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Citato in: ZYgmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001

[...] E’ nel quadro della “democrazia politica” che si afferma necessariamente il principio della “urbanistica democratica”. Ed allora possiamo affermare che l’urbanistica democratica o è urbanistica partecipata o non è.

Ritornando alle nostre iniziali riflessioni etimologiche, ritroviamo dunque la pienezza del principio di democrazia espressa dalla polis greca come comunità autonoma di cittadini liberi e sovrani, dalla cui assemblea promana l’organizzazione della città.

Il riferimento simbolico alla polis non deve però cedere alla tentazione della semplificazione. La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie.

Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione. [...]

Si veda il testo integrale della relazione di Silvano Bassetti L’urbanistica partecipata: Ossimoro o tautologia? (2001)

Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.

Nota: quello che segue è un estratto, se pur molto ampio, dal documento (edito dalla Tipografia del Commercio di Venezia nel 1867), che copre la parte analitica, ma non le proposte di progetto (f.b.)

Il presente scritto ha per iscopo di studiare quelle riforme materiali, che se furono sempre un bisogno indiscutibile di Venezia, tanto più vengono domandate d’urgenza, ora che le sue mutate condizioni politiche le permettono di pretendere che i progressi delle scienze e delle arti vengano applicati a formare di essa quell’insieme perfetto, che non soltanto dai suoi cittadini ma viene desiderato dagli italiani tutti e dagli stranieri.

Prima di passare al dettaglio di quelle innovazioni e migliorie che io intendo proporre, avendo di mira l’igiene, la comodità, la proprietà e la bellezza, metto sott’occhio al lettore una breve descrizione topografica della città nella quale farò anche risaltare la distribuzione degli abitanti in ragione di numero e di qualità nei differenti circondari, in cui trovo conveniente di dividerla mentalmente.

Una linea retta che si tiri fra il centro dell’isola di S. Pietro di Castello da un’estremità e la Chiesa del Corpus Domini dall’altra, linea che risulta della lunghezza approssimativa di chilometri quattro; questa linea costituisce l’asse longitudinale della città, la quale si distribuisce quasi simmetricamente al dissopra e al dissotto di quest’asse, raggiungendo la larghezza massima di metri 2500 tra la fondamenta delle zattere e gli orti di S. Alvise, e la minima di metri 700 al rivo delle gorbe.

Se a poca distanza dall’asse (metri 150) e precisamente alla metà del campo S. Luca noi facciamo centro e con un raggio di metri 800 descriviamo una circonferenza, ci sembra di aver diviso la città in quattro scompartimenti, ciascuno dei quali ha una fisionomia propria e circostanze particolari che noi tenteremo di delineare partitamente per poi comporne una sintesi, o, come dicono i matematici, trovare la risultante di questi quattro enti o forze che ci darà la fisionomia generale della città.

Questi quattro circondari sono:

I – Lo spazio racchiuso nella circonferenza suaccennata, e che noi, quantunque abbiamo poca deferenza agli immortali, chiameremo di S. Marco.

II – Lo spazio racchiuso tra il rivo dei Mendicanti, la circonferenza suddetta, la riva degli Schiavoni, i Giardini, S. Pietro, l’Arsenale e che denomineremo Castello.

III – Lo spazio che resta a sinistra di S. Marco al dissopra dell’asse, detta da principio, e che chiameremo Cannaregio.

IV – Finalmente, lo spazio a sinistra di S. Marco al dissotto dell’asse, al quale poniamo, più o meno impropriamente, il nome di Giudecca.

Il circondario di S. Marco

Questo circondario, che è rappresentato sulla carta dal circolo compreso nella circonferenza descritta, è tutto ciò che di più singolare contiene Venezia e che potrebbe paragonarsi allo scudo di Achille, così riccamente descritto da Omero. E difatti qui abbiamo S. Marco e i suoi annessi, i principali monumenti sacri quali le chiese di S. Marco, la Salute, i Frari, S. Zaccaria, Ss. Giovanni e Paolo, i Miracoli; abbiamo le piazze più spaziose della città, quelle di S. Marco, di S., Stefano, di S. Paolo, di S. Angelo, di S. Maria Formosa, di Ss. Giovanni e Paolo; tutti i cinque teatri della città; Rialto e i suoi mercati; la Borsa; l’Accademia di belle arti; il Governo; i Tribunali; gli Archivi; la Dogana di mare; gli Alberghi; e finalmente, come se ciò non bastasse, abbiamo due terzi (2.700 metri), la parte più ricca di Palazzi di questa strada unica al mondo che si chiama il Canalazzo. Tutta la vita cittadina qui si concentra, la borghesia e la nobiltà predominano sulle altre classi sociali; vi hanno ricetto le belle arti, e le classi operaie in generale, e specialmente le industrie che hanno genesi dal mare, vi sono affatto escluse. Eppure qui ebbe origine e sede la prisca città, la quale, si vede, che prosperando e aumentando, gli strati, dirò così di nuova formazione invece di sovraporsi o inestarsi indistintamente ai più antichi ne li scacciavano a dirittura verso la periferia la quale andava sempre più allargandosi, ma il nocciolo d’oro restò sempre nel centro, vicenda non nuova nelle città antiche e che si ripete a Parigi a Vienna, che mostra l’indole assolutistica della classe dominante; quando viceversa a Milano, splendida officina del medio-evo, le arti industriali avevano ricetto all’ombra del Domm.

Ma l’epoca moderna rovescia gran parte delle istituzioni vetuste, le classi sono avvicinate, certe anomalie non possono e non devono più sussistere e ne viene di conseguenza che a chi studia i miglioramenti di Venezia si presenta a risolvere il seguente:

PRIMO PROBLEMA – Ottenere che la popolazione delle classi elevate si persuada a spostarsi dal centro alla periferia, e perciò facilitare non solo le comunicazioni ma provvedere alle comodità della popolazione lontana.

Di ciò si parlerà nel seguito del presente scritto.

La superficie di questo primo circondario, detraendo quella occupata da Gran Canale e dalla parte di laguna tra la piazza e la Dogana, ascende a decare o pertiche censuarie 1.607, circa la quarta parte della superficie occupata dall’intera città che risulta di 6.154 pertiche, delle quali 275 costituiscono l’Arsenale e di queste 109 in acqua, e 822 le due isole della Giudecca e di S. Giorgio.

Ora vediamo la quantità di popolazione dalla quale questo circondario viene abitato. Qui devo premettere che pei confronti che ho istituiti sulla popolazione mi sono servito dell’anagrafi del 31 ottobre 1862 e questo per due ragioni; la prima perché quell’anno è circa a una eguale distanza dalle due epoche di commozione 1859 e 1866, e per conseguenza si può ritenere che la cifra della popolazione si avvicini alla media più generale, la seconda perché negli uffici dell’Anagrafi, il 1862 è l’ultimo in cui si sieno compilati i prospetti della popolazione divisa per sestieri e parrocchie, i quali fanno tanto al caso mio.

Sopra 122.391 abitanti che conteneva l’intera città 51.483, poco meno della metà, erano stipati nel I° circondario, cioè sopra una superficie che non è che il quarto della totale, ed il terzo se si vuole non tener conto dell’arsenale e delle isole di Giudecca e di S. Giorgio.

Dall’esame di queste cifre noi siamo condotti a conchiudere che la popolazione più agiata è quella altresì che è più soggetta alla privazione di quei due splendidi doni che la natura non ha dato in proprietà a nessuno, l’aria e la luce.

Né io mi chiamo pago di ciò e voglio condurre il lettore alla conoscenza di più muniti particolari.

La parrocchia di S. Marco con una superficie totale di 86 pertiche ha una popolazione di 4.799, cioè per ogni pertica abitanti 56,04. Io feci però il calcolo minuzioso della superficie puramente abitata e cioè escludendo le vie, i canali, le piazze, i cortili i luoghi pubblici ecc., si ha per questa parrocchia la superficie di sole pertiche 62 e per ogni pertica 77,52 abitanti. Questo calcolo che avrei voluto fare per tutte le parrocchie se ne avessi avuto il tempo, ma che però intendo di fare in seguito, istituito sopra alcune delle principali parrocchie, mi da pel I° Circondario il seguente prospetto:


Parrocchie Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
totale abitata totale abitata
S. Marco 86 62 56,04 77,52
S. Maria del Giglio 63 44 49,21 70,32
S. Luca 65 42 48,39 74,45

La media risultante di abitanti 74 per ogni pertica di superficie si può tenere per approssimazione la media del I° Circondario.

Il circondario di Castello

Per la posizione marittima di Venezia il secondo circondario di Castello ha un’importanza tutt’altro che secondaria, specialmente poi quando l’arsenale ed il commercio marittimo ritornino in fiore e le relazioni coll’Oriente; aspirazione sempiterna della città sieno ristabilite come ai tempi antichi.

Questo circondario forma da sé una cittadella nella città, ha abitudini proprie e quasi un linguaggio particolare. Tutti gli adifizi che alla marina militare si riferiscono sono inchiusi in esso, l’arsenale, le caserme, il bagno, e tutti i cittadini appartenenti al ceto marittimo. Ma sopra una superficie totale di 1.162 pertiche, poco meno di un sesto della città con 20.635 abitanti, sesto del totale, non ne ha che appena 541 circa di superficie abitata e abbiamo, analogamente a quanto fu calcolato nel 1° circondario, il seguente prospetto:


Parrocchie Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
S. Pietro di Castello 252 83 37,02 111,81
S. Giovanni in Bragora 93 34 44,05 110,68

Qui ci è giuocoforza confessare, che queste cifre ci parlano in un senso molto desolante. Dunque la popolazione operaia, arsenalotti, costruttori, velieri, che abitano in S. Giovanni in Bragora e in S. Pietro di Castello è realmente più stipata di tutta la popolazione benestante che abita il centro della città. Ma non solo è più stipata, ma se si considera in quali specie di lupanari essa è rinchiusa, si può ben dire che questa classe infelice non ha niente da farsi invidiare dalla popolazione agricola che nelle città dell’Italia meridionale forma il ribrezzo dei viaggiatori. Noi annunciamo qui un fatto che forse si collega assai di più di quello che sembra allo studio che veniamo tracciando. Nel 1863, il primo posteriore a quello in cui fu fatta l’anagrafi su cui basiamo i nostri studj, sopra la mortalità di 3.585 individui, 429 morirono da tisi polmonare ed altre malattie affini e 129 da idropisia il che costituisce nientemeno che l’11,94 per % di tisici e il 15,54 per % comprendendovi le idropisie, malattie che sentono l’influenza della mancanza d’arieggiamento, di comodità, di pulizia. E notisi che negli anni successivi la proporzione aumentò di maniera che nei primi cinque mesi del 1866 essa raggiunse nel primo caso il 12,61 per % e nel secondo il 18,11 per %.

Dall’esposto scaturisce la necessità di studiare il seguente

SECONDO PROBLEMA – Costruire delle case operaie nel circondario di Castello e dilatare la superficie abitata specialmente nelle parrocchie di S. Pietro di Castello, di S. Giovanni in Bragora e di S. Martino.

III circondario di Cannaregio

Il circondario di Cannaregio ha una superficie di 1.467 pertiche, poco meno della quarta parte della città e una popolazione di 30.331 abitanti, il quarto del totale, che vivono sulla superficie abitata di 1.031 pertiche. Qui i polmoni incominciano a respirare, non troviamo più le miserabili viuzze di Castello, né il labirinto di S. Luca, ma canali e vie larghe, case arieggiate, benefiche ortaglie; qui infine il padrone del secolo, il vapore, vi pose, come doveva porre, la sua dimora. Occupano una gran parte di questo circondario stabilimenti industriali, opificj a vapore, depositi di legnami, macello, stazione della ferrovia e la maggior parte della popolazione industriale è qui raccolta. La difficoltà di calcolare sollecitamente le aree delle abitazioni non ci permette di dare il soli prospetto che per la sola parrocchia di Ss. Ermagora e Fortunato dove abbiamo:


Parrocchia Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
Ss. Ermagora e Fortunato 140 65 34,25 72,94

Questi dati si devono ritenere superiori alla media generale di tutto il Circondario, considerando che S. Geremia e S. Marziale sono parrocchie disabitate.

Secondo dunque le nostre idee di riforma un centro d’attrazione della popolazione dovrebbe cadere in questo circondario, dove le condizioni generali sono nello stato il più soddisfacente. Ne emerge che qui si deve far capo a un terzo problema, il quale è in istretta colleganza col primo.

PROBLEMA TERZO – Trovare nel 3° Circondario di Cannaregio un centro di attrazione e proporre i modi di renderlo rispondente a tutte le esigenze della popolazione.

IV circondario di Giudecca

Il quarto circondario di una conformazione complessiva, parte continentale e parte isolana ha una superficie totale di 1.900 pertiche, poco meno di un terzo della intera città, delle quali 87 costituiscono il Campo di Marte, 733 l’isola della Giudecca, e 87 quella di S. Giorgio; ha una popolazione di 19.942 abitanti (un sesto del totale) dei quali 17.146 nella parte continentale e 2.796 nella isolana. La superficie abitata nella parte continentale è di 756 pertiche. Anche qui non si è calcolato il prospetto che per una parrocchia.


Parrocchia Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
S. Maria del Rosario (I Gesuati) 180 79 21,05 47,78

Questo circondario che è nelle più felici condizioni, ha il suo avvenire legato a quello del commercio marittimo. Comprende la Dogana di mare e, sia conservata questa e posta in comunicazione a vapore colla ferrovia o sia avvicinata alla ferrovia stessa, è certo che in questo circondario i docks e i magazzini generali dovranno sorgere. Egualmente i cantieri da costruzione e da raddobbo, che l’ingeg. Romano propone giustamente di erigere alla punta occidentale dell’isola della Giudecca saranno in esso compresi. Anche qui sorgerà il bisogno di case operaie ed di un mercato nell’isola, ma, pur troppo, questo bisogno non è urgente per la mancanza degli stabilimenti da costruzione.

Anche qui si presenta il

PROBLEMA QUARTO – Trovare un centro di attrazione del 4° circondario, studiando se sia più conveniente ch’esso sia nella parte continentale o nell’isolana, sottomettendo la risoluzione del problema a un piano concreto di magazzini generali e di cantieri da costruzione.

Riepilogando, dai confronti numerici istituiti, risulta:

- che la popolazione di Venezia è inequabilmente distribuita nei vari quartieri della città;

- che la maggioranza della classe educata è agglomerata nella parte centrale, e qui aggiungiamo che per le sue esigenze difficilmente si persuade ad allontanarsi da questo nucleo dove trova sfogo agli affari e molti compensi che contrabilanciano il difetto di comodità e libertà;

- che per conseguenza non è solo il materiale allargamento od accorciamento delle vie che bisogna studiare come un fatto isolato, ma che esso va subordinato all’idea di un discentramento da attuarsi contemporaneamente;

- che questo discentramento non si può ottenere se non che procurando che altri centri secondarj di attrazione sorgano alla periferia in modo da invogliare la popolazione al suo dislocamento e a una modificazione di abitudini che torni a vantaggio anche delle classi sociali che per essere, come si credono, meno elevate, non pertanto hanno il diritto al rispetto e al soccorso di tutti.

[...]

Dopo aver descritto il grande piano per Chicago di Daniel Burnham, Patrick Abercrombie affronta per i lettori della Town Planning Review un altro grande esperimento della City Beautiful americana: il cosiddetto “McMillan Plan” per Washington, dal nome del senatore che si impegnò per realizzarlo. Protagonista, ancora, Burnham, e insieme a lui un architetto americano di formazione europea, McKim, e il paesaggista Frederick Law Olmsted Jr. Come aveva ricordato Charles Reilly nell’introduzione a questa breve serie di articoli, parlare di “american planning” significa, spesso, trattare di architetture, prospettive, vedute, e non certo delle questioni sociali come la casa o l’igiene, che sono al centro del dibattito europeo.

