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Estratto da: Sindacato Fascista Ingegneri della Provincia di Milano, Atti del Convegno degli Ingegneri per il potenziamento dell'agricoltura ai fini autarchici - Lombardia - Emilia - Tre Venezia - Piemonte- Milano 23-27 aprile 1938-XVI

Non è forse fuori luogo chiarire prima di tutto l'apparente antitesi che esiste nell'espressione «Urbanistica rurale».

Se nella sua accezione più moderna ed autorizzata l'urbanistica è la scienza e l'arte di disciplinare le convivenze umane, nulla di più naturale che, superata la cerchia chiusa della città, essa spinga più oltre il suo sguardo e le sue aspirazioni e rivolga la sua cura al territorio circostante, alla Provincia, alla Regione.

L'urbanistica non tanto disciplina le vie, le case, i quartieri, le città, ma gli uomini stessi, curandone la distribuzione, soddisfacendone i bisogni, creando l'ambiente sociale, tecnico, economico più adatto allo sviluppo di ogni attività.

Ampliare la sua sfera di azione non significa quindi già estendere alla campagna i fasti ed i nefasti dell'urbanesimo, ma al contrario studiare e prendere alle loro radici i fenomeni demografici nelle loro manifestazioni più tipicamente moderne, determinarne le cause, valutarne la natura e l'intensità, apprestarne i correttivi ed i rimedi.

L'espressione «Urbanistica rurale» più che un'antitesi rappresenta allora una precisazione: necessaria precisazione soprattutto in un paese come il nostro e nel clima politico e storico nel quale viviamo, che del problema della valorizzazione agricola ha fatto uno dei cardini di quel potenziamento delle forze morali e fisiche della Nazione che è l'essenza stessa della autarchia.

«Bisogna sfruttare al massimo ogni zolla di terra» proclama il Capo del Governo, ma «la terra vale ciò che vale l'uomo» e «solo un ambiente moralmente e fisicamente sano è adatto alla massima produzione».

Queste frasi si seguono e si completano colla serrata logica di un sillogismo per arrivare alla conclusione finale che può essere assunta come lo scopo stesso dell'Urbanistica: «riscattare le terra, e con la terra gli uomini e con gli uomini la Nazione».

Non parliamo quindi di antitesi, non parliamo nemmeno più di precisazione, parliamo piuttosto di inversione di termini.

Il vero problema urbanistico, inteso in senso nazionale, ha le sue radici proprio nella campagna, in questo grande serbatoio di mezzi e di uomini.

Questa è la conclusione - solo apparentemente paradossale - alla quale, pur partendo da considerazioni e da impostazioni diverse, concordemente arrivano tutte le pregevoli relazioni che ho l'onore di riassumere.

Ed ecco così, individuato sotto la specie «rurale» uno degli aspetti e delle funzioni specifiche dell'Urbanistica: la regola e la disciplina non soltanto delle città, ma anche dei territori ra esse interposti, delle nostre campagne, dei centri minori e minimi.

Ma se l'Urbanistica cittadina ha norme e leggi più note e più generali, l'Urbanistica rurale ha forme ed aspetti vari e mutevoli insuperabilmente condizionati da fatti e situazioni locali.

Per favorire una più conveniente sistemazione della masse rurali occorre è vero migliorare l'ambiente, ma questo miglioramento deve essere non un sovvertimento, ma un adattamento ed un perfezionamento strettamente aderenti agli stati di fatto creatisi per lunga vicenda di eventi e di usanze.

Ben hanno compreso i Relatori la imprescindibilità di questo fatto ed assai interessante e proficuo è il contributo da essi portato allo studio delle particolari situazioni ambientali delle quattro Regioni particolarmente rappresentate a questa nostra riunione e le cui caratteristiche sono sintetizzate in efficaci quadri riassuntivi che dal Basso Milanese al Friuli, dall'Appennino Emiliano alle Alpi Piemontesi, alla Brianza all'Oltre Po Pavese, dalla Bassa Reggiana alla Collina Veronese mettono in efficace evidenza situazioni demografiche, metodi colturali, tradizioni paesane, situazioni sociali ed economiche e sistemi costruttivi, offrendo una ricca messe di notizie, una buona e salda base di partenza per ogni nuova proposta ed una utile documentazione della varietà degli aspetti che assume la vita rurale nell'ambiente di una stessa Regione e di una stessa Provincia.

Una accurata indagine delle condizioni ambientali della Provincia di Milano è fatta dal Columbo mettendo in particolare evidenza con copia di dati statistici la essenziale differenza fra il regime agrario dell'Alto e del Basso Milanese. Nella Zona Alta la popolazione vive raggruppata in numerosi villaggi e borgate, diffusa è l'industria, predominano nel campo agricolo il piccolo affitto e la piccola proprietà, il contadino è legato alla terra che coltiva e dalla quale trae diretto profitto, mentre a saldare il bilancio domestico concorrono i proventi delle capacità produttive familiari che, esuberanti per il lavoro dei campi, trovano impiego nell'industria con flusso giornaliero di va e viene fra la casa rurale e l'officina, così da dar luogo, col favore delle comunicazioni, ad una forma mista di vita agricolo-industriale. Nella Bassa i centri abitati sono invece più radi, le industrie scarseggiano, nel campo agricolo predomina il grande fondo col grosso cascinale lontano dai centri comunali, mal favorito dalle comunicazioni, abitato da contadini semplici salariati, scarsamente attaccati alla terra che coltivano, e perciò animati da un inquieto spirito di nomadismo che li spinge ai frequenti «San Martini» dall'uno all'altro podere finchè fatalmente sono attratti dalla grande città.

Un quadretto del pari interessante è fatto dal Cosolo delle particolari condizioni del Friuli dove, a lato delle grandi proprietà delle zone di bonifica circumlagunare tuttora in corso di appoderamento e condotte con salariati e compartecipanti, si hanno ancora antiche proprietà di vecchie famiglie padronali di tradizione rurale che dalla loro villa, centro aziendale, dirigono l'amministrazione dei loro poderi coltivati a mezzadria. Il Cosolo si indugia ad esaminare con particolare competenza ed amore il problema della mezzadria per trarne acute e convincenti conclusioni circa le dimensioni dell'unità poderale e familiare intesa come cellula di tutta la organizzazione urbanistico-edilizia della zona.

Il Carena ci dipinge invece le condizioni del Basso Oltre Po Pavese ed opportunamente insistendo sul concetto che funzione dell'Urbanistica rurale non è solo la ideazione di nuove grandi opere come quelle di cui l'Agro Pontino offre così splendidi esempi ma anche la sistemazione - più modesta ma altrettanto utile e sotto molti aspetti più difficile - dei piccoli paeselli rurali esistenti, dà alcuni precisi e giudiziosi suggerimenti frutto di una personale profonda conoscenza dell'ambiente.

Della provincia di Verona il Poggi mette in evidenza la caratteristica del grande frazionamento delle case coloniche nella campagna, soprattutto nella parte bassa irrigua e nella zona collinare e la stazionarietà dei centri abitati, esclusi naturalmente i maggiori. Ciò non vuol dire, osserva giustamente il relatore, che i piccoli centri perdano importanza; al contrario la loro influenza si va maggiormente estendendo nella campagna.

Del pari esauriente è l'illustrazione che l'Artoni fa della Provincia di Reggio Emilia ricordando in primo luogo l'apporto dato alla risoluzione dei problemi che ci interessano dai Consorzi di Bonifica della zona bassa, ai quali fa ora riscontro il Consorzio per la difesa e la sistemazione della montagna reggiana.

Questi Consorzi non sono in effetto che una anticipazione dei principi e dei metodi dell'Urbanistica rurale, a proposito di che trova qui opportuna citazione l'affermazione del Rabbi che l'Urbanistica rurale non è che la prosecuzione del piano della bonifica integrale.

Il regime fondiario del Reggiano è caratterizzato da un notevole frazionamento della proprietà: il sistema di conduzione prevalente è l'affitto, che però va gradatamente modificandosi a favore della mezzadria. Anche la grande proprietà terriera, una volta eseguito l'appoderamento, non rifugge da queste forme di conduzione.

Notevole è l'attività industriale particolarmente diretta alla trasformazione dei prodotti agricoli.

Gli aggregati urbani sono assai ravvicinati fra loro. Solo nelle zone di recente bonifica si rileva qualche discontinuità nella attrezzatura urbanistica della campagna che potrà in casi specialissimi consigliare la creazione di qualche nucleo o borgata rurale. Le case coloniche sono prevalentemente distribuite nei singoli poderi della zona bassa. Raggruppate nei paeselli della zona montuosa.

Il problema urbanistico-rurale da risolvere riguarda in parte l'edilizia ma soprattutto i servizi pubblici di carattere igienico, quali la distribuzione idrica e lo smaltimento delle acque di rifiuto.

Malgrado i progressi compiuti nella valorizzazione delle risorse locali vi è infine da risolvere un problema cronico di disoccupazione il quale dovrà trovare il suo sbocco in un ulteriore progresso della bonifica, in una migliore dislocazione delle industrie, in una sempre maggiore formazione di centri e i comuni ad economia mista che sono quelli nei quali la popolazione gode di un maggiore benessere. E tutto ciò non potrà realizzarsi se non attraverso una visione meno particolaristica e più «regionale» di queste complesse questioni.

Avvertiamo subito che alla parola «regionale» qui e altrove usata non intendiamo dare il significato attinente al termine «Regione» nella accezione geografica italiana, bensì il significato comunemente accettato dagli Urbanisti, di una entità territoriale individuata da comuni fattori geografici, economici, morfologici, cui meglio che la nostra «Regione» corrisponderebbe la Provincia od il Circondario od altro simile complesso territoriale.

Non poteva infine mancare nella rassegna delle condizioni ambientali dell'Alta Italia anche un esame delle particolari condizioni delle nostre montagne e ce lo offre la relazione del Porzio, il quale giustamente osserva come, rappresentando il suolo produttivo montano circa un terzo della superficie totale del Regno, fra i compiti della bonifica integrale quello della restaurazione montana è certo il più grave per aspetti sociali e tecnici.

La montagna si spopola. Il montanaro lascia la montagna non tanto perchè attratto da illusori miraggi della città, quanto perchè letteralmente non può più viverci.

Per equilibrare il fenomeno dello spopolamento - osserva il Porzio con sussidio di esempi pratici - non vale la creazione dei centri turistici e sportivi di alta montagna. Sembra anzi ad un primo esame che ciò acceleri il corso degli eventi.

Per arginare questo processo, in certo senso cronico, per trattenere la popolazione sui monti nativi occorre agire sulle cause prime del fenomeno: attrezzatura tecnica arretrata degli abitati (povertà di case, di comunicazioni, di servizi pubblici) e condizioni non redditizie del lavoro e della proprietà.

Il Porzio illustra ciò che in questo particolare campo dell'Urbanistica rurale si è fatto negli ultimi anni, a partire dal Raduno di Pinerolo del 1934, colla istituzione degli Uffici di Fondovalle, accenna alla proposta apparsa in una autorevole rivista di far sorgere ovvero ampliare o riattare a titolo di esperimento in qualche tipico centro montano un Comune colle indispensabili attrezzature moderne di vita civile e rurale, e ricorda la istituzione di apposite Commissioni di studio anche presso il Sindacato Ingegneri.

Dalla considerazione delle condizioni particolari di ambiente le singole Relazioni passano all'esame dei provvedimenti coi quali l'Urbanistica rurale può raggiungere lo scopo essenziale di migliorare le condizioni di vita delle masse rurali.

Risalendo di un passo più indietro il Rabbi prende in esame il complesso dei coordinamenti iniziali - che egli definisce pre-urbanistici - atti ad incrementare l'energia e l'attività delle masse rurali ed a migliorare i coefficienti di produzione, quali la elevazione professionale del lavoratore agricolo, la tecnicizzazione delle giovani generazioni rurali, la creazione di una gerarchia di capacità e di qualifiche nelle maestranze, la evoluzione dei patti colonici per promuovere i miglioramenti colturali ai fini autarchici, il perfezionamento dei sistemi di raccolta e di distribuzione dei prodotti.

Il fattore uomo, i suoi bisogni morali e materiali, le condizioni di ambiente atte a soddisfare ad un minimo di esigenze di benessere e di decoro, come mezzo necessario del potenziamento agrario della Nazione, sono pure analizzati dal Radice Fossati.

I provvedimenti urbanistici da adottare a vantaggio dei lavoratori della terra potrebbero riassumersi nella forma breve: «Dare al lavoratore la dignità e la gioia del lavoro con la sanità della vita sgombra dai disagi non necessari».

Nella loro estrinsecazione pratica essi possono raggrupparsi intorno ai seguenti punti:

1) diffusione e perfezionamento delle aziende agrarie e delle case rurali isolate;

2) formazione di raggruppamenti e di borgate rurali;

3) miglioramento dei vecchi paesi;

4) incremento e sviluppo della viabilità;

5) incremento e sviluppo dei servizi pubblici.

L'unità aziendale agricola è la cellula dell'urbanistica rurale, la necessità di migliorare gli edifici aziendali nei quali si svolgono la vita ed il lavoro del rurale è intuitiva, le opportunità di conservare il cascinale colonico presso la terra da coltivare è essenziale agli effetti di un miglior sfruttamento della terra.

L'Aguzzi prendendo particolarmente in esame le condizioni del Basso Milanese si preoccupa di ridurre la dispersione dei cascinali e vorrebbe per questi un maggiore avvicinamento al capoluogo di comune.

