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Animale a dir poco rustico ( le uniche cose che non mangia sono l’euforbia e il granito, ma sul granito non ci giurerei…) la capra ha dei lineamenti di eccezionale grazia; così perlomeno asseriva il mio professore di Modellazione all’Istituto d’Arte. Qui mi vorrei concentrare però sulle virtù “interne” dell’animale, e cioè sulla bontà delle sue carni.

La capra è un animale ingiustamente sottovalutato soprattutto (non capisco il perché) qui in Sardegna. Comprare carne di capra in macelleria, quando la si trova, significa spendere € 3,50 al chilo…Tanta gente non l’ha mai assaggiata, la snobba e non sa cosa si perde. Qualcuno, come mio padre ad esempio, è prigioniero di un assurdo equivoco; quello, cioè di considerare la capra cugina di primo grado della pecora, per cui se non ti piace l’odore della pecora (peraltro strepitosa secondo me) non ti piacerà neanche la carne della capra.

Ma veniamo alle caratteristiche organolettiche. Carne rossa, di eccezionale portata nutrizionale, e quindi in grado far schizzare i livelli di colesterolo verso la soglia di attenzione (io sono passato da 190 a 220mg/l in una sola estate), si avvale di un sapore forte ma allo stesso tempo in grado di esaltarsi a fronte di aromi e tecniche di cottura fra i più vari.

Io qui mi soffermerò su due ricette semplici ma efficaci (min. 10 persone: indispensabile il consenso di massa).

Capra in umido.

Tagliare la capra a tocchetti

Disporla in un recipiente largo, nel frigo, immersa nel vino rosso, per 24/36 ore

Predisporre una pentola larga, con un velo di olio d’oliva, sul fuoco allegro

Rosolare la carne per bene, dopodichè la si estrae

Sul fondo liquido così ottenuto lanciare il soffritto: cipolle in quantità, due spicchi d’aglio, alloro, tre/quattro pomodori secchi sminuzzati

Ri-immettere la capra, ravvivare il tutto con fuoco allegro, dopodichè una spruzzata abbondante di vino rosso decreterà l’abbassamento del volume di fuoco

Aggiustare di sale, pepe, peperoncino, e mandare a cottura per un’ora e mezza circa con il tappo

Un quarto d’ora prima del cessate il fuoco, aggiungere le olive (meglio se confezionate in casa

n.b. È superfluo dire che non è necessario l’antipasto o il primo, soprattutto se di dispone di Pane Carasau.

Inoltre, se si dispone di funghi in luogo delle olive, tanto meglio; in tal caso la cottura termina quando si consuma l’acqua dei funghi.

Capra marinata arrosto

Mettere la capra (coscia, costato, spalla) in congelatore per tre ore; ciò consentirà all’amico macellaio di tagliare agevolmente le fette o le braciole con la macchina dell’osso buco

Disporre le fette su un recipiente largo, avendole accuratamente ricoperte con una marinata composta da: cipolle, aglio, olio, aceto balsamico. rosmarino, pepe, sale

Introdurre il recipiente in frigo per almeno 24 ore; ciò causerà la perdita inevitabile di quanto contenuto precedentemente nel frigo, per effetto del combinato disposto capra+cipolla, potenzialmente in grado di bypassare anche le confezioni sottovuoto.

L’indomani predisporre la graticola su una distesa di brace viva e dare inizio alle danze, avendo cura di non eccedere nella cottura; meglio se un po’ al sangue.

n.b. Questo piatto è in grado di annullare completamente il senso di sazietà, nel caso qualcuno abbia già mangiato: non è uno scherzo…

Buon appetito

p.s. consiglio vivamente anche la capra con i peperoni, avanzata (arrostita allo spiedo quindi al naturale) dal giorno prima e saltata in padella, ricetta dell’Ogliastra (Baunei, Urzulei, ecc.)

Io personalmente sono in attesa di poter sperimentare la tartara di capra con i porri e il radicchio!

Irina ha ripreso, qualche anno fa, la gestione di un antico Fritolin, da molti anni abbandonato. Era un locale dove, a buon mercato, si comprava un cartoccio di pesciolini fritti (analogo quindi ai fish and chips londinesi). Si giovava della vicinanza con il mercato del pesce di Rialto (un mercato bellissimo: non mancate di visitarlo, soprattutto il martedì e il sabato). Di questo fattore di localizzazione si avvale anche Irina Freguia, che con la figlia Barbara gestisce il locale.

La cucina è molto buona, un incontro felice tra la tradizionale cucina veneziana e i sapori d’Oriente. Le basi sono costituite dal pesce, sempre freschissimo, e dalle erbe. La cosa che mi è piaciuta di più è il tonno marinato e scottato (“tonno ai tre pepi”), ma non sono mai riuscito a rifarlo.

L’indirizzo è Calle della Regina (Rialto), 2262: lo trovate facilmente se da Rialto andate verso Santa Maria Materdomini, subito dopo il sottoportego che segue Campo San Cassiano. Il telefono è. 0415222881 e l’indirizzo e-mail
irina@veciofritolin.it.

È chiuso domenica sera e lunedì; meglio prenotare .

Sul web del Vecio Fritolin ( www.veciofritolin.it) trovate qualche ricetta (Irina ha promesso di aumentarle), e altre fotografie del locale. Quelle qui sotto le ha fatte Paolo Cecchi.


A quello di Antonio Pedrini (1905), fanno seguito alcuni testi che si riferiscono prevalentemente al dibattito italiano che dalla seconda metà degli anni Venti del secolo scorso si è sviluppato per tutto il decennio successivo: Silvio Ardy (1928), Cesare Chiodi (1926), Alberto Calza Bini (1928) esprimono le tesi contrapposte sulla figura dell’urbanista e sulla sua formazione. Allo stesso periodo si riferiscono i testi di Eugenio Fuselli (1933) e di Giuseppe Bottai (1937), per diverse ragioni singolari rivelatori di un’epoca e delle sue logiche. Chiude questo gruppo di testi, e in qualche modo conclude il dibattito del decennio precedente, lo scritto di uno dei padri dell’urbanistica italiana, Luigi Piccinato, mentre un rapporto di Gaston Bardet (1940) testimonia la ricchezza delle esperienze e del dibattito che già allora si registravano in Francia.

Al periodo postbellico si riferisce un ulteriore gruppo di scritti. Un interessante resoconto del 1° congresso sull’insegnamento dell’urbanistica (1951), fittissimo di relazioni e di interventi vivaci e spesso caratterizzati da notevole spessore, dà il clima generale della dibattito. e gli interventi del geografo Bruno Nice (1950), del britannico William G. Holford (1950) e dello statunitense Henry S. Churchill (1963) esprimono i punti di vista di altri mondi verso i quali gli urbanisti italiani volgevano lo sguardo. La definizione ampia di un altro indimenticato maestro, Giovanni Astengo (1970), colloca in un quadro organico gli argomenti dell’urbanistica razionalista.

Tra gli scritti più recenti, ho scelto per ora alcuni scritti di un lucido studioso, Francesco Ventura (1999), con due mie postille, e di un generoso e intelligente urbanista “militante”, Silvano Bassetti (2001). Il testo di Ventura apre un significativo ponte tra l’argomento di cui si occupa questa cartella e la questione della Rendita, quello di Bassetti introduce al tema decisivo dei rapporti tra urbanistica e politica, su cui occorrerà lavorare.

Altri testi, per chi è interessato, sono disponibili nel sito di Fabrizio Bottini

Premessa – di Fabrizio Bottini

Un classico autore di urbanistica come Patrick Abercrombie, per un tema che, almeno nel lontano “dopoguerra” in cui si colloca questo articolo, è tutt’altro che classico: la pianificazione del territorio spiegata ai bambini. O qualcosa del genere. E a ben vedere nemmeno Abercrombie apre una frontiera del tutto nuova, visto che a Chicago il grande piano di Daniel Burnham era stato seguito, dieci anni prima, da un manualetto di animazione culturale per le scuole, con il preciso scopo di educare (e formare una futura base di consenso) le nuove generazioni alla città futura. Si trattava del cosiddetto Wacker’s Manual, dal cognome del promotore, ed è stato osservato dagli studiosi a questo proposito che nel corso del tempo “la città avrebbe avuto una cittadinanza illuminata e informata” sugli scopi del piano regolatore ( The Plan of Chicago 1909-1979, catalogo della Mostra, Chicago 1981).

L’idea di Abercrombie però va decisamente oltre, e non a caso prefigura forme di coinvolgimento generalizzato che troveranno spazio solo una generazione dopo, ovvero proprio nel quadro delle New Towns nella cui promozione il grande urbanista gioca un ruolo di primissimo piano, dalla partecipazione alla Commissione Barlow negli anni Trenta, al Greater London Plan che proprio sulle città satelliti e sull’esodo “socialmente consapevole” basa il suo impianto di decentramento.

Questo del 1921, in altre parole, è un esordio ufficiale e piuttosto organico del tema partecipativo, piuttosto che una declinazione sul tema delle scuole di urbanistica. E qui lascio volentieri al lettore la scoperta del perché.

The place in general education of civic survey and town planning, Town Planning Review, luglio 1921 (traduzione di Fabrizio Bottini)

I – Analizzare

È possibile che non si sia imparato dalla guerra tutto quanto che ci si aspettava da noi: ma fra le lezioni minori, forse non del tutto dimenticate, si può includere l’uso e l’interesse per la Mappa. Si dice che molti hanno imparato per la prima volta la geografia dell’Europa e del Medio Oriente durante quegli anni; ma è una definizione incompleta, perché non era la vecchia geografia fatta di nomi delle capitali, promontori e fiumi di una regione, che dovevamo studiare, ma una presentazione grafica e viva, realizzata attraverso l’aeroplano e immaginifiche viste a volo d’uccello, semplificazioni diagrammatiche e curve di livello. Allora abbiamo appreso, per ragioni militari, il valore delle valli fluviali, e osservato con stupore l’importanza strategica dei siti di vecchie città, i cui stessi nomi erano scivolati via dalla memoria. In altre parole, senza capire quanto stavamo facendo, studiavamo gli effetti delle Caratteristiche Fisiche Naturali, dei Mezzi Artificiali di Comunicazione, della Geologia Economica e della Persistenza Storica, sul modo di condurre una guerra a scala mondiale; ma non è ugualmente e generalmente riconosciuto come la padronanza di queste medesime cognizioni, necessarie ai combattenti per scopi militari, sia egualmente essenziale per le stesse persone, quando siano impegnate nello sviluppo in tempi di pace.

Non avrebbe dovuto essere lasciato alla guerra, l’insegnarci come leggere una mappa o una planimetria: e comunque, quanto raramente ci capitava, prima? Quanti guidatori di mezzi motorizzati potevano con fatica essere indotti a studiarsi un percorso sulla carta d’ordinanza prima di partire per un viaggio attraverso un territorio straniero, e contavano (lo fanno ancora) sulle ovvie strade principali e qualche occhiata al volo ai segnali stradali, perdendosi così piacevoli strade secondarie, e spesso allungando senza motivo il viaggio? O ancora, chi non ha presente un presidente di comitato, di autorità pubblica o impresa privata, che osserva saccente un piano che gli viene sottoposto per l’approvazione, e di cui è completamente incapace di afferrare il significato? Gli architetti, a dire il vero, sono spesso accusati di fare disegni troppo aridi; di assalire i sensi con l’odore della carta da lucido (come ha sperimentato Kips); di confonderti con sezioni che seguono linee a zig-zag su un piano; in altre parole, di proporre al pubblico i segni cabalistici di un’arte segreta. Si è sentito di un gruppo di seri uomini d’affari che, dovendo giudicare i meriti di due progetti per la decorazione di una nave, hanno deciso all’unanimità per l’autore di un intelligente schizzo prospettico, dove l’elemento più importante era uno squisitamente eseguito giovane, seduto su una poltrona di pelle, che soffiava anelli di fumo da una sigaretta. L’altro progetto, un elaboratamente disegnato prospetto, è stato scartato senza commenti.

Un piano, naturalmente, non è una cosa arida, né dovrebbe essere inintelligibile; ma forse l’errore non sta nell’uomo medio, ma nel modo in cui gli è stata insegnata la geografia a scuola: un modo che è ora felicemente superato, salvo in qualche costosa scuola privata.

Il metodo moderno di insegnamento della geografia, non si ferma alla lettura delle mappe, e non comporta solo terre lontane e liste di nomi: gli allievi sono indotti a volgere gli occhi verso il luogo in cui vivono. Al principio, questa osservazione ravvicinata può sembrare noiosa, se paragonata alle prospettive lontane, ma presto si scopre un campo di studi affascinante, con l’interesse aggiunto di vedere e toccare gli oggetti studiati, invece di leggerne una descrizione. Si fanno tentativi di ricostruire la propria città o villaggio in diversi periodi passati, considerarne l’esistenza anche in relazione al territorio circostante; poi di analizzare la città com’è oggi, la sua planimetria stradale, la struttura sociale, le varie attività e ambiti in cui si svolgono; e in particolare, sottolinearne i difetti. In altre parole, attraverso molte mappe e diagrammi preparati da diversi gruppi di scolari, essi sono in grado di ottenere un’immagine sfaccettata del luogo natio, a capire per la prima volta come si sia arrivati alla sua forma presente, e a comparare l’aspetto reale di un luogo con la sua rappresentazione planimetrica. Questo studio, cominciato a scuola, può essere continuato da Boy Scouts e Guide: cosa è più vicino agli obiettivi professati da queste organizzazioni, se non la conoscenza dei luoghi? Ma il bambino a scuola, e anche probabilmente lo Scout o Guida, essendosi a suo tempo imbarcato nello studio della propria geografia locale, scoprirà non solo di aver imparato come leggere una mappa, ma di sentire il bisogno di mappe più versatili ed esplicative quando, da adulto, inizierà ad avere serio interesse per il luogo dove abita e in cui lavora. Capirà rapidamente che le mappe di minor valore che possediamo sono quelle solite, dove la coloritura principale mostra le divisioni di contea, le città appaiono come circoli più o meno grandi, fiumi e ferrovie sono linee, e le montagne ombreggiature vermiformi. La prima mappa dovrebbe essere colorata, ombreggiata secondo le curve di livello, e in cui l’effetto delle aggiunte più recenti e artificiali, come le città, sia ridotto al minimo. Per fortuna questo tipo di mappa può essere acquistato alle scale più ridotte, ma quella ufficiale da 6 pollici omette le curve di livello sulle zone urbane, come se un cartografo super-coscienzioso fosse imbarazzato sul come tracciarle sopra un edificato continuo.

Ma il nostro giovane cittadino, allevato a capire le mappe, e che ha già fatti i suoi tentativi di disegnarsene, scoprirà presto che le sue esigenze superano l’ambito delle pubblicazioni governative, e che qualcun altro deve mettersi al lavoro. Gli sarà forse detto, dagli abitanti più anziani, che col tempo conoscerà la città tanto a fondo quanto loro, semplicemente andando su e giù; ma se ha padroneggiato la geografia a scuola, lui risponderà che esiste una conoscenza che sembra estesa, ma che è totalmente superficiale: il tipo di familiarità che la vostra lingua ha coi denti. È in contatto continuo con essi, conosce tutte le caratteristiche della loro superficie. Ma è sorprendente, quante insospettabili fessure il Dentista-Cartografo può scoprire. Recentemente è stata preparata, come parte della Analisi Urbana, quella che sembra una planimetria estremamente elementare, e che mostra gli edifici industriali nel centro di una città. Il risultato ha stupito chi conosceva la città, o almeno credeva di conoscerla, a fondo: un’area particolare, non lontana dal municipio, spiccava come quasi completamente industriale. L’ufficiale sanitario ha quindi deciso di non consentire la ricostruzione di nessuna delle abitazioni da demolire, e nello stesso modo in altri due settori questo semplice ritratto grafico di un fatto che era sfuggito alla comprensione dei vecchi abitanti, si è dimostrato in grado di influenzare il futuro di tutto il centro città.

Ancora, al cittadino si presentano informazioni su altri settori della vita urbana, nel modo più completo e descrittivo. A dire il vero, tanto complete e descrittive, e tanto concentrate e sgradevoli, che egli è totalmente incapace di digerirle: colonne di cifre, masse di statistiche, pagine di tabelle. Ma nessuna possibile acrobazia di immaginazione, può tradurre queste pagine stampate fitte in una forma visiva. Egli può sapere, per esempio, quante case a doppio affaccio ci sono nella sua città; può anche avere le statistiche del tasso di mortalità o di malattia, ma finché non le vede rappresentate graficamente e comparate, non ne afferrerà il significato.

La cosa più importante, è il bisogno di comparare i diversi aspetti della vita urbana: per esempio, il quadro dei trasporti con le aree residenziali e i distretti industriali e le statistiche sanitarie; i diagrammi di “accessibilità” non sono più sufficienti, quando mostrano una linea rossa per i percorsi del tram e una tratteggiata a croce per le ferrovie: i fattori tempo, distanza, frequenza e costo, devono essere mostrati graficamente.

Deve essere chiaro, da tutto questo, che il cittadino, per capire a fondo la sua città, richiede una Analisi Urbana. Questo non è il luogo per dilungarsi su scopi e caratteristiche di una analisi urbana o regionale (che includa il distretto circostante), ma semplicemente per sottolineare che non ne hanno bisogno solo gli esperti che governano la città, ma anche lo stesso cittadino, perché possa comprendere in profondità la natura dei problemi che i suoi esperti stanno tentando di risolvere.

Il problema di chi debba preparare questa Analisi è importante, e probabilmente il lavoro può essere profittevolmente suddiviso: l’amministrazione locale ha le informazioni, ottenute per esempio dall’ufficio igiene per la popolazione, le abitazioni, le statistiche sanitarie, i tassi di mortalità ecc.; dall’ingegnere municipale si hanno dati sul traffico, l’uso dei tram, e altre questioni di immediata importanza per lo sviluppo e il miglioramento della città. Ma ci sono numerose indagini, come quelle sui raggruppamenti sociali, gli studi archeologici, l’analisi delle bellezze naturali e degli edifici antichi, l’agricoltura, comparazioni geologiche e botaniche, che sono ugualmente necessarie se si vuole realizzare un quadro completo. Una Società Civica o Associazione Regionale volontaria, potrebbe ben affrontare questo lato del lavoro, appoggiandosi alla locale Università per aiuto e orientamento negli aspetti tecnici. Una società civica che condivida la produzione di queste ricerche, in armonia con l’amministrazione locale, assicura che i suoi membri proseguiranno attivamente il lavoro di studio del proprio vicinato iniziato a scuola.

Probabilmente, uno dei doni più preziosi che ci ha lasciato il periodo di guerra è l’applicazione della fotografia alla produzione di analisi aeree. Qui si ha l’opportunità di vedere la propria città da un punto di vista totalmente nuovo, ed è illuminante comparare l’aspetto della mappa ufficiale con la foto planimetrica ripresa dall’aeroplano, e questa, ancora, con una diagonale o prospettiva a volo d’uccello. Ogni città dovrebbe avere la propria ricognizione aerea, mostrata in vedute di grandi dimensioni, attentamente spiegata da indici. In più, in luoghi adatti in ogni parte della città, queste vedute e le relative mappe dovrebbero essere mostrate come guide per il pubblico, e come formazione alla lettura di mamme. Sino ad ora, sono solo le stazioni della metropolitana di Londra ad aver adottato (parzialmente) proprio questo tipo di guida locale. Non è eccessivo, sperare da una futura generazione formata in geografia, che sappia usare queste guide in una città nuova, invece del metodo esistente di seguire consigli come “terza svolta a sinistra, seconda a destra, cammini dritto fin quando vede un bar ...”. La metropolitana di Londra ha anche fatto uso di mappe illustrate che nessuno potrebbe accusare di essere aride: Macdonald Gill’s South Downs e Central London potrebbero sedurre anche un magistrato di campagna, a contemplare il loro umorismo.

II – Costruire

La pratica di leggere planimetrie facilmente, come la stampa, e lo studio delle condizioni esistenti da parte del grosso pubblico, così che i problemi locali possano essere affrontati in modo fermo, sono essenziali. Ma non bisogna fermarsi allo stadio di acquisizione della conoscenza: il passo successivo è l’uso immaginifico che se ne può fare. L’Analisi Urbana e Regionale non è un fine in sé: gli studi analitici devono essere seguiti da proposte costruttive. Dunque, nonostante possa suonare audace suggerirlo, lo studio del Miglioramento Urbano dovrebbe iniziare a scuola. Nessuno scolaro intelligente e dotato di immaginazione, mentre analizza proprio quartiere, saprà resistere al tentativo di migliorarlo, o profetizzarne il futuro. Il presidente del comitato di Analisi Urbana di Leeds, qualche tempo fa mise in palio un premio per le scuole, ad un esercizio di vera e propria “Urbanistica” e i risultati furono sorprendentemente interessanti. Ora, questo non significa suggerire che la tecnica urbanistica sia tanto semplice che anche un bambino la può padroneggiare, ma è certo che esiste una buona quantità di urbanistica che consiste nell’applicazione di buon senso, basato sulla conoscenza e illuminato dall’immaginazione, alle questioni di ogni giorno: questioni come andare e tornare dal lavoro, la necessità di campi da gioco e gli svantaggi di usare le strade come tali, il miscuglio di abitazioni e fabbriche, l’affaccio diretto delle case su strade strette attraverso cui tuonano giorno e notte tram e autocarri a motore, il disgusto di scoprire begli edifici cacciati in fondo a strade strette dove nessuno può vederli, l’entusiasmo per i begli edifici degnamente collocati, la comodità di stazioni ferroviarie ben collegate alla città che ci si aspetta debbano servire ... la lista dei problemi quotidiani della città non ha limiti. Ora, per armonizzare tutte le necessità di questi numerosi aspetti, e saldarle in un praticabile ed economico schema, occorre considerevole abilità di carattere tecnicamente vario, ma le idee principali, le linee essenziali, le soluzioni desiderabili, sono alla portata di tutti; e visto che proprio il cittadino è il giudice ultimo del piano – nessun piano sarà mai posto in esecuzione, se non ha il sostegno intelligente della cittadinanza in generale – gli conviene non solo essere egli stesso un urbanista dilettante, ma essere in grado di giudicare e capire in profondità i progetti predisposti dai suoi esperti incaricati.

Nelle scuole, si sono tenute con grande successo ed effetto lezioni sui principi generali di urbanistica. La relazione fra i trasporti quotidiani e la residenza, fino a tempi recenti pallidamente conosciuta dalle nostre Autorità Civiche, può essere afferrata al volo da un bambino di dieci anni; né lui o lei troveranno più difficile apprezzare un sistema di parchi con campi da gioco, ad una distanza di cinque o sei minuti a piedi; ancora, non mancheranno di capire l’errore di sistemare le case sotto le rupi incombenti delle “scure Sataniche officine”: il ruolo giocato dai venti, dalle altezze, dai livelli di fumo e di precipitazioni piovose nel determinare i siti residenziali può essere dimostrato con eguale facilità. Tutte queste cose interessano il benessere dell’abitante di città così da vicino che è difficilmente contestabile il fatto che i rudimenti dovrebbero essere insegnati a scuola: sono urgenti tanto quanto l’economia domestica.

Andando avanti negli anni, ci dovrebbe essere una Società Civica a cui affidare il compito di mantenere questo interesse, la critica, e anche la pratica amatoriale dell’urbanistica, fra un grande numero di cittadini. Se l’architettura era tanto apprezzata nel diciannovesimo secolo, l’urbanistica sarà egualmente compresa nel ventesimo. Non ci deve essere antagonismo fra le idee portate avanti dalle Società Civiche e i piani predisposti dalle amministrazioni locali; ma con ogni probabilità le prime stimoleranno le seconde, ed eviteranno loro di tenere semplicemente il passo con i bisogni immediati, con soli servizi municipali amministrati efficientemente, o un utilitarismo ad una sola dimensione.

C’è molto da dire in favore delle Società Civiche – o di associazioni commerciali, come accaduto in Canada o negli Stati Uniti, con le proposte di piani regolatori generali – sia che promuovano concorsi, sia che nominino una piccola Commissione. Ma se l’amministrazione locale è sufficientemente progressista da farlo, e si noti, di non limitare le sue proposte alle sole strade e traffico, ma coprire l’intero campo della vita civica dai centri di rappresentanza al risanamento dei quartieri degradati, agli orti, allora la Società Civica può orientare le sue energie all’educazione del pubblico, per una piena comprensione di cosa significano Miglioramento Urbano e Urbanistica.

Quando il grande e immaginifico piano per Chicago fu redatto e sontuosamente pubblicato dal Commercial Club, ci furono due percorsi distinti che il documento dovette prendere per produrre effetti significativi. Primo: doveva essere adottato dalle autorità cittadine, e costituire la base della futura politica di crescita e miglioramento. Questo fu fatto, e un opuscolo appena pubblicato mostra cosa è stato realizzato in dieci anni, verso l’attuazione di quel possente progetto. Seconda, e di eguale importanza, la necessità di rendere popolari il piano e la relazione esplicativa, altrimenti le autorità non avrebbero avuto sufficiente sostegno. Un Manuale del piano di Chicago fu preparato ad uso delle scuole, un piccolo e grazioso volume dove storia, sociologia, e progetti per il futuro sono posti in dovuta relazione, e il tutto compone un manuale per studenti e cittadini sui problemi urbani in generale, e quelli della loro città in particolare.

Dunque quello che è necessario, per la comunità in senso lato, è, primo, Conoscenza, conoscenza locale della città, la sua storia, i suoi difetti e bisogni, realizzabile solo attraverso l’Analisi Urbana o Regionale; secondo, Immaginazione, resa più acuta per valutare le possibilità della città, comprendere cosa significa Urbanistica, o meglio Disegno Urbano, per assicurarsi che l’esperto Urbanista incaricato non sia una “larva senza ali”, come l’ha descritto Mr. Branford, “niente meglio di un uomo comune non rinnovato con l’incarico di praticare la cruda anatomia di questa sfortunata città”.

Nota: per chi fosse interessato a questi temi, sono disponibili sul mio sito sia la versione italiana del "Preambolo" di Abercrombie al Greater London Plan, sia una raccolta pure tradotta di testi sulle "Planning Schools" a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta (f.b.)

INGREDIENTI

100 g. di burro

150 g. zucchero

2 uova intere

230 g. farina (circa, dipende anche dal peso delle uova)

una bustina di vanillina

mezza bustina di lievito Pane degli angeli

2/3 mele golden

un limone

zucchero a velo

PREPARAZIONE

Grattuggiare la scorza del limone in una terrina, unire il burro (ammorbidito) e lo zucchero e lavorare sufficientemente con la frusta.

Aggiungere le uova, facendondole ben amalgamare una per volta.

Versare a pioggia la farina setacciata e continuare ad impastare.

Unire la vanillina e, infine, il lievito.

Intanto (io lo faccio prima di versare la farina) si erano sbucciate le mele e tagliate a fettine sottili, mettendole in un'altra terrina e cospargendole con succo di limone e qualche pizzico di zucchero.

Mettere l'impasto in una teglia tonda da 24 cm. imburrata e infarinata.

Sistemare le fettine di mele infilandole di taglio e componendo due corone.

(Eventualmente irrorare con un po' del succo di succo di limone e zucchero).

Infornare per circa 45/50 minuti a 210°, ma tutto questo dipende dal forno....e poi c'è la prova dello stuzzicadenti per la cottura!

Far freddare e sistemare su un piatto spolverizzando con zucchero a velo.

Gli articoli che seguono aprono, dopo alcuni di contenuto strettamente formale, le norme del Piano strutturale, adottato dal Comune di Sesto Fiorentino nel 2003 e approvato nel 2004. Erano stati scritti in funzione di una discussione ampia tra la popolazione. Il Piano strutturale, e il successivo Regolamento urbanistico (in corso d’approvazione definitiva), sono stati redatti dall’Ufficio comunale diretto da Graziella Beni, coadiuvato da alcuni consulenti sia generali (E. Salzano, M. Baioni) sia specialistici (A. Drufuca, A. Chiti Batelli – Soc. Nemo, IRPET, M. Preite, E. Paris, E. e R. Neroni – Soc. Geoeco, A. Braschi, P. Nicoletti – Ist. Ambiente Italia, L. Ballerini, Museo Fiorentino di Preistoria P. Graziosi)

Articolo 4

Città, società, territorio

1.La città, il territorio dal quale è nata e di cui essa fa parte, gli uomini e la società che la costruiscono, la abitano e la utilizzano, fanno parte di un unico sistema.

2.La pianificazione è finalizzata a garantire un rapporto equilibrato tra comunità e territorio, nel rispetto dei principi enunciati nel presente Statuto dei luoghi e nei limiti dettati dalle leggi vigenti.

Articolo 5

La tutela dell’ambiente

1.Si attribuisce priorità logica e culturale alla tutela dell’integrità fisica del territorio, intesa come preservazione da fenomeni di degrado e di alterazione irreversibile dei connotati materiali del sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera, considerati singolarmente e nel complesso, con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalle forme di insediamento dell’uomo.

2.In funzione di tale priorità il piano strutturale subordina le trasformazioni fisiche e funzionali del territorio a specifiche condizioni ed esplicita gli elementi da considerare per la valutazione degli effetti ambientali delle trasformazioni previste o prevedibili.

Articolo 6

I luoghi e la loro identità

1.Si riconosce che i diversi luoghi che compongono il territorio comunale possiedono ciascuno una specifica identità, derivata dalla loro “biografia” ovverosia dal modo in cui, nel tempo, gli abitanti e il territorio hanno interagito.

2.Il piano strutturale individua come “Unità territoriali organiche” gli ambiti all’interno dei quali possa essere formata o promossa o tutelata la formazione di comunità stabilmente legate al territorio e dotate di sufficienti dotazioni elementari e, sulla base di questo principio, determina l’organizzazione del territorio.

3.Il piano strutturale inoltre promuove la preservazione delle testimonianze materiali della storia, e la conservazione delle caratteristiche, strutturali e formali, che ne siano espressioni significative.

Articolo 7

Il territorio come patrimonio per domani

1.Si riconosce la necessità e la responsabilità, nei confronti delle generazioni future, di non disperdere la straordinaria ricchezza e bellezza del territorio comunale così come ci sono state tramandate attraverso il secolare lavoro della natura e dell’uomo.

2.Il piano strutturale è volto prioritariamente, pertanto, al recupero e alla valorizzazione dell’esistente e, in armonia con i principi sanciti dalla legge urbanistica regionale, considera prioritariamente il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti rispetto ad ogni ulteriore consumo di suolo.

Articolo 8

La città e il territorio più vasto

1.Si riconosce l’appartenenza di Sesto Fiorentino ad un territorio più ampio di quello comunale e coincidente, a seconda degli aspetti considerati, con l’area della Piana, l’area metropolitana, la provincia, il bacino idrografico e la regione.

2.Sulla base di questo principio e del principio di sussidiarietà, il piano strutturale stabilisce, in accordo con le previsioni degli altri enti territoriali, la localizzazione e le forme d’uso degli elementi di rilevanza sovracomunale.

Articolo 9

La città come casa della società

1.Si riconosce la città come luogo di massima espressione della vita civile e della vita politica nel quale la convivenza sociale facilita l’esercizio attivo dei diritti individuali.

2.Il presente piano è volto pertanto a favorire la convivenza sociale attraverso:

- un sistema di regole di uso del territorio che garantiscano la massima diffusione dei diritti primari di cittadinanza quali la salute, la mobilità, la libertà di cultura e di istruzione pubblica, la casa, la sicurezza sociale;

- una specifica attenzione agli spazi pubblici affinché siano resi attrattivi, sicuri e utilizzabili da tutti, con particolare attenzione per i cittadini più deboli come i bambini, gli anziani, i portatori d’handicap;

- la definizione di un assetto della mobilità che temperi l’esigenza di spostarsi con quella di garantire la salute e la sicurezza dei cittadini.

3.In particolare, il piano strutturale si pone l’obbiettivo specifico di formare un “sistema delle qualità”, organizzando la città e il territorio a partire dal pubblico e dal pedonale, in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, i luoghi dedicati alla ricreazione e quelli finalizzati al consumo comune (dell’istruzione, della cultura, dell’incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell’amministrazione e della giustizia e così via).

Articolo 10

La città come costruzione collettiva

1.Si riconosce la necessità che i vantaggi derivanti ai singoli cittadini dalle trasformazioni urbanistiche siano temperati a favore della qualificazione complessiva della città (prevedendo la cessione di aree per le attrezzature o realizzandone alcune, compensando gli effetti sull’ambiente, e così via).

2.Il presente piano pertanto stabilisce quali prestazioni debbano essere richieste, nel complesso, alle trasformazioni urbanistiche, demandando agli strumenti attuativi il compito di definire nel dettaglio le modalità attraverso le quali garantirne il raggiungimento e i rapporti fra pubblico e privato.

Articolo 11

Lo strumento della pianificazione

1.Si riconosce l’istituto della pianificazione come lo strumento necessario per garantire la coerenza, nello spazio e nel tempo, dell’insieme delle trasformazioni del territorio, assicurando la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte e la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

2.Il presente piano pertanto stabilisce i principi e le disposizioni ai quali si debbono conformare il regolamento urbanistico, i programmi integrati di intervento e ogni altro strumento di pianificazione territoriale e settoriale del comune.

CORNO INGLESE

Il vento che stasera suona attento

- ricorda un forte scotere di lame -

gli strumenti dei fitti alberi e spazza

l'orizzonte di rame

dove strisce di luce si protendono

come aquiloni al cielo che rimbomba

(Nuvole in viaggio, chiari

reami di lassù! D'alti Eldoradi

malchiuse porte!)

e il mare che scaglia a scaglia,

livido, muta colore

lancia a terra una tromba

di schiume intorte;

il vento che nasce e muore

nell'ora che lenta s'annera

suonasse te pure stasera

scordato strumento,

cuore.

FALSETTO

Esterina, i vent'anni ti minacciano,

grigiorosea nube

che a poco a poco in sé ti chiude.

Ciò intendi e non paventi.

Sommersa ti vedremo

nella fumea che il vento

lacera o addensa, violento.

Poi dal fiotto di cenere uscirai

adusta più che mai,

proteso a un'avventura più lontana

l'intento viso che assembra

l'arciera Diana.