E, come il lettore può scoprire da solo, nel caso di Washington Abercrombie orienta la sua prosa sempre più verso la critica di architettura, lasciando ai margini (quantitativamente, ma non qualitativamente) osservazioni di tipo urbanistico come per esempio gli strumenti di attuazione. (fb)

Patrick Abercrombie, “Piani regolatori in America – Proposte di trasformazione a Washington”, The Town Planning Review, luglio 1910 (traduzione di Fabrizio Bottini)

Uno studio sulla città di Washington è particolarmente interessante in questo momento, in vista delle proposte per una capitale dell’Australia, e le stesse vicissitudini attraverso cui è passato questo piano suggeriscono spunti e cautele di grande valore per altre città. In generale, si può dire che tutte le caratteristiche di nobiltà possedute ora da Washington si devono al suo piano originario, e ovunque ci siano state divergenze rispetto ad esso i risultati sono stati deplorevoli. Le proposte attuali sono di ritornare per quanto possibile al progetto originario e di arricchirne e ampliarne gli obiettivi, senza alterarne il carattere originale.

Un altro elemento interessante per noi, sta nel fatto che queste proposte, vecchie ora di circa otto anni, sono state in generale adottate, e molte di esse messe effettivamente in pratica, compresa quella che a un orecchio inglese suona come la meno praticabile dell’intero progetto: la rimozione totale di una grande stazione ferroviaria di testa da una parte della città, e il concentramento di tutte le linee in ingresso in una sola stazione unificata. Questo ora è un fatto compiuto, e un esempio di praticabilità anche per le ipotesi più audaci.

La nostra descrizione del caso di Washington si limiterà quasi solo a considerare la zona centrale, che con la sua concentrazione di edifici pubblici costituisce la vera e propria “Città Capitale”, essendo questa la caratteristica distintiva di Washington, così come i problemi del transito commerciale erano quella di Chicago.

Il soggetto si articola naturalmente in tre sezioni: 1) Un esame del piano originario di Washington progettato dal Maggiore L’Enfant e realizzato fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo; 2) Le variazioni rispetto al piano, nella crescita della città durante il XIX secolo; Il Rapporto della Commissione nominata allo scopo di suggerire miglioramenti, il recupero e ampliamento del piano L’Enfant, i lavori già realizzati secondo le raccomandazioni della Commissione.

Il rapporto conclusivo dei Commissari affrontava anche la questione generale di Washington, cresciuta sulle colline che circondavano la pianura dove L’Enfant aveva disegnato la sua Capitale. Per la zona, si è preparato un piano urbano, indicando come questa crescita dovrebbe essere controllata. Non ci proponiamo di analizzare questo piano, con l’eccezione del sistema di parchi, che proponiamo come esempio, degno di ammirazione, di pianificazione americana, e in relazione a Washington come città, indipendentemente dal suo ruolo di capitale.

Il sito per la Capitale Nazionale degli Stati Uniti fu scelto da Washington nel 1790. Occupava un’area di circa 250 chilometri quadrati, su entrambe le sponde del fiume Potomac, e fu ceduta dagli Stati del Maryland e della Virginia. Alla fine la parte della Virginia, a sud del fiume, fu restituita, con l’eccezione del cimitero di Arlington; restò una superficie di circa 170 chilometri quadrati, comprendente quello che è ora noto come District of Columbia. Non costituisce municipalità, dato che i cittadini non votano né controllano le questioni locali, ma il distretto è governato da Commissari nominati direttamente dal Presidente e dal Congresso. Questo tipo di organizzazione senza dubbio faciliterà la messa in pratica di qualunque piano generale di trasformazione.

Il Piano di L’Enfant

Cinquanta chilometri quadrati del distretto formano una pianura solo lievemente ondulata, delimitata su due dei lati dal fiume Potomac e dalla sua diramazione orientale, l’Anacosia River, e sugli altri due dal Rock Creek e da ripide colline. Questo fu il luogo scelto da Washington per la Città Capitale, e a Peter Charles L’Enfant, un maggiore del Genio Francese, fu commissionata la stesura di un piano.

L’Enfant probabilmente conosceva bene i grandi giardini francesi, e poteva aiutarsi con la collezione di mappe delle città che Jefferson, il Segretario di Stato, aveva raccolto in Europa. Dunque, per primo si considerò l’aspetto monumentale del piano. L’idea centrale consisteva nella correlazione reciproca che avrebbe dovuto esistere fra gli edifici pubblici, suddivisi fra due centri di importanza, il legislativo e l’esecutivo. Questi due centri avrebbero dovuto essere circondati da propri gruppi di edifici dipendenti, e da essi si sarebbero irradiate le principali strade della città; essi avrebbero anche dovuto essere collegati l’un l’altro, uniti da giardini, canali, viste sul fiume, così da formare un unico e coerente insieme artistico.

L’edificio legislativo, il Campidoglio, era collocato su una collina naturale, con l’asse puntato su un vasto viale, il Mall, diretto a ovest verso il fiume; l’edificio esecutivo, la Casa Bianca, era collocato su un asse nord-sud, perpendicolare al primo e spostato a ovest; all’intersezione fra questi due assi doveva essere collocata una statua equestre di George Washington. Una strada diagonale, la Pennsylvania Avenue, collegava direttamente Campidoglio e casa Bianca. In questo modo la composizione formava un triangolo rettangolo, con i due edifici principali piazzati a ciascuna estremità dell’ipotenusa, e il monumento sull’angolo retto.

Entrambi gli edifici si affacciavano su un’ampia parkway, il più vasto spazio aperto della città, pensato per offrire un nobile contesto a queste due caratteristiche dominanti della Capitale. Da essi si irraggiavano anche dei viali, a formare le vie principali della città. Che questo non fosse un semplice “piano accademico”, è dimostrato dal fatto che le intersezioni dei viali erano studiate a formare piazze su spazi la cui posizione era determinata dal loro definire una particolare prospettiva, o da altri vantaggi naturali. Massachusetts Avenue, una delle arterie più importanti che non si irradia dal Campidoglio o dalla Casa Bianca, fu così progettata per generare incroci su questi “predeterminati” punti. Questo metodo pratico, è descritto a margine della mappa di L’Enfant, col titolo di “Osservazioni esplicative del Piano”.

1) Le posizioni dei differenti edifici, e delle molte piazze e spazi di diversa forma, così come disegnati, furono in primo luogo definite sui terreni più favorevoli, secondo le visuali prospettiche più ampie, e il più possibile suscettibili a quei miglioramenti che uso o abbellimento possano suggerire in futuro.

2) Le linee dei viali di comunicazione diretta sono state studiate per unire gli oggetti più lontani e separati coi principali, e inoltre per mantenere attraverso il tutto una reciprocità di visuale.

3) Le direttrici nord e sud, tagliate da altre in direzione est e ovest, costruiscono una distribuzione della città secondo strade, piazze, ecc. e queste linee sono state combinate in modo da incontrarsi in certi punti coi viali divergenti, così da formare sugli spazi “predeterminati” le diverse piazze o aree.

L’ultima sezione divide l’intera città secondo una griglia normale agli assi principali di Campidoglio e Casa Bianca. I quadrati della griglia non sono tutti della stessa dimensione; sono sistemati per quanto possibile a formare isolati regolari all’incrocio delle due avenues diagonali.

Le due imperfezioni del piano di L’Enfant sono l’asimmetricità della composizione centrale – il triangolo rettangolo – e la carenza di relazione fra la “Griglia” e i viali diagonali. Il lato ipotenusa, Pennsylvania Avenue, con la visuale contenuta su entrambe le estremità da una vista laterale del Campidoglio e della Casa Bianca, naturalmente diventa la via principale della città; ma la sua complementare a sud del Mall, Maryland Avenue, disegnata secondo linee egualmente ampie e generose, non ha uno scopo particolare, col risultato che se sull’una si allineano importanti edifici, l’altra scade in una strada residenziale secondaria. C’è di fatto la forte sensazione che la Casa Bianca debba essere controbilanciata a sud da un altro edificio, o monumento, in un punto che nel piano di L’Enfant sarebbe collocato nel fiume.

L’altra imperfezione, la griglia, su cui i viali diagonali sembrano sovrapposti, ha come risultato quello di produrre goffi lotti triangolari sulle vie principali. Lo si nota in modo particolare su Pennsylvania Avenue, ed è pregiudizievole a qualunque realizzazione monumentale continua. Nelle città antiche, quando le vie diagonali devono essere tracciate attraverso un sistema esistente di strade ad angolo retto, questi angoli sgraziati sono inevitabili (la Avenue de l’Opera a Parigi è un esempio di come si sia superata la difficoltà nel modo migliore possibile), ma disegnando un piano per una città nuova le strade laterali ovunque possibile dovrebbero essere ad angolo retto col viale principale.

Con queste eccezioni, l’idea è magnifica. La nobile ampiezza del Mall (450 metri), la sua progettazione, come largo viale alberato al centro, con edifici monumentali collocati su ciascun lato. La posizione del Campidoglio sulla sua collina che guarda verso il Mall e il fiume. La logica “reciprocità” fra i centri del Legislativo e dell’Esecutivo e il loro simbolico punto di incontro sulle linee delle due grandi prospettive, al monumento di Washington. Tutto questo rende il piano per Washington uno dei più grandi risultati dell’urbanistica.

Il Diciannovesimo Secolo

Il piano di L’Enfant fu disegnato più o meno nell’anno 1800, e per quanto riguarda la direzione dei viali principali, le piazze e spazi aperti ai loro incroci, la zona del Mall e gli spazi degli Esecutivi, oggi è realizzato.

Fortunatamente, anche i due edifici principali furono collocati secondo il piano L’Enfant, e in uno stile architettonico ad ogni modo adatto ad esso, di guida per edifici futuri. Il Campidoglio è stato più volte ingrandito e alterato, ma il risultato è piuttosto soddisfacente. Le ali laterali e l’alta cupola furono aggiunti nel 1851 da T.U. Walter, ed è improbabile che l’aspetto esterno venga fisicamente modificato, ora.

La Casa Bianca, d’altra parte, ha subito parecchie trasformazioni, ma sono di carattere tale da poter essere spazzate via in qualsiasi momento.

Con queste eccezioni il significato e l’idea di fondo del piano di L’Enfant per la zona centrale sembra siano stati completamente persi di vista durante il diciannovesimo secolo. Il Mall era considerato semplicemente un parco a cui capitava di trovarsi in un posto vicino al centro città. È quasi incredibile per noi, guardando al piano di L’Enfant e alle proposte della Park Commission per il suo ripristino, quanto totalmente siano state abbandonate e dimenticate le sue relazioni col Campidoglio. Ne furono cedute in uso strisce a varie istituzioni, che ci collocarono edifici a caso, con giardini progettati secondo le migliori linee del pittoresco, senza nessun riguardo per il Campidoglio che li sovrastava. Infine, si consentì a una ferrovia di stendere i suoi binari attraverso il Mall e di realizzare una stazione su un suo lato. Per venticinque anni la vista dal Campidoglio fu sfigurata dal passaggio dei treni, e il massimo si raggiunse in tempi più recenti, nel 1900, quando il Congresso, ritenendo che il passaggio a livello in entrata al Mall fosse pericoloso, decise di consentire la costruzione di un grande viadotto e di una rimessa ferroviaria alti cinquanta metri, attraverso il Mall.

Un’altra importante modifica rispetto al piano riguardò la posizione del monumento. Perché la statua equestre di Washington prevista da L’Enfant fu sostituita, nel 1848, con un colossale obelisco di marmo bianco. Questo monumento è tanto semplice ed elementare che difficilmente potrebbe, di per sé, essere definito bello, ma è in grado di entrare ad alto livello in una composizione, insieme ad altri elementi. Se consideriamo il tipo di memoriali che veniva eretto in Inghilterra a quell’epoca, dobbiamo congratularci con gli americani per la nuda semplicità del loro monumento a Washington. Sfortunatamente, vuoi per incuria o per ignoranza, o per la scelta solo empirica di una collocazione con sottosuolo adatto, l’obelisco non fu piazzato all’incrocio dei due assi, ma oltre cento metri fuori linea in una direzione, e quaranta nell’altra.

Il resto della deturpazione è causato dai primi tre edifici connessi al Campidoglio e alla Casa Bianca, ciascuno a violare uno dei principi essenziali del piano L’Enfant. Due ampi edifici dell’Esecutivo furono piazzati su ciascun lato della Casa Bianca (il loro appropriato vicino): quello dei Dipartimenti di Stato, della Guerra e della Marina, e quello del Tesoro. Ma entrambi furono collocati in modo da tagliare la visuale della Casa Bianca dal viale. Così, la “reciprocità visiva” a cui mirava L’Enfant fra Campidoglio e Casa Bianca lungo Pennsylvania Avenue è troncata dall’angolo dell’edificio del Tesoro.

Il terzo edificio, la Biblioteca del Congresso, è il più recente e il più vistoso. Messo al termine del ramo meridionale di Pennsylvania Avenue, una delle principali radiali dal Campidoglio, è sovrastato da una cupola colorata e dorata che rivaleggia con quella dello stesso Campidoglio. In questo modo, il principio base secondo cui l’edificio del Legislativo dovesse stare in cima alla collina, a dominare la Capitale Nazionale, non fu colto se non recentemente, nell’anno 1890.

Un altro fattore, che fortunatamente non danneggiò il piano L’Enfant ma fu un’aggiunta diretta alle sue potenzialità, fu la bonifica della piana del Potomac a ovest e sud del Mall, che aggiunse oltre un chilometro di visuale sull’asse principale, distanziando il Campidoglio di quattro chilometri dalla riva del fiume.

Ci fu anche una proposta, con relativa delibera di finanziamento, per un ponte commemorativo attraverso il Potomac, verso il cimitero di Arlington. Fu suggerito di realizzarlo come prolungamento della New York Avenue, uno dei viali che partono dalla Casa Bianca, e avrebbe tagliato obliquamente la visuale principale, ma senza alcun rapporto con essa.

Proposte della Park Commission per Washington

La Commissione che fu nominata nel 1901 per esaminare lo stato di Washington, suggerire interventi, e redigere un piano che ne prefigurasse il futuro, era composta da D.H. Burnham, C.F. McKim, Augustus St. Gaudens e Frederick Law Olmsted Jr. Dopo un’indagine preliminare fu deciso che prima di considerare seriamente qualunque piano di intervento sull’area centrale, dovesse essere esclusa dal Mall e anche dai dintorni la stazione ferroviaria.

Dopo molte discussioni e opposizioni, la compagnia accettò il trasferimento, ed infine fu trovata una nuova collocazione su Massachusetts Avenue, per una Union Station che comprendesse tutte le linee in ingresso a Washington. Allora questa stazione, in quanto unico accesso ferroviario alla città, assunse un nuovo carattere, di vestibolo della capitale, ed è stata pensata coerentemente come uno degli edifici pubblici più importanti di Washington, con un’enorme piazza aperta di fronte, che attraverso Delaware Avenue conduce poi al Campidoglio, ad una distanza di circa mezzo chilometro.

Ora il terreno era aperto per qualsiasi progetto coordinato sul Mall e dintorni, e i Commissari, dopo un viaggio in Europa, prepararono il loro rapporto, di cui quanto segue è l’essenza.

Il sistema del Mall

Il primo aspetto da considerare è il Mall stesso. I lotti separati in cui è stato suddiviso devono essere rimossi, e l’intero spazio aperto al pubblico. Poi al posto della pittoresca mescolanza di alberi con cui ora è piantato, deve tornare il grandioso viale di L’Enfant, con visuale aperta dal Campidoglio al Monumento. L’eccentricità di quest’ultimo sull’asse non è tanto pronunciata che la parte centrale del Mall non possa essere resa obliqua, lasciando i lotti a nord leggermente più grandi di quelli a sud. È una di quelle irregolarità di pianta che si notano sulla carta, ma sono assolutamente invisibili nella realtà.

L’intervento generale sul Mall prevede un viale lungo due chilometri e mezzo, fiancheggiato da un quadruplo filare di olmi, con una semplice striscia d’erba nel centro (suggerito dal tapis vert di Versailles) larga novanta metri. La sezione più vicina al Campidoglio, comunque, dove la Pennsylvania e Maryland Avenue convergono, sarà occupata da una piazza, da progettarsi in modo formale, con sculture e arredo a verde, e che conterrà il monumento a Grant e ai suoi due luogotenenti Sherman e Sheridan. Questo sarà uno spazio di traffico di dimensioni simili a Place de la Concorde a Parigi. Da questa Union Square al Monumento il viale prosegue ininterrotto.