Il Poggi nota invece con soddisfazione che nella campagna veronese la tendenza al decentramento dei cascinali è già in atto e ritiene che un simile movimento sia da favorire collo scopo tendenziale di ridurre i paesi rurali alla loro ideale funzione di centro amministrativo, politico, commerciale e di sede di quelle attività e di quei soli strati della popolazione che non sono intenti alla coltivazione dei campi o che vi hanno solo occupazione temporanea come braccianti. Le disposizioni sanitarie che limitano alcune possibilità di esplicazione delle funzioni di una azienda agraria nei centri abitati, soprattutto per quanto si riferisce alla tenuta del bestiame, inducono indubbiamente ad un graduale decentramento.

Delle due tendenze ci sembra che quella esposta dal Poggi e sostenuta da altri relatori sia la più consigliabile.

Se ci è consentita una breve digressione vorremmo qui ricordare i recentissimi lavori di bonifica edilizia della sua proprietà rurale eseguiti nello scorso anno e nel corrente da parte dell'Amministrazione dell'Ospedale Maggiore di Milano, i quali sono stati appunto condotti con questo indirizzo.

L'Ospedale Maggiore di Milano è il più grosso proprietario terriero della Lombardia possedendo circa 10.000 Ea di ottimi poderi parte nella Zona Alta e parte nella Zona Bassa fra il Ticino e l'Adda sui quali hanno stabile dimora circa 1.500 famiglie rurali.

Il piano di riassetto delle case coloniche attualmente in corso col quale verrà dato alloggio in nuovi edifici a più di 300 famiglie coloniche, senza contare i lavori di restauro delle rimanenti case, si competa nei programmi dell'Amministrazione ospitaliera con un piano di rimaneggiamento della consistenza dei singoli poderi affittati e colla formazione di entità agrarie più rispondenti alle necessità di una buona e conveniente conduzione. Perciò nelle zone irrigue della Bassa - dove sussiste ancora qualche podere di più di 200 Ea - fu fatto luogo al frazionamento in due delle vecchie unità poderali colla formazione di nuovi cascinali completi di ogni accessorio aziendale ed opportunamente dislocati sul fondo da servire, e nella Zona Alta - a Sesto Calende, Seregno, Vanzago, Magenta, ecc. - dove un buon numero di vecchie corti coloniche si trovava ad essere ormai completamente incorporato nell'abitato di quei centri urbani venne senz'altro adottato il partito di trasferire le corti coloniche stesse in località più eccentriche e più prossime ai poderi, in luogo di procedere al riattamento in sito delle vecchie costruzioni, le quali furono di preferenza invece vendute a privati od agli stessi Comuni per consentirne o la trasformazione per uso residenziale delle masse operaie e della popolazione non rurale, o, più spesso, la demolizione per sistemazioni di piano regolatore di quei centri.

Ho creduto interessante di citare questi esempi già in atto perchè sono una documentazione del come sia stato possibile conciliare le direttive del proprietario terriero colle necessità e le vedute delle Amministrazioni comunali, cosicchè il piano di bonifica dell'edilizia rurale si è automaticamente identificato con un piano di riforma urbanistica dei centri abitati, che altrimenti assai difficilmente si sarebbe attuato coi soli mezzi municipali.

Sull'argomento del riassetto dei vecchi paesi si soffermano con particolare attenzione quasi tutti i relatori, mentre logicamente sorvolano sull'altro della creazione di nuovi raggruppamenti e di borgate rurali perchè - all'infuori delle zone di bonifica dove si rivela qualche discontinuità nella attrezzatura urbanistica - per il resto delle nostre regioni non è il caso di pensare alla vera e propria creazione di nuovi centri abitati.

Se lo spazio lo consentisse varrebbe la pena di riportare per intero ciò che i singoli relatori e soprattutto il Carena scrivono sull'argomento del riassetto dei vecchi paesi rurali.

L'essenziale è questo: dopo aver dato al rurale presso la terra che coltiva una casa sana e decorosa ed una struttura aziendale atta alla migliore utilizzazione dei prodotti del suolo, occorre però offrirgli nel riassettato capoluogo del Comune anche un punto di riferimento e di raccolta dove possa trovare in un più decoroso ambiente quegli aiuti morali, culturali, assistenziali, che gli sono necessari per la sua elevazione.

I confronti colla città saranno meno stridenti se il paesello sarà più lindo ed accogliente, l'osteria avrà meno frequentatori se più sani luoghi di riunione cureranno lo sviluppo del fisico e del morale.

Potrei ancora qui citare quanto si è fatto dall'Ospedale Maggiore di Milano negli aggregati di Monticelli e di Fallavecchia, completando il rinnovo dell'ambiente edilizio colla dotazione di tutte quelle istituzioni assistenziali e ricreative di cui finora - a differenza dei loro fratelli operai delle officine cittadine - i lavoratori della campagna erano completamente privi.

Insieme al risanamento delle case rurali singole, dei complessi aziendali e dei centri rurali - inteso come mezzo per fissare il maggior numero possibile di famiglie alla terra - un utile sussidio allo stesso fine può derivare da una limitazione della concentrazione industriale nei grandi centri urbani e dalla creazione di nuovi impianti industriali, con particolare riguardo a quelli più affini al ciclo di produzione agraria, opportunamente dislocati nelle campagne.

A questo proposito sarà bene rilevare che solo un piano regolatore «regionale» delle industrie permetterà di precisare in modo conveniente i criteri distributivi degli impianti, non solo dal punto di vista quantitativo ma anche geografico, considerando la opportunità di appoggiare le nuove industrie a quei centri rurali già provvisti di una attrezzatura adeguata e qualche volta esuberante rispetto alla loro funzione attuale e dove il fenomeno della disoccupazione - prima grande molla dell'esodo verso la città - assume aspetti più gravi.

Anche le occupazioni di carattere artigiano possono essere di grande utilità perché permettono di occupare il contadino nei periodi intermedi delle lavorazioni agricole.

Analisi urbanistiche particolarmente diligenti svolte presso i singoli Comuni rurali - come propongono l'Artoni ed il Radice Fossati - permetteranno di individuare esattamente i caratteri fondamentali della loro economia, di stabilirne le necessità e le possibilità, e quindi di segnalare gli squilibri e le situazioni anormali e di suggerire i rimedi ed i provvedimenti da inserire nel Piano regionale.

Si può in genere rilevare dalle dimostrazioni dei singoli Relatori che i Comuni rurali che si trovano in condizioni economiche più favorevoli e nei quali la popolazione è più stabile sono quelli nei quali accanto ad una sana economia agricola si sono sviluppate piccole industrie legate all'agricoltura oppure speciali attività artigiane, mentre i Comuni dove l'unica risorsa è rappresentata dalla agricoltura la classe del bracciantato è numerosissima ed il fenomeno della disoccupazione assume ricorrenze più frequenti ed aspetti più acuti.

Di qui quel circolo chiuso di disoccupazione e di situazioni debitorie che allarma e preoccupa continuamente le Autorità politiche locali.

Ultimo e grave problema infine del riassetto locale quello delle vie di comunicazione e dei servizi pubblici.

E' vano sperare il risorgere della vita delle campagne, se queste non vengono adeguatamente permeate dal sistema capillare delle reti stradali e dei servizi indispensabili all'igiene ed al vivere civile.

Ma su questo argomento non ci dilunghiamo, perchè esso è trattato come tema particolare di altre sezioni di questa nostra riunione.

Fra i problemi collaterali del tema generale in discussione meritano speciale cenno quelli trattai in due apposite relazioni dai colleghi torinesi Orlandini e Rigotti.

Il primo, colla particolare competenza che gli deriva dal suo ufficio di sovraintendente ai Servizi tecnici di una grande città industriale come Torino, si occupa giustamente della stretta interdipendenza fra lo sviluppo delle grandi città e quello delle circostanti campagne che costituiscono il «suburbium», interdipendenza che porta di necessità i servizi tecnico-urbanistici del centro maggiore ad interessarsi della sistemazione delle plaghe marginali, anche oltre i limiti territoriali e cioè per tutta la zona in prevalenza rurale dell'«intercittà».

Questi studi, se in primo luogo devono tendere al miglioramento delle comunicazioni e dei servizi ed alla disciplina costruttiva per il razionale sviluppo dei centri secondari, non possono trascurare, debbono anzi tenere nella massima considerazione, la necessità di contemperare l'urbanesimo ruralizzando la città. Ma per ruralizzare la città e dare ad essa una struttura meglio rispondente alle sue esigenze di oggi e di domani occorre provvedere tempestivamente alla difesa della zona agricola esterna controllandola e potenziandola ed assicurando estese superfici marginali di terreno che, destinate a colture arboree, costituiscono le necessarie riserve per un più ampio respiro della città. Come esempio pratico l'Orlandini descrive gli arboreti in formazione intorno a Torino ed i provvedimenti adottati per la valorizzazione della collina, delle sponde del Po, della Dora e della Stura.

L'Ing. Rigotti rilevando infine come le caserme e gli stabilimenti militari per le loro particolari esigenze siano fra gli elementi negativi dell'assetto urbano per la loro ingombrante estensione, per l'antiestetica monotonia delle loro linee, per i disturbi alla viabilità ed alla tranquillità dei quartieri, e rilevando ancora come il temperamento di creare delle «zone militari» ai margini della città per la riunione di tutti gli alloggiamenti di truppe e dei servizi annessi non risolva neppur esso il problema per l'eccessivo agglomeramento che determina e per i conseguenti pericoli di una maggiore vulnerabilità in tempo di guerra, crede che le caserme debbano decisamente allontanarsi dalle città e trasferirsi nelle campagne e vede in ciò un mezzo per evitare da un lato i danni morali, che dalla permanenza nelle città durante il periodo della ferma derivano alle falangi dei giovani rurali, e dall'altro per promuovere o conservare l'attaccamento del soldato alla terra.

L'argomento molto interessante e complesso per la incidenza anche di fattori che esulano dalla nostra specifica competenza meriterebbe certo una più ampia trattazione di quella che non sia possibile nella nostra attuale riunione.

Arrivando alle proposte conclusive delle singole relazioni restano da considerare gli organi e i mezzi per la realizzazione di un così vasto programma di coordinamento dei fattori della vita rurale.

Tutti i relatori sono concordi nell'individuare nei cosiddetti «Piani regolatori regionali» gli istrumenti più efficaci per la impostazione di insieme di tutti gli studi e le indagini occorrenti. Opportunamente osserva però il Poggi che della abusata espressione «Piano Regionale» occorre fare preciso e giustificato uso. In questi ultimi tempi cornice immancabile di ogni Concorso di Piano regolatore urbano è un abbozzo organizzativo di tutto il presunto territorio di influenza delle singole città.

Sulla attendibilità di questi Piani regionali ipotetici e abborracciati su pochi imparaticci si debbono fare le più ampie riserve.

Il Piano regionale non è un mosaico di vivaci tinte stemperate a impressione e ad effetto a creare una cervellotica «zonizzazione», bensì il riassunto grafico di maturi studi e di indagini intese, attraverso una coscienziosa analisi geografica e statistica, alla esatta individuazione delle caratteristiche, delle necessità e delle possibilità di una determinata plaga.

Bando perciò alle improvvisazioni individuali.

Il lavoro di redazione del Piano regionale, che è soprattutto un piano tecnico ed economico, ed il lavoro di propulsione, di guida, di coordinamento di tutte le energie intorno all'Urbanistica rurale - intesa nella sua definizione di disciplina delle convivenze umane nell'ambito rurale - devono far capo ad appositi Enti convenientemente attrezzati.

In questo campo, giova riconoscerlo francamente, perchè la verità in tempo fascista nè spaventa nè offende, l'Estero ci ha da tempo preceduto ed in Germania ed in Inghilterra esistono organizzazioni ed istituti che opportunamente adattati al nostro particolare clima sociale ed economico possono servire di esempio.

Questi Enti di studio e di coordinamento nell'ambito provinciale dovrebbero secondo alcuni relatori essere autonomi, secondo altri dipendere dai già esistenti organismi quali il Consigli Provinciale dell'Economia Corporativa o la stessa Amministrazione Provinciale, secondo altri ancora dipendere dal Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste.

Senza ricorrere ad un eccessivo - e forse pericoloso - accentramento statale sembra che gli organi provinciali siano i meglio qualificati ed i più sensibili alle necessità locali. Il che non esclude affatto la possibilità di intese più vaste per quei problemi che trascendono i limiti territoriali della Provincia.

Quanto al passaggio dal campo degli studi a quello delle pratiche realizzazioni l'istituto dei Consorzi, attraverso il quale già in tanti campi si estrinseca l'attività degli Enti provinciali, sembra il meglio rispondente.

La istituzione dei Consorzi, i rapporti colle altre iniziative della Bonifica integrale, la graduazione dei programmi, le norme per l'intervento del credito e degli aiuti finanziari del Governo e degli Enti pubblici sono materia che richiede particolari provvedimenti di legge per dare pratica attuabilità ai piani licenziati dagli Enti di studio provinciali od interprovinciali.

Va da sè che a far parte di tutti questi Enti di studio ed esecutivi dovrebbero con preciso indirizzo corporativo entrare insieme coi rappresentanti delle pubbliche amministrazioni, e di ceti agricoli ed industriali e delle grandi organizzazioni dei pubblici servizi anche i tecnici particolarmente competenti nel campo dell'Urbanistica.

Troppo spesso dobbiamo assistere con profonda amarezza ad errori grossolani che pregiudicano la soluzione razionale dei problemi o che danno luogo a sprechi vistosi con conseguenze penose per le pubbliche finanze. Interessi particolari, idee ristrette, individualismi sfrenati, una valutazione sommaria ed unilaterale dei problemi rappresentano quel complesso di forze negative che possono frustrare completamente le superiori finalità alle quali si ispirano gli studi ed i programmi urbanistici.