Salgono i venti autunni,

t'avviluppano andate primavere;

ecco per te rintocca

un presagio nell'elisie sfere.

Un suono non ti renda

qual d'incrinata brocca

percossa!; io prego sia

per te concerto ineffabile

di sonagliere.

La dubbia dimane non t'impaura.

Leggiadra ti distendi

sullo scoglio lucente di sale

e al sole bruci le membra.

Ricordi la lucertola

ferma sul masso brullo;

te insidia giovinezza,

quella il lacciòlo d'erba del fanciullo.

L'acqua' è la forza che ti tempra,

nell'acqua ti ritrovi e ti rinnovi:

noi ti pensiamo come un'alga, un ciottolo

come un'equorea creatura

che la salsedine non intacca

ma torna al lito più pura.

Hai ben ragione tu!

Non turbare

di ubbie il sorridente presente.

La tua gaiezza impegna già il futuro

ed un crollar di spalle

dirocca i fortilizî

del tuo domani oscuro.

T'alzi e t'avanzi sul ponticello

esiguo, sopra il gorgo che stride:

il tuo profilo s'incide

contro uno sfondo di perla.

Esiti a sommo del tremulo asse,

poi ridi, e come spiccata da un vento

t'abbatti fra le braccia

del tuo divino amico che t'afferra.

Ti guardiamo noi, della razza

di chi rimane a terra.

Da OSSI DI SEPPIA

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l'ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d'orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano

a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com'è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Non rifugiarti nell'ombra

di quel fólto di verzura

come il falchetto che strapiomba

fulmineo nella caldura.

E' ora di lasciare il canneto

stento che pare s'addorma

e di guardare le forme

della vita che si sgretola.

Ci muoviamo in un pulviscolo

madreperlaceo che vibra,

in un barbaglio che invischia

gli occhi e un poco ci sfibra.

Pure, lo senti, nel gioco d'aride onde

che impigra in quest'ora di disagio

non buttiamo già in un gorgo senza fondo

le nostre vite randage.

Come quella chiostra di rupi

che sembra sfilaccicarsi

in ragnatele di nubi;

tali i nostri animi arsi

in cui l'illusione brucia

un fuoco pieno di cenere

si perdono nel sereno

di una certezza: la luce.

a K.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida

scorta per avventura tra le petraie d'un greto,

esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;

e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,

se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,

o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua

e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie

sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,

e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia

schietto come la cima d'una giovinetta palma...

Mia vita, a te non chiedo lineamenti

fissi, volti plausibili o possessi.

Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso

sapore han miele e assenzio.

Il cuore che ogni moto tiene a vile

raro è squassato da trasalimenti.

Così suona talvolta nel silenzio

della campagna un colpo di fucile.

Portami il girasole ch'io lo trapianti

nel mio terreno bruciato dal salino,

e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti

del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,

si esauriscono i corpi in un fluire

di tinte: queste in musiche. Svanire

è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce

dove sorgono bionde trasparenze

e vapora la vita quale essenza;

portami il girasole impazzito di luce.

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l'incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Ciò che di me sapeste

non fu che la scialbatura,

la tonaca che riveste

la nostra umana ventura.

Ed era forse oltre il telo

l'azzurro tranquillo;

vietava il limpido cielo

solo un sigillo.

O vero c'era il falòtico

mutarsi della mia vita,

lo schiudersi d'un'ignita

zolla che mai vedrò.

Restò così questa scorza

la vera mia sostanza;

il fuoco che non si smorza

per me si chiamò: l'ignoranza.

Se un'ombra scorgete, non è

un'ombra - ma quella io sono.

Potessi spiccarla da me,

offrirvela in dono.

RIVIERE

Riviere,

bastano pochi stocchi d'erbaspada

penduli da un ciglione

sul delirio del mare;

o due camelie pallide

ne i giardini deserti,

e un eucalipto biondo che si tuffi

tra sfrusci e pazzi voli

nella luce;

ed ecco che in un attimo

invisibili fili a me si asserpano,

farfalla in una ragna

di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.

Dolce cattività, oggi, riviere

di chi s'arrende per poco

come a rivivere un antico giuoco

non mai dimenticato.

Rammento l'acre filtro che porgeste

allo smarrito adolescente, o rive:

nelle chiare mattine si fondevano

dorsi di colli e cielo; sulla rena

dei lidi era un risucchio ampio, un eguale

fremer di vite

una febbre del mondo; ed ogni cosa

in se stessa pareva consumarsi.

Oh allora sballottati

come l'osso di seppia dalle ondate

svanire a poco a poco;

diventare

un albero rugoso od una pietra

levigata dal mare; nei colori

fondersi dei tramonti; sparir carne

per spicciare sorgente ebbra di sole,

dal sole divorata...

Erano questi,

riviere, i voti del fanciullo antico

che accanto ad una rósa balaustrata

lentamente moriva sorridendo.

Quanto, marine, queste fredde luci

parlano a chi straziato vi fuggiva.

Lame d'acqua scoprentisi tra varchi

di labili ramure; rocce brune

tra spumeggi; frecciare di rondoni

vagabondi...

Ah, potevo

credervi un giorno o terre,

bellezze funerarie, auree cornici

all'agonia d'ogni essere.

Oggi torno

a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore

par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.

Triste anima passata

e tu volontà nuova che mi chiami,

tempo è forse d'unirvi

in un porto sereno di saggezza.

Ed un giorno sarà ancora l'invito

di voci d'oro, di lusinghe audaci,

anima mia non più divisa. Pensa:

cangiare in inno l'elegia; rifarsi;

non mancar più.

Potere

simili a questi rami

ieri scarniti e nudi ed oggi pieni

di fremiti e di linfe,

sentire

noi pur domani tra i profumi e i venti

un riaffluir di sogni, un urger folle

di voci verso un esito; e nel sole

che v'investe, riviere,

rifiorire!

DORA MARKUS

1

Fu dove il ponte di legno

mette a Porto Corsini sul mare alto

e rari uomini, quasi immoti, affondano

o salpano le reti. Con un segno

della mano additavi all'altra sponda

invisibile la tua patria vera.

Poi seguimmo il canale fino alla darsena

della città, lucida di fuliggine,

nella bassura dove s'affondava

una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un'antica vita

si screzia in una dolce

ansietà d'Oriente,

le tue parole iridavano come le scaglie

della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare

agli uccelli di passo che urtano ai fari

nelle sere tempestose:

è una tempesta anche la tua dolcezza,

turbina e non appare,

e i suoi riposi sono anche piú rari.

Non so come stremata tu resisti

in questo lago

d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse

ti salva un amuleto che tu tieni

vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco,

d'avorio; e così esisti!

2

Ormai nella tua Carinzia

di mirti fioriti e di stagni,

china sul bordo sorvegli

la carpa che timida abbocca

o segui sui tigli, tra gl'irti

pinnacoli le accensioni

del vespro e nell'acque un avvampo

di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende

sull'umida conca non porta

col palpito dei motori

che gemiti d'oche e un interno

di nivee maioliche dice

allo specchio annerito che ti vide

diversa una storia di errori

imperturbati e la incide

dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!

Ma è scritta già in quegli sguardi

di uomini che hanno fedine

altere e deboli in grandi

ritratti d'oro e ritorna

ad ogni accordo che esprime

l'armonica guasta nell'ora

che abbuia, sempre piú tardi.

E scritta là. Il sempreverde

alloro per la cucina

resiste, la voce non muta,

Ravenna è lontana, distilla

veleno una fede feroce.

Che vuole da te? Non si cede

voce, leggenda o destino...

Ma è tardi, sempre piú tardi.

ALLA MANIERA DI FILIPPO DE PISIS

NELL' INVIARGLI QUESTO LIBRO

...l'Arno balsamo fino.

Lapo Gianni

Una botta di stocco nel zig zag

del beccaccino -

e si librano piume su uno scrímolo.

(Poi discendono là, fra sgorbiature

di rami, al freddo balsamo del fiume.)

TEMPI DI BELLOSGUARDO

Oh come là nella corusca

distesa che s'inarca verso i colli,

il brusío della sera s'assottiglia

e gli alberi discorrono col trito

mormorio della rena; come limpida

s'inalvea là in decoro

di colonne e di salci ai lati e grandi salti

di lupi nei giardini, tra le vasche ricolme

che traboccano,

questa vita di tutti non piú posseduta

del nostro respiro;

e come si ricrea una luce di zaffiro

per gli uomini

che vivono laggiú: è troppo triste

che tanta pace illumini a spiragli

e tutto ruoti poi con rari guizzi

su l'anse vaporanti, con incroci

di camini, con grida dai giardini

pensili, con sgomenti e lunghe risa

sui tetti ritagliati, tra le quinte

dei frondami ammassati ed una coda

fulgida che trascorra in cielo prima

che il desiderio trovi le parole!

*

Derelitte sul poggio

fronde della magnolia

verdibrune se il vento

porta dai frigidari

dei pianterreni un travolto

concitamento d'accordi

ed ogni foglia che oscilla

o rilampeggia nel folto

in ogni fibra s'imbeve

di quel saluto, e piú ancora

derelitte le fronde

dei vivi che si smarriscono

nel prisma del minuto,

le membra di febbre votate

al moto che si ripete

in circolo breve: sudore

che pulsa, sudore di morte,

atti minuti specchiati,

sempre gli stessi, rifranti

echi del batter che in alto

sfaccetta il sole e la pioggia,

fugace altalena tra vita

che passa e vita che sta,

quassú non c'è scampo: si muore

sapendo o si sceglie la vita

che muta ed ignora: altra morte.

E scende la cuna tra logge

ed erme: l'accordo commuove

le lapidi che hanno veduto

le immagini grandi, l'onore,

l'amore inflessibile, il giuoco,

la fedeltà che non muta.

E il gesto rimane: misura

il vuoto, ne sonda il confine:

il gesto ignoto che esprime

sé stesso e non altro: passione

di sempre in un. sangue e un cervello

irripetuti; e fors'entra

nel chiuso e lo forza con l'esile

sua punta di grimaldello.

L'immagine è un quadro di Filippo De Pisis

2006091

“Beati gli antichi che non avevano antichità”: La battuta di Denis de Diderot al tempo della famosa quérelle tra antichi e moderni sembra essere diventata un’aperta convinzione in politici e amministratori, se appena consideriamo il modo come trattano i nostri beni archeologici, e in particolare le antichità di Roma, che pure sono state nei secoli la meta obbligata della cultura del mondo. Non è esagerato dire che esiste un partito preso contro l’archeologia (complici anche letterati, storici e critici d’arte): lo dimostra la miserabile entità dei fondi che vengono stanziati per la conservazione del nostro più antico e illustre patrimonio. L’ultimo episodio si è avuto alla Camera durante la discussione sulla legge finanziaria 1990, quando pochi volontari hanno presentato degli emendamenti per mettere in grado la Soprintendenza archeologica di proseguire l’opera meritoria, svolta tra l’82 e l’87, di restauro, consolidamento e scavo delle antichità romane.

Da tre anni sono infatti esauriti i fondi stanziati da una legge dell’81, che ha preso il nome dall’allora ministro dei beni culturali Biasini: che è stata anche il primo e l’ultimo provvedimento apprezzabile dello stato per riparare ai danni causati dall’orribile corrosione delle pietre antiche sotto l’impatto dell’inquinamento atmosferico. Con quei fondi, la soprintendenza ha condotto la più vasta campagna di restauro delle antichità mai tentata, ha provveduto al consolidamento dei maggiori complessi monumentali e ha eseguito scavi nel suburbio per acquisire una conoscenza approfondita del territorio ed evitare quindi distruzioni in caso di lavori e sterri per opere di urbanizzazione.

Con l’esaurimento dei fondi, quest’opera meritoria viene non solo interrotta, ma vanificata per l’impossibilità di svolgere l’indispensabile e continua attività di manutenzione, mentre non vengono rimossi alla fonte i veleni atmosferici, prima fra tutti le esalazioni del traffico; le più straordinarie vestigia dell’arte e dell’architettura romana finiranno con lo sfarinarsi in gesso tra poche generazioni. Per questo, nella discussione sulla legge finanziaria, il sottoscritto ha presentato un emendamento perché la soprintendenza romana venisse rifinanziata in modo adeguato (210 miliardi in tre anni).

“Onorevoli ministri”, ha detto ingenuamente, “quando vi riunite in consiglio voi potete ammirare dalle finestre di palazzo Chigi la Colonna Antonina che, in 514 metri quadri di rilievi, narra le gesta dell’imperatore filosofo: come non vi rendete conto che ogni giorno che passa questa meraviglia appena restaurata torna ad essere preda dell’inquinamento atmosferico, col rischio di andare perduta per sempre?”. Niente da fare: su 437 onorevoli presenti, 220 hanno votato no, 150 sì e 67 anime timorate si sono astenute. Così è successo anche per il successivo emendamento che stanziava qualche miliardo per dare il via agli espropri per la realizzazione del gran parco della via Appia Antica, invano vincolata a parco pubblico da un quarto di secolo.

Duecentodieci miliardi in tre anni per la salvezza di Roma antica sono l’equivalente del costo di una decina di chilometri di nuova autostrada, quelle autostrade così spesso inutili e dannose per le quali i miliardi si stanziano e si spendono a migliaia. Queste sono le priorità alla rovescia dei nostri politici e dei nostri benpensanti, come quei dannati danteschi che camminano con la testa girata all’indietro: sì che ’l pianto degli occhi / le natiche bagnava per lo fesso. Così che la soprintendenza archeologica di Roma dispone oggi di un paio di miliardi, tanto quanto basta per tener pulito il Colosseo e tagliar l’erba del Foro Romano.

Mancanza di fondi, furti, crolli, esportazioni clandestine: stiamo allegri, nel 1992 cadono le barriere doganali nella Comunità europea, e già c’è chi va predicando che le nostre leggi sono troppo severe, che i beni culturali sono merci e come tali devono essere sottoposti a leggi del mercato e del commercio e quindi circolare liberamente. Esultano i mercanti e si rifanno vive quelle teste fine che da anni sostengono che lo stato italiano debba disfarsi del “superfluo”, cioè vendere all’estero i materiali conservati nei depositi dei musei per fare un po’ di quattrini e risanare il bilancio. (Un insano disegno di legge del governo prevede l’alienazione dei beni demaniali, terreni, immobili, foreste eccetera, compresi evidentemente i beni culturali, dal momento che non dice nulla in contrario). I beni culturali sono invece l’unica “merce”, per usare questo termine degradante, che non deve circolare, perché sono legati, integrati e intimamente connessi all’area culturale, al contesto territoriale che li ha prodotti e dal quale derivano senso, sostanza e valore. Mettiamocelo bene in testa.

Titolo originale: Progress hits Home – Traduzione di Fabrizio Bottini

NON POSSO FARCI NIENTE se voglio vivere nel passato: quel tempo di quarant’anni fa, quando c’erano ancora grandi spazi aperti per metterci i sogni, e sopra di essi un po’ di tenebre, la notte. C’era tranquillità, diritto di nascita per tutti noi animali, e in qualche modo c’era più tempo, in una giornata, di quanto non ce ne sia oggi. Il mondo apparteneva alle persone che lo abitavano.

Noi nostalgici marciamo arditi verso la battaglia, ansiosi di schierarci contro i carri armati della storia umana che avanzano. Le nostre primaverili inclinazioni a credere nel lieto fine ci hanno sempre impedito di vedere la putrida carcassa della verità che ci stava di fronte: “progresso” è solo un altro modo per dire ladrocinio. Ora i nostri cuori sono pieni della forza della rettitudine. Leviamo le braccia, pronte: le nostre spade di plastica multicolori luccicano verdi e rosse al sole. Le corrispondenze di guerra dal fronte interno ci fanno ridere del nostro funesto narcisismo. Non lo sapete, che non è possibile vincere? E poi, perchè vorreste? Noi non siamo come tutte le altre specie che hanno abitato la medesima nicchia ecologica per centinaia di migliaia di anni senza aver bisogno di case da otto stanze dove ne bastavano tre. Solo noi non trasmettiamo quei misteriosi feromoni che rallentano la procreazione quando si è raggiunto il limite di sostentamento della terra.

I nostri percorso cerebrali sono stati formati da milioni di anni di esistenza in comune coi nostri simili, dove i quotidiani incontri e riti e preghiere ci hanno fatto quel che siamo, una sola cosa. Poi qualche anno fa, uno più uno meno, hanno tirato fuori la feticizzazione della proprietà privata, e l’automobile, il mettere la produzione proprio in cima alla catena dei diritti, e il gioco è fatto: niente più spazi per trovarsi e niente più passeggiate e respirare l’aria e guardare il cielo e fabbricare miti a spiegare queste esperienze. Adesso si guida dentro a un viscido parcheggio e poi si entra circospetti da Walgreens per il giornale e qualche Rolaids e poi si fa retro marcia dopo aver rassicurato il premuroso addetto (in fondo l’ha chiesto) che oggi va tutto bene, egualmente preoccupati per il suo benessere psicologico (dopo tutto, l’abbiamo chiesto). Ci si allontana da quel posto che un tempo era un marciapiede molto usato di fronte a una banca, un caffè, un negozio di scarpe, dove i nostri genitori che non avevano un’automobile ma abitavano qui vicino, venivano a piedi. Mani invisibili sono arrivate, hanno spostato tutto come pedine su una scacchiera, e non si sa con chi prendersela. Nessun altro sembra essersene accorto.

Questa zona si chiamava Montrose. Nel 1973, capitò che la Interstate 77 venisse collegata alla Route 21, e la testa della gente cominciarono a girare pensieri. “Non c’era niente lì, era tutto vuoto”, ha spiegato con orgoglio uno di questi primi pensatori a un giornale. Vuoto: solo spazio, erba, niente che la gente potesse comprare. Centocinquanta ettari di inutilità. A suo tempo, più o meno in sei giorni, fu creato il mondo. Fra il 1970 e il 1990 la quantità di metri quadrati commerciabili – progettati, approvati, realizzati – a Montrose è aumentata, da diecimila a cinquecentomila. Le previsioni per la fine del primo decennio del nuovo secolo sono per altri trecentocinquantamila. (“ Le imprese non hanno né corpi che possano essere puniti, né anime per sentirsi responsabili, e quindi fanno quello che vogliono”; Edward Thurlow, Lord Chancellor, 1731-1806). Dall’argilla, perfettamente modellati, saltano su la West Market Plaza, Rosemont Commons – un nome adeguato per quella perfetta menifestazione degli ideali comuni, il Wal-Mart della città – Shops of Fairlawn, Builders Square, e Market Square, un centro commerciale costruito dietro a un altro centro commerciale, Sam’s Club, Bed, Bath & Beyond, Super Kmart, Cost Plus World Market (proprio così), Cellular One, Pier 1, Borders, T.J. Maxx, MC Sports, Old Navy, Pet Fair, Comp USA, Sears, The Home Depot, Taco Bell, Chipotles, Red Lobster, Romano's Macaroni Grill, Cracker Barrel, Boston Market, Bob Evans, Ruby Tuesday, Friendly's, Baja Fresh, sempre di più e di più sin quando si stramazza, sazi, col cuore che batte debole, inconsapevoli del cielo che sta sopra o della terra che sta sotto o di qualunque altra cosa, salvo strisciare ancora verso Camry e aspettare che il semaforo sulla Cleveland-Massillon Road segnali svolta a sinistra per poter arrancare fino a casa, e infine trasportare il contenuto di un paio di dozzine di borse di plastica dentro la casa, che in qualche modo assorbirà il tutto.

La mia generazione è schiacciata da una tristezza che non sa di provare. La promessa è stata sussurrata melodiosamente nelle nostre orecchie in qualche momento dopo il piacere dei grandi tesori nascosti sotto la pellicola dei cibi precotti e prima il profondo velluto del sonno nelle soffici tutine dei nostri pigiami. La realtà, come abbiamo ormai scoperto, non è come ci avevano garantito. La differenza è così geologica che rischiamo di romperci il collo tentando di vedere l’intero torreggiante aggeggio. La velocità del cambiamento si è presa qualcosa: non possiamo più disprezzarla come storia vecchia e decrepita. Ciò che è andato perso stava qui solo trenta o quarant’anni fa, e dunque sta scritto nelle pagine della nostra vita. Ma ancora non si sa cosa si potrebbe fare. Ogni annuncio arriva già confezionato nel fatto compiuto: questo se ne va, questo arriva, guarda qui, guarda là, piangi in solitudine, è tutto fatto. Il campo da golf, la strada, i negozi, tagliare, trapanare, strappare. Il tuo villaggio in New England giusto di fianco alla nuova città che cresce sempre più alta, sempre più larga. Il tuo centro cittadino che perde un’altra casa vecchia di un secolo e guadagna un altro drugstore superfluo in fondo a quel parcheggio che sembra un Oceano Indiano. Vecchie fattorie con appesi i cartelloni di quanto verrà: quaranta enormi case in stile architettonico Frankenstein disancorate dal paesaggio che galleggiano sull’assenza di alberi. L’antica cima della montagna ora centro turistico e seconde case. L’ufficio postale in stile Beaux Arts sostituito da Popeyes Chicken and Biscuits. Un venerabile campo di battaglia fertilizzato dal sangue umano, ora un centro commerciale. La strada sterrata asfaltata. Quella asfaltata a due corsie ora ne ha quattro; quella che ne aveva quattro, sei. L’incrocio senza semaforo ora ha la sua segnaletica. La marcia dei tempi avanza, le sue armate più numerose ogni giorno che passa.

Qualunque cosa fosse qui all’Alba del Tempi alla fine riceve il suo benservito, a favore di qualcosa che qualcuno possa trasformare in soldi. Ha preso le forme di un’assuefazione: non possiamo resistere. Alla fine ricadiamo, la testa che pulsa sorda, cifre e parolacce incomprensibili che ci colano giù dal mento: l’America ha asfaltato 6,3 milioni di chilometri di strade, l’equivalente di 157 giri attorno all’equatore; per ogni 5 nuove auto costruite, viene ricoperto d’asfalto un pezzo di terra grande come un campo da football; ogni anno in questo paese si edificano 1,2 milioni (sì: milioni) di ettari di spazio aperto; si perdono terre agricole al ritmo di un ettaro al minuto; una persona che ha appena raggiunto la mezza età cresciuta, diciamo, nella Rockland County, New York, viveva in un posto con 7.000 ettari di terre agricole, ora ce ne sono 100: ma provate a riguardare le statistiche fra qualche minuto. Possiamo solo compilare statistiche e levarci di torno, sconcertati. Nessuno sa cosa farci. Non c’è niente da fare. I giornali si riempiono di storie di avvenimenti incredibili; a quanto pare nessuno le legge. Ogni tanto c’è il resoconto di qualche monumentale battaglia davvero vinta, che è costata anni di sudati sforzi, e il premio consiste in una edificazione un po’ ridotta, una fattoria salvata, qualche ettaro che non sarà disboscato, un campo di battaglia della Guerra Civile tutelato, anche se con qualche concessione da fare, un Wal-Mart cancellato. Nel frattempo, altrove vengono su file di case, centri salute, ospedali, supermercati, e altri 2.378 Wal-Mart.

Questi grossi numeri entrano nel cervello solo da una parte, e di fatto è impossibile elaborarli. Siamo fatti per roba più piccola: quello che vediamo nei pochi metri che ci stanno attorno, quello che ci comunica sensazioni. Lo spazio emotivo per prendere il fiato, l’appartamento libero che potrebbe essere affittato a qualcuno che ci faccia grosse cose artistiche, gli angoli quietamente nascosti della città che non sono da un giorno all’altro venduti e passati di mano una mezza dozzina di volte nelle settimane successive, prima di essere trasformati nell’ennesimo quartiere alla moda per ricchi: c’è solo la sensazione che queste cose se ne siano andate per non tornare mai più, ma la nostra tristezza non cerca le ragioni. Cos’è, se non uno sguardo alle galassie lassù, incapace di capire davvero le distanze, di sapere che quel pianeta sta aumentando di altri 3 miliardi di persone? E non è molto più facile tentare di capire anche solo cosa sarà questo paese con 120 milioni di persone in più, anche se ce li immaginiamo tutti in gara per il nostro parcheggio davanti all’ufficio postale. Non parliamo del fatto che non potremo mai più visitare l’adorata spiaggia della nostra infanzia, dato che è diventato impossibile avvicinarsi (e inoltre no, non è semplice nemmeno pensare ai 2 milioni in più di sgattaiolanti esseri umani che presto si asfalteranno il loro pezzettino di Gran Bretagna, o i 3-8 milioni aggiunti all’Australia; né, di certo, i 300 milioni destinati all’India). Forse l’unica cosa che chiunque fra noi può cogliere, è la vista delle ruspe giù in fondo alla strada, che spianano l’ex campo da fieno per iniziare ad evocare la visione da sogno di trentasette nuove “case” color grigio talpa con finiture bianche e aperture sbadiglianti per parecchie auto. È qui che possiamo cominciare a vedere il futuro. È fatto di lutto costante e infelice abitudine.

C’era una volta, quando solo il re poteva mettere le sue fortificazioni sul crinale più alto; ora qualunque re in possesso di un fuoristrada può fare lo stesso. Sembra una cosa che va contro natura, ma ultimamente ce ne sono un sacco. Non credo che avrò mai la soddisfazione di acciuffarne uno, di questi ego-in-cima-a-un-palo che pensano di farsi una dimora fuoritaglia sulla collina che fu il mio conforto, ma se potessi lo prederei a cazzotti con un pezzo di Alan Devoe, da Phudd Hill, 1937:

Tanto verdi queste colline, così tonde, così tante, che fanno pensare ad enormi tumuli per una dimenticata e antica razza di uomini. Ci ho camminato sopra ed estratto da quella terrosità senza tempo la pace più profonda che sia possibile conoscere.

Io ci andavo continuamente, e ci ho riprovato l’altra sera, mentre l’oscurità scendeva nel suo antico modo su una terribilmente fredda giornata d’inverno. Su per un vecchio sentiero di taglialegna, nessuna impronta sulla neve salvo quelle dei roditori e del cane che mi stava appena davanti, ma la vista del crinale da cui sono stati strappati tutti gli alberi incombeva troppo insistente e ho avuto uno sprazzo di memoria da due anni fa. Ero salita, con un tempo migliore, su fino in cima al crinale sul lato opposto rispetto alla mia casa, dove è molto più ripido di qui, e una volta arrivata mentre mi stavo chiedendo come avrei fatto a scendere senza rompermi una gamba, ho trovato un collare da cane. Era la prova schiacciante che un altro alieno aveva sfidato questa quota, che sembrava appartenere solo a sé stessa. Ora in quello che pensavo fosse il sicuro crepuscolo di un gelido gennaio, un’auto mi attraversava il campo visivo mentre guardavo verso l’alto. Eravamo in una categoria diversa, rispetto al vecchio collare. Mi ha scosso nel profondo. Era il guardiano, nel giro di controllo – contro quale tipo di incursioni non posso nemmeno immaginare – della “proprietà”, perché è quello che è diventato, questo maestoso posto che si possedeva da sé. Non c’era ancora niente che avesse bisogno di protezione lì, solo terra grattata e le linee di confine che avevano consentito a vari successivi compratori di passarsi l’un l’altro appezzamenti di sedici ettari con vista su due catene di montagne per somme di denaro sempre più stravaganti. Dopo l’altra sera, ecco un altro posto dove non andrò più. Quando cominceranno a costruire, l’antica oscurità della notte sul fianco della collina sarà spazzata via da luci rumore e scarichi dei motori. La “ Proprietà Privata” vince “ la pace più profonda che sia possibile conoscere”.

Mi agito un po’, tanto per la forma. Il responsabile comunale per l’edilizia mi informa che non ci sono norme particolari per le costruzioni sui pendii, nessun obbligo di valutazione di impatto ambientale per alloggi unifamiliari. Non ho risposte intelligenti da dargli, e l’unica cosa che mi viene, sorda, è “Bene, questa è l’America, per voi”. Si agita: “Non vorrete che qualcuno vi venga a dire cosa dovete fare col vostro terreno, no?”. Sospetto che non gli piacerebbe la mia idea secondo cui a dire il vero lo vorrei; mi è venuto in mente che non esiste una cosa come “la tua terra”, non più di quanto non ci sia un punto in un maglione che si può levare senza conseguenze. È buffo, come il rumore di un’escavatrice di pozzi annunci la scomparsa di una galassia. Noi siamo tra i fortunati, ad avere ancora lì la Via Lattea quando usciamo nel portico sul retro, ma ci resterà solo ancora per un po’. Solo qualche casa in più lungo la via, solo qualche quartiere in più nella città vicina, e se ne sarà andata, dopo miliardi di anni. In pratica, potete cominciare a contare i giorni.

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Titolo originale: Residential and Industrial Decentralization– Estratto e tradotto per eddyburg_Mall (http://mall.lampnet.org) da Fabrizio Bottini

Il concentramento della popolazione nelle aree urbane a subito un rapido incremento nel secolo scorso. La popolazione delle città è cresciuta in parte per le nascite fra la popolazione indigena. Ma l’invenzione e produzione entro le città di macchinari agricoli e altri apparecchi che fanno risparmiare lavoro hanno reso possibile una crescita della popolazione urbana a scapito di quella rurale. Le maggiori occasioni sociali e produttive delle città hanno condotto un flusso continuo di popolazione dalla campagna. Inoltre, circa tre quarti [1]degli immigrati in America dall’Europa si sono stabiliti nelle città. Poche amministrazioni hanno pianificato in modo intelligente per questa rapida crescita urbana. Sono stati stipati edifici sul terreno, e affollate persone dentro gli edifici. La vita urbana è divenuta per molti versi scomoda, insicura, malsana.

Quando una città cresce, vengono eretti nuovi edifici sui lotti delle vecchie case, oppure le abitazioni degli originali abitanti cittadini o semi-rurali vengono “convertite” a uso urbano per molte famiglie. Spesso accade anche che vengano utilizzati a scopo di abitazione granai o altri edifici di servizio, oppure che le vecchie case vengano distrutte e sostituite da casamenti in affitto. Ogni lavoratore impiegato nelle varie attività locali desidera essere vicino al posto di lavoro. Le strutture per i trasporti pubblici non vengono realizzate prima che ne sia dimostrato il bisogno, e quindi la popolazione si affolla in un’area ristretta, abituandosi a vivere con strade lastricate e senza alberi, in case spoglie, monotone e deprimenti. Si abitua a condurre un’esistenza separata dalla natura. La responsabilità della proprietà di casa è avvertita da pochi. Il senso di cittadinanza e responsabilità morale per mali sofferti da chi sta vicino si indeboliscono. Il prodotto è una razza sempre più artificiale, egoista, apatica.

Nell’interesse sia dell’igiene che della moralità pubblica, la casa a cottage è di gran lunga preferibile all’abitazione in casamento d’affitto. Quando una popolazione urbana vive in casamenti d’affitto, ci sono grandi quantità di persone affollate entro un’area limitata, il che comporta un continuo traffico, attraverso le strade del quartiere, di abitanti e visitatori, e per la consegna di merci. Il traffico è rumoroso, il che logora i nervi degli inquilini più sensibili. Solleva anche una notevole quantità di polvere composta di sostanze minerali e organiche dannose per la salute di chi le respira. I corridoi, cantine e cortili in comune dei casamenti d’affitto sono strumento di trasmissione di molte delle malattie delle famiglie qui riunite. Il pericolo si riduce in qualche misura realizzando finestre a illuminare e ventilare i passaggi, ma non viene eliminato, perché molte parti restano lontane dai raggi del sole, e sono aerate in modo inadeguato. La tubercolosi è responsabile di quasi un decimo di tutti i decessi negli Stati Uniti, stroncando la vita di solito fra le età di venti e quarant’anni, nel periodo di maggior produttività. Il bacillo tubercolare può sopravvivere per settimane al di fuori del corpo umano, in una stanza umida, senza sole, in un corridoio, in una cantina. Il casamento d’affitto contiene di frequente i germi della tubercolosi in gran numero, ed essi possono essere trasportati dalla polvere del corridoio ai polmoni della vittima. La casa in affitto può così ad un tempo ridurre la vitalità, attraverso una relative assenza di luce solare e aria pura, e contemporaneamente offrire abbondanti occasioni per la trasmissione delle più diffuse e pericolose malattie.

I casamenti, inoltre, non assicurano la riservatezza essenziale per un elevato sviluppo umano, mentale e morale. Gli alloggi sono realizzati vicini gli uni agli altri, così che gli affari dell’una famiglia sono facilmente visibili dalle finestre degli appartamenti circostanti. La riservatezza si può ottenere soltanto chiudendo le finestre o le tende, a sacrificio dunque di luce e aria, che sono elementi indispensabili per la massima salute funzionale. É difficile ottenere un po’ di solitudine anche nelle migliori delle case ad appartamenti, dove si è vicini ai suoni di strumenti musicali o ad altri rumori delle molte famiglie circostanti. Ma la più grave controindicazione del casamento in affitto è quella di rendere impossibile la supervisione dei bambini da parte dei genitori. Il bambino per la propria salute deve giocare fuori casa. Ma quando il bambino delle case in affitto esce dal proprio appartamento, esce dal controllo dei genitori, può accompagnarsi a qualsiasi altra persona, desiderabile o no, che il casamento o la strada del quartiere possono aver portato qui. Anche la scelta dei giochi, come quella dei compagni di gioco, è sottratta al controllo dei genitori, e il tempo è spesso trascorso in modi pericolosi.

