in relazione alla percorribilità, utilizzazione ai fini militari dei vari mezzi di comunicazione (stradali, ferroviari, acquei ed aerei), provvidenze da adottare per la difesa contraerea delle basi e delle linee di comunicazione, individuazione di obiettivi (basi e nodi di comunicazioni), ecc.

- le risorse: valutazione delle derrate o di beni in genere utili alle truppe operanti, valore potenziale delle ,"arie industrie ai fini bellici, possibilità di una rapida o lenta mobilitazione industriale, individuazione di obiettivi (centri industriali di importanza bellica), ecc.

- le condizioni sociali e politiche: possibilità di determinare le aspirazioni del Paese, lo spirito che le anima, gli ordinamenti militari, i legami più o meno solidi che uniscono le istituzioni militari e quelle civili, ecc.

Parte III - SINTESI GEOGRAFICO-MILITARE.

Dall’esame complessivo dei vari elementi geografici precedentemente fatto si giunge ad una sintesi delle condizioni geografico-militari da cui scaturisce:

- il valore militare della regione in sé stessa ed in unione a quelle contermini;

- il potenziale bellico della regione in quel dato momento e gli eventuali elementi di ulteriore sviluppo o regresso in futuro;

- l’eventuale ripartizione della regione in zone minori, ciascuna avente propria individualità strategico-logistica ;

- le zone maggiormente idonee (per continuità ed ampiezza) come posizioni difensive e quelle di maggiore facilitazione ad operazioni di grandi masse;

- obiettivi di notevole importanza strategico-logistica della regione.

Quanto suesposto non deve essere considerato uno schema rigido, ma una guida in cui lo sviluppo delle diverse parti può variare notevolmente in relazione essenzialmente all’estensione della regione che si considera, ed allo scopo speciale per il quale lo studio è effettuato. Potrà quindi accadere in alcuni casi di non considerare tutti gli elementi di natura geografica come precedentemente accennati. Oppure dare uno sviluppo maggiore o minore a quel dato elemento che da solo caratterizza la zona o che nello studio particolare che si fa ha influenza predominante o trascurabile.

Inoltre nello schema tracciato le condizioni militari sono state prospettate in linea generica; senza cioè avere come base un’ipotesi operativa qualsiasi. È naturale quindi che allorquando lo studio dovesse essere eseguito in base ad una determinata ipotesi operativa, le considerazioni di carattere militare, pur senza entrare nel campo operativo, dovrebbero essere dedotte, non più in senso generico, ma in relazione all’ipotesi formulata. In tal caso lo studio deve anche dire quali provvedimenti adottare per valorizzare gli elementi attivi dell’ambiente geografico e quali adottare per ridurre o eliminare l’influenza di quello o quegli elementi geografici che nell’ipotesi formulata agiscono in modo negativo.

Lo studio geografico-militare suesposto nella sua esecuzione può svilupparsi attraverso le seguenti tre fasi:

1° - studio della regione in base alla cartografia ed alle pubblicazioni esistenti;

2° - ricognizioni e raccolta di dati;

3° - elaborazione e redazione.

Esso, in genere, si concreta in una memoria descrittiva, in una parte grafica (carte e schizzi) ed in un’appendice con dati vari.

La memoria descrittiva è bene sia sintetica, chiara, precisa e contenga tutto ciò che non è conveniente o possibile rappresentare graficamente o con specchi; evitare di riportare tutto ciò che chiaramente risulta dalla carta.

La parte grafica è bene sia molto sviluppata; essa potrà comprendere:

- carte geografiche, corografiche o topografiche della regione in relazione all’estensione del territorio ed ai fini dello studio monografico;

- schizzo della configurazione planimetrica con i limiti della regione, la circoscrizione amministrativa e militare;

- schizzo ipsometrico;

- schizzi vari relativi alla natura del suolo; all’ idrografia superficiale, alle zone idonee all’ impiego di G.U. corazzate e motorizzate, alle zone atte a sbarchi dall’aria (con paracadute, aliante, aeroplano) o dal mare da parte di unità consistenti (reggimento, divisione), alle grandi cavità sotterranee utilizzabili ai fini militari (depositi materiali, ricoveri, ecc.), alle zone malariche, paludose ed inondabili;

- carte delle piogge e della temperatura ;

- schizzo della vegetazione: - uno relativo" alle zone boscose (se esistono) specificando la natura (tipo delle essenze e fittezza), sottobosco, transitabilità, efficacia di occultamento dall’alto e da osservatori terrestri; accessibilità dalla rete stradale ai vari mezzi di trasporto; - uno relativo ai vari tipi di colture predominanti con note esplicative circa il movimento di mezzi a ruote o cingolati;

- schizzi relativi all’ambiente umano (densità della popolazione, accentrata, sparsa, ecc.);

- schizzo delle comunicazioni : - stradali; - ferroviarie (ferrovie, tranvie, funicolari, teleferiche); - fluviali; - lacuali ;

- schizzo delle centrali idro e termo-elettriche con l’indicazione dei dati di produzione, la rete e le zone di distribuzione;

- schizzo della rete dei collegamenti telegrafici e telefonici;

- schizzo dei grandi stabilimenti industriali (minerari, siderurgici, meccanici, chimici, alimentari, navali, aeronautici, tessili, edili, ecc.);

- schizzo con l’indicazione. dei depositi di carburanti civili e militari (capacità per ognuno in m3), dei depositi munizioni territoriali (specificare capacità) e delle caserme (specificare capacità di accantonamento uomini, quadrupedi, automezzi);

- ecc., ecc.

L’ appendice completa la memoria descrittiva e la parte grafica riunendo in appositi specchi tutti quei dati che, o non possono essere rappresentati graficamente, o non si reputa conveniente farlo.

Tali dati possono riferirsi ad elementi particolari dell’ambiente geografico. Segnamo qui di seguito quali sono in genere questi elementi con l’indicazione, accanto od in allegato, delle notizie che per ognuno è utile conoscere ai fini militari:

- corsi d’acqua: dati come da allegato n° 1;

- temperatura: valori medi mensili, stagionali ed annui delle temperature massime, minime e medie e delle escursioni; valori massimi e minimi assoluti nel mese più caldo ed in quello più freddo;

- precipitazioni: distribuzione media mensile in mm. ripartita in pioggia e neve ; numero medio dei giorni piovosi e nevosi nell’anno per le diverse località ;

- distribuzione della popolazione per attività economica: agricoltura, foreste, caccia, pesca, industrie, trasporti, comunicazioni, commercio, credito, libere professioni, amministrazione pubblica, ecc. Popolazione attiva ed inattiva;

- centri abitati particolarmente importanti: dati come da allegato n° 2;

- rotabili importanti ai fini militari: elementi da considerare come da allegato n° 3;

- ferrovie e tranvie interurbane: dati come da allegato n° 4;

- porti di notevole importanza commerciale o militare: dati come da allegato n° 5;

- prodotti agricoli e bestiame: cereali; legumi, patate, olio, vino, fieno, legna da ardere e da costruzioni, ecc. ; cavalli, muli, bovini, suini,. caprini, ovini, ecc., ecc.

- stabilimenti industriali: tipo di industria (meccanica, tessile, alimentare, mineraria, chimica, ecc.), genere di produzione, entità della produzione, tipo di energia motrice utilizzata, mano d’opera impiegata, ecc.;

- grandi ditte di trasporti automobilistici: tipo di trasporto (merci o persone), numero e specie di automezzi, personale impiegato, ecc.;

- organizzazione militare: entità delle varie forze armate e loro ordinamento.

Non abbiamo inteso con ciò esaurire la numerosa elencazione di grafici, schizzi e specchi che possono corredare uno studio geografico-militare. Altri possono essere aggiunti, così come alcuni di quelli citati possono essere soppressi o modificati. È il tipo di regione che si studia o lo scopo particolare che con lo studio si vuole raggiungere, che può far variare, volta a volta, i grafici, gli schizzi e gli specchi. Così ad esempio di una zona povera di risorse idriche (esempio, Puglie, Carso, zone desertiche, ecc. ) sarà necessario localizzare a mezzo di uno schizzo le poche sorgenti esistenti, gli acquedotti e le eventuali cisterne con l’indicazione della portata nelle varie epoche dell’anno, mentre dati analoghi non hanno alcun valore per una zona ricca di acqua.

Altri elementi notevolmente utili possono arricchire l’appendice: fotografie (anche da aerei) o schizzi panoramici che riproducono aspetti caratteristici di zone particolarmente interessanti ai fini militari, piante di città ( assai utili per gli attraversamenti di colonne motorizzate, per la determinazione di speciali edifici: palazzo della radio, della posta, dei telefoni, ecc.), piante di grandi stabilimenti industriali, di centrali elettriche, ecc., ecc.

Nel tracciare lo schema suesposto ci siamo riferiti di massima a regioni la cui organizzazione politica sociale può offrire tutti i dati indicati; è ovvio perciò che per regioni in cui si ha un’organizzazione arretrata (alcune zone dell’Asia, dell’Africa, ecc. ), la ricerca dei dati non è sempre possibile e comunque la loro attendibilità è molto relativa.

In sintesi, nel redigere uno studio geografico-militare di una regione non bisogna mai perdere di mira lo scopo, che è quello di fornire al militare tutti quegli elementi concreti relativi all’ambiente geografico in esame, necessari alla compilazione di piani operativi. [...]

La soluzione

Dobbiamo tener presente che la pianificazione su scala nazionale non è soltanto una questione tecnica, ma costituisce anche un fattore importante nel quadro della politica di colonizzazione.

La pianificazione deve essere conforme alle direttive essenziali di questa politica. Occorre distinguere due periodi successivi, anche se non vi sarà tra di loro una linea di demarcazione chiara e definita. Fin dall’inizio il movimento sionista ha dedicato tutta la sua attenzione, tutte le sue energie e le disponibilità finanziarie alla colonizzazione agricola; lo sviluppo della città è stato in genere abbandonato al libero giuoco delle forze economiche. In particolare nessuno ha mai mostrato interesse alla distribuzione geografica della popolazione non agricola che forma 1’86% degli ebrei di Palestina.

Conseguenza dell’espansione sfrenata delle città senza alcun criterio informatore, è stato l’accentramento di 4/5 della popolazione non-agricola (71,5% di tutti gli ebrei di Palestina) in tre grandi centri urbani. Questo è il punto debole della nostra opera in Palestina.

L’ultima crisi economica mondiale ha mostrato chiaramente che le zone più stabili dal punto di vista economico erano quelle fondate sull’agricoltura e sull’industria, sull’alternarsi di campagna e centri urbani collegati da una fitta rete di piccole città. D’altro canto furono gravemente colpite le regioni in cui esisteva un’antitesi netta tra la città e la campagna. La concentrazione della popolazione non-agricola in poche metropoli è un fenomeno tipico delle terre d’oltre oceano, come l’ Australia, l’Argentina e la California, che hanno un’immensa estensione di territori e una scarsissima densità di popolazione. Ma questi paesi non possono assolutamente costituire un esempio per la Palestina. D’altra parte nei paesi densamente popolati dell’Europa centrale ed occidentale gli abitanti delle metropoli (città con più di 1.000.000 di abitanti) non costituiscono la maggioranza della popolazione non-agricola. Ad esempio, in Germania la proporzione raggiunge il 42,1 %, in Olanda il 35,5 per cento, in Francia il 31,9%, nel Belgio, il paese più densamente popolato del mondo, il 24,5%, in Svizzera il 20,2 per cento; in Cecoslovacchia essa scende al 16,2%.

Se noi consideriamo non solo Tel Aviv, ma anche Haifa e Gerusalemme tra i grandi centri urbani, otteniamo questo risultato: 1’82,9% della popolazione ebraica non-agricola della Palestina abita nelle grandi città. In questo senso la Palestina supera anche l’ Australia (61,9%), ed è “alla testa” di tutti i paesi.

Le nostre “metropoli” non sono ancora pericolose. Ma la tendenza all’accentramento eccessivo è evidente; questo fenomeno, più ancora della scarsa percentuale dei contadini, mette in rilievo l’anormalità della struttura sociale palestinese.

Il risanamento è necessario; si deve raggiungere la decentralizzazione della popolazione non agricola disperdendola in un gran numero di piccoli centri. L’idea che oggi regna in Palestina, secondo la quale bisogna vedere con sfavore l’urbanizzazione delle grandi colonie agricole e cercare di arrestarla, è fondamentalmente errata.

Effettivamente non abbiamo bisogno di città del tipo di Haifa e Tel Aviv. Ma invece, uno dei compiti essenziali del nostro lavoro deve essere la creazione di una fitta rete di centri urbani e semiurbani. I lavoratori della terra saranno i primi a trarre vantaggio da questo sviluppo; perchè ogni nuovo centro di industria e di artigianato costituisce un mercato locale per il prodotto agricolo, e ciò che è ancora più importante, una possibilità di lavoro stagionale per il bracciante.

In conseguenza delle condizioni specifiche della Palestina ebraica (piccole distanze, limitatezza del terreno coltivabile, prospettive per una popolazione molto densa) è evidente che la decentralizzazione porterà in un certo senso ad una sintesi tra la città e la campagna, creando una situazione “semi-urbana”.

Le distanze tra questi piccoli centri di industria e di artigianato (non più di 20 Km.) saranno tali da permettere un servizio di trasporti quotidiani su larga scala tra le località abitate e la loro area agricola; d’altra parte i dintorni dei centri industriali potranno servire per l’alloggio dei lavoratori.

Una conformazione di questo tipo presenta alcuni vantaggi propri della campagna (contatto con la natura, sane condizioni di alloggio, lavoro agricolo come occupazione principale o ausiliaria) e anche i vantaggi della città (maggiore più varia domanda di lavoro, maggiore possibilità di specializzazione professionale e di vita culturale).

Una struttura come questa garantisce la massima resistenza contro le crisi economiche. Un esempio di popolazione densa e decentrata ci è offerto da alcune provincie densamente popolate dell’Europa centrale ed occidentale. Ma il raggiungimento di questo risultato è più facile in Palestina dove già esistono condizioni particolari e cioè una colonizzazione moderna che conduce ad una alta densità di popolazione. Se gettiamo uno sguardo sulla carta delle colonie ebraiche, vediamo i primi segni di questa rete o catena di borgate, che diverranno centri industriali e artigiani, collegati reciprocamente da un sistema di trasporti quotidiani per operai.

Vi sono ancora delle grandi lacune in questa rete; sono difettose le comunicazioni tra le località (particolarmente nel nord) che hanno ancora carattere puramente agricolo. Ma già esiste il primo schema di questa catena ininterrotta, che comincia a sud a Beer-Tuvia e finisce a nord a Metullah. Il compito della colonizzazione è di completarla, rinsaldarla, vivificarla; il compito della pianificazione è di preparare e di regolare questa espansione e di indirizzarla nel senso voluto.

In un primo periodo non potremo evitare che alcuni terreni coltivabili vengano devoluti ad altri scopi, come alloggi, industria e strade. Ma un piano funzionale per ogni colonia può diminuire la perdita dei terreni coltivabili, specie considerando che le aree migliori per l’agricoltura (terreno basso e protetto dai venti, terra pesante o media) sono totalmente diverse da quelle adatte per uso di abitazione (località elevata, esposta ai venti, terreno sabbioso o calcareo).

L’aumento della densità nella pianura costiera, porterà tuttavia in un secondo periodo ad un rilevante incremento delle aree abitate ai danni delle zone coltivate. Visto che le riserve di terreno fabbricabile (cioè terreno inadatto alla coltivazione agricola) sono relativamente maggiori delle riserve di terreno destinato all’agricoltura, giungerà l’ora in cui saremo costretti ad evitare ogni ulteriore limitazione delle zone rurali. In questo secondo periodo dovremo orientare l’espansione delle aree abitate ed industriali verso i terreni inadatti o quasi alle coltivazioni agricole. Essi sono, innanzi tutto le sabbie costiere e, in misura minore, le falde e le cime delle colline.