In nessun campo, meglio che in questo, le concezioni politiche, etiche e sociali proclamate dal Fascismo, possono trovare la loro perfetta ed integrale applicazione.

Ordine, disciplina, gerarchia, valutazione integrale dei problemi, subordinazione degli interessi singoli agli interessi generali: ecco i principi che caratterizzano l'Urbanistica come metodo di studio e di indagine e come azione pratica.

Se infine è necessario evitare l'improvvisazione individuale è d'altra parte opportuno evitare una eccessiva burocratizzazione degli Enti e degli Uffici che sono chiamati o saranno chiamati a svolgere la loro attività nel campo dell'Urbanistica rurale.

Anche nello studio dei piani regionali, come già in quello dei piani cittadini, la collaborazione delle classi professionali potrà dare ottimi risultati.

Come ultimo anello della catena degli organi di studio ed esecutivi il Poggi prospetta la figura nuova dell'«Ufficiale Tecnico» in analogia a quella dell'«Ufficiale Sanitario» organo di direzione e di controllo non appesantito e impastoiato dal gravame di una burocratica organizzazione.

E' bene mettere pure in evidenza come fa il Quaglini anche la parte che nella esecuzione di dettaglio dei piani agrario-edilizi va conservata alla proprietà privata la cui funzione è insopprimibile nell'armonico complesso delle varie attività.

Resta infine essenziale il problema dei mezzi economici per fronteggiare così vasti problemi.

L'ambiente rurale non è un ambiente ricco. Esso solo non può disporre dei mezzi occorrenti al vasto piano di riordinamento di cui si è trattato. Ma, se il miglioramento delle condizioni di vita delle campagne è - come abbiamo dimostrato - condizione essenziale per il potenziamento delle nostre risorse agricole, l'intera Nazione, coi suoi organi statali e periferici, colle sue forze di risparmio e colle sue istituzioni di credito deve provvedere quelle annticipazioni e quei mezzi che saranno indubbiamente garantiti e compensati dai risultati finali dell'opera di bonifica degli uomini, degli ambienti e del suolo che solo se completa nei tre termini di questo trinomio può veramente chiamarsi «integrale».

Riassumendo le proposte emerse dalle singole Relazioni e dallo studio del Tema in discussione il Relatore generale dà quindi lettura delle seguenti conclusioni e proposte:

Ritenuto che nel quadro generale dell'Urbanistica - intesa in senso nazionale - l'Urbanistica rurale, e cioè la sistemazione del suolo, dell'ambiente e delle popolazioni di quel grande serbatoio di uomini e di mezzi che è la campagna, costituisce il necessario complemento dell'urbanistica cittadina,

riconosciuta la difficoltà di fissare all'urbanistica rurale rigide norme che possano uniformemente applicarsi alle svariate situazioni agricole e sociali delle diverse regioni e la opportunità dell'intervento di Enti di circoscritta competenza territoriale per il coordinamento delle iniziative pubbliche e private

il Convegno fa proprii i seguenti punti programmatici illustrati dai Relatori particolari:

1) Il miglioramento delle condizioni di vita della massa rurale - compito specifico dell'Urbanistica rurale e condizione essenziale per il potenziamento delle risorse agricole della Nazione - può essere raggiunto solo attraverso un organico coordinamento delle iniziative d'ordine tecnico, economico e sociale.

2) Base di studio per tale coordinamento è la predisposizione di piani intercomunali, provinciali od interprovinciali affidati a competenti Enti tecnico-urbanistici di emanazione locale nei quali si armonizzino tutte le rappresentanze dell'Ordinamento corporativo dello Stato.

3) I detti piani dovranno considerare con visione unitaria i problemi inerenti alla demografia, all'edilizia, alla viabilità, ai trasporti, ai servizi pubblici, all'assetto agricolo ed industriale delle singole zone, tenendo particolarmente presenti i seguenti obbiettivi:

a) perfezionare la distribuzione e la struttura delle singole aziende agrarie e delle case rurali per un sempre maggiore avvicinamento dei coltivatori alla terra;

b) migliorare l'assetto dei vecchi centri rurali (paesi e borgate) per elevare il tenore di vita delle masse lavoratrici della campagna;

c) favorire il decentramento delle industrie attinenti all'agricoltura allo scopo di promuovere la formazione di centri rurali ad economia mista (agricoltura, artigianato, piccola e grande industria);

d) incrementare i mezzi di comunicazione e di trasporto ed i servizi pubblici;

e) affiancare le iniziative già in corso per fronteggiare il preoccupante problema dello spopolamento delle zone montane.

4) Alla realizzazione di detti piani che costituiscono la prosecuzione ed il perfezionamento del programma di bonifica integrale promosso dal Regime occorrono opportuni interventi legislativi e creditizi dello Stato.

INGREDIENTI (per 4 persone)

pasta corta e piccola, 300 gr

piselli,1 kg

prosciutto crudo, 100 gr

una cipolla

brodo di carne, sale, olio extravergine d’oliva, vino bianco

PREPARAZIONE

Soffriggete nell’olio la cipolla tagliuzzata; prima che diventi bruna aggiungete il prosciutto (che avrete fatto tagliare a fette un po’ grosse) tagliato a striscioline.

Dopo qualche minuto aggiungete un mezzo bicchiere di vino bianco e, quasi subito, i piselli (naturalmente sbaccellati).

Aggiungete mano mano un po’ di brodo caldo; meglio se avete brodo di carne, altrimenti lo avrete preparato con un dado.

Quando i piselli si saranno appena ammorbiditi aggiungete la pasta (io adopero i “ditaloni rigati” Barilla, che in realtà sono ditalini) e mescolate, aggiungendo ulteriore brodo, o acqua calda, fino a fine cottura

Il risultato non deve essere brodoso, ma avere la consistenza del risotto (cui la lavorazione assomiglia) o della pasta al sugo: ma rispetto a questa è più cremosa, gradevolmente

L’imbecillità degli sciacalletti di periferia amministratori della Banana non meritano davvero altro che il sarcasmo della lettera che Mariangiola Gallingani mi ha inviato. Non c’è nulla da aggiungere alle sue parole: leggetela (il link è qui sotto), e se non siete d’accordo scrivetemi. L’articolo di Michele Serra (anche il collegamento che vi ci conduce è qui sotto) apre la strada a una riflessione più profonda. Il suo articolo mi sembra quasi interamente condivisibile (la riserva riguarda quella frase sulle “le risposte sbagliate perché brusche, e presuntuose”, il cui bersaglio non mi è chiaro). È condivisibile ma va sviluppato..

Serra conclude con una domanda: “Ma il discorso su bellezza e bruttezza, in un paese come l’Italia, non dovrebbe essere pane quotidiano, anche in politica, perfino in politica?”. Già, soprattutto quando si tratta di ragionare “sulla propria vita quotidiana”.In quale sede la politica dovrebbe affrontare “il discorso su bellezza e bruttezza”? Questo è il problema. A molti dei frequentatori di questo sito la risposta à evidente. La sede è quella del “governo della città”, dei suoi obiettivi, strumenti, tecniche. La sede è quella della scelta tra gli interessi che nella città confliggono. La sede è quella della pianificazione territoriale e urbanistica. È questa sede che la politica da tempo ha disertato,e continua a disertare.

Chi si occupa professionalmente di questioni urbane non ignora che le periferie costituiscono, non da oggi, un problema. Spesso, si è descritto perché quel problema è nato,per effetto di quali errori e del prevalere di quali interessi; spesso si è indicato come affrontarlo e a quali condizioni è oggi possibile risolverlo. In altri paesi il problema non è rimasto solo all’attenzione deli urbanisti: lo hanno affrontato nella realtà, gettando in campo il peso di un’amministrazione pubblica autorevole ed efficace, dotata di strutture tecniche di prim’ordine, e di una volontà politica lungimirante e durevole: penso alla Francia e alla ristrutturazione urbanistica e sociale di aree come Vaux-en-Velin, e all’attuale politica di smobilitazione dei Grands Ensembles.

Ma le periferie non sono tutte uguali. Una cosa sono le periferie progettate in regime pubblicistico, nelle città amministrate da forze politiche che, tra i diversi interessi in campo, privilegiavano quelli dei cittadini su quelli della proprietà immobiliare e della speculazione . In quelle città sono nate periferie civili, “europee”, in cui a ciascuno di noi (per riprendere un passaggio dell’articolo di Serra) piacerebbe abitare. Quantri sindaci, in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria hanno scelto di abitare nelle periferie dei PEEP. Io personalmente ne ho conosciti parecchi (e ricordo con commozione quello di Grosseto, Giovanni Battista Finetti, prematuramente scomparso molti anni fa).

Certo, anche in alcune delle “periferie pubbliche” sono stati commessi errori: le Vele di Scampìa a Napoli, lo Zen di Palermo, il Corviale a Roma. E sono errori nei quali anche gli urbanisti hanno avuto la loro parte. A me sembra (ma voglio provocare una discussione anche su questo punto) che il loro errore principale sia stato d’aver creduto troppo nella capacità della politica di fare il suo mestiere: di saper modificare le condizioni generali (urbanistiche, amministrative, gestionali) che quegli interventi pretendevano per essere completati. Hanno costruito cattedrali nel deserto perché chi doveva occuparsi di trasformare quel deserto in un giardino non è riuscito a farlo.

Certo, si tratta di errori. E gli errori vanno criticati, anche se sono errori di “valutazione del contesto”, di astrattezza, di illuministica fiducia in una realtà desiderata ma impossibile.

Ma da errori ben diversi sono state generate la stragrande maggioranza delle periferie che oggi costituiscono l’ambiente della non vivibilità, il luogo della socialità inesistente, la culla del disagio patologico, che il delitto di Rozzano ha portato allo scoperto. L’errore, in queste periferie, ha un solo nome: la scelta politica di privilegiare gli interessi economici legati allo sfruttamento più rapace, più immediato, più miope (ma più lucroso) della risorsa collettiva costituito dal suolo urbano. La Napoli raccontata da Francesco Rosi nel film Le mani sulla città e la Roma illustrata da Italo Insolera nel libro Roma moderna sono descrivono magistralmente logiche analoghe di asservire la forma e la sostanza della città, e i destini di migliaia di uomini, alle fortune personali di pochi malfattori. Quella logica non è morta; la realtà analizzata da Rosi e da Insolera è ancora viva. Come direbbe Bertold Brecht, il grembo che le ha generate è ancora fertile.

È di questo che la politica dovrebbe parlare, e non di sottrarre potere all’uno o all’altro livello dello Stato (ora si parla di trasferire alle Regioni le competenze delle soprintendenze ai beni culturali) o di imbellettare qualche quartiere premiando le architetture griffate (è la novità lanciata da Urbani). È di questo che dovrebbe parlare se volesse fare il proprio mestiere, come Serra auspica, e se volesse intraprendere qual lavoro di lunga lena, di ampia prospettiva, di durata misurabile in molti mandati elettorali, che è necessario per restituire alle nostre città la bellezza che i decenni della speculazione hanno loro sottratto.

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scritti di Gallingani, Serra, Salzano (e altri)

Sul versante delle cose positive c’è indubbiamente da registrare il fatto che la consapevolezza dei valori della Laguna (della sua eccezionalità, del suo potenziale d’insegnamento universale, della sua modernità) si è consolidata. Il fronte che reagisce alle minacce e agli attacchi è, almeno localmente, reattivo e solido: ha sostanzialmente lo stesso segno e gli stessi caratteri di quel composito fronte nazionale di resistenza al regime che va sotto il nome dei Girotondi. E ugualmente si deve sottolineare che questo fronte è stato capace di precisare, aggiornare e rendere più convincente il programma alternativo al MoSE il testo di Italia Nostra Venezia lo riassume molto efficacemente.

Come spesso capita in questi tempi grigi, le nuove negatività sono però più consistenti. Il “volume di fuoco” che il Consorzio Venezia Nuova (il consorzio di imprese private “concessionario unico” dello Stato per lo studio, la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione dei lavori in Laguna: un’aberrazione!) può sviluppare ha annebbiato l’opinione pubblica nazionale e internazionale, e acquisito fette importanti di consenso in quella locale. Il governo attuale è certamente più vicino alla ideologia delle Grandi Opere (e dei Grandi Investimenti) di quanto non lo fossero i precedenti. La complessità della questione della salvaguardia della laguna si è rivelato un oggettivo ostacolo alla comprensione disinteressata del problema e delle soluzioni possibili in un’epoca in cui la semplificazione, lo slogan, lo spot televisivo sono la forma esclusiva di comunicazione di massa.

Ma ciò che soprattutto preoccupa è che non si vede luce a livello di chi dovrebbe decidere: le forze politiche istituzionali. Qui veramente il cambiamento è stato profondo. La storia tracciata da Luigi Scano ci rinvia a un’epoca (parliamo degli anni che vanno dal 1966 al 1985) in cui era condivisa in modo amplissimo, tra le forze politiche veneziane e nazionali, la posizione che si caratterizza per un approccio morbido, “sistemico”, saggio, ispirato alla tradizione storica del governo della laguna: la posizione che trovò il suo condiviso slogan nei tre attributi che gli interventi avrebbero dovuto in ogni caso possedere “gradualità, sperimentalità, reversibilità”.