La casa a cottage non ha nessuno di questi svantaggi. Sulle vie di queste abitazioni la quantità di traffico necessaria, e di conseguenza il rumore e la polvere, sono molto inferiori a quanto si verifica nei quartieri dei casamenti in affitto. Non c’è un corridoio comune attraverso il quale condividere le malattie delle famiglie dei vicini. Ciascuna abitazione è isolate in uno spazio aperto. Anche incendi e occasionali incidenti diminuiscono, nella casa a cottage. Aumenta la quantità di riservatezza, perché le famiglie dei vicini vivono separate, e possono avere al tempo stesso solitudine, aria e luce. Ma la cosa più importante è l’occasione offerta alle madri, principali responsabili dell’educazione dei giovani della razza, di sovrintendere ai loro bambini, che possono giocare in un cortile aperto, con compagni scelti dalla mamma, e a giochi approvati o controllati, mentre lei sta al lavoro in cucina. L’alloggio a cottage rende anche possibile per il capofamiglia coltivare un orto nelle ore libere dal lavoro, cosa che oltre a distrarre in gran parte dei casi dalle occupazioni quotidiane, mette a disposizione verdure fresche, ad un costo inferiore rispetto a quello dell’acquisto al mercato, e offre l’occasione per un’educazione dei bambini alla natura. Non meno importante, il fatto che l’abitazione a cottage quando è in proprietà tende a sviluppare nella famiglia un senso di responsabilità, sia per la propria casa che per il quartiere dove è collocata. Questo senso di responsabilità si riflette nella politica locale, a vantaggio della comunità, rendendo i cittadini più coscienziosi sia nei comportamenti privati che in quelli pubblici.

Esistono due gruppi di politiche sociali particolarmente importanti, come strumenti per indurre i lavoratori industriali delle nostre città ad abitare in case a cottage. La prima si può chiamare decentramento produttivo; la seconda, decentramento residenziale. La strategia del decentramento industriale comporta misure per spostare fabbriche e laboratori dalla città verso il suburbio o l’aperta campagna. Il decentramento residenziale comprende le strategie per spostare gli abitanti delle città verso i sobborghi, o i centri minori, villaggi, campagne. Una politica di decentramento residenziale può, quindi, includere tutte le azioni che penalizzano la realizzazione di casamenti d’affitto in città – per esempio leggi che richiedano a questi complessi di essere antincendio, consentendo al tempo stesso la costruzione di abitazioni unifamiliari con struttura in legno- o promuovono mezzi di trasporto rapidi ed economici, o riducono il prezzo d’acquisto dei terreni suburbani, facilitano i prestiti a basso tasso di interesse per la costruzione di un cottage, favoriscono le tendenze di “ritorno alla terra”.

Le occasioni industriali offerte dalle città costituiscono una delle cause principali della loro rapida crescita in America. Gli imprenditori hanno collocate i propri impianti nei centri urbani principalmente perché si trovavano vicini al mercato del lavoro, alle infrastrutture di trasporto, ai consumatori. Verso le città si spostano sia il disoccupato che l’ambizioso, grazie alle possibilità di impiego regolare, che appaiono maggiori. Questa popolazione industriale è in gran parte la causa del malsano affollamento nelle città americane. Se si potessero spostare queste industrie dalle città ora sovraffollate, verso spazi aperti, se si potessero indurre anche le nuove imprese a stabilirsi in aperta campagna, e se la popolazione industriale potesse essere attirata dalle città verso nuovi villaggi industriali, i caratteristici mali del sistema della casa in America sarebbero grandemente ridotti.

Ci sono molti elementi di carattere economico favorevoli al decentramento produttivo. I terreni per le industrie in città sono molto costosi; si possono ottenere spazi per usi produttivi nei sobborghi o in aperta campagna a costi bassissimi: spesso a nessun costo. Si possono scegliere le comunità dove le tasse sono inferiori a quelle della città, e spesso un consiglio eletto di amministrazione rurale troverà vantaggioso concedere i terreni e esentare dalle tasse per un certo periodo di anni, per un’industria che si insediasse. Le infrastrutture di trasporto per i prodotti di alcuni settori sono senza dubbio migliori nelle città, me questo vantaggio relativo, a favore della collocazione urbana, può scomparire quando vengano realizzati particolari tratti ferroviari all’esterno delle città, a connettere con la rete nel suo insieme. In un centro urbano, gran parte delle attività deve mettere in conto una grande quota del proprio bilancio ogni anno al trasporto di merci da e per gli scali ferroviari, in spese per gli autisti dei veicoli, in sprechi per i danni che comporta un eccesso di movimentazione, ecc.: tutte spese che potrebbero essere eliminate del tutto se lo stabilimento industriale fosse situato su un tracciato di derivazione, dove è possibile caricare le merci sui vagoni direttamente. Il costo del lavoro è più ridotto nelle comunità rurali, se I lavoratori sono meno sindacalizzati che nelle città, o se il costo della vita è inferiore. Se al decentramento produttivo si accompagna quello residenziale, se gli abitanti dei casamenti d’affitto della città si spostano in case a cottage con giardino, salute, soddisfazione, efficienza, stabilità del lavoro possono essere superiori nel villaggio industriale a quanto siano in città, con conseguente riduzione delle perdite derivate all’impresa dall’irregolarità e rilassatezza sul lavoro.

Un programma di decentramento produttivo non è facilmente applicabile a tutti i settori. La sua attuazione dipende dal tipo di industria, dalle dimensioni degli spazi che occupa in città, dalla disponibilità di manodopera, e da vari altri fattori. Le attività che si rivolgono ai soli abitanti di una città, come lavanderie, sartorie, altri laboratori di abbigliamento o macinazione, devono restare, per essere vicine al consumatore, e comunque saranno le ultime a muoversi. Le attività stagionali devono restare vicine a una grande disponibilità di lavoro, e in genere non possono spostarsi verso le comunità rurali, almeno finché non si imporrà un efficiente sistema nazionale di scambi del lavoro. Anche le industrie che hanno già investito molto negli immobili urbani troveranno difficile tagliare le radici e ristabilirsi in aperta campagna. Dunque il processo di decentramento produttivo è necessariamente lento, ma l’obiettivo è comunque importante, e può essere promosso a scala nazionale e statale, da commissioni per il miglioramento dell’abitazione, da camere di commercio suburbane o rurali.

Un decentramento industriale non accompagnato da quello residenziale è di scarso valore per quanto riguarda il problema dell’abitazione. Graham Romeyn Taylor, nel suo Satellite Cities, espone una quantità di casi nel Middle West, in cui i lavoratori industriali sono rimasti abitanti delle città, e si spostano quotidianamente verso il posto di lavoro. Ciò è allo stesso tempo disagevole e inutile. L’esperienza dimostra che è possibile realizzare villaggi industriali in modo coordinato, applicando i migliori principi urbanistici alla loro costruzione, e vi si possono alloggiare i dipendenti in case igieniche, artistiche, riservate. Ma per farlo, è essenziale o che l’impresa acquisti centinaia di ettari attorno ai propri impianti, oppure che ciò sia fatto da qualche organizzazione particolare di cittadini. In America è stato sperimentato in modo estensivo solo il primo metodo.

L’esperienza dimostra che chi usa il lavoro può acquistare grandi appezzamenti di terreno a prezzi unitari molto bassi, e con la collaborazione di competenti urbanisti pianificarli e organizzarli con una rete di strade residenziali curvilinee, servite da centri sociali e commerciali, a un basso costo per lotto. É possibile progettare dei cottages per tutta l’area, o solo per una sua parte, realizzandoli contemporaneamente, acquistando i materiali all’ingrosso da un commerciante o fabbricante, pure a basso prezzo, e offrendo così abitazioni unifamiliari ben attrezzate in un gradevole villaggio industriale, a un affitto che il lavoratore possa permettersi di pagare.

Quando un datore di lavoro si impegna a dare casa ai propri dipendenti in questi villaggi, è cosa saggia per lui realizzare alcune abitazioni da affittare, e altre da vendere con pagamenti-rateazioni agevolate, su un periodo dentellale o più lungo. Si dovranno anche lasciare alcuni lotti inedificati, che sarà poi possibile cedere in modi agevolati a dipendenti che desiderano progettarsi e costruirsi la casa. Il datore di lavoro dovrà badare a consentire ai dipendenti di scegliere, se vogliono affittare o comprare, e non dovrà obbligare, direttamente o indirettamente, a vivere nelle proprie case. Se hanno la possibilità di abitare ovunque desiderano, i dipendenti non avranno occasione di sentirsi vittime di paternalismo, o in qualunque modo obbligati a dipendere dal datore di lavoro. Chi rispetta l’individualità del dipendente in questo modo, probabilmente non avrà problemi sindacali.

In altro metodo di decentramento industriale è stato tentato di Inghilterra. Un libro di Ebenezer Howard intitolato Garden Cities of Tomorrow, pubblicato la prima volta nel 1898 col titolo Tomorrow, auspica la realizzazone di città industriali a popolazione contenuta, attraverso società a dividenti limitati composte da cittadini interessati al bene pubblico. Howard raccomanda che tali città abbiano una popolazione non superiore a 32.000 abitanti. Ciascuna deve essere circondata da una cintura di terreni agricoli; la densità di case per ogni quartiere industriale deve essere contenuta. I terreni non sono di proprietà dell’industria che si trasferisce nella città giardino, ma di un comitato col compito di garantire che resti disponibile ai cittadini della comunità. Howard spera di promuovere la creazione di queste città giardino per decentrare l’industria, svuotare le città, assicurare ad ogni cittadino d’Inghilterra sia i vantaggi della vita rurale – aria pura, case unifamiliari, orti – che quelli della vita urbana – buone scuole, chiese, teatri, occasioni di incontro.

Nel 1901, sono stati acquisiti 1.544 ettari di terreno a cinquanta chilometri da Londra, a Letchworth. Sono stati pagati circa 100 sterline l’ettaro, dalla Garden City Pioneer Co., Limited. Subto dopo la Pioneer Co. si è sciolta, ed è stata istituita la First Garden City, Limited, ora proprietaria dei terreni su cui sorge la città. La costituzione di questa società offre dividendi del solo 5% sulle quote, che inoltre possono essere acquisite dai cittadini della Garden City se essi lo desiderano. Alle fabbriche è destinato un apposito quartiere, collocate in modo che i venti dominanti portino i fumi lontano dalle abitazioni. La zona delle fabbriche è nascosta da una collina al resto della città, e attraversata da una ferrovia che collega direttamente Londra a Cambridge. Ci sono già oltre trenta proprietari di fabbriche che sono stati convinti a stabilire i propri impianti in questa città.

Oltre i due terzi dell’area esterna sono destinati ad una cintura agricola permanente che offrirà derrate fresche alla città, condividendone la vita sociale. L’attuale popolazione è di 8.000 abitanti, alloggiati in cottages singoli, doppi o a schiera. Il numero Massimo di abitazioni edificabili per ettaro è di trenta, offrendo così a ciascuna casa un ampio giardino. Inoltre ogni abitante può prendere in affitto degli orti. I costi per le case e i terreni sono bassi, e i lavoratori dell’industria sono alloggiati molto meglio che in città. La cittadina è magnificamente progettata e ben tenuta, con gli abitanti dotati di senso civico. Applicando il piano di Howard’s si è realizzata una comunità industriale decentrata, che offre tutti i vantaggi del villaggio di proprietà dell’industriale, e nessuno dei suoi svantaggi. Questo metodo non è stato ancora tentato su larga scala, ma è promettente, e importante a sufficienza da meritarsi un serio tentativo anche in America sotto la guida di un organismo competente di cittadini consapevoli dell’urgenza del problema.

La politica del decentramento residenziale è importante per le nostre città, sia che l’industria si decentralizzi oppure no. Se le industrie si spostassero dalle città e i lavoratori le seguissero, il problema del decentramento residenziale per il resto della popolazione urbana diverrebbe relativamente semplice, perché si renderebbero disponibili grandi quantità di spazi, per una popolazione limitata. Comunque, che le industrie si spostino o no, è importante che le amministrazioni cittadine, convinte della superiorità relative dell’abitazione a cottage, promuovano questi alloggi attraverso norme particolari. Ovviamente, in genere il lavoratore cittadino non può vivere in una casa unifamiliare nei sobborghi, se non può spostarsi dall’abitazione al posto di lavoro in mezz’ora, o meno. E non può di norma abitare in un cottage se affitto, o pagamento di rate, interessi, ammortamento ecc, per acquistare la casa, gli costa di più – costo quotidiano del trasporto incluso – dell’affitto di una sistemazione equivalente in città. [2]

La questione è in qualche modo più compelssa di quanto non appaia da questo ragionamento, perché spesso ci sono vari membri della famiglia che lavorano in città, nel qual caso la posizione della casa deve essere scelta con riguardo ai bisogni di chi lavora più lontano o per più ore. Anche l’assenza di alcuni vantaggi sociali è di impedimento alla vita suburbana. Quindi uno degli elementi per la soluzione del problema sarà l’offerta di accesso a strutture per l’istruzione e la ricreazione, per tutte le età ed entrambi i sessi, agli abitanti dei sobborghi residenziali.

Per rendere accessibile l’abitare nel suburbio, è importante individuare mezzi di trasporto rapidi ed economici per tutte le zone esterne delle città adatte alla funzione di quartieri residenziali. É importante, per questa ragione e per il traffico veicolare, avere ampie strade radiali che collegano i poli commerciali, industriali e di incontro della città ai suburbi.

Il costo delle abitazioni suburbane che si realizzano di solito in America, è proibitivo per le classi lavoratrici. Le abitazioni vengono costruite singolarmente, a prezzi al dettaglio per quanto riguarda i materiali, il costo del lavoro, i prestiti, spesso da persone poco addentro ai metodi per ridurre i costi di costruzione; sono edificate su lotti dalle forme poco adatte, acquistati da speculatori fondiari a prezzi eccessivi, affacciati su strade eccessivamente larghe e costose da realizzare. Per ridurre i prezzi delle abitazioni, dunque, in primo luogo è necessario abbassare quelli dei terreni. Ciò si può ottenere in parte attraverso lo zoning, ad esempio destinando quartieri interamente alle abitazioni, cosa che contiene i valori speculativi dei terreni. Si può ottenere anche rendendo più economica la realizzazione delle strade, progettate più strette, semirurali, nei distretti solo residenziali, e predisponendo lotti edificabili in qualche modo meno profondi di quelli caratteristici delle città americane. I terreni possono anche essere resi più economici tassando nello stesso modo sia i terreni urbanizzati che quelli inutilizzati, per il loro valore potenziale. La bassa tassazione di oggi sui terreni inutilizzati serve da stimolo agli speculatori per mantenerli tali. Se la valutazione di queste superfici si incrementasse, i proprietari entrerebbero in concorrenza per vendere i propri terreni, riducendo così i costi per lotto edificabile. Il costo del denaro preso in prestito per ogni casa si può ridurre se a chiedere il prestito sono grosse entità, con grosse somme per grandi operazioni. Oppure, le somme possono essere concesse in prestito, a singoli o cooperative di inquilini, dalle amministrazioni statali o cittadine, seguendo l’esempio europeo, posto che questa politica ottenga buoni risultati tali da compensare i gli elementi negativi che caratterizzano i sistemi di sussidi pubblici. Gli insediamenti suburbani, comunque finanziati, devono essere progettati da esperti urbanisti e realizzati con tutte le economie di scala nell’acquisto di materiali e uso di manodopera.

Esistono quattro principali forme organizzative che possono essere utilizzate per le operazioni su vasta scala dell’insediamento suburbano: (1) il soggetto commerciale, che interviene a scopo di profitto per l’investitore; (2) il soggetto filantropico, che costruisce i quartieri principalmente a vantaggio degli abitanti, e non cerca alcun ritorno monetario dal proprio investimento; (3) il soggetto cooperativo, attraverso il quale gli abitanti organizzati realizzano l’insediamento nel proprio interesse collettivo; (4) il soggetto pubblico, che realizza la trasformazione per il vantaggio pubblico, in genere senza alcun fine di profitto monetario per l’investimento. Le linee di demarcazione fra questi quattro tipi di soggetto non sono nette. L’agenzia commerciale può essere filantropica, nel senso che può trovare un buon affare il fatto di tenere in considerazione il miglior interesse dell’inquilino o acquirente finale. Il soggetto filantropico, d’altra parte, tende ad essere sempre più commerciale, perché ritiene che una beneficenza finalizzata ad eliminare la povertà di chi la riceve debba essere gestita con criteri di impresa. Gran parte delle cosiddette compagnie filantropiche che realizzano insediamenti suburbani sono imprese a dividendi limitati concepite per versare il 5% sul capitale investito, destinando tutti i guadagni ulteriori agli occupanti delle abitazioni sotto forma di servizi di vario tipo. Le cooperative sono gestite secondo il principio filantropico del servizio, e al tempo stesso animate dal desiderio di massimo profitto per l’investimento, in termini di benessere degli inquilini associati. Si chiama “self- help through service”. Tutti i tipi di entità descritti sopra, possono essere promossi attraverso un’agenzia pubblica – sia statale che municipale – che metta a disposizione terreni a basso prezzo, esenzioni fiscali, prestiti a interesse ridotto, o altre agevolazioni, a chi sta costruendo case salubri per i ceti più poveri.

Esempi dell’organizzazione di tipo commerciale per la costruzione di cottage si possono trovare in qualunque città in crescita. Anche le società filantropiche a dividendi contenuti hanno realizzato molto, per l’affitto o la vendita, nelle città americane, come ad esempio la City and Suburban Homes Company, a Homewood, Brooklyn ; la Sanitary Improvement Co., Washington; la Goodyear Tire and Rubber Co., di Akron,Ohio; e la Modern Homes Company, di Youngstown, Ohio. I gruppi industriali, il cui scopo può essere sia filantropico che commerciale, hanno ampiamente costruito per i propri dipendenti, in molti paesi. Gli esempi del principio cooperativo sono rari in America, anche se questo tipo di struttura probabilmente verrà sperimentata a Billerica e East Walpole, Massachusetts, e a Hamilton, Ontario. L’abitazione cooperativa si è dimostrata decisamente un successo a Harborne, Hampstead, e in altri sobborghi giardino realizzati in forma associata in Inghilterra. Insediamenti suburbani di iniziativa pubblica sono stati sviluppati dal County Council di Londra, e da centinaia di amministrazioni municipali europee: come a Sheffield. Inghilterra, o Ulm, Germania. Sono intervenuti i governi nazionali o provinciali in Irlanda (Congested Districts Board), Nuova Zelanda e Germania.

Qualunque di questi tipi di ente può essere utilizzato, in determinate condizioni, per realizzare vantaggiosamente insediamenti suburbani. Il tipo commerciale è quello più comunemente attivo, perché la spinta del profitto è sempre uno stimolo alla costruzione di case nelle città in crescita. Ma le abitazioni realizzate per l’uomo di pochi mezzi sono costruite e progettate meno bene di quelle degli altri tipi di agenzie, dato che lo scopo è quello di garantire profitti immediati agli investitori. L’interesse dell’abitante è considerato solo per quanto fa guadagnare. Il tipo di organizzazione commerciale è inevitabile nella costruzione di case, finché resterà l’istituto della proprietà privata, ma nella maggior parte delle città deve essere affiancato da altre forme di agenzia.

L’entità filantropica, o società a dividendi limitati, può essere utilizzata per trarre vantaggio dalla sperimentazione di nuovi tipi costruttivi. Funzione principale della società filantropica, sperimentazione a parte, è quella divulgativa. Essa può prendere la forma di istruzione dei costruttori locali sui nuovi metodi, formazione degli inquilini per il buon mantenimento degli edifici, educazione degli occupanti al risparmio, attraverso nuove e facilitate forme di accesso alla proprietà. Probabilmente il ruolo più importante di questo tipo di agenzia è la scoperta di nuove tipologie di abitazione e la loro cessione in forme di pagamento agevolate agli occupanti. In questo modo, la City and Suburban Homes Company di Homewood, Brooklyn, ha costruito abitazioni su lotti da 12x30 metri e le ha messe in vendita a 2.500-3.000 dollari, terreno incluso. L’occupante può pagare in rate diluite su vent’anni, con versamenti mensili per tasse, interessi e ammortamento, pagando allo stesso tempo una polizza assicurativa pari a due terzi del valore del mutuo, in modo tale che in caso di morte, la compagnia sia tutelata per la vendita della casa, e la famiglia nel suo dirotto alla proprietà.

Negli Stati Uniti sinora non sono state utilizzate agenzie governative per la realizzazione di insediamenti suburbani, ma in Europa esistono vasti appezzamenti di terreni acquistati dalle municipalità, edificati con case a basso costo, e cedute in affitto dal comune ai lavoratori, oppure vendute con rateazioni agevolate di lungo periodo. Quest’ultimo metodo si è rivelato utile a evitare una dannosa speculazione sui terreni suburbani, e per promuovere la proprietà della casa anche fra i più poveri. Sinora, difficoltà costituzionali e una relativa inefficienza o disonestà da parte degli uffici municipali, hanno reso sconsigliabile l’applicazione di questo metodo nel nostro paese. É stato fatto un approccio simile comunque a Toronto, Canada, dove i titoli della compagnia a dividendi limitati vengono garantiti dalla municipalità.

L’organizzazione cooperativa, non ancora sperimentata su larga scala in America, ha caratteristiche particolari come strumento di promozione delle costruzioni suburbane. Secondo questo metodo, il potenziale abitante suburbano investe in quote di una cooperativa di abitazione. Si assicura un’opzione sui terreni del suburbio. Gli occupanti vengono selezionati dalle municipalità entro la cui circoscrizione ricade. Il denaro, sia in Inghilterra che in Germania, può essere preso a prestito dallo Stato a un interesse del 3 o 3½ per cento, e altri fondi si ricavano emettendo obbligazioni. I terreni, naturalmente, devono essere pianificati da esperti urbanisti, e si deve trarre vantaggio dalla realizzazione su grande scala. Quando le abitazioni sono pronte, gli appartenenti all’associazione cooperativa, tutti potenziali occupanti, entrano nelle case e pagano un affitto alla società. Il cui reddito è costituito dagli affitti pagati. Da questo reddito lordo si ricavano le spese di gestione, si pagano gli interessi dei prestiti governativi o delle emissioni, una percentuale è accantonata come capitale di riserva, e quindi vengono pagati gli interessi sulle quote di ciascun socio-abitante, a un tasso contenuto, di solito al 5%. Tutti i profitti netti rimanenti a questo punto possono essere distribuiti ai membri in funzione dell’affitto pagato all’associazione, ma non tornano sotto forma di denaro, piuttosto di quote del capitale, si che ciascuno ne possiede per 1.000 dollari, o il valore della propria abitazione.

Le decisioni sugli affari della cooperativa di abitazione suburbana sono strettamente democratiche. Ciascun membro ha a disposizione uno solo voto. Questa forma organizzativa è particolarmente stabile ed economica, perché ciascun componente ha il massimo interesse negli affari del complesso edilizio. Quindi non ci sono perdite in caso di spazi inutilizzati, perché se una casa è vuota, ogni membro è sollecitato a trovare un nuovo occupante. I costi di riparazione sono mantenuti al minimo, perché gli occupanti fanno attenzione alle proprietà condivise. Ci sono poche, o nessuna, perdite in termini di ritardi sugli affitti, perché le quote dell’occupante possono essere rilevate per eliminare il suo debito nei confronti dell’associazione. Inoltre, con questa forma organizzativa, tutti gli incrementi di valore dei suoli creati dalla comunità diventano proprietà dei membri abitanti.

Quindi il decentramento di attività e residenze è altamente desiderabile, ed è importante che l’America stimoli questo movimento attraverso particolari misure. È necessario istituire un’agenzia nazionale che fornisca informazioni a chi intende costruire, o alle persone che intende impiegare, sui meriti dei vari metodi di progettazione, finanziamento, organizzazione dei complessi suburbani. La stessa agenzia potrebbe costruire o ampliare la propria utenza attraverso la propaganda. Mostre di materiali per l’edilizia, di progetti costruttivi o urbanistici, sui costi e i tipi di organizzazione, regolamenti e metodi di lavoro delle imprese di costruzione. Attraverso la costituzione di un tale centro di informazioni e propaganda sia l’urbanista che il promotore di migliori complessi abitativi industriali o suburbani sarà in grado di agire con piena conoscenza dei risultati, positive o negative, degli esperimenti già condotti, traendone profitto. La sperimentazione a caso, che si risolve in inutili errori, potrà così essere evitata. In tal modo, con poca fatica e spesa, potranno notevolmente incrementarsi quantità ed efficienza dei progetti di decentramento.

Nota: curiosamente, sarà proprio uno dei giovani collaboratori di John Nolen, Earle Draper, a coniare vent'anni più tardi il termine "sprawl", a definire l'insediamento suburbano poco o mal pianificato; è scaricabile da fondo pagina un file PDF di questa traduzione con qualche immagine (f.b.)

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[1]Nel 1910, il 72,1% della nostra popolazione nata all’estero viveva nelle città (amministrazioni con oltre 2.500 abitanti). Sunto del Tredicensimo Censimento, p. 200.

[2]Esistono varie combinazioni. Se si è meno malati nel suburbio si può pagare un affitto equivalente a quello della città più quanto si risparmia in parcelle del medico. Nel suburbio si possono pagare meno le verdure, bevande, abbigliamento, divertimenti ecc.; ciò che si risparmia in questo modo – se non c’è un corrispondente aumento del costo della vita suburbana e il reddito rimane uguale – può essere speso in affitto.

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1.Quanti sentono e seguono con intelletto d’amore il problema del deurbamento e i problemi connessi della casa, della campagna, dell’autarchia, hanno certamente appreso con intima soddisfazione che la prossima legge Urbanistica, già approvata dalle Commissioni legislative nel luglio u. s., “porrà l’Italia” secondo l’annuncio dato alcuni mesi fa dal Ministro Gorla “all’avanguardia tra le nazioni più progredite”, poiché “si prefigge attraverso il rinnovamento e ampliamento edilizio della città il miglioramento di vita nei centri minori e nelle campagne, per combattere la pericolosa corsa all’inurbamento”. L’art. 1 della legge, infatti dichiara: “Il Ministero dei Lavori Pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio della città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il deurbamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo”.

E la relazione dello stesso Ministro che ne accompagnava il disegno alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni chiariva:

”Concepita la disciplina urbanistica come fondamento di una sana convivenza sociale nella distribuzione delle forze produttive e dei nuclei demografici sul territorio nazionale, la legge urbanistica si appalesa come il mezzo più efficace per attuare quel deurbamento che è uno dei capisaldi della politica del Regime. Espressione di questa tendenza sono due nuovi istituti improntati alle vedute più moderne. L’uno è il “piano territoriale di coordinamento”, che quando venga posto in essere costituirà la trama entro la quale dovranno inquadrarsi i piani regolatori dei singoli Comuni, in modo da assicurarne l’armonica coesistenza. La creazione di tali piani territoriali è stata lasciata al criterio del Ministro de Lavori Pubblici, senza imporre prescrizioni rigide, ma segnando soltanto orientamenti e diretti, e di massima in quanto trattasi di provvedimenti di vasta portata da sperimentare con cautela.

L’altro istituto è quello del “piano regolatore generale” esteso alla totalità del territorio comunale, con che si eviteranno gli inconvenienti derivanti dall’attuale sistema, per il quale il piano regolatore generale è limitato al centro urbano ed alla zona di ampliamento”.

A sua volta il Ministro Gorla, parlando alla Commissione legislativa della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, soggiungeva “è vano fissare la gente là dove non vuole rimanere se non le si danno i primordiali servizi necessari”.

Così il legislatore mira a tradurre in precetti normativi la nuova dottrina urbanistica, la quale, come avvertì il Ministro Bottai, inaugurando nel 1938 il Congresso nazionale di urbanistica “non ha come esclusivo compito di ordinare la città, ma anche e specialmente i borghi e le campagne” o, come altrimenti si è espresso uno dei più profondi e appassionati cultori della materia, G. A. Calza Bini, “estende i suoi studi alla organizzazione di tutti i centri sociali, in città come nelle campagne, sui porti come sulle spiagge marine e sui fianchi dei monti”.

E non può non apprezzarsi questo contributo ideale e pratico che viene offerto dalla dottrina urbanistica e dal nuovo mandato legislativo per la realizzazione del deciso programma del Duce rivolto alla ruralizzazione del Paese, quale base prima e insostituibile della indipendenza economica e politica della Nazione, e alla sana politica del villaggio categoricamente ribadita dal Sottosegretario all’Interno G. Buffarini Guidi contro il tradizionale privilegio delle metropoli.

2. Concretamente quali norme la legge contiene, quali potestà specifiche essa attribuisce al Ministro dei LL. PP., quali mezzi offre diretti o influenti al fine del deurbamento?

Sembra mirarvi innanzi tutto la norma, che, all’antisociale distinzione della legge del ‘65 tra Comuni aventi popolazione superiore ai 10 mila abitanti e Comuni con popolazione inferiore, ai quali ultimi negava la facoltà di formare il piano regolatore, e alla irreale distinzione che quella stessa legge faceva fra Comuni nei quali si manifestasse la necessità di espansione e Comuni che tale necessità non avessero, pone una regola generale obbligante tutti i Comuni a formare il piano regolatore edilizio esteso all’intero territorio, piano che comprende (art. 8) così le norme di correzione e sistemazione dell’abitato esistente (piano regolatore della legge del ‘65) come le norme di edificazione nelle zone di espansione (piano di ampliamento della legge del ‘65), o, quanto meno, ad includere nel proprio regolamento edilizio un programma di fabbricazione con l’indicazione dei limiti di ciascuna zona e con precisazione dei tipi ed eventualmente delle direttrici di espansione (art. 34). Ogni lembo di territorio nazionale, anche il più remoto e rurale, potrà in tal modo rappresentare al suo popolo la bellezza e le comodità della nuova edilizia sorta secondo gli schemi concepiti dalla dottrina urbanistica associata alla scienza igienica e il cuore pulsante del Regime per la più elevata redenzione della vita rurale e del benemerito popolo delle campagne.

La relazione ministeriale, poi, spiegava, nel brano trascritto, che a tale scopo sono stati concepiti i due istituti del piano di coordinamento e del piano regolatore generale per tutto il territorio, e non del solo abitato. Dalle linee direttrici di cotesti piani, infatti, possono partire provvide iniziative ed opere, particolarmente stradali, idrauliche, e industriali, di immediato e sicuro effetto di valorizzazione e popolamento di campagne anche lontane.

L’art. l, inoltre, espressamente pone e definisce questo compito del Ministro dei Lavori Pubblici; compito non del tutto nuovo, come quello che già era implicito nelle sue funzioni di organo della politica generale del Governo, ma ora nettamente imposto e che dovrebbe concretarsi nell’indirizzare anche verso quel fine particolare l’azione propria e le opere da eseguirsi a cura del suo Ministero o degli istituti da esso diretti o dipendenti, e nel vigilare che quel fine sia fra le vedute precise dei regolamenti, dei piani, dei programmi costruttivi, delle opere degli enti locali.

3. Ma, se non erro, non vi si rinviene altra norma positiva a ciò diretta. Sia consentito domandarci allora se queste affermazioni di principio e questo mandato generico possano per sé soli apportare un contributo pratico realmente efficace pel conseguimento dello scopo idealmente prefisso del deurbamento. Si tratta evidentemente di principii solo direttivi e di un mandato di carattere discrezionale il cui effetto pratico dipenderà dall’applicazione di essi, e che potrà mancare, ove l’azione pratica non risponda.

Gli stessi piani e programmi edilizi d’altra parte non possono, per propria funzione, che rappresentare il puro quadro topografico d’insieme delle zone in cui i piani o i programmi suddividono, nella carta, il territorio di uno o più Comuni con la sola indicazione delle linee terminali e periferiche e della destinazione di ciascuna di quelle zone (abitato centrale da rettificare, zone di espansione di esso con la tipologia delle costruzioni, zone industriali, linee stradali o navigabili, ecc.) disegnando, quindi, per esclusione, le restanti parti del territorio riservate alla cultura agraria.

Da sé solo dunque il dettato della legge non sembra segnare passi positivi sulla strada del deurbamento.

4. Constatiamo intanto ogni giorno, e non senza preoccupazione, come nonostante gli sforzi di leggi, di provvedimenti di Governo, della più convincente dialettica della stampa, la corsa verso l’urbanesimo e l’abbandono che ne deriva , delle campagne non si arginano. Un’apposita legge, quella del 6 luglio 1939, pose come un reticolato giuridico alle facili invasioni delle città. Opere gigantesche di bonifica e appoderamento sono state compiute o sono in corso di esecuzione e nuove città sono sorte nel centro di territori redenti od accanto a nuove industrie, per volontà del Regime e con immane sforzo finanziario dello Stato. Il nuovo codice civile sanziona nuovi doveri per la conservazione e lo sviluppo della proprietà rurale. Un altro disegno di legge è davanti alle assemblee legislative contenente provvedimenti a favore dell’economia montana.

Nella realtà il problema resiste a questi reattivi vari.

D’altro canto la stessa legge urbanistica (reputo dovere della critica leale, e come tale collaboratrice, rilevarne gli aspetti che appaiono negativi) sembra dimenticare i suoi buoni propositi quando, nella indicazione del contenuto dei piani, dei programmi, dei regolamenti, non fa cenno alcuno ad elementi praticamente diretti al fine del deurbamento, mentre molto preoccupata, e pur giustamente, si manifesta dei riguardi tecnici, estetici, storici, monumentali, oltre che del traffico e dell’igiene. Autorizza la espropriazione per la precostituzione di un demanio comunale di aree disponibili per le future zone di espansione dell’abitato, per la formazione dei comparti, per la regolare lottizzazione delle aree, per rettifica dei confini nell’abitato e nelle zone di espansione di esso, ma, come mi riservo di esaminare in altro scritto, reca norme scarse o nulle dirette ad attenuarne il costo. Sembra voler incoraggiare un maggiore spreco di aree libere per giardino a scopi puramente estetici (art. 25). Modificando il primo schema, che sottoponeva all’obbligo della licenza del Podestà con le garanzie conseguenti qualsiasi costruzione nel territorio del Comune; la prescrive solo per le costruzioni entro l’abitato e le zone di espansione.

5. Se a me fosse lecito aggiungere al corredo, già immenso, delle approfondite elaborazioni nella materia una modesta idea, delineerei, sul terreno positivo, due nuove regole generali che considererei utilmente integratrici della legge urbanistica. M’incoraggia a farlo, oltre l’amore del tema, l’ultimo articolo della legge il quale, nel chiaro intento del legislatore di volerla perfezionare nell’immediata applicazione, autorizza il Governo ad introdurre nel regolamento anche norme integrative, fra le quali appunto penso possano trovare sede quelle che sottopongo al vaglio sapiente delle sedi competenti.