Il Mall in sé stesso non ha in alcun modo ruolo di via di traffico, nonostante ci siano strade di fianco agli olmi; ma non si suggerisce di escludere il traffico di attraversamento nord-sud. La scala del Mall è ampia abbastanza perché la sua continuità non possa essere disturbata dal passaggio di carrozze e veicoli. In effetti al centro si ipotizza di utilizzare questi assi di attraversamento trattando lo spazio fra le due strade come un giardino, simile a quello di Union Square. Su ciascun lato dei filari di olmi saranno collocati edifici pubblici in spaziosi giardini.

Il Giardino del Monumento

Quando il Mall arriva al Monumento, gli olmi si allargano a circondare un giardino ribassato. Il Monumento non può essere riportato sull’asse della Casa Bianca, ed è impossibile pensare a qualcosa di concreto che possa enfatizzare l’incrocio di assi senza competere con Monumento, ed esserne schiacciato: è stato così deciso di contrassegnare l’incrocio con un vuoto, una vasca circolare circondata da un giardino depresso contenente padiglioni e statue. Una scalinata di marmo, dell’intera larghezza dello spazio aperto del Mall, conduce dalla base del Monumento al giardino, dodici metri più in basso. Questa sistemazione del Monumento, che ha dato alla Commissione più crucci di ogni altra parte del Rapporto, è un audace studio di contrasti. L’Obelisco, un monumento di semplicità e dimensioni eguagliate solo dalla grande Piramide, contrasta con la delicatezza, grazia e fantasia di un giardino. La continuità del Mall è conservata dai filari circostanti di olmi. La posizione del Monumento così corrisponde a quella dell’altare maggiore in una cattedrale, collocato leggermente a est dell’incrocio fra la navata e il transetto.

Ampliamenti del Piano L’Enfant

Fino a questo punto, le proposte della Commissione sono in pratica un ripristino dei progetti di L’Enfant, con le necessarie modifiche. Oltre a questo, esse ne diventano un ampliamento, o piuttosto un logico completamento reso possibile dalla bonifica della piana del Potomac. Il completamento consiste nel prolungare l’asse del Campidoglio a ovest di Monument Garden, e di quello della Casa Bianca a sud di esso.

Sezione Occidentale del Mall

La parte del Mall che si estende per un chilometro e mezzo a ovest del Monumento fino al Potomac sarà attrezzata a bosco con percorsi e corsie tagliate attraverso, del tipo di quelli della Foresta di St. Germain. La porzione centrale prosegue la larghezza della Mall Avenue, e contiene un canale largo sessanta metri e lungo più di un chilometro.

Alla testa di questo canale, al centro di un rond point, sarà collocato un grande edificio commemorativo, che chiuda la visuale dal Campidoglio così come fa l’Arco di Trionfo dal Louvre. Il memoriale proposto è quello di Abramo Lincoln, in quanto secondo personaggio nella storia americana.

Questo rond point segna la connessione fra la zona centrale della città e il sistema di parchi del District of Columbia, i cui rami settentrionale e meridionale si incrociano in questo punto, Riverside Drive da Rock Creek a nord, e Potomac Park coi collegamenti all’area dell’Anacostia a sud.

Memorial Bridge

Per vent’anni si è discusso di un ponte commemorativo attraverso il Potomac verso il Cimitero Nazionale di Arlington sul lato della Virginia, e sono state fatte varie proposte. La Commissione suggerisce di includerlo in un piano generale, e comunque di non collocarlo sull’asse principale, ma attraversare il Potomac ad angolo retto, con l’aiuto di un’isola al centro, e il vantaggio aggiunto che la vista del ponte sia chiusa dal bel portico in stile Greco Dorico della Lee Mansion sulle alture di Arlington. L’audacia nello staccarsi dall’asse principale è ampiamente giustificata.

Sezione meridionale

La parte a sud del Monumento deve essere adibita a parco per il tempo libero. Qui deve esserci uno Stadio, palestre all’aria aperta, campi da tennis ecc. Un bacino per spettacoli sull’acqua con una progettazione formale, collega il fiume con la lunga striscia d’acqua, Washington Channel, fra la piana del Potomac e la città. Dove l’asse della Casa Bianca interseca quello di Maryland Avenue è individuato il sito per un monumento commemorativo, da dedicarsi a un personaggio che la Commissione lascia al futuro di decidere.



Localizzazione degli edifici pubblici

La Commissione stabilisce anche i siti per gli edifici pubblici, secondo le intenzioni originali di L’Enfant. Adotta anche la saggia precauzione di proibirli quando siano fra le strade, così da prevenire un ripetersi dello svarione della Biblioteca. Attorno al Campidoglio devono essere collocati gli edifici connessi direttamente a Legislazione e Giustizia. Edifici ministeriali, come richiesto, saranno attorno a Lafayette Square, a nord della Casa Bianca, sviluppando le linee già definite dagli edifici del Dipartimento di Stato, della Guerra, della Marina e del Tesoro. Il Rapporto suggerisce anche che l’Ufficio Esecutivo del Presidente sia spostato dalla Casa Bianca, e posto al centro di Lafayette Square, circondato dai suoi edifici ministeriali.

Su ciascun lato del Mall devono essere collocati musei e altri edifici di generale interesse pubblico, ma non di tipo ministeriale.

Di fronte allo spazio della Casa Bianca devono trovar posto edifici di carattere pubblico o semipubblico, come quelli occupati da associazioni. La Corcoran Art Gallery è già localizzata qui.

Il triangolo fra la Pennsylvania Avenue e il Mall deve essere lasciato agli uffici del District of Columbia: un edificio distrettuale, un archivio, una caserma per la milizia ecc. L’ufficio postale esiste già, in questo settore. È difficile pensare come possa mai diventare, la Pennsylvania Avenue, una bella strada, per via dei continui sgraziati incroci. E le proposte di modifica di quella che è la più importante strada della città, sono le meno soddisfacenti del Rapporto.

Opere realizzate secondo il Rapporto della Commissione

È un peccato che questo piano generale per la ricostruzione e lo sviluppo futuro di Washington non possa essere adottato ufficialmente, come la dittatura con cui è governato il District of Columbia sembrerebbe rendere fattibile. Ma a quanto pare il Congresso può stabilire solo se un particolare edificio o monumento è collocato secondo le raccomandazioni della Park Commission. Altre parti del piano sono apparentemente nelle mani dell’uno o dell’altro Dipartimento Esecutivo, come i Commissari per il District of Columbia, l’Ufficio responsabile dei Suoli ed Edifici Pubblici, e persino i Segretari delle Istituzioni confortevolmente localizzate sul Mall, e che le proposte del piano cacceranno via dal proprio territorio privato.

Ci pare che per portare a compimento questo splendido piano sia necessaria una certa dose di autoritarismo.

Comunque si è iniziato, con la localizzazione di nuovi edifici, il che mostra come il Congresso e i Commissari di Distretto siano entrambi convinti ad attuare il piano.

La Stazione ferroviaria unificata

È stata costruita su progetto di D.H. Burnham, ed è da ogni punto di vista un vestibolo per il campidoglio. La piazza sul fronte è stata completata, sollevando l’intera area di dodici metri, il che ha richiesto un milione e mezzo di metri cubi di materiale. La facciata della stazione a dire il vero è di qualche metro più ampia del Campidoglio, ma l’edificio è stato mantenuto basso, semplice, e il suo carattere di porta della città è suggerito dalla parte centrale, ispirata all’arco di Costantino.

Palazzi per gli uffici del Senato e della Camera

Questi due enormi blocchi, contenenti le stanze private dei componenti le assemblee legislative, sono stati collocati su ciascun lato del Campidoglio. Gli edifici, di Carrère e Hastings, sono identici nel progetto, e nel contegno di subordinazione al Campidoglio costituiscono un buon precedente per l’insieme degli edifici Legislativi. Speriamo che le idee per tagliare la cupola della Biblioteca siano messe in pratica.

Edifici sul Mall

Devono essere realizzati due grandi edifici sul lato nord del Mall, entrambi con caratteristiche e materiali adatti per la loro posizione: il nuovo Museo Nazionale, di Hornblower & Marshall, che prenderà il posto del grottesco edificio in mattoni ora sul Mall, e quello del dipartimento all’Agricoltura. Al principio, sembrava che questo edificio sarebbe stato collocato insieme a quelli Esecutivi attorno alla Casa Bianca, ma la necessità di laboratori e di un museo privato collegati alla parte amministrativa ha suggerito come più appropriato un sito sul Mall. Il progetto è di Rankin, Kellog e Crane. Questi edifici sono stati studiati in correlazione reciproca e le linee della copertura trattate in modo armonioso, alzando l’una e abbassando l’altra all’estremità a questo scopo.

Palazzo Distrettuale

È stato costruito un nuovo District Building (praticamente, un Municipio) sul fronte della Pennsylvania Avenue, nel triangolo fra questa e il Mall, su progetto di Cope & Stewardson.



Lincoln Memorial e Ponte

Sono stati effettuati gli espropri per il Lincoln Memorial e il Memorial Bridge, e la loro localizzazione sarà determinante per tutta la parte occidentale del sistema Mall.



La zona della Casa Bianca

Il restauro della Casa Bianca è stato curato dallo scomparso Mr. McKim per restituirla all’uso come residenza del Presidente. Sono stati sistemati uffici temporanei negli spazi circostanti, sin quando non si inizieranno i lavori per il centro di Lafayette Square.

Gli edifici della George Washington University, e delle Daughters of Revolution sono pure stati collocati di fronte allo spazio della Casa Bianca.

Il piano per Washington così si sta gradualmente realizzando, e speriamo che nel futuro prossimo si metta mano alla piantumazione della parte esistente del Mall.

Il sistema dei parchi

Come già detto, il sistema esterno di parchi si trova sui terreni alti che circondano la città originaria. A questi vanno aggiunti gli spazi bonificati nella piana del Potomac e i progetti di bonifica e di laghi sull’Anacostia River. Il ramo nord del sistema a parchi comincia con la strada lungo il fiume al Lincoln Memorial, e tramite l’esistente Rock Creek che entra nel Potomac si collega al Giardino Zoologico e al Rock Creek Park, formando una valle continua, molto pittoresca, lunga più di otto chilometri. Questa sezione settentrionale si collega anche al parco nel settore più settentrionale del Potomac.

Il raccordo fra molte riserve esistenti, interessa il nord-ovest e il sud-est con centro attorno all’Anacostia River; per quest’ultimo si propone di trasformarlo in un lago circondato da terreni di bonifica convertiti a parco. Più a est, la cima di un’alta e boscosa collina, in linea diretta con Massachusetts Avenue, sarà destinata a parco. Infine le strade lungo le rive dell’Anacostia completano il circuito, congiungendo la piana del Potomac e il sistema del Mall.

Entro questo percorso, si mira alla massima varietà di paesaggi, e si intende conservare il carattere di ciascuno, connettendoli con una serie di viali e parkways.

Nota: Il rapporto della Park Commission per Washington, qui riassunto e commentato “in diretta” da Patrick Abercrombie, è in gran parte letteralmente riportato sul ricchissimo sito di John Reps alla Cornell University. La puntata precedente, delle osservazioni critiche di Abercrombie sul piano di Chicago di Burnham, è disponibile in questa stessa sezione di Eddyburg.

I l dibattito sollevato in questi giorni dalla legge per la tutela della lingua friulana presentata dall'assessore regionale all'Istruzione, Roberto Antonaz (di Rifondazione comunista) mi ha riportato alla mente una vicenda ormai lontana. Che, però, vale la pena raccontare per comprendere l'importanza della questione. Nel 1971 due deputati, Mario Lizzero, «Andrea» come partigiano, udinese e pugnace comunista, e Francesco Compagna, vecchio amico per me, repubblicano, piombarono a casa mia chiedendomi se accettavo di dirigere una indagine conoscitiva del Servizio Studi della Camera sullo stato delle minoranze linguistiche in Italia. Ero sorpreso. Mi spiegarono che, anche se non me ne rendevo conto, un mio libro di anni prima era l'unico in cui si parlasse della questione. E che, comunque, bisognava finalmente attuare l'art. 6 della Costituzione sulla tutela delle minoranze linguistiche. Accettai. Cominciò una storia già essa travagliata, dovette intervenire Sandro Pertini, presidente della Camera, a difendere, contro il governo dell'epoca, il diritto del Parlamento a promuovere indagini conoscitive su questa e ogni altra materia. L'indagine si concluse nel 1974, ma per vario tempo restò a dormire.

Da varie parti, le dirigenze centrali dei partiti erano ostili anche alla sola idea di conoscere lo stato delle cose. C'era una situazione paradossale. Localmente, dai comuni albanesi o neogreci alle aree slovene o friulane, politici del luogo e, debbo aggiungere subito, la Chiesa, erano schierate per destare o ridestare le tradizioni minoritarie. Le dirigenze nazionali erano timorose, anzi apertamente ostili, da Aldo Moro al gruppo dirigente del Pci.

Anche localmente le cose erano turbolente. L'autorevole gruppo dei parlamentari comunisti sardi si ribellava all'idea di promuovere la tutela del sardo: questo, dicevano, avrebbe «ghettizzato» l'Isola. Anche in Friuli non tutto era rose e fiori. La buona borghesia non condivideva l'impegno dei deputati e della Chiesa. Lizzero, nel 1974, mi trascinò a cercare di spiegare che le minoranze non erano il diavolo. Nella sala successe un pandemonio. Poi, col terremoto, le cose cambiarono e i friulani riscoprirono l'orgoglio, anche linguistico, per la loro cultura. Anche in Sardegna lentamente le cose maturavano. Perfino nel Pci. Nel 1977 o 1978 Giovanni Berlinguer mi propose di aprire un convegno a Sassari sul sardo e le lingue di minoranza. Sopravvissi.

I dubbi però restavano. Intanto, finalmente, l'indagine conoscitiva venne pubblicata, con una sintesi affidata a me e a Gianbattista Pellegrini. Che esistessero in Italia minoranze linguistiche era difficile da negare. Ma sul piano legislativo si segnava il passo. Lizzero e Chiarante ottennero che la segreteria del Partito comunista mi ascoltasse. Entrai con molta emozione nella sala della riunione. Non ero comunista, ma avevo un rispetto profondo — e lo conservo — per quel che il Partito comunista sapeva essere, ma questo è altro discorso. Fui interrogato a lungo, con curiosità, forse con interesse. Estraneo al Partito, non ho mai saputo che esito ebbe la riunione. Certo è che poco tempo dopo senatori e deputati comunisti furono autorizzati a predisporre un disegno di legge in materia, su cui si impegnarono in fasi successive Lizzero, sempre, Beppe Chiarante, Marino Raicich, poi indipendenti e socialisti come Silvana Schiavi Facchin e Loris Fortuna.

Ma l'ostilità diffusa permaneva. Un buon testo di legge approvato dalla Camera nel 1989 venne insabbiato nel passaggio al Senato. Dopo l'approvazione si scatenò una violenta campagna di stampa guidata da un gruppo di storici torinesi e napoletani e riecheggiata largamente: la tutela delle minoranze fu presentata come una imposizione dei «dialetti». Ovviamente non era così, oltre tutto la legge non imponeva niente, ma solo apriva la possibilità, a chi lo richiedesse, di introdurre nel suo curricolo scolastico lo studio di un'ora di una delle lingue che Consigli regionali e Comuni avessero dichiarate degne di essere «lingua minoritaria», sulla base di pareri degli specialisti. Sabino Cassese calcolò all'epoca che sarebbero stati necessari parecchi anni, sei o sette, stante quella legge, tra la richiesta di una congrua maggioranza di genitori perché nella scuola dei figli si aprisse quella possibilità e la sua realizzazione.

Mentre a Roma si discuteva, la Comunità, poi Unione Europea mandava severi richiami perché anche l'Italia, come i restanti Stati, si adeguasse ai principi di tutela del diritto umano di parlare e studiare la propria lingua, anche se minoritaria. Di legislatura in legislatura si andò avanti tergiversando, finché nel 1999, cinquant'anni dopo la Costituzione, una legge dal testo non brillante fece un primo passo in questa direzione. Quella verso cui, dopo un altro decennio, accenna a muoversi la Regione Friuli.