Nel commentare i testi di Scano ho sviluppato questo ragionamento, che ripropongo qui. Osservavo che lo scontro di oggi, che vede opporsi i sostenitori del MoSE ai suoi avversari, trova le sue radici in due “logiche” opposte: quella che “concepisce la laguna veneziana come un comune bacino d'acqua regolato da leggi essenzialmente meccaniche”, e quella che “intende invece la laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabili alla cibernetica, e rivolge i propri interessi alla conservazione ed al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi”.

Le due concezioni sussistono entrambe, ma il loro “peso politico” è oggi ben diverso. Allora, la posizione “meccanicista” era sostenuta, tra le forze locali, quasi esclusivamente dalla componente craxiana del PSI, autorevolmente rappresentata da Gianni De Michelis e da componenti minoritarie della DC, mentre a livello nazionale era appoggiata anche dalla potente pattuglia dei socialdemocratici del PSDI. Oltre che, naturalmente, dalle lobby legate all’edilizia e all’ingegneria pesante. Oggi quella medesima concezione è sostenuta dalla destra al potere a Roma e da una parte consistente del centrosinistra veneziano, a partire dal suo massimo esponente e sindaco della città.

Allora, anche per la presenza nello schieramento locale di personalità di rilievo a livello nazionale (come Bruno Visentini e Gianni Pellicani), la posizione “sistemica” godeva di un appoggio più largo rispetto a oggi dell’opinione pubblica nazionale, e in particolare nei settori legati all’ambientalismo e alla tutela dei beni culturali.

Come osservavo più sopra, ha indubbiamente inciso, nel provocare l’indebolimento del fronte antagonista alla “logica MoSE”, sia il profondo mutamento del quadro politico e culturale generale (Berlusconi non rappresenta solo se stesso, né solo l’ideologia della destra), sia l’immane potere di condizionamento dell’informazione dispiegato da quella vera e propria macchina di guerra che è il Consorzio Venezia Nuova, praticamente monopolista dell’informazione con i mezzi forniti dal contribuente. E per conquistare consenso ad una soluzione di un problema complesso come quello dell’equilibrio della Laguna, il monopolio dell’informazione è l’arma vincente.

All’importanza politica del cibo ci richiamano le parole di Frances Moore-Lappe, in una bella intervista rilasciata all’ Espresso. La studiosa britannica sostiene, con argomentazioni che mi sembrano fondate, che un circolo perverso lega l’obesità progredente tra gli USA (e, sembra, ormai anche tra gli europei), la denutrizione e la morte nei continenti poveri, la produzione di cibi geneticamente modificati e l’inquinamento da additivi chimici per l’agricoltura. La cosa singolare è che questo circolo perverso è scaturito da un’emergenza economica che ha provocato una radicale modificazione delle diete prevalenti nei paesi sviluppati. In sostanza, poiché negli anni 50 “il prezzo delle granaglie era al di sopra delle capacità d’acquisto di gran parte della popolazione mondiale” e di conseguenza “il mercato registrava una situazione di intasamento”, per stabilizzare i prezzi “i produttori decisero di dare da mangiare il surplus agli animali d’allevamento”. Da allora le quantità di cereali “date in pasto agli animali da macello superano di gran lunga quelle che vengono consumate dalla popolazione mondiale".

La Moore-Lappe illustra le conseguenze di questa decisione economica: “Gli effetti di questa scelta sulla salute mondiale si vedono e sono deleteri: l’obesità e tutte le malattie legate a questo tipo di dieta ricca di grassi animali dilagano. Interi continenti sono stati costretti ad abbandonare coltivazioni autoctone per dedicarsi alla crescita di cibi per l’esportazione. Il numero di aziende agricole a conduzione familiare è diminuito drasticamente come pure la varietà dei cibi coltivati. Il potere agricolo si e concentrato nelle mani di un pugno di società multinazionali e in molti casi, vedi l’Africa, i Caraibi e l’Asia, questo ha avuto un effetto frenante sullo sviluppo del sistema politico-economico del paese. Oggi, più che nel passato, nutrirsi non è solo un atto di sopravvivenza, è un atto politico. Riprendersi il controllo della propria alimentazione significa anche riprendersi il controllo del proprio destino politico".

La dieta mediterranea, o un’analoga dieta “nella quale ci siano cereali non raffinati coltivati quanto più possibile localmente e senza pesticidi o fertilizzanti chimici”, nella quale per integrare “le verdure, il grano e la frutta si usano legumi, noci e semi” e, se si vuole, “vi si aggiungono carne e prodotti di animali che però non siano stati stati alimentati con granaglie e siano cresciuti nei pascoli aperti”. Questa, secondo l’autrice, “non solo è la dieta più salutare, ma anche quella che pesa di meno sulle risorse della Terra”.

Questa tesi è nota da tempo alla cultura ambientalista e “No global” mondiale. Se l’ho richiamata ai frequentatori del mio sito è, oltre che per la suggestione della tesi, per due circostanze, l’una urbanistica l’altra personale.

La prima. Un’agricoltura basata sulla utilizzazione locale delle risorse, sulla qualità dei prodotti anziché sull’efficienza quantitativa della loro produzione, sull’accurata ricognizione e protezione di tutte le infinite nicchie di produzione naturale e storica sfuggita all’omologazione, è certamente quella più adatta a governare il territorio coerentemente con le esigenze di sostenibilità (sulle distorsioni di questo termine occorrerà ritornare), di tutela del paesaggio e delle risorse naturali e storiche, di promozione della qualità della vita e di difesa sociale del suolo.

La seconda. Nel curare l’edizione inglese delle mie ricette mi sono reso conto che quelle a base di cereali, verdure, legumi e prodotti del mare costituiscono la stragrande maggioranza di quelle ospitate in eddyburg, e quindi utilizzate da me e dai miei amici. Non mi dispiace scoprirmi, nella mia vita quotidiana, in sintonia con l tendenze più sagge della politica planetaria.

Non a caso, la leadership di Firenze non è berlusconiana, come non lo era quella di Venezia quando si sono lasciate esibire le automobili a piazza San Marco e si sono cancellate le norme che ostacolavano i fast food e gli affittacamere. Del resto, la politica di privatizzazione/liquidazione dei beni culturali dell’attuale governo non era stata innescata dai precedenti governi “alternativi”? Lo hanno raccontato sia Stefano Settis sia Giuseppe Chiarante, come i lettori di Eddyburg sanno bene.

Non ho nessuna intenzione di fare d’ogni erba un fascio e di dire che tutti sono uguali. Il problema è questo: se chi deve difendere il patrimonio comune dal saccheggio degli altri non ha valori diversi, non esprime una diversa idea di società, non riuscirà ad essere convincente nel tentativo di mobilitare chi sente il regime di Berlusconi come una vergogna e un delitto. E – seppure riuscirà a battere l’antagonista sul campo elettorale – non riuscirà a governare durevolmente.

Il problema della sinistra, e del centro democratico, è in primo luogo questo, e questo è il problema dell’Ulivo (allargato, come spero, o meno). Da quali valori ripartire, su quali valori costruire la propria identità, per quali valori chiedere il consenso? Non dovrebbe essere difficile individuare nella solidarietà, nella responsabilità verso il futuro, nella tutela del patrimonio fondante della propria storia, nel primato del lavoro, nella custodia dei diritti personali, nell’eguaglianza di fronte alla legge i cardini di in sistema condiviso di valori.

Più difficile, però, il passo successivo. Comprendere che solidarietà deve anche significare vivere la diversità dell’ altro non solo una particolarità da rispettare, ma una ricchezza da amare. Comprendere che la responsabilità verso il futuro (sostenibilità) comporta il sacrificio nell’immediato di alcune comodità e privilegi, e l’abbandono di molte miopie. Comprendere che i diritti personali hanno la loro garanzia di base (e insieme il proprio limite) nel diritto comune. E comprendere che vi sono valori che le leggi dell’economia non sono (ancora?) in grado di apprezzare, che il mercato non sa riconoscere. Che vi sono beni, insomma, non riducibili a merci: come la dignità del lavoro, come le qualità dell’ambiente, come i patrimoni della cultura e della storia.

Che quest’ultima realtà sia stata così rapidamente dimenticata a sinistra dimostra quanto superficiale e scolastica fosse stata la comprensione dell’analisi marxista della società.

Le voci presenti a Venezia venivano da Bolzano e dall’Ofanto, dal Cilento e dal Ticino, dalla Regione Emilia Romagna e dalla Toscana, dalla Daunia e dal Montalbano, dal comune di Sesto fiorentino a quello di Sesto San Giovanni, dai comuni dell’alto Brenta a quello di Mogliano veneto, dalla provincia di Prato a quella di Venezia. Si illustravano esperienze che riguardavano piani urbanistici e territoriali alle varie scale, politiche messe in opera su piani diversi, analisi finalizzate ad azioni molteplici.

Le voci esprimevano professionalità e interessi diversi. C’erano gli urbanisti nelle diverse applicazioni del loro mestiere: quelli impegnati a formulare e amministrare il quadro normativo e quelli operanti nella progettazione del territorio, quelli dedicati alla lettura dei contesti e a quella dei documenti e delle esperienze, quelli applicati all’insegnamento e quelli gettati nel campo dell’amministrazione. Ma accanto a loro politici e amministratori, esperti nelle politiche economiche e cultori delle discipline dell’ambiente naturale, agronomi e valutatori.

Tante voci diverse, dunque, ma una singolare convergenza dei linguaggi. Preceduta e consentita, forse, da una consapevolezza comune, impensabile qualche anno fa.

Se l’obiettivo comune è il migliore impiego di risorse preziose e finite, a beneficio dell’umanità di oggi e di quella di domani, se questo obiettivo è minacciato da una tendenza distruttiva e potente, se il nostro lavoro è per due serie di ragioni complesso e difficile, allora tutti gli strumenti devono essere impiegati unitariamente. Le nuove leggi sono necessarie ma non bastano; ugualmente servono, ma non bastano, i buoni piani e le buone analisi, le buone politiche e la buona didattica (dentro e fuori le mura degli atenei). Gli strumenti devono essere adoperati tutti, senza privilegiare l’uno a scapito dell’altro poiché mutuamente si sorreggono. Ciascuno, da solo, non è sufficiente. Sono tutti solidalmente necessari per raggiungere quell’obiettivo.

A due condizioni, anche queste emerse diffusamente nel convegno: che effettivamente gli strumenti siano finalizzati all’impiego lungimirante (durevole) delle risorse territoriali, e che essi siano chiaramente orientati alla prevalenza dell’interesse comune.

Le condizioni di lavoro non sono le migliori: da tutti i punti di vista. Quello delle condizioni materiali, per cominciare. Mentre fiumi di moneta sonante viene diretta verso opere spesso inutili e ancor più spesso dannose (per i modi in cui vengono attivate, se non sempre per la loro natura), si lesinano le risorse minime per il funzionamento delle istituzioni: ad un aumento dei carichi di lavoro dei comuni, per esempio, corrisponde il blocco delle assunzioni e finanche del turnover. Non parliamo dei luoghi dove si conserva la memoria, gli archivi di Stato, dove si tagliano le bollette della luce e non si possono comprare le fettucce per chiudere i faldoni. Non parliamo dei luoghi dove si sviluppa la ricerca e si amministra l’insegnamento, che devono cercare nel “mercato” le risorse (e i corrispondenti vincoli di servitù) per la loro sopravvivenza. Si sa, la “gente” non ha bisogno di memoria né di amministrazione, rinuncia volentieri al sapere e al futuro, solo i “cittadini” se ne servono.Quello delle condizioni morali, poi. Chi lavora per la collettività sa fare a meno dei riconoscimenti e delle gratificazioni (sebbene gli pesi). Ha bisogno, però, di vedere che il suo lavoro ha uno sbocco, che le linee che propone di tracciare (e che l’eletto accetta e approva) divengano effettivamente elementi della realtà. Ha bisogno del rispetto del suo “padrone”, tanto più che esso non è lì per proprio conto ma come mandatario della società che lo ha espresso con il voto: rispetto per il suo lavoro, per il sapere tecnico che in esso ha investito. Le “Bassanini” hanno accresciuto la sua responsabilità personale, non gli hanno dato gli strumenti per rendere più solida la sua rispettabilità professionale.Non c’è da meravigliarsi di tutto ciò. In Italia la pubblica amministrazione non ha mai goduto della stima di cui può giovarsi in altri paesi. Figuriamoci oggi. Un amico francese, alto funzionario dell’amministrazione dei lavori pubblici e dell’urbanistica, mi diceva che, in sede europea, gli riusciva spesso difficile comprendersi con i colleghi di altri paesi a proposito di alcune parole chiave, come ad esempio quella di “interesse pubblico”. Come italiano comprendevo benissimo la sua difficoltà. Se Berlusconi è l’apoteosi di una concezione per la quale gli strumenti dell’interesse pubblico sono finalizzati a servire l’interesse privato, non si può dire che nei petti dei suoi oppositori alberghi sempre una concezione del tutto diversa. “Meno Stato e più mercato” e “privato è bello” sono stati slogan agitati dal centro-sinistra non solo contro la holding di Stato che produceva panettoni.Che in molti comuni, province, regioni si continui a lavorare per rendere la nostra terra e le nostre città più accoglienti e umani (come il convegno di Venezia certamente testimonierà) è un segno di speranza per un futuro verso il quale occorre tenere aperta ogni prospettiva. Con maggiore tenacia e impegno, da parte di ciascuno, quanto più esso appare incerto e lontano.Pianificazione e ambiente 2003

I vasti problemi che si riferiscono allo sviluppo delle città italiane ed alla disciplina della loro nuova fabbricazione, trovansi ora, nell'attuale decisivo momento edilizio, all'ordine del giorno tecnico della Nazione; ed i nostri ingegneri ed i nostri architetti debbono prepararsi ad affrontarli con adeguata competenza, con rispondenza sicura tra i mezzi ed il fine.