La prima statuirebbe : “ Ogni podere destinato a coltura agraria o almeno quello che abbia la estensione della unità colturale prevista dal nuovo codice civile quella, cioè, sufficiente a dar/lavoro ad una famiglia agricola (art. 846 c. c.) dev’essere dotato di una casa sana e sufficiente per le famiglie del proprietario e del lavoratore o dei lavoratori fissi del fondo e per gli altri bisogni della coltivazione”.

Non v’è bisogno di dimostrare, dal punto di vista economico, demografico e sanitario, che condizione prima per attrarre e trattenere nelle campagne lavoratori e proprietari è un alloggio accogliente dotato dei requisiti rispondenti alle esigenze maggiori della vita (acqua, luce, strade); che la presenza continua o frequente del proprietario e del lavoratore è, a sua volta, condizione essenziale per la migliore custodia, cura, coltivazione e produttività della terra; e che la vita in case e campagne salubri è fattore importante dello sviluppo della sanità e della moltiplicazione della razza.

Non v’è bisogno di dimostrare neppure che, mentre s’investono spese enormi per rifugi pubblici, antiaerei di carattere temporaneo e malsicuri, il disseminare di case abitabili il territorio nazionale nelle zone destinate all’agricoltura, fuori dei centri abitati, significa anche costruire i rifugi più sicuri e sani.

Dal punto di vista del contenuto giuridico, la norma non solo non incontra ostacolo nell’ordinamento generale, ma concorrerebbe ad attuare i principii cardinali posti, nei riguardi della funzione sociale e degli sviluppi della produzione fondiaria, negli articoli 836 e segg. del nuovo codice civile. Dal lato formale potrebbe osservarsi che una disposizione siffatta avrebbe sede più propria in una legge generale di riordinamento della proprietà fondiaria. Ma non appare estranea alla legge urbanistica, se è vero, com’è vero, che questa è ispirata alla dottrina urbanistica la quale spinge il suo sguardo ad ogni nucleo sociale, intende disciplinare l’edilizia anche per finalità del deurbamento da essa stessa dichiarato.

E posta questa regola, la licenza di costruzione del Podestà dovrebbe essere subordinata non al puro accertamento igienico ed estetico, ma anche alla rispondenza di essa alle varie esigenze pratiche cui per i fini della legge deve soddisfare.

6. La seconda regola stabilirebbe: “ Il piano regolatore comunale (almeno dei Comuni soggetti alla legge contro l’urbanesimo) deve stabilire larghe fasce di territorio, convenientemente collegate col centro abitato da comode vie di accesso, suddivise in lotti di 2000, 3000, 4000 mq., al di là delle immediate zone di espansione dell’abitato o intorno alle borgate periferiche. In ciascun lotto il proprietario ha obbligo di costruire, secondo gli allinea menti che il piano stabilirà, un fabbricato semirurale sufficiente per alloggiare almeno la famiglia del proprietari, la famiglia di un lavoratore rurale a modicissimo fitto, e possibilmente anche altri inquilini, preferibilmente lavoratori”.

Sembrami intuitivo che queste fasce semirurali attrarrebbero non poca parte della popolazione operaia e media; avvicinerebbero molti lavoratori agricoli ai giardini, orti, terreni ove sarebbero chiamati a prestare la loro opera; assicurerebbero alle famiglie coabitanti una parziale indipendenza economica mercé la coltivazione dei terreni circostanti, insieme con un’abitazione a mite fitto, in contrade salubri semicampestri.

Nel piano regolatore, costituirebbero anch’esse speciali zone di espansione a carattere prevalentemente rurale.

7. Mi si presentano alla mente, nel formulare queste idee, le obiezioni che alcuni anni fa opponeva con ingegnoso calcolo geometrico Ugo Notari, il quale, postosi il problema se convenisse che gli abitati crescessero in estensione o in altezza, e rilevata la tendenza verso la prima osservava:

”Ecco un primo settore del gigantesco piano regolatore, sul quale dovrà essere combattuta 1a prima grossa battaglia. Le nuove case richiedono nuove aree, e le nuove aree, lentamente ma irresistibilmente, mangeranno la superficie coltivabile. La casa è così una irriducibile nemica del pane. Se noi vogliamo più grano per provvedere all’alimentazione delle nuove generazioni, dobbiamo sviluppare le nostre città e i nostri paesi in altezza, predisponendo tutta una nuova legislazione sulla proprietà fondiaria nel senso di conferire un movimento generale alla sopraelevazione delle case esistenti. Le nuove aree commerciali devono essere i tetti; le città e i paesi debbono avviarsi ad avere case ad otto a dieci piani”.

Non mi avventuro nella questione, che eccede la mia competenza e i fini di queste note, se negli abitati debbano preferirsi i grattacieli o i fabbricati medii o piccoli, ma è certo che, se dovesse seguirsi al cento per cento il ragionamento geometrico del Notari, dovrebbero abolirsi anche le abitazioni campestri, che sottraggono anch’esse terreno al pane. Ma è pur certo che questo senza di quelle non nascerebbe neppure nella più gran parte dei terreni destinati a produrlo.

Le difficoltà essenziali, invece, per la pratica applicazione delle due regole che traccio, sarebbero tutte e soltanto di carattere finanziario, poiché, come è noto, pochi o pochissimi dei proprietari di terre o aree hanno mezzi propri per adempiere l’obbligo di costruzione che verrebbe loro imposto. Ma se quelle due regole fossero riconosciute necessarie per lo scopo, non dovrebbero essere negati mezzi e accorgimenti atti a superare le difficoltà che si oppongono, e cioè:

a)sovvenzioni e facilitazioni più larghe possibile (esenzioni fiscali, contributi governativi, mutui a lunghissima scadenza e minimo tasso, ecc.) come per le costruzioni popolari o per le bonifiche;

b)espropriazione o sanzioni penali a carico degli inadempienti;

c) opere stradali e impianti di luce e acquedotti, e uffici pubblici periferici indispensabili per rendere possibile la vita nelle campagne.

Questi provvedimenti, che a lor volta integrerebbero le due regole, potrebbero avere sul regolamento della legge urbanistica una enunciazione di massima, con rinvio alle leggi speciali cui competerà di disporli.

Comunque non sarà vana l’attesa dei risultati dell’impegno assunto dalla legge urbanistica.

Le due eminenti coscienze che presiedono al Dicastero dei Lavori Pubblici, il Ministro Gorla e il Sottosegretario Carletti, che hanno già rivolto i loro studii sull’importante problema, hanno nella propria altissima competenza e lunga esperienza, la traccia più sicura delle vie da percorrere perchè questa sana finalità della legge non rimanga una proclamazione puramente letterale.

Essi hanno sopratutto nel loro spirito le consegne date dal Duce:

“I finanziamenti concessi al Consorzio fra istituti di case popolari debbono servire per la costruzione di nuove case anche nei Comuni rurali perchè dal provvedimento ne dovranno trarre vantaggio quegli autentici rurali, che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza e in silenzio”.

“Entro alcuni decenni tutti i rurali italiani devono avere una casa vasta e sana, dove le generazioni contadine possano vivere e durare nei secoli come base sicura e immutabile della razza”.

“Solo così si combatte il nefasto urbanesimo, solo così si possono ricondurre ai villaggi e ai campi gl’illusi e i delusi che hanno assottigliato le vecchie famiglie per inseguire i miraggi cittadini del salario in contanti e del facile divertimento”.

Premier jour d'école dans une classe américaine. L'institutrice présente

à la classe un nouvel élève, Sakiro Suzuki (le fils du boss de Sony).

L'heure commence.

L'institutrice:

- Bon, voyons qui maîtrise l'histoire de la culture américaine. Qui a

dit: DONNEZ-MOI LA LIBERTÉ OU LA MORT ?"

Pas un murmure dans la salle. Suzuki lève la main: "Patrick Henry, 1775, à Philadelphia"

- Très bien Suzuki !

- Et qui a dit: L'ETAT EST LE PEUPLE, LE PEUPLE NE PEUT PAS SOMBRER ?

- Abraham Lincoln, 1863 à Washington, répond Suzuki

L'institutrice regarde les élève et dit :

- Honte à vous ! Suzuki est Japonais et il connaît l'histoire américaine

mieux que vous !

On entend alors une petite voix au fond de la classe:

- Allez tous vous faire f..., connards de Japonais !

- Qui a dit ça ? S'insurge l'institutrice

Suzuki lève la main et sans attendre, dit:

- Général Mc Arthur, 1942, au Canal de Panama et Lee Iacocca, 1982, lors de l'assemblée générale de General Motors

Dans la classe plongée dans le silence, on entend un discret :

- y'm'fait vomir...

L'institutrice hurle :

- Qui a dit ça ?

Et Suzuki:

- George Bush Senior au premier Ministre Tanaka pendant un dîner officiel à Tokyo en 1991.

Un des élèves se lève alors et crie

- pomp'moi l'gland !!

Et Suzuki, sans ciller:

- Bill Clinton à Monica Lewinsky, 1997 dans la salle ovale de la Maison Blanche à Washington.

Un autre élève lui hurle alors:

- Suzuki, espèce de merde !

Et Suzuki:

- Valentino Rossi, lors du Grand Prix de Moto en Afrique du Sud en 2002.

La salle tombe littéralement dans l'hystérie, l'institutrice perd connaissance, la porte s'ouvre et le directeur de l'école apparaît:

- MERDE, j'ai encore jamais vu un bordel pareil !

Et Suzuki:

- Chirac, après s'être vu remettre les comptes de la Sécu par le premier ministre Raffarin.

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History Lesson

It was the first day of school and a new student named Suzuki, the son of a Japanese businessman, entered the fourth grade.

The teacher said, "Let's begin by reviewing some American history. Who said "Give me Liberty, or give me Death?"

She saw a sea of blank faces, except for Suzuki, "Patrick Henry, 1775." He said."

Very good! Who said 'Government of the people, by the people, for the people,

shall not perish from the earth'?"

Again, no response except from Suzuki: "Abraham Lincoln, 1863." said Suzuki.

The teacher snapped at the class, "Class, you should be ashamed. Suzuki, who is new to our country, knows more about its history than you do."

She heard a loud whisper: "Screw the Japs."

"Who said that?" she demanded.

Suzuki put his hand up. "Lee Iacocca, 1982."

At that point, a student in the back said, "I'm gonna puke."

The teacher glares and asks "All right! Now, who said that?"

Again, Suzuki says, "George Bush to the Japanese Prime Minister, 1991."

Now furious, another student yells, "Oh yeah? Suck this!"

Suzuki jumps out of his chair waving his hand and shouts to the teacher, "Bill Clinton, to Monica Lewinsky, 1997!"

Now with almost a mob hysteria someone said,

"You little shit. If you say anything else, I'll kill you."

Suzuki frantically yells at the top of his voice,

"Gary Condit to Chandra Levy 2001."

The teacher fainted. And as the class gathered around the teacher on the floor, someone said,

"Oh shit, we're in BIG trouble!"

Suzuki said, "Arthur Andersen, 2002."

Dalla pagina “Dirty Jokes” del sito del signor Vikar (New York)

http://www.vikarsrant.net/HistoryLessons.htm

Se chiamo

non vengono i miei morti

ma il treno si è fermato nel tramonto

fuori solo grilli e campi

e a un tratto

come da lontano una balera

un tango.

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Arrivavano all’alba

dalle campagne

il viso segnato dal sole

le mani nodose

e stavano ore

nere

in piedi

sulla piazza del mercato.

L’una era l’ora più vuota

contavano chine le uova invendute

le calze di seta svanite.

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Il paese era tutto un rammendo

ricambi di colli e polsini

giacche lise da rivoltare

un continuo disfare

vecchie vite

fianchi

corpetti ormai sfatti

e lei usciva da una scuola di taglio.

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A un mese

era stata colpita dalla polio.

Giorni e giorni ha passato sul balcone

sulle panchine della stazione

al parco delle scuole.

Mai riusciva ad arrivare

dove muore l’argine.

È rimasta ad aiutare in casa

ha curato la bambina di sua sorella.

Giocava di nascosto

una lira una cartella

con le vecchie della tombola

in una stanza buia

il muro annerito dalle stufe

lei nella luce.

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A Messa andava all’alba

chiusa nella spilla da balia

sul cuore il taschino degli aghi

la stanza ingombra di pizzi

di sete

di rasi

una nuvola bianca

con punte di rosa

in un vicolo scuro

tutti veli da sposa.

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Li cuciva sul rovescio

intere notti

curva sulla Singer a pedali

i palloncini a spicchi dei mercati

che nessuno da bambina le comprava

e lei lì a fissarli

come per portarli tutti a casa

gialli verdi rossi.

Le hanno consumato gli occhi.

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Persino le rosette

che sua madre portava dall’età di cinque anni

erano andate a suo fratello

e a sua cognata.

Lei non è tornata

a casa quella notte.

All’alba

sedeva ancora

muta

composta

in sala d’aspetto

di terza classe.

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Un fazzoletto in testa

uno più grande in mano

quattro capi

due nodi

i tagli dei geloni

e i sogni

caldi come le stagioni

sotto la neve.

Antonio Tosi, Sulle appartenenze sociali nella città moderna, in Atti della Tavola Rotonda di studi urbanistici: Vita e Nuove Forme della Città, Centro di cultura dell’Università Cattolica, Passo della Mendola, 27 agosto - 1 settembre 1965

1. La sociologia urbana è in crisi. Nata in una prospettiva antiurbana giustificata sulla base dei pregiudizi degli intellettuali e dei disagi dei primi inurbati, si trova oggi a disporre di schemi inadeguati: proprio nel momento in cui la città ha raggiunto una dominanza che mai nessuna società aveva visto. Gli stereotipi sulla città vengono demoliti uno dopo l’altro, insieme ai loro correlati scientifici: soprattutto vengono attaccate alcune formulazioni ottenute deduttivamente dalla scuola psicosociale (Simmel e Wirth ne sono gli esponenti più noti e quindi più suscettibili di diventare i capri espiatori) e alcune conclusioni che i cultori della human ecology avevano ricavato dalla loro grande costruzione ideologica. Ma la mancanza di una teoria, o quanto meno di una impostazione metodologica capace di far pervenire ad una teoria, mette i moderni combattenti della crociata contro gli stereotipi nella condizione di poter alimentare altri stereotipi; l’accumulazione di ricerche empiriche non integrate teoreticamente può opporre al mito della città divoratrice di uomini il mito opposto, e altrettanto indimostrabile, della città come luogo di un progresso automatico. Che la conoscenza della città possa progredire attraverso queste vie è per lo meno discutibile.

Le proposizioni ricorrenti a proposito del tipo di rapporti sociali che caratterizzano la città insistono, riallacciandosi alla tradizione psicosociale, sull’impersonalità, l’isolamento, il declino delle appartenenze primarie, la dominanza delle organizzazioni formali accentuando in genere le connotazioni negative di questi caratteri.

Urbanisti fermi alla “sociologia” di Mumford, recenti critici della società di massa, nostalgici della piccola comunità e prefiguratori di partecipazioni democratiche “di base “, ecologi incapaci di abbandonare i loro postulati antisociologici, tutti si sono affezionati ad una serie di proposizioni circa l’interazione in ambiente urbano che vengono solitamente imputate a Wirth. É soprattutto per questo consenso sul riferimento che prendiamo l’avvio da Wirth: anche se è doveroso precisare che in realtà le proposizioni wirthiane erano di tipo ipotetico: prudenti e molto meno ruralistiche e pessimistiche di quelle dei suoi seguaci.

Il vantaggio della formulazione wirthiana consiste nella sua preoccupazione di mettere in rapporto il sistema di organizzazione sociale urbano - il tipo di rapporti sociali e di istituzioni - con un tipo di base demografica, una tecnologia e un ordine ecologico da una parte, e con un set di atteggiamenti, idee e costellazioni di personalità dall’altra. L’urbanesimo è dal punto di vista demografico emergenza di comunità infeconde ed eterogenee. Sul piano dell’ordine sociale è sostituzione di contatti secondari a contatti primari, cui si accompagna un indebolimento dei legami di parentela, il declino del significato del vicinato, il venir meno delle basi tradizionali di solidarietà sociale, il trasferimento di attività industriali, educative e ricreative ad istituzioni specializzate; cui si accompagna, dal momento che l’azione individuale è inefficace e l’efficienza si raggiunge solo in gruppi, una moltiplicazione di associazioni volontarie, La moltiplicazione del numero di persone in interazione, che rende impossibile contatti pieni tra persone, ha conseguenze sulla personalità e il comportamento collettivo urbano: la personalità urbana – “schizoide” - intrattiene contatti impersonali, superficiali, transitori e segmentali, che conducono alla riserva, all’indifferenza, ad una prospettiva blasee e all’immunizzazione del proprio io contro le richieste degli altri. La superficialità, anonimità, e carattere transitorio delle relazioni sociali urbane rendono conto della sofisticazione e razionalità degli abitanti della città. La libertà dal controllo emozionale personale dei gruppi intimi li lascia in uno stato di anomia. A tutto ciò. si accompagna un aumento di disorganizzazione personale, malattie mentali, suicidio, delinquenza, corruzione, disordine.

2. Si tratta, come è noto, di ipotesi sostenute da diverse ricerche empiriche (che peraltro non giustificano il pessimismo con cui molti le propongono). Ma, soprattutto recentemente, si è andato sviluppando negli Stati Uniti un cospicuo orientamento di ricerca che è risultato in una reinterpretazione della vita sociale urbana. Questa reinterpretazione, che in parte sembra contrastare con le ipotesi accennate, ha fondato la sua critica proprio su quello studio delle “appartenenze “ dell’abitante urbano su cui i teorici della disorganizzazione sociale avevano costruito le loro ipotesi. É interessante, anche se il tentativo comporta il rischio di grosse semplificazioni, riassumere i risultati di queste ricerche:



a) i rapporti primari. L’appartenenza a gruppi informali è nella città fenomeno quasi universale: soltanto un piccolo segmento della popolazione è privo di tali appartenenze. In particolare è pressoché universale l’amicizia, fuori da ogni contesto organizzativo: l’abitante urbano è raramente isolato del tutto da relazioni con amici singoli o circoli di amici. E forse ancor più importanti sono le relazioni parentali: la famiglia coniugale è di fondamentale importanza (l’abitante della città tende a spender la maggior parte delle sue serate nel seno della famiglia); e importante è perfino la famiglia estesa (le visite a parenti sono il tipo più corrente di “riunione”; inoltre queste relazioni vanno al di là delle chiacchiere occasionali: l’aiuto reciproco tra i membri di una famiglia estesa sembra essere una risorsa molto importante per la famiglia singola);



b) la partecipazione formale. A parte la partecipazione religiosa gli abitanti della città appartengono ad una sola - o a nessuna - associazione. Gli individui di basso e medio livello sociale appartengono al massimo ad un’altra associazione (di solito connessa al lavoro per gli uomini, ai bambini o alla religione per le donne): soltanto nei livelli superiori si trova spesso colui che appartiene a molte associazioni. Se poi si studia la frequenza alle attività associative, si trova che una cospicua quota di appartenenze è costituita da “appartenenze di carta”;

c) l’appartenenza locale. La situazione è a questo proposito molto più differenziata. Per il vicinato la gamma varia da aree locali in cui molte persone sono “intensi vicini”, ad altre in cui la maggior parte della gente conosce appena alcuni dei suoi vicini. Il medio abitante della città ha alcune relazioni informali di vicinato, ma esse non sono per lui molto significative: egli apprezza molto il vicino che è “una brava persona e ti lascia stare”. Anche l’identificazione e la partecipazione alla comunità locale offrono una vasta gamma di situazioni: tuttavia se la maggioranza delle persone identificano la loro area di residenza come “la loro vera casa”, coloro che preferirebbero vivere altrove, possono variare da una percentuale minima a più di metà dei residenti in una determinata area.

Queste tendenze nell’importanza e nell’attribuzione di significatività alle proprie appartenenze suggeriscono l’infondatezza di due importanti ipotesi della sociologia urbana tradizionale, che si reggevano sulla convinzione che nella città i rapporti sociali fossero soprattutto organizzati e formali:

a) con il declinare della comunità primaria e del vicinato ci si aspetta che l’amicizia sia più strettamente correlata all’organizzazione di lavoro: le ricerche citate mostrano invece che i compagni di lavoro costituiscono una parte minore delle relazioni primarie dell’individuo quando egli è fuori dal lavoro. In generale le relazioni di lavoro sono isolate dalla partecipazione primaria libera dell’abitante urbano;

b) contrariamente a quanto ci si può aspettare, la partecipazione culturale al divertimento organizzato è poco importante per gli adulti urbani. La maggior parte di essi partecipa con moderata frequenza a manifestazioni ricreative di massa (in concreto si tratta soprattutto di spettacoli cinematografici): la vera importanza dei mezzi di divertimento di massa è nella casa. Televisione e radio sono estremamente importanti, ma nel contesto della partecipazione familiare.

Se questi sono i risultati relativi a settori molto urbanizzati della città americana, ricerche condotte in altri Paesi rilevano un’analoga importanza delle appartenenze primarie di contro ad una debolezza di implicazioni in organizzazioni formali. Certamente se passiamo dalla situazione americana ad altri contesti culturali in cui il processo di urbanizzazione si è sviluppato secondo modalità diverse o non ha ancora raggiunto punte estreme, le conclusioni di Greer richiedono di essere per lo meno specificate: in nessun caso tuttavia è possibile sostenere che l’isolamento, l’anomia, e la formalizzazione dei rapporti siano i caratteri tipici della vita sociale urbana.

Uno studio di Oeser e Hammond a Melbourne ci offre un quadro simile a quello descritto da Greer: l’ordine sociale della città australiana è centrato sull’unità d’abitazione monofamiliare, sulla famiglia coniugale, parenti selezionati, il lavoro, e i mass media, questi ultimi consumati in casa. Le ricerche del Center for Urban Studies e soprattutto quelle dell’Institute of Community Studies arrivano a risultati convergenti per diversi quartieri di Londra: a Pimlico viene scoperta un’organizzazione sociale strettamente intessuta che è “proprio l’opposto dell’immagine scolastica dell’anomia urbana”; a Bethnal Green, Young e Willmott trovano la “famiglia estesa” e una ricca vita locale: gli abitanti sono “attaccati a mamma e papà, ai mercati, ai pubs e al quartiere, al Club Row e al London Hospital”, l’accentuazione del legame madre-figlia produce un tipo di three-generation family,. la scoperta di situazioni simili in quartieri diversi quanto a collocazione nell’area metropolitana e a caratterizzazione socio-economica e culturale, convince Willmott che non si tratta di persistenza anacronistica di vecchie forme di vita sociale, ma di tendenze generalizzabili.

Una ricca vita sociale, centrata sui rapporti parentali e di amicizia, e in molti casi comprendente una intensa vita di vicinato, si può rintracciare in diversi quartieri di Parigi e di altre città francesi. Ipotesi simili sembra si possano avanzare anche per la situazione italiana, anche se le ricerche in, proposito sono per il momento insufficienti per permettere adeguate generalizzazioni.



3. Questi pochi cenni bastano a mostrare come, nelle città, la vita di relazione sia centrata su intensi e frequenti rapporti personali -soprattutto con i parenti e gli amici -e suggeriscono la possibilità che, all’interno di questa generale tendenza, si possano riscontrare importanti differenze entro una società e tra diverse società. E’ però opportuno, prima di provvedere all’individuazione di alcune differenze culturali che qualificano la generale ricchezza di rapporti interpersonali entro la città, richiamare alcune ragioni storiche della nascita e della sopravvivenza degli stereotipi sull’anomia, l’isolamento, il significato dei rapporti formali, e i loro presupposti logici: e quindi la loro eventuale capacità di descrivere entro certi limiti alcune situazioni storiche e culturali particolari.

Nel definire la città alcuni dei primi studiosi antiurbani ricorrevano a termini negativi, concettualizzando l’urbano come il non-rurale: si parlava di anomia, indebolimento del gruppo primario, ecc. Queste definizioni, oltre a riflettere nostalgie ruralistiche, assumevano che ciò che è astratto e impersonale non è reale ( per cui reale è il legame che consiste nel salutare il vicino, e non lo spartire con lui, magari senza saperlo, un pregiudizio contro i meridionali). Oggi, con lo sviluppo dell’urbanesimo, la definizione negativa è insufficiente, in quanto è la cultura urbana quella dominante, e questa cultura è condivisa anche dai sociologi. Ma il pensare alla città in termini negativi continua a pesare sulla sociologia urbana favorendo l’errore logico antico: teorizzare sul fatto che nella città sono assenti alcuni caratteri (per di più mitizzati) della campagna.

Molti dei concetti teorici impiegati erano, in parte a causa dell’errore precedente, tali da frapporre enormi difficoltà alla possibilità di verifica. Due di essi, il concetto di continuum rurale-urbano e l’ipotesi secondo cui i caratteri dell’interazione urbana dipendono principalmente dalla dimensione e dalla densità dell’aggregato ( espresse in termine di popolazione ) erano fondamentali per le impostazioni sotto esame: ed entrambi sono da tempo sottoposti a severe critiche di carattere metodologico. Si trattava di impostazioni che procedevano per “tipi ideali”, ma con una certa tendenza a reificarli: ne risultava un postulato di incompatibilità tra tipi “opposti”, così che ci si aspettava che in una società caratterizzata da rapporti secondari non vi fosse posto per rapporti primari. Sembra certo che questo uso improprio della categoria “tipo ideale” fosse connesso a quell’atteggiamento ideologico, sostanzialmente antiurbano, che incoraggiava a interpretare la situazione presente sul metro di una situazione passata (idealizzata).

Goode lo mette chiaramente in rilievo a proposito delle teorie sulla famiglia moderna. È probabile che molti errori nell’interpretazione delle trasformazioni della famiglia siano imputabili alla tendenza a misurare il cambiamento sulla base di un tipo ideale del passato. Secondo Goode la famiglia classica della nostalgia occidentale è un mito. Così come la famiglia coniugale è un tipo ideale: abbiamo visto che in Inghilterra e negli Stati Uniti la famiglia delle classi meno elevate -probabilmente la meno estesa delle famiglie - riconosce un campo di parentela più largo di quello che si inscrive nell’unità nucleare. E almeno sotto questo aspetto il modello di tipo ideale non riesce a render conto della realtà e della teoria sociale: i legami tra certe categorie di parenti sono così forti che il sistema familiare “ non può essere limitato alla unità nucleare senza l’impiego della forza politica». La contrapposizione tra i due tipi per misurare la trasformazione sulla base delle caratteristiche imputate al primo è anche responsabile delle ingiustificate apprensioni sulla crisi della famiglia: il pessimismo di coloro che, non ritrovando nella famiglia moderna alcuni lineamenti cui erano abituati, ritenevano che fosse la famiglia a sparire e non quei lineamenti, si fondava su quell’atteggiamento retrospettivo cui abbiamo accennato.

Certamente nel processo di urbanizzazione si possono individuare degli aspetti negativi: soprattutto in un processo di urbanizzazione rapida o in generale nelle prime fasi del processo, è facile notare manifestazioni patologiche. È la città di queste prime fasi - quella in cui slums, delinquenza e malattie sono più frequenti - che gli antichi sociologi urbani prendevano come base della loro teorizzazione. Essi non conoscevano la città dei suburbia, del baby-boom e del benessere, su cui teorizzano i sociologi urbani revisionisti: è insomma possibile che le divergenze tra pessimisti e ottimisti dipendano in parte da differenze nei rispettivi oggetti di studio.

Tuttavia il problema non è così semplice. Perché, vi abbiamo accennato, è in certe caratteristiche metodologiche che va ricercata la peculiarità delle ipotesi della vecchia sociologia urbana. Certo nelle prime fasi dell’urbanizzazione la città può essere più facilmente descritta nei termini delle vecchie ipotesi: ma è la “idealizzazione” (negativa) di questo tipo di città che diventa discutibile. Dubbi sul pessimismo relativo alla città erano già stati sollevati dagli inizi: studiosi come Adna Weber non erano affatto convinti che la città portasse alla rovina morale. Gli stessi ecologi classici credevano all’esistenza di processi anabolici-catabolici e di successioni alternate di processi di disorganizzazione e organizzazione.

Ma era la disorganizzazione che in definitiva veniva sottolineata: sul piano metodologico si assumeva che non un’organizzazione, ma la disorganizzazione sociale esisteva nella città, e come conseguenze della disorganizzazione venivano interpretati i fenomeni urbani. A parte gli errori metodologici che di fatto erano presenti in tale tipo di analisi, ci interessa qui mettere in rilievo come la teoria della disorganizzazione sociale si fondasse su una particolare concezione derivata da Cooley e Mead dei legami tra rapporti sociali e stati psicologici. Si assumeva in particolare che l’assenza di “stretti” rapporti con gli altri portasse ad un io ambiguo e a uno stato psicologico confuso, e che una rete di rapporti sociali poteva essere mantenuta solo se si mantenevano stretti rapporti sociali fondati su stati psicologici stabili. Poiché gli abitanti della città - soprattutto delle aree centrali - non avevano stretti rapporti sociali, ma quei rapporti “formali” che, non essendo “reali”, non erano capaci di produrre una rete di appartenenza consistente e quindi un io consistente, essi dovevano essere particolarmente esposti a malattie mentali, al suicidio, ecc. Il pessimismo degli studiosi della città si rivolgeva all’aspetto trasformante del processo di urbanizzazione - quello che privava gli abitanti della città dei loro rapporti - ed era particolarmente accentuato in quanto particolarmente profonde erano le trasformazioni che essi osservavano.

Ma ben presto divenne chiaro che non il processo di urbanizzazione in sé, con la sua azione trasformante, provoca conseguenze negative, ma il modo in cui il , processo viene affrontato. Non la trasformazione, ma la trasformazione inattesa sconvolge i processi psicologici. Una trasformazione “ordinata” può sostenere una particolare struttura sociale piuttosto che distruggerla. Nei Paesi sottosviluppati - nota un rapporto delle Nazioni Unite - molte delle cosiddette conseguenze dell’industrializzazione (e dell’urbanizzazione) non sono le conseguenze dell’industrializzazione stessa, ma piuttosto della preservazione - o della tentata preservazione - di modi di vita preindustriali in un ambiente estraneo e inappropriato. In definitiva la negatività con cui il processo di urbanizzazione si manifesta è inversamente proporzionale alla capacità di affrontarlo: dipende dall’attrezzatura sociale di cui la società dispone, e in particolare dai modi di orientamento in essa diffusi.

Di conseguenza il pessimismo sul processo di urbanizzazione in sé - per quel che riguarda i rapporti sociali e gli stati psicologici connessi - non si giustifica. La ragione è duplice. Innanzitutto quella semplice relazione tra stati psicologici e struttura sociale, tra mancanza di rapporti stretti e ambiguità dell’io, non è necessaria: i moderni studi sulla struttura sociale urbana lo dimostrano abbondantemente. Inoltre non è neppur vero che nella città i rapporti sociali “stretti” sono scarsi: ed è l’illustrazione di questo secondo aspetto che costituisce l’oggetto del- la nostra discussione. Già Whyte aveva mostrato come gli abitanti degli slums fossero tutt’altro che privi di rapporti sociali significativi. In seguito - ne abbiamo accennato - le ricerche che hanno contestato l’anomia e l’isolamento degli abitanti della città si sono moltiplicate. Sulla base di queste ricerche è facile mostrare che nelle città i rapporti personali sono estremamente intensi e significativi per la maggior parte degli abitanti; si configurano secondo modalità in parte coincidenti, in patte diverse rispetto al passato; sono inseriti in un mondo di organizzazioni e si caratterizzano in relazione ad altri tipi di appartenenze; e soprattutto l’equilibrio tra i diversi tipi di rapporti sociali varia enormemente secondo le situazioni e i gruppi sociali svelando l’enorme differenziazione della realtà urbana. Mentre la vecchia sociologia urbana si riferiva alla città come ad un’entità omogenea limitandosi ad individuarvi la “presenza” o la “assenza” di certi caratteri.



4. Le appartenenze sociali degli abitanti della città assumono diverse configurazioni secondo il grado di urbanizzazione che una società o un suo settore ha raggiunto. Inoltre le configurazioni variano con le diverse caratteristiche strutturali e culturali delle diverse aree urbane o di loro settori. Sotto questo secondo aspetto le differenze possono essere considerate indi- pendenti dal grado di urbanizzazione, anche se questo è di per sé una variabile culturale, e anche se le differenze interne ad una società emergono con chiarezza nelle fasi più avanzate del processo di trasformazione: quando la società è divenuta “urbana” e il confronto - piuttosto che con il “rurale” - diviene sempre più confronto tra diversi tipi di “urbano”.

Nota Axelrod che a Detroit “l’appartenenza e la partecipazione a gruppi formali non erano distribuite casualmente nella popolazione, ma erano correlate a quelle che son considerate alcune delle caratteristiche fondamentali e differenziatrici nella nostra società”.Osservazioni analoghe vengono fatte praticamente da tutti coloro che studiano le appartenenze sociali. Secondo Chombart de Lauwe gli abitanti della città “sono divisi in più possibilità di scelta nelle loro relazioni. Un equilibrio deve stabilirsi tra i rapporti di vicinato e i rapporti di parentela, i rapporti di lavoro, e le amicizie elettive che costituiscono reti più o meno importanti secondo le famiglie”: secondo l’importanza che si attribuisce all’una o all’altra scelta, o secondo la possibilità che si ha di trovare rapporti attraverso l’uno di questi canali, la comunicazione con gli altri uomini prende una figura particolare. Tra i più importanti caratteri che selezionano, in funzione di un particolare equilibrio, i rapporti sociali di una persona o di una famiglia sono il suo status sociale ( espresso soprattutto in termini di reddito e istruzione) , la sua età, il suo sesso.