. Agnello neozelandese, nutrito delle erbe che nascono in riva al mare, cotto quel tanto che basta per farlo insaporire con una farcia di foie gras, e poi ricoperto di sottili scorzette d’arancio. Veramente eccezionale.

Molto buona anche l’entrée (un piccolo budino di dolcissime cipolle di Cannara), i gentili assaggini di crema di lenticchie e di risotto al Castelmagno (la prossima volta lo scelgo come piatto principale), e i dolci. Ottimo il vino, un Blauburgunder sudtirolese scelto dall’affabilissimo gestore. E ottimo il rapporto qualità/prezzo: essendo eccezionale la qualità, anche il prezzo è giustamente alto (compresi i 30 € del vino, in due abbiamo pagato meno di 100 €).

A tutto questo aggiungete un locale arredato con elegante semplicità (un sapiente minimalismo), un servizio rapido e cortese, e comprenderete perché i 100 coperti, distribuiti in numerosi e tranquilli spazi, sono sempre utilizzati. Prenotare è indispensabile: 065815274; solo per la sera, perché durante la mattina, e la domenica, riposano o fanno altre cose: per essere più efficienti e distesi quando il locale è pieno. L'indirizzo è Piazzale Adriano 7, vicino a Porta San Pancrazio al Gianicolo.


Giovanni Astengo, Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali, in Per la Salvezza dei Beni Culturali in Italia. Atti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del Patrimonio Storico, Archeologico, Artistico e del Paesaggio, Casa Editrice Colombo, Roma 1967, Vol. I, pp. 488-504

[…]

PRINCIPÎ PER LA TUTELA ELA VALORIZZAZIONE DEI BENI AMBIENTALI

1. - Nella prospettiva critica dei diversi atteggiamenti assunti nel tempo dall'uomo verso il suo ambiente - volta a volta contestato od assunto ad immagine di civiltà, guastato o custodito, abbandonato al disordine dell'agire indiscriminato ovvero ordinatamente strutturato per la vita comunitaria - è possibile, al di là di ogni singolo atteggiamento, una fondamentale continuità storica di coscienti attribuzioni di significato. In primo luogo, i rapporti uomo-ambiente si pongono, per la condizione medesima dell'umana presenza, in termini “culturali” elementari permanenti, intuitivi, consci ed inconsci, e per ciò stesso dotati della massima generalità, prima ancora d'ogni ulteriore apporto di specifici significati semantici e simbolici personalmente o collettivamente “aggiunti”. Paesaggio naturale, paesaggio umanizzato, paesaggio urbano: tutto ciò appartiene di fatto alla storia, nelle forme più disparate dei singoli apporti, in ragione della presenza stessa dell'uomo.

Presenza tuttavia non sempre qualificante. Se incontestabile appare il senso “storico” dell'agire umano nell'ambiente di natura, non sempre “civile” può dirsi il risultato dell'opera. Interviene qui, come successivo e complesso apporto di significato dotato di validità scientifica, la fondamentale revisione cui l'uomo è capace di sottoporre il proprio operato, nella sua qualità di soggetto di conoscenza, e conoscenza critica: al di là dei possibili errori di giudizio, e contro i sempre rinnovati tentativi di sopraffazione, i risultati dell'agire storico nella natura - gli ambienti “umanizzati” nell'accezione più estesa - possono essere riconosciuti come valori “civili”, e tendere così a tradursi gradualmente in, “beni culturali”, e cioè in patrimonio comune, in apporto testimoniale d'ampiezza universale -ovvero, contestati, ridursi ai meri valori economici ed emozionali della loro materiale consistenza in incessante divenire.

Ed è necessario notare come complesso ed articolato sia il contenuto di “civiltà” di cui tale processo è capace: poiché civile è certamente il Bene riconosciuto, in ragione del valore spirituale di cui esso è fatto testimone, ma altrettanto civile ne è la condizionante premessa intellettiva di conoscenza scientifica e di giudizio sistematico, come civili, ed in definitiva generatrici dell'intero processo, sono le conseguenze operative della tutela e della acquisizione culturale e spirituale alla disponibilità comune. Questi tre momenti appartengono indissolubilmente ad una unica ispirazione e valgono ad un medesimo intento, che appunto è il Bene culturale; nella fattispecie, l'ambiente civile, testimone della storia e dello spirito umano, e come tale riconosciuto, custodito, comunicato.

In questo senso si deve qui insistere sul significato preminente e prioritario che assume, a premessa di ogni decisione operativa, il riconoscimento della validità del concetto unitario di ambiente civile inteso come manifestazione culturale coerente della presenza umana; al di sopra delle pur innegabili e profonde differenze strutturali, dei contenuti eterogenei, delle diverse origini, finalità, tendenze specifiche, gli ambienti trasformati dall'opera dell'uomo, come del resto, negli stessi termini, i luoghi rimasti o restituiti, allo stato di natura, che l'uomo conosce e le cui suggestioni egli sa tradurre in immagine fantastica - tutti questi ambienti, già per se riuniti dalla loro mera continuità spazio-temporale, possono venir qualificati in sistema razionale unitario, se si riconosce la loro appartenenza ad un omogeneo tessuto di apporti testimoniali della cultura umana, che l'uomo operando ha impresso nell'ambiente e che può, ad un dato momento, riconoscere e valutare. E tale unità culturale del Bene d'ambiente deve identicamente affermarsi, non solo per ciò che è testimonianza di civiltà storica d'antica origine, ma anche per il significato culturale del nostro quotidiano intervenire nell'ambiente civile, le cui espressioni assumono quindi, come devono, il valore di segni del nostro tempo per il futuro.

2. - In tale prospettiva, l'ambiente civile si presenta come primo incontro, conoscitivo e critico, d'ogni uomo con la propria civiltà: bene culturale e testimonianza per eccellenza, dunque, di immediata e del tutto generale capacità di comunicazione.

Poiché esso si struttura, tuttavia, nei suoi termini di evidenza materiale e di, condizionamenti operativi, come un contesto organizzato con preminenti fini e valori economici, ogni riconoscimento scientifico di significato culturale, in quanto procede da motivi ispiratori e tende a finalità specifiche di ordine essenzialmente diverso, non può, a condizione di ridursi all'inutile, non essere dotato di strumenti efficaci d'acquisizione, tutela e comunicazione anche ove ciò richieda, come in effetti richiede, l'attenuazione e la subordinazione di ogni altro diverso e pur anche legittimo godimento. In altri termini, l'interesse culturale per un ambiente deve potersi manifestare con efficacia nei confronti d'ogni interesse diversamente finalizzato.

3. - Si deve qui subito precisare che, nei suoi termini concettuali, una struttura giuridica d'intervento nei confronti dei Beni d'ambiente, che sia realmente atta a disciplinare ogni uso a fini della disponibilità comune, deve necessariamente delinearsi come sistema complesso, capace di agire con provvedimenti eterogenei, in tempi diversi, con estensioni d'efficacia “cautelare”, in grado di operare anche nei confronti di altre normative in atto.

Occorre, come è ovvio, poter predisporre con assoluta efficacia ed immediatezza interventi per la tutela di un Bene ambientale una volta che esso sia stato criticamente riconosciuto ed ufficialmente dichiarato; sia a divieto di ogni alterazione proposta, che a ripristino integrale nei confronti delle manomissioni effettuate, che infine per il risanamento sociale, non meno che tecnico, delle strutture degradate nel tempo; ed a tali fini occorrerà anche intervenire con adatti strumenti di incentivazione o di storno nei confronti dei diversi interessi in gioco, onde orientarne e disciplinarne preventivamente le tendenze. E deve essere altrettanto evidente che tale azione, nei suoi aspetti sia repressivi che operativi, si estenderà con eguale efficacia, oltre il perimetro proprio degli eventuali Centri focali d'interesse storico, paesistico, artistico, all'intero tessuto connettivo ambientale che li accoglie ed in definitiva li determina spazialmente. Ma l'azione di tutela, oltre ad esercitarsi per la custodia del Bene riconosciuto, deve poter investire e sostenere l'intero articolato processo, sia nel preliminare momento del riconoscimento scientifico di valore culturale che nella conseguente azione comunicatrice.

Troppo sovente, infatti, si è dovuto assistere impotenti alla repentina deturpazione, quando non alla totale distruzione di ambienti di evidente ed incontestabile significato culturale, soltanto perché le procedure giuridiche per l'istituzione dei vincoli di tutela non consentivano interventi di tipo “cautelare” durante il loro faticoso svolgersi; in termini di paradosso, si potrebbe anche sostenere che tali deturpazioni venivano affrettate, se non determinate, appunto dalla manifesta intenzione di istituire essi vincoli, e dalla conseguente “corsa ai ripari” dei singoli interessi che ne sarebbero risultati in qualche modo disciplinati. Si è anche constatato, che non meno sovente neppure la presenza di un Piano regolatore vigente è valsa ad esercitare una simile protezione “preventiva” dei valori ambientali e ciò (a parte ogni errore di valutazione dei beni da proteggere, od ogni riposta intenzione di allentare le maglie della protezione), in ragione della insufficiente correlazione stabilita tra le due normative.

Si deve dunque affermare che se la tutela del “Bene culturale e ambientale” vuol essere conseguita, questa deve anche essere per sua stessa natura, preventiva, e come tale non soltanto esercitarsi sul bene già riconosciuto e dichiarato per conservarlo, ma con egual efficacia anche proteggerne l'integrità, con salvaguardia cautelare, durante l'intero momento del suo riconoscimento scientifico e giuridico; ed inoltre, nei casi in cui tale riconoscimento avvenga in presenza di altre normative già in atto, anche nei confronti di queste essa dovrà potersi esercitare, come conseguenza del principio della priorità assoluta degli interessi culturali su ogni altra qualità propria o attribuita ai Beni d'ambiente. Infine, anche per quegli altri ambienti di notevole interesse culturale, per i quali i procedimenti di riconoscimento scientifico e di dichiarazione non siano ancora stati istituiti, dovrà egualmente predisporsi la possibilità di una difesa efficace, sulla premessa transitoria di uno studio globale delle caratteristiche ambientali, e della promozione della procedura per il loro riconoscimento come Beni culturali. Non meno necessaria appare infine l'esigenza di una estensione operante del sistema di protezione al momento finale della più generale comunicazione del Bene riconosciuto e ufficialmente dichiarato. Si pongono qui problemi di ordine diverso: l'azione di salvaguardia cautelare ha ormai esaurito il proprio compito e la tutela, espressa come difesa, conservazione e incentivazione è in atto; e tuttavia l'intero processo finora svolto è valso soltanto a costituire un Bene culturale isolato, chiuso al libero godimento, od al più offerto ad esso per unilaterali e precari accordi o concessioni. In questi termini, l'acquisizione del bene dovrà dirsi ancora sostanzialmente inefficace, in quanto non raggiunta rispetto al suo fine istituzionale di divulgazione culturale. Occorre dunque che l'efficacia dell'intervento proceda oltre, e, provvedendo con priorità alla tutela dei Beni d'ambiente, determini al tempo stesso le condizioni per l'acquisizione permanente e l'uso a fini della libera disponibilità comune e del pieno godimento pubblico. Non si vuole qui sostenere che tale acquisizione debba significare solo passaggio di proprietà, bensì, nella generalità dei casi, istituzione di vincoli d'uso. Anche a tale riguardo ci si può dunque, in definitiva, esprimere in termini di “azione tutelare”, se pure esercitata a fini non più di conservazione fisica, bensì di disponibilità d'uso del Bene ambientale. A ciò si potrà anche provvedere, oltre e meglio che con l'eventuale corresponsione di indennità compensative per eventuali vincoli, con la predisposizione di incentivi economici coerenti con la disponibilità al libero accesso, tra i quali potrebbero ricordarsi, in particolare, per gli ambienti naturali ed urbani l'adeguamento delle infrastrutture ;per l'ospitalità, la sistemazione delle strutture viarie storiche e così via; restando il provvedimento dell'effettiva acquisizione in proprietà riservato ai Beni di eccezionale interesse, oltre che alla legittima rivalsa nei confronti degli inadempienti.

4. - Si deve dunque riconoscere che un rapporto operante che si intenda stabilire verso un ambiente umano di dichiarato valore civile e testimoniale, ovvero, in altri termini, che la tutela dell'immagine storica di Bene culturale che l'uomo scientificamente riconosce, impressa dal suo stesso ordinato operare, nell'ambiente della sua vita civile, non può esprimersi efficacemente se non in termini di diritto positivo, con assoluta priorità d'intervento, senza eccezioni a nessun titolo, e con estensioni della più ampia portata.

Ma un tale rapporto, nella misura in cui si vuole che sia vivo e fecondò, e cioè non solo formalmente efficace, ma anche non mortificatore d'uso, non può non tenere in conto la complessa natura anche economica propria delle realtà ambientali riconosciute come bene - e conseguentemente, pure nell'operare ogni inevitabile attenuazione o negazione di godimento che contrasti con gli obiettivi della disponibilità al godimento pubblico non deve, per conseguire tale disponibilità contestare il contenuto di viva umanità del bene. In altri termini, la tutela del bene non riesce ad esprimersi in misura adeguata attraverso l'imposizione, essenzialmente inerte di differenti vincoli, singolarmente imposti sulle cose ma al di fuori di esse, tanto più che un tale procedimento, quando anche riesca nonostante tutto a”congelare” l'ambiente, ed inevitabilmente ogni cosa in esso, troppo sovente ne contesta il significato e lo rende “inutile”, senza con questo accentuarne come dovrebbe la libera comune disponibilità. Tutto ciò si traduce pertanto, in ultima analisi, in una irrimediabile passività volta al lento disfacimento, e dà luogo all'equivoco, non a torto temuto, secondo il quale non è possibile salvare e trasmettere se non i beni culturali “inutili” alla civiltà del momento: gli ambienti abbandonati, le città degradate, i paesaggi incolti, i”monumenti” isolati, tutto ciò, insomma, che “non serve più all’uomo operante nella realtà presente.

5. - Ben diversi devono essere il significato ed il peso della tutela sulle realtà ambientali riconosciute come bene di interesse comune. L’azione di tutela, per quanto categorica debba essere, deve inserirsi senza violenza, ma con fermezza nella stessa natura delle cose, consentendone anzi -ma, ad evitare ogni sopraffazione, preordinandone essa stessa - l'uso adatto a fini specifici compatibili con la tutela. In concreto, ciò può ottenersi se il vincolo imposto sull'ambiente, o meglio inserito in esso, non contesta ma disciplina le positive tendenze di sviluppo, ordinate razionalmente in programma, che nell'ambiente si manifestano, o che in esso ci si propone di inserire e di volontariamente suscitare con specifici atti. In tal senso, soltanto l'intervento territoriale pianificato nei suoi termini globali rende realmente possibili ed operanti la imposizione e l'esercizio di correlativi vincoli di tutela, quale che possa essere la procedura istituzionale di questi, nella misura in cui consente alle attenuate facoltà d'uso e di godimento singolo le necessarie e misurate alternative od integrazioni ai fini di un godimento comune. Ancora, soltanto la formazione e l'attuazione di un Piano consente l'esatta commisurazione del vincolo tutelare e di fissarne i caratteri e i limiti come pure di individuare eventuali alternative di sviluppo socio-economico che dalla stessa tutela del bene traggano ragion d'essere, sia in rapporto alla realtà dell'ambiente che all'esigenza finale della disponibilità comune. E del resto, l'esperienza insegnacome ogni altra normativa settoriale, sancita a sé, risulti di fatto sempre “sfuocata”, anche e soprattutto in presenza d'un Piano, per quanti tentativi si possono fare dall'esterno per rendernela compatibile: conseguenza inevitabile di procedure separate, di poteri ognuno autonomo nel proprio ordine, di finalità diverse quando non contraddittorie, e conseguentemente di compromessi abborracciati per il meno peggio a favore di tutti, e sopra ogni altro i del bene culturale stesso, pertanto deboli ed inefficaci, e di agevole sopraffazione e decadenza.