Purtroppo nel passato prossimo questa preparazione è quasi sempre e quasi ovunque mancata; e forse non poteva essere altrimenti. Il grandioso fenomeno dell'urbanesimo, che ha affollato le città con enormi e rapidissimi aumenti di popolazione, si è sviluppato prima che maturassero, non solo lo studio e l'esperienza, ma perfino la coscienza dei grandi problemi che esso coinvolgeva nei riguardi del passato, del presente e dell'avvenire delle agglomerazioni cittadine. In particolare i mezzi di comunicazione hanno avuto un incremento imprevedibile, sia a recare un ingombro insopportabile nelle vecchie vie, sia a costituire un elemento di liberazione e di richiamo verso l'esterno, quasi a somigliare nel contrasto tra veicolo e strada l'alterna vicenda dei mezzi bellici di offesa e di difesa.

Soltanto colà dove una mente lungimirante ha presieduto allo sviluppo edilizio, come a Bruxelles, o dove una energia imperiale ha voluto affermarsi in opere grandiose con vastissimi mezzi, come a Vienna, a Parigi, a Strasburgo, a Monaco (seguendo l'esempio di quel megalomane di genio che fu Sisto V nella Roma del Cinquecento), ivi l'organismo della città si è in tempo avviato al suo ampliamento e si è dimostrato adatto al maggior sviluppo successivo. Ma questo non è stato, nè poteva essere, il caso delle città italiane; ove non sono mancate qua e là concezioni edilizie in tutto od in parte felici, come quelle dei viali periferici e del viale dei Colli di Firenze, o quelle del Rettifilo di Napoli, del Corso Vittorio Emanuele di Roma, della via XX Settembre a Genova, ma limitate ad un tracciato, non portate ad abbracciare tutta la vita cittadina, soluzioni locali aventi scopo a loro stesse, non fasi di più vaste realizzazioni per l'incremento della città; ed intanto la nuova edificazione si è addensata entro ed intorno al vecchio nucleo, spesso alterandone il carattere d'arte e d'ambiente, fasciandolo e soffocandolo cogli enormi casamenti entro gli isolati tutti uguali, tra le vie tutte uguali e tutte ugualmente insufficienti pel movimento che vi è sopraggiunto nel periodo immediatamente successivo. Questa attività edilizia che data dai cinquanta ai venti anni fa, rappresenta ora il maggior ostacolo ad ogni espansione ulteriore.

Da questa non lieta era di imprevidenza e di incomprensione della Edilizia nella tecnica e nell'arte ci andiamo ora, forse troppo tardi, rilevando. Oggi - è confortante constatarlo - si manifesta tra noi in questo così vasto campo tutto un magnifica risveglio di energie, che si esprime in studi severi, che si sostituiscono al dilettantismo empirico, ed in iniziative razionalmente avviate. La istituzione di speciali insegnamenti di Edilizia nelle scuole superiori d'architettura e nei corsi speciali di perfezionamento presso le Scuole d'ingegneria, le moltissime pubblicazioni di libri e riviste in cui appare alfine un riflesso di quella vastissima letteratura che fiorisce in Germania, in Francia, in Inghilterra sul molteplice argomento, i pubblici concorsi banditi pei piani regolatori di importanti città, come recentemente per Milano e per Brescia, la costituzione a Roma, a Milano, a Torino di gruppi urbanistici, le stesse discussioni ferventi che si animano nelle principali città italiane sui problemi dello sviluppo cittadino, sono non solo promettenti indizi di rapide conquiste, ma insieme mezzi efficaci per la formazione di una scienza e di una coscienza urbanistica. Si comincia ormai a vedere da tutti che l'ampliamento di una città, con l'innesto di nuovi quartieri sul vecchio tronco e l'avviamento verso uno sviluppo avvenire, rappresenta uno dei compiti più vasti e di maggiori responsabilità che si presentino all'Ingegneria ed all'Architettura; regolato da leggi precise, reso complesso dall'interferire di condizioni di diversissimo ordine.

É dunque il momento di intensificare gli studi e gli sforzi, e forse sotto questo riguardo è provvido l'attuale ristagno nella fabbricazione da parte dell'industria privata. Molto ancora può essere salvato nelle nostre città, molti errori possono ripararsi o con provvedimenti organici o con efficaci espedienti; poiché la maggior portata dei mezzi, specialmente dei mezzi meccanici di comunicazione, può raggiungere ora soluzioni di un ordine più vasto di quelle che qualche decennio fa, se pure fossero state comprese, difficilmente avrebbero potuto attuarsi. Ma occorre che non si giunga tardi quando tutto sia compromesso!

Se l'Urbanistica è una tecnica ed un'arte - tecnica complessa a cui fanno capo l'igiene, la costruzione stradale, e gli impianti molteplici cittadini ed i mezzi di traffico, arte di ordine superiore che associa al sentimento tradizionale d'ambiente, la nuova composizione architettonica delle grandi masse - è sopratutto guidata da principi stabili e da un metodo determinato, che occorre ben affermare. Dopo un vario ondeggiare di tendenze, si è ormai nell'arduo tema dei piani regolatori di sistemazione e di ampliamento di antiche città giunti in modo quasi concorde a criteri ed a postulati, che ora qui, nella impossibilità di svolgere analiticamente la trattazione, si riportano nella forma un po' scolastica di un decalogo.

1.° Devesi premettere al piano regolatore cittadino il piano regolatore regionale, che contempli cioè l'ampia sistemazione delle comunicazioni esteriori coi centri prossimi ed anche la corrispondente diffusione del futuro abitato nelle campagne.

2.° Il piano regolatore d'ampliamento deve essere tutta una cosa con quello dell'interna sistemazione del vecchio nucleo, considerando il reciproco modo con cui i nuovi quartieri reagiscono sul nuovo centro e viceversa. Il piano regolatore dei mezzi di comunicazione deve analogamente essere contemporaneamente studiato e direttamente coordinato col piano regolatore edilizio.

3.° Si dividano nettamente i vari tipi di traffico, cioè il traffico esterno di passaggio, quello che converge ai nodi tra loro ben collegati della viabilità e del movimento cittadino, quello locale, ed a ciascuno si dia la sede adatta secondo ben studiati circuiti, talvolta periferici, talvolta radiali, distinguendo in ogni caso la rete stradale di grande circolazione dalla spicciola rete di vie minori per la suddivisione dei lotti di case. Il criterio dello sdoppiamento del sistema cinematico cittadino discende allo studio dei singoli organi, come le piazze d'incontro delle vie ed eventualmente i passaggi ed i mezzi di comunicazioni sotterranei.

4.° Si dividano i quartieri di nuova fabbricazione in zone di vario tipo fabbricativo, che col loro associarsi non solo diano un ritmo alla città e rechino vantaggi all'estetica ed all'igiene, ma contribuiscano all'avviamento razionale della fabbricazione.

5.° Si aprano le porte alla espansione della città nelle zone esterne, togliendo con arditi e tempestivi provvedimenti le barriere che quasi sempre ostacolano il collegamento tra la città esistente ed i nuovi centri.

6.° Si coordinino i vari mezzi suindicati, cioè tracciamento di vie secondo precisi circuiti, ampi innesti, divisione in zone più o meno intense, attivazione dei mezzi di comunicazione di vario rodine (tranvie, autobus, ferrovie, metropolitane, linee di navigazione), alla finalità di promuovere e dirigere la fabbricazione secondo un determinato programma, e di evitare che essa venga a chiudere e congestionare ed alterare il vecchio centro. La città vecchia e le sue nuove propaggini debbono coesistere ciascuna con le proprie esigenze e col proprio carattere.

7.° Si adattino i tracciati stradali alle condizioni altimetriche, evitando gli schemi geometrici ideati a due dimensioni, che tanto spesso nelle città reticolate hanno dato non soltanto un insopportabile carattere di monotonia, ma anche condizioni infelici di pendenza e di costo. Non solo i tracciati, ma gli incontri delle vie, la disposizione delle piazze e dei giardini siano frutto di uno studio complesso, relativo al flusso della viabilità, alla conformazione utile degli isolati, ad una estetica di ampia monumentalità o, più comunemente, di aggruppamenti vari e vivaci.

8.° Negli attraversamenti che si rendessero necessari nel vecchio nucleo a congiungere i poli esteriori (ove non siano efficaci gli anelli periferici) si adatti il tracciato alla fibra edilizia esistente e si eviti il contrasto di tipo e di masse architettoniche, possibilmente valendosi di nuove linee attraverso il corpo degli esistenti isolati, piuttosto che praticando allargamenti di vie esistenti.

9.° Non si pretenda di voler portare con vasti sventramenti i centri di vita nuova nei vecchi quartieri, ove ogni taglio in grande stile si risolve in danni per l'economia ed insieme pel carattere storico ed artistico della città antica, ed in luogo di avviare la soluzione della città antica la pregiudica forse irrimediabilmente. Per queste vecchie zone valga la formula del minimo delle sopraelevazioni e degli addensamenti.

10.° Si segua per questi quartieri nelle loro parti più logore e più dense, quando siano liberate dalla grande viabilità, il sistema del diradamento edilizio e dello spicciolo miglioramento delle condizioni igieniche ed architettoniche dei singoli edifici.

Alcuni punti di questo decalogo richieggono di essere maggiormente chiariti. In particolare, quello che si riferisce all'innesto di nuovi quartieri sul vecchio nucleo.

Le due soluzioni-tipo per tale innesto razionale sono come è noto, o quella degli anelli periferici che raccolgono il movimento e lo deviano dal centro (esempi, Ring di Vienna, di Lipsia, di Norimberga), o quella dello spostamento radicale o graduale del centro cittadino (esempio tipico la Neustadt di Strasburgo). Spesso però nè l'uno nè l'altro dei due sistemi sono attuabili nella forma schietta. L'anello non è efficace quando le condizioni altimetriche mal si prestano (Roma ad esempio ha due tronconi di anello nel Lungotevere e nel viale delle Mura tra Porta Pinciana ed il Castro Pretorio, ma tra loro mal congiungibili), ovvero quando ormai la città è già tanto sviluppata da non consentire più l'isolamento del nucleo centrale (come a Milano ed a Firenze). Lo spostamento del centro perché sia applicabile in modo completo, richiede una gagliarda iniziativa con mezzi adeguati in condizioni adatte; ben più sovente viene sostituito dalla formazione di vari centri nuovi tra loro ben collegati, ma possibilmente tutti da un lato relativamente alla città esistente.

Roma con la sua lunga vita edilizia e con gli errori (in gran parte inevitabili) del suo sviluppo dal 1870 in poi, offre esempi veramente istruttivi in questo campo.

Sarebbe certo interessante, ma non è qui il tempo nè il luogo, il rievocare le varie vicende edilizie dell'Urbe: dalla tipica suddivisione in distretti di Roma imperiale, alcuni incredibilmente affollati di popolazione, altri riservati a ville, altri a pubblici edifici; alla configurazione decentrata della Roma medioevale fino al principio del Quattrocento in cui tanti nuclei come di borgate diverse e lontane erano costruiti intorno al Campidoglio, nel Trastevere, presso il Vaticano e presso il LAterano; al processo di completamento delle zone intermedie ed allo spostamento del centro determinatosi sotto Sisto IV colla città curiale del rione di Ponte, sotto Leone X e Paolo III con lo sviluppo della fabbricazione in Via di Ripetta e sulla Via Lata (l'attuale Corso), fino al piano regolatore di Sisto V, che attraverso i vigneti dell'Esquilino e del Viminale tracciò le strade dritte come la sua volontà precedendo la futura città di quasi tre secoli.

Ma più direttamente utile è l'accennare alle vicissitudini edilizie di Roma capitale d'Italia. É noto che all'alta mente di Quintino Sella balenò l'idea di svolgere la nuova fabbricazione accanto e non entro la vecchia città in tutta la zona tra la Porta Pia e la Porta S.Giovanni, allora quasi deserta. I mezzi scarsi, i pregiudizi, la malaria, le opposizioni politiche impedirono l'attuazione di questo savio progetto, di cui rimase il Ministero delle Finanze come prima manifestazione isolata. E venne l'era delle piccole discussioni tra i «prataroli» ed i «monticiani», tra i sostenitori della Via Nazionale diretta a Piazza Colonna o diretta verso S.Pietro; vennero i tracciati di strade (come la Via Cavour, il Corso Vittorio Emanuele, la Via Veneto) senza uscita; si ebbe il piano regolatore del 1883 coi suoi tagli nell'interno troppi e troppo triti, quello del 1908 che volle recare un principio d'ordine ed un inizio regolare di ampliamento; ed intanto la fabbricazione si svolse anarchicamente ovunque l'individualismo la sospingeva, sia quella di quartieri privati, come il quartiere di S.Lorenzo e le costruzioni del periodo delle Cooperative, sia quella di edifici pubblici, e specialmente dei nuovi ministeri (che il Calderini ed il Sanjust saviamente volevano concentrare in Piazza d'Armi) disseminati a tutti gli estremi della città, senza un collegamento e senza una guida.