Il problema della trasformazione delle sabbie costiere in terreni agricoli non è stato ancora studiato; ma anche se riusciremo a trasformare le zone sabbiose in campi coltivabili, dopo lavori di miglioria, irrigazione, concimazione ecc., potremo evidentemente realizzare tale opera solo su superfici limitate, cioè nel quadro di una colonizzazione urbana o semiurbana; è chiaro che questi terreni non sono adatti ad una vera agricoltura su larga scala. Al contrario le zone sabbiose sono adatte per il rimboschimento e particolarmente per un’espansione urbana.

Le ragioni sono le seguenti:

1) La spiaggia come luogo di riposo ideale.

2) Il beneficio immediato dei freschi venti marini.

3) L’abbondanza di acque sotterranee a piccole profondità.

4) Il basso costo delle fondazioni e delle strade, la facilità dello scolo delle acque nel terreno sabbioso e la presenza delle sabbie per le costruzioni ed il cemento.

Sulle vaste estensioni sabbiose c’è posto per creare una “città a catena” a scarsa densità, ricca di parchi e di boschi. Questa città sarà collegata al retroterra agricolo da un sistema di comunicazione giornaliera per gli operai; è prevedibile che in questo periodo già esisteranno linee stradali sufficienti da occidente ad oriente. Un traffico intenso si svilupperà anche da sud a nord, tra i diversi quartieri delle città e tra Haifa e Tel-Aviv. Per venire incontro alle esigenze del movimento bisognerà istituire un sistema di mezzi di comunicazione rapidi e moderni quali elettrotreni ed autostrade.

La definizione finale di un piano corrispondente agli scopi sarà possibile solo quando avremo studiate a fondo queste prospettive per la nostra colonizzazione futura in Palestina. È bene tener presente che le decisioni prese per una pianificazione su scala nazionale portano a vasta ripercussione e sono difficilmente modificabili.

I compiti

Una pianificazione nazionale e regionale consiste soprattutto nel tracciare delle linee generali. I suoi compiti sono : 1) la zonizzazione, cioè la classificazione dei terreni a seconda degli usi; 2) la determinazione delle direttive principali per lo sviluppo della popolazione. Uno dei mezzi è la pianificazione della rete delle comunicazioni. I progetti dettagliati dei piani regolatori cittadini o il disegno della rete stradale interna non rientrano nelle funzioni del piano nazionale e regionale; essi saranno lasciati alle competenze delle varie società di colonizzazione, degli enti autonomi municipali ecc. Ma questi progetti dettagliati dovranno conformarsi allo schema generale del piano nazionale e regionale e saranno sottoposti al controllo dell’istituzione centrale.

compiti della pianificazione sono impliciti nelle linee generali della nostra politica di colonizzazione. Il primo compito è di classificare i terreni adatti alla coltivazione. Questa opera verrà compiuta in base ad uno studio particolareggiato dei tipi di terreni e delle possibilità d’irrigazione (impiego delle sorgenti d’acqua nel luogo o trasporto delle acque da sorgenti lontane). Tale tipo di pianificazione non è nuovo nella storia della nostra colonizzazione; ma adesso il piano deve comprendere sistematicamente tutta la superficie della colonizzazione ebraica e non soltanto zone limitate; esso deve inoltre procedere congiuntamente alla pianificazione cittadina. Il secondo compito del piano è quello di risolvere completamente il problema della urbanizzazione delle zone rurali, in conformità ai principi dell’urbanistica moderna. Occorre limitare l’area libera per l’espansione edilizia e industriale e lasciare delle larghe zone riservate all’agricoltura nelle quali sarà vietato di costruire alloggi o stabilimenti industriali e di assegnare aree fabbricabili. Bisogna inoltre creare zone di rimboschimento (valli di torrenti, ripidi versanti montani, ecc.) e zone speciali per quartieri operai costruiti in base al criterio dei “lotti agricoli ausiliari”. La superficie rimanente deve essere suddivisa, conformemente ai principi della zonizzazione, in aree industriali e edilizie, a seconda del diverso grado di densità e delle diverse altezze.

Occorre inoltre lasciare uno spazio sufficiente per il centro commerciale, per i giardini pubblici ecc. Mentre da un lato bisogna generalmente evitare qualsiasi ulteriore limitazione delle aree riservate per la coltivazione, d’altra parte bisogna stabilire l’impiego di tutte le altre zone tenendo presente il futuro sviluppo dinamico: le aree industriali ed edilizie fittamente popolate devono essere per ora piccole ma suscettibili di espansione in modo che lo sviluppo futuro trovi riserve già preparate e non entri in urto con lo schema generale.

Dobbiamo fare bene attenzione nel determinare l’ubicazione delle future aree industriali. Esse devono trovarsi fuori dei centri abitati e vicino alle principali arterie del traffico. Tuttavia gli stabilimenti industriali non devono essere situati nelle immediate vicinanze dell’arteria stradale; né si deve permettere la costruzione di abitazioni operaie a contatto diretto con le fabbriche. Nelle zone riservate all’agricoltura sarà permessa solo la costruzione di case di abitazione per il contadino e di edifici agricoli ausiliari. Naturalmente non intendiamo sbarrare la strada ad una futura intensificazione che crei colonie come Naharia o Ramoth Hashavim nelle quali la colonia penetra e avvolge la propria area agricola. Miriamo solo ad impedire l’infiltrazione delle abitazioni e degli stabilimenti industriali nelle zone puramente agricole. Nelle colonie delle zone considerate oggi rurali la densità di fabbricazione non deve superare il 20 per cento ad eccezione delle vie commerciali centrali. Lo stesso si dica dei quartieri di abitazione nei piccoli centri cittadini che abbiamo ricordato prima. Nei quartieri periferici lo sfruttamento dell’area dovrebbe scendere al 10, o al 15 %. Così non dovrebbe essere permessa di regola la costruzione di fabbricati di due piani. L’evoluzione inevitabile e auspicabile. verso la creazione di centri semiurbani comporta la trasformazione della struttura professionale ed economica delle colonie. Essa conduce all’aumento della percentuale di stabilimenti industriali e artigiani e dei mestieri cosiddetti cittadini. Ma questo non implica l’introduzione in campagna delle forme architettoniche urbane. Al contrario, occorre conservare l’aspetto rurale dei nostri villaggi anche quando la industrializzazione progredisce; occorre lasciare intatte le possibilità di coltivazione di orti e di poderi ausiliari e questo può avvenire solo mantenendo una bassa densità di fabbricati.

Nelle vie commerciali centrali si può permettere un maggiore sfruttamento dell’area (30% 35%) e a volte perfino la fabbricazione di edifici a contatto diretto (come a Natanjah). Non vi è motivo di temere cattive conseguenze, perchè la superficie dei quartieri commerciali sarà limitata. Nella zonizzazione bisogna tener presente la conformazione topografica e la qualità del terreno e la vicinanza delle arterie di traffico.

Il terzo problema della pianificazione nazionale è la preparazione di un piano per la zona delle sabbie costiere. Già a Nataniah nel golfo di Haifa, a Bat-Yam e a Hulon sono stati compiuti i primi passi per lo sviluppo della fascia costiera; adesso, quando saranno terminate le strade che portano al mare, avrà luogo un’espansione edilizia nei dintorni di Herzliah e di Chederah. Ma uno sviluppo urbano di tutta la zona sarà possibile solo in un futuro lontano. È bene sottolineare che la “città a catena” che verrà costruita sulla sabbia costiera non dovrà assumere l’aspetto di una fascia cittadina ininterrotta e monotona. Essa dovrà essere formata da varie parti ognuna delle quali si stenderà intorno al proprio quartiere commerciale e alla stazione dove sosteranno i rapidi mezzi di trasporto di cui abbiamo parlato. Per questo è estremamente importante tracciare fin d’ora accuratamente questa linea di comunicazione da nord à sud, anche se essa potrà essere costruita solo in futuro.

Le varie parti della “città a catena” saranno separate da vaste estensioni di boschi; il rimboschimento, quale primo passo, è necessario anche per consolidare le dune mobili.

Ogni parte della “città a catena” sarà formata da un certo numero di quartieri ognuno dei quali avrà da 1200 a 1500 abitanti.

Il quartiere sarà costruito in base a una fusione ben studiata di case per famiglie, di un piano, e di case di due o tre piani (Reihenhauser). Nella sistemazione di questi quartieri occorre seguire i principi dell’urbanistica organica, come sono stati illustrati da A. Klein nel golfo di Haifa. La densità delle costruzioni non supererà anche qui il 20 per cento dell’area; ciò permetterà le coltivazioni dei giardini se il terreno sarà suscettibile di miglioramenti.

La striscia adiacente alla costa deve essere destinata a zona di riposo; in essa sarà permessa solo una densità di costruzioni molto bassa (10 %) e verrà riservato spazio sufficiente per zone verdi per il pubblico, per istituzioni educative culturali, e per convalescenziari. Le aree industriali ed artigiane si troveranno all’estremità orientale delle sabbie e la linea di comunicazione rapida già ricordata le dividerà dal quartiere commerciale che si troverà ad occidente, e dai quartieri di abitazione che staranno ad occidente del quartiere commerciale. Ad oriente dell’area industriale, nei terreni che già si trovano fuori della striscia sabbiosa verrà lasciata una larga zona per alloggi operai, in cui verrà dedicata la massima cura alla coltivazione dei “lotti ausiliari”.

Le arterie del traffico in tutte le parti della città a catena formeranno una unica rete che porterà al centro commerciale, alla stazione e alle aree industriali; vi saranno anche viali alberati collegati tra loro; essi costituiranno una rete stradale che condurrà al mare e ai tratti boscosi. Ai lati di questi viali verranno posti campi sportivi, edifici culturali, educativi, sale di riunioni ed anche istituzioni appartenenti ai quartieri della città a catena.

I

l progetto che abbiamo esposto deve essere considerato uno schizzo schematico e teorico. Non in ogni punto della costa palestinese noi troviamo una larga striscia sabbiosa; è chiaro che ogni porzione della striscia costiera deve essere sottoposta ad un’indagine speciale e richiede un piano nazionale e la preparazione delle reti di comunicazione. È noto quale valore decisivo abbia l’apertura di una nuova linea stradale per la colonizzazione l’industria e lo sviluppo urbano. Perciò la determinazione di un piano generale per le arterie del traffico a vantaggio delle colonie esistenti e di quelle che sorgeranno riveste un’importanza particolare. Questo progetto deve costituire la base delle richieste che presenteremo al governo nel tema della ricostruzione di strade in Palestina. Il piano generale dovrà ispirare le colonie nella sistemazione delle loro strade interne; esso costringerà anche il proprietario terriero privato a studiare la lottizzazione delle sue aree in conformità della futura arteria stradale.

Nel tracciare le nuove arterie del traffico bisogna evitare per quanto è possibile di tagliare in due il centro delle colonie.. In questo modo potremo impedire fin dall’inizio che si formi una situazione pericolosa nel traffico; con tutti gli inconvenienti che ne derivano, i quali si fanno sentire ad esempio nelle località di Rechoboth e Rishon Le-Zion. La pianificazione nazionale non serve solo per le necessità economiche della colonizzazione. Bisogna tendere a soddisfare le esigenze culturali e spirituali del popolo nei confronti del suo paese. In Palestina la questione assume una grande importanza poiché in essa si trovano non solo panorami meravigliosi ma anche ruderi di edifici artistici che testimoniano un passato ricco e grandioso. Dobbiamo proteggere il paesaggio palestinese, la bellezza degli spettacoli naturali, le località sacre dal punto di vista storico, e le rovine archeologiche. Ma vi è di più: bisogna creare un legame organico fra queste esigenze ed il piano generale; occorre stabilire in conformità l’ubicazione dei parchi pubblici, delle istituzioni culturali e dei centri turistici. Non è la stessa cosa conservare “una statua antica” nel cortile di una fabbrica o situarla in un giardino pubblico, ad esempio, tra la scuola e la casa del popolo. Nel primo caso, il monumento viene conservato per pura curiosità scientifica; nel secondo caso, esso funge da simbolo della nostra intima aspirazione di gettare le radici della nostra nuova opera nel terreno ricco di storia della Palestina.

Sulla spiaggia riservata

le suorine

mostrano biancori

stupefatti.

Tocca al maestrale

togliere d’imbarazzo

il mare.

Titolo originale: Wythenshawe: a Modern Satellite Town - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Nessun grande progetto in questo paese ha attirato più attenzione, o merita studi più attenti, di quello di Wythenshawe, collocato leggermente a ovest della parte meridionale di Manchester, delimitato a nord dal fiume Mersey. Rappresenta un concreto e riuscito tentativo da parte di una grande città di provincia di trovare, insieme all’offerta di un immenso numero di nuove abitazioni, un’alternativa soddisfacente al sistema universalmente diffuso di espansione urbana che, indipendentemente da quanto bene ne siano concepite le singole parti, comporta impliciti gravi svantaggi. Fra questi, basta menzionare le crescenti difficoltà del traffico generate dalla crescita per fasce a partire dal centro, le crescenti distanze che deve coprire chi da centro vuole raggiungere l’aperta campagna, e le maggiori distanze per chi abita nelle nuove aree e deve andare e venire dal lavoro. C’è anche da prendere in considerazione il fatto, su cui concordano tutte le principali autorità, che le nostre città sono già troppo grandi, e sono giunte a uno stadio di ingovernabilità per cui occorre fissare un limite.

Wythenshawe è separata dalla città madre di Manchester da una fascia di campagna relativamente sgombra. Gli elementi chiave che ne hanno governato la creazione sono quattro. Primo, l’acquisto da parte della città di Manchester dei terreni su cui si edifica la nuova cittadina; secondo, la stabilizzazione e conservazione dei valori dei terreni, da subito, attraverso lo zoning; terzo, l’accettazione del principio della neighbourhood unit come base fondamentale del piano; quarto, l’adozione della parkway per le principali vie di traffico. Per comodità del lettore, questi quattro elementi saranno affrontati secondo il medesimo ordine.

La superficie di Wythenshawe è di 2.253 ettari, e prima dell’edificazione si trattava di buona terra agricola. Anticipando il bisogno di un gran numero di abitazioni nel futuro prossimo, e comprendendo gli svantaggi di un ampliamento continuo della città, l’amministrazione di Manchester acquistò gran parte dell’area fra il 1926 e il 1927, assicurandosi così che gli incrementi di valore dei terreni a causa dell’edificazione restassero alla collettività e non ai privati, come accade in gran parte dei casi di sviluppo urbano. Un Private Act del parlamento acquisì la zona alla circoscrizione cittadina il 1 aprile 1931. I lavori per la nuova città iniziarono nel 1929. Col terreno di proprietà della Corporation pubblica, si è nella posizione vantaggiosa di poter pianificare, e creare alla velocità considerata desiderabile quella che vuole essere in tutti i sensi una cittadina autosufficiente. Una volta completata, conterrà oltre 100.000 abitanti, la gran parte dei quali con lavoro a Manchester.

La carta di azzonamento che il progettista Barry Parker ha predisposto come stadio preliminare dell’evoluzione di Wythenshawe, individua specifici spazi per industrie, residenza, centri di commercio, spazi aperti e altre funzioni. È stata colta l’occasione di destinare le superfici in modo tale che in valori tenderanno ad aumentare, dato che tale aumento vista la natura della proprietà sarà pubblico. Con questo obiettivo ben in mente, sono state realizzate grandi quantità di spazi aperti. Si nota dal progetto che, oltre al Parco e agli spazi isolati distribuiti in tutto il sistema, c’è un’ampia cintura agricola attorno alla città, che da all’insieme una struttura da parco e protegge da edificazione e altre attività che possono aver luogo altrove.