6. - Da questo punto di vista assume poi rilievo ed efficacia del tutto particolari la già accennata capacità, insostituibile, del Piano ad inquadrare in visione unitaria e finalizzata tutti gli eterogenei provvedimenti che con diversi intenti si rendono necessari per attuare una scelta razionale di sviluppo socio-economico e conseguentemente la correlativa disciplinata trasformazione del territorio: nella prospettiva di una ordinata gestione urbanistica con cui il piano abbia continuità di esecuzione, infatti, trova la più opportuna sede, e la più valida garanzia di validità operativa, il principio del rispetto dei significati e contenuti culturali dell'ambiente. Ben sappiamo infatti come le disposizioni di legge, i programmi, le incentivazioni per lo sviluppo delle attività industriali, per l'espansione delle aree residenziali destinate all'edilizia popolare, per gli insediamenti d'interesse turistico, per le infrastrutture primarie e secondarie ed in generale per tutte le opere “pubbliche” , diano quasi inevitabilmente luogo, nel loro attuarsi, ad incongruenze, contraddizioni, sproporzioni faticosamente conciliabili, o del tutto inconciliabili, sia quando l'inconsistenza delle norme in atto, ovvero la carente volontà di osservarle, offrano via libera al disordine delle iniziative singole, sia anche quando il Piano, pur presente ed operante, di fatto urti contro questioni di competenza, di contraddizioni in contenuto ed in termini, di prestigio, o peggio; e ciò anche ove ogni provvedimento, ogni norma, ogni incentivo di per sé fossero buoni ed utili: di fatto, tutti si manifestano insufficienti a considerare in visione globale la realtà dell'ambiente oggetto della loro disciplina d'intervento.

Ciò in generale: ove poi l'ambiente, in cui tale sovrapposizione di iniziative si attua, manifesti quei valori paesistici, naturali o di civiltà che lo costituiscono in Bene culturale, un disordine come quello sopra descritto si tradurrebbe inevitabilmente come ampiamente si è tradotto in molti luoghi in vera e propria distruzione del bene stesso. Anche da questo punto di vista occorre dunque, positivamente, non un vincolo di mera conservazione allo status quo, inevitabilmente destinato ad essere deriso, combattuto e sopraffatto, riducendosi infine alla protezione accanita di qualche muro e di qualche riposta valletta; non questo, ma una gestione urbanistica globale degli interventi, che in presenza di un Piano finalizzato anche, ed anzi prevalentemente, alla tutela dei beni ambientali, sappia tradurne le prescrizioni e le indicazioni in una successione di atti operativi coerenti.

Ciò posto, ne consegue che solo il Piano urbanistico è lo strumento effettivamente in grado di regolare la tutela, la destinazione, l'uso e la divulgazione dei beni culturali nel contesto globale del programma di sviluppo territoriale, e diventa quindi obbligatorio strumento operativo a tali fini, quali poi che possano essere le procedure specifiche e la fonte di promozione dei beni culturali. Recependo le indicazioni di carattere generale espresse nella dichiarazione ufficiale dei Beni, il Piano darà ad esse configurazione operativa, non solo, ma le assumerà al tempo stesso come principi condizionanti per la totalità degli interventi di sviluppo sul territorio. Conseguentemente i Piani dovranno essere analiticamente studiati e predisposti, come meglio si dirà in seguito, sia per l'acquisizione di una documentazione scientifica e critica sulla consistenza dei beni culturali esistenti, sia dal punto di vista della correlata normazione degli interventi, che dovrà essere, conviene qui insistere su tale fondamentale concetto, già a livello dei Piani generali programmata e progettata in termini esecutivi. In una parola, l'attuale scissione, giuridica, concettuale ed operativa tra Piani generali che investono obbligatoriamente l'intero territorio e piani particolareggiati la cui formazione è facoltativa e comunque localizzata ad episodi singoli, deve essere contestata e superata: sulla premessa di un programma di gestione, il Piano generale si deve attuare esclusivamente attraverso Piani esecutivi, e dunque non altrimenti che tramite essi si determina e struttura, superando ogni fase intermedia di norme, autonome e sufficienti, di tipo “regolamentare”. Il programma di gestione poi implica necessariamente il concetto dell'attuazione programmata nel tempo e nello spazio, cioè attraverso una coordinata successione di interventi pubblici e privati, nell'ambito di aree, e di esse sole, prescelte per l'urbanizzazione o per operazioni di ristrutturazione, o di risanamento conservativo, o comunque di opere di piano (quali i rimboschimenti, i parchi e i giardini), così come di strade, impianti e servizi: il tutto coordinato con la redazione di programmi annuali o poliannuali di esecuzione.

7. - Considerazioni come quelle che finora si sono svolte attestano, nel loro insieme, che i beni d'ambiente contengono ed esprimono significati tali da trascendere, per la loro complessità, sia l'ordine materiale della realtà che in ogni aspetto li costituisce, che anche ogni eventua1e attribuzione di valore “culturale” che si volesse considerare in astratto come simbolo di accezione idealistica, come “categoria del bello”, immaterialmente distaccata per il godimento estetico; e conseguentemente, si conferma l'insufficienza istituzionale d'ogni normativa specifica che non sia anche coerente con una visione e una disciplina globali dell'ambiente, considerato nei suoi termini reali di spazio umanizzato, di contesto d'attività economiche e di luogo per la vita civile.

8. - A corollario di tale affermazione si constata la inadeguatezza di certi provvedimenti, a qualsiasi titolo istituiti, che esprimono idealmente la tutela dell'ambiente in termini unicamente “geometrici”, dimensionali, in una parola formali: l'eventuale definizione di distanze, di coni visuali, di perimetri di rispetto o di altri caratteri tecnici della medesima categoria, appare di per se non più che secondaria ai fini d'una operante disciplina che non si proponga soltanto la “difesa passiva” del Bene d'ambiente. Non possiamo non riconoscere a questo, sia esso unità ecologica allo stato di natura o struttura insediativa umanizzata, ed anche soltanto, in essi, ad ogni oggetto o gruppo d'oggetti di singolari caratteri, una complessità che ne trascende dimensioni ed attributi spaziali propri; lo spazio culturalmente rilevante d'una struttura urbana, ad esempio, non si limita nelle città storiche, ad alcuni momenti archi- tettonici di respiro “monumentale”, e neppure al contesto edilizio ambientale, detto da taluni “minore”, in cui questi si inseriscono: nella città storica il tessuto architettonico complessivo si inserisce, determinandola si, ma solo fisicamente, in una continuità di spazi “vuoti” la cui qualificazione culturale tuttavia, autonomamente ed originalmente, lo trascende assumendo forza e caratteri propri: strade, piazzette, giardini, orti, porticati, aperture di visuale al paesaggio agricolo o verso la penombra dei cortili, quasi come a fondali e “quarte pareti”, continuità di passaggi pedonali attraverso i risvolti delle cortine murarie, e poi alberi, muretti, fontane, pavimentazioni, fino al più minuto corredo di questo spazio inedificato -ininterrottamente il significato culturale è qui impresso e testimoniato e si svolge e si muta in discorso continuo.

Discorso poi che prosegue oltre la cerchia delle mura, e certo non si esaurisce in una qualche parziale estensione visiva geometricamente determinabile, ma che è costituito dalla struttura delle vie storiche che collegavano la città al territorio agricolo, e da questo stesso, almeno nella misura in cui è sopravvissuto alla distruzione delle disseminazioni sub-urbane indiscriminate; dalla connessa struttura, difensiva e produttiva, degli abitati minori sparsi nel territorio, e così via; in una parola, dall'intero ambiente naturale gradualmente trasformato per la vita civile. Ora in tale visione non vi è definizione geometrica di vincolo tutelare, non vi è provvedimento di difesa passiva preso a se che valga a proteggere l'ambiente civile nel suo pieno significato culturale e testimoniale, e che valga quindi a restituirgli la pienezza del suo valore di Bene offerto all'arricchimento spirituale di tutti; e ciò anche soltanto per il fatto che di per sé ogni sezionamento protettivo operato sul territorio, per quanto rigido ed efficace, ne distrugge l'unità non soltanto culturale, ma anche socio-economica, determinando, con la disciplina ed i limiti spaziali instaurati, sproporzioni ed errori di insediamenti e di sviluppo.

Non si vuole qui certo contestare l'utilità di simili accorgimenti tecnici e disciplinari, ma soltanto restituire loro l'esatto significato di strumenti operativi “secondari”, settoriali, di un più ampio programma globale; le scelte e le definizioni di luoghi, perimetri, visuali e così via, è l'estrema conseguenza disciplinare non solo di una lettura conoscitiva e critica di carattere scientifico, che al più ne giustificherebbe le dimensioni ma non ne qualificherebbe il contenuto positivo, bensì soprattutto della formazione d'un programma organico d'uso dei Beni medesimi - in una parola, d'un Piano - nel contesto della realtà geografica, economica, umana e di natura in cui essi si allogano e che essi contengono, e dalla quale viene loro la giustificazione ultima dell'essere Beni, culturali e testimoniali, e cioè storicamente presenti, al di là della semplice consistenza materiale di cose fatte e trasformate con pregevoli tecniche, e di aggraziato aspetto.

9. – Tali considerazioni valgono espressamente, come è evidente, per gli ambienti naturali, umanizzati od urbani, cui siamo abituati ad attribuire significato “storico” in ragione del permanere in essi di strutture originarie non trasformate od il cui processo di modificazione siasi arrestato nel tempo, sia di forme d'organizzazione produttiva, di costume, di tradizioni d'antica immutata origine civile. Non possiamo tuttavia non ammettere che l'esigenza di tutela ambientale, in termini di analogia, non debba programmaticamente estendersi alla realtà dei nuovi insediamenti ed ad ogni altra trasformazione ambientale in atto o futura. Non si tratta qui della salvaguardia dei valori culturali d'un ambiente esistente, bensì, si potrebbe dire “inversamente”, dell'attribuzione di significato culturale e civile ad ambienti futuri: opera non più “conservatrice” ma creatrice, che trae tuttavia, com'è evidente, la sua ispirazione da un medesimo intento di promozione culturale. Si può dire che la qualificazione delle nuove strutture insediative, come degli ambienti, il cui ritorno allo stato di natura sia in atto, come dei nuovi paesaggi umanizzati, è impegno coerente della nostra civiltà che in essi trova, come si è detto all'inizio, il suo primo incontro conoscitivo e critico con l'uomo: “bene culturale e testimoniale per eccellenza di immediata e del tutto generale capacità di comunicazione” e, pertanto, si deve aggiungere, insostituibile. Ma vi è di più: se è ovvio che ogni intervento ammesso in ambienti di interesse culturale debba apportarvi con la propria elevata qualificazione un contributo positivo all'integrazione dei valori tra cui esso si inserisce, non meno ogni nuova struttura insediativa che venga ad occupare un ambiente ancora culturalmente indeterminato è indispensabile che insieme alla propria determini la qualificazione di esso, che trasformandosi l'accoglie; come del resto insegna la storia di certi paesaggi italiani “minori” nei quali attraverso i secoli la sapiente opera umana, su un supporto di natura talvolta indifferente, mentre ne utilizzava per la vita sociale ed economica le risorse, perseguiva al tempo stesso con costante e coerente gradualità l'attuazione d'una cosciente immagine trasfigurata.

Il nostro tempo testimonia, per contro, i brutali interventi, di deturpazioni e distruzioni massicce ed indiscriminate, operate nella fr~tta, si direbbe con deliberata volontà di calpestare ogni eventuale attribuzione di significati culturali: valga per tutti l'esempio ormai illustre della Riviera ligure; ma si potrebbero proporre, ad un attento esame, altre immagini di strutture insediative di recente formazione, soprattutto a destinazione turistica, nelle quali certo più sottile, ma in definitiva non meno perfido è il tentativo di snaturare l'ambiente, con inserimenti non più di volumi di volgare brutalità, ma di false scenografie di vaghi valori pittorici, di pseudo ricostruzioni di folklore, non meno estranei in definitiva all'ambiente originario di natura che li accoglie, ed altrettanto lontani da ogni intento di qualificazione culturale: come le coste sarde testimoniano con “illustri” esempi. ; Si direbbe quasi che la nostra civiltà abbia saputo esprimere la propria più autentica ispirazione culturale proprio nei settori di intervento che a prima vista meno apparirebbero capaci di determinare la qualificazione culturale degli ambienti di natura: si vuole qui alludere alle infrastrutture per la grande viabilità, agli insediamenti produttivi altamente specializzati, sia per le attività primarie che secondarie; ed in generale alle “grandi opere”: tra i numerosi inserimenti sforzati od insignificanti, quando non errati, si trovano pur esempi di sapiente organizzazione delle nuove strutture nel paesaggio, e talvolta anche di coerente rielaborazione ambientale all'intorno.

Occorre dunque rifarsi a rinnovati approfondimenti culturali e tecnici, integrare i grandi programmi d'espansione, preordinare conseguentemente nuove norme, affinché in ogni nuovo insediamento la ricerca degli equilibri economico-sociali non vada disgiunta dalla cosciente assunzione di inerenti significati culturali. In tali nuovi indirizzi programmatici e giuridici non può non assumere preminente ruolo ordinatore il principio dell'attuazione integrata delle nuove strutture insediative: alla progettazione dei Piani esecutivi globali, atti cioè a determinare tema e programma in ogni loro aspetto tecnico, economico, sociale, formale, dovrà seguire una attuazione non più dispersa per iniziative singole di arbitraria estemporaneità, ma ordinatamente svolta secondo le priorità e i tempi stabiliti, con precedenza assoluta all'attuazione dei sistemi infrastrutturali e procedendo poi per nuclei omogenei alla formazione di unità socialmente qualificate per la residenza, il lavoro, la vita di relazione. A parte la doverosa qualificazione formale cui i singoli contributi sapranno dar luogo nell'attuazione dei programmi, un simile processo integrale dovrebbe, se sistematicamente adottato, offrire le più adatte garanzie di qualificazione culturale, fondamentalmente perché esso stesso già costituisce apporto di fondamentale rilievo scientifico e metodologico.

10. - Questi beni ambientali, antichi o nuovi, riconosciuti, dichiarati e organicamente protetti sono poi, in definitiva, destinati alla conoscenza scientifica ed al godimento comune. Si pone dunque il problema; già accennato, della loro disponibilità concreta, che può essere nella fattispecie dei beni ambientali, di semplice “visione” dall'esterno, ovvero piuttosto di più intima e vissuta partecipazione che presuppone la concreta possibilità d'accesso e di libera disponibilità. Nella misura poi in cui i beni ambientali sono generalmente parte del territorio abitato dall'uomo, si pone la distinzione tra l'utilità culturale, almeno in parte resa possibile dal fatto stesso della loro presenza per gli abitanti, e le possibilità concrete di offrire ad altri utilità dello stesso tipo: là distinzione non è oziosa se vale a precisare che l'intento divulgativo si esprime nell'offrire una disponibilità dell'ambiente simile a quella che consentirebbe l'abitarvi, con il risultato di una partecipazione intima e totale, di un godimento d'ogni più minuto aspetto, di un abbandono alla suggestione ed alle analisi più approfondite che la sensibilità e la cultura personali sanno proporre.

Tutto ciò, a parte il problema di singole iniziative di carattere scientifico, pone i termini programmatici per una più estesa e generale valorizzazione dei Beni ambientali riconosciuti e tutelati; in ultima analisi, per l'abbandono delle superate posizioni del Bene gelosamente conservato ed esposto per dovere, frettolosamente, alla visione del pubblico, ed una ulteriore affermazione dell'esigenza di godimento comune per ogni bene culturale.

Programma di estrema complessità, ove si pensi anche soltanto agli infiniti esempi in cui l'indiscriminato abbandono di alti valori ambientali al godimento privatistico ne ha prodotto la irreparabile compromissione; ove si avverta come la spinta degli interessi particolari, e tanto più negli ambienti qualificati ai quali è più intensa l'aspirazione di partecipazione, riesca di fatto a travolgere e spezzare le più ferree prescrizioni disciplinari; ove si rifletta che l'accessibilità diretta, dall'interno, ai Beni ambientali comporterebbe già di per se l'esigenza di profonde trasformazioni nell'uso tradizionale dei Beni medesimi, e nella loro stessa realtà spaziale. Anche da questo punto di vista, dunque, se non esiste disciplina di “difesa passiva” capace anche soltanto di contenere l'urto di questo violento impadronirsi del Bene ambientale per goderlo se non per sfruttarlo, se per contro la disciplinata disponibilità è appunto obbiettivo finale dell'intera opera di recupero e di tutela del Bene, consegue la necessità di non provvedere alla difesa soltanto con provvedimenti passivi che al grado massimo della loro efficacia ne produrrebbero l'isolamento, ma di formare programmi e piani che nella doppia prospettiva della più qualificata tutela e della disponibilità comune producano preventivamente e con gradualità nel medesimo contesto ambientale le premesse per un accesso collettivo non sconvolgente, ma integrativo o sostitutivo di precedenti equilibri, ed apportatore di nuovi incentivi di sviluppo disciplinato.