In relazione ai rapporti primari con parenti e amici i fattori di differenziazione agiscono sul contenuto dei rapporti più che sulla loro quantità. Fermo restando il fatto che i rapporti con amici e parenti sono frequenti e significativi per qualunque categoria di abitanti della città, è possibile ad esempio che i membri delle classi elevate possano trovare più facilmente i loro amici tra i compagni di associazione. Greer ritiene inoltre che negli strati socio-economici superiori - dove l’amicizia è spesso strumentale per fini economici - gli amici possano coincidere maggiormente con i compagni di lavoro. La stessa possibilità viene proposta per le donne lavoratrici non sposate, per le quali il lavoro sostituisce la parentela come ambito sociale predicibile. Infine è probabile che gli amici ( specialmente i gruppi di amici) siano più importanti per i giovani che per altre classi di età per le quali la famiglia può essere più significativa. Per i rapporti con i parenti l’interpretazione è problematica: se da una parte molte famiglie operaie hanno stretti rapporti con i parenti, dall’altra è possibile che per esse la situazione vari notevolmente secondo il tipo di quartiere. Sembra credibile l’ipotesi di Vieille secondo cui soltanto le famiglie borghesi possono sempre intrattenere rapporti con la famiglia estesa, mentre le famiglie operaie possono essere costrette a limitare i rapporti alla famiglia coniugale e quindi a centrare gran parte della loro vita di relazione sui rapporti di vicinato.

L ‘implicazione in rapporti a base locale sembra più sensibile all’influenza dei fattori di differenziazione accennati. E’ probabile innanzitutto che le donne abbiano con i vicini rapporti più frequenti anche se spesso si tratta di rapporti superficiali e che ai bambini il vicinato fornisca un ambiente significativo per la loro educazione e socializzazione, e che di conseguenza in qualunque tipo di situazione le donne e i bambini costituiscano la base del mantenimento di una certa quantità di vita di vicinato nella città moderna. Ma è in termini di status e classe sociale che si spiegano le principali differenze nell’importanza relativa dei rapporti coi vicini rispetto ad altri tipi di rapporto. Gli studi citati che hanno rintracciato una più o meno accentuata importanza dei rapporti con i vicini in Inghilterra, in Francia e in Italia, sono ricerche su aree abitate da popolazioni a basso livello socio-economico: soprattutto in Francia gli studiosi della vita sociale della città sembrano concordi nel ritenere che le relazioni di vicinato sono molto più sviluppate negli ambienti operai, mentre le classi borghesi sono più orientate verso amicizie elettive. La stessa tendenza, per motivi che vedremo, non sembra riscontrabile negli Stati Uniti, dove, in particolare, l’identificazione con l’area di residenza e la partecipazione in essa alle attività associative possono essere maggiori in aree di medio o alto livello socio-economico.

Soprattutto è la partecipazione ad attività associative che mostra una forte dipendenza dai fattori di differenziazione accennati. Fermo restando che appartenenza e partecipazione in associazioni sono relativamente scarse in qualunque categoria di abitanti della città, sesso, età e status sociale selezionano i tipi e le dimensioni dell’implicazione associativa: è possibile che i giovani siano più orientati ad attività ricreative che “politiche” e le donne, la cui attività associativa è in assoluto più scarsa di quella degli uomini, si orientino di preferenza ad attività in associazioni religiose, caritative, educative (e quindi tendenzialmente più localistiche); mentre tra le appartenenze più diffuse presso gli uomini vi sono quelle connesse al lavoro (soprattutto appartenenze a sindacati). Ma soprattutto è dallo stato sociale che dipende la partecipazione ad associazioni: sembra che l’appartenenza e l’impegno aumentino passando dagli strati inferiori a quelli superiori (definiti in termini di reddito, professione, istruzione). In particolare presso gli strati socio-economici superiori sono più diffusi i membri “attivi” egli appartenenti a più associazioni (appartenenze multiple).

In sostanza possiamo concludere che l’abitante della città trova tra le sue appartenenze sociali un equilibrio che varia secondo l’età, il sesso, lo status sociale. É soprattutto il ruolo dello status sociale che è stato individuato con chiarezza: in generale le persone di status elevato partecipano ad attività formali (connesse al lavoro e al tempo libero) più di quelle di status modesto che sono coinvolte in modo più significativo in reti informali di vicinato. Più problematica appare la dipendenza dalle variabili accennate dei rapporti con amici e parenti, che sono comunque frequenti e significativi per qualunque categoria di abitanti delle città.

5. Se vogliamo rintracciare i fattori specifici che spiegano la relazione tra categoria sociale (soprattutto lo strato sociale) e l’equilibrio tra appartenenze (lo vediamo in particolare a proposito dell’importanza dei rapporti con i vicini e della partecipazione locale) , è necessario prestare attenzione alle opportunità concrete di cui le diverse categorie dispongono. Tra di esse la configurazione del tempo libero e l’accesso ai mezzi di trasporto sono stati spesso indicati come significativi: una miglior collocazione o una maggior disponibilità di tempo libero o il possesso di un’auto aumentano la libertà di scegliere le proprie relazioni al di fuori del vicinato. Éevidente che queste ed altre opportunità sono diversamente distribuite tra le diverse categorie sociali, come diversa è d’altra parte la distribuzione di interessi e valori culturali che, in parte correlate con le opportunità, dovrebbero giocare nella scelta delle relazioni sociali.

Sono ancora Chombart de Lauwe e Greer che riferiscono a differenze culturali le differenze nell’equilibrio tra le appartenenze sociali. Greer suggerisce che i modi di vita delle popolazioni urbane sono differenziate lungo un continuum che va da un modo di vita “familistico” ad uno “urbano”. A quest’ultimo corrispondono vicinati in cui predominano persone singole, coppie senza figli, e famiglie con un figlio; all’estremo opposto troviamo unità di abitazione monofamiliari abitate da famiglie con diversi figli, dove il ruolo della donna è quello di moglie e madre invece che di partecipante alla forza di lavoro. Tra i due vi è una gamma di tipi intermedi. I due tipi non si differenziano quanto all’equilibrio tra appartenenze primarie e secondarie, ma piuttosto quanto al significato dell’area locale: nei vicinati familistici vi sono più rapporti di vicinato e maggior partecipazione (formale) locale; anche se - come vedremo - in nessun caso si stabiliscono quelle comunità primarie a base locale che alcuni teorici della partecipazione ritengono, o ritenevano, ideali.

Per Chombart de Lauwe vi è una evidente differenza culturale tra le famiglie operaie e quelle borghesi: una “divergenza di concezioni sulla solidarietà e la libertà”. Nei vicinati operai l’“apertura” è molto apprezzata: è più importante condividere con i vicini le pene e le gioie della vita quotidiana che preservare quella privacy che invece per le classi borghesi, che si rivolgono piuttosto ad amicizie elettive, è un valore preminente.

Dopo quanto si è detto sulle “opportunità concrete” delle diverse categorie sociali, non è certo il caso di ipotizzare la superiorità di una mitizzata cultura operaia rispetto a quella borghese o viceversa, odi quella familistica su quella urbana o viceversa. Per Chombart de Lauwe le diverse “concezioni sulla libertà e la solidarietà” sono legate alle diverse condizioni di vita; tra le quali egli indica anche alcune costrizioni materiali: nei quartieri operai i rapporti di vicinato sono imposti dalle difficoltà della vita quotidiana e dai costi dei mezzi di trasporto. Con l’elevazione dei livelli di vita i rapporti di vicinato diminuiscono fino a divenire praticamente inesistenti nelle famiglie borghesi: anche in queste classi però le amicizie non sono propriamente di elezione, ma sono rigidamente discriminate da proibizioni familiari, di casta, di classe. Si può ben dire che se le famiglie borghesi sono sfuggite alle imposizioni del vicinato, le loro relazioni sociali incontrano altre costrizioni ed ostacoli. Altri autori francesi e italiani concordano nel ritenere che la vita di vicinato si associa spesso alla miseria e al bisogno. Quanto alla possibile superiorità del modo di vita familistico rispetto a quello urbano o viceversa, tutta la sociologia urbana statunitense non è che una documentazione dei difetti - dell’uno o dell’altro “stile”.

Se si insiste qui sull’importanza dei fattori culturali nel determinare l’equilibrio tra le appartenenze sociali dell’abitante della città è solo perché si ritiene che con l’avanzare del processo di urbanizzazione e l’attenuarsi delle costrizioni materiali, la futura realtà urbana sarà sempre più differenziata in base a fattori culturali (il comportamento delle classi borghesi sopraccennato lo testimonia). Avremo una società urbana in cui saranno presenti diversi comportamenti tutti altrettanto urbani differenziati secondo variabili culturali. Greer e Chombart de Lauwe ci hanno offerto due esempi di come i comportamenti si potranno differenziare.

6. A questo punto sorge una domanda che è di importanza fondamentale in molti problemi di politica urbana: se le differenze nell’equilibrio che una persona trova tra le sue appartenenze sia rapportabile a differenze nel tipo di unità residenziale (quartiere o vicinato) in cui vive.

Sia Chombart de Lauwe che Greer "concordano nel ritenere che la scelta delle appartenenze sociali fa parte di un modo di vita e dipende perciò da quei fattori culturali e strutturali che configurano diversamente i modi di vita per diversi settori della popolazione. Sorge perciò il problema di individuare qual.i siano le variabili, i tipi di raggruppamento, i livelli di aggregati che differenziano significativamente i modi di vita in relazione alle conseguenze che essi possono avere per la scelta di rapporti sociali. Ora, da quanto abbiamo detto, sembra probabile che per la configurazione delle appartenenze siano innanzitutto significative alcune grosse differenziazioni che si possono riferire alla società globale ( come le classi sociali) o al background sociale in generale (come il sesso e l’età): è possibile cioè innanzitutto individuare modi di vita tipici delle classi inferiori, o dei giovani, o delle donne ( con le relative differenzi azioni interne) e ritenere che ad essi siano associati tipici equilibri tra le appartenenze.

Questi modi di vita possono essere rintracciati presso i membri della categoria di cui sono tipici, qualunque sia il tipo di unità residenziale in cui abitano: e quindi in un certo senso sono indipendenti dal tipo di unità residenziale. Sembra tuttavia innegabile che il tipo di comunità, quartiere, o vicinato in cui una persona risiede -assumendo esso stesso certe sue caratteristiche strutturali e culturali -possa influire sull’equilibrio delle appartenenze degli abitanti attraverso fattori locali (non riducibili cioè alle caratteristiche sociali dei singoli abitanti o dei loro gruppi di appartenenza). In altre parole l’area locale, che è sede di rapporti sociali, può diventare fattore che concorre con altri a determinare i rapporti sociali.

I due autori citati possono concordare anche su questo punto. Greer riferisce esplicitamente i due modi di vita, che ritiene significativi per le appartenenze, ad unità residenziali, proponendo l’ipotesi di un continuum che va da vicinati familistici a vicinati urbani. Chombart de Lauwe, che pure ritiene significativa (tra le altre) una differenza culturale di tipo non-locale come è quella tra operai e borghesi, in concreto riferisce quasi sempre la distinzione culturale ad una dimensione locale, illustrando la vita dèi “quartieri” operai e dei “quartieri” medi. È questa tendenza a riferire continuamente i modi culturali ad aree di residenza che ci fa supporre che l’unità di residenza abbia essa stessa un ruolo nel determinare le appartenenze: che cioè le differenze di comportamento tra un operaio e un borghese possano non essere completamente determinate dal fatto che essi appartengono a diverse classi, ma anche dal fatto che abitano in diversi quartieri.

Perché l’abitare in un quartiere piuttosto che in un altro possa avere un peso sul comportamento sociale è evidente: un quartiere prima che un ambiente fisico è un ambiente sociale che ha una sua struttura e cultura. Struttura e cultura che dipendono prima di tutto dalla composizione sociale della popolazione: i diversi gruppi che abitano il quartiere portano in esso i loro valori e stili di vita (che condividono con i membri degli stessi gruppi che abitano altrove) , determinando una struttura e una cultura che possono secondo i casi favorire certi tipi di appartenenza o certi altri (ad esempio rapporti di vicinato piuttosto che amicizie elettive) che possono variare o meno per i diversi gruppi che costituiscono la popolazione del quartiere. In certi casi l’area locale può diventare, secondo l’espressione di Greer, “un fatto sociale oltre che una sede geografica di attività”: è il caso dei vicinati familistici. Tuttavia qualunque sia il risultato, la struttura e la cultura che si costituiscono (a volte si tratta semplicemente di assenza di cultura o struttura riferibili al quartiere come tale) condizionano socialmente e psicologicamente il comportamento degli . abitanti. Questo in ogni caso.

Per capire di che condizionamento può trattarsi basta pensare alle probabilità di comportamento di un operaio in un quartiere borghese e viceversa. Bell osserva che a San Francisco le persone con occupazioni “devianti” rispetto al vicinato sono più spesso isolate dai loro vicini: sono di più i white collars che non i blue collars che riferiscono di essere isolati dai vicini nei vicinati blue collars) mentre nei vicinati white collars avviene il contrario.Ovviamente il condizionamento non ha lo stesso significato e le stesse conseguenze per tutti i gruppi sociali che abitano il quartiere. Certi gruppi sociali (come gli strati inferiori, le donne e i ragazzi) possono avere un “modo di vita” che - non comprendendo tra l’altro l’accesso ai mezzi di trasporto privati - li rende più “passivi” rispetto al condizionamento del quartiere, qualunque sia la cultura dominante nel quartiere: spesso l’alternativa che viene loro offerta non è tra rapporti coi vicini o amicizie elettive, ma tra rapporti nel quartiere e isolamento.

Se si può ammettere che l’area locale può svolgere un ruolo nel determinare le appartenenze sociali degli abitanti, piuttosto equivoca e in definitiva insostenibile risulta quella formulazione del problema che vorrebbe riferire il comportamento sociale degli abitanti (e quindi le loro appartenenze) alle caratteristiche fisiche del quartiere. Certamente un quartiere è costituito da una popolazione che risiede in un certo ambiente fisico (con certe attrezzature, una certa disposizione degli edifici, ecc.): ma non è l’ambiente fisico che spiega il comportamento degli abitanti (se non come condizionamento “negativo”), quanto piuttosto la struttura e la cultura della popolazione residente che “definiscono” l’ambiente fisico. Per cui in definitiva il problema si ridurrebbe a quello precedente dell’influenza dell’ambiente sociale del quartiere.

Gans ha proposto un’utile distinzione tra ambiente potenziale e ambiente effettivo. La forma fisica e la collocazione spaziale sono soltanto un ambiente potenziale in quanto forniscono possibilità di comportamento sociale. L’ambiente effettivo - o totale - è il prodotto di quei modelli fisici più il comportamento della gente che li usa, che varierà secondo la loro struttura sociale e cultura. Per Greer non sono le caratteristiche dell’ambiente che rendono “fatto sociale” oltre che sede di attività l’area locale, ma la cultura familistica tipica di certe popolazioni con certe composizioni sociali.

É in questa luce che vanno interpretati i risultati di molte ricerche che trovano certe relazioni tra tipo di rapporti sociali e collocazione del vicinato nel modello spaziale dell’area urbana. Si tratta di risultati parzialmente contrastanti, in quanto secondo i casi si può trovare che i residenti nella città centrale tendono a limitare i loro contatti all’interno della città stessa, mentre i residenti nei sobborghi hanno spesso relazione fuori della loro città o che gli abitanti dei vicinati suburbani hanno un maggior interesse per il vicinato. L’apparente contraddizione si spiega se si pensa che entro un’area suburbana o centrale vi possono essere vicinati diversi quanto a tipo di popolazione.

Questa precisazione ci permette di fare un’ulteriore considerazione sui rapporti tra spazio e vita sociale. É opinione ormai corrente che nella metropoli è diminuito il significato della localizzazione nello spazio come fattore di differenziazione della struttura sociale urbana. L’attività sociale dell’abitante della città è selettiva: egli oltre che tra i vicini può scegliere le sue relazioni sociali tra la vasta gamma di raggruppamenti con cui entra in contatto. Come l’unità residenziale, anche l’unità di lavoro, le unità ricreative, ecc., hanno loro caratteri strutturali e culturali che concorrono con quelli dell’unità residenziale a configurare le appartenenze sociali dell’abitante della città che entra in contatto con essi: trattandosi di unità le cui basi territoriali non coincidono, o non sono identificabili, ne risulta una perdita di significato dell’area (quella residenziale in particolare) nel differenziare la struttura urbana. Anderson arriva a differenziare dai “vicinati di partecipazione primaria” quelli “di partecipazione secondaria” e a integrare il concetto di vicinato con quello di “rete” di conoscenza e amicizia: “un’astrazione che può essere usata con o senza la dimensione spaziale così necessaria al concetto di vicinato”.

L’emergenza, accanto a reti “a maglia stretta” di reti “a maglia larga” -quelle in cui le persone in relazione con una determinata famiglia possono non avere relazioni tra di loro -non è che un aspetto di una tendenza da tempo individuata: una minor “coerenza” delle reti di rapporti, cui si accompagna una maggior indeterminatezza del rapporto tra reti sociali e territorio.

In generale le reti di rapporti sociali tendono a sfuggire alla possibilità di essere identificate con delle basi territoriali, perché le trame dei rapporti si stabiliscono sulla base di interessi e attività che non hanno un preciso riferimento topografico. In altre parole lo spazio tende ad essere una risorsa piuttosto che fattore di rapporti sociali.

Per gli Stati Uniti la tendenza è efficacemente illustrata da Webber in questi termini: “Le comunità, con cui egli (l’abitante della metropoli) si associa e a cui egli “appartiene”, non sono più soltanto le comunità di luogo in cui i suoi antenati erano rinchiusi; gli Americani stanno diventando più strettamente legati a varie comunità di interesse che a comunità di luogo, interessi basati su attività occupazionali, divertimento, relazioni sociali, o desideri intellettuali. I membri di comunità d’interesse entro una società in libera comunicazione non hanno bisogno di essere spazialmente concentrati (tranne, forse, durante le fasi formative dello sviluppo della comunità d’interesse), perché essi sono sempre più in grado di interagire l’un l’altro dovunque essi siano localizzati. Questo impressionante carattere dell’urbanizzazione contemporanea sta rendendo sempre più possibile per uomini di tutte le occupazioni di partecipare alla vita nazionale”.

Se la localizzazione spaziale perde di importanza nelle aree metropolitane, è però probabile che l’affermarlo non abbia lo stesso significato per diversi tipi di società urbana. Così come, in parte per gli stessi motivi, non ha ugual significato affermare in Italia piuttosto che negli Stati Uniti che la struttura urbana tende a differenziarsi in base a fattori culturali, in base agli “stili di vita”. L’immagine della metropoli i cui abitanti sono in grado di “interagire l’un con l’altro ovunque essi siano collocati” descrive meglio Detroit o Los Angeles che Parigi o Genova.

Per Greer lo stile di vita è diventato il più importante fattore di differenziazione della struttura urbana. A tal punto che, se è vero che in generale i vicinati più urbani si collocano nella città centrale e quelli più familistici nei suburbia, si possono ormai trovare vicinati urbani nelle aree suburbane e vicinati suburbani nella città centrale. Ma la rilevanza dello stile di vita è emersa quando i suburbia sono diventati accessibili a popolazioni di status sociale meno elevato: quando cioè un numero cospicuo di individui è stato in grado di scegliere la propria residenza nel tipo di vicinato in cui gli fosse possibile vivere secondo il suo “stile di vita”, uno stile che implicasse rapporti con i vicini o uno stile che li escludesse, scontata però la possibilità di aver accesso a rapporti con l’esterno qualora lo si desiderasse. Queste sono condizioni in cui è probabile che le differenze culturali relative alla struttura urbana si configurino a livello di vicinati piuttosto che direttamente secondo raggruppamenti della società globale. Il continuum familistico urbano ovviamente suggerisce una distinzione tra unità locali piuttosto che tra raggruppamenti sociali più vasti.

Invece la distinzione culturale di cui si serve Chombart de Lauwe - quella tra stili borghesi e operai - richiama innanzitutto una distinzione tra raggruppamenti sociali globali. Essendo l’accessibilità entro le città francesi limitata (soprattutto per certi strati sociali) , assume maggior importanza da una parte la differenziazione culturale in base a variabili generali (soprattutto di classe), dall’altra la rilevanza dell’area locale come fattore di condizionamento (soprattutto per certe classi sociali).

Ci si può attendere in definitiva una certa relazione tra diffusione dell’ accessibilità (intesa sia come possibilità di scegliere l’area di residenza che si preferisce, sia come possibilità di scegliere le proprie relazioni fuori dell’area in cui si risiede: e quindi come “libertà” dalla collocazione spaziale) e tendenza delle differenze culturali significative per la strutturazione urbana a porsi a livello di unità locali piuttosto che di raggruppamenti della società globale.

7. L’ analisi delle appartenenze sociali ci mostra l’emergenza nelle aree metropolitane di alcune tendenze che rendono inadeguate alcune diffuse ipotesi sulla formalizzazione e l’anomia della vita sociale urbana. Alla luce dei risultati degli studi sulle aree metropolitane americane, Greer può concludere che “l’implicazione dell’individuo comune nelle organizzazioni formali e nelle amicizie fondate sul lavoro è debole in ogni tipo di vicinato, i mass media sono per lo più importanti in un contesto familiare, la partecipazione in circoli parentali e amicali è potente, ma quella con i vicini e i gruppi della comunità locale varia enormemente secondo le aree. Anche se popolazioni altamente urbanizzate non sono tipiche della maggior parte degli abitanti della città, quelle che esistono deviano largamente dallo stereotipo dell’uomo atomistico e in stato di anomia: essi vivono le loro vite in relativo isolamento dal vicinato, dalla comunità, e dalle organizzazioni volontarie, ma trovano una compensazione attraverso un’implicazione intensiva in relazioni primarie con parenti e amici”.

Nei vicinati meno urbani, è maggiore l’implicazione dei suoi residenti nelle organizzazioni volontarie e maggiore il loro interesse per il vicinato e la comunità locale e la loro partecipazione ad essi. L’area locale diventa un fatto sociale, oltre che una sede geografica di attività.

Il quadro che emerge è quello di una società in cui la famiglia coniugale è estremamente potente tra tutti i tipi di popolazione. “Questa piccola struttura di gruppo primario è un’area fondamentale di implicazione; all’altro polo c’è il lavoro,’ un massiccio assorbitore di tempo, ma un’attività che raramente ha relazioni con la famiglia attraverso amicizie esterne con i compagni di lavoro. Invece la famiglia, la sua parentela, e il suo gruppo di amici, sono relativamente liberi, entro il mondo delle associazioni secondarie di larga scala. Burgess ha messo in evidenza che l’indebolimento di una comunità primaria risulta in un aumento della relativa dipendenza degli individui dalla famiglia coniugale come sorgente di relazioni primarie; lo stesso principio spiega la persistente importanza della parentela estesa e la proliferazione delle amicizie strette nell’America urbana. Nella metropoli la comunità, come solida falange di amici o conoscenti, non esiste; se gli individui devono avere una comunità nel vecchio senso di comunione, se la devono fare da sé. Queste condizioni sono a un estremo nei vicinati altamente urbani, là amicizie e parentela sono, relativamente, molto importanti nel mondo sociale dell’individuo medio. In altri tipi di vicinato la famiglia si identifica di solito, sia pur debolmente, con la comunità locale i essa “fa vicini”, ma entro limiti ristretti. Più o meno, il gruppo della famiglia coniugale se ne sta da solo; al di fuori c’è il mondo - organizzazioni formali, lavoro, e la comunità”.

Può darsi che non si possa ancora vedere in questo quadro un’immagine adeguata della vita sociale di molte città europee: quello che è certo è che questa è la tendenza rilevabile dovunque. D’altra parte anche per le città americane Greer ritiene necessario distinguere tra “tipi” diversi. Sono le tendenze comuni verso certi tipi di rapporto e, entro queste tendenze, le differenziazioni relative a certi raggruppamenti sociali e a certe variabili culturali che ci descrivono la situazione della vita sociale urbana della nuova città e fanno emergere nuovi tipi di problemi.

Se il quadro precedentemente delineato è corretto, possiamo concludere che non sono la scarsità di raggruppamenti primari in rapporto a quelli formali o la scarsità assoluta di rapporti significativi a caratterizzare la vita sociale degli abitanti della città moderna, ma la particolare configurazione che le reti di appartenenza assumono nelle loro reciproche relazioni. La base territoriale delle reti di rapporti sociali tende, lo abbiamo visto, a divenire indeterminata. Inoltre, è stato notato, il sistema di relazioni sociali nella città tende a diventare “incoerente”. Osserva Anderson che, mentre i “membri di una comunità primitiva si trovano tutti più o meno nella stessa trama di relazioni, nella comunità moderna ogni individuo ha il proprio ambito di rapporti e, di conseguenza, una particolare concezione della comunità a seconda del lavoro, della mobilità, della classe sociale, dei gruppi cui appartiene, dell’età, delle tendenze cosmopolite. La comunità come ambiente ove si hanno gli stessi interessi e si trova il maggior adempimento della propria vita, ha un significato diverso perfino per persone della stessa famiglia”. Dalla comunità in una “prospettiva locale” - vi abbiamo già accennato - si passa alla comunità in una “prospettiva globale”: i contatti al di fuori della comunità si moltiplicano ed ogni comunità si trova in un intreccio di comunità, mediante la partecipazione al quale può elaborare una propria trama di rapporti forniti di un certo grado di identità: questa costituisce la globalità.

Gli antichi sociologi urbani si erano resi conto della complessità delle reti sociali in cui sono implicati gli abitanti della città. Questa complessità comporta un’eclissi dei tipi tradizionali di comunità: certamente per gli abitanti di uno stesso quartiere può mancare una rete di relazioni sociali “coerente”, una implicazione di strutture particolari entro una struttura di insieme, e una “presa di coscienza sufficiente per gli interessati dei legami che li uniscono”. Quello che ha generato l’equivoco è stato il ritenere che esistesse una relazione tra “inconsistenza” delle reti sociali e isolamento. Ma tale relazione non ha bisogno di essere assunta.

Se un isolamento esiste nella società urbana non c’è l’isolamento degli individui, ma l’isolamento tra le loro reti di appartenenza. Le relazioni di lavoro sono isolate da quelle per il tempo libero e da quelle familiari, quelle associative da quelle primarie. Inoltre le relazioni emozionalmente più significative - quelle personali, a livello di piccoli gruppi - si isolano dalle altre, privatizzandosi: e ciò proprio nel momento in cui le appartenenze pubbliche significative tendono a centralizzarsi configurandosi a livello di grandi collettivi (partiti, comunità nazionali, ecc.). Come risultato, le relazioni intermedie - comunità locali e associazioni - si indeboliscono quanto a partecipazione significativa e divengono sempre più appannaggio di determinate élites. Non è chi non veda a questo punto come la nuova configurazione delle appartenenze sociali riproponga vecchi problemi “politici” e ne imponga di nuovi.

8. a) Il vecchio problema dei raggruppamenti intermedi non può essere posto nei termini in cui lo proponevano i teorici della partecipazione, democratica “di base”, che vedevano nella caratteristica primaria di tali raggruppamenti la salvaguardia della democrazia. Se è vero che poche sub-aree urbane corrispondono all’anonimità e alla frammentazione dello stereotipo, ancor meno sono quelle che corrispondono al tipo di comunità primaria su basi locali o connessa ai raggruppamenti organizzativi tipici della società moderna: né le une né le altre costituiscono la regola nella società moderna.

In ogni caso le sedi dei rapporti primari sono private: la famiglia e gli amici. In nessun caso si costituiscono comunità primarie in senso tradizionale o nel senso auspicato dai teorici della democrazia dal basso (che avrebbero una qualificazione pubblica): perché nessuno dei maggiori segmenti organizzativi della società urbana né le organizzazioni volontarie sono in grado di fornire la base per tale comunità. E perché l’area locale è funzionalmente debole. Certamente la struttura associativa locale varia secondo le situazioni. Negli Stati Uniti, secondo Greer è correlata al familismo, nel senso che meno urbano e più familistico è il vicinato, più vi è probabilità che si costituiscano rapporti primari su base locale (con i vicini): in questo caso la contiguità geografica, costituendo un campo per l’azione sociale, diventa la base di una interdipendenza, e poi di una partecipazione.

Nel caso di vicinati “localistici” o di settori di popolazione “localistici” (le donne, i bambini, e in certi casi gli strati inferiori) , o di problemi tendenzialmente locali (rapporti scuola-famiglia, attività per il benessere del quartiere, ecc.) , una azione a livello locale può essere più facilmente impostata e dare dei risultati. Purché si tenga presente che anche nei vicinati localistici quello che può emergere è pur sempre, secondo l’espressione di Janowitz, una community of limited liability: l’“investimento” dell’individuo è relativamente piccolo nella rete internazionale che costituisce il gruppo locale, e se le sue perdite sono troppo grandi, egli può uscirne tagliando i legami e la comunità non può trattenerlo. Quanto ai vicinati e ai settori sociali più urbanizzati, la popolazione è organizzata non in termini di comunità, ma in termini di organizzazione politica, mass media e cultura popolare. Con il progredire dell’urbanizzazione è probabile che l’organizzazione in termini di rapporti impersonali e astratti diventi la regola: nella società urbana i fuochi d’integrazione diventano sempre più l’organizzazione funzionale e l’articolazione di interessi attraverso le associazioni: con questi fuochi e con i mass media la partecipazione deve fare i conti.

Sul piano urbanistico, l’indicazione che può scaturire dalla situazione delineata è abbastanza semplice: non è necessario ipotizzare il livello locale come il livello privilegiato della partecipazione e dell’integrazione, con il rischio di indirizzare troppe energie partecipative ad attività di scarsa rilevanza politica: mentre è doveroso riconoscere la presenza di un nuovo valore presso settori sempre più vasti di popolazione, la libertà di avere relazioni sociali con chi e dove si preferisce. L’integrazione può essere raggiunta a livelli diversi dal quartiere, la partecipazione realizzata attraverso una gamma di strumenti teoricamente infinita.



b) Si sostiene comunemente che le associazioni volontarie in ambiente urbano sono sempre più importanti. Anche se diverse ricerche dimostrano che la loro importanza è minore di quel che si credeva, possiamo senz’altro condividere l’opinione corrente purché si chiarisca in che cosa consiste la loro rilevanza. Innanzitutto non si tratta di una loro capacità di essere strumenti di partecipazione locale, tranne come abbiamo visto nel caso di certi tipi di vicinati: a tal punto che Handlin le considera sotto questo aspetto una forma arcaica (dell’800 e del primo ‘900) di strumenti di azione sociale. Tanto meno le associazioni possono essere considerate importanti come luoghi di una partecipazione generale significativa. Lo abbiamo visto: la partecipazione ad associazioni è limitata ad una élite, costituita di solito da appartenenti a strati sociali piuttosto elevati quanto ad educazione e potere economico e a certe classi di età.

Possiamo allora ritenere che l’importanza delle associazioni in una società urbana consista semplicemente nel fatto che sono numerose, spesso grandi e dotate di un potere cospicuo. Se il numero di iscritti e partecipanti è limitato, vuol dire che la loro influenza - che può essere considerevole - si serve di reti di comunicazione che possono facilmente raggiungere i non-membri: si tratterà certamente di reti formali (in particolare. i mass media). Ciò non fa che confermare l’importanza particolare delle associazioni di grande dimensione. Sembra però che l’influenza delle associazioni possa contare anche su processi di comunicazione informale. Secondo Axelrod se la loro influenza diretta non tocca una grande parte della popolazione, la loro influenza indiretta può essere cospicua attraverso veicoli informali di comunicazione: “il men che massiccio carattere della partecipazione nelle organizzazioni formali suggerisce che nella misura in cui queste organizzazioni esercitano un’influenza persuasiva nella comunità urbana, ciò può avvenire attraverso i legami tra le loro minoranze di membri attivi da una parte e la sottostante rete di associazioni informali nella comunità nel complesso”: rete che abbiamo visto essere estremamente ricca.

Se l’importanza delle associazioni si pone in questi termini, è evidente che qualche dubbio può essere sollevato sulla loro capacità di essere strumento di democrazia: se le associazioni riescano a “distribuire il potere tra un gran numero di cittadini e a fornire un meccanismo sociale per il social change che si istituisce continuamente” o non siano piuttosto semi-organized stalemate che unificano una frammentaria e impotente base del sistema (americano) del potere, è problema ancora discusso tra i sociologi americani.

Non mancano importanti argomenti a favore del ruolo delle associazioni: diversi studiosi ne hanno indicato il contributo al funzionamento di un sistema democratico e hanno evidenziato i meccanismi che ne limitano le possibilità di abuso in senso antidemocratico. A noi interessa qui precisare il contributo che alla: soluzione del problema può portare lo studio delle appartenenze sociali: in particolare l’utilità di individuare le caratteristiche del joiner e di confrontarle con quelle dell’apatico, per mettere in evidenza come l’appartenenza e partecipazione a molte associazioni, è correlata con il livello sociale, l’età e il sesso, o l’area di residenza, che questa composizione potenzialmente conservatrice delle associazioni è aggravata dal fatto che le appartenenze sono in parte “multiple”, che le appartenenze sociali dell’apatico lo rendono suscettibile a certi tipi di rapporto con le associazioni, i suoi vertici, i suoi messaggi.



c) L’ enorme differenziazione che contraddistingue la vita sociale della nuova città aumenta la libertà dei suoi abitanti (soprattutto di alcuni di essi), ma acutizza certi problemi. In particolare, se è corretto individuare una tendenza all’isolamento tra le appartenenze e alla privatizzazione delle solidarietà, cui si accompagna una diminuzione generale della capacità di azione comune, possiamo aspettarci una minor capacità di difesa da parte dei settori più deboli della popolazione.

Può trattarsi di gruppi tradizionalmente deboli. Si pensi a quanto abbiamo detto a proposito delle opportunità concrete di relazioni sociali che la nostra società fornisce a certi strati sociali. In genere i gruppi socio-economici più bassi sono meno liberi dai condizionamenti della comunità definita fisicamente e geograficamente: secondo Duhl essi, piuttosto che usare l’ambiente fisico come una risorsa, “incorporano l’ambiente nell’io. La comunità ecologica per questo strato della società è, in effetti, il mondo”. Oppure si pensi a problemi nuovi, come l’ineguaglianza nella funzione di tempo libero da parte di diversi settori della popolazione, o la probabilità per certe categorie, come i vecchi, di diventare oggetto di vere e proprie segregazioni.