Il 54% della superficie, ovvero circa 1.200, è destinata a scopi residenziali, e consente l’edificazione di 28.000 abitazioni; il 10%, circa 220 ettari, è destinato a edifici non residenziali. Negli anni recenti è stata posta molta attenzione alla neighbourhood unit come metodo di pianificazione, ma in questo paese solo in pochi casi essa è stata applicata in qualche modo integralmente. Questa carenza di esempi rende il caso di Wythenshawe, dove il sistema è invece applicato ovunque possibile, ancora più interessante. La superficie è suddivisa in ampi settori residenziali, e ciascuno di essi è delimitato da strade di traffico, con una scuola al proprio centro. Con questa organizzazione i bambini che si spostano da e per la scuola non devono attraversare strade importanti, e le distanze sono ridotte al minimo.

La questione, se la zona commerciale debba essere al centro dell’unità di vicinato o ai suoi margini, è un punto molto dibattuto. Daun lato è desiderabile fare del quartiere un’entità autosufficiente, con la scuola, centro civico, chiesa, negozi, ecc. a costituire l’elemento comunitario al centro; d’altro canto c’è il fatto che i negozianti mostrano una maggior preferenza per le localizzazioni agli incroci stradali. A Wythenshawe è stata adottata questa seconda alternativa. Gli spazi commerciali sono collocati a incroci stradali secondari, a intervalli di circa un chilometro, così che nessuno dovrà spostarsi per più di metà di questa distanza per fare acquisti. Per superare gli intralci al traffico determinati dai veicoli che si fermano davanti ai negozi, questi sono stati arretrati dalla strada e muniti di aree a parcheggio al di fuori della carreggiata. Collocato così agli incroci stradali, ciascun centro commerciale attira i propri clienti da quattro neighbourhood units anziché da una sola come nel caso dei nuclei posti al centro dei vicinati. Uno dei vantaggi è che si rende possibile maggior varietà di negozi.

La maggior parte delle zone residenziali di Wythenshawe è disegnata secondo le normali linee di una città giardino. Inserite in tre o quattro punti diversi, ci sono sezioni a forma esagonale, secondo le linee auspicate da A. R. Sennett e, in Canada, da Noulan Cauchon. È stato dimostrato che con una struttura su base esagonale si risparmia circa il 10% in costi stradali rispetto a quella su base rettangolare a scopi residenziali. Un ulteriore vantaggio è che tutte le curve sono ad angoli ottusi, e quindi più facili da affrontare per i veicoli a motore, in particolare perché si amplia il campo visivo.

Le parkways a Wythenshawe sono un riconoscimento dell’era dei motori, e una sfida all’indiscriminato sviluppo a nastro che si verifica su dimensioni immense in questo e in altri paesi. Esse sono state inserite nel piano in primo luogo come soluzione al problema del traffico, e poi come elemento di valore estetico. Le caratteristiche principali della parkway, dette in breve, sono le seguenti: una strada di traffico al centro, con strisce a parco su entrambi i lati; nessun edificio affacciato sulla carreggiata, lasciando così libera la strada da veicoli in sosta e da quelli che entrano ed escono dalle case creando intralci al traffico; percorsi pedonali e alberi nelle strisce a verde; infine isole di traffico a favorire un “flusso continuo”, o sistemi di rotatoria agli incroci, collocati a intervalli radi.

Le isole sono di varie forme, determinate dalle condizioni locali del traffico, dagli angoli degli incroci stradali, dalla topografia dagli immediati dintorni, e si accompagnano a isole sussidiarie, come mostrato nella Figura 3. Queste isole minori separano il traffico in corsie a senso unico prima che raggiunga l’isola centrale e, secondo l’opinione di Barry Parker, sono elementi essenziali negli incroci di questo tipo.

Eliminando i veicoli in sosta che, su entrambi i lati della strada nell’insediamento a nastro, fanno sì che la strada perda metà della propria efficienza come arteria di traffico, è stato possibile ridurre al minimo la sezione della carreggiata nella parkways, utilizzando i risparmi effettuati sui costi per la creazione delle strisce a parco. Un’altra importante considerazione è che si rende possibile una velocità di traffico molto maggiore, in assenza di interferenze. Le isole in corrispondenza degli incroci lo rallentano, ma non diminuiscono l’efficienza delle strade.

Nella predisposizione delle parkways di Wythenshawe è stata colta l’occasione di aumentare la loro attrattività, e insieme l’efficienza, come caratteristiche coordinate, facendole scorrere nei pressi di aree boschive esistenti, e in stretta relazione con gli altri vari spazi verdi della cittadina.

La fotografia [ non disponibile qui n.d.T.] mostra il progetto nelle fasi iniziali. Da allora sono stati fatti considerevoli progressi. Sono state realizzate molte strade e costruito un gran numero di case, scuole, negozi e chiese. Prima del 1934 si erano stabilite qui circa 25.000 persone. La densità residenziale varia da una casa per ogni sei ettari nella fascia di verde agricolo a trenta abitazioni ettaro in altre zone.

Nelle aree industriali collocate sottovento rispetto alla città, e che si stanno edificando rapidamente, non si intende consentire attività che producano quantità eccessive di fumo, odori, polvere o vapori. Le imprese già localizzate comprendono produzione di apparecchi elettrici, dolciumi, panetteria, magazzino per il latte, maglieria e ricamo.

Wythenshawe da molti punti di vista è un esperimento audace, o meglio l’applicazione di vari principi generali di pianificazione da molto tempo auspicati dagli urbanisti, ma che prima d’ora non erano mai stati applicati su scala tanto vasta. Ci sono altri progetti in questo paese con la propria parkway, o la neighbourhood unit o la fascia di verde agricolo e così via, ma in nessun altro caso esistono tutti questi elementi integrarti e combinati a formare un’entità autosufficiente. Il tempo mostrerà se le grandi realizzazioni residenziali evidentemente necessarie in Inghilterra saranno sviluppate secondo le linee di Wythenshawe. Le indicazioni al momento sono che in molte di esse, in particolare quelle di Londra, ci si sta sforzando di concentrare l’edificazione in unità distinte anziché continuare lo sviluppo continuo come avvenuto da dopo la guerra. Il recente rapporto del Departmental Committee on Garden Cities and Satellite Towns, sottolinea la necessità di cambiare metodi in questo senso.

Nota: soprattutto per leggere meglio le immagini, allego un file PDF con la traduzione e le figure 1,2,3. Una lettura integrativa a questa descrizione degli anni '30 (ahimé non disponibile online) è certamente E.D. Simon, Rebuilding Britain: a Twenty Year Plan, Victor Gollancz, Londra 1945. Se sarà possibile, in futuro ne metterò a disposizione online qualche estratto tradotto (f.b.)

I crolli di Agrigento - con le quasi ottomila persone ridotte al lastrico, i quasi 20 miliardi che son già costati allo Stato e la somma incalcolabile di sacrifici umani vanificati - ripropongono in termini decisamente drammatici il problema della disciplina urbanistica ed edilizia in Italia.

Si è parlato di “consapevole attentato alla pubblica incolumità” perché erano note le condizioni del terreno, scavato da gallerie e di natura franoso (per non dire della opportunità di lasciare intatta quella zona verde di Agrigento alta, splendido affacciamento sulla Valle dei Templi). La stampa di tutti i colori è tornata a denunciare la ormai endemica arrendevolezza delle pubbliche amministrazioni, l’affarismo senza scrupoli, l’impreparazione e l’impreveggenza, la solita mancanza di piano regolatore vincolante, i regolamenti edilizi votati alle deroghe abusive e via dicendo. È stata rispolverata l’inchiesta Di Paola-Barbagallo del 1964, con il rapporto circostanziato ed “estremamente grave” che la concludeva puntualizzando pericoli e responsabilità, ed approdato nel solito vaniloquio; qualcuno ha richiamato l’attenzione sul Villaggio Ruffini a Palermo dove le condizioni sarebbero perlomeno preoccupanti, e poi le ferie estive hanno proposto altri argomenti di interesse in attesa che “l’inchiesta” dica alla opinione pubblica a chi vadano attribuite le responsabilità.

E a quanti altri casi analoghi di abusi edilizi, perpetrati un po’ dappertutto sul nostro territorio - meno clamorosi, forse, per non aver avuto esito catastrofico - si potrebbe accennare sfogliando la stampa quotidiana! La degradazione - ad esempio - molte volte deplorata, di tanta parte delle nostre coste: l’assenza di un piano intelligente ha consentito la dissennata proliferazione di case e villette, squallide o pretenziose, di muraglioni e petraie che hanno distrutto, col verde, la continuità naturale tra mare ed entroterra da Rapallo a Ventimiglia; e così per Fregene, Capocotta, Migliarino.

Scandali edilizi a Catania tra il 1960 ed il, ‘64, con relativo processo celebrato, per legittima suspicione, presso il tribunale di Napoli nel marzo-aprile scorso; e aRoma, a Napoli, a Milano, a Genova e un po’ dovunque hanno proliferato e proliferano quartieri semi-urbani, chiamati “economici” e non si sa bene perché dal momento che costano cifre enormi allo Stato, alla comunità e - in termini di costi umani - a chi va ad abitarci, quartieri messi su senza piani organici e senza le attrezzature essenziali, con strade inadeguate e poco verde stento. E son tanto diffusi questi nefasti dell’edilizia e, tanto spesso imbastiti e realizzati sulla base di ingredienti cronicamente identici - improvvisazione, compromesso, speculazione, ecc. - che quasi appaiono condizione normale.

Ma - ci si sente sovente chiedere da stranieri - come è stato possibile tutto questo?

Nel processo dinamico che investe attualmente l’uomo e la società prevalgono fatti economici che, mistificati, sono assurti da mezzi a fini oscurando le istanze umane. Nella prospettiva - forse - di un miglior vivere futuro, che pone come condizione sacrifici e rinunce umane rilevanti, si sta strumentalizzando la vita sociale per fini che hanno con il miglior vivere degli uomini insieme, un rapporto molto ipotetico e che agevolano il crearsi di catene di interessi - non sempre “puliti” - e consentono l’operare esasperato e rovinoso della speculazione.

Che l’economia, almeno nel momento strettamente tecnico, possa - e forse debba - prescindere nelle scelte da considerazioni umane, può trovare una giustificazione nella sua stessa natura; ma nel “momento politico” della pianificazione - che è di verifica - dovrebbe inserirsi il vaglio delle scelte alternative di sviluppo a partire dall’uomo, dato che gli scopi della pianificazione sono fondamentalmente sociali e che la risultante forma fisica della città esercita sull’uomo una presa sensibile che, senza essere determinante, condiziona profondamente la vita dei popoli.

Allo stato attuale delle cose, il termine “politico” suona evocatore di lungaggini burocratiche, di sovrapposizione gerarchica di funzionari con competenze non sempre definibili ma sempre condizionanti, di un mondo impersonale in cui tutti si agitano e nessuno risulta pienamente responsabile. Non che non si diano un male notevole per far funzionare in qualche modo il sistema, per evitare il peggio e provvedere al più urgente, ma, e per la molteplicità dei poteri di controllo e di decisione e per il fatto che molte fra le leggi che dovrebbero disciplinare l’attività urbanistica ed edilizia sono sopravvivenze da un contesto sociale largamente superato con il mutare delle condizioni ed istanze della vita associata, accade come nel noto apologo: smontate un orologio, riponete nella cassa i vari pezzi e scuotete il tutto: farà ancora rumore ma in quanto a segnare l’ora ... il discorso è diverso!

Il senatore Zanier, nella sua relazione al Senato sul disegno di Legge per “la conversione in legge del decreto-Legge 6 settembre 1965, n. 1022, recante norme per l’incentivazione dell’attività edilizia”, tra “le principali cause che hanno determinato l’attuale situazione di crisi del settore edilizio”, sottolineava: “1) la mancanza di una moderna, legislazione urbanistica [...] 2) la mancanza di una legge organica che elimini la legislazione frazionata attualmente vigente nel settore delle costruzioni di carattere economico-popolare [...]; 3) le superate strutture legislative vigenti riguardanti la progettazione, la direzione e contabilità e il collaudo delle opere pubbliche [...]” ed auspicava “l’apprestamento di un nuovo quadro legislativo che disciplini organicamente tale materia adeguandola alla dinamica dei tempi moderni”.

A conferma, può essere istruttivo un brano dell’intervista del giornalista Mario Cervi al Sindaco di Agrigento, Ginex:

”La sua amministrazione ha emanato ordini di demolizione?

- Ne ho emanati diversi.

Ne può citare uno solo che sia stato eseguito?

- Nessuno.

Perché riesce tanto difficile o, piuttosto, impossibile attuare gli ordini di demolizione?

- Perché la pratica, dopo la decisione del Comune, segue un iter lungo e complesso. La legge è farraginosa, offre molti appigli a chi resiste alle ingiunzioni.

La condizione delle leggi che disciplInano l’edilizia e l’urbanistica si configura nei seguenti termini: la espropriazione per causa di pubblica utilità viene regolata generalmente dalle disposizioni della Legge 25 giugno 1865 n. 2359, coordinamento delle disposizioni contenute nell’art. 29 dello Statuto fondamentale del Regno e negli artt. 436 e 438 dell’abrogato codice civile, modificata da quella del 18 dicembre 1879 n. 5188; in casi speciali si fa capo alle disposizioni contenute nella legge 15 gennaio 1885 n. 2892; nota con il titolo “legge per il risanamento della città di Napoli”, emanata a seguito del colera che infierì in quella città nell’estate del 1884, che, a facilitare la demolizione di case insalubri, determinava norme per l’indennità di esproprio che invogliassero i proprietari dei “bassi” a vendere (norme adottate per stabilire l’indennità di esproprio nella recente modificazione della Legge 18 aprile 1962 n, 167) ; tutta l’edilizia popolare ed economica è regolata dal Regio Decreto 28 aprile 1938 n. 1165, qua e là modificato da successive disposizioni; dell’inadeguatezza della legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150 si è parlato diffusamente in questi ultimi anni ed anche su questa rivista.

Se si aggiunge a questo quadro - non certo allegro - la considerazione che le finanze locali sono spesso assolutamente inadeguate ai bisogni e non consentono di gestire una città moderna e tanto meno di programmarne l’avvenire, si ha una approssimativa idea delle inefficienze che assillano la città d’oggi.

C’è da deplorare, d’altra parte, l’assenteismo della gran massa – e di persone con funzioni determinanti per l’avvenire del Paese - nei confronti dei programmi e interventi di sistemazione territoriale che impegnano il futuro della città ed incidono profonda:mente, in maniera diretta o indiretta, sull’avvenire della collettività e dei singoli. È vero che parte, almeno, di tale disinteresse va ascritta all’assenza quasi totale di strutture di informazione seria ed accessibile sui problemi della città, mentre è frequente la tendenza, nella stampa di grande tiratura, a presentare un certo tipo di progetti urbanistici, accentuandone il carattere utopico: si son visti, ad esempio, in rotocalchi vari, articoli con poco testo e molte illustrazioni di previsioni fantascientifiche della Parigi del 2000 o delle cosidette “città ideali” di Paolo Soleri (la “ Mesa City”), di Paul Maymont (la “ città verticale”), di Walter Jonas (la città-imbuto galleggiante o no) e via dicendo, mentre sono passati ignorati (fuori della stampa specializzata) tentativi di sistemazione validi, anche se non perfetti, come il piano di Amsterdam, la ricostruzione di Amburgo, gli studi per la cittadina di Hook, ecc.

Ma, l’assenteismo a cui si accennava, va in molta parte a carico della prassi vigente nelle scelte che riguardano il futuro della città: il cittadino si sente escluso dai tecnocrati che - in nome degli imperativi di ordine tecnico e con il pretesto della difficoltà, dà parte del cittadino, di pronunciarsi su problemi divenuti effettivamente sempre più complessi - tendono ad eliminarne la libera partecipazione al processo formativo della città, che è pur sèmpre creazione collettiva cosciente e perenne e che, in quanto spazio di comunicazioni e relazioni sociali, di formazione culturale e di sviluppo spirituale della persona, ha peso rilevante sulla condizione umana e può, per inadeguatezza di strutture, diventare ostacolo alla conquista delle libertà fondamentali.