Ancora tuttavia molto più può essere salvato in Roma da un piano regolatore ideato in grande stile ed attuato con metodo serrato. Anzichè seguire in questo piano un sistema unico, il che sarebbe, per quanto si è accennato, impossibile, converrà associarne insieme vari incompleti: tracciare anelli taluni completi planimetricamente ma mal connessi altimetricamente, altri vastissimi, altri infine parziali, innestati ai primi a ghirlanda; promuovere con tutti i mezzi l'ampliamento della città specialmente nel ventaglio compreso tra il N.E. ed il Sud. L'annessa pianta schematica indica taluni di tali mezzi, consistenti nella sistemazione ferroviaria basata sull'abbassamento del piano della stazione di termini e sul prolungamento delle linee al Nord, nel tracciato di una metropolitana ad 8 avente la stazione stessa come punto d'incontro, nell'avviamento delle principali linee radialmente verso la regione esteriore testè designata. E se il grande viale periferico esterno quale appare disegnato nella unita tavola dimostrativa sembra quasi concentrico al nucleo attuale, non lo è di fatto, sia per la diversa intensità della fabbricazione prevista, sia per la diversa funzione delle vie; il viale che da Ovest dovrebbe essere di chiusa, ad Est ed a Sud si suppone di inizio di tutta una rete irradiantesi verso la campagna fino a raggiungere col tempo la cerchia dei monti e dei paesi che la circondano.

Solo un piano regolatore concepito con siffatta larghezza di criteri, cioè tracciato come schema di poche e grandissime arterie maestre aventi ben precise funzioni (simili a canali di una bonifica) di viabilità e di avviamento edilizio, attuato sistematicamente, in modo da determinare la graduale costituzione di un nuovo organismo vivo, e non con piccoli provvedimenti sporadici ed isolati, potrà risolvere adeguatamente il terribile problema: creare una Roma nuova che non sia, come quella dell'ultimo cinquantennio, una modesta città secondaria di ordinaria amministrazione, che non alteri più oltre il carattere di Arte e di Storia per cui Roma è ancora unica al mondo, ma che raggiunga veramente la grandezza imperiale auspicata dall'alta parola animatrice del Capo del Governo.

Oltre a questi concetti relativi all'ampliamento cittadino, qualche commento richiede pure l'asserzione, con essi direttamente legata, che esclude di concentrare la vita nuova cittadina nel vecchio ambiente. Ancora invece, si è ben lungi dal vedere accolto questo principio così semplice e chiaro, e non sono lontani i tagli del centro di Firenze, della Via Rizzoli di Bologna,, sono di ieri le devastazioni del quartiere di S.Lucia in Padova, sono di oggi i tanti progetti che nella vecchia Roma vorrebbero tagliare vie e piazze enormi senza uscita e senza scopo. Eppure se non ci si lascia illudere dalla rettorica edilizia, appare evidente la illogicità di aumentare l'importanza di spazi che, chiusi nel vecchio ristretto abitato, rimarranno sempre più inadatti ad essere il cuore di un organismo sempre più vasto. Enormi i danni di ordine estetico per l'alterazione della fisionomia di una vecchia città che spesso nel suo aggruppamento pittoresco può dirsi un monumento collettivo, per le condizioni ambientali degli stessi monumenti maggiori, alterate nei rapporti di masse e nelle visuali, pel carattere banalmente mercantile che inevitabilmente assumeranno le nuove costruzioni, anche se i mirabolanti disegni prospettici hanno promesso meraviglie monumentali: sicchè ad un insieme che ha in ogni elemento un valore di ricordi o di arte si sostituisce una volgare massa edilizia senza significato. Enormi i danni per la economia nazionale per la distruzione di un patrimonio di costruzioni a cui bisogna sostituire in perdita altri fabbricati di maggiore capacità, il che nel periodo attuale, in cui l'equazione del tornaconto nelle abitazioni modeste raramente dà soluzioni positive, rappresenta un altro ostacolo quasi sempre insufficientemente considerato.

Tutte le condizioni di vario ordine che apparentemente sembrerebbero contrastanti, sono quindi invece, a chi ben guardi, concordi nel determinare la necessità dello sdoppiamento tra lo sviluppo adeguato, ampio, libero, vivace della città nuova secondo le nuove esigenze, dallo spicciolo adattamento nel proprio ambiente della vecchia città.

Questa convergenza di concetti è una delle singolari, inattese caratteristiche del momento attuale dell'edilizia. Le ragioni della viabilità, dell'igiene, della bellezza, del carattere storico, della economia, dello sviluppo demografico che fino a poco tempo fa si esprimevano in trattazioni che tra loro si ignoravano, oggi si incontrano e si uniscono nei principi della giusta distribuzione delle varie zone dell'abitato, nel ritmo della viabilità, dei tracciati e dei raccordi razionali delle vie e delle piazze, dell'aggruppamento viario e pittoresco delle case, delle condizioni d'ambiente richieste dai monumenti.

Occorre tuttavia che questi problemi siano anzitutto intesi nel loro valore dal mondo finanziario ed amministrativo e politico, che ancora vi è assolutamente impreparato. A veder bene, non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, più o meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l'attuazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo, con un ordine di successione che può secondare o può annullare il concetto informatore del piano stesso. Tanto è vero questo, che molto spesso i piani regolatori si risolvono in una dannosa illusione e finiscono ad essere attuati soltanto per varianti sporadiche e secondo opere isolate che nulla hanno a vedere col programma edilizio. Tanto è vero altresì, che gli esempi non sono infrequenti di governanti di alta mente che hanno miseramente fallito nell'attuazione di grandi vedute edilizie, appunto per la mancanza di ogni razionale giuda nella rispondenza tra i mezzi ed il fine.

Occorre dunque che il programma tracciato sulla carta in bei disegni faccia parte di qualcosa di più vasto, che può dirsi un'alta e continua politica edilizia. Ma per far questo occorre che una seria preparazione si diffonda nelle classi dirigenti, ed è in ciò un grande compito degli ingegneri ed architetti italiani. Non solo essi debbono rapidamente impadronirsi dei problemi urbanistici, ma debbono farsene propulsori e divulgatori, se non vogliono in questo tempo in cui «secol s'innova» estraniarsi dalla vita della Nazione.

Le leggi stesse che a tutta questa materia presiedono sono quanto mai decrepite ed occorre rinnovarle. I compiti e le attribuzioni dei Comuni nei riguardi dei piani regolatori sono ancora quelli concepiti nei limiti della legge del 25 giugno 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità, a cui si aggiunge quasi sempre la legge ideata nel 1885 per le condizioni singolarissime di Napoli ed ora assurdamente generalizzata. L'una e l'altra, malgrado gli adattamenti che si è cercato portarvi con applicazioni stiracchiate e con regolamenti inorganici, creano gravissimi ostacoli all'ampia attuazione di un piano regolatore. Il carattere fiscale della valutazione degli espropri con la legge per Napoli rende enormi le resistenze dei singoli proprietari, ingiustamente spogliati. D'altro lato invece il sano provvedimento di una espropriazione non lineare, secondo i tracciati di viabilità, non per zone interne sì che i Comuni possano ricuperare con l'aumento del valore nei nuovi stabili propspicienti parte delle ingenti spese di sistemazione, è possibile solo in parte e per espedienti; non lo è ad esempio nelle zone esterne dell'ampliamento ove sarebbe più logico e provvido, poiché la trasformazione delle aree agricole in aree edilizie non dovrebbe andare a vantaggio dei singoli proprietari. E così avviene che i Comuni non hanno veri mezzi per farsi con ragionevoli compensi un demanio di aree, e che la sana e razionale tendenza all'ampliamento è ostacolata ed è invece favorita quella inopportuna degli sventramenti interni. Nè i tentativi della legge per Roma dell'11 luglio 1907 e delle varie disposizioni per le espropriazioni per costruzioni di case economiche, hanno con la loro artificiosità, fatto fare un passo alla questione.

Ed ancora: la procedura per l'approvazione e per la dichiarazione di pubblica utilità dei piani regolatori edilizi mal consente di redigerli secondo il sistema razionale della preparazione di una rete a larghe maglie a cui si intesserà in seguito la trama secondaria, come anche mal consente di considerare organicamente come cosa unica, volta ad unica finalità, il piano di ampliamento e quello di sistemazione interna.

Ed ancora: tra il piano regolatore del tracciato stradale e della edificazione e quello del traffico manca ogni legame, ed è invece essenziale costituirlo strettamente. Ancora i vari enti che vi presiedono si ignorano quasi completamente nelle loro iniziative, che invece dovrebbero essere manifestazioni di un unico programma; ed avviene così ad esempio che l'Amministrazione ferroviaria costruisca stazioni, parchi ferroviari, linee di allacciamento con passaggi a livello ecc. senza tener conto, nè in modo positivo nè in modo negativo, della funzione edilizia.

Questa quasi costante mancanza di una energia unica direttiva fa sì che l'attività privata invece d'essere, se ben guidata, fecondo elemento utile, spesso diviene dannosa.

In questo terreno germoglia così la sementa di tutte le speculazioni malsane, in cui l'interesse di gruppi finanziari si sovrappone al grande supremo interesse della città, bene spesso riesce a fuorviare con mille sapienti mezzi la pubblica opinione.

Oltre al mutare la base giuridica ed al meglio indirizzare le forze edilizie, occorre, come si è accennato che entri in campo l'elemento «tempo», e che i piani regolatori abbiano da parte delle amministrazioni una precisa e tempestiva graduazione dei provvedimenti tra loro concatenati, sicchè, per così dire, la tattica edilizia si associ alla strategia. Tra la tecnica e l'arte urbanistica da un lato e l'amministrazione e la finanza dall'altro, non può esserci distacco, ma coordinamento serrato verso un unico programma; il che può aversi solo con una mutua comprensione.

Il lavoro per giungere a questo risultato vincendo pregiudizi e resistenze non è lieve e deve esercitarsi in vario senso. Ma anzitutto occorre far sì che si diffonda ben più che ora non sia la coscienza, la preparazione, la organizzazione urbanistica.

Occorre per questo intensificare con insegnamenti severi, ma più ancora col lavoro agile delle pubblicazioni e delle conferenze la coltura in tutti i diversi campi che all'Urbanesimo fanno capo.

Occorre favorire la formazione di specialisti, sicchè anche tra noi la figura dell'Urbanista abbia il suo vero rilievo.

Occorre che in ogni Municipio di qualche importanza sia costituito un Ufficio Urbanistico (come testè si è fatto a Milano) in cui ingegneri ed architetti specializzati lavorino nella ideazione dei piani generali o parziali, nello studio dei tanti impianti cittadini, nella compilazione dei regolamenti edilizi, nella redazione di progetti architettonici delle più notevoli sistemazioni, a cui sia possibile direttamente imprimere un carattere con la costruzione di pubblici edifici, ovvero si determinino speciali norme per l'attività privata, associando armonicamente nella composizione l'Architettura alla Edilizia.

Occorre promuovere pubblici concorsi su sistemazioni, o vaste di piano regolatore cittadino o limitate per speciali località, in modo da trarne non tanto soluzioni definitive, chè il concorso troppo spesso rende lirico quello che deve avere un carattere pratico; ma spunti di idee nuove da usufruire con studio ponderato.

Occorre richiedere che l'esame dei piani regolatori sia affidato alla competenza di appositi enti nuovi, pei quali possono utilizzarsi giovani elementi tratti dal Corpo del Genio Civile e dalle R. Sovraintendenze ai Monumenti, e, più in alto, dal Consiglio Superiore delle Belle Arti e da quello dei Lavori Pubblici uniti nel lavoro comune.



Hic opus hic labor. Trattasi, in Italia più che altrove, di grandi problemi nazionali che non debbono più oltre essere trascurati; trattasi della vita stessa delle nostre belle città che non possono più essere compromesse irreparabilmente nel carattere d'Arte ad esse mirabilmente impresso dai secoli, nelle feconde possibilità di un vasto sviluppo avvenire.

La nostra Rivista può e deve portare a questo movimento un contributo diretto e validissimo. Aprendo le sue colonne a segnalazioni ed a discussioni sulle questioni maggiori che interessano le principali città od i più tipici quesiti, riferendo i portati dei più recenti studi di cose urbanistiche, riportando sistematicamente una cronaca delle vicende e delle proposte più salienti ed illustrando ampiamente i migliori progetti concreti, potrà venire vero centro di ricerche e di affermazioni in quella che giustamente può dirsi la più complessa delle tecniche, la più grande delle Arti.

Il contributo di Antonio Gramsci alla definizione del concetto di egemonia è ritenuto fondamentale.

Secondo Gramsci, il potere è basato sulla presenza contemporanea di forza e di consenso. Se prevale l’elemento della forza, si ha dominio, se prevale il consenso si ha l’egemonia.

Potremmo concludere quindi che l’egemonia è la forma di potere basata essenzialmente sul consenso cioè sulla capacità di conquistare con la forza delle convinzione l’adesione a un determinato progetto politico o culturale.

Il concetto fu elaborato da Gramsci riferendolo essenzialmente agli stati. La sua tesi è che gli stati moderni tendono a basare il loro potere sempre più sul consenso. In tal senso il ragionamento sull’egemonia tende a intrecciarsi con quello sulla democrazia.

INGREDIENTI

Fave fresche, 1 kg

Piselli freschi, 1 kg

Lattuga romana, qualche foglia

Pancetta, 3 belle fette

Cipolla, 1 piccola

Olio extravergine d’oliva, sale

PREPARAZIONE

Rosolate la pancetta tagliata a dadini e la cipolla in un po’ d’olio

Unite le fave sbaccellate e, dopo una prima cottura, aggiungete un po’ d’acqua e salate

Dopo 10-15 minuti aggiungete i piselli sbaccellati,e ancora acqua se serve

Quando i legumi sono quasi ammorbiditi aggiungete la lattuga e lasciate cuocere finchè le foglie non sono appassite

Se trovate delle castraùre (piccoli carciofi morbidi, prodotti sull’isola di Sant’Erasmo nella Lagune di Venezia) pulitele dalle foglie esterne, tagliatele in 4 parti e aggiungetele dopo i piselli e prima della lattuga

Se gli ingredienti sono freschi e genuini è ottima sia bella calda, magari con un po’ di pane raffermo, sia tiepida

Ecco qua la ricetta scaramantica per il 9 aprile. Degustata sotto un albero di ulivo, nelle vicinanze di un seggio e con sottofondo de l’Internazionale, ha prodigiosi effetti beneauguranti.