Ma sono soprattutto i recenti prodotti della metropoli che provocano problemi la cui soluzione appare più imprevedibile. Molti degli abitanti della città sono più liberi, ma devono ora fare i conti con un embarassement of freedom. È ancora Greer che ci illustra il fenomeno nei suoi aspetti problematici: nei suburbia “la maggior parte delle persone .. sono i discendenti, e sotto certi aspetti, gli equivalenti degli analfabeti di un centinaio d’anni fa. Essi non hanno ne gli interessi investiti nella comunità, né la tradizione di partecipazione responsabile nella vita della comunità politica. E hanno una gran libertà dalla partecipazione forzata nel lavoro. La esercitano foggiando i tipici modelli di vita cui abbiamo accennato, evitando le organizzazioni, mantenendo educatamente superficiali rapporti con i vicini e con i leaders della comunità locale, evitando i compagni di lavoro fuori del lavoro, orientandosi"verso le serate, i week-ends, e le vacanze, che spendono in famiglia, viaggiando, guardando la televisione, chiacchierando e mangiando con amici e parenti, e coltivando il giardino”.

Nota: il testo di Antonio Tosi, completo delle ricche note e riferimenti bibliografici (qui omessi per motivi di spazio) è scaricabile in file PDF (f.b.)

Antonio Tosi_1965_Mall

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual'è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non e sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell'arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che m'importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.

Italo Calvino

Da: Le città invisibili, Einaudi


The Lady's First Song

I turn round

Like a dumb beast in a show,

Neither know what I am

Nor where I go,

My language beaten Into one name;

I am in love

And that is my shame.

What hurts the soul

My soul adores,

No better than a beast

Upon all fours.

Prima canzone della dama

Mi aggiro torno torno

Come una belva bruta messa in mostra,

Né so chi io sia

Né dove io vada,

Il mio linguaggio costretto

In un unico nome;

l o sono innamorata:

Tale è la mia vergogna.

Quel che all'anima nuoce

La mia anima adora,

Come fossi una bestia

A quattro zampe.

The Lady's Second Song

What sort of man is coming

To lie between your feet?

What matter, ave are but women.

Wash; make your body sweet;

I have cupboards of dried fragrance, 1 can strew the sheet.

The Lord bave mercy upon us.

He shall love my soul as though

Body avere not at all,

He shall love your body

Untroubled by the soul,

Love cram love's two divisione

Yet keep his substance whole.

The Lord bave mercy upon us.

Soul must learn a love that is

Proper to my breast,

Limbs a love in common

With every noble beast.

If soul may look and body touch,

Which is the more blest?

The Lord bave mercy upon us

Seconda canzone della dama

Che uomo verrà mai

A giacer fra i tuoi piedi?

Che importa, non siamo che donne.

Làvati; rendi il tuo corpo soave;

Ho credenze ricolme di aromi essiccati,

Ne cospargerò il lenzuolo.

Il Signore abbia pietà di noi.

Egli amerà l'anima mia

Come se non vi fosse corpo,

Egli amerà il corpo tuo

Indisturbato dall'anima,

L'amore sazi le due parti d'amore

Ma la sostanza ne conservi intiera.

Il Signore abbia pietà di noi.

L'anima deve imparare un amore

Che si addica al mio seno,

Le membra un amore in comune

Con ogni nobile animale.

Se l'anima ha la vista e il corpo il tatto,

Qual è il piú beato?

Il Signore abbia pietà di noi.

The Lady's Third Song

When you and my true lover meet

And he plays tunes between your feet,

Speak no evil of the soul,

Nor thínk that body is the whole,

For I that am bis daylight lady

Know worse evil of tbc body;

But in honour split his love

Till either neither bave enough,

That I may bear if we should kiss

A contrapuntal serpent biss,

You, should band explore a thigh,

All the labouring heavens sigh.

Terza canzone della dama

Quando tu e il mio amante fedele v'incontrate

Ed egli nel tuo grembo intona melodie,

Non dir male dell'anima,

Né credere che il corpo sia tutto,

Poiché io, sua signora di giorno,

So del corpo mali peggíori;

Ma con onore dividi in due l'amore

Sì che ciascuno non abbia abbastanza dell'una e dell'altro,

Ed io senta se ci baciamo

A contrappunto il sibilo del serpe,

E tu senta se una mano ti esplora la coscia

Il sospiro di tutti i cieli in travaglio.

The Lover's Song

Bird sighs for the air,

Thought for I know not where,

For the womb the seed sighs.

Now sinks the same rest

On mind, on nest,

On straining thighs.

Canzone dell'amante

L’uccello sospira per desiderio d'aria,

Il pensiero per non so qual luogo,

Per il grembo il seme sospira.

Ora scende un medesimo riposo

Sulla mente, sul nido,

Sulle cosce sforzate.

The Chambermaid's First Song

How carne this ranger

Now sunk in rest,

Stranger with stranger,

On my cold breast?

What's left to sigh for?

Strange night has come;

God's love has hidden hím

Out of all harm,

Pleasure has made him

Weak as a worm.

Prima canzone dell'ancella

Come venne questo invasore

Sprofondato ora in riposo,

Estraneo con estranea,

Sul mio freddo seno?

Per che cosa rimane da sospirare?

Strana notte è venuta;

L'amor di Dio lo ha posto ,

Al riparo da ogni male,

Il piacere lo ha reso

Debole come un verme.

The Chambermaid's Second Song

From pleasure of the bed,

Dull as a worm,

His rod and its butting head

Limp as a worm,

His spirit that has fled

Blind as a worm.

Seconda canzone dell'ancella

Dopo il piacere del letto

Torpido come verme,

La sua verga e la testa d'ariete

Flaccida come verme,

Il suo spirito che si è dileguato

Cieco come verme.

The Spur

You think it horrible that lust and rage

Should dance attention upon my old age;

They avere not such a plague when I was youngs;

What else bave I to spur me into song?

Lo sprone

Ti sembra orribile che lussuria e furia

Mi faccian scorta nella mia vecchiaia;

Non erano tanto assillanti quand'ero giovane;

Che altro mi resta per spronarmi a cantare?

Versione di Giorgio Melchiori, Einaudi


When you are old Quando sarai vecchia
When you are old and gray and full of sleep

And nodding by the fire, take down this book,

And slowly read, and dream of the soft look

Your eyes had once, and of their shadows deep;

How many loved your moments of glad grace,

And loved your beauty with love false or true;

But one man loved the pilgrim soul in you,

And loved the sorrows of your changing face.

And bending down beside the glowing bars,

Murmur, a little sadly, how love fled

And paced upon the mountains overhead,

And hid his face amid a crowd of stars.

Quando sarai vecchia e grigia e di sonno onusta,

e sonnecchierai vicino al fuoco, prendi questo libro

e lenta leggi, e sogna il dolce sguardo

che avevano un tempo i tuoi occhi, e la loro ombra profonda.



In molti amarono i tuoi attimi di felice grazia

e amarono la tua bellezza con amore falso o vero,

ma un uomo solo amò la tua anima pellegrina,

e amo le pene del viso tuo che incessante mutava.



Piegati ora accanto all’ardente griglia del camino

e sussurra, con qualche tristezza, come l’amore scomparve,

e vagò alto sopra le montagne,

e nascose il suo viso in uno sciame di stelle.

(traduzione di Paolo Cecchi)

A biography in english

Una biografia in italiano

La necessità di perfezionare le armi per la difesa delle bellezze naturali italiane, che è la difesa del sacro volto della patria, si è manifestata in questi ultimi tempi sempre più urgente e viva man mano che la vita moderna ha reso più intenso il suo ritmo in due ben diverse, ma tra loro complementari, manifestazioni: man mano cioè che lo sviluppo urbanistico, gli impianti di officine, la formazione di vie, di cave, di muri di sbarramento, gli invasi di acque per utilizzazione di forza motrice e simili altre opere hanno creato problemi nuovi e suscitato formidabili interessi economici; man mano che, d’altro lato, quasi come reazione contro questa vita meccanica, si è sviluppato vivace nel popolo il sentimento della natura, il desiderio del ritorno alla visione serena delle cose belle e grandi prodotte da Dio.

È stato detto che questa nuova tendenza dell’anima umana a comprendere il linguaggio, or semplice ora arcano, delle bellezze primitive della creazione - la poesia dei monti e dei mari, degli aperti orizzonti o delle rupi paurose, degli alberi e dei prati fioriti - sia stata un prodotto del romanticismo del secolo scorso; e si citano i passi del Goethe, del Byron, del Novalis, dell’Hölderlin, del Ruskin e di tanti altri. Io non lo credo, e penso piuttosto che la letteratura siasi sostituita col suo artificio alla spontaneità del sentimento naturale, quasi direi dell’istinto, che era proprio dei periodi precedenti. Me ne persuadono i confronti con le altre arti, come l’architettura e la pittura. La prima ha trovato sempre, fino all’Ottocento, nelle case, nei palazzi, nelle ville, senza che occorressero leggi e sanzioni, i diretti rapporti con l’ambiente, come se gli edifici fossero cosa naturale, sorti insieme con le colline, con le rupi ed i boschi. E quanto alla pittura, non è assai più vivo e sentito il paesaggio dipinto quando nei quadri di Sandro Botticelli, di Leonardo o di Giorgione o del Francia, forma sfondo luminoso alle figure, quasi a compenetrarsi col soggetto, che quando acquista valore a sé di accademia paesistica e diventa o inadeguata composizione o inadeguata copia?

In un egual modo lo spirito moderno è intervenuto a definire, ad analizzare col raziocinio quello che era dapprima intuitivo ed a dare forma filosofica ai rapporti che legano le concezioni dell’uomo al mondo esterno che lo circonda, alla natura lieta o triste in cui vive, all’atmosfera che respira. Ma il sentimento del popolo non si è formato per questa via ed è rimasto schietta aspirazione dell’animo, acuita dalle restrizioni della vita cittadina.

Carton de Viart, l’eroico presidente dei ministri della resistenza belga dell’ultima grande guerra, così ebbe mirabilmente a dire [1] in un suo scritto intitolato Le droit à la joie: “Quando gli uomini pensano alla patria, non ad una grande assemblea di uomini neri e rumorosi gesticolanti sotto i lampadari parlamentari essi rivolgono il pensiero, ma alle vaste estensioni di campi e di boschi, alle ondulazioni delle colline, alle acque correnti, ai villaggi sparsi sulle strade, al fumo dei casolari che sale nella pace della sera. A questi segni sensibili si riannoda quasi istintivamente l’amor della patria, il ricordo delle sue glorie e delle sue sofferenze, il rispetto delle sue tradizioni. Più la visione sembrerà bella, più cara sembrerà la patria di cui è l’immagine”.

Così la carità del natio loco si unisce al sentimento della bellezza per determinare una vera religione dei caratteri naturali del patrio suolo. E gli artisti ne sono i più diretti sacerdoti, a qualunque tendenza appartengano, da qualunque ismo siano definiti, nella comprensione e nell’affetto verso quelle che sono le fonti pure ed inesauribili del genio artistico sono essi tutti concordi.

Non dunque in ragioni ideali la difesa delle bellezze naturali trova seria antitesi, ma spesso nelle esigenze positive, di cui si è testé dato cenno, della meccanica civiltà moderna; e queste sono talvolta così essenziali da determinare la necessità di transazioni od anche di ripiegamenti, come di un assediato che si riduce a difendersi in una cittadella - così, ad esempio, quando una città si sviluppa ed invade necessariamente la campagna circostante, o quando la utilizzazione dell’energia idraulica porta a sopprimere od a limita,e cascate d’acqua od a chiudere valli con dighe di sbarramento. Assai più spesso il contrasto è con la ignoranza, con la superbia c la neghittosità di tecnici che non voglion studiare soluzioni più agili e vive e talvolta anche più utili, con l’interesse privato di speculatori di terreni, i quali non sentono, o fingono di non sentire, che quello che conta nella vita moderna, quello che il nuovo Codice fascista esprime nel suo primo articolo, è l’interesse collettivo, di contro al quale il jus utendi et abuttendi va limitato od addirittura escluso. Nella mia opera trentennale di difensore del patrimonio di Arte e di bellezza del nostro paese, quante volte mi è riuscito di conciliare quello che sembrava inconciliabile, mutando opportunamente la posizione di un bacino montano, facendo spostare fabbriche progettate che avrebbero chiuso visuali o distrutto alberature, dando diverso ordinamento di planimetrie e di altezze a gruppi edilizi, suggerendo adatte colorazioni di pareti e di tetti, od anche mascheramento mediante piante rampicanti! Talvolta modesti espedienti, e talvolta avviamento verso un nuovo ordine di utilizzazione, hanno potuto salvare e perfino maggiormente valorizzare bellezze naturali di alto interesse, le quali, a veder bene, non sono soltanto elementi di un mirabile patrimonio nazionale, caro allo spirito, ma anche materia prima di quella nostra grande industria che è il turismo.

Tutto questo tuttavia richiede di avere le possibilità di revisione e di veto date dall’autorità di una legge.

Ma io penso che non ci possa essere in tutto il giure un argomento più arduo a tradursi in disposizioni positive e ad avere regolare applicazione di questo, che vuol definire come oggetto preciso ciò che spesso è indefinibile (ricordate l’aforisma dell’Amiel per cui “il paesaggio è uno stato dell’anima”) e deve non limitare più di quanto sia necessario il sacro diritto di proprietà, e fa capo nel giudizio a due entità che nessun legislatore e nessun ufficio può inquadrare sistematicamente; cioè il buon senso, fatto di comprensione e di discrezione, ed il senso di Arte, mosso da fervore di affetto e da una ragionata previsione di effetti particolari e di effetti d’insieme.

Nel 1922, forse perchè il ridesto sentimento di patria aveva fatto maturare la nuova coscienza della sua bellezza; o perchè intanto maggiormente si avanzavano gli attentati e le offese, - alla pineta di Ravenna, alla cascata delle Marmore, ai boschi del Casentino, alle rupi dei Campi Flegrei, - si ebbe alfine la Legge fondamentale, che ha durato fino ad oggi rendendo, occorre riconoscerlo, inestimabili servigi, anche se taluni punti di essa si sono dimostrati manchevoli ed inefficaci.

Questa legge del 1922 può quindi considerarsi come un importante esperimento, nel suo complesso felice. Essa ha vagliato le possibilità di adattamenti con le esigenze legittime dell’industria e della vita cittadina, e dagli stessi progressi dell’Urbanistica (come quelli del piano territoriale e delle divisioni per zone) ha tratto mezzi per una giusta distribuzione di attività fabbricativa; ha saggiato le resistenze degli interessi privati; ha determinato e raffinato lo studio della consistenza prospettica delle bellezze naturali ed in particolare di quelle panoramiche, e conseguentemente dei mezzi per difenderle efficacemente con cognizione sicura.

È merito di S.E. il Ministro Bottai di aver ora compiuto, con illuminata energia, il secondo passo, promuovendo il rinnovamento della legge mediante la preparazione di un nuovo progetto, che con rapidità fascista è passato attraverso le commissioni e gli uffici ministeriali ed ha avuto la definitiva approvazione parlamentare, ed è ora la Legge 29 giugno 1939-XVII.

Di essa riassumerò ora le principali caratteristiche. Voi vorrete perdonare se il mio commento non sarà quello del giurista, ma di un architetto, abituato bensì a contemperare la visione d’Arte con la cognizione concreta delle cose, ma non tanto da giungere ai necessari, sottili provvedimenti di uno schema legislativo.

La legge[2] comincia col definire in modo chiaro e preciso l’oggetto della protezione, ed in ciò presenta un grande progresso sulla legge precedente, in questa parte fondamentale sommaria ed incerta. Ed occorre riportare per intero il primo articolo:

“Sono soggette alla presente legge a causa del loro notevole interesse pubblico:

1° le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;

2° le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza;

3° i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;

4° le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali, e così pure quei punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.

Come si vede, è nelle prime parole e nelle ultime di questo articolo riaffermato il principio che debba essere insito nella cosa immobile che si vuol tutelare un notevole interesse pubblico; il che, mentre stabilisce i limiti della sua applicazione, viene a determinare il diritto collettivo al godimento della bellezza naturale prevalente su ogni interesse privato.

Dei quattro tipi di bellezze naturali specificate nell’articole [3] i primi due si riportano a quelle che la relazione ministeriale chiama bellezze “individue”, gli altri due alle bellezze “d’insieme”. Bellezze individue son quelle che hanno una entità propria e sono perciò identificabili nei loro confini e nei loro particolari: ed ecco gli elementi singoli che quasi potrebbero dirsi monumenti naturali - alberi di singolare grandezza, cascate d’acqua, gole di monti, grotte, rupi - ed ecco le singolarità geologiche - conformazioni geometriche di basalti, correnti laviche, piramidi di terra, calanchi, pietre oscillanti, le cosidette marmitte dei giganti - che al valore di bellezza uniscono quello d’interesse scientifico e che colpiscono la fantasia nella loro testimonianza delle vicende cosmiche; ed ecco infine i giardini e le ville, in cui l’attività promotrice ed ordinatrice dell’uomo è entrata sì da fare opera di ridente bellezza, ma non con tali caratteri di grande architettura da farli rientrare nelle cose tutelate dalla legge fatta per le opere di interesse artistico e storico.

Su questo punto occorre ancora indugiarsi in un breve commento, per ricordare che parallelamente a questa legge per le Bellezze naturali anche l’altra, testé indicata, riguardante il patrimonio d’Arte e di Storia, è stata riveduta e rinnovata, e la materia legislativa è stata organicamente divisa tra le due leggi secondo il prevalente carattere che essa riveste. Così, ad esempio, alla legge di tutela monumentale sono state rinviate “le cose immobili che presentano un notevole interesse pubblico a causa della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria”; e, per proseguire nella esemplificazione, lo scoglio di Quarto da cui salparono i Mille, la rocca di Cuma cantata da Virgilio, i carducciani cipressetti avanti San Guido, non vanno catalogati (brutta parola burocratica, ma necessaria a determinare elementi a cui si applica una legge) tra le cose tutelate a causa della loro bellezza naturale.

Così pure pei parchi e pei giardini. A seconda che in essi prevalga il carattere di composizione monumentale -e numerosissime sono quelle disegnate da architetti insigni, da Giuliano da Maiano a Giulio Romano, al Vignola, al Ligorio, al Della Porta, al Le Nôtre -ovvero il carattere dato dalla bella vegetazione rigogliosa, la tutela ne spetta all’una od all’altra delle due leggi parallele. Ed è questo un passo decisivo, finché non giunga l’auspicata legge urbanistica fascista a stabilire nelle nostre città un sicuro ordine di sanità e di bellezza, per raggiungere la difesa di quelle zone verdi poste nel nucleo dell’abitato o nel suburbio, che le generazioni passate hanno costituito per la gioia della vita, e che quelle del nostro tempo tendono, per la malsana speculazione sulle aree edilizie, a distruggere proprio quando nell’enorme ampliamento cittadino esse rappresenterebbero provvidenziali elementi di pubblica utilità.

Vengono poi quelle che son state dette bellezze di insieme, e sono essenzialmente le panoramiche. Pur nella impossibilità di definirle in modo preciso, poiché, come dice la relazione ministeriale, “è in esse tanto di incertezza quanto ve ne trasferisce il concetto stesso di bellezza”, ha tuttavia la legge voluto chiaramente distinguere i due casi che potrebbero dirsi dal fuori verso il dentro e da1 dentro verso il fuori; cioè il quadro naturale in se stesso e le visuali dai punti o dalle linee di bel vedere accessibili al pubblico. Comprende il primo il vero carattere paesistico dei luoghi, ampio e talvolta quasi indefinito; il secondo il panorama nel senso comune della parola, che si gode da particolari località e che non deve essere offeso ed obliterato da costruzioni oda elementi invadenti. Esempi classici del primo tipo quasi tutta la chiostra alpina, e la pineta tirrena, e la marina di Amalfi, e la collina di Posillipo, e Capri e Portofino e Taormina e la penisola dell’Argentario; esempi di prima grandezza del secondo il viale dei Colli ed il piazzale Michelangelo sopra Firenze, il Gianicolo per Roma, il piazzale della Madonna di S. Luca per Bologna, le vie che salgono al Vomero per Napoli, la passeggiata a mare di Nervi, i risvolti della via delle Dolomiti al Pordoi ed a Falzarego.

Accanto a queste bellezze naturali 1a legge contempla (ed è interessante novità) i “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto estetico e tradizionale”. .La frase è un po’ troppo generica e richiede un qualche chiarimento. Qui, con un ardito passaggio, si intende comprendere nella tutela anche le cose che sono opera non della natura ma del lavoro umano, quando abbiano assunto nel tempo e nella inquadratura degli elementi circostanti, talvolta nel mimetismo con l’ambiente naturale, un valore paesistico di bellezza e di tradizione: dai panorami delle grandi città, con le torri e le cupole che si stagliano nel cielo, alle vedute di villaggi sorti con l’umile spontanea energia rurale, come se le casette liberamente aggruppate fossero alberi di un bosco o cristallizzazione delle rupi sottostanti. Enormi grattacieli in un caso, sguaiati villini dalle torrette merlate nell’altro altererebbero tutta un’armonia di linee e di colori e produrrebbero , danni irreparabili che debbono essere evitati; e la legge, interpretata con ampia veduta e con discreta saggezza, offre appunto le armi. L’identificazione di queste così diverse bellezze, naturali o quasi naturali, presenta, in un paese di diffuso e vario e mirabile carattere paesistico quale è il nostro, difficoltà forse insormontabili. La legge tenta provvedervi con la istituzione di Commissioni provinciali, composte di persone di coltura e d’arte, a cui si uniscono, come è giusto in regime corporativo, i rappresentanti delle categorie interessate; le quali commissioni avranno un duplice compito: quello, organico ed ampio (art. 2) di compilare gli elenchi delle località e degli elementi soggetti alla legge, e quello contingente (art. 8 e 9) di convalidare le notifiche direttamente fatte dal Ministero dell’Educazione Nazionale.

Sulla efficacia pratica di dette commissioni potrebbe in vero elevarsi qualche dubbio sia nei riguardi della quasi impossibilità, e talvolta della superfluità, di una definizione a priori, non delle bellezze individue ma di quelle d’insieme (che talvolta si avvertono quando vengono aggredite), sia per la complessità di funzionamento cinematico di codesti gruppi di valentuomini che dovranno spostarsi in ogni punto delle singole province e vagliare con una bilancia precisa e con pesi ben uguali la equazione tra bellezza e legge. In Francia il sistema non ha fatto buona prova; ma occorre dire che i vi il parlamentarismo ha invaso col suo macchinoso artificio anche questo tema che pur sembrerebbe da esso il più lontano, e lo ha soffocato tra le commissioni pletoriche e le discussioni interminabili. Nell’Italia Fascista diverso è il clima, adatto per la rapida attuazione adeguata, per gli accordi tra interessi contrastanti subordinati a quello grande ed augusto del Paese, come pure per le eventuali revisioni di ordinamenti sulla base dell’esperienza.

Alla identificazione delle bellezze naturali seguono le minute norme procedurali perchè i singoli proprietari siano edotti del vincolo ed abbiano modo di presentare i loro ricorsi o di richiedere che i termini ne siano ben precisati; e sono norme di grande importanza affinché la proprietà privata sia salva da arbitri e da applicazioni esagerate, e si stabilisca una vera unità di criteri. Le notificazioni personali vanno poi trascritte alle Conservatorie delle ipoteche, per dar loro efficacia anche per i successivi aventi causa.

Le servitù così create recano ai proprietari l’obbligo di non alterare l’aspetto esteriore delle bellezze da loro possedute; il che tuttavia non rappresenta immobilità dello stato attuale altro che in casi di eccezione. Lavori, talvolta importanti ed organici, possono essere consentiti, ma i loro progetti debbono venire preventivamente approvati dalla competente Soprintendenza; la quale può, esercitare il suo diritto di esame e di veto anche nei casi di pubbliche opere in prossimità di bellezze individue o in vista di bellezze d’insieme, purché, come avverte saggiamente la legge, “si tenga in debito conto la utilità economica dell’intrapreso lavoro”. Una delle innovazioni di maggior importanza è quella che contempla (art. 5) la possibilità da parte del Ministero dell’E. N .di preparare o di promuovere un piano territoriale paesistico delle vaste località in cui si riconoscano i caratteri di bellezza d’insieme. La disposizione-sarà salutata con gioia dagli urbanisti italiani, che vedono in essa una prima applicazione di quei piani regionali, o territoriali, o intercomunali, destinati a coordinare lo sviluppo non di un solo Comune, ma di più vaste entità, aventi stretti rapporti, od addirittura unità di carattere, di viabilità, di funzione edilizia, od estetica, o turistica o industriale.

Nel piano paesistico vanno adottati, pur (per così dire) grandemente diluiti, i criteri urbanistici ormai acquisiti nei piani regolatori cittadini; cioè la redazione di un azzonamento e di un regolamento edilizio schematico, volti a graduare, e talvolta ad escluderei le possibilità fabbricative, sostituendo una disciplina edilizia al disordine liberista, una concezione sociale al diritto di arbitraria utilizzazione delle aree non costruite [4].

Saprà in tal modo ciascun proprietario quale sia la potenzialità fabbricativa del proprio terreno e potranno su quella basare i loro calcoli gli eventuali acquirenti; difficili e rare saranno le frodi; un criterio organico investirà tutta una regione, sostituito al carattere inuguale, arbitrario, aleatorio del caso per caso.

Eppure molte obbiezioni si appuntano contro questa concezione di ordine; ed occorre esaminarle brevemente. Si dice: Non risulterà troppo meccanica ed artificiosa la nuova forma del paesaggio futuro così immaginata, quasi in collaborazione della creazione umana con quella divina, tanto più grande ed augusta? Non esistono tante deliziose borgate o tante case campestri sparse sui colli e nelle valli, che danno al paesaggio vita e bellezza anziché nocumento? Non ci sono talvolta anche grandi costruzioni isolate di palazzi di ville, di monasteri (e gli esempi della villa Mondragone a Frascati, del convento benedettino di Montecassino, di Castel del Monte in Puglia si presentano alla nostra mente) che quasi concentrano il carattere paesistico in poli monumentali, quasi mirabile cristallizzazione architettonica?

A tutto questo rispondono, sia pure incompiutamente, le considerazioni sul mutare dei tempi e sul carattere della vita e dell’architettura moderna, sempre più lontana dalla natura. Un albergo disegnato a tavolino da un archi tetto e fabbricato con ossatura di ferro o di cemento armato, un quartiere di villini voluto da speculatori che dividono il terreno in lotti regolari, nulla hanno a vedere col carattere naturale e spontaneo, quasi mimetico, di un vecchio villaggio costruito secondo le sperimentate esigenze del clima, coi materiali stessi del luogo, con la libera ed ingenua forma data dagli artigiani locali; un edificio monumentale, che rappresenta in forma d’arte un’idea prima che una funzione utile, ha in sé elementi di massa e di dignità che acquistano valore dominante, ma anche per esso i rapporti con l’ambiente, quando nel procedimento architettonico creativo non sono più, come per il passato, stabiliti dall’istinto debbono esserlo dalla ragione; ed ecco determinarsi la necessità di contrapporre lo studiato artificio dell’ordine alla libertà edilizia, che si è allontanata dalla naturalezza con le deformanti espressioni egoistiche di una civiltà meccanica ed utilitaria. Dovrà, certo, esser cura di coloro che si accingeranno all’arduo compito di far sì che le norme e le remore non siano troppo rigide e non escludano una elasticità di applicazioni. La regola potrà a vere le sue eccezioni; ma soltanto ad esse potrà limitarsi la norma del “caso per caso”.

Già negli ultimi anni alcuni di tali pialli regolatori paesistici sono stati, per singole iniziative, compilati: così per una parte dell’isola di Capri, per la regione di Monte Cavo e della via dei Laghi nei colli Laziali per la zona adiacente alla via Appia presso Roma, ed anche (in forma più negativa che positiva) nei grandi Parchi nazionali del Gran Paradiso, dell’Abruzzo, della Sila. I criteri seguiti son stati quelli, non solo di difendere energicamente la integrità dei punti di belvedere e delle linee principali del paesaggio, ma anche di stabilire in alcune zone rapporti tra area fabbricata ed area occupata da singoli lotti, e limitazioni di masse e di altezze tali da assicurare l’assoluto prevalere dèi valori naturali, pur consentendo in alcune designate località la formazione di nuclei compatti che possano costituire armonici aggruppamenti, pieni elementi di vita umana in mezzo alla natura. Questi studi precursori rappresenteranno un utile esperimento e troveranno nella nuova legge ufficiale consacrazione e regolare sviluppo [5].

Per alcune località italiane la preparazione di questi piani paesistici è di un’urgenza assoluta per evitare danni irreparabili, sia che trattisi di bellezza di eccezione, come pel promontorio di Portofino, per l’isola d’Ischia, per i dintorni di Taormina, per la nuova Cervinia, sia che i pericoli siano imminenti, ed inevitabili le transazioni con le altre ragioni essenziali dei piani regola tori d’ampliamento, come nei dintorni delle grandi città, alcuni dei quali, come a Torino, a Venezia, a Genova, a Firenze, a Roma, a Napoli, a Palermo, a Cagliari, sono di una bellezza incomparabile, che deve rimanere ad inquadrare la vita nuova che s’avanza.

Altre provvide disposizioni della legge sono (art. 15) quelle che disciplinano l’apposizione di cartelli e di altri mezzi di pubblicità, che troppo spesso con le targhe dai colori sgargianti, con le enormi bottiglie, con le figure dall’aria spiritata, occupano i posti migliori e rovinano con la loro invadente volgarità i paesaggi più belli; e quelle che danno facoltà al Ministro dell’Educazione Nazionale d’ordinare che nelle zone paesistiche, “sia dato alle facciate dei fabbricati, il cui colore rechi disturbo alla bellezza dell’insieme, un diverso colore che con quella armonizzi”, poiché giustamente si è notato come, in questo tema, in cui l’individuo-edificio va subordinato all’ambiente, la intonazione cromatica abbia assai maggiore importanza della linea architettonica, che si perde nel vasto spazio.

Gli altri articoli della legge si riferiscono. (art. 15) alle sanzioni comminate ai trasgressori, efficacissime perché li colgono nell’effettivo interesse finanziario; o alla possibilità da parte del Ministero dell’ E. N. di intervenire (art. 16) con speciali sovvenzioni a favore di proprietari danneggiati da assoluti divieti; o al diritto di detti proprietari alla revisione nei riguardi dell’estimo catastale (art. 17); e sono disposizioni non solo provvide, ma essenziali pel carattere positivo che ogni legge deve avere, le quali tuttavia escono dai limiti di ordine artistico posti alla presente trattazione.

Questa dunque è la nuova legge che la vigile esperienza degli organi preposti affinerà e renderà organica nelle sue applicazioni ed adegua ta alle esigenze spirituali e materiali della nazione.

Per essa si traduce in atto il comandamento del Duce, che nello scorso anno nel ricevere i Soprintendenti alle Belle Arti di ogni parte d’Italia, li richiamò ad un’assoluta intransigenza nella difesa delle bellezze naturali: “Il volto della Patria, egli disse, deve essere salvo dagli attentati di coloro che solo si preoccupano dei loro interessi affaristici. Il nostro paese è il più bello del mondo, e deve rimanere ad ogni costo integro nella sua bellezza”.

Nota: sulle origini della legge approvata descritta da Giovannoni, si veda anche in Eddyburg/Urbanisti e Urbanistica il saggio "anticipatore" del 1931 di Luigi Parpagliolo (f.b.)

[1] Questo passo è tratto dal libro di Luigi Parpagliolo, La difesa delle bellezze naturali d’Italia, Roma 1923

[2]La Commissione ministeriale che ha preparato il disegno di Legge era così composta: Gustavo Giovannoni (presidente), Marcello Piacentini, Marino Lazzari, Orazio Amato, Michele Di Tommaso, Enrico Parisi e Gino Cianetti (rappresentanti la Confederazione della proprietà edilizia). Carlo Aru, Mario Bcrtarelli, Valentino Calligaris, Giuseppc Pedrocchi, Leonardo Severi, relatorc. Nel corso dei lavori si sono aggiunti Luigi Biamonti, Luigi Parpagliolo, Bernardo Genco e Virgilio Testa

[3]Questo commento si giova della relazione della Commissione ministeriale redatta dal dott. Leonardo Severi, consigliere di Stato, e dell'articolo di L. ParpagIiolo “La protezione delle bellezze naturali”, comparso nelle Vie d’Italia, settembre 1939-XVIII. E qui mi piace nuovamente citare questo benemerito apostolo che tanto ha scritto ed operato per la difesa del carattere paesistico d’Italia

[4]Cfr. su questo argomento G. Giovannoni, “Piani regolatori paesistici”sulla rivista Urbanistica, 1938 (XVI), 5.

[5]A questi magnifici temi dovranno, insieme con la progressiva applicazione della nuova legge e con la rispondente formazione della nuova coscienza nazionale, essere atti con sicura competenza i giovani architetti: ed è da auspicare la preparazione, nelle Facoltà di Architettura, di architetti paesisti, analoghi agli architectes paysagistes francesi ed agli inglesi Landscape Architects.

Ci sia consentito, per sola comodità di ragionamento, di iniziare dalla constatazione, così ovvia da sembrare ormai assolutamente superflua, che il “problema del paesaggio” occupa un posto preminente tra quelli di estrema attualità.

Da qualche tempo la sua urgenza preme e si impone da ogni parte, sia dal punto di vista spirituale che da quello pratico, poiché è accaduto, come di solito accade per tutti i fenomeni che giungono a maturità nel campo sociale, che le esigenze culturali e la conseguente evoluzione del gusto sono state, per così dire, concretizzate e portate alla ribalta dell’attenzione pubblica non pure dal verificarsi bensì dall’esasperarsi di una situazione di fatto già denunciata e deprecata fin dagli inizi del nostro secolo: il decadimento delle sedi umane per l’irrazionale espansione degli antichi nuclei urbani all’esterno, la caotica congestione all’interno ed il derivante affollarsi del traffico nell’insufficiente schema stradale. Non è il caso di enumerare qui, ancora una volta, le cause; ampiamente investigate ed ormai generalmente note, di questa catastrofica situazione che trova la sua ragione d’essere nell’evoluzione del pensiero scientifico e nell’enorme sviluppo di mezzi tecnici, e, quindi, nelle mutate condizioni di vita della società umana.