Per la parte di responsabilità che toccherebbe ad urbanisti ed a progettisti in genere, va notato che, se è ancora diffusa - a causa della formazione che dà la scuola nel suo assetto attuale - la tendenza a fare di un progetto urbanistico un’opera personale, compiuta e perciò carente di flessibilità e realismo, mentre il mutato stile di vita stimola a nuove metodologie e contenuti nella ricerca di configurazioni dello spazio come luogo di interrelazioni umane e di correnti di interessi condizionate da localizzazioni fisiche, è ben difficile, per la rapida evoluzione strutturale, giungere a teorie chiare e permanenti ed operare scelte senza il rischio che si rivelino superate quasi nell’atto stesso della loro concretizzazione.

Ma, per cause in definitiva le stesse, la città può soprattutto indurre nei suoi abitanti condizioni di vita deprecabili per altro verso.

Quando si osserva che lo spazio urbano si rivela liberatore o alienante a seconda che suscita, in chi deve viverci, reazioni di accettazione o di rifiuto, ci si riferisce alla necessità di creare un ambiente urbano quanto più favorevole possibile alla vita, non soltanto fisiologica, ma psicologica e spirituale dell’uomo.

Alla XVIII Giornata internazionale della sanità, celebrata a Roma nell’aprile scorso e dedicata al tema “l’uomo nella grande città”, il dottor M. G. Candau ribadiva appunto l’urgenza di creare nella città “un ambiente più favorevole allo sviluppo dell’uomo” se non si vuole che “la sanità mentale in particolare continui ad essere minacciata dalle nevrosi ed affezioni psicosomatiche conseguenza dell’agitazione, del ritmo, della febbre delle nostre città”.

Il rischio, per nulla chimerico, della attuale fase di passaggio verso una nuova forma di organizzazione sociale, è che la vita associata risulti, come ho già detto, strumentalizzata per fini estranei ad un miglior vivere degli uomini insieme, in nome di una “ragione superiore” - qual’è quella che considera l’uomo unicamente come produttore e consumatore - proclamata oggettiva e razionale ma che in effetti snatura la reale dimensione umana.

Chi più chi meno, tutti abbiamo esperienza - e risentiamo negativamente - dei mutamenti radicali intervenuti nella vita individuale e collettiva: del moltiplicarsi dei rapporti di tipo “funzionale”, sempre più continui ed assorbenti, a carico delle relazioni dirette, “personali”; della presa subdola e tirannica esercitata dalla rete delle interdipendenze sociali che sottrae l’insieme delle attività e gran parte della vita dei singoli alla “vita privata” per “servire al complesso”, lasciando alla vita privata stessa soltanto residui, compensazioni o evasioni. Tutto ciò traumatizza l’unità personale dell’uomo urbano riducendolo alla passività.

La consapevolezza, più acuta oggi, della quota di incertezza e di aleatorietà che entra nell’esito delle iniziative, per lo svolgersi tanto più complesso e rapido delle realtà che ci circondano, esaspera il senso di insicurezza e di instabilità.

Son lecite tutte le riserve possibili sull’uso oggi frequente del termine “alienazione” per caratterizzare la condizione soggettiva comune all’uomo della società attuale, sta di fatto però che per tutto questo l’uomo si sente estraneo al mondo che si va costruendo, si sente strumentalizzato e ridotto a “cosa”, frustrato nei suoi poteri di partecipazione attiva e vitale.

Se si aggiunge a quanto detto l’incidenza nefasta che finisce per avere sul comportamento del cittadino la somma delle aggressioni foniche, psicologiche, d’ambiente - case inospitali, spazi urbani casuali e via dicendo - ci si rende conto della fondatezza dei timori del dott. Candau.

È noto che non soltanto gli sforzi fisici, ma anche fenomeni puramente psichici - quali conflitti mentali, disinteresse o monotonia - possono generare stati di stanchezza nervosa caratterizzata - tra altre - da sensazione di inibizione generale. In sé, la sensazione di stanchezza non è spiacevole a patto di potersi rilassare e riposare; diventa però persino tortura quando non si ha questa possibilità. Questa semplice osservazione indica il senso biologico della stanchezza: ha una funzione protettrice contro lo strapazzo e l’usura, paragonabile, perciò, ad altre sensazioni a funzione analoga, quali la fame e la sete.

Ogni sorta di cause - che spesso non si somigliano affatto tra loro - può occasionare stanchezza nervosa: lavori che esigono sforzi particolari, concentrazione, abilità; attività fisiche o psichiche di lunga durata; lavori di tipo ripetitivo in ambiente monotono; caldo o umido o rumoroso; condizioni di illuminazione insufficiente; forti responsabilità; conflitti sociali e fattori psichici somiglianti; stati di salute precaria; alimentazione insufficiente. Nella vita odierna di tutti i giorni, l’uomo è esposto non soltanto ad un solo, ma in genere a molti di questi fattori : la stanchezza nervosa che ne consegue è il risultato della somma di questi. sforzi fisici, mentali e psichici.

La stanchezza nervosa, inoltre, si accompagna, in certa misura, ad una perdita di inibizione che provoca aumento di errori ed anche di incidenti: quando la stanchezza nervosa diventa condizione quotidiana ed i periodi di recupero non sono adeguati agli sforzi dell’organismo, si produce uno stato cronico di stanchezza che si manifesta non solo con un calo delle prestazioni psico-fisiologiche, ma anche con sintomi psichici e disturbi del sistema nervoso vegetativo; la stanchezza nervosa diventa allora sensazione di disagio continuo che ha ripercussioni sull’emotività dell’uomo - irritabilità psichica aumentata (cattivo umore), tendenza alle reazioni depressive, apatia e mancanza di iniziativa, ansietà non motivate e così via - e si manifesta con insonnie, tendenza a disturbi circolatori ed altre manifestazioni osservate in molte altre forme di nevrosi.

L’esperienza quotidiana insegna che le sensazioni di stanchezza possono scomparire quando si sostituisce l’attività che ha prodotto la stanchezza con una attività nuova, quando si cambia ambiente, quando un mutamento risveglia l’interesse, quando lo stato emotivo subisce una modificazione favorevole e via dicendo.

Già ho avuto modo di sottolineare l’importanza, nella progettazione dell’abitazione e del suo intorno, di rendersi conto che “il nostro organismo, e soprattutto il nostro sistema nervoso, per quanto dotati di risorse incalcolabili, sono pur sempre soggetti all’usura e che i periodi di attività debbono alternarsi con periodi di distensione e di recupero, in equilibrata distribuzione, perché le reazioni fisiologiche e psichiche si svolgono sempre sotto forma di oscillazioni, di alternanze di ritmi vitali, di successioni di fasi nello stesso tempo opposte e complementari - come in natura la successione delle stagioni l’alternarsi del giorno e della notte- : ad una fase di espansione, di adattamento; segue una fase di ripiegamento e di recupero”, da cui, per esempio, nella disposizione interna dell’abitazione, la previsione di “zone funzionalmente distinte, benché interdipendenti: zona diurna, più o meno ampiamente aperta sull’esterno, esposta in qualche modo a variazioni climatiche ed invasioni ambientali - per quanto attutite - che corrisponda alla fase di espansione, di contatto con l’esterno; una zona notturna, più isolata e protetta, che offra all’organismo in riposo distensione e ripristino del potenziale di adattamento; previsione di zone di transizione,di spazi “semi-aperti” nell’organizzazione di zone residenziali, che siano anche zone di passaggio pedonale e di sosta, differenziate nella struttura e nell’orientamento, intese a ritardare l’immissione delle circolazioni interne in zone di scorrimento più turbolento”.

È diventato ormai luogo comune la deplorazione della squallida disumanità dei casoni di periferia, degli agglomerati suburbani ed anche urbani dove la concentrazione umana è congestione, l’aria e la luce nei locali interni è un mito, dove l’introspezione viola qualunque intimità e che il grigiore piatto - che la grottesca pretenziosità di certi arzigogoli applicati in facciata rende ancora più squallido - destituisce di ogni attrattiva. Lì, non è difficile cogliere i sintomi provocati sugli esseri umani dalla gregarizzazione eccessiva: i noti “conflitti di pianerottolo” suppongono, in un certo numero di casi, predisposizioni mentali morbose, ma molto spesso sono originati dall’aver misconosciuto nella progettazione, l’incidenza sullo stato morale e affettivo degli individui di decisioni parziali ed inumane, ed è lo stato morale che regola, nella maggior parte dei casi, la pace e la salute.

Quanti malintesi, vessazioni reciproche e conflitti sono originati dai rumori trasmessi da un appartamento all’altro dalle strutture non isolate e dai muri troppo sottili! I rumori dei vicini, spesso più che i rumori della strada, appaiono più insopportabili sino ad essere considerati alla stregua di un’offesa: le reazioni vanno dalla rappresaglia al tentativo di incriminazione - e non si tratta di una iperbole - della persona o persone meno simpatiche dell’immobile. Se questi stati psichici non giungono il vere psicosi, esasperano i riflessi che insorgono nell’organismo del solitario che si sente tale perché gli si sono sottratte le possibilità di iniziativa e di vita autonoma. E non è adire che “finiranno per adattarsi”, perché nella vita sociale la teoria dell’adattamento all’ambiente è profondamente sbagliata ed il disadattamento sfocia, più spesso di quanto sia possibile rilevare, nel crimine.

A parte le fascino se utopie ipotizzanti città su misura, in equilibrio tra città e campagna, questo stato di cose richiede da chi presiede al futuro delle città- che sia l’urbanista, l’amministratore o i vari gruppi di pianificatori - la preoccupazione, più che di delimitare metricamente ambienti, di creare per via di umanità spazi che servano e nobilitino la vita, dando valore alla convivenza ed al rapporto con gli oggetti e l’ambiente. Altrimenti la loro fatica si risolverà in sterili esercitazioni teoriche ed i loro “modelli di riferimento” costituiranno soltanto premesse disumanizzanti agli interventi di sistemazione possibili. Nessuno attende dai pianificatori il capolavoro - salva l’ambizione dei pianificatori stessi - ci si attende almeno una urbanistica ed una edilizia “oneste”, in cui risulti impegnata la loro “moralità” e che tenga perciò conto delle istanze fondamentali della vita umana.

La dimensione umana, nel problema degli insediamenti, ha e deve mantenere carattere prioritario: attraverso un arricchimento reciproco e la consapevolezza di partecipare ad una comune cultura, con la protezione non solo materiale ma spirituale del capitale umano, essi costituiscono l’ambiente nel quale la persona umana deve realizzarsi nella sua integrità fisica e spirituale. Se ragioni economiche impongono ridotte superfici di alloggio, nulla può giustificare la carenza di misure igieniche e, d’altra parte, lo spazio urbano dovrebbe garantire, con una adeguata rete di servizi sociali, quel che la complessità del mondo moderno ed il mutato stile di vita richieggono e che l’abitazione non è in grado di offrire.

È stato giustamente scritto - e mi sfugge da chi: “Siamo persone e ciò è tremendamente complesso ed assolutamente semplice: siamo esseri in solitudine e simultaneamente, inseparabilmente, ineluttabilmente siamo esseri comunitari.

”L’uomo è inserito in una comunità di esseri e di cose con le quali sta - o ha la possibilità di essere - in relazione. Per effetto di questo inserimento l’uomo esercita una interazione costante, un coesistere con il suo intorno. Da questo, e per l’amore del prossimo, deriva una responsabilità: ogni nostro gesto raggiunge l’esistenza di ciascun essere che ci circonda, sino ad implicare un mutamento nei dati di quell’esistenza...

”Questa coesistenza postula la incarnazione nella società per diventare coesistenza effettiva, efficace: a cosa serve una responsabilità riconosciuta se non è incarnata in una azione (fisica o spirituale; o meglio: fisica e spirituale)? Soltanto così la nostra responsabilità sarà vera coesistenza e partecipazione alla realtà comune”.

Se l’architettura e l’urbanistica - e come attività creatrici e come discipline - perdono di vista che il loro scopo finale è il servizio dell’uomo-persona la loro opera risulterà fallimentare a tutti gli effetti.

Nota: su temi e approcci paralleli a quelli trattati qui sopra da Giovanni Alessandri, in questa stessa sezione di Eddyburg si vedano i testi di Giovanni Berlinguer e di Carlo Doglio (f.b.)

Le ragioni delle mie dimissioni dall'INU

Alcuni sinceri amici mi hanno chiesto di chiarire e motivare, in forma più esplicita di quanto contenuto nella mia lettera del 28-2-2005 inviata al Direttivo dell'INU Lombardia, le ragioni delle mie dimissioni dall'Istituto.

Accetto l'invito, sforzandomi di chiarire, nella forma più breve e sintetica possibile (più si scrive, in questa materia, più si dà adito ad occasioni d' equivoco) le ragioni di fondo del mio dissenso con la linea cultural-politica seguita in questi ultimi anni dalla dirigenza nazionale e regionale dell'INU.

Nulla ovviamente, mi sembra quasi inutile ricordarlo, contro l' Istituto.

I motivi del mio dissenso possono essere sintetizzati in due punti tra loro fortemente correlati.

Punto primo.

In questi ultimi anni, in particolare a partire dagli anni '80, si è manifestato in Italia un intenso dibattito critico sull'urbanistica, affrontata e giudicata sia come disciplina, che come metodologia di pianificazione, che come prassi tecnico-amministrativa che come risultato pratico-applicativo. Si è trattato di un dibattito molto ricco, vasto, se pur ristretto a pochi, ma anche confuso e contraddittorio, sul quale hanno pesato non poco, da un lato l'assenza del Paese, da un lato l'inerzia dei vari Governi nazionali succedutisi nel tempo che non hanno voluto e saputo dare al Paese quella "riforma urbanistica" resasi assolutamente necessaria almeno a partire dal 1968 (necessaria se non altro per metterla in regola con la Costituzione), e, dall'altro lato, le oggettivamente complesse trasformazioni culturali, istituzionali, legislative, economiche sviluppatesi nel frattempo vicino e a lato della disciplina urbanistica che premevano per una sua profonda riforma. Ma anche periodo nel quale è maturato, positivamente, l'affermarsi e l'affacciarsi di una nuova cultura e di una nuova pressante domanda rivolta a trasformare e orientare sempre più la disciplina urbanistico-territoriale verso le tematiche dell'ambiente e del paesaggio, del rapporto sviluppo-ambiente, impegnandola ad apportare concreti contributi all'obiettivo dello "sviluppo sostenibile" (si pensi al XX Congresso Nazionale di Palermo del 1993).

Indubbiamente si deve riconoscere all'INU di avere saputo fornire, in questo periodo, un fondamentale contributo di contenuti e qualità a questo dibattito con l'elaborazione del disegno di riforma urbanistica nazionale (XXI Congresso di Bologna, novembre 1995, "La nuova legge urbanistica. I principi e le regole"). Sicuramente questo disegno (anche se con qualche debolezza relativa alla riflessione sul versante ambientale) ha saputo costituire un fondamentale ed unico punto di riferimento - in assenza della auspicata emanazione della legge-quadro - alla recente legislazione regionale "di seconda generazione" nonché a indicare la via per una positiva riflessione sulla necessità di trasformazione dello strumento urbanistico comunale.