Ma contemporaneamente dovrebbe provvedersi ad una graduale “educazione” al godimento dei beni ambientali: sia nei termini più elementari del rispetto e della cura nell'avvicinarli, sia soprattutto nel senso sopra accennato di un ampliamento ed approfondimento di visuale e di capacità conoscitiva, per cui la disponibilità del Bene non venga di fatto goduta soltanto con frettoloso riferimento ai momenti salienti, eccezionali, ma come graduale appercezione dell'intero tessuto connettivo ambientale, nei suoi tratti minori, nei suoi saporiti risvolti di spontaneità artigianale, nelle sue articolazioni di percorsi storici dimenticati.

(E merita qui un accenno particolare il tema della disponibilità comune dei beni archeologici: salvo meritorie eccezioni, la norma è la concessione in visione di beni archeologici mobili strappati alla realtà dei con testuali ambienti, essi pure, e prima ancora dei singoli oggetti, beni culturali ambientali. Per contro appare incontrovertibile che anche per i beni archeologici si provveda alla divulgazione, conservandoli nel contesto storico, civile e territoriale da cui trassero origine e ragion d'essere, portando invece ivi, come le infrastrutture, i sistemi di trasporto e gli strumenti di comunicazione sociale oggi consentono, la presenza conoscitrice ad ogni livello - e lasciando poi alla riprova dei fatti la ipotesi, che qui si intende sostenere, che la “lettura” di tali apporti culturali nel loro ambiente nativo riuscirebbe ben più efficace ed agevole a quanti, anche senza la dote di singolari specializzazioni scientifiche, vi si potrebbero in tal guisa liberamente accostare).

Proseguendo le considerazioni più sopra svolte, pare a questo punto che si debba affermare, come loro conseguenza, la necessità di un decentra-mento infrastrutturale nell'ambiente: sia per le umane dimensioni storiche delle strutture viarie e degli spazi urbani ed umanizzanti negli ambienti d'interesse culturale, la cui integrità è premessa d'ogni intervento, sia per l'assoluta esigenza di non produrre sconvolgimenti nei loro equilibri socio-economici e formali con l'inserimento di massicce strutture dimensionate alla domanda, ma sproporzionate alla misura della realtà d'ambiente, sia infine per gli intenti “educativi” sopra accennati, il sistema delle infrastrutture necessarie per l'accesso e la libera disponibilità in dimensioni idonee dovrebbe articolarsi nell'intero contesto ambientale, utilizzando a tal fine non soltanto le maggiori strutture insediative, ma gli abitati minori, restaurati e riqualificati anche socialmente, nell'assoluto rispetto delle forme e dei più intimi valori d'ambiente; i casolari sparsi, le reti viarie ed i manufatti storici, in modo da portare già nell'intimo dell'ambiente stesso le possibilità d'accesso, di visione di partecipazione.

11. - Considerata dai punti di vista sopra esposti, la realtà dei diversi ambienti d'interesse culturale esige molteplicità di concetti, di metodi e di norme per ogni momento dell'intervento di tutela.

E così, se per i Beni ambientali paesaggistici ed urbanistici la disponibilità per il godimento è certamente comune finalità della loro dichiarazione, le tecniche per il loro conoscimento scientifico evidentemente si differenziano. Per gli ambienti paesaggistici avranno preminente significato, nell'analisi conoscitiva, innanzitutto la definizione dell'unità ecologicamente coerente, sia per gli ambienti allo stato di natura che per i territori trasformati dall'uomo in paesaggio tecnico-artistico; in secondo luogo, si procederà alla definizione dei caratteri tipici, nel complesso contesto delle formazioni secondarie sempre presenti; ancora, avrà rilievo la determinazione dei dati di economia e socialità prevalenti, ed insieme delle loro carenze e deformazioni strutturali; dovranno essere individuati i”centri focali” d'interesse paesistico e di convergenza socio-economica, nonché le aree di possibile intervento correttivo, evolutivo o del tutto innovatore per il raggiungimento di nuovi equilibri; si analizzeranno i sistemi infrastruttuali in atto, correlati al loro significato storico e paesistico, ma insieme alle presenti strutture produttive ed insediative del territorio, ed a future possibilità di adeguamento a condizioni diverse, a diversi pesi di presenza umana permanente o transitoria; e così via.

Con diverso metodo dovrà invece affrontarsi la realtà degli ambienti urbanistici; in essi la complessità delle componenti sociali e produttive, gradualmente trasformantisi all'interno di strutture rimaste alle, dimensioni originarie, e commisurate pertanto a tipi di equilibrio socio-economico generalmente diverso, assume significato prevalente nell'analisi conoscitiva, ove si tenga conto delle finalità, non di mera conservazione fisica, ma di tutela in termini di vita civile integrata e risolta, che caratterizzano nelle proiezioni operative i procedimenti di riconoscimento dei Beni culturali d'ambiente.

L'indagine della realtà “civile” degli ambienti urbanistici, si vuole qui ribadire il concetto, è inseparabile da ogni tentativo di conoscimento scientifico di essi; ciò premesso, basterà ricordare per il resto come le tecniche oggi disponibili, di rilevazione grafica, fotografica, aerofotografica, di elaborazione meccanografica e così via, offrano adatti strumenti per una annotazione integrale e sistematica delle forme, estesa dai “centri” tradizionali . d'interesse storico alla continuità dei loro ambienti nella minuta consistenza del loro tessuto “corrente”. Contro ogni equivoco, si deve qui insistere infine sul fatto che il rilievo scientifico d'un ambiente urbanizzato è significativo nella misura in cui è integrale; in esso devono dunque trovar luogo e manifesta denuncia critica anche le deturpazioni, le sovrastrutture sbagliate, gli inserimenti contrastanti ed ogni altro; e ciò sia al fine di ottenere l'immagine dell'ambiente nella sua integrale continuità di spazio, sia al fine di una critica sistematica con intento operativo progettuale e disciplinare.

12. - Indagini così complesse., si deve dire, assumono pieno significato ed efficacia soltanto a. condizione di essere strettamente finalizzate. Occorre evitare l'equivoco della raccolta indiscriminata e compiaciuta, praticamente illimitata, di dati e nozioni “non orientati” ; anche se si deve ammettere la obbiettiva difficoltà di un simile preventivo dimensionamento.

Inoltre, se è vero che il conoscimento scientifico dei Beni ambientali è correlato ad interventi attivi di tutela nel quadro d'un programma globale di sviluppo nel territorio, la raccolta dei dati e la loro elaborazione deve poter fornire conclusioni tempestive a tal fine; si pone dunque l'esigenza di predisporre lo svolgimento già in sede di formazione dei Piani regolatori, od al più a partire dalla loro adozione per le operazioni successive di intervento particolareggiato; così da consentire, in sede progettuale, una esatta commisurazione degli interventi e delle discipline giuridiche da instaurare alla realtà degli ambienti oggetto di tutela; ed in sede poi di gestione urbanistica dei Piani approvati, la loro graduale articolazione operativa in funzione dei pro- grammi periodici di attuazione. A tal fine converrà orientare le ricerche e le indagini alla compilazione d'un inventario completo dei Beni ambientali, con schede predisposte anche alla sintesi meccanografica, ed in funzione di codici di generale validità, in modo da ottenere per ogni intervento in programma una immediata e sistematica conoscenza critica dei caratteri culturali condizionanti; a pena, altrimenti, di sfasature sistematiche dei tempi d'intervento rispetto ai programmi, e di faticosi recuperi; ed in modo anche da ottenere schede raggruppabili tra diversi Inventari al fine di verificare le connessioni esistenti tra Beni ambientali sostanzialmente coerenti, ma di complessa articolazione amministrativa; nonché infine per ogni particolare eventualità di elaborazioni scientifiche a fini speciali.

13. - Con analoga, e maggiore, complessità si pone l'esigenza d'una molteplicità di concetti di norme, di metodi per gli interventi di tutela. Una prima affermazione, che qui si vuole ribadire, presenta tuttavia carattere di assoluta generalità: i vincoli di tutela, ed i conseguenti interventi, devono avere portata “cautelare” e cioè devono poter manifestare piena efficacia preventiva: in altri termini, gli interessi culturali devono essere difesi anche durante le procedure istituzionali; se non anche, in qualche modo, prima di esse.

Ciò premesso, venendo ad un esame più specifico dei tipi di intervento per i diversi ambienti, pare che, quanto agli ambienti paesaggistici, naturali od umanizzati, debba assumere particolare evidenza anche a fini di tutela la connessione, identificata nel momento conoscitivo sopra descritto, tra significato culturale dichiarato e contestuale realtà socio-economica. Occorrerà, in sostanza, provvedere alla “copertura” delle unità territoriali con sistemi di vincoli protettivi e, in particolare, al di sopra di ogni eventuale ripartizione amministrativa interna dell'area ecologicamente coerente. E poiché l'immagine paesistica protetta è in definitiva, almeno per gli ambienti umanizzati, la risultante di processi storici mossi da intenti produttivi e sia pure arricchiti da articolazioni. fantastiche, la tutela dovrà avere riguardo al recupero degli equilibri sociali ed economici che avevano consentito le primitive strutturazioni. Discorso questo da intendersi in termini di analogia, rispetto alle attuali condizioni di vita civile; e che richiederà pertanto complessi sistemi di incentivazioni, sovvenzioni, interventi di restauro a spese pubbliche, impianto di nuovi sistemi di irrigazione, di sfruttamento colturale dei terreni “marginali” e così via - se si vuole che il paesaggio protetto non sia destinato all'immobilità, all'abbandono ed in definitiva al ritorno ad uno stato selvatico.

14. - Quanto agli ambienti urbanizzati, l'esigenza del vincolo cautelare si manifesta necessaria e inderogabile nei confronti di abbattimenti, ricostruzioni e d'ogni altro intervento di grandi dimensioni; ma forse più ancora verso le deturpazioni minute, verso cioè quegli interventi, che ancora oggi si sogliono considerare di “ordinaria amministrazione” e sono benevolmente accolti e spesso affidati all'esame di commissioni “minori”: chiusura di portali e finestre., apertura od allargamento di vani esistenti nelle cortine murarie ; apposizione di nuove insegne, troppo spesso “luminose”; taglio di archi; rifacimenti in stile di elementi costruttivi alterati; rifacimento delle coperture con tegole nuove, accompagnato, come sovente avviene, da sopraelevazioni parziali al fine di utilizzare gli originari sottotetti; copertura degli orti con bassi fabbricati; nuovi accessi carrai e apertura di garage e laboratori nelle cortine murarie di contenimento dei terrapieni; e così via, indefinitivamente. A tali minute alterazioni, tollerate ed indiscriminatamente ammesse, se non favorite “per il decoro e l'ornato urbano”, si deve purtroppo la sistematica squalificazione degli ambienti urbani storici che caratterizza il tipo di “tutela” oggi vigente; tutela, la meno culturalmente impegnata che si possa pensare, in definitiva ipocrita, e che costituisce la più adatta premessa per successivi cospicui e definitivi interventi di rifacimento integrale nel tessuto, ormai in tal modo degradato.

Ancora, particolare efficacia occorrerà attribuire alle estensioni di tutela fuori delle unità urbanizzate di interesse culturale, nel loro ambiente insediativo; e ciò sia al fine di conservarne. i caratteri ed i sistemi infrastrutturali originari, in quanto sopravvissuti, sia per contenere ed ordinare le nuove espansioni fuori le mura, per le quali è indispensabile che, già a livello di Piano regolatore generale, si provveda allo studio, alla stesura ed all'adozione di Piani particolari con articolazione ed efficacia esecutive, poiché l'esperienza ha dimostrato che non solo nelle città storiche senza Piano, ma anche là dove il Piano, operante, si limitava a prescrizioni di zonizzazione, di indici regolamentari, e simili, le espansioni urbane hanno frantumato oltre che tali generiche resistenze, l'intero ambiente, costituendo cinture suburbane di infima qualificazione.

Le specificazioni prescritte dovranno giungere alla definizione completa e categorica dei volumi ammessi, degli spazi urbani, dei materiali costruttivi d'impiego obbligatorio, dei programmi di attuazione e delle stesse tecniche d'impianto ed esercizio cantieristico. L'attuazione dovrà procedere gradualmente per nuclei aggruppati, evitando ogni disseminazione e dando luogo prima di tutto alla formazione delle infrastrutture, il cui costo sarà ripartito fra gli utenti nella misura dell'entità di loro utilizzazione; il che pone, tra l'altro, l'esigenza di piani finanziari esecutivi, quindi di programmi, e, in definitiva, di gestione.

In questo senso si può notare che il vincolo “cautelare” conserva la propria validità per l'intero periodo di attuazione dei Piani, al fine del coordinamento degli interventi nel tempo.

15. - Si è già detto sopra quanto incida sui problemi di tutela l’esigenza finale della divulgazione dei Beni ambientali. Basterà qui aggiungere, a generale conclusione, che non può esistere interruzione tra i diversi momenti dell'intervento tutelare verso gli ambienti di interesse culturale; per conseguenza, ogni insufficienza, ogni inefficienza per quanto limitate possano apparire, sono destinate a condizionare negativamente l'intero processo. La realtà ventennale di progressiva distruzione del patrimonio culturale negli ambienti italiani testimonia, attraverso appunto tutta una serie di insuccessi delle normative volta a volta proposte e tentate con le più sincere intenzioni, e sempre sconfitte, che la tutela della cultura, in ogni sua manifestazione, si può proporre soltanto in termini di cultura, e cioè con azione sistematica e cosciente di conoscimento, di normazione, di intervento, di comunicazione.

Ambiente e paesaggio sono la stessa cosa, perché comprendono lo stesso complesso di elementi che normalmente chiamiamo oggetti, e che di fatto include quasi tutto quello che vediamo. Allo stesso tempo sono cose profondamente differenti. I logici direbbero che sono termini che hanno lo stesso significato, ma non lo stesso senso, perché si riferiscono a maniere differenti con cui le medesime cose si presentano. Nel mondo astratto della geometria non vi è però spazio per la storia, e tutto è sempre osservato con lo stesso sguardo. Al contrario, storia e ambiente sono diversi pur essendo la stessa cosa perché quel che è storicamente mutato è proprio la maniera di guardarla.

Che esista l'ambiente non è per nulla scontato.

L'ambiente non è affatto la natura. Perché questa diventi quello, è necessario che l'elemento umano, si chiami fuori e si opponga al resto, si isoli in posizione frontale rispetto all'insieme circostante, si riconosca una specificità che possa fondare il proprio eccezionale statuto. Il passaggio dalla natura all'ambiente presuppone insomma la stessa rivoluzionaria separazione che in pittura, con la prospettiva, riguarda la sistematica distinzione, in precedenza sconosciuta, tra primo piano e sfondo. Oggi per noi essa è abituale, ma prima del Quattrocento, cioè prima dell'inizio della riduzione del mondo ad un unico gigantesco spazio, non lo era affatto.

Il paesaggio viene applicato come modello conoscitivo quando ci si rende conto che la conoscenza dell'ambiente è molto più complessa, sotto il profilo politico e sociale, di quanto oggi normalmente si riesca a ricordare.