L’accerchiamento eccessivo ed incomposto dei vecchi centri è passato dal depauperamento ad una vera e propria soffocazione delle loro funzioni vitali; anzi, l’esuberanza del tessuto neoplastico ha fatalmente fatto degenerare la natura di quest’ultimo, mutandolo in una formazione cancerosa, metastasi nociva ad ognuna ed a tutte le parti dell’organismo su cui era venuto ad inserirsi, si trattasse dei tessuti urbani, creati e perfezionati attraverso il tempo, o extra urbani, o meglio rurali, preservati e potenziati con una non meno assidua cura ed abilità. L’uomo, in altre parole, ha visto minacciato di inevitabile distruzione ciò che aveva costituito la sua fatica ed il suo orgoglio secolare: il frutto della sua lunga opera tesa a soddisfare i suoi bisogni materiali di esistere e di stare, nonché le concretizzazioni di tale opera che, nella loro riuscita armonia di esecuzione, lo riattaccavano al passato in un processo storico di unitarietà, esaudendo il suo bisogno spirituale di realizzarsi nel tempo. E si trattava, per di più, di una distruzione che non lasciava nemmeno intravedere una creazione completamente nuova, dettata da esigenze mutate, che potesse sostituire in pieno, con nuovi valori spirituali, quelli inestimabili su cui sembravano poggiare le strutture della sua civiltà. È in questo momento, nel nostro momento, che il problema del paesaggio si è espresso attraverso varie voci; ne è sintomo, tra i più evidenti e vivaci, un vasto movimento di rinascita di gusto archeologico che, pur ricordandolo, va assumendo proporzioni più ampie e radicali di quello, anch’esso imponente, che, apparentemente culturale intimamente politico-sociale, iniziatosi nella seconda metà del secolo XVIII come un nuovo culto del classicismo, traeva origine, insieme all’incipiente nostalgia romantica dell’atmosfera medievale, da un medesimo spirito di ribellione contro le forme care al dispotismo monarchico del Seicento e si esprimeva in un bisogno di riattingere alle fonti antiche. Ma il nostro problema, ce ne siamo tutti resi ben conto, non consiste nella sola ricerca di nuovi valori spirituali; esso si presenta prima di tutto, e materialmente, con l’urgenza di rinnovare le forme naturali e costruite, di vivificare il tessuto dei nostri stessi insediamenti e di equilibrare, mediante una oculata pianificazione, strutture nuove e preesistenze antiche, in un’opera organica di inserimento. E questa è solo la causa scatenante della crescente ondata di interesse che va dilagando fuori dall’ambiente dei tecnici e investendo tutti gli stati della pubblica opinione. Le altre cause determinanti, se pure meno catastroficamente evidenti, non sono tuttavia di minor peso nella formulazione del problema e nella necessità di un’urgente soluzione di esso. L’analogia della presente situazione urbanistica con quella che caratterizzò l’inizio dell’Età meccanica ci è d’aiuto nella comprensione, pur con le dovute varianti, di un certo numero di esse, particolarmente di quelle attinenti alla necessità del rinnovamento delle sedi per ragioni igieniche, economiche e sociali. Se ci fosse concesso di valerci della qualifica di pianificatori, necessariamente portati, quindi, a considerare l’effetto economico di ogni manifestazione della vita sociale, chiedendo venia della nostra concezione razionalistica che non vuole, tuttavia, essere rudemente meccanicista, ci piacerebbe presentare il complesso di tali determinanti sotto la forma di una equazione economica in cui il volume della domanda e la qualità della offerta hanno il loro inevitabile peso nella determinazione del valore di esso fenomeno. Che l’offerta della merce “paesaggio”, sia come bellezza naturale che come persistenza archeologica, si presenti, nel nostro paese, eccezionale particolarmente dal punto di vista qualitativo oltre che da quello quantitativo, non v’è alcuno che possa dubitarne, e, con buona pace dell’amico Detti, non crediamo che in questa considerazione ci aberrino miraggi di “esoso sfruttamento”. La bellezza, sotto i vari aspetti in cui si presenta, è una materia prima di cui l’Italia abbonda, è una delle merci principali che essa è tra le nazioni più qualificate ad apportare al fondo comune, ora che i previsti intensificati scambi, non solo di prodotti, ma anche di idee, porteranno ad un aumento di correnti turistiche. E pertanto la riabilitazione di buona parte delle nostre zone depresse del Mezzogiorno, così ricche invece di patrimonio naturale ed archeologico, potrà, in mancanza di un difficile sviluppo industriale, basarsi proprio sulla valorizzazione di quelle.

Ben più difficili ed imponderabili sono gli elementi determinanti della domanda, la quale, come è facile osservare, è veramente notevolissima. Oltre alla natura, ai precedenti culturali e allo spirito di curiosità ancora inesperta ed insoddisfatta in questo campo, che costituiscono le principali caratteristiche del grosso dei visitatori che affluiscono nel nostro paese, ansiosi di evadere dalle tumultuose metropoli industriali e di rituffarsi in un bagno di più sana interpretazione dei valori essenziali dello spirito, v’è da parte di noi tutti, figli di questa tormentosa età, una nuova, strana nostalgia dell’armonia naturale o artistica che è sola capace di restituirci a quella serenità di vita che va ormai scomparendo nel ritmo rapido della civiltà moderna. È, il nostro, uno di quei fatali ciclici ritorni, non rari nella storia dell’umanità, in cui, raggiunto uno stato estremo di tensione tra spirito e materia, tra bellezza ed espressione, si cerca un rimedio alla profonda crisi di incertezza e di abbattimento, riattaccandosi alle antiche forme, riassorbendole e rielaborandole, sia pure come esperienza culturale riflessa se non come diretta esperienza di vita. E la nostra crisi, nella tremenda instabilità prodotta dall’enorme mutevolezza dei credi filosofici e della dinamicità paurosa delle conoscenze scientifiche attuali, è una di quelle che ha più disperato bisogno di appiglio e di aiuto.

Noi non pretendiamo affatto, in questa sede, di dire una parola nuova circa la trattazione del problema del paesaggio, specie per quanto riguarda il lato pratico della sua difesa, o tutela, o conservazione, che dir si voglia. Non lo potremmo, del resto, e per varie ragioni. Non è possibile, o almeno non ci sembra possibile, enunciare una metodologia generica di carattere tecnico-legale sull’argomento. La solita affermazione della riconosciuta necessità della disamina caso per caso ormai pecca di scarsa originalità e non è che un’inutile ed ovvia ripetizione. Inoltre tutte le considerazioni che si presentavano più o meno evidenti, e le proposte che apparivano necessarie sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, sia in campo artistico-architettonico, sia urbanistico, sia legale, sono state egregiamente esposte e discusse dai differenti studiosi specializzati. La nostra dibattuta preparazione del prossimo Congresso di Lucca, i convegni di “Italia Nostra”, tra cui particolarmente notevole l’ultimo di Firenze, i vari articoli più o meno polemici ispirati all’ultima Triennale, lasciano ben poco margine per chi non intenda ripetere cose già dette da altri o non voglia assumersi il compito, che a noi non spetta, di sintetizzarle prima che esse vengano vagliate e commentate in un apposito convegno.

Non ci resta che di contribuire, come ci proponiamo, al chiarimento di alcuni argomenti già trattati ma che ci sembrano suscettibili di una più esauriente puntualizzazione.

La prima difficoltà che si è incontrata nel corso del dibattito è stata quella di definire o, per essere più esatti, di puntualizzare il concetto di paesaggio, quale è e deve essere inteso nel nostro caso particolare. Si tratta, come si è potuto notare, di una questione di una delicatezza estrema, di cui non bisogna sminuire l’importanza, considerandola alla stregua di una dissertazione accademica più o meno brillante. È troppo ovvio che non si possa discutere di un fenomeno qualsiasi se non se ne penetri prima l’essenza e se ne riconosca la natura; e che, pertanto, solo chiarendo la genesi e l’evoluzione del concetto espresso dalla parola in questione, noi potremo rintracciare i requisiti necessari alla sua validità e passare poi a precisare quelle misure che tale validità intendono salvaguardare.

Il concetto di “paesaggio” è dunque risultato, alla prova dei fatti, di definizione non agevole. E non a torto, che questa, come altre parole passate, per un criterio di analogia che inizialmente poteva considerarsi addirittura una identità di significato, dal linguaggio di uso comune a quello specifico di una disciplina che rappresenta sostanzialmente un diverso atteggiamento spirituale, è venuta di mano in mano alterando il significato primitivo, fino ad acquistarne uno nuovo, scarsamente riavvicinabile a quello di origine, con l’estendersi e l’intensificarsi della portata della sua espressione nel campo nuovo.

È così che il termine paesaggio, quale secondo la sua etimologia doveva essere inteso nell’eccezione comune, e cioè quel complesso di elementi naturali ed artificiali che concorrono e contribuiscono a dar forma e carattere ad una porzione di territorio, nonché la veduta panoramica di esso cominciò a rivestire un decoro estetico e ad animarsi di un affiato di intellettualità quando fu adottato in campo artistico per significare la raffigurazione pittorica o letteraria di quel fenomeno naturale. E l’interpretazione e l’importanza che al paesaggio venne data, caratterizzano, come è noto, i vari atteggiamenti che si sono susseguiti in ordine di tempo nell’evoluzione della storia dello spirito umano.

Sia nel primo che nel secondo caso, però, l’elemento naturale veniva considerato, per così dire, dall’esterno, come un insieme spontaneo o una rappresentazione artificiale di cui l’uomo era spettatore, contemplativo o attivo, ma pur sempre spettatore.

Il concetto espresso dalla parola doveva invece intimamente mutare, nell’essenza e non solo in superficie, allorché essa fu presa in prestito da una scienza, sia pure antica, ma per l’espressione di idee nuova, quando, cioè, offrendosi l’immagine dell’universo in una visione completamente mutata, l’uomo venne ad inserirsi nella natura ed a farne parte integrante, ed il paesaggio cessò conseguentemente di essere considerato oggettivamente come una porzione più o meno estesa e pittoresca di territorio da osservare o rilevare, per diventate la risultante materializzata del rapporto, o meglio delle rete di rapporti, dell’uomo con essa. Ciò avvenne ad opera dei geografi, che, riscoprendo la Terra alla luce delle nuove tendenze scientifiche e filosofiche, distinsero un originario paesaggio naturale, creato da forze naturali endogene e rimodellato da forze naturali esogene, ed un paesaggio secondario geografico od umanizzato, profondamente trasformato dall’azione modificatrice dell’uomo, condizionata, a sua volta, dall’influenza delle forze naturali. E così importante e basilare è diventato questo concetto della moderna geografia, che ormai questa scienza viene considerata e definita come la conoscenza del paesaggio geografico in vista dei rapporti scambievoli tra l’ambiente naturale e l’uomo o il gruppo umano che in esso vive.

Partendo dallo stesso presupposto, pur con le inevitabili modificazioni imposte dal differente punto di vista, possiamo parlare del paesaggio che, per intenderci, chiameremo paesaggio urbanistico e che è rappresentato dal risultato di queste successive modificazioni, preso nella sua espressione concreta ed attuale, e prescindendo dal sopraccennato rapporto di causalità o meglio di interdipendenza.

Infatti, se la geografia si limita allo studio del paesaggio umanizzato a scopo di conoscenza, l’urbanistica o, in senso più lato la pianificazione territoriale, completa il processo nella parte pratica, prendendo in esame le espressioni concrete lasciate dall’uomo nell’estrinsecazione delle sue relazioni con la Terra, le cosiddette “tracce topografiche” ed intervenendo attivamente nella modificazione di esse. Tali tracce, impronte materializzate delle attività connesse alle suddette relazioni, e cioè le case e gli edifici derivati dall’abitazione e dalla costruzione, le strade agevolanti la circolazione, e le valorizzazioni e trasformazioni strutturali riguardanti la coltivazione in genere (ci è già accaduto di osservare che, oltre ad una coltivazione delle risorse del suolo in superficie, e cioè agricola, ed una delle risorse del sottosuolo, e cioè industriale, possiamo annoverare un terzo tipo caratteristico di valorizzazione delle risorse naturali a scopo turistico o di amenità); tali tracce, dicevamo, inquadrate nella loro cornice naturale si presentano come gli elementi costitutivi del paesaggio urbanistico. Esso, pertanto, si deve distinguere in due tipi principali, paesaggio urbano e paesaggio rurale, a seconda che prevalgano in esso elementi artificiali, opera dell’uomo (sovrastrutture ed infrastrutture) o che il processo di modificazione si sia maggiormente estrinsecato nel rimodellamento degli elementi naturali.

Facciamo notare:

1) che nella proposta denominazione l’uso dell’attributo urbano sconfina da quello che gli competerebbe secondo l’etimologia (l’urbs dovrebbe essere piuttosto considerata come agglomerato anziché come città). Sinonimo di paesaggio urbano è, pertanto, paesaggio costruito, espressione molto meno diffusa se pure più significativa;

2) che d’altra parte, con la specificazione rurale (da rus = campagna in senso generico, in contrasto con agglomerato) si intende; oltre al paesaggio trasformato per motivi economici, quello adattato per esigenze estetiche;

3) che, conseguentemente, essendo molto difficile se non impossibile, trovare allo stato attuale, il tipo ideale di entrambi, il nostro concetto di paesaggio urbano e rurale si basa su un criterio di densità, considerata però da un punto di vista urbanistico, e, cioè, densità di costruzione anziché densità di popolazione, quale è espressa dagli attuali coefficienti di urbanizzazione;

4) che l’impiego, consacrato dall’uso corrente, delle denominazioni paesaggio naturale e paesaggio artificiale invece che rurale ed urbano, ci sembra alquanto improprio, in quanto non esiste attualmente paesaggio rurale in cui l’opera dell’uomo non sia entrata a creare artificialmente condizioni di vita e ad adattarlo ai suoi bisogni, ed alle sue esigenze, anche quando egli si è, a ragion veduta, astenuto dall’intervenire, conservandogli, come è stato giustamente osservato, “artificialmente i suoi caratteri naturali”. È necessario inoltre ricordare che l’attributo “ naturale” riferito al paesaggio rurale è stato talvolta inteso in un senso del tutto diverso, e cioè come dice lo Sharp “non forzato in schemi formali ma libero di svilupparsi” ovvero “modellato per uso normale anziché per effetto monumentale” ;

5) che fino ad oggi, ed anche fra gli urbanisti, quando si dice paesaggio tout court si intende indicare generalmente quello che noi abbiamo chiamato paesaggio rurale e, più spesso, quel particolare paesaggio rurale che è sviluppato a scopo estetico o, come suol dirsi, di amenità. (Ciò accade in tutte le lingue, tant’è vero che fra gli inglesi si comincia a notare un “Townscape” in opposizione a “Landscape” a scopo di precisazione). Lo stesso Mumford, uno dei più noti teorici del regionalismo, quando parla del movimento di valorizzazione del paesaggio o di cultura dell’ambiente, in tema di pianificazione regionale, indugia unicamente sulle misure adottate o da adottare per la conservazione del paesaggio rurale o naturale. Solo di recente, a proposito di tutela o difesa di esso, e particolarmente noi italiani, per ragioni molto evidenti ma che ci proponiamo di riesaminare fra poco, vi andiamo includendo quello di tipo storico-archeologico. Noi affermiamo, invece, che è giusto comprendere nella parola “paesaggio”, usata in senso assoluto e senza qualificazioni di sorta, tutto il complesso di elementi naturali ed artificiali che formano e caratterizzano un determinato ambiente. Sotto tal luce deve considerarsi la proposta del Vittoria di riconoscere nel paesaggio urbanistico “tutte le opere naturali ed artificiali che l’uomo costruisce” in quanto queste costituiscono la forma attuale di esso e particolarmente quella che ricade nel dominio del pianificatore;

6) che, infine, non sarà superfluo far rilevare la differenza che passa tra le parole “ambiente” e “paesaggio”, talvolta usate impropriamente l’una al posto dell’altra, ma sempre in riferimento all’uomo che vi è insediato. L’ambiente è l’insieme degli elementi naturali e climatici che caratterizzano una porzione di terra in cui l’uomo vive; dal verbo ambire, esso è costituito da tutto ciò che lo circonda. Ma quando in tale ambiente l’uomo si è inserito, si è espresso e realizzato, da solo od in gruppo, egli ha dato origine al paesaggio che proviene dalla sintesi delle azioni congiunte sue e dell’ambiente stesso. Un biologo ed un ecologo (l’ecologia, per quanto di nascita posteriore come scienza separata, può intendersi riassumere in sé anche il concetto biologico) possono, sia pure da un punto di vista differente, parlare di ambiente; un geografo ed un urbanista si esprimeranno in termini di paesaggio. Ed a proposito di parole che, in campo diverso, mutano di significato, vogliamo far notare l’uso della parola “ambiente” nel linguaggio artistico-architettonico. In ,esso il concetto di zona singolarizzata e conclusa è completato da quel senso di naturale armonica unità e di atmosfera caratteristica che ci richiama alla mente i più noti esempi di ambienti, quali sono offerti dalle nostre belle città italiane.

Posto così il concetto di paesaggio urbanistico nei suoi due tipi rurale ed urbano, e considerando che ogni spazializzazione, di natura geografico-urbanistica, realizzando l’uomo e concretizzando la sua esistenza, come individuo e come gruppo, comporta anche una temporalizzazione ed ha quindi insita una sua storicità, ci è facile individuare un aspetto o, se si vuole, una fase del primo in quel “paesaggio con cospicuo carattere di bellezza naturale e di singolarità geologica” che, reso valido dal tempo, ha assunto un carattere di interesse pubblico; come dal secondo, inteso in senso lato, deriviamo quel paesaggio artistico di valore storico ed archeologico che costituisce un vero patrimonio culturale per la nazione che lo possiede.

Entrambi questi aspetti non costituiscono che forme materializzate di persistenze dell’opera di modificazione svolta dall’uomo nel tempo le quali presentano carattere di particolare interesse estetico, artistico o storico. Tali persistenze, siano esse concretizzate in monumenti, edifici o complessi di edifici, o insediamenti di varia estensione, o siano intimamente penetrate nella struttura stessa del paesaggio, riplasmandone o valorizzandone le primitive caratteristiche ambientali, sono venute in contatto con la lunga inevitabile serie di susseguenti modificazioni derivate dall’insorgere di nuove condizioni di vita e quindi dal nascere di nuovi bisogni e vi si sono talvolta inserite automaticamente in modo più o meno omogeneo, talvolta vi son rimaste quasi atrofizzate nel tempo come trapianti estranei nel bel mezzo di tessuti vitali in continuo sviluppo, talvolta infine vi sono state deteriorate e minacciate di distruzione, quando non siano state parzialmente distrutte o siano per esserlo. È perciò che, come è stato giustamente detto, il problema della conservazione del paesaggio naturale e della difesa di quello archeologico è un problema dì riequilibramento, ad andamento dinamico come tutti quelli che si riferiscono ad un organismo in evoluzione e, come quelli, non schematizzabile in una metodologia unica. Come quelli, però, è da risolversi non localmente, bensì globalmente; nel nostro caso in sede di pianificazione territoriale, ed è da affiancarsi alle misure per la valorizzazione dell’attuale paesaggio urbano e la conservazione di quello rurale di cui non è che un parziale aspetto. È così dunque, ripetiamo, che il concetto di valorizzazione e conservazione del paesaggio viene a profilarsi come un processo unico, a cui corrisponderanno in sede di applicazione pratica le diverse misure adatte al caso, corrispondenti ai differenti aspetti del paesaggio, considerati nella loro concretezza attuale, o alle sue differenti fasi, considerate storicamente, nella loro temporalizzazione.

Non ci sembra fuori luogo ricordare che gli inglesi, che per primi, nell’immediato dopo guerra, si trovarono ad affrontare praticamente una situazione del tipo nella ricostruzione di alcune della loro città bombardate, veri gioielli architettonici di quel gotico inglese che è cosi caratteristico dei loro ambienti conclusi, e che, d’altra parte, non potevano prescindere dalle tendenze paesaggistiche, né dimenticare l’amore per il verde che li aveva fatti i pionieri delle città giardino, enunciarono, fin dall’inizio della loro delicata opera, la necessità di considerare accanto alla pianificazione territoriale (physical planning) che ci si presenta come quel complesso di modificazioni dell’ambiente umano eseguite su base geografica e volte a scopi economici e sociali (nell’ambito cioè della residenza, del lavoro, dello svago, dei trasporti e della vita comunitaria), un processo non meno importante del primo, il visual planning, la pianificazione volta a soddisfare altri bisogni, non meno fortemente sentiti dall’uomo moderno anche se di natura più prettamente spirituale, e cioè i bisogni estetici.

È stato detto che da una buona pianificazione, condotta secondo sani criteri, scaturirà automaticamente il paesaggio del futuro; che un’oculata sistemazione delle residenze, dei servizi, del verde e degli impianti industriali, sia in sede urbana che regionale, che una razionale coltivazione del terreno destinato all’agricoltura ed un’attenta valorizzazione delle zone e dei complessi turistici, non potranno non produrre un’armonica distribuzione e disposizione di tutti gli elementi, naturali ed artificiali, costituenti il paesaggio urbanistico, nella nuova scala a cui le mutate condizioni economiche e lo sviluppo dei nuovi rapporti sociali hanno dato origine.

Questo volontarismo pianificato, mirante all’inserzione dell’uomo moderno nella sua cornice naturale riplasmata secondo criteri attuali dovrebbe, forse con minore apparente spontaneità, certo con maggiore prontezza, trovare le forme per le sue funzioni, e rispecchiarsi nella concretezza delle realizzazioni, a somiglianza di processi consimili, che molto più rudimentali e meno organizzati ma ugualmente efficaci come tutto ciò che muove contemporaneamente dall’uomo-spirito e dall’uomo-materia, lasciarono la loro traccia indelebile negli aspetti del paesaggio sia urbano che rurale che caratterizzarono le età che ci hanno preceduto. Ma il nostro, ripetiamolo, non sarà che un apporto nel quadro generale, un episodio nel processo dinamico del totale sviluppo del paesaggio urbanistico. Perché esso risulti completamente equilibrato, perché, cioè, l’unità del tutto e la coesione fra le varie parti coesistano e si determinino scambievolmente (si ricordino la continuità e l’articolazione postulate dal Benevolo come requisiti per la sua validità) è necessario che si operi in esso l’inserzione omogenea di quei complessi o di quelle zone che, pur facendone parte materialmente, sono lembi conservati o recuperati di una forma di paesaggio d’altri tempi, e, come tale, rispecchiante idee, principi, attività economiche differenti dai nostri. Particolarmente, come si è potuto ancora una volta notare nel corso dei citati dibattiti preparatori, la nostra attenzione è attirata dal paesaggio storico-archeologico, estremamente pregevole e particolarmente deperibile, la cui conservazione costituisce nello stesso tempo il lato più spiritualmente attraente e più materialmente delicato del problema. Quanto la nostra sensibilità senta l’appagamento di un suo intimo bisogno in questa viva testimonianza che ci riattacca al passato è inutile ripeterlo, come è superfluo constatare ancora una volta con quale particolare intensità tale bisogno è attualmente sentito.

Sono ormai acquisiti i vari rimedi proposti dai più valorosi e sensibili studiosi del nostro problema, è noto il dibattito per il criterio di conservazione o di restauro, nonché l’affermata necessità del proporzionamento delle masse negli ambienti, l’opportunità di non superare, in caso di ricostruzione di antichi complessi o di vecchi nuclei urbani, la cubatura in senso quantitativo ed altimetrico degli edifici preesistenti. È nota la serie di misure da osservare in sede di pianificazione, di recente riassunte egregiamente dal Quaroni, l’importanza del piano aperto, la necessità di deviazione del traffico, a cui si rifanno quelle direttive di pianificazione precintuale (precinctual planning) di cui demmo cenno in alcuni nostri articoli fin dal 1948 ed a cui si sono ispirati i primi grandi piani urbanistici britannici di ricostruzione [1].

Pure, alla fine delle nostre considerazioni, non possiamo tacerne una che ci sembra realmente conclusiva e che, comunque si affronti il ragionamento, è sempre la stessa: data l’estrema mutevolezza ed inafferrabilità degli elementi, e prescindendo da quei pochi precetti generali che possono servire da guida in ogni caso, la soluzione del problema che ci siamo proposti nei riguardi del nostro paesaggio urbanistico inteso in senso integrale, e cioè di valorizzazione della sua espressione moderna e di conservazione e difesa di quella preesistente, deve scaturire principalmente dall’educazione e dalla chiaroveggenza dei pianificatori e dal loro tradizionale buon gusto e senso della misura.

Gli italiani, come il Faure dice per i francesi, anzi ancora più di loro, sono soprattutto architetti, sono artisti nell’anima. Ma dalle stesse esigenze della vita moderna sorge da ogni parte il monito, ormai imperioso, che l’ora è giunta che l’architettura reintegri l’urbanistica ed identifichi nella sua missione una missione sociale. E che il pianificatore tratti forma ed essenza con l’oculatezza necessaria ad equilibrare le due facce del suo processo modificatore della sede umana; che si adoperi affinché, da una parte, non vengano vandalicamente distrutte le irriproducibili, pregevoli opere d’arte che ci sono pervenute attraverso il tempo, ma che sappia, dall’altra, discernere ed evitare il pericolo di sterilizzare, per un malinteso concetto di conservazione, ampi tratti di utile territorio di estrema necessità all’esplicarsi della vita sociale; che non tenti di far rivivere, nelle sue opere di rimodellamento, schemi ormai superati, né, d’altra parte, con deprecabile foga di eccessivo modernismo rinnovatore, deturpi quegli ambienti che del passato serbino ancora integra la loro vitalità e compiono ancora la loro particolare funzione; che, nel conflitto tra conservazione e progresso, sappia contemperare gli elementi dell’antico e del nuovo in quella giusta proporzione per cui l’intero organismo pianificato non venga ad essere turbato nell’estrinsecazione delle sue funzioni vitali ed assuma un’impronta di bellezza che sia la risultante di tutta l’opera di appassionato rimodellamento che vi è stata prodigata nei secoli.

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[1] Uno dei primi esempi di applicazione dei principi di conservazione degli ambienti antichi e della loro integrazione nel paesaggio moderno si ha nella ricostruzione di Exeter eseguita da Thomas Sharp. Vogliamo ricordarne qui l’esposizione introduttiva. Dopo aver esaminato le varie soluzioni possibili ed avere scartato il restauro fedele e pedissequo degli ambienti monumentali non meno che la ricostruzione imitativa, l’urbanista inglese si pronuncia in favore del rinnovamento. “Un rinnovamento – egli dice – non distruttivo ma comprensivo, che si basi sull'osservanza della scala e dello schema e sulla creazione di forme intime anziché monumentali. Esso non richiede il sacrificio dei requisiti e delle esigenze moderne. Al contrario potrà soddisfare le moderne condizioni di vita ed incorporare i moderni ideali democratici. Anche oggi – egli aggiunge – l’intimità è una caratteristica desiderabile. E sebbene le esigenze dei trasporti, larghe strade ed ampi incroci, la distruggano, quando il traffico principale è canalizzato fuori delle mura della città, queste esigenze non cozzano con il mantenimento di tale caratteristica”.

Prima di affrontare l’esame dei processi di trasformazione fondiaria che hanno investito quest’area della Calabria - intendo dire di Cutro e del Crotonese - è opportuno soffermarsi sui caratteri del paesaggio agrario proprio del latifondo tipico. E a tale fine risulta necessario porsi la domanda: ma quello del latifondo era solo e semplicemente un paesaggio agrario? E che cos’è un paesaggio agrario? Emilio Sereni, lo studioso pionere di tali studi, checi ha lasciato la più ampia e precorritrice monografia sul tema- Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari, 1961 - ha elaborato una definizione sintetica, efficace e persuasiva. Egli ha scritto : « paesaggio agrario significa quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». Come si può constatare si tratta di una formulazione ineccepibile nella sua essenzialità, ma per noi - per i nostri fini di esplorazione più circostanziata - troppo generale e onnicomprensiva. In effetti - e come potrebbe essere altrimenti? - il latifondo è certo un paesaggio agrario. In esso non possiamo non scorgere un paesaggio naturale su cui l’uomo, vale dire i contadini, hanno impresso la loro impronta con il proprio lavoro secolare, i propri insediamenti, coltivazioni, tracciati viari, ecc. E tuttavia il latifondo è qualcosa di meno generico di un paesaggio. Esso è, precisamente, un sistema agrario. Che cos’è un sistema agrario ? E’ una particolare organizzazione dell’habitat agricolo in cui sono rinvenibili rapporti di funzionalità sistematica tra le forme e i modi dell’abitare e l’organizzazione produttiva agricola, fra gli insediamenti e la campagna, fra la casa ed il campo.

Nel primo volume della Storia dell’agricoltura italiana da me diretta (Spazi e paesaggi, Marsilio Venezia 1989) io ho individuato tre grandi sistemi agrari che contrassegnano in forme originali il nostro paesaggio agricolo. Questi tre grandi sistemi sono la cascina dell’Italia padana, la mezzadria delle regioni di centro del nostro Paese e il latifondo cerealicolo-pastorale. Vediamo brevemente come si configuravano questi «sistemi».

In che cosa consisteva la cascina, così diffusa soprattutto nella bassa pianura irrigua della Valle del Po? Essa era una forma di insediamento stabile. Una città in miniatura piantata nel bel mezzo della campagna. Molto spesso, le casine « a corte» erano chiuse da mura e avevano un porta di ingresso, che per lungo tempo è stata chiusa di notte dai proprietari per impedire l‘uscita dei dipendenti. Al suo interno c’erano le case dei salariati fissi,degli stallieri, bovari, ecc. la casa padronale, le stalle per l’allevamento degli animali, i granai, i fienili, i magazzini,ecc. Perché tante case ed edifici? Per ragioni eminentemente produttive. Nelle aziende in cui sorgevano le cascine l’attività agricola e di allevamento si svolgeva nel corso di tutto l’anno. L’agricoltura irrigua richiedeva una costante manutenzione, soprattutto per la coltivazione del riso e per le foraggere. Del resto anche durante l’inverno occorreva provvedere all’alimentazione del bestiame, che non viveva di pascolo brado, ma si alimentava di foraggio nelle stalle. Quindi, in queste terre, al paesaggio agrario delle grandi aziende di pianura a cereali e pascolo, percorse da canali, punteggiato qua e la dagli specchi d’acqua delle risaie, corrispondeva un insediamento abitativo centralizzato e stabile, quello appunto della cascina che ho appena abbozzato.E si comprende dunque che fra i due ambiti ci fosse un rapporto di funzionalità, di necessità sistematica..

In tutt’altro contesto sorgeva il sistema della mezzadria. Qui il modello abitativo era dato dal singolo podere isolato in mezzo alla campagna. In esso abitava il mezzadro, con la sua famiglia, sulla base di un contratto di durata variabile. Spesso il proprietario che concedeva la casa colonica possedeva più poderi nella stessa zona ed egli li coordinava stando in una dimora più grande, talora una vera e propria villa, la fattoria , che poteva essere l’abitazione permanente o semplicemente estiva. La famiglia mezzadrile doveva stare sulla terra, anche per curare il territorio - prevalentemente collinare - incanalare le acque piovane, impedire le erosioni del suolo, riparare i terrazzamenti, ecc.Ma le coltivazioni di cui doveva occuparsi - da dividere a metà a fine anno col proprietario - erano anche quelle che dovevano garantirgli l’autosufficienza alimentare. Perciò intorno al podere il paesaggio agrario era dominato dalla policoltura contadina: grano, ulivi, viti, alberi da frutto, orto, bosco, pascolo, ecc.Una campagna dunque continuamente bisognosa di lavoro e dunque di presenza umana. E’ questo « il bel paesaggio» delle colline toscane e umbro-marchigiane così spesso descritte e ammirate, diventato ormai l’emblema, un po’ stereotipato, del paesaggio agrario italiano. Anche in questo caso possiamo parlare di sistema agrario, perché possiamo scorgere i legami funzionali che intercorrevano tra le ragioni dell’insediamento, in questo caso il podere, e le logiche e i vincoli della produzione.

Ancora più radicale si presenta il passaggio da queste terre all’habitat del latifondo tipico.Qui il primo dato da sottolineare, per comprendere appieno i caratteri di sistema dell’organizzazione agricola, è l’adattamento delle attività produttive ai caratteri avversi del quadro naturale originario.In queste terre - penso al Tavoliere delle Puglie, alla piana di Metaponto, al “collepiano” di Crotone, a tante zone interne della Sicilia e della Sardegna - l’agricoltura ha dovuto fare i conti per secoli, adattarsi e per così dire subordinarsi alle avversità naturali dei luoghi . In queste campagne prevalevano le terre argillose, adatte ai cereali ma non agli alberi, dominava il clima arido, con un regime pluviometrico irregolare e comunque tendente alla siccità primaverile-estiva. Al tempo stesso in genere erano rari i corsi d’acqua, tutti a regime ovviamente torrentizio. Ma l’elemento di avversità più grave era dato da un dato di ostilità ambientale difficilmente controllabile: la malaria. Questa endemia vecchia di millenni nell’habitat mediterraneo contribuiva a render radi gli abitati, disabitate le campagne. Ebbene, a tali condizioni “storico-naturali” ha corrisposto un sistema agrario a suo modo geniale. Un elemento di tale sistema era costituito dalla pastorizia transumante. D’inverno i pastori trasferivano le loro greggi nelle piane latifondistiche delle “marine”, dove raramente cadeva la neve, era possibile per gli animali brucare erbaggi, e gli uomini erano al riparo dalla malaria. In estate, invece, le greggi fuggivano le pianure aride ed alpeggiavano sulle montagne, dove trovavano pascoli freschi, acque, ombre e rifugio. Questa era ad esempio la pratica, antica, dei pastori abruzzesi che scendevano d’estate in Capitanata o dei mandriani calabresi - spesso alle dipendenze di grandi proprietari terrieri - che si spostavano stagionalmente tra la Sila e le marine del Crotonese. L’agricoltura, alternata ai pascoli, era dominata dalla coltivazione dei cereali. Piante preziose, non solo perché davano il pane, ma anche perché non richiedevano la presenza e la cura costante degli uomini. Non era necessario che ci fossero abitazioni presso le coltivazioni di grano nei latifondi. La presenza, assai numerosa, dei lavoratori si rendeva necessaria solo stagionalmente: in autunno per l’aratura e la semina, e soprattutto per la falciatura e la trebbiattura agli inizi dell’estate. A queste necessità di avere tante braccia da lavoro ma solo per pochi periodi dell’anno il “sistema” latifondo rispondeva con le migrazioni stagionali dei lavoratori insediati nei borghi, che sorgevano sulle alture ai confini dei territori latifondistici. Migrazioni che tuttavia potevano essere anche di più lungo raggio. Dunque, un paesaggio nudo, senza case, senza alberi, con poche masserie sparse su ampi spazi, e coronato da insediamenti accentrati nei paesi, dove viveva la forza lavoro bracciantile e i contadini. Una forma dell’abitare che si attagliava perfettamente ai vincoli dell’habitat e alle forme dominanti dell’attività produttiva.