In analoga assonanza con il generale trend evolutivo "politico" che ha investito e contrassegnato l'intero Paese in questi ultimi anni, sono uscite e si sono manifestate, relativamente al dibattito sulla pianificazione urbanistico-territoriale, due linee tra loro fortemente divergenti: l'una, quella riformista tradizionale, in forte crisi di contenuti e in forte affievolimento di capacità propositive, l'altra, politicamente "di destra", rivolta a contrabbandare sotto false etichette di "riforma" o di "innovazione" una aggressione alle regole della buona amministrazione del territorio effettuato in nome di un rozzo liberismo antipianificatorio, per lo più ideologico, che considera la pianificazione urbanistica sino ad ora praticata non come una cosa da migliorare e da fare avanzare - da innovare e riformare - quanto come una attività del tutto negativa, eccessivamente rigida e vincolistica, tutta da negare e da buttare, avendo come unico obiettivo finale quello dell'indebolimento dell'azione "pubblica" di programmazione e di difesa del territorio per favorire la massimizzazione delle possibilità di trasformazione e edificazione dei suoli affidata e promossa dalla parte privata, spogliandola il più possibile di norme, regole, limiti qualitativi e quantitativi, vincoli ambientali e ricognitivi e programmi, attraverso una gestione urbanistica di volta in volta "concertata" (ovvero contrattata) con i privati.

Quello che critico alla attuale dirigenza dell'INU, nazionale e regionale, è di non essersi saputa/voluta opporre con la dovuta forza ed ad alta voce, esercitando anche la dignità propria di organismo tecnico di alta cultura, a questa linea cultural-politica che ha dimostrato e dimostra di perseguire in realtà come unico obiettivo non solo la distruzione e lo svilimento delle regole della disciplina urbanistica ma anche, e soprattutto, la rimozione di qualsiasi ostacolo possa opporsi alla libera distruzione, alla privatizzazione e al saccheggio del territorio e di tutte le sue risorse fisiche e culturali. (Ben più alta si è saputa levare, a denunciare la pericolosità di questa linea, la voce di Italia Nostra o del FAI).

Critico il fatto di aver contribuito a lasciar passare o confondere quest'ondata di feroce, rozzo e ideologico "controriformismo urbanistico e ambientale" o di "falso riformismo" con le vere necessità di una seria "riforma" e avanzamento disciplinare.e di aver consentito a lasciare contrabbandare come operazioni di "ammodernamento ", come scelte di "innovazione", come proposte "ambientali", scelte rivolte in realtà allo "smantellamento" dei pochi solidi pilastri costruiti e fondati in tutti questi anni.

Non è affatto vero che siamo entrati in Italia - come scrive Avarello in "Urbanistica Informazioni", n. 197/2004 - in una "stagione di rinnovamento profondo". Basti pensare al fatto che tutti i nodi strutturali irrisolti dei quali ha sofferto e soffre l'urbanistica sono rimasti inaffrontati e accantonati, mentre si è piuttosto di fronte a una chiara ondata di confusa "controriforma" e di "smantellamento" di ogni regola di pianificazione urbanistica, territoriale e ambientale.

Punto secondo.

Molte delle argomentazioni critiche emerse ed usate in tutto questo dibattito, provenienti dalla destra più bruta e radicale come anche - in preoccupante consonante alleanza - dalle più astratte critiche provenienti dal mondo accademico, hanno teso a criticare e demolire tutta la legislazione, la pratica e le metodologie utilizzate dall'urbanistica costruite faticosamente in questi anni, dalla legge-ponte in poi. Di tutto il positivo, anche se incompiuto e frammentato, lavoro di costruzione, si è voluto negare e distruggere tutto (concetti, metodologie, strumenti). Tutto è stato criticato, svilito, negato, azzerato con l'evidente obiettivo di fare piazza pulita di ogni regola o ragione urbanistica.

Eppure è da tutto questo lavoro che si sono poste le basi per fondare e costruire quella prima alfabetizzazione della pianificazione territoriale-ambientale con la quale si è potuto operare negli anni recenti.

Quello che critico alla attuale dirigenza dell'INU è la mancata difesa di quanto di buono, di necessario e di essenziale, con grande fatica e con aspre battaglie culturali, si era riusciti a costruire e introdurre nelle leggi e nelle prassi, soprattutto regionali, a partire dalla legge-ponte in poi e che doveva essere assolutamente conservato e sviluppato per una vera e positiva riforma..

Perché non si è difeso nulla di tutte queste acquisizioni e conquiste nelle quali, oltretutto, l'INU si era fortemente speso e impegnato in prima fila nel passato?

Perché si scrive, come fa Avarello sempre nello stesso numero di "Urbanistica Informazioni" - assecondando di fatto i più rozzi argomenti cavalcati dai peggiori e più interessati detrattori delle pratiche urbanistiche - che "la nostra missione (è quella) di cancellare l'immagine cupa, noiosa e burocratica dell'urbanistica"?

Sia ben chiaro che non chiedo all'INU di schierarsi "politicamente" contro questa "destra" dilagante. Anche perché in questo momento quella che fu in passato una linea di "sinistra" appare essersi dissolta, volatilizzata e rimasta senza voce.

Esco dall'INU perché ritengo che la sua voce "tecnico-culturale" e di "civile impegno" sul fronte delle battaglie pubbliche per la pianificazione e per la difesa del territorio e dell'ambiente nell'interesse collettivo si sia ormai affievolita e trasformata al punto - non si sa se più per opportunismo o più per sincero convincimento - da confondersi con questa intollerabile e pericolosissima deriva che ci sta portando diritti diritti verso quella legge Lupi che segnerà la fine dell'urbanistica in Italia.

Troppo chiuso in sé e indifferente d'altro ed aspro era il carattere della vecchia gente di ***. Alla pressione delle pullulanti intorno genti italiane non resse, e presto imbastardì. La città s'era arricchita ma non seppe più il piacere che dava ai vecchi il parco guadagno sul frantoio o sul negozio, o i fieri svaghi della caccia ai cacciatori, quali tutti loro erano un tempo, gente di campagna, piccoli proprietari, anche quei pochi che avevano da fare con il mare e il porto. Adesso invece li premeva il modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio, lì sulla stretta Aurelia stipata di macchine scappottate e roulottes, e loro in mezzo tutto il tempo, finti turisti, o congenitamente sgarbati dipendenti dell'"industria alberghiera".Ma sotto mutate forme, l'operosa e avara tradizione rurale durava ancora nelle dinastie tenaci dei floricoltori, che in anni di fatiche familiari accumulavano lente fortune; e l'alacrità mercantile nel ceto mattiniero dei fioristi. Tutti i nativi godevano vantavano diritti di privilegiati; ed il vuoto sociale formatosi al basso attraeva, dai popolosi giacimenti di mano d'opera dell'estrema punta d'Italia le folle dei cupi calabresi, invisi ma convenienti di salario, sicché ormai una barriera quasi di razza divideva la borghesia dalle classi subalterne, come nel Mississippi, ma non impediva ad alcuni fra gli immigrati di tentare bruschi soprassalti di fortuna salendo alle dignità di proprietari o fittavoli e insidiando così anch'essi quei malcerti privilegi.

Pochi guizzi negli ultimi cent'anni aveva avuto la gente rivierasca, passate le, generazioni mazziniane che credettero nel Risorgimento, forse mosse dalla nostalgia delle estinte autonomie repubblicane. Non le riebbero; l'Italia unita non piacque loro; e, disinteressandosene, brontolando contro le tasse, s'attaccarono più di prima allo scoglio, salvo a saltar di li nel Sud America, grande loro impero familiare, luogo delle corse giovanili e dello sfogo delle energie e dell'ingegno, per chi si trovasse a esuberarne. Sulle riviere s'attestarono gli inglesi, nei loro giardini. gente posata e individuale, tacitamente amica di persone e natura così scabre. Vicino, la Francia indorava Nizza, riempiendo questa riva d'invidia. Era ormai nata la civiltà del turismo, e la striscia della costa prosperò, mentre l'entroterra immiseriva e prendeva a spopolarsi. Il dialetto divenne più molle, con cadenze infingarde; il noto intercalare osceno perse ogni violenza, assunse nel discorso una funzione riduttiva e scettica cifra d'indifferenza e sufficienza. Ma in tutto questo si poteva ancora riconoscere un'estrema difesa dell'atavico nerbo morale, fatto di sobrietà e ruvidezza ed understantemrnt, una difesa che era soprattutto uno scrollar di spalle, un negarsi. (Non dissimile l'atteggiamento poi espresso da una generazione di poeti rivieraschi, in versi e prose di pietrosa essenzialità che passarono ignoti ai conterranei e celebrati e malcompresi dalla letteratura dei fiorentini). Dominante il fascismo, s'accentuò - pur essendo già ben nota - l'estraneità dello Stato, mentre la cosmopoli degli ibernanti stranieri cedé, tra le due guerre, a un primo sedimentarsi di genti pan-italiane, nelle classi alte e nelle basse.

Ora, dopo la seconda guerra mondiale, era venuta la democrazia, ossia l'andare ai bagni l'estate d'intere cittadinanze. Una parte d'Italia, dopo un incerto quinquennio o giù di lì, ora aveva il benessere, un benessere sacrosantamente basato sulla produzione industriale, ma pur sempre difforme e disorganico data l'economia nazionale squilibrata e contraddittoria nella distribuzione geografica del reddito e sperperatrice nelle spese generali e nei consumi; però, insomma, sempre era benessere, e chi ce l'aveva poteva dirsi contento. Quelli che più potevano dirsi contenti (e non si dicevano tali, credendo fosse loro dovuto molto di più, che invece o non meritavano o non era né possibile né, giusto che avessero) dai centri industriali del Nord tendevano a gravitare sulla Riviera e particolarmente su ***. Erano proprietari di piccole industrie indipendenti (se alimentari o tessili) o subfornitrici d'altre più grandi (se chimiche o meccaniche), dirigenti aziendali, direttori di banca, capiservizio amministrativi cointeressati agli utili, titolari di commerciali, operatori di borsa, professionisti affermati, proprietari di cinema, negozianti, esercenti, tutto un ceto intermedio tra i detentori dei grossi pacchetti azionari ed i semplici impiegati e tecnici, un ceto cresciuto al punto da costituire nelle grandi città delle vere e proprie masse, la gente insomma che poteva acquistare in contanti o ratealmente un alloggio al mare (oppure affittarlo per stagioni o annate intere, ma questo era meno conveniente) e anche che aveva voglia di farlo, aspirando a vacanze relativamente sedentarie (non per esempio a grandi viaggi o cose estrose) che poi con la macchina si potevano movimentare vertiginosamente, perché in un salto si poteva andare a prendere l'aperitivo in Francia. Ormai a *** i ricchissimi venivano solo di passata, in corsa tra un Casinò e l'altro, e nello stesso modo veloce ci venivano gli operai delle grandi industrie, in “lambretta”, a ferragosto, con le mogli in pantaloni cariche dello zaino sul sedile posteriore, a fare il bagno stipati nelle esigue strisce di spiaggia, ripartendo poi per pernottare nelle pensioni più economiche d'altre località della costa. Più a lungo si fermava l'esercito sterminato delle dattilografe e impiegate contabili in shorts che occupava le pensioni locali con dietro il codazzo della gioventù studiosa o ragioniera, gloria dei dancings.

Ma questo era solo per lo stretto tempo delle ferie: la colonia stabile di *** era costituita da quel ceto medio-borghese che s'è detto, abitatore d'agiati appartamenti nelle proprie città e che qui tale e quale riproduceva (un po' più in piccolo; si sa, si è al mare) gli stessi appartamenti negli stessi enormi isolati residenziali e la stessa vita automobilistico-urbana. In questi appartamenti ai mesi freddi venivano a svernare i vecchi: genitori, nonni, suoceri, che prendevano il sole di mezzogiorno sulle passeggiate a mare come già quarant'anni prima i granduchi russi tisici e i milord. E alla stagione in cui un tempo i milord e le granduchesse lasciavano la Riviera e si spostavano nelle ombrose Karlsbad e Spa per la cura delle acque, ora negli appartamenti balneari ai vecchi davano il cambio le signore coi bambini e per i mariti occupatissimi cominciava la corvée delle gite tra sabato e domenica.

Era una folta Italia in tailleur, in doppiopetto, l'Italia ben vestita e ben carrozzata, la meglio vestita popolazione d'Europa, quale contrasto per le vie di * * * con le comitive goffe e antiestetiche dei tedeschi inglesi svizzeri olandesi o belgi in vacanza collettiva, donne e uomini di variegata bruttezza, con certe brache al ginocchio, coi calzini nei sandali o con le scarpe sui piedi nudi, certe vesti stampate a fiori, certa biancheria che sporge, certa carne bianca e rossa, sorda al buon gusto e all'armonia anche nel cambiar colore. Queste falangi straniere che, avide di bagni fuori stagione, prenotavano alberghi interi succedendosi in turni serrati da aprile a ottobre (ma meno in luglio e agosto, quando gli albergatori non concedono sconti alle comitive) erano viste dagli indigeni con una sfumatura di compatimento, al contrario di come una volta si guardava il forestiere, messaggero di mondi più ricchi e civilmente provveduti. Eppure, a incrinare la facile alterigia dell'italiano ben messo, disinvolto, lustro, esteriormente aggiornato sull'America, affiorava il senso severo delle democrazie del Nord, il sospetto che in quelle ineleganti vacanze si muovesse qualcosa di più solido, di meno provvisorio, civiltà abituate a concludere di più, il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una facile vernice sull'Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d'emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerovestiti: sospetti fugacissimi, che conviene scacciare in meno d'un secondo.

A Quinto tutti questi sentimenti insieme, ed un tardivo culto della rustica fierezza delle generazioni antiche (che la memoria del padre da poco morto, vecchio da poter essergli stato nonno, tipico superstite di quel ceppo, gli avvicinava) rendeva vieppiù estranea la *** d'oggi. Ma al solito volendo contrastare se stesso (in una scherma dove ormai non si sapeva più che cosa di lui fosse autentico e cosa coartato) si persuadeva che proprio la nuova borghesia degli alloggetti a *** fosse la migliore che l'Italia potesse esprimere.

Intruppato in questa folla civile, realizzatrice, adultera, soddisfatta, cordiale, filistea, familiare, bemportante, ingurgitante gelati, tutti in calzoncini e maglietta, donne uomini bambini giovanetti nell'assoluta parità delle età e dei sessi, in questo fiume pingue e superficiale sull'accidentata realtà italiana, Quinto si disponeva a passare l'estate a ***.

Data la lunghezza del testo, per chi fosse interessato un file PDF scaricabile, alla fine delle note (f.b.)

Il 1° aprile 1933 è entrata in vigore la nuova legge urbanistica inglese ( Town and Country Planning Act, 1932), che disciplina la formazione e l’esecuzione dei piani regolatori nei territori dell’Inghilterra e della Scozia.

Il provvedimento ha grande importanza non solo perché è il risultato di uno studio accuratissimo, al quale hanno preso parte i più autorevoli urbanisti inglesi (fra essi Raymond Unwin, già Presidente della International Federation for Housing and Town Planning), ma anche perché rappresenta il tentativo forse meglio riuscito fino ad oggi di accordare i diritti dei proprietari con gl’interessi superiori della collettività. Vale quindi la pena di esaminarlo a fondo, anche perché è ben noto con quale meticolosa cura si cerca nei paesi anglosassoni di assicurare la sistemazione degli abitati in modo che risultino rispondenti alle esigenze della vita moderna.

La nuova legge ha modificato, abrogandolo, il Town Planning Act 1925, ma al pari di questo, si riallaccia per determinate procedure alle leggi sull’espropriazione, sull’igiene, sulla costruzione di case e sull’ordinamento delle Amministrazioni locali ( Acquisition of Land Act, 1919; Public Healt Acts, dal 1875 al 1926; Local Government Act, 1894; Housing Act, 1925; Local Government Act, 1929).

Essa fa anche salve le disposizioni speciali emanate a favore della Capitale e particolarmente quelle contenute nei seguenti provvedimenti: a) Metropolis Management Acts, 1855-1893; b) Common Council under the City of London Sewers Acts, 1848-1897; c) London Building Act, 1930; d) London Squares Preservation Act, 1931.