Di antica tradizione emiliana, se ne infischia della dieta e si fa pernacchie del colesterolo. All’ingrediente canonico – il prosciutto crudo – è stata sostituita la mortadella per evidenti contingenze elettorali, ma con identica soddisfazione del palato. In tutto il territorio d’origine è prescritta la dizione “il” gnocco ingrassato, così come insegnava la saggezza della ‘sdoura’ Imelde che, durante l’operazione dell’impasto, raccontava a bimbi e ragazzetti di casa Guermandi, attirati nella grande cucina da profumi e riti conosciuti, storie infinite di faide e contese contadine, amori infelici ed eventi straordinari. Racconti immancabilmente suggellati, al momento dell’infornare, dall’insuperato aforisma sulla relatività dell’umana essenza: ‘Ciascuno siam poi fatti alla sua maniera propria’.

Buon appetito e buon voto.

Dosi per 4-6 persone

300 gr. di farina bianca

250 gr. di mortadella tagliata a fette (proibitissimi i ‘dadini’, di estetica forzista)

60 gr. di burro

20 gr. di lievito di birra

2 uova

sale q.b.

Fate sciogliere il lievito in una ciotolina con acqua tiepida. Tagliate la mortadella a striscioline sottili. Disponete la farina a fontana sulla spianatoia e versatevi al centro le uova, il lievito sciolto nell’acqua, il burro (tranne una noce), una presa di sale fino e metà della mortadella. Incorporate gli ingredienti alla farina, cominciando dal centro della fontana e aiutandovi con la forchetta o con la punta delle dita e impastate energicamente per un quarto d’ora circa. Formate un panetto, appiattitelo leggermente con il palmo della mano e mettetelo a riposare in una terrina coperta con un telo per circa mezz’ora. Imburrate e infarinate una teglia; stendete la pasta in una sfoglia alta, che disporrete nella teglia, cospargendone la superficie con la mortadella rimanente e un po’ di sale grosso. Tracciate infine sulla superficie della pasta delle losanghe, con la punta di un coltello affilato; mettetela a lievitare in un luogo caldo per circa un’ora, quindi fate cuocere nel forno preriscaldato a 180° per circa mezz’ora.

Vino d’accompagnamento vivamente suggerito (quasi obbligatorio): Lambrusco grasparossa di Castelvetro DOC.

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perchè la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La massa ignora, perchè non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perchè mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917

Il Medssaggero del 30 marzo 2006


Monsieur le Président

Je vous fais une lettre

Que vous lirez peut-être

Si vous avez le temps

Je viens de recevoir

Mes papiers militaires

Pour partir à la guerre

Avant mercredi soir

Monsieur le Président

Je ne veux pas la faire

Je ne suis pas sur terre

Pour tuer des pauvres gens

C'est pas pour vous fâcher

Il faut que je vous dise

Ma décision est prise

Je m'en vais déserter

Depuis que je suis né

J'ai vu mourir mon père

J'ai vu partir mes frères

Et pleurer mes enfants

Ma mère a tant souffert

Elle est dedans sa tombe

Et se moque des bombes

Et se moque des vers

Quand j'étais prisonnier

On m'a volé ma femme

On m'a volé mon âme

Et tout mon cher passé

Demain de bon matin

Je fermerai ma porte

Au nez des années mortes

J'irai sur les chemins

Je mendierai ma vie

Sur les routes de France

De Bretagne en Provence

Et je dirai aux gens:

Refusez d'obéir

Refusez de la faire

N'allez pas à la guerre

Refusez de partir

S'il faut donner son sang

Allez donner le vôtre

Vous êtes bon apôtre

Monsieur le Président

Si vous me poursuivez

Prévenez vos gendarmes

Que je n'aurai pas d'armes

Et qu'ils pourront tirer

In piena facoltà

egregio presidente

le scrivo la presente

che spero leggerà

la cartolina qui

mi dice terra terra

di andare a far la guerra

quest'altro Lunedì

Ma io non sono qui

egregio presidente

per ammazzar la gente

più o meno come me

io non ce l'ho con lei

sia detto per inciso

ma sento che ho deciso

e che diserterò

Ho avuto solo guai

da quando sono nato

e i figli che ho allevato

han pianto insieme a me

mia mamma e mio papà

ormai son sotto terra

e a loro della guerra

non gliene fregherà

Quand'ero in prigionia

qualcuno mi ha rubato

mia moglie, il mio passato

la mia migliore età

domani mi alzerò

e chiuderò la porta

sulla stagione morta

e mi incamminerò

Vivrò di carità

sulle strade di Spagna,

di Francia e di Bretagna

e a tutti griderò

di non partire più

e di non obbedire

per andare a morire

per non importa chi

Per cui se servirà

del sangue ad ogni costo

andate a dare il vostro

se vi divertirà

e dica pure ai suoi

se vengono a cercarmi

che possono spararmi

io armi non ne ho

(Traduzione di G. Calabrese)

Note:

La version initiale des 2 derniers vers était:

"que je tiendrai une arme ,

et que je sais tirer ..."

Boris Vian a accepté la modification de son ami Mouloudji pour conserver le côté pacifiste de la chanson !

Nota:

La versione iniziale degli ultimi due versi era:

"che impugnerò un fucile

e che so sparare..."

Boris Vian accettò la modifica proposta dal suo amico Mouloudji, per conservare lo spirito pacifista della canzone

I am a dangerous woman

(1980)

I am a dangerous woman

Carrying neither bombs nor babies

Flowers nor molotov cocktails.

I confound all your reason, theory, realism

Because I will neither lie in your ditches

Nor dig your ditches for you

Nor join your struggle

For bigger and better ditches.

I will not walk with you nor for you,

I won't live with you

And I won't die for you

But neither will I try to deny you

Your right to live and die.

I will not share one square foot of this earth with you

While you're hell-bent on destruction

But neither will I deny that we are of the same earth,

Born of the same Mother

I will not permit

You to bind my life to yours

But I will tell you that our lives

Are bound together

And I will demand

That you live as though you understand

This one salient fact.

I am a dangerous woman

because I will tell you, sir,

whether you are concerned or not,

Masculinity has made of this world a living hell

A furnace burning away at hope, love, faith, and justice,

A furnace of My Lais, Hiroshimas, Dachaus.

A furnace which burns the babies

You tell us we must make.

Masculinity made Femininity

Made the eyes of our women grow dark and cold,

sent our sons - yes sir, our sons -

To War

Made our children go hungry

Made our mothers whores

Made our bombs, our bullets, our "Food for Peace,"

our definitive solutions and first strike policies

Yes sir

Masculinity broke women and men on its knee

Took away our futures

Made our hopes, fears, thoughts and good instincts

'irrelevant to the larger struggle.'

And made human survival beyond the year 2000

an open question.

Yes sir

And it has possessed you.

I am a dangerous woman

because I will say all this

lying neither to you nor with you

I am dangerous because

I won't give up, shut up, or put up

with your version of reality.

You have conspired to sell my life quite cheaply

And I am especially dangerous

Because I will never forgive nor forget

Or ever conspire

To sell yours in return.

Sono una donna pericolosa

(traduzione di Maddalene Crippa)

Sono una donna pericolosa

Non porto bombe nè bambini in grembo

Non porto fiori nè miscugli incendiari

Porto scompiglio nella tua ragione, nelle tue teorie,

nel tuo realismo

Perchè non giacerò nelle tue trincee

Nè scaverò trincee per te

Nè mi unirò alla tua lotta armata

Per trincee più belle e più grandi

Non camminerò con te nè per te,

Non vivrò con te, nè morirò per te

Ma neppure cercherò di negarti

Il tuo diritto a vivere e morire

Non dividerò con te neppure un centimetro di

questa terra

Finchè tu sei maledettamente proteso verso la distruzione

Ma neppure negherò che siamo fatti della stessa terra

nati dalla stessa Madre

non ti permetterò di legare la mia vita alla tua

Ma ti dirò che le nostre vite sono legate insieme

E esigerò che tu viva per comprendere

Questa cosa importante

[...]

Che sono una donna pericolosa

Perchè devi sapere, signore, che

Sono una donna pericolosa

Perchè non tacerò niente di tutto questo

Non colluderò con te

Non avrò fiducia in te nè ti disprezzerò

Sono pericolosa perchè non rinuncerò, non tacerò

Nè mi adatterò alla tua versione della realtà

Tu hai congiurato per svendere la mia vita

E io sono molto pericolosa

Perchè non potrò perdonare nè dimenticare

Nè mai congiurerò per svendere la tua

in cambio.

La minuscola valle del Cedron, in questi mesi d’inverno, è quasi un giardino: non è stretta fra polvere e lastre di tombe, c’è erba e qualche timido fiore. Resta però il cimitero di sempre, digradante verso la gola di Giosafat, ove si terrà, un giorno, il Grande Giudizio. Malgrado la storia e tante impietrite allusioni, Necropoli dei Profeti, Pilastro d’Assalonne, Tomba di Zaccaria, Cippo della Figlia di Faraone, traversare la valle, dal Getzemani alla città, è ancora angosciante: Gerusalemme, chiusa nelle sue mura in cima alla salita, è assediata dai morti, come se fosse lei la necropoli. Così parve a Gesù, negli ultimi giorni prima dello scontro, quando l’ostilità dell’establishment si andava facendo opprimente: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri imbiancati che all’esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece sono pieni d’ossa di morti e di ogni putredine… Fra i sepolcri più belli, sormontata da una piramide destinata a raccogliere i raggi di vita dal cielo, la tomba che la voce antica diceva di Zaccaria. Non è vero, ma serve a ricordare la minaccia del Galileo: cadrà su di voi tutto il sangue innocente sparso in terra, dal sangue del giusto Abele fino a quello di Zaccaria figlio di Barachia, che uccideste fra il santuario e l’altare. Valle di ricordi e di violenza, pietre macchiate, dicono, dal sangue di Giacomo e di Stefano: Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati… Valle di glorie passate e di nostalgie. Teatro, già allora, d’immemore prosopopea: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché innalzate i sepolcri dei profeti e ornate i monumenti dei giustidicendo: «Se fossimo stati ai tempi dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti e colmate la misura dei vostri padri! Gesù si sa morto, negli sguardi dei suoi avversari. Sente la tentazione del sepolcro, del cavo umido in cui rannicchiarsi per sempre, al riparo dalla luce troppo amara della propria parola. Gli altri, i vivi, amano celebrare il passato per assolversi, proclamare la propria innocenza quando non c’è più fomite a quel peccato. Esentarsi così dal vedere il sangue che scorre e trasferire la propria coscienza in un periodo ipotetico: se fossimo stati ai tempi dei nostri padri… La memoria immunizza? Gli improbabili celebratori credono nel progresso della virtù, pensano d’essere meglio dei loro antenati. Mentre in Gesù l’umanità è stanca, com’era stanco Elia il profeta, quando s’accasciò, scappando dal sangue fumante dei quattrocentocinquanta estatici preti di Baal, e disse: ora basta, o Signore, prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri (1 Re 19,4). Nessuno può dire dove sarebbe andato nei sandali dei suoi antenati. Gesù sapeva bene – invece – che i profeti erano morti ammazzati e che i figli di chi allora aveva il potere d’uccidere ce l’avevano ancora. Punto. Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti. Nell’oggi che commemora il passato, i posteri possono essere (barrare la casella): giusti guerrieri esploratori scienziati artisti patrioti; oppure: pentiti vinti compunti coscienti solidali. Non importa: celebrano e stanno bene. Inni e monumenti li innalzano per attestarsi fieri su barricate da cui nessuno più spara. Comme par hasard, sovente dalla parte in cui c’è da guadagnare qualcosa, un po’ come quella di chi zittì d’una lapide l’antico profeta, che non piaceva al re, alla corte, ai sacerdoti, alla gente. La vita associata è un gioco – suggeriva Johan Huizinga – le cui regole ammettono il baro (che le sfrutta per ingannare il pollo), ma non il guastafeste: colui che distrugge l’incanto, che rivela l’assurdo della situazione. Così, Gesù sarà ucciso, lì, a Gerusalemme. Così i suoi discepoli: io mando a voi profeti, sapienti e scribi: quanti ne ucciderete mettendoli in croce, quanti ne flagellerete…Matteo si compiace d’ambientare questi discorsi in vista delle tombe del Cedron, sapendo che oltre la gola di Giosafat, ad occidente delle mura, corre la stretta valle dell’Innom, la celebre ed aborrita Geenna, luogo per nulla ameno, abbandonato alle bestie che si nascondono fra le pietre e gli sterpi: serpenti, razza di vipere, come sfuggirete al castigo della Geenna? Matteo però non seppellisce Gesù in questa condanna. Egli solo ricorda che, allo spirare del suo Profeta, il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra tremò e le rocce si spaccarono; le tombe si aprirono e molti corpi dei santi che vi giacevano risuscitarono e dopo la risurrezione di lui uscirono dalle tombe, entrarono nella città santa e apparvero a molti(Mt 27,51-53). A Pasqua, la giustizia non resta ricordo, chiede, pretende di essere vita in una città di vivi. Ciò che mai avrebbero voluto gli uccisori dei santi, e con essi coloro che ne avevano addobbato i sepolcri.

Gerusalemme, Mercoledì delle Ceneri 2006

Questo articolo apparirà in I Martedì 241 - Marzo 2006, numero contenente il Dossier sui temi politici: "1946-2006: Nodi alla meta".

L'immagine è presa dal sentiero che dalle alture del monte degli Ulivi scende verso la valle del Cedron. Dal sito Archeogate.

[…] Al contrario il «Grand Dictionnaire» di Pierre Larousse affronta il termine ed il concetto in modo storico-analitico e con notevole approfondimento. Il volume VI, in cui figura la voce, esce nel 1870; con ogni probabilità è stato scritto prima del crollo (settembre) di Napoleone III: peraltro l'orientamento dell'articolista, fervente giacobino, in riferimento agli anni della «grande Révelution» non collide con il corredo ideologico-propagandistico bonapartista; ma l'animus antibonapartista che in questa voce non traspare (è latente nei cenni al 1848) diventa chiarissimo nell'amplissima voce dedicata a Napoleone III nel volume XI (1874), dove tutta l'ascesa e presa del potere da parte di Luigi Bonaparte è descritta (e stigmatizzata) come un capolavoro da grande demagogo.

La voce Démagogie si apre dunque con una polemica osservazione sull'uso strumentale del termine: «ecco un'espressione tipica del linguaggio polemico, che si adopera senza attribuirvi un significato preciso». Vi è poi una sorta di apologia del ruolo del «demagogo»: « il termine vuol dire semplicemente guida del popolo; orbene poiché i popoli non sono tuttora capaci di guidarsi da sé, non vediamo cosa ci sia di criminale nell'impegnarsi a dirigerli». Peraltro vi è una tragedia individuale del demagogo: egli «crede di guidare le folle, ma in realtà subisce il movimento piuttosto che imprimerlo: il che è così vero che, generalmente, con demagogia s'intende una situazione in cui il popolo, piuttosto che essere governato, governa». E’ il caso, vien fatto osservare nell'ultima parte della lunga voce, delle grandi figure della Rivoluzione: «Sono trattati come demagoghi, e tuttora denunciati ogni giorno come tali al giudizio dei posteri, tutti gli uomini di cuore che hanno preso parte alla Rivoluzione: Robespierre, Danton, Vergniaud, Mirabeau e persino Lafayette. Lo furono? Sicuramente. Non si conduce - seguita l'articolista - il popolo all'assalto della Bastiglia, non lo si lancia alle frontiere contro tutta l'Europa coalizzata senza sovreccitare sino al parossismo le sue passioni, le buone come le cattive. Ma una volta dato l'impulso, chi guiderà il movimento, chi lo frenerà, chi lo conterrà nei limiti della giustizia? Nessuno. I più forti vi si infrangeranno. A seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini che si posero alla testa della Rivoluzione, sembra di vedere dei fanciulli appesi a una locomotiva. Tutti vi si sono stritolati. Ma loro se lo aspettavano né si ripromettevano dai propri figli ingrati una tardiva riabilitazione. Perciò dobbiamo ammirarne la grandezza del sacrificio e l'immensità della dedizione». Peraltro viene, nello stesso contesto, rifiutata la nozione di una demagogia unicamente ‘di sinistra’: «Prima di mettere sotto accusa i demagoghi di un'epoca a noi più vicina [rispetto al mondo romano di cui ha prima parlato] gli storici monarchici e clericali dovrebbero rileggersi i loro Annali. Ci furono mai demagoghi più focosi che i nobili e i preti della Vandea o del Midi? ».

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C'è però da osservare, conclusivamente, che il processo sin qui descritto riguarda un'epoca ormai conclusa. Lo scenario attuale è profondamente mutato. Il mondo dominato dal mercato è approdato alla forma integrale di demagogia, quella della mercificazione. Qui si è compiuto il grande salto dalla demagogia rozza, primitiva, demiurgicamente e arcaicamente affidata al superuomo di tipo mussoliniano formato sulle pagine di Le Bon e fiducioso nelle proprie sperimentate capacità di fascinatore di masse, alla demagogia anonima e capillare, totalizzante proprio perché anonima: la mercificazione dei valori e la penetrante imposizione di pseudo-valori di facile assunzione, simboleggiati e potenziati dai media a diffusione capillare e a basso costo (il teleschermo di Orwell rimane una grande intuizione precorritrice), nonché dalle forme spettacolari-popolari a mobilitazione deviante (universo sportivo).

Andiamo dunque verso società sempre più demagogiche anche perché è entrato da tempo in grave crisi (e ha perso attrattiva anche verso i mondi dipendenti o ex-coloniali) il modello di società a base ideologica. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma di discorso demagogico. Proprio mentre sembra favorire, attraverso i media, l'alfabetizzazione di massa, esso produce (il paradosso è solo apparente) un basso e torvo livello culturale e un generale ottundimento della capacità critica (« dove tutti sanno poco e' si sa poco » era l'allarme del Leopardi nel Dialogo di Tristano e di un amico). Si tratta dunque di una forma di demagogia altamente perfezionata, per ora non bisognosa della coercizione violenta di tipo paleo-fascista. (Un fascismo americano sarebbe democratico, scrisse Bertolt Brecht nel suo Diario, p. 368, in singolare sintonia con Thomas Mann, discorso al « Peace Group » di Hollywood, giugno 1948). Seduce i soggetti dando loro l'illusione dell'autonomia. Ma non trascura nemmeno la latente spinta alla violenza che ogni società necessariamente accumula («quello stato di vaga ostilità atmosferica di cui l'aria è satura nell'èra nostra», dice Musil, L'uomo senza qualità [193I], I, cap. 7), la canalizza (per ora) verso l'ambito sterminato dello sportspettacolo, unica occasione di mobilitazione spontanea delle masse nel tempo nostro. La politica ‘alta’ fa mostra di ignorare tale ambito, ma è a tutti ben chiaro che esso è terreno di vera e propria manipolazione politica: sia per la sua efficacia come valvola di sfogo (deviante) dell'inquietudine sociale semiproletaria e sottoproletaria, sia in quanto strumento di conquista del consenso (clientela elettorale, uso elettorale del mondo sportivo ecc.). Esso è anche, infine, terreno di coltura del neo-razzismo e ne rappresenta l'anima militante e squadristica.

Se infatti le odierne società demagogiche paiono aver raggiunto un equilibrio interno fondato sulla rimozione o canalizzazione del conflitto grazie agli strumenti massificanti della nuova demagogia, esse presentano tuttavia un fianco debole, anzi sono in pratica indifese, di fronte allo straripamento «terzomondiale» in direzione delle metropoli. Qui, per ora, la reazione politica ‘alta’ appare incerta o inconsistente; ma la reazione ‘bassa’ (tollerata, quando non addirittura incoraggiata) è quella del neo-razzismo, tanto più virulento quanto più sorgente dai ceti semi-proletari e sottoproletari delle metropoli («è la concorrenza fra gli strati più bassi della popolazione, per dividersi risorse scarse», dice Basil Davidson). Il neo-razzismo aggressivo è dunque il terzo e più feroce ingrediente delle attuali società demagogiche. Resta da chiedersi se il successivo sviluppo sarà in direzione dell'assorbimento nell'universo degli pseudo-valori anche dei nuovi arrivati (un lavoro in questo senso è stato avviato da tempo, sin nelle società d'origine, dove però - chiusa l'ascetica parentesi leninista - esplode il fondamentalismo), o se invece questa dilatazione di una ricetta già sperimentata nelle società dominanti stia per rivelarsi insufficiente, per esempio a causa della scarsità delle risorse e del sempre più accentuato squilibrio. La prospettiva sarebbe in tal caso quella di una esplosione di inusitata violenza fratricida, per la quale n

La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.

Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.

Quando entrò nelle aule dove si insegnava la meccanica, Ulrich fu subito in preda a un entusiasmo febbrile. A che serve ormai l'Apollo del belvedere, se si hanno davanti agli occhi le forme nuove di un turboalternatore o il meccanismo di distribuzione di una locomotiva! Chi può interessarsi ormai alle chiacchiere millenarie sul bene e sul male, quando s'è trovato che non si tratta di “Valori costanti" ma di “Valori funzionali", così che la bontà delle opere dipende dalle circostanze storiche e la bontà degli uomini dall'abilità psicotecnica con la quale si sfruttano le loro capacità! Il mondo è semplicemente buffo se lo si considera dal punto di vista tecnico; privo di praticità in tutti i rapporti umani, estremamente inesatto e antieconomico nei modi; e chi è abituato a svolgere le sue faccende col regolo calcolatore non può ormai prendere sul serio una buona metà delle asserzioni umane. Il regolo calcolatore consta di due sistemi di numeri e di linee combinati con straordinaria accortezza: due tavolette scorrevoli verniciate di bianco, a sezione trapezoidale piatta, mediante la quale si risolvono in un baleno i più intricati problemi, senza sciupare inutilmente un solo pensiero; è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore. Quando si possiede un regolo calcolatore, e arriva qualcuno con grandi affermazioni e grandi sentimenti, si dice: "Un attimo, prego, prima calcoliamo il limite d'errore e il valore probabile di tutto ciò".

Quest'era senza dubbio una rappresentazione efficace dell'ingegneria. Essa costituiva la cornice di un'affascinante futuro autoritratto che rappresentava un uomo dai lineamenti energici, con una pipa tra i denti, un berretto sportivo in testa e splendidi stivali alla scuderia, in viaggio tra Città del Capo e il Canadà per realizzare grandiosi progetti... Fra un affare e l'altro si può anche trovare il tempo per ricavare dal pensiero tecnico qualche idea per organizzare il mondo e governarlo, o di formulare massime come quella di Emerson, che dovrebbe esser scritta sulla porta di ogni officina: "Gli uomini passano sulla terra come profezie del futuro, e tutte le loro azioni sono prove e tentativi, perché ogni azione può essere superata dalle successive". Anzi, per esser precisi, questa massima era di Ulrich che l' aveva composta mettendo insieme parecchie massime di Emerson.

È difficile dire come mai gli ingegneri non corrispondano poi del tutto a questo quadro. Perché, ad esempio, portano sovente una catena d'orologio che sale in un mezzo arco acuto dal panciotto ad un bottone più in alto, o la dispongono sulla pancia in festoni ascendenti e discendenti, come arsi e tesi di una poesia? Perché amano appuntarsi nella cravatta denti di cervo o piccoli ferri di cavallo? Perché i loro abiti sono costruiti come gli elementi di un'automobile? Perché, soprattutto, non parla no quasi mai d'altro che della loro professione; e se parlano di altro lo fanno in modo speciale, rigido, esterno, senza correlazioni, che al di dentro non và più in giù dell'epiglottide? Naturalmente, ciò non vale per tutti, ma vale per molti; e quelli che Ulrich conobbe quando prese servizio per la prima volta in un ufficio di fabbrica erano così, e quelli che conobbe la seconda volta erano anche così. Si rivelarono uomini strettamente legati alle loro tavolette da disegno, amanti della loro professione e in essa ammirevolmente valenti; ma proporre loro di applicare l'audacia del loro pensiero a se stessi invece che alle loro macchine, sarebbe stato come pretendere che facessero di un marIello l'uso contro natura che ne fa un assassino.

Mercenario:

“Chi presta la propria opera per danaro” (Il nuovo Zingarelli, Zanichelli, Milano 1985)

“Di un’attività in cui gli elementi spirituali o affettivi cedano completa,mente di fronte a quelli economici o anzi venali” (C. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1987)

“Che lavora per ottenere una mercede, un compenso” (DIR – Dizionario italiano ragionato, G. D’Anna, Firenze 1988)

“Che, chi lavora alle dipendenze altrui in cambio di un compenso in denaro” (Tullio De Mauro, Dizionario della lingua italiana, Paravia, on line)

Si chiama rendita il reddito che il proprietario di certi beni percepisce in conseguenza del fatto che tali beni sono, o vengono resi, disponibili in quantità scarsa; dove la scarsità va intesa in uno dei seguenti sensi:

1) i beni in questione appartengono alla categoria degli agenti naturali, disponibili in quantità limitata e inferiore al fabbisogno;

2) i beni in questione vengono resi disponibili da chi li possiede in quantità inferiore alla domanda che di essi si avrebbe in corrispondenza di prezzi uguali ai loro costi. (Claudio Napoleoni)

Il riformismo ha sempre voluto la luna […] nel senso che ha sempre voluto tenere insieme tre cose: lo sviluppo, e quindi l’accumulazione e l’incremento dell’occupazione ottenuto in questo modo, i servizi dello Stato del benessere, e i consumi privati. Il fato che tra queste cose il riformismo sia sempre stato incapace di stabilire un ordine di priorità secondo me non è casuale.[…] Perché il riformismo accetta i valori che la società in cui opera gli trasmette. Accetta gli stessi valori e cerca di abbassare il più possibile i livelli del disagio

Claudio Napoleoni, “La libertà del finito nel ‘Discorso sull’economia’ di Claudio Napoleoni”, in Palomar, n. 3, 1987, pp. 22-23

La società non è, come comunemente si crede, lo sviluppo della natura, ma la sua decomposizione e la sua intera rifusione. È un secondo edificio, costruito con le macerie del primo.

Chamfort (1741-1794)

La société n'est pas, comme on le croit d'ordinaire, le développement de la nature, mais bien sa décomposition et sa refonte entière. C'est un second édifice, bâti avec les décombres du premier.

Society is not, as is commonly thought, the development of nature, but indeed its decay and total overhaul. It is a second building, built with the rubble of the first.

Chi è Chamfort

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