L'artefice di tale operazione si chiamava Alexander von Humboldt, lo scienziato berlinese che nella prima metà dell'Ottocento riuscì con i suoi libri a convincere l'intera borghesia europea (ma anche quella russa ed americana) ad abbandonare la propria attitudine contemplativa nei confronti della natura e a dotarsi invece di un sapere finalmente in grado di garantirle la conoscenza e il dominio del mondo. La strategia politico-culturale di Humboldt, figura-chiave dell'Europa ancora alle prese con il potere di marca aristocratico-feudale, si fondava sul riconoscimento del carattere fondamentalmente estetico della cultura in possesso dei rappresentanti della società civile, fino ad allora esclusi, specie in Germania, dal sapere di governo, dalla conoscenza delle discipline necessarie al controllo delle formazioni statali. È proprio a questo pubblico, di cui ancora prima di Baudelaire Humboldt riconosce la pigrizia, che egli si rivolge parlandone lo stesso linguaggio, quello dei lettori dei romanzi di Bernardin de Saint Pierre o di Chateaubriand e delle opere dei poeti e, appunto, dei conoscitori delle opere pittoriche dei paesaggisti olandesi e italiani. Il suo scopo era di trasformare tale cultura, di matrice letteraria e pittorica, in cultura scientifica, mutandone insomma dall'interno il significato. E proprio per questo il paesaggio (che per Humboldt era quello dei dipinti dell'Everdingen e del Ruysdael, oltre che dei Carracci) venne concepito come il primo stadio della conoscenza dell'ambiente, e come schema del mondo inteso come un'armonica totalità di tipo estetico-sentimentale, espresso attraverso un'originaria impressione sull'animo e cui è estranea ogni analisi razionale.

Con Humboldt il paesaggio entra dunque a far parte dei modelli conoscitivi della cultura occidentale soltanto sulla base di un vero e proprio processo di politicizzazione del dato estetico, funzionale al passaggio dall'assetto aristocratico- feudale a quello borghese o civile che si voglia dire del quadro europeo. Ed è urgente ricordare adesso tutto questo perché oggi avviene esattamente l'oppo- sto: dalla politicizzazione dell'estetico si è passati, nei confronti dell'ambiente e della sua analisi e gestione, all'estetizzazione del politico, con il conseguente rovesciamento dell'impostazione ottocentesca e la riduzione dell'ambiente al paesaggio stesso (cioè alla forma del prescientifico modello adoperato all'inizio per tentare di afferrare la complessità di quest'ultimi).

Prova ne sia la Convenzione Europea del Paesaggio adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 19 luglio del 2000, la cui filosofia ispiratrice è appunto basata sulla dichiarata sostituzione del paesaggio al territorio e all'ambiente come ambito per l'applicazione di politiche di salvaguardia, riqualificazione, gestione e progettazione all'interno dei singoli Stati. Il problema al riguardo consiste nel fatto che l'idea di paesaggio si fonda sul concetto di equilibrio, di armonia, sulla pacifica coesistenza degli elementi e sulla coerenza dei loro rapporti. Al contrario oggi l'ambiente è sottoposto a pratiche sempre più squilibranti, violente e distruttive che si traducono in effetti disastrosi. Si pensi soltanto alla crescente scarsità delle fonti energetiche e insieme ai sempre più evidenti cambiamenti climatici: entrambi sono dovuti alla globalizzazione, che per il momento non è nient'altro che l'estensione all'intero pianeta della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra un paio di secoli fa, e fondata sull'uso di combustibile fossile. Come dunque pensare il collasso, la crisi, il disastro? Aveva ragione Gregory Bateson: l'ecologia è qualcosa che prima di tutto riguarda la nostra mente, i modelli di pensiero con cui tentiamo di venire a patti con il mondo. E oggi abbiamo un disperato ed urgente bisogno di modelli nuovi.

Postilla

Il testo riassume la lectio magistralis svolta nell'ambito delle manifestazioni di Scienza e Ambiente, nell'aula absidale di Santa Lucia a Bologna. Al termine di due ore di rara intensità culturale, Franco Farinelli - allievo di Lucio Gambi - ha discusso coi presenti riprendendo i suoi rilievi alla Convenzione Europea del Paesaggio (punto di riferimento ormai acriticamente generalizzato delle attuali legislazioni in materia). In essa la sostituzione del "territorio" col "paesaggio" rimanda ad una valenza ideologica pericolosa che espunge la politica delle relazioni e della realtà a favore dell'estetica e della percezione individuale. In questo rovesciamento assoluto rispetto ad Humboldt (e a Kant...), il modello del paesaggio appare 'debole' dal punto di vista cognitivo, in quanto non adeguato ad interpretare e quindi anche a fornirci strumenti contro le alterazioni dell'ambiente e i disastri sul territorio.

Al termine, un'esortazione per tutti: " Il maggiore pericolo per la sopravvivenza dell'umanità sta nella nostra mancanza di coraggio di pensare cose nuove. Ci vuole rigore, fantasia...insomma quello che una volta si chiamava passione."

Pare che le regioni, gli enti locali e perfino gli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali, “zitti, zitti, piano, piano”, serenamente ignorino, nell’esercizio delle competenze loro affidate in merito al controllo dell’osservanza delle disposizioni di tutela dei beni paesaggistici, buona parte delle relative norme dettate dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e incisivamente modificato e integrato con il decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (d’ora in avanti: “Codice”). Per accertare l’effettiva sussistenza ed entità del fenomeno, occorrerebbe verificare, regione per regione, la legislazione, gli atti amministrativi regolamentari, gli altri atti amministrativi, gli strumenti di pianificazione, direttamente o indirettamente attinenti alla tutela del paesaggio, nonché i concreti comportamenti del sistema regionale-locale e degli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali nell’effettuazione delle verifiche della rispondenza delle proposte di trasformazione interessanti beni paesaggistici alle relative disposizioni, nonché nel rilascio dei conseguenti atti abilitativi.

Questo scritto non si propone un siffatto obiettivo, ma soltanto quello, estremamente più limitato, di ricostruire ed esporre le norme, attualmente vigenti, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, distinguendo, secondo una fondamentale opzione del “Codice”, quelle destinate a trovare applicazione “a regime” e quelle destinate invece ad applicarsi “in via transitoria”.

Preliminarmente, è il caso di rammentare che la Corte costituzionale ha chiarito, con ormai assai numerose pronunce, che il “Codice” contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto dell’articolo 117 della Costituzione).

Si sarebbe tentati di ricondurre alla prima categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione esclusiva dello Stato, aventi di conseguenza efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, proprio, essenzialmente, le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, e di ricondurre alla seconda categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione concorrente, aventi efficacia di “principi” da rispettare nella produzione legislativa regionale (all’entrata in vigore della quale ultima peraltro resta subordinata la precettività erga omnes e l’operatività dei “principi” stessi), essenzialmente, le norme afferenti ai contenuti, ai procedimenti formativi e alle efficacie della pianificazione paesaggistica. Ma sarebbe una terribile semplificazione. Infatti, anche alcune delle norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici palesemente richiedono, per essere pienamente applicabili, l’assunzione di determinazioni da parte delle regioni, che non si vede come non possano (o debbano) essere espresse nella forma di legge (regionale).

Per esempio, le regioni devono, ai sensi dell’articolo 148 del “Codice”, promuovere l’istituzione e disciplinare il funzionamento delle commissioni per il paesaggio, “di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica”, in assenza delle quali non potrebbero essere rilasciabili, per l’appunto, le autorizzazioni paesaggistiche, mentre diverse opzioni sulla loro composizione e sul loro funzionamento comportano diversificate conseguenze sui procedimenti di rilascio.

Ancora per esempio, le regioni, ove non intendano esercitare direttamente la funzione autorizzatoria paesaggistica, ma delegarne l’esercizio, devono farlo nell’osservanza del comma 3 dell’articolo 146 del “Codice”, essendo quindi tenute a effettuare tale delega “alle province o a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali all'uopo definite […], al fine di assicurarne l'adeguatezza e garantire la necessaria distinzione tra la tutela paesaggistica e le competenze urbanistiche ed edilizie comunali”. E’ bensì ammesso che le regioni possano “delegare ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche”, ma ciò soltanto nel caso in cui la pianificazione paesaggistica (ovvero la disciplina paesaggistica dettata dalla pianificazione ordinaria) sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti (il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio), “e a condizione che i comuni abbiano provveduto al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici”. Si soggiunge che “in ogni caso, ove le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, il parere della soprintendenza […] resta vincolante” (fermo restando, ritengo si debba intendere, che dalla definizione della disciplina dei “beni paesaggistici” operata dagli strumenti di pianificazione regionali, provinciali e comunali, d’intesa con le predette amministrazioni statali specialisticamente competenti, può derivare la sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento delle speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata).

Non risulta che in alcuna regione presentemente vigano disposizioni sulle deleghe della funzione autorizzatoria paesaggistica pienamente aderenti agli ora esposti dettati del “Codice”, talché ogni regione deve ritenersi impegnata a rivedere, più o meno profondamente (ma tendenzialmente in termini assai incisivi) la propria legislazione in argomento. La qual cosa, per il vero, non pare essere granché problematica, stante che quella che dianzi si è chiamata disciplina “a regime” dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici è previsto (comma 1 dell’articolo 159 del “Codice”) entri pienamente in vigore soltanto dopo il 1° maggio 2008, ovvero dopo la data, se antecedente, di approvazione di piani paesaggistici conformi alle relative disposizioni del medesimo “Codice”, o di adeguamento a tali disposizioni dei piani paesaggistici in essere. E nessuna regione si accinge ad approvare, in tempi brevi o anche soltanto medi, piani paesaggistici conformi alle pertinenti disposizioni del medesimo “Codice”, o varianti di adeguamento a tali disposizioni dei propri pregressi piani paesaggistici.

Anche l’unica regione che ha avviato, con grande solerzia ed eccezionale impegno culturale e politico, una propria pianificazione paesaggistica dopo l’entrata in vigore del “Codice”, attenendosi, seppure grazie a interpretazioni creative di rimarchevole intelligenza e saggezza, alle sue pertinenti disposizioni (ci riferiamo alla Sardegna), non potrà dirsi dotata in tempi brevi di un piano paesaggistico “concernente l’intero territorio regionale” (come esige il comma 1 dell’articolo 135 del “Codice”, con un disposto a cui la giurisprudenza della Corte costituzionale ha riconosciuto piena la dignità e la forza di principio fondamentale della legislazione dello Stato), avendo operato la scelta (sacrosanta!) di sottoporre prioritariamente e in tempi brevissimi a pianificata disciplina di tutela le parti più mortalmente a rischio del proprio territorio, cioè le fasce costiere e adiacenti.

Per cui i legislatori regionali possono tranquillamente procedere a rivisitare la vigente normativa delle proprie regioni, in argomento (anche) di procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attenendosi pienamente ai precetti del “Codice”, e quindi, tra l’altro, subordinando alle dianzi indicate condizioni la vigenza della disciplina destinata a trovare applicazione “a regime”, e differenziando da questa la disciplina destinata piuttosto ad applicarsi “in via transitoria”. Invece, tra i suddetti legislatori regionali, non è mancato chi (errando, ed errando gravemente) ha preteso di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” (nella sua versione originaria) come destinata a trovare applicazione “a regime”, prescindendo dalla condizione essenziale della vigenza di una pianificazione paesaggistica conforme a quella prefigurata dallo stesso “Codice”, e trovandosi oggi ancora più “spiazzato” (in conseguenza di alcune rilevanti innovazioni introdotte dal d.lgs. 157/2006).

Esposte queste corpose, ma necessarie, notazioni preliminari, è possibile dare conto assai sinteticamente (e omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza) delle norme, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attualmente vigenti, ma destinate a trovare applicazione soltanto “a regime”.

E’ stabilito (articolo 146 del “Codice”) che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo” di beni paesaggistici “hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni [nel rigoroso rispetto del comma 3, dianzi riportato e commentato, dello stesso articolo che si va ora esponendo] i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l'autorizzazione a realizzarli”. Che “l'amministrazione competente, acquisito il parere della commissione per il paesaggio […] e valutata la compatibilità paesaggistica dell'intervento […] trasmette al soprintendente la proposta di rilascio o di diniego dell'autorizzazione, corredata dal progetto e dalla relativa documentazione, dandone comunicazione agli interessati”. Che “il soprintendente comunica il parere entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data di ricezione della proposta”, e che tale parere, come già è stato detto, “è vincolante”, salvo il caso in cui la pianificazione paesaggistica sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti, e sia intercorso l’adeguamento a essa degli strumenti urbanistici comunali (ma comunque non qualora le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche). Che “decorso inutilmente il termine per l'acquisizione del parere, l'amministrazione competente assume comunque le determinazioni in merito alla domanda di autorizzazione”. Che, decorsi inutilmente i termini stabiliti, “è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione alla regione, che provvede anche mediante un commissario ad acta”, e che “laddove la regione non abbia affidato agli enti locali la competenza al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la richiesta di rilascio in via sostitutiva è presentata alla soprintendenza competente”. Che “l'autorizzazione costituisce atto autonomo e presupposto del permesso di costruire o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.

Gli ultimi commi dell’articolo che si è appena sopra sunteggiato, riguardanti il divieto di rilascio di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria e le relative eccezioni, l’impugnabilità delle autorizzazioni paesaggistiche, le speciali disposizioni dettate in relazione alle attività minerarie e a quelle di coltivazione di cave e torbiere, richiederebbero, ognuno, resoconti e commenti di entità pari a quella di tutto il presente scritto, per cui ci si guarda bene dall’inoltrarvisi.

Anche per procedere a esporre, altrettanto sinteticamente (e anche in questo caso omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza, nonché disposizioni che richiederebbero peculiari e corposi commenti) le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che è prescritto trovino applicazione “in via transitoria”, fino al termine temporale di cui già precedentemente s’è detto, oppure al realizzarsi delle condizioni che pure già si sono precedentemente rammentate.

E’ stabilito (articolo 159 del “Codice”) che “l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti” e che “la comunicazione è inviata contestualmente agli interessati”. Che “la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio […], può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione” (formulazione che, alludendo espressamente a una valutazione “di merito”, palesemente vuole riproporre nel contesto del nuovo regime costituzionale e legislativo la possibilità di tale valutazione, la quale era stata negata nel previgente regime dalla giurisprudenza, che aveva sempre affermato essere il sindacato statale sulle autorizzazioni limitato ai profili di legittimità). Che “l'autorizzazione è rilasciata o negata entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla relativa richiesta e costituisce comunque atto autonomo e presupposto della concessione edilizia o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”. Che “decorso il termine di sessanta giorni dalla richiesta di autorizzazione è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione stessa alla soprintendenza, che si pronuncia entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricevimento”.

Come si è precedentemente fatto presente, stante la presente situazione della pianificazione paesaggistica in tutte le regioni italiane, non v’è dubbio che quella ora sunteggiata, e puntualmente sancita dall’articolo 159 del “Codice”, è la disciplina dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che dev’essere applicata. E oserei sostenere che, trattandosi di disciplina da un lato riconducibile a “materia” appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, e quindi, almeno potenzialmente, avente efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, e da un altro lato non richiedente, fattualmente, per trovare applicazione, l’assunzione di determinazioni regionali, è essa disciplina che presentemente dovrebbe essere fatto obbligo di osservare e praticare da parte delle amministrazioni presentemente riconosciute (dalle regioni, in base alla legislazione previgente) competenti al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche. E ciò anche laddove il legislatore regionale abbia preteso, come si è fatto presente dianzi, di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” come destinata a trovare applicazione “a regime”.

Stando a quanto si sente dire in molti e vari luoghi d’Italia, sembra invece che le diverse amministrazioni agiscano nei modi più diversi, ma raramente in quelli che sinora si sono sostenuti corretti.

Non soltanto a fini di accertamento conoscitivo di tale complessa fenomenologia, ma anche, e soprattutto, allo scopo di esercitare le irrinunciabili funzioni statali di coordinamento e di indirizzo, e di perseguimento e concorso alla garanzia del rispetto della legalità nell’azione amministrativa da parte di ogni soggetto istituzionale, sarebbe altamente auspicabile che il Ministero per i beni e le attività culturali attivasse quella generale e puntigliosa verifica che si è prospettata e auspicata nel primo capoverso di questo scritto.

Per non rassegnarci all’ormai famosa battuta per cui, nel nostro Paese, di legale resta soltanto l’ora. E per non confermare il destino dell’Italia d’essere “non donna di province [oggi di regioni], ma bordello”.