Secondo quanto è affermato nel paragrafo di premessa, il Town and Country Planning Act si propone di:

1) autorizzare la compilazione di piani aventi per iscopo la costruzione su aree urbane o rurali e l’esecuzione delle relative sistemazioni ;

2) assicurare la protezione di bellezze panoramiche (rural amenities) e la conservazione di edifici e altri oggetti interessanti o di particolare bellezza;

3) imporre ai proprietari di immobili compresi nel territorio, cui il piano si riferisce, contributi in relazione ai vantaggi conseguiti;

4) facilitare l’acquisto di terreni per città-giardino.

Il complesso delle norme pone anzitutto in evidenza come la necessità di garantire l’ordinato sviluppo degli abitati abbia indotto il legislatore a conferire alle autorità incaricate di sovrintendere allo svolgimento dell’attività edilizia poteri ben più larghi di quelli che i nostri ordinamenti assicurano ai Comuni e agli organi statali cui siffatto compito è affidato. La legge infatti contempla forme di espropriazione con procedura assai più semplificata (pur con la garanzia, più formale che sostanziale, della conferma da parte del Parlamento) quando il bisogno di controllare lo sviluppo di una città obblighi l’autorità locale ad entrare in possesso di beni privati: ammette che attraverso i piani regolatori possano essere imposte servitù assai gravi sugl’immobili, senza diritto a compenso: affida la determinazione delle eventuali indennità non ai tribunali ma a semplici arbitri: accorda alle amministrazioni locali la partecipazione in misura più che abbondante all’eventuale vantaggio derivato ai beni privati dall’approvazione e dall’esecuzione dei piani.

Una posizione certamente molto favorevole è quindi assicurata alle autorità incaricate della formazione e della esecuzione dei piani regolatori, posizione della quale le amministrazioni comunali italiane sarebbero assai felici poter usufruire.

Vero è che in pratica il rigore delle suddette disposizioni risulta molto attenuato. Poteri altrettanto ampi esistevano infatti anche con la legge precedente e ciò non ha impedito di tendere nella loro applicazione a turbare il meno possibile gl’interessi privati : tuttavia il fatto che il Town Planning Act, 1932 ha reso più gravi le restrizioni che ai patrimoni privati possono essere portate con i piani regolatori sta a dimostrare che presso gl’inglesi il diritto di proprietà ha cessato nel campo urbanistico di essere assoluto.

La materia contenuta nella predetta legge può essere raggruppata come segue: 1) Contenuto dei piani regolatori - 2) Enti autorizzati a compilarli - 3) Procedura per la formazione ed approvazione - 4) Esecuzione dei piani - 5) Disciplina dell’attività edilizia 6) Indennità. - 7) Contributi - 8) Espropriazione - 9) Provvedimenti a favore delle città giardino.

Contenuto dei piani regolatori.

I piani regolatori tendono a porre le amministrazioni locali in grado di controllare1o sviluppo delle costruzioni per assicurare la realizzazione delle migliori condizioni possibili nei riguardi dell’igiene, dell’estetica e della comodità, garantire la conservazione di bellezze naturali e di edifici o altri immobili architettonicamente, storicamente o artisticamente interessanti e in generale proteggere le cose esteticamente importanti situate sia nell’abitato, sia in zone rurali (art, 1 ).

Essi possono comprendere tanto aree nude come zone già coperte da costruzioni. Le aree nude possono essere incluse nel piano quando su di esse si manifesti la tendenza ad un’attività edilizia ovvero quando debbano essere utilizzate nell’interesse di costruzioni esistenti o di quelle che potranno sorgere in avvenire, quando cioè siano necessarie per assicurare la disponibilità di spazi liberi, di parchi, campi sportivi o di giuoco, vie di comunicazione, sede di impianti per servizi pubblici, ecc. Le zone costruite possono essere oggetto di disciplina da parte del piano regolatore quando ciò serva ad assicurare un effettivo miglioramento delle loro condizioni o quando in esse siano compresi edifici aventi speciale interesse dal punto di vista storico, artistico o architettonico.

Il Town Planning Act 1925 limitava a questo secondo caso la possibilità di inclusione di nuclei edilizi nel piano regolatore, ed era perciò da considerarsi più restrittivo dell’art. 86 della legge italiana sull’espropriazione per pubblica utilità, che concede ai Comuni relativamente popolosi di poter redigere piani regolatori anche per rimediare alla viziosa disposizione degli abitati dal punto di vista dell’igiene e della viabilità.

Il Town Planning Act 1932 ha tolto ogni limite all’inclusione di edifici esistenti, e quindi esso garantisce meglio della legge italiana la formazione di aggregati edilizi razionalmente disposti, in quanto fornisce poteri all’amministrazione locale per evitare che le bellezze esistenti vadano disperse: ciò che l’esperienza dimostra essere tanto facile a verificarsi quando non possa adoperarsi l’arma del piano regolatore ma debba farsi ricorso a leggi speciali, quale è presso di noi la legge 11 giugno 1922, n. 778 sulla tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico.

In Italia la facoltà di compilare piani regolatori interni venne limitata dalla legge 25 giugno 1865 ai Comuni con popolazione accentrata non inferiore a 10.000 abitanti, in quanto si ritenne che solo in nuclei abitati con caratteristiche di centro urbano la difettosa disposizione degli edifici potesse dar luogo a inconvenienti seri dal punto di vista del traffico e dell’igiene. La restrizione però fu principalmente motivata dal timore che di un potere così delicato potesse esser fatto abuso da parte di piccoli Comuni, i quali, dando eccessiva importanza a inconvenienti di scarso rilievo in agglomerati edilizi minori, avrebbero potuto essere indotti a imporre pesi gravi e ingiustificati alla proprietà costruita. Preoccupazioni siffatte non esistevano invece per le zone di sviluppo dell’abitato, in quanto agli immobili ivi esistenti il piano non avrebbe recato che il vincolo di una disciplina più rigorosa dell’attività edilizia: e ciò spiega perchè la legge suddetta stabilì una certa distinzione tra piani regolatori e piani di ampliamento, dando ai primi quasi un carattere di eccezione.

Possiamo ritenere che in un paese come l’Inghilterra, dove si cerca, almeno formalmente, di rispettare quanto più possibile il diritto di proprietà, considerazioni analoghe a quelle suesposte abbiano indotto in un primo tempo il legislatore a vietare del tutto i piani regolatori per i nuclei edilizi esistenti, ammettendo solo parziali trasformazioni, dettate da ragioni particolarmente gravi dal punto di vista storico o artistico.

In seguito però si è dovuto costatare che non è possibile provvedere alla città futura senza tener conto di quella esistente, in quanto non si può considerare la vita di un quartiere avulsa da quella dell’intero agglomerato edilizio di cui fa parte. La pratica ha posto in evidenza che i nuovi nuclei abitati alla periferia influiscono grandemente su quelli centrali, aumentandone il traffico, trasformando l’attività commerciale e industriale che in essi si svolge, dando loro e ricevendone mezzi di vita.

Il Town Planning Act 1932 ha finito quindi per ammettere, sia pure in modo abbastanza cauto, che il piano regolatore non possa e non debba restringere il campo d’azione alle zone esterne dei centri abitati, ma detti opportune norme per l’intero territorio, che è o sarà in seguito occupato da costruzioni. E poiché la ragione principale di tale determinazione sta nella stretta connessione fra quartieri vecchi e nuovi, è stata bandita dalla legge urbanistica inglese la distinzione fra piano regolatore e piano di ampliamento, introdotta nella legge italiana del 1865, distinzione dimostratasi in pratica dannosa e quindi abbandonata di fatto anche presso di noi in quasi tutti i piani regolatori approvati fino ad oggi.

Secondo i1 Town and Country Planning Act il piano regolatore deve contenere tutte le disposizioni necessarie per assicurare le migliori condizioni di sviluppo edilizio della zona e in particolare fornire norme circa:

- la costruzione di strade esterne o interne e l’eventuale chiusura o modificazione di quelle esistenti;

- la disciplina delle costruzioni di qualsiasi specie;

- la formazione di spazi liberi, sia pubblici che privati, e la riserva di zone per l’impianto di aeroporti;

- la conservazione di alberi o di boschi;

- il divieto di effettuare depositi di rifiuti o l’eventuale loro disciplina;

- l’impianto di fognature e di smaltimento delle immondizie;

- l’illuminazione e l’approvvigionamento idrico;

- l’estinzione o la modificazione di diritti di passaggio o di altri vantaggi relativamente all’uso delle strade;

- la gestione di terreni acquistati dall’autorità locale o dall’autorità incaricata di sovrintendere al piano regolatore.

Esso deve inoltre disciplinare:

- la facoltà della autorità predetta di modificare o demolire ogni opera che impedisca l’esecuzione del piano e di accordarsi a tal fine con i proprietari o di permettere accordi fra questi;

- la facoltà di ricevere somme per l’esecuzione del piano e la gestione di esse;

- l’emanazione di norme complementari intese ad assicurare l’esecuzione del piano e a determinare le penalità a carico dei contravventori;

- il periodo di validità del piano;

- le norme per la riscossione del contributo di miglioria.

I piani regolatori possono infine contenere disposizioni intese a vietare l’apposizione di pubblicità che diminuiscano la bellezza di determinati ambienti, fatta eccezione per quelle riguardanti affari, trattenimenti, aste o vendite che interessino l’immobile sul quale sorgono, purché conformi per grandezza e tipo alle norme contenute nel piano.

Per quanto si riferisce alle costruzioni i1 piano regolatore deve contenere prescrizioni circa il numero degli edifici e la superficie coperta di ciascuno: deve inoltre attribuire all’autorità incaricata dell’attuazione del piano la facoltà di regolare con disposizioni di carattere permanente la massa, l’altezza e l’architettura dei fabbricati e i materiali da impiegare (quando ciò sia necessario tenuto conto dell’altezza da raggiungere), nonché l’uso dei fabbricati costruiti o da costruire. Sono esclusi da tali disposizioni gli edifici destinati ad usi agricoli. Com’é ovvio rilevare, la legge urbanistica inglese è ben più larga di quella italiana per quanto riguarda la considerazione dei bisogni da soddisfare attraverso la formazione del piano regolatore. La legge italiana ha ammesso che si possa col piano provvedere solo al miglioramento delle condizioni igieniche e di viabilità dell’abitato esistente e tendere ad assicurare una comoda e decorosa disposizione dei futuri quartieri. Il legislatore inglese ha riconosciuto, invece, che le autorità locali devono preoccuparsi di conferire all’aggregato edilizio una sistemazione tale che la vita dei cittadini vi si possa svolgere nelle migliori condizioni ed ha quindi considerato come materia di piano regolatore l’organizzazione di tutti i servizi pubblici, dando alle autorità stesse la possibilità di imporre ai beni privati i vincoli che all’uopo si rendono necessari. I voti, che in questo senso hanno formulato gli urbanisti italiani in vista dell’emanazione di una nuova legge sui piani regolatori, possono quindi, alla stregua dell’esperienza inglese, considerarsi perfettamente giustificati.

Enti autorizzati a compilare piani regolatori.

Il Town Planning Act 1925 faceva obbligo a tutti i boroughs e ai distretti urbani, che al censimento 1921 risultarono avere una popolazione di più di 20.000 abitanti, di provvedere alla formazione del piano regolatore non più tardi del 1° gennaio 1929: ma per quanto l’attività delle Amministrazioni municipali inglesi in questo campo sia stata negli ultimi anni molto intensa, il suddetto termine trascorse senza che la norma avesse ricevuto integrale applicazione.

La legge del 1932 ha confermato il suddetto obbligo, fissando come termine ultimo il 31 dicembre 1938, ed ha inoltre, dato facoltà al Ministro di obbligare anche altri distretti con popolazione inferiore a procedere alla compilazione del piano quando non lo facciano spontaneamente e quando, a suo giudizio, ricorrano le condizioni che fanno ritenere opportuna tale compilazione [1].

Il legislatore inglese ha quindi risoluto in senso affermativo la questione, tuttora in piedi presso di noi, se sia opportuno imporre a determinati Comuni l’obbligo di compilare il piano regolatore, senza voler affrontare un esame a fondo di tale delicata materia, non possiamo fare a meno di rilevare come questa soluzione sia quanto mai opportuna. Il piano regolatore, pur senza caricare la proprietà di pesi insostenibili, offre la possibilità di adottare le cautele necessarie perché le autorità locali possano migliorare le condizioni attuali dell’abitato e renderlo adatto a soddisfare le esigenze future della cittadinanza. Siccome, peraltro, la sua formazione rappresenta nella generalità dei casi un problema assai complesso, il cui studio reca una somma di lavoro e di responsabilità tanto gravi da indurre molti amministratori a disinteressarsene, l’imposizione dell’obbligo risulta, più che utile, addirittura indispensabile.

Le autorità locali inglesi possono procedere esse stesse alla compilazione del piano ovvero delegare tale compito al Consiglio di Contea, trasferendogli tutti i poteri che la legge loro accorda, eccettuato quello di contrarre prestiti e di imporre tasse. La delega può esser fatta sotto certe condizioni e limitata ad un periodo più o meno lungo ovvero a tempo indeterminato. Dell’accordo e delle sue eventuali variazioni deve esser data comunicazione al Ministero dell’Igiene [2].

La decisione di procedere alla compilazione del piano può essere adottata d’iniziativa dell’autorità locale competente oppure su richiesta dei cittadini interessati, i quali hanno facoltà di sottoporre all’esame dell’autorità stessa progetti da loro compilati per la sistemazione di tutto o parte del territorio costituente il distretto.

I cittadini possono anche presentare i loro progetti al Ministro dell’Igiene, il quale, ove li ritenga accettabili, ordina all’autorità locale di adottarli.

Tanto in questo caso come per qualunque altro invito relativo all’adozione di decisioni riguardanti la compilazione del piano, decorso il termine prefisso nell’ordinanza, il Ministro può compilare ed approvare esso medesimo il progetto. Qualora trattisi di un distretto urbano con popolazione inferiore ai 20.000 abitanti può anche dare incarico al Consiglio di Contea di adottarlo, con le modificazioni eventualmente necessarie, in luogo e vece del district council o del borough council, cui spetterebbe per ragioni di competenza territoriale. Rimangono a carico del distretto medesimo le spese cui rispettivamente il Ministero o il county council sono andati incontro per il provvedimento d’ufficio.

Di tutte le proposte relative alla formazione di piani viene data notizia al Consiglio di Contea, il quale deve anche essere consultato in merito all’opportunità di compilare i piani e alla determinazione del loro contenuto.

Procedura per la formazione ed approvazioni dei piani.

Nella formazione dei piani si distinguono tre fasi:

a) deliberazione con la quale viene disposta la compilazione del piano;

h) preparazione del piano di massima (preliminary statement);

c) compilazione del piano esecutivo.

La deliberazione con la quale si decide di far luogo alla compilazione del piano deve essere portata a conoscenza del pubblico mediante avviso contenente indicazioni esatte sull’estensione del piano medesimo. I privati possono nel termine prescritto avanzare proposte tendenti ad allargare o restringere i limiti in essa stabiliti, e di tali suggerimenti l’autorità locale deve tener conto nella formazione del piano.

Il preliminary statement, adottato per iniziativa dell’autorità locale competente ovvero su richiesta degl’interessati o per invito del Ministro, stabilisce in linea di massima il contenuto del piano, indicando quali modificazioni saranno apportate alla zona cui si riferisce. Tali modificazioni debbono essere specificate in una carta topografica da depositare nell’ufficio del distretto, perché chiunque possa prenderne visione.

Il preliminary statement deve essere sottoposto all’esame del Ministro entro 18 mesi dalla data in cui diventò esecutiva la deliberazione relativa alla formazione del Piano. Il Ministro l’approva con o senza modificazioni dopo avere accertato che sussistono le condizioni dianzi enunciate circa gli scopi e l’estensione dei piani regolatori, e previo esame delle osservazioni e dei reclami eventualmente presentati.