Volendo soffermerci su questo territorio debbo ricordare che esso, prima della riforma avviata nel 1950, aveva subito pochissime modificazioni. Solo alcune bonifiche condotte negli anni del fascismo lungo la Valle del Neto avevano mutato la fisionomia di alcune aree delimitate. Ma a questo punto occorre ricordare un dato sin’ora rimasto in ombra. Il latifondo era un sistema agrario, ma anche un assetto giuridico della proprietà. In questa terra dominavano i grandi proprietari terrieri. Per dire cose più precise, proprio nella circoscrizione di cui ci occupiamo, quella del cosiddetto “Collepiano di Crotone” al momento della Riforma esisteva la più elevata concentrazione di proprietà fondiaria d’Italia. Qui solo 47 proprietari, su un totale di 10521 possedevano il 51% dell’intera superficie agraria. Famiglie come quelle dei Barracco, Berlingieri, Zito, Lucifero, Zinzi, Susanna, Mottola possedevano terre anche in altre circoscrizioni, sulle colline di Petilia Policastro, in Sila, in provincia di Cosenza, persino in Basilicata.

Non è del resto un caso che la prima legge di riforma fondiaria è la Legge Sila del 12 maggio 1950. Nell’ottobre dello stesso anno venne promulgata la cosiddetta Legge Stralcio, che investì con provvedimenti di esproprio e ripartizione delle terre altre regioni d’Italia: Abruzzi, Molise, Puglia, Sicilia, Sardegna, Lazio,Toscana meridionale, Delta del Po. Il primo risultato importante della riforma, che merita qui di essere ricordato, è l’abolizione giuridica e poi anche sostanziale, del latifondo. I proprietari non potevano possedere più di 300 ettari di terra a testa. Anche se molte famiglie latifondistiche ricorsero a vari trucchi e sotterfugi per mantenere superfici più vaste, il latifondo giuridico ricevette un colpo mortale. Fra il 1950 e il 1960 furono trasferiti in mano dei contadini 417.000 ettari di terra. Le tipologie delle assegnazioni erano due: le quote, che si aggiravano intorno a 1 ettaro o 1 ettaro e mezzo, e i poderi, in genere di almeno 4-5 ettari con annessa la casa colonica.

Quali effetti di trasformazione ebbe la riforma sul paesaggio agrario? Occorre dire subito che a 10 anni dall’avvio delle ripartizioni, nel 1960, ben il 40% delle terre assegnate ai contadini venne abbandonato. Si tratta di una cifra elevata che riguarda soprattutto le quote, ma anche i poderi. Ancora oggi, se girate per le campagne di Cutro qui attorno, così come in altre aree latifondistiche, potete osservare i resti delle case coloniche precocemente abbondonate dai contadini. Qui il mutamento del paesaggio e anche del territorio è stato minimo se non nullo.

E’ cambiata la proprietà, ma non è cambiata l’agricoltura, perché l’habitat restava quello di sempre, avverso alle coltivazioni intensive e agli insediamenti. Solo la dove la redistribuzione delle terre era accompagnata da opere di bonifiche, dalla costruzione di canali, dalla diffusione dell’acqua, il paesaggio è mutato, e così anche il profilo stesso del territorio. Ad esempio, nelle zone lungo il Neto, e comunque dove è stato possibile portare l’acqua, le colture estensive dei cereali hanno ceduto il passo alle colture orticole, agli alberi, ai frutteti. E il mutamento agricolo ha a sua volta indotto la diffusione degli insediamenti, dei tracciati viari, ecc. Qui la riforma ha dunque avuto un relativo successo. Anche se bisogna pur sempre ricordare che essa è stato un episodio storicamente tardivo. La riforma è stata realizzata quando ormai l’agricoltura stava diventando sempre meno importante nell’economia complessiva di un Paese industrializzato come l’Italia.

Per concludere, vorrei sollevare un problema, a mio avviso rilevante, che si pone davanti a noi. Il sistema latifondo, come abbiamo visto, è stato spezzato, così come la concentrazione abnorme della proprietà fondiaria .Tuttavia rimangono ancora, sebbene frammentate, estese e significative aree di paesaggio latifondistico. E’ sufficiente andare in giro attorno al comune di Cutro, Santa Severina, Botricello, ecc, per avere la possibilità di ammirare queste distese di terre nude, lunari, senza un arbusto, un muretto, una linea di confine. Il problema che sollevo è: come ci poniamo di fronte a questi frammenti che sono i resti di una agricoltura millenaria?

Dobbiamo trasformarli in agricolture moderne, investendo in bonifiche, irrigazioni, trasformazioni territoriali? Che senso avrebbe oggi, cioè in una fase storica in cui l’agricoltura italiana, come del resto quella europea, è gravata dalle eccedenze produttive? A qual fine allargare la superficie agricola, in terre difficili, quando la collettività europea paga gli agricoltori perché lascino incolte le loro terre? Si comprende bene, dunque, che la via di una nuova valorizzazione agricola di queste campagne è priva di senso.

Io credo, al contrario, che la migliore scelta per valorizzare queste terre sia di lasciarle così come sono. Esse costituiscono infatti un frammento storico di straordinario valore: gli ultimi relitti del latifondo tipico, di cui si trova l’eguale, in Europa, solo in poche altre regioni, come l’Alentejo portoghese o l’ Andalusia. Un parco paesaggistico del latifondo, ecco la destinazione migliore di queste terre: paesaggio di inquietante nudità e magnifica testimonianza sotto il cielo di millenni di lavoro contadino.

Prima di indicare le linee generali, di contenuto e di metodo, per avviare la costituzione di un Catalogo generale del paesaggio agrario italiano ritengo opportuno precisare alcune questioni preliminari, al fine di rendere più chiaro e culturalmente ben motivato l’intero progetto. Tenterò quindi di andare alle radici di questa impegnativa proposta rispondendo ad alcune domande tanto elementari quanto necessarie.

1)Perché oggi un Catalogo del paesaggio agrario?

A questa domanda saranno date risposte molteplici nel seguito di queste note. Ma intanto sottolineiamo una ragione rilevante, abbastanza evidente e comprensibile. Dopo oltre mezzo secolo di agricoltura industriale che ha trasformato profondamente le nostre campagne, dopo decenni di PAC, che ha reso esasperata la pressione produttiva sul suolo, è diventato urgente fare un bilancio, delineare un quadro di insieme di quel che resta di uno dei paesaggi agrari, più vari, diversificati e suggestivi dell’intero pianeta.D’altro canto, è il caso di ricordare che dalla fine degli anni Ottanta la Politica Agricola Comunitaria, sia attraverso le cosiddette Quote Latte, sia attraverso i piani di set aside - cioè la messa a riposo dei terreni meno produttivi - limita e regolamenta l’uso del suolo e le sue trasformazioni culturali. La corsa alla produttività illimitata è finita da quasi un ventennio. Dopo secoli di dissodamenti di nuove terre, e di sfruttamento intensivo delle campagne, un potere sovranazionale esorta e impone la limitazione dell’uso agricolo dei fondi. Dunque l’Italia, come gli altri Paesi del Vecchio Continente, si trova all’interno di un quadro normativo sovranazionale che regola, limita e controlla l’evoluzione delle coltivazioni secondo un disegno politico generale.E’ perciò sempre meno immaginabile l’azione solitaria di imprenditori agricoli che manipolano il territorio secondo le proprie esigenze individuali. Il paesaggio agrario può evolvere solo all’interno di un ampio disegno continentale.

Ricordo a tal proposito che uno degli effetti della stessa agricoltura industriale è stato quello di ridurre la superficie agraria utilizzata, lasciando così estesi territori fuori da ogni sfruttamento produttivo, fissati nei loro caratteri tradizionali, anche se non sempre ben conservati. Infine, nel momento in cui l’Unione Europea pone il paesaggio come uno dei beni originali del Vecchio Continente, da regolare e da tutelare (Convenzione europea del paesaggio, 2000) appare più che urgente apprestare una ricognizione che fissi in un grandioso inventario, come in un regesto di beni artistici unici e irriproducibili, il patrimonio che ereditiamo nelle campagne e nelle aree rurali del Bel Paese.

2)A che serve ?

Il primo fine risponde a una necessità di censimento. Il nostro paesaggio agrario è - come vedremo meglio più avanti - un patrimonio complesso e inscindibile di bellezze storico-artistiche e naturali, e come tale va tutelato e conservato, per quanto possibile, nella sua integrità. A tal fine diventa indispensabile un inventario delle sua estensione, delle sue caratteristiche, varietà, distribuzione, ecc. in grado di fornire alle istituzioni predisposte alla tutela la mappatura vivente, in tutte le sue articolazioni, di tale sterminato patrimonio.

Un Catalogo, com’è facile intuire, faciliterebbe un’opera attiva di difesa e valorizzazione. Ad esempio, consentirebbe di conoscere le aree più degradate e bisognose di ripristino di equilibri ambientali più congrui e stabili. Al tempo stesso potrebbe consentire il sostegno pubblico ad agricolture tradizionali, soprattutto nelle colline interne e nelle aree montane, che incarnano ancora oggi forme di paesaggio agrario di valore storico, presidi di conservazione della biodiversità agricola, di difesa degli equilibri idrogeologici del suolo. Un Catalogo infine consentirebbe una più consapevole e attiva politica di coinvolgimento dei cittadini nelle fruizione dei beni molteplici del nostro paesaggio agrario.

E’ appena il caso di ricordare che un tale strumento potrebbe inoltre costituire un importante argine culturale per incominciare a difendere con altra lena e severità civile il nostro patrimonio paesaggistico dalle aggressioni incessanti e vandaliche degli infiniti fautori del cosiddetto « sviluppo». Conoscere il paesaggio con le sue peculiarità naturali e storiche, espressione di vicende e soluzioni tecniche originali, di culture e saperi profondamente stratificati e sedimentati nel tempo, dovrebbe rendere il nostro territorio come «sacro», un immenso sito di archeologia rurale: non modificabile e manipolabile senza un consenso generale.E intorno alla difesa del paesaggio agrario italiano possono trovare ragioni di impegno quanti si oppongono a una cultura che assegna valore alle cose solo se trasformabili in merci, solo se generatrici di profitto.

3)Che cosa intende illustrare?

La prima risposta da dare a questa domanda è che il Catalogo intende sottolineare e documentare il carattere storico del paesaggio agrario italiano.Il termine storico è in sé, per la verità, semanticamente poco significativo. Tutti i terriori che risultino antropizzati da qualche decennio possono definirsi segnati da una impronta storica. Ma l’Italia, com’è noto, va ben oltre questa generica soglia di caratterizzazione.Ciò che infatti distingue la complessità dei caratteri storici del paesaggio della Penisola - rispetto ad es. ai paesaggi europei - è la molteplicità e stratificazione delle impronte che così tante e distinte civiltà hanno lasciato nel territorio e nelle forme delle nostre campagne.Pensiamo alle modificazioni impresse dall’azione delle bonifiche ad opera dei colonizzatori greci, degli Etruschi, dei Romani, degli Arabi. Queste stesse civiltà, d’altro canto, hanno fornito nel corso del tempo alle nostre campagne un contributo così incomparabilmente ampio di nuove piante, tecniche di coltivazione, forme di piantagioni e di recinzione della terra, modi di captazione e uso dell’acqua, costruzioni e manufatti, che il carattere storico del nostro paesaggio assume un valore del tutto particolare rispetto agli altri Paesi europei. Va d’altra parte ricordato che così come il paesaggio fonde in una sintesi originale la bellezza del sito o della piantagione con il carattere storico del loro uso e della loro manipolazione a fini economici, allo stesso modo i manufatti sparsi nelle nostre campagne, incastonati dentro gli habitat più diversi, esprimono una documentazione di passate civiltà del lavoro agricolo e al tempo stesso costruzioni di valore artistico, opere ammirabili per pregio estetico, per grandiosità e genialità edificatoria. Fanno parte del nostro paesaggio agrario - in parte similmente a quanto avviene in alcune campagne europee, ma con una varietà e ricchezza incomparabile - non solo la centuriatio romana e il disegno geometrico di tante strade e territori, ma anche opere invisibili che spesso sfuggono alla nostra rilevazione immediata e che solo di recente la ricerca archeologica è venuta scoprendo. Si pensi alle briglie montane e collinari con cui già i romani imbrigliavano i corsi alti dei torrenti e rimodellavano il territorio.Alcune di queste - come la briglia di Lugnano in Teverina, in Umbria, continuano ancora oggi a svolgere la loro funzione di difesa del suolo.Ma il nostro paesaggio racchiude nel suo seno una infinità di manufatti che talora costituiscono già isolatamente dei beni artistici meritevoli di specifica tutela. Si pensi agli acquedotti romani, ai ponti, alle strade, ai canali, alle cisterne, alle fontane, ai pozzi appartenenti a diverse epoche. La stessa architettura rurale, espressione di forme molteplici di organizzazione della vita agricola, offre un repertorio di estrema ricchezza e varietà: cascine chiuse e aperte, fattorie, ville, casali, masserie, mulini, frantoi, stalle,ecc.

Infine, ma non certo ultimo in ordine di importanza, un aspetto decisivo dell’originalità del paesaggio agrario italiano. Emilio Sereni distingueva il nostro definendolo verticale, rispetto all’orizzontalità che domina nei paesaggi europei, segnati dall’estesa presenza delle pianure. E in effetti i terrazzamenti e le varie forme di utilizzo delle aree collinari hanno a lungo dato una fisionomia di «agricoltura arrampicata» alle nostre coltivazioni. Ma non c’è dubbio che l’unicità delle forme delle nostre campagne è legata alla varietà incomparabile del habitat naturali che la Penisola ospita nel suo seno. Dalle Alpi alla Sicilia una continua e degradante diversità di climi, di morfologie, di suoli, ha imposto alle diverse civiltà agricole che vi si sono insediate di esprimere in forme molteplici le proprie culture di modellazione degli spazi naturali e di organizzazione degli insediamenti.Ma ha dato ad esse anche l’ opportunità di utilizzare un patrimonio biologico di piante di incomparabile ricchezza - frutto degli apporti secolari di diverse e talora lontane culture agronomiche - con cui hanno saputo valorizzare la varietà dei climi e delle vocazioni ambientali locali che la Penisola offriva.

Come costruire il Catalogo?

E’ questo indubbiamente l’interrogativo a cui è più difficile rispondere. Probabilmente, per ciò che riguarda il punto di partenza, la soluzione più semplice, ma anche quella più fedelmente aderente alla geografia e alla storia del nostro paesaggio, è iniziare dai caratteri naturali dei diversi habitat. Le regioni geografiche della Penisola possono costituire i grandi quadri di insieme all’interno dei quali si sono storicamente collocate le diverse forme di organizzazione dei campi e delle piantagioni, l’uso degli spazi, i moduli costruttivi. I quadri naturali, dunque, come grandi contenitori all’interno dei quali si ritrovano diverse espressioni di paesaggio agrario, magari contigue, che possono essere individuate e analizzate attraverso un processo di progressiva e sempre più ravvicinata focalizzazione. Il Catalogo, in una impostazione siffatta, dovrebbe procedere come per cerchi concentrici, partendo da ampie delimitazioni spaziali per mirare a ricognizioni analitiche sempre più circostanziate. Tale impostazione consentirebbe di concepire il lavoro di costituzione del Catalogo come un processo incrementale. Una volta delineate le macro-aree in cui il paesaggio appare contenibile, e individuate le forme più tipiche e meglio note di esso, occorrerà riempire di indagini sempre più ravvicinate - condotte da rilevatori che operano sul campo - gli schemi generali, in grado di fornirci un censimento significativo dello stato attuale del nostro patrimonio. Va da sé che i quadri di insieme, geografici e storici, del paesaggio dovrebbero trovare una prima e importante espressione e sistemazione, in grado di circolare tra il pubblico, in una edizione cartacea.Un grande atlante del paesaggio agrario italiano che renda visibile e percepibile la vastità e ricchezza dei beni censiti. Ma ad esso dovrebbe seguire un lavoro autonomo destinato a proseguire nel tempo e finalizzato a riempire i quadri generali con le ricognizioni analitiche condotte sul campo. Dunque un catalogo elettronico che si arricchisce continuamente nel tempo e che sarà in grado di fornirci l’archivio generale del paesaggio agrario italiano.

A nessuno sfugge l’interesse e l’importanza di un simile patrimonio conoscitivo.Esso costituirebbe uno strumento prezioso per controllare alterazioni e manipolazioni arbitrarie e per tutelarlo. D’altra parte occorre anche ricordare che il paesaggio agrario non è un museo di reperti chiusi nelle loro teche di vetro. Esso è sede di economie in corso, quindi di uso e frequentazione quotidiana.La geometria delle aziende capitalistiche di pianura è in continua evoluzione. E qui si pone tra l’altro un problema che andrà al più presto affrontato. Una parte cospicua dei territori di pianura è oggi occupata dalle agricolture industriali, che hanno formato anche’esse, una forma nuova di paesaggio agrario: un paesaggio molto regolare e geometrico, fatto di coltivazioni nettamente ripartite, ma che negli ultimi anni, attraverso la plastica bianca delle serre, sta gravemente alterando il profilo e l’estetica delle nostre campagne. Anche per tale ragione un Catalogo, quindi, un «catasto» del nostro patrimonio storico, si rende necessario al fine di fornire alla regolamentazione legislativa i supporti imprescindibili di conoscenza.

Quali paesaggi?

Si potrebbe iniziare, procedendo da Nord verso Sud, dalla Montagna alpina. Qui, dove la natura impervia ha scoraggiato l’intrapresa agricola, fanno tuttavia paesaggio originale i territori a pascolo, dove si svolgeva l’alpeggio del bestiame in estate e le costruzioni delle malghe, in legno o in pietra, per ricoverare uomini e bestie.Ma, sempre in queste aree, più precisamente lungo le valli, un modulo di sfruttamento agricolo originale appaiono oggi i vasti terrazzamenti a viti, degradanti lungo i costoni, che sono così tipici, ad esempio, in Valle d’Aosta.

Più a Sud abbiamo l’Area delle Prealpi, vale a dire il vasto territorio collinare di Lombardia, Piemonte e Veneto. Qui è l’area tradizionale della piccola proprietà, contrassegnata soprattutto dalla presenza del vigneto e di piante fruttifere resistenti al clima continentale. Siamo di fonte a una policoltura collinare inframmezzata da abitazioni sparse e da borghi che andrebbe analizzata nelle sue particolarità e varianti locali. Ma un’attenzione particolare meritano in queste zone anche i boschi misti di rovere, lecci, faggi, ecc, e i residui castagneti, esito di più o meno antiche riforestazioni.

La Pianura padana andrebbe analizzata in due grandi sezioni abbastanza distinte: l’alta e bassa pianura, la Padana asciutta e la Padana irrigua. Nella prima sezione, dove a lungo ha dominato il contratto mezzadrile e la bachisericoltura la coltivazione tradizionale dei cereali si è inframmezzata con diverse forme di piantata: aceri o pioppi a cui far arrampicare la vite, ma spesso gelsi con cui alimentare i bachi da seta.Vari anche qui sono stati i moduli e le soluzioni costruttive dell’archittettura rurale. Più a Sud il paesaggio diventa molto più vario, differenziato e complesso. I campi sono intersecati dai canali, rogge, fontanili: tutti elementi di una agricoltura intensamente irrigua. In tali aree il paesaggio è dominato da campi pianeggianti geometrici, propri delle vaste aziende capitalistiche, in cui si levano, in diverse forme e dimensioni le cascine: piccole cittadelle nel cuore della campagna, dotate spesso di porte e di mura di cinta, in cui viveva e trovava collocazione un manipolo di lavoratori fissi, il bestiame, le derrate, gli attrezzi da lavoro. In questo stesso habitat, ma più decisamente umido, sorge il paesaggio delle risaie, che costituisce una specificazione ulteriore dell’agricoltura irrigua. Più a oriente, verso il vasto Delta del Po, questo paesaggio conserva ancora i caratteri di una vasta terra di bonifica, dove dominano le grandi aziende cerealicole mentre le idrovore, le «chiuse» le cascine e i canali punteggiano i vasti campi coltivati.

La regione dell’Appennino costituisce un ambiente a sé. Qui siamo in un’area dominata dal paesaggio forestale: boschi, soprattutto di castagni, che caratterizzano in maniera particolare alcune zone(Toscana, Lazio settentrionale), ma anche di quercie e lecceti. Siamo di fronte a un territorio punteggiato di borghi e da popolazione rada che ha plasmato il proprio habitat anche con il pascolo, la macchia, i piccoli orti, ecc .

Più a Sud incontriamo la vasta e variegata area delle colline preappenniniche, nelle quali le popolazioni contadine hanno elaborato nei secoli molteplici forme di paesaggio.Un’ area che conserva una propria impronta originale è quella che potremmo definire dei terrazzamenti mediterranei della Liguria: vale a dire le coltivazioni «verticali» delle colline costiere a viti ed ulivi. Il paesaggio delle Cinque Terre è quello meglio noto e più caratteristico di quest’area.Nelle terre interne di tale regione geografica occorrerebbe delimitare e censire il paesaggio dell’incastellamento - frutto del ripiegamento difensivo delle popolazioni nel Medioevo - cosi’ caratteristico, ad esempio, di tante campagne del Lazio.

Più in basso, verso l’area delle colline dell’Italiacentrale, dominio secolare del podere mezzadrile, si distende il bel paesaggio della policoltura contadina, che conosce le sue espressioni più note e pubblicizzate nelle campagne toscane e umbre. Ma anche all’interno di un paesaggio così fortemente caratterizzato occorrerebbe delineare habitat ancora più specifici e distinti, come ad esempio il paesaggio delle crete senesi o dei calanchi volterrani. In questa stessa fascia dell’Italia centrale si rende inoltre necessaria la ricognizione di quell’area - oggi profondamente trasformata dalla bonifica - che per secoli è stata occupata dalla maremma, vale a dire dalla boscaglia, dalle colture e dagli acquitrini che hanno segnato le terre della costa tirrenica dalla Toscana fino al Lazio.

Il paesaggio del Mezzogiorno, nella dorsale appenninica, continua quello dell’Italia centrale.Tuttavia, al suo interno, si rintracciano elementi di novità importanti. Uno di questi è dato senza dubbio dalla presenza di due grandi foreste storiche, come la Sila in Calabria e la Foresta umbra in Puglia. E anche il paesaggio di alcune montagne, sede di insediamenti radi e di attività economiche, e oggi ricadenti nell’ambito di importanti parchi, fanno caso a sé. Penso, in questo caso alla montagna del Pollino e all’impervio e complesso habitat dell’Aspromonte, all’aspro paesaggio montano della Sardegna. Più a valle, nelle aree submontane, sussistono ancora ampi frammenti di quel paesaggio relativamente nudo, utilizzato a pascolo o a seminativo, che Manlio Rossi-Doria definiva il latifondo contadino.

Ma è il paesaggio degli alberi l’impronta più profonda e originale che connota le campagne del nostro Sud. Qui occorre, tuttavia, distinguere e delimitare l’insieme in varie declinazioni locali e tecniche. Nel Sud abbiamo il paesaggio arboricolo misto, che possiamo considerare una tarda evoluzione del giardino mediterraneo: piantagioni di viti, ulivi, mandorli, fichi, noci, fruttiferi vari. In tale ambito credo che una attenzione specifica occorrerebbe dedicare ai terrazzamenti: esistono ancora, infatti - per esempio sulle alture di Scilla, in Calabria. o lungo il Gargano, vertiginosi terrazzi che ospitano vigne o stenti mandorleti, i quali testimoniano un’ età davvero eroica del lavoro contadino. Veri musei dell’agricoltura a cielo aperto che non dovrebbero essere perduti. Ma, accanto ad essi, troviamo le vaste aree dell’arboricoltura specializzata: oliveti e giardini di agrumi. In alcuni casi abbiamo oliveti storici che fanno caso a sé: ricordo la foresta di ulivi giganteschi della Piana di Gioia Tauro. Allo stesso modo gli agrumeti costituiscono un paesaggio unico, ma articolato in modelli alquanto vari di coltivazione: si va dai terrazzamenti della Costiera amalfitana, del Gargano, o di Ciaculli (Palermo), agli impianti per colmata lungo le fiumare calabresi, alle più ampie aziende agrumicole di pianura della Calabria e soprattutto della Sicilia, ma anche della Sardegna. Nelle isole minori, come ad es a Pantelleria, tanto le forme delle coltivazioni che l’architettura rurale formano un disegno così originale del paesaggio mediterraneo da meritare una specifica ricognizione.

Naturalmente all’interno di tali ambiti è possibile rinvenire frammenti di paesaggio ancora più specifici e caratterizzati: penso ad esempio all’agricoltura dei muretti a secco, la campagna della piccola proprietà recintata con pietre che connota così originalmente il territorio intorno ad Alberobello e in altre aree della Puglia contadina.

Nelle zone di pianura e di bassa collina il Sud conserva anche un paesaggio radicalmente diverso da quello degli alberi: è l’habitat del latifondo tipico, un territorio generalmente nudo, punteggiato qua e là da qualche masseria, rade delimitazioni con muretti a secco, ecc che testimonia un utilizzo millenario della terra a coltivazione estensiva alternata al pascolo. Un paesaggio siffatto trova manifestazioni di grandissimo fascino nelle Murge e nel Tavoliere delle Puglie, nel Crotonese, in Calabria, nelle Campagne di Enna e in tante altre aree della Sicilia. Esso ci appare oggi come un mondo inquietante e lunare, lontano dai rumori e dalle velocità del presente, superstite testimonianza paesaggistica di una millenaria pratica di lavoro contadino ormai scomparsa.

Occorre ribadire alcuni principi essenziali, sui quali è necessario un preliminare consenso se si vuole procedere alla formulazione di una proposta legislativa che raccolga sufficienti adesioni nell’ambito della sinistra, e più in generale delle posizioni che si rifanno a modelli di società propri dell’Europa democratica.

1. La pianificazione urbanistica e territoriale è caratterizzata, fin dalla sua nascita, dalla circostanza di essere uno strumento necessario per affrontare questioni che il mercato, di per se, non è in grado di affrontare. Tale rimane nella società di oggi.

2. La pianificazione urbanistica e territoriale consiste nel definire regole e promuovere azioni che consentano una utilizzazione del territorio coerentemente finalizzata a determinati obiettivi culturali, sociali e politici. Essa è competenza primaria degli enti pubblici elettivi di primo grado (stato, regione, provincia e città metropolitana, comune).

3. La ripartizione delle competenze tra gli enti pubblici elettivi di primo grado si effettua sulla base del principio di sussidiarietà come definito dai regolamenti europei, senza nessun privilegio per i livelli sottordinati o per quelli sovraordinati, ma con riferimento al livello e alla scala degli oggetti e aspetti considerati.

4. Tutte le decisioni degli enti pubblici elettivi di primo grado che incidono sull’assetto del territorio sono definite in un piano, cioè in un elaborato precisamente riferito al territorio, formato con procedure trasparenti e aperte al confronto e alla partecipazione, che consenta di valutare la coerenza delle scelte relative ai vari aspetti dell’organizzazione del territorio.

5. Al piano e alle sue procedure non sono ammesse deroghe di alcun genere.

6. Quando un ente ha approvato il piano di sua competenza i piani di livello sottordinato sono soggetti alla mera verifica di conformità.

7. Prioritaria, rispetto alla decisione delle trasformazioni del territorio, è l’individuazione delle caratteristiche proprie del territorio, delle sue parti e dei suoi elementi, e la definizione delle limitazioni e delle opportunità poste dall’esigenza di conservarne le caratteristiche qualitative, di tutelarne le risorse, di evitare i rischi.

8. Il peso notevole che nell’assetto economico-sociale dell’Italia ha la rendita urbana, e le profonde distorsioni che essa determina nell’impiego delle risorse, impone la necessità di contenere al massimo il riconoscimento della rendita nella definizione delle trasformazioni, con attenzione sia al dimensionamento dei piani che alla prescrizione delle destinazioni d’uso. L’uno e le altre devono essere definite secondo criteri che assicurino la massima utilità sociale.

9. Nelle procedure di confronto e di partecipazione non istituzionali occorre distinguere nettamente gli interessi diffusi e i loro rappresentanti, le imprese produttrici di beni e servizi, gli operatori immobiliari, privilegiando la prima e la seconda delle categorie suddette.

10. Ogni sottrazione di aree appartenenti al ciclo naturale e al paesaggio rurale deve essere rigorosamente documentata nella sua necessità e nella sua entità. Regioni, province e comuni devono assumere la definizione del limite tra aree urbanizzate e urbanizzabili e territorio aperto come adempimento prioritario della pianificazione, e assicurare la non trasformabilità del territorio aperto.

11. La pianificazione regionale e provinciale deve individuare regole, procedure e risorse che consentano di ridistribuire equamente tra i comuni gli oneri e i vantaggi derivanti in modo diseguale dalle scelte della pianificazione.

Se si accettano i principi sopra elencati, il primo impegno politico da assumere è quello di contrastare esplicitamente e senza riserve, con il massimo dell’autorità ed evidenza politica, il testo coordinato per il governo del territorio (relatore Lupi) e impedire che si giunga alla sua approvazione, in qualunque forma emendato. Il secondo impegno è evidentemente quello di preparare la stesura di una legge di principi.

Il primo principio non può che essere (mi piace ribadirlo proprio oggi, anniversario della presa della Bastiglia e dell’instaurazione dei valori della rivoluzione borghese) la prevalenza dell’interesse pubblico. Accanto a questo ne porrei altri due:

- il principio di pianificazione, ossia la regola che le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, sintetici (ossia comprendenti l’insieme delle scelte sul territorio che competono all’ente decisore), formati con procedure trasparenti che comprendano la partecipazione dei cittadini o delle loro rappresentanze, e il

- il principio di competenza, ossia la prescrizione che la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune.

In una legge nazionale mi sembrerebbe indispensabile generalizzare la prassi della co-pianificazione, ossia della concertazione istituzionale: le conferenze di pianificazione instaurate da alcune regioni sono una buona strada, a condizione che ne siano definite con chiarezza le modalità; le intese tra interessi pubblici di settori diversi, introdotta da l’articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, possono divenire efficaci se diventano prassi generalizzata. La “carta unica del territorio” potrebbe diventare un obiettivo non irrealizzabile a queste condizioni, ed una enorme semplificazione per il cittadino e per l’operatore.

A questa prassi dovrebbe però affiancarsi il principio che gli accordi di programma, e in generale gli strumenti che prevedono il concorso nelle decisioni di soggetti, pubblici o privati, diversi dagli organi degli enti elettivi di primo grado, non possono comunque derogare rispetto alle scelte stabilite dal sistema ordinario della pianificazione.

Una ulteriore serie di principi dovrebbe regolare alcune questioni decisive del rapporto tra interessi privati e interessi collettivi nelle trasformazioni territoriali: le questioni attinenti l’edificabilità e i relativi “diritti”, i vincoli e così via. Ma prima di questi (o al vertice di questo gruppi di temi) ne porrei uno che riguarda i diritti dei cittadini: Si tratta della questione che, negli anni Sessanta, portò anche il nostro paese a stabilire dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Questi devono certamente essere rivisti, aggiornati e integrati, tenendo conto delle nuove esigenze sociali e di antiche esigenze mai risolte (come quella alla casa), ma certamente alcuni “limiti non derogabili” di tali requisiti devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio.

Per gli altri aspetti del rapporto tra interessi privati e interessi pubblici ciò che andrebbe stabilito, ribadendo con chiarezza posizioni giuridiche spesso radicate nella dottrina e nella giurisprudenza, si può sintetizzare come segue:

- la facoltà di edificare (ciò che taluni chiamano “diritti edificatori”) si costituiscono solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati;

- i vincoli ricognitivi, quelli cioè che costituiscono la concreta individuazione sul territorio di beni appartenenti a categorie tutelate da leggi nazionali e regionali (beni architettonici, ambientali, storici, paesaggistici) non sono indennizzabili, come stabilito da una costante giurisprudenza costituzionale;

- i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree (diverse da quelle di cui al punto precedente) alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti;

- la perequazione tra proprietari di aree cui il piano attribuisce differenti possibilità di utilizzazione, può essere praticata solo nell'ambito di ciascun comparto d’intervento operativo, come del resto previsto, sia pure con qualche ambiguità, dalla proposta dei deputati della Margherita.

Infine, se sostenibilità significa non lasciare ai posteri meno risorse di quante ne possiamo godere, e se le risorse non sono soltanto acqua, aria, terra ed energia, ma anche cultura, storia e bellezza, allora mi sembra maturo il momento per riprendere ed estendere la tutela dei valori essenziali che la nostra storia ha sedimentato nel territorio accrescendo la sua qualità estetica. È giunto il tempo di dichiarare che il paesaggio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. Nell’occasione, non sarebbe male riproporre per i centri storici una tutela più immediata, generalizzata e legata a programmi d’intervento finanziati, come aveva a suo tempo (1997) proposto l’allora ministro Veltroni.

Ho iniziato questa nota con l’affermazione che le due proposte di legge presentate dai deputati della Margherita e dalla “Casa della libertà” sono riconducibili (sia pure nella loro indubbia diversità) a una medesima matrice culturale. Ho argomentato questa tesi in un articolo scritto per la rivista Archivio di studi urbani e regionali, per cui ho appunto proposto il titolo: “Due le proposte di legge, una la matrice culturale”. Come di consueto, una bozza non corretta è in eddyburg. (agg. 17.7.03)

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