La prima parte del corso è stata dedicata ai fondamenti: richiami ad alcune nozioni essenziali per collocare correttamente il planner nei contesti nei quali si troverà ad operare. Si forniscono i testi di alcune lezioni e collegamenti ai powerpoint utilizzati. Gli argomenti: L'etica dell'urbanista, L'ordinamento della Repubblica italiana, la politica, la rendita. Si inserisce altresì alcuni materiali della terza parte del corso, nella quale si sono forniti alcuni strumenti.

L’ETICA DELL’URBANISTA

lezione del 15 febbraio 2007

Ogni mestiere ha una sua moralità.

Il mestiere è l’applicazione di un determinato sapere e di una determinata abilità a un’azione rivolta alla soluzione di una determinata esigenza posta da un determinato soggetto individuale o collettivo.

La moralità di un mestiere sta nell’impiegare quelle doti (sapere e abilità) al corretto soddisfacimento di quella esigenza così come questa si manifesta in relazione al soggetto che ne è il portatore.

La moralità di un mestiere implica il concetto di responsabilità: devo essere pronto a rispondere delle scelte che compio nello svolgere il mio mestiere.

La moralità di un mestiere è in sostanza la corretta applicazione di quel mestiere in relazione alla natura propria di quel mestiere, non alle applicazioni che di quel mestiere possono essere fatte per finalità diverse.

La corretta applicazione del mestiere può quindi anche essere diversa da quella che viene richiesta da un determinato soggetto. Se io vado dal medico e gli dico impiega il tuo sapere per aiutarmi a far star male questo mio nemico, lui non deve servirmi. Se vado dal fabbro e gli chiedo di scassinare una porta perché voglio entrare in una casa non mia e portare via qualcosa, lui non deve servirmi.

Per comprendere in che cosa consiste la moralità del mestiere dell’urbanista bisogna allora comprendere in che cosa consiste il mestiere dell’urbanista.

Riprenderò a questo proposito alcune connotazioni del mestiere dell’urbanista che ho enunciato nella lezione introduttiva di questo corso di laurea: garante degli interessi collettivi, portatore di una visione olistica della realtà, regista di saperi e mestieri diversi, collaboratore tecnico della politica.

Garante degli interessi collettivi

Nella città e nel territorio esistono e agiscono molteplici interessi. Si tratta di interessi spesso concorrenti, soddisfare l’uno significa non soddisfare l’altro. Prima ancora d scegliere tra i diversi interessi, occorre che tutti abbiano ugualmente modo di esprimersi, di essere rappresentati. Ora non tutti gli interessi che agiscono nella città e nel territorio sono ugualmente garantiti, difesi, rappresentati.

Sono certamente sostenuti gli interessi più potenti: quelli delle grandi proprietà immobiliari, che spesso appartengono a istituti di credito e ad altre componenti del mondo della finanza,e sempre più spesso a industrie che tentano di guadagnare con la valorizzazione immobiliare delle loro fabbriche, magari trasferendole dove le aree (e magari la mano d’opera) costano meno. Lo sono quelli delle aziende produttrici, in particolare di quelle che hanno a che fare con l’edilizia. Lo sono quelli dei commercianti, nelle città turistiche quelli degli albergatori e del mondo che attorno al turismo gravita. Si tratta comunque, in ogni caso, di interessi economici riferiti a una categoria particolare, e a una prospettiva temporale di breve periodo.

Cominciano a essere presenti gli interessi delle associazioni ambientaliste e di piccoli gruppi di pressione e d’orientamento. Ma si tratta di presenza il più delle volte deboli, su base volontaristica e spontanea, difficilmente capaci di durare nel tempo lungo delle decisioni amministrative, scarsamente dotati delle informazioni tecniche necessarie per valutare le scelte.

Una volta gli interessi generali erano rappresentati dai partiti politici. Questi avevano un disegno di prospettiva, proponevano un progetto di società di lungo periodo, e anche nell’azione amministrativa (che è riferita alla durata del mandato elettorale, cioè generalmente cinque anni) erano coerenti a quel progetto sociale.

Oggi i partiti sono tendenzialmente appiattiti sul breve periodo: domina la preoccupazione di ottenere il maggior numero possibile di voti alle prossime elezioni, ed è più facile ottenere consenso promettendo cose che possano essere realizzate nel breve periodo. Un bel progetto architettonico o un pezzo di superstrada “pagano” di più che un buon piano regolatore: Ma il futuro di un territorio dipende da un buon disegno e programma d’insieme, mentre è certamente compromesso da scelte casuali, episodiche, slegate.

Io credo che in questa situazione all’urbanista spetti, più che mai, più di quando la politica era lungimirante, il compito di rappresentare gli interessi generali e gli interessi del futuro: gli interessi di tutte le cittadine e i cittadini in quanto tali, in quanto abitanti e utilizzatori del “bene comune città”. Quelli di oggi, e quelli di domani, che nessun gruppo sociale e nessuna istituzione rappresenta, e a cui è destinato il Pianeta Terra che noi lasceremo ai nostri posteri.

Portatore di una visione olistica della realtà

All’urbanista spetta anche un’altra responsabilità: quella di essere capace di guardare al territorio nel suo insieme, di avere una visione olistica, sistemica della realtà.

Il territorio è un sistema, un insieme di parti tra loro integrate:l’urbanista (per la sua formazione e per il mestiere per il quale è preparato) è, deve essere, capace di non perdersi nell’analisi e nella considerazione delle singole parti dimenticando il contesto al quale appartengono e che le fa vivere, ma deve anzi partire dal contesto, dall’insieme, dal tutto.

“Il tutto è più importante delle sue parti”, diceva il poeta Eugenio Montale. E un altro poeta, Dante Alighieri: “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questa è forma che l’Universo a Dio fa somigliante”.

Al di là delle parole dei poeti, quello che comunque è certo è che le parti del territorio non si governano se non si comprende il tutto. Verità, questa, largamente dimenticata.

Il territorio è oggi, nel nostro paese, trasformato da interventi occasionali, sporadici, promossi da questa o da quella esigenza. Là un pezzo di strada, qui l’ampliamento di un porto, l’autorizzazione a un capannone industriale, la trasformazione di un magazzino in una discoteca. In un’area destinata dal piano regolatore a verde pubblico si costruiscono case per i militari, dove la golena del fiume deve essere protetta per timore di esondazioni e per far scorrere la corrente in caso di piene di costruisce una fabbrica.

È questo modo di operare, sollecitato dall’urgenza e permesso dalla miopia, l’urbanista deve ricordare che è così che si sono provocati le catastrofi che hanno funestato in più occasioni le nostre terre, che è così che si provocato il degrado di quello che una volta era chiamato il Belpaese.

E a questo modo che l’urbanista deve reagire, predicando e praticando una visione olistica, sistemica delle cose: quella visione che è espressa dal metodo e dagli strumenti della pianificazione, di cui fra poco ci occuperemo.

Regista di saperi e mestieri diversi

Ripeto: il territorio è una realtà complessa, e molti punti di vista (molti saperi e molti mestieri) sono impiegati per conoscerla, analizzarla, valutare le sue potenzialità e i suoi rischi. Ciò significa che il lavoro dell’urbanista, poiché ha a che fare con il territorio e il governo delle sue trasformazioni, deve collaborare con gli esperti di altre discipline, deve avvalersi dell’apporto di saperi e mestieri diversi dal suo. Il suo è un lavoro eminentemente interdisciplinare.

Ma tra le altre discipline l’urbanista svolge (là dove si cimenta con gli strumenti della pianificazione) due funzioni particolari.

Innanzitutto egli svolge un ruolo di coordinamento: il geologo e lo statistico, il programmatore e lo storico dell’ambiente, il fitogeografo e il sociologo, il giurista e l’economista collaborano con la regia dell’urbanista. Così come, nel cinema, gli attori e lo scenografo, l’elettricista e il costumista, l’operatore di macchina e il fotografo sono coordinati dal regista.

E come nel cinema, la regia dell’urbanista è finalizzata a un risultato. Dai saperi degli altri l’urbanista deve trarre ciò che può tradursi in un progetto di spazio,in una disciplina delle trasformazioni del territorio, e nell’individuazione di ciò che bisogna fare (le azioni,le valutazioni, il monitoraggio) per tradurre il disegno del piano in concrete trasformazioni del territorio.

Non è un lavoro facile, quello dell’urbanista. Per esercitarlo è necessario essere curiosi e umili: curiosi per conoscere abbastanza bene i mestieri altrui così da saperli utilizzare; umili per rispettare la specificità delle altre discipline.

Appendice

L’urbanista come lo vedono altrove

Il ruolo sociale dell’urbanista

Ma qual è il nocciolo del ruolo sociale dell’urbanista? Diamo uno sguardo fuori d’Italia.

Scrive il documento fondativo del Conseil Français des Urbanistes: “bisogna sempre ricordare che l’urbanistica è di ordine pubblico e d’interesse pubblico” (“Il convient toujours se rappeler que l'urbanisme est d'ordre public et d'intérêt public”),

Afferma il codice deontologico dell’American Institute of Certified Planners: “Il primo dovere di un urbanista è di servire il pubblico interesse” (“A planner’s primary obligation is to serve the public interest”).

Decretano le “Norme di deontologia professionale” del Consiglio Europeo degli Urbanisti: l’urbanista deve “agire sempre nell’interesse del proprio cliente o committente”, ma con la “consapevolezza che l’interesse pubblico deve restare preminente”,.

Poiché il concetto di pubblico interesse è oggetto di elaborazione e dibattito, il documento dell’American Institute of Certified Planners si preoccupa di definire i paletti entro i quali l’urbanista deve comunque inscrivere la propria azione. Ne sono elementi essenziali la consapevolezza del carattere sistemico e della lunga portata temporale delle decisioni sul territorio, la completezza e la chiarezza dell’informazione fornita al pubblico, l’attenzione agli interessi delle categorie più svantaggiate, all’integrità dell’ambiente naturale e alla tutela del patrimonio culturale.

L’urbanista del futuro

In Italia siamo depressi per la scarsa considerazione che il mestiere di urbanista riceve nella pubblica opinione. Quale sarà il futuro dell’urbanista? Aiuta a dare una risposta un recente studio che si riferisce alla situazione della Gran Bretagna: Future Planners: Propositions for the next age of planning, redatto da P. Bradwell, Inderpaul Johar, Clara Maguire e Paul Miner, febbraio 2007 (tradotto da Fabrizio Bottini per eddyburg.it.

“Quella del planner è una professione moderna. Sin dal suo emergere negli anni ’20 ha avuto alti e bassi, a seguito di mutamenti nelle ideologia politiche e del contesto sociale. È possibile tracciare una storia professionale contemporanea a partire dagli anni ’80, decennio contrassegnato da una fede politica nel libero fluire del mercato e nella deregulation. Il sistema di pianificazione era considerato un ostacolo all’incremento della crescita economica. Ma oggi assistiamo a un ritorno dell’idea di pianificazione come elemento chiave per consentire uno sviluppo sostenibile legittimato democraticamente”.

Il rapporto prosegue delineando i nuovi ruoli che spettano al planner dei nostri tempi. In tutti viene sottolineata “la sua funzione chiave nella redazione e gestione di progetti per realizzare valori pubblici”. La ribadita preminenza di tali valori pubblici è la chiave per comprendere in quale contesto si collochino i nuovi ruoli di “negoziatore”, “facilitatore”, “mediatore” che al planner vengono attribuiti: un contesto radicalmente diverso dal nostro. In Italia infatti, nel XXI secolo, quei ruoli non alludono alla rapporto tra istituzioni pubbliche tra loro o con i cittadini, ma a quello tra i decisori e gli interessi immobiliari.

L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO

lezione del 22 febbraio

La pianificazione territoriale e urbanistica è competenza primaria delle istituzioni dello stato. Quali sono nel sistema costituzionale italiano queste istituzioni e quali i loro rapporti, in relazione al governo del territorio

Vedi le slide L’organizzazione dello stato, nel powerpoint scaricabile in calce, anche in formato .pdf

LA POLITICA

lezione del 1 marzo

Le parole

Le radici della nostra lingua (e della nostra cultura) sono nelle lingue (e nelle culture) che hanno preceduto la nostra.

Tre parole esprimono la città nella lingua greca e in quella latina, ed esprimono tre aspetti del significato che il termine assume nel nostro mestiere.

Urbs: la città come luogo fisico

Civitas: la città come società che vi abita

Polis: la città come politica, come governo della cosa pubblica.

Il legame tra queste tre dimensioni della città è essenziale. Mentre l’architetto vede la città esclusivizzando il primo aspetto (urbs), lo studioso in scienze sociali nel secondo (civitas) e quello in scienze politiche nel terzo (polis), peculiarità dell’urbanista è saldare tra loro i tre aspetti, e non perdere mai la consapevolezza del legame tre di essi.

L’urbanista non è né un architetto né un sociologo né un politico, ma deve aver chiaro il rapporto del suo mestiere con queste altre discipline. Particolare importanza ha il rapporto dell’urbanistica con la politica, ed è di questo che parleremo oggi.

Un riepilogo

Per comprendere come si ponga oggi il legame tra questi due mestieri proviamo a riassumere e a fare un passo avanti.

Il mestiere dell’urbanista nasce in relazione alla necessità di tutelare, nell’organizzazione della città, alcuni interessi comuni di cui la logica del mercato era incapace di tener conto.

Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si spostarono nel tempo dalla città ad ambiti più vasti: dalla città al territorio. Agli interessi comuni della funzionalità e della bellezza della città altri se ne sono aggiunti nel tempo: anche la tutela dei valori e interessi dei beni storici e culturali, anche l’impiego razionale e parsimonioso delle risorse naturali e dell’ambiente, si rivelarono via via come beni e interessi non tutelabili dalle leggi dell’economia, che quindi richiedevano un intervento regolatore “esterno”.

Di questo intervento regolatore si fece carico – sul piano sostanziale della decisione – l’autorità politica: cioè, nel sistema democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti direttamente dalla popolazione. In Italia, il sistema Stato, Regione, Provincia, Comune.

Poiché si trattava di regolare una realtà complessa, che riguardava una realtà georeferenziata, si inventò un insieme di strumenti che avevano la loro base in un progetto di territorio, cioé un piano. Poiché, più tardi, si vide che la dinamica delle trasformazioni non era sufficientemente governata da un documento statico, si trasferì l’accento dal piano alla pianificazione, cioè a un’attività continua di governo delle trasformazioni territoriale.

Nacque, e via via si sviluppò, la figura professionale adibita alla formulazione tecnica degli strumenti per il governo, delle trasformazioni territoriali: l’urbanista, depositario dei saperi e mestieri tecnici necessari per supportare le decisioni dell’autorità politica: per redigere gli atti necessari a dar corpo alle scelte della pianificazione, i cui atti esprimono “una volontà politica tecnicamente assistita” (Indovina).

Il politico e l’urbanista

Il politico (l’ elu, l’eletto, dicono i francesi) e l’urbanista sono due figure sociali che vivono in stretta simbiosi.

L’una, il politico, ha il compito di esprimere l’insieme degli interessi espressi dalla società e di governare la cosa pubblica, cioè di assumere le decisioni necessarie a soddisfare le esigenze e realizzare i progetti considerati necessari per assicurare l’evoluzione della società nella direzione desiderata

L’altra, l’urbanista, esprime i saperi e i mestieri connessi alla materia che la pianificazione deve trattare. Poiché questi saperi e mestieri sono un ventaglio molto ampio, il terreno di lavoro è essenzialmente interdisciplinare. Dalla pluralità dei saperi l’urbanista deve trarre ciò che serve a sorreggere le decisioni, che spettano al politico.

L’urbanista è perciò in qualche modo la cerniera tra i vari saperi “tecnici” e la sfera della politica, del governo. Non ha però autonomia rispetto alle decisioni, poiché queste, in un regime democratico, spettano a chi rappresenta la collettività, al politico (all’eletto).

Il suo mestiere è legato alla ricerca della soddisfazione di interessi comuni, collettivi. Ma gli interessi della collettività sono rappresentati dall’altra figura: il politico. E’ lui, nel sistema democratico, il soggetto che esprime gli interessi “generali”. E’ a lui