Approvato dal Ministro, il preliminary statement è portato a conoscenza del pubblico mediante due inserzioni sulla “Gazzetta di Londra” e in un giornale locale alla distanza di una settimana. Di esso inoltre deve esser fatta notifica entro sei mesi ai proprietari e a coloro che risultino pagare l’imposta relativa ai fondi compresi nel piano, ovvero, nel caso d’immobili non soggetti a tributo, a coloro che occupavano i fondi all’epoca dell’ultimo accertamento compiuto per l’applicazione dello Income Tax Act 1918.

Il preliminary statement può essere revocato in qualunque momento, con l’assenso del Ministro, dall’autorità che lo adottò o annullato dal Ministro, previa comunicazione all’autorità medesima, che può in merito presentare osservazioni.

Diventato esecutivo il preliminarv statement, l’autorità locale ha facoltà di preparare il piano regolatore definitivo per l’intera zona o separati piani per ciascuna parte di essa.

Alla deliberazione relativa sono applicabili tutte le disposizioni riguardanti il preliminary statement circa l’approvazione da parte del Ministro, il deposito delle piante e la notifica agl’interessati.

In caso di ritardo nella compilazione del piano il Ministro può, di sua iniziativa o su richiesta degli interessati, prefiggere un termine, decorso il quale procede d’ufficio.

Il piano deliberato dall’autorità locale e pubblicato nelle forme prescritte, riceve sanzione legale con l’approvazione da parte del Ministro, al quale deve essere inviato entro 18 mesi dall’approvazione definitiva del preliminary statement e in ogni caso entro 3 anni dalla data della deliberazione iniziale.

Il Ministro può negare la sua approvazione o concederla introducendo opportune modificazioni nel piano. In questo caso, peraltro, egli deve informarne l’autorità locale, che entro 28 giorni può richiedere una particolare inchiesta in merito.

Dell’approvazione del piano va data notizia al pubblico a cura dell’autorità che l’ha promossa, la quale deve curare il deposito delle piante in luogo adatto, dove il pubblico possa prenderne visione.

Entro sei settimane dalla pubblicazione chiunque si creda leso dal piano può ricorrere alla High Court, allegando che il contenuto di esso non è conforme alle disposizioni di legge o che qualche formalità è stata omessa nell’approvazione. La Corte, riconoscendo fondato il reclamo, può annullare il piano nel suo complesso ovvero limitatamente alla parte che colpisce la proprietà del ricorrente. Contro tale decisione è ammesso ricorso alla Camera dei Lords solo se la Court of Appeal lo abbia consentito.

Il piano regolarmente approvato può essere successivamente modificato dall’autorità locale che lo deliberò o dal Ministro, il quale, tuttavia, può adottare in proposito determinazioni solo se il cambiamento non rechi una considerevole maggiore spesa.

L’autorità che ha compilato il piano, valendosi degli elementi che gli uffici fiscali sono obbligati a fornirle, compila un registro contenente le generalità di tutti i possessori di immobili compresi nel territorio cui il piano stesso si riferisce. Gl’interessati e le associazioni che li rappresentano possono chiedere l’inclusione dei loro nomi nel registro, avendo cura di chiedere il rinnovo dell’iscrizione ogni tre anni, Dei nomi e degl’indirizzi contenuti in detto registro l’autorità si varrà per rendere più spedito il servizio di notifica dei provvedimenti relativi a eventuali variazioni del piano regolatore e alla sua esecuzione.

L’esposizione della procedura da seguire in Inghilterra per giungere all’approvazione definitiva del piano regolatore ci convince facilmente che, se numerosi ed estesi sono i poteri accordati alle autorità locali per quanto riguarda l’assetto edilizio dei centri abitati anche di minore importanza, non poche sono le difficoltà da superare per entrarne in possesso. Il rispetto tradizionale della proprietà privata aveva indotto il legislatore inglese a sancire nel Town Planning Act 1925 anche l’obbligo per le Autorità locali di interpellare i proprietari degl’immobili prima di adottare deliberazioni in merito alla compilazione dei piani stessi. La legge del 1932 ha soppresso tale obbligo, ma, nonostante la notevole semplificazione derivatane, tali e tante sono le formalità da adempiere (deliberazioni, pubblicazioni, notifiche, ecc.) che qualsiasi podestà in Italia ne sarebbe addirittura terrorizzato e ben difficilmente s’indurrebbe ad affrontare una procedura tanto complicata e pesante.

Un vantaggio tutt’altro che disprezzabile esiste tuttavia, rispetto alla legge italiana: ed è quello della riunione in un solo organo della potestà di decidere in ordine alla definitiva approvazione del piano regolatore.

In Italia l’approvazione viene data per Decreto Reale, ma prima di giungere a questo atto finale e conclusivo numerosissimi organi burocratici e collegi consulti vi debbono esprimere il loro parere, che obbliga spesso le amministrazioni comunali interessate a modificare più e più volte le norme tracciate nel piano; per cui non di rado si verifica che il piano approvato è da considerarsi non più rispondente ai bisogni del centro cui si riferisce.

In complesso quindi l’approvazione di un piano regolatore è da considerarsi più agevole in Inghilterra che in Italia. Questo, oltre che il maggiore interessamento del pubblico inglese ai problemi urbanistici, spiega perché nel 1931 quasi 800 progetti erano colà allo studio e di questi circa 300 già approvati o prossimi ad esserlo [3], mentre in Italia non si era ancora arrivati al centinaio, numero questo che assai difficilmente potrà esser superato in futuro se la tanto auspicata legge urbanistica non porterà notevoli semplificazioni nella complicata procedura stabilita dalle disposizioni oggi in vigore.

Esecuzione del piano regolatore.

L’autorità incaricata di sovrintendere all’esecuzione del piano ha facoltà di adottare tutte le disposizioni necessarie pecche questo sia regolarmente attuato e perciò essa può ordinare:

a) la demolizione o la trasformazione di edifici o di altre opere che siano in contrasto con la sistemazione prevista nel piano o che ostacolino l’esecuzione stessa;

b) la modificazione di opere in progetto, contrastanti con le norme del piano regolatore;

c) il cambiamento dell’uso attuale di determinati beni;

d) l’eliminazione di impianti di carattere pubblicitario, eccettuati, come già si è detto, quelli relativi ad industrie o commerci interessanti i beni sui quali essi sorgono.

L’autorità locale può anche dar corso direttamente a opere di competenza di privati, quando il ritardo nella loro esecuzione possa pregiudicare l’attuazione del piano.

Prima di adottare uno qualsiasi dei provvedimenti suindicati essa deve darne notizia al proprietario e all’occupante o a qualunque altra persona interessata. In caso di demolizione o trasformazione di edifici ovvero di cambiamento dell’uso attuale la notizia deve essere data almeno sei mesi prima; negli altri casi almeno 28 giorni prima.

Le persone diffidate possono ricorrere al tribunale di sommaria giurisdizione: il ricorso ha effetto sospensivo.

Nel caso in cui non sia presentato ricorso o questo venga respinto il privato che prosegua nell’uso vietato va soggetto ad una multa estensibile a 50 sterline, oltre 20 sterline per ogni giorno di ritardo nell’eseguire l’ordinanza notificatagli.

Disciplina dell’attività edilizia.

Allo scopo di assicurare l’attuazione del piano nel modo più idoneo, il piano deve contenere norme intese a vietare o a regolare lo svolgimento dell’attività edilizia e a disciplinare l’esecuzione delle opere e degli impianti in esso previsti, sospendendo, ove sia il caso, regolamenti e ordinanze da qualunque autorità emanate.

Deve inoltre contenere la facoltà per l’autorità locale di emanare ordinanze, denominate supplementary orders, al fine di completare le disposizioni del piano regolatore o variarlo in quelle parti di cui si ravvisi la necessità di opportune modificazioni. L’autorità locale può anche emanare supplementary orders intesi a vietare qualsiasi alterazione di edifici d’importanza storica o architettonica.

Il privato che si creda danneggiato può chiedere al Consiglio la revoca, e in caso di rifiuto ricorrere al Ministro, che deciderà definitivamente, uditi i Commissari ai Lavori Pubblici ( Commissioners of Works) . Diventata esecutiva, l’ordinanza può essere variata solo con l’autorizzazione del Ministro, il quale è arbitro di concedere l’autorizzazione stessa ovvero di rodinanrne la modificazione dopo aver udito il parere dei Commissioners of Works e dopo aver presa visione degli eventuali reclami di proprietari o di elettori del distretto.

L’autorizzazione allo svolgimento dell’attività edilizia in conformità delle norme tracciate dal piano viene data con un’ordinanza dell’autorità locale avente la denominazione di generai development order. Chiunque si ritenga danneggiato dalla mancata emanazione dell’ordinanza ha facoltà di ricorrere al Ministro, che può provvedere in luogo e vece dell’autorità locale.

Prima dell’emanazione del general development order i proprietari possono chiedere l’autorizzazione a svolgere operazioni edilizie e in caso di rifiuto ricorrere al Ministero, che decide inappellabilmente. Con l’assenso del Ministro può essere autorizzato lo svolgimento di attività edilizia anche nell’intervallo tra la deliberazione con la quale si decide in linea preliminare di far luogo alla compilazione del piano e la definitiva approvazione di questo (interim development). La relativa domanda deve dagli interessati essere avanzata all’autorità locale, la quale può subordinarne l’accoglimento all’osservanza di determinate cautele o addirittura respingerla. In questo caso il privato può ricorrere al Ministro, il quale decide in via definitiva, udita la relazione di un suo delegato, al quale tanto il ricorrente quanto l’autorità locale possono esporre le loro ragioni.

Degna di particolare rilievo c la norma in forza della quale l’esercizio dell’attività edilizia è subordinato ad una speciale autorizzazione dell’amministrazione locale. Se poniamo tale disposizione in relazione con l’altra, cui accenneremo in seguito, in forza della quale è permesso all’autorità locale di interdire in via permanente il sorgere di costruzioni laddove queste possono turbare la bellezza dell’ambiente ovvero obbligare l’autorità medesima a spese troppo gravi per l’impianto dei servizi pubblici, rileviamo facilmente quale grande passo sia stato fatto presso gli inglesi in materia di disciplina dello sviluppo dei centri abitati e come non soltanto sia impedito il cosiddetto sporadic development, che tanti danni ha recato all’estetica di molte città, ma sia del tutto abbandonato quel malinteso ossequio al diritto di proprietà che finisce per subordinare gl’interessi della collettività a quelli del singolo, favorendo le speculazioni più sfacciate a carico delle finanze comunali; come è avvenuto in Italia allorché si è dovuto permettere che determinate persone o associazioni, per valorizzare i loro terreni, spingessero con tutti i mezzi la fabbricazione di nuovi nuclei in località inadatte sia dal punto di vista estetico, sia nei riguardi della estensione dei pubblici servizi.

La barriera posta a veri e propri attentati all’estetica degli abitati e alle finanze locali costituisce un esempio notevole, che meriterebbe di essere seguito, soprattutto in un paese come il nostro, dove vige incontrastato il principio che i diritti dei privati non debbano essere conculcati in nessun caso ma l’interesse del singolo cittadino debba sempre cedere il passo a quello superiore della collettività!

Indennità.

Ogni cittadino ha diritto di essere risarcito dei danni che la sua proprietà, il suo commercio, la sua industria o la sua professione hanno risentito dall’entrata in vigore del piano o dalla sua esecuzione anche parziale ovvero dall’esecuzione di ordinanze per la conservazione di determinati edifici. Qualunque persona ha anche diritto di essere rimborsata delle spese che abbia dovuto sostenere per uniformarsi al piano e dalle quali non possa trarre alcuna utilità, salvo che il danno derivi da una disposizione di legge preesistente e richiamata nel piano.

Nessuna indennità è dovuta per le seguenti limitazioni imposte dal piano:

l) obbligo di lasciare spazi liberi intorno alle costruzioni;

2) limitazione del numero degli edifici;

3) obbligo di osservare determinate norme circa la massa, l’altezza e l’architettura degli edifici nonché i materiali da usare nella costruzione;

4) divieto di svolgere attività edilizia prima dell’emanazione del general development order;

5) divieto permanente di costruzione, laddove il sorgere di edifici possa causare danni alla pubblica salute o richiedere eccessive spese per l’impianto dei servizi pubblici;

6) divieto di destinare gli edifici a determinati usi;

7) norme circa l’altezza e la posizione delle recinzioni agli angoli delle strade nell’interesse della sicurezza pubblica;

8) norme circa l’andamento e il numero delle strade di lottizzazione;

9) limitazioni delle sporgenze degli edifici sull’area pubblica;

10) limiti allo stazionamento di vetture in vicinanza di edifici adibiti ad usi commerciali o industriali.

Le suddette restrizioni sono soggette ad omologazione da parte del Ministro, il quale deve accertare che rispondano a un bisogno effettivo e che non siano di ostacolo insormontabile allo svolgimento dell’attività edilizia in generale. Nel caso di divieto di modificazioni agli edifici esistenti il proprietario, avanzando ricorso entro un anno dalla notifica di esso, può ottenere il risarcimento dei danni che gliene siano derivati.

Le questioni che sorgano in merito all’indennità, ove non siano oggetto di amichevole componimento fra le parti, sono risolte da un arbitro ufficiale da nominarsi con le norme stabilite dall’ Acquisition of Land Act, 1919.

Entro un mese dalla decisione dell’arbitro l’autorità ha facoltà di comunicare alla persona da indennizzare la propria volontà di revocare o modificare il provvedimento che dà origine all’indennità e nei tre mesi successivi sottoporre la relativa variante al Ministro.

Non possiamo a meno di rilevare che le suddette disposizioni, riguardanti il pagamento d’indennità per danni derivati dal piano regolatore e dalla sua attuazione, avrebbero potuto essere molto più chiare. La loro lettura ci fa pensare che non pochi dubbi debbano occupare la mente del giudice chiamato a dirimere le controversie fra autorità locali e proprietari, costretto com’è a tener presente il principio generale per cui un adeguato risarcimento è dovuto in ogni caso in cui il vantaggio che il privato ritrae dai propri beni e dalla propria attività subisce diminuzioni e altre norme che consentono l’imposizione di numerose limitazioni senza diritto a risarcimento di sorta.

Sappiamo che l’equità ha grande peso nelle decisioni del giudice inglese ma pensiamo che in un campo così delicato la chiarezza della norma potrebbe assicurare il trionfo della giustizia meglio della parola di un arbitro, che, nonostante l’autorità e l’indipendenza di cui gode, è portato naturalmente a seguire nei propri giudizi punti di vista personali, quando la lettera della legge non ne limiti rigorosamente la discrezionalità.

Contributi di miglioria.

L’autorità che provvede all’esecuzione del piano ha diritto di esigere dai proprietari che ne sono avvantaggiati un contributo estensibile fino al 75 per cento dell’incremento di valore dei beni.

Nelle norme sancite dal piano è determinata la procedura da seguire nell’accertamento e nella riscossione del contributo, tenendo presenti i seguenti criteri:

a) Il contributo può essere richiesto in relazione all’incremento di valore derivato dall’entrata in applicazione del piano, ovvero in relazione all’attuazione di una data opera da esso prevista.

b) L’accertamento deve aver luogo entro 12 mesi rispettivamente dall’entrata in applicazione del piano o dal termine dell’opera.

c) Le norme del piano regolatore possono stabilire, quanto alla riscossione, che questa abbia luogo in una sola volta ovvero a rate nel termine di trenta anni: in questo caso dovranno essere corrisposti gl’interessi nella misura del 4,50 per cento.

d) È obbligatorio dedurre dal contributo il valore di donativi fatti dal proprietario per agevolare l’attuazione del piano.

I beni immobili usati per scopi agricoli, ricreativi, umanitari o religiosi sono esenti dal pagamento del contributo fino a che duri tale uso.

Le questioni sorgenti dalla richiesta e dall’accertamento del contributo sono anch’esse decise da un arbitro ufficiale, il quale deve tener conto delle deduzioni presentate dall’autorità interessata.

Il debito relativo al contributo gode di privilegio rispetto a tutti gli altri derivati dall’entrata in vigore del piano e dall’esecuzione dell’opera per la quale il contributo è dovuto.

A proposito dei contributi di miglioria ci è d’uopo rilevare che mentre in Italia è chiara la tendenza a limitare la partecipazione dell’ente pubblico ai vantaggi che la sua attività ha procurato ai beni dei proprietari, perfettamente opposta è la tendenza nella legislazione inglese.

Presso di noi dalla norma dell’art. 78 della legge 25 giugno 1865, che fissava come aliquota massima del contributo il 50 per cento dell’effettivo incremento di valore conseguito dai beni, si è passati al 20 per cento con l’art. 14 del Decreto-legge 18 novembre 1923, n. 2538, per scendere ancora al 15 per cento con l’art. 238 del Testo Unico sulla finanza locale 14 settembre 1931, n. 1175.

In Inghilterra, invece, dal 50 per cento fissato dal Town Planning Act del 1925 si è saliti al 75 per cento con la recente legge urbanistica.

Non vogliamo affermare che l’imposizione di un onere così forte sui patrimoni privati, avvantaggiati da opere che molto spesso i singoli non hanno né desiderato né richiesto, sarebbe augurabile in Italia: certo è però che il principio di far ritornare nelle casse dell’ente pubblico gran parte del denaro speso per opere che hanno aumentato il valore dei patrimoni privati, facendo partecipare in misura notevole la collettività a tale beneficio, si basa sopra un principio di giustizia indiscutibile. E se esso potesse essere applicato in modo da diluire nel tempo l’onere per i proprietari, sarebbe certamente accolto con soddisfazione anche in Italia, specialmente da coloro che si preoccupano delle difficoltà di carattere finanziario che impediscono oggi non solo di attuare ma anche di concepire programmi arditi di sistemazioni edilizie cittadine.

Espropriazione.

Ove l’acquisto diretto dei beni necessari per l’esecuzione del piano non risulti possibile, l’autorità locale può sottoporre all’approvazione del Ministro un’ordinanza di espropriazione (compulsory purchase order).

Deve peraltro essere dimostrato che i beni da espropriare sono necessari per uno dei seguenti scopi:

a) per costruire strade;

b) per controllare l’utilizzazione di aree attigue a vie pubbliche;

c) per assicurare l’utilizzazione razionale di una data estensione di aree male lottizzate;

d) per rendere possibile una transazione con persona alla quale siano stati espropriati tutti i beni per l’attuazione del piano.

Sono esenti da espropriazione:

1) i terreni sui quali si trovino antichi monumenti o altri oggetti di interesse archeologico, salvo che l’espropriazione abbia per iscopo di assicurarne la tutela o la conservazione;

2) i beni appartenenti a enti locali o a impresari dello Stato, salvo che questi non vi acconsentano. Il Ministro ha però facoltà di accordare ugualmente l’espropriazione se il consenso risulti rifiutato senza motivo plausibile.

Nessuno può essere espropriato di una parte di edificio, manifattura, ovvero di parte di giardino o parco pertinente ad una casa, ameno che l’arbitro riconosca che l’espropriazione parziale non pregiudica l’utilizzazione dei detti beni o non reca serio danno all’estetica della casa.

Analogamente a quanto è disposto dalla legge italiana, nella determinazione dell’indennità non de ve esser tenuto conto di costruzioni o trasformazioni compiute dopo la pubblicazione dell’ordinanza di espropriazione, se a giudizio dell’arbitro esse furono eseguite per acquistare il diritto ad un aumento dell’indennità.

Prima di sottoporre l’ordinanza all’approvazione del Ministro l’autorità interessata deve darne notizia mediante avviso in un giornale locale, indicando dove la pianta dei beni da espropriare è visibile, e farne notifica ai proprietari, locatari o occupanti (eccettuati coloro che occupino lo stabile per periodo non superiore à un mese).

Il Ministro, ove non siano presentati reclami, può confermare l’ordinanza con o senza modificazioni. In caso di presentazione di reclami la conferma è subordinata a inchiesta sul luogo.

L’espropriazione ordinata dal Ministro ha carattere provvisorio e diventa definitiva solo con la ratifica del Parlamento, a meno che il piano preveda la cessione in cambio di terreno di superficie non inferiore a quello espropriato e di uguale valore, o salvo che si tratti di terreno necessario per la costruzione di una via pubblica giudicata indispensabile.

Disposizioni relative alle città-giardino.

Com’è noto, grande importanza viene data in Inghilterra alla costruzione di quartieri di abitazione a carattere estensivo, come mezzo per assicurare, specialmente a chi lavora, abitazioni quiete e quanto più possibile igieniche. Grande fortuna, pertanto, hanno avuto colà gli aggruppamenti di costruzioni di tipo ridotto, inframezzate da giardini ed orti familiari: ed associazioni importanti si sono formate per dare ad esse un conveniente impulso, fra le quali l’ International Garden Cities and Town Planning Federation, trasformatasi nel 1926 nell’attuale International Federation for Housing and Town Planning.

Senonché l’impiego di considerevoli somme, che dette forme di costruzione esigono, soprattutto per l’acquisto dei terreni, ne ha reso più difficile lo sviluppo in questi ultimi tempi.

Il Town and Country Planning Act 1932 ha voluto ovviare alle conseguenze di questo stato di cose ed a tal fine ha dato facoltà al Ministro per l’Igiene di espropriare a favore delle autorità locali o di associazioni legalmente riconosciute appezzamenti di terreni atti al sorgere di città-giardino o all’ampliamento di quelle esistenti, autorizzando altresì la Commissione dei prestiti per Lavori Pubblici (Public Works Loan Commissioners) a concedere mutui, ad associazioni che si prefiggano la sistemazione di città-giardino, con le facilitazioni previste nell’ Housing Act 1925.

Piani regionali.

Il rispetto, che in Inghilterra si professa all’integrità delle circoscrizioni amministrative esistenti da tempo, ha fatto sì che numerosi siano oggi i centri abitati costituenti un tutto organico dal punto di vista edilizio ma appartenenti a distretti municipali diversi. Per garantire un assetto urbanistico conveniente a siffatti aggregati edilizi e soprattutto per impedire che il loro sviluppo e la conseguente estensione dei pubblici servizi dia luogo a pericolose interferenze fra le varie autorità locali, si è dovuto favorire in tutti i modi la compilazione di piani regolatori abbraccianti il territorio di più circoscrizioni. A tal fine si è creduto opportuno anzitutto autorizzare le amministrazioni locali a comprendere nel proprio piano regolatore zone appartenenti ad altre circoscrizioni, udito il parere delle amministrazioni interessate. (Di questa facoltà si sono vale soprattutto le amministrazioni di comuni urbani nei riguardi di altri comuni aventi rispetto ai primi caratteristiche di città satelliti).

Ma poiché è sotto ogni punto di vista desiderabile che un compito così delicato, quale è quello della disciplina dello sviluppo edilizio, sia assolto con l’intervento, a parità di diritti, di tutte le amministrazioni interessate, la legge da facoltà a queste di provvedervi creando appositi organi collegiali o commissioni miste (Joint Committees) e delegando loro tutti o parte dei propri poteri (eccettuato quello di contrarre prestiti o imporre tasse). Il Joint Committee, al quale si applicano le stesse disposizioni in materia di bilanci e conti stabilite dal Local Government Act 1894 per le autorità locali, può essere costituito anche dal Ministro di sua iniziativa o su domanda di una o più autorità locali. Il decreto relativo, quando le autorità interpellate non aderiscano tutte, deve essere preceduto da inchiesta sul luogo.

I Consigli di contea o le autorità locali di circoscrizioni attigue possono dal Ministro essere autorizzate a nominare un proprio rappresentante in seno al Joint Committee anche in epoca successiva alla sua costituzione: ed il Ministro può invitarle d’ufficio ad addivenire a tale nomina, la quale, peraltro, fa salva l’attività precedentemente svolta dalla commissione.

Alla formazione dei piani regionali si applicano le norme di procedura stabilite per i piani normali, intendendosi il Joint Committee sostituito ai District Councils in tutte le facoltà loro attribuite, salve le riserve che essi abbiano fatto al momento della costituzione della Commissione mista.

Il piano regionale non impedisce alle singole autorità locali di compilare piani regolatori limitatamente a tutto o parte del territorio della rispettiva circoscrizione. Tali piani, che assumono la denominazione di supplementary schemes, debbono essere redatti in perfetto collegamento col piano regionale, e possono contenere, oltre le disposizioni del piano predetto, la cui osservanza è obbligatoria in ogni caso, anche altre in questo omesse, purché comprese fra quelle che la legge urbanistica consente di includere nei piani in genere.

L’esecuzione del piano regionale ha luogo a cura del Joint Committee quando le autorità locali, che lo hanno costituito, gli abbiano delegato tutte le facoltà loro attribuite dalla legge urbanistica. In caso contrario all’attuazione stessa provvedono i singoli distretti sotto il controllo del Ministro, il quale può emanare decreti per l’esecuzione d’ufficio di opere giudicate indispensabili, quando le autorità interessate non aderiscano all’invito loro rivolto di darvi corso entro un certo termine.

Qualunque sia il campo di attività loro assegnato, i Joint Committees possono essere sciolti con decreto del Ministro, quando il loro funzionamento non sia regolare o quando si dimostrino incapaci di raggiungere gli scopi per i quali furono costituiti.

Com’è facile immaginare, la costituzione di Joint Committees per la compilazione di piani regionali interessanti un centro abitato suddiviso in più distretti ha carattere di soluzione di ripiego, che non va esente da gravi mende, specie laddove i singoli distretti si siano riservate facoltà più o meno estese nel campo della disciplina dell’attività edilizia, riserve che rendono assai difficile o addirittura impossibile l’adozione di un indirizzo unico nell’esecuzione del piano regolatore.

Molto più opportuna, quindi, dal punto di vista urbanistico è stata la soluzione adottata su vasta scala in Italia di annettere al comune più importante le circoscrizioni dei piccoli comuni confinanti col suo aggregato edilizio. Ma poiché con siffatto sistema non tutti i problemi relativi allo sviluppo razionale ed organico dei centri urbani possono essere risoluti, e poiché, d’altra parte, quelli relativi alla viabilità e alla tutela delle bellezze naturali possono essere compromessi da iniziative contrastanti, assunte da comuni contermini, anche se i rispettivi abitati distino fra loro notevolmente, chiara appare l’opportunità di introdurre in Italia l’istituto dei piani regionali, quantunque presso di noi esso non possa avere un campo di applicazione così vasto come in Inghilterra.

Quanto abbiamo segnalato a proposito del recente Town and Country Planning Act non c’induce alla conclusione che molte delle norme sancite per la Gran Bretagna potrebbero utilmente essere incluse nelle nostre leggi. Troppo diverso è l’ambiente nel quale esse dovrebbero avere applicazione, sia per quello che riguarda l’organizzazione delle amministrazioni locali, sia per ciò che si riferisce al modo di concepire la posizione dell’individuo rispetto alla pubblica amministrazione. Tuttavia l’identità di molti bisogni e l’analogia dei mezzi necessari per soddisfarli consigliano a meditare profondamente la portata di talune disposizioni, che non possono mancare di produrre gli stessi effetti e di assicurare gli stessi vantaggi sotto qualsiasi clima ed in qualsiasi ambiente fisico e politico.

Sotto questo punto di vista potrà non risultare del tutto inutile la rapida scorribanda che abbiamo fatto nel campo della legislazione urbanistica inglese.

[1]La legge dichiara che la compilazione dei piani spetta alle autorità locali, spiegando che tali devono intendersi il Consiglio della Contea di Londra ( London County Council) e i Consigli dei borghi e distretti di contea ( Councils of County boroughs and County districts).

Non è facile spiegare in poche parole la differenza fra queste varie specie d’autorità locali.

Nella Gran Bretagna infatti esiste una divisione amministrativa ben diversa da quella francese e italiana.

Anzitutto mentre in Italia la gestione dei servizi locali è affidata ai Comuni, fatta eccezione per quelli di maggiore importanza disimpegnati da organi statali (istruzione, pubblica sicurezza, strade di grande comunicazione) e per altri, che interessano tutti gli abitanti di una regione, affidati all’Amministrazione provinciale (strade secondarie, istruzione tecnica, manicomi), in Inghilterra tale gestione è suddivisa fra lo Stato e i seguenti enti locali:

1) la parrocchia. È la più piccola circoscrizione: rappresentata dal parish council, o in mancanza di questo dal parish meeting, provvede alla manutenzione dei sentieri, alla tutela dei diritti di passaggio e alle concessioni di terreni per fabbricare o per coltivazione. Il Consiglio parrocchiale può anche assumere a suo carico l’onere dei fabbricati per uffici o riunioni, campi di giuoco, pompe da incendio, e provvedere alla pubblica illuminazione, ai bagni, ai cimiteri e alle biblioteche, ai musei quando non vi provvedano gli enti di cui appresso.

2) il distretto urbano o rurale. Rappresentato dal district council, costituisce l’autorità sanitaria della circoscrizione e sovrintende alla manutenzione delle vie interne (eccettuate quelle avocate al Consiglio di contea) all’edilizia, ai piani regolatori e all’emanazione dei regolamenti locali. Esso può anche provvedere ai parchi, ai campi di giuoco, alle biblioteche, ai bagni, ai musei, ai cimiteri ecc.

I compiti dei distretti sono stabiliti da leggi varie. I distretti urbani hanno generalmente la possibilità di estendere la loro attività ad un maggior numero di funzioni, ma un General Order del 1931 da facoltà al Ministero dell’Igiene di concedere ai distretti rurali gli stessi poteri di quelli urbani.

3) il Municipal borough. È un distretto urbano più importante dal punto di vista storico e demografico, al quale con Royal Charter è stata concessa tale qualifica. I suoi poteri sono identici a quelli dei distretti urbani. Solo il Borough Council ha talvolta poteri di polizia, che non può invece avere mai il Districr council.

4) la Contea. È una circoscrizione amministrativa, che può in certo modo paragonarsi alla nostra provincia. Il County Council provvede alla manutenzione delle strade e dei ponti, al ricovero degli alienati, alla verifica dei pesi e misure, e sovrintende a determinate materie di carattere sanitario, all’istruzione superiore e a quella elementare, eccettuate le grandi città. Esso dispone altresì, in luogo dei consigli di distretto, circa affari sanitari, viabilità, edilizia e piani regolatori, quando detti consigli non provvedano essi stessi per inerzia o per impossibilità.

Occorre peraltro tener presente che esistono 88 città alle quali, a norma del Local Government Act del 1888, è stata concessa qualifica di County boroughs e come tali hanno al tempo stesso i poteri conferiti ai boroughs e alla County.

Londra forma una Contea a sé che comprende la City (avente una superficie di un miglio quadrato) e 28 metropolitan boroughs aventi gli stessi poteri degli altri boroughs, salvo alcuni che sono stati trasferiti al London County Council per attuare uniformità di azione in tutto il vastissimo aggregato urbano.

[2]Il Ministero dell’Igiene, succeduto nel 1919 all’antico Local Government Board, ha compiti ben più vasti di quelli che il suo nome potrebbe far supporre, avvicinandosi sotto molti punti di vista al nostro Ministero dell’Interno. Fra l’altro esso rappresenta la suprema autorità nel campo urbanistico, essendo competente e decidere in via definitiva su tutte le questioni che possano sorgere fra i vari enti locali o fra questi e i proprietari d’immobili, sia in sede di approvazione del piano regolatore, sia sia durante la sua attuazione

[3] Cfr. Henry Puget, “La législation anglaise en matière d’urbanisme”, Revue Internationale des Sciences Administratives, n. 2 1931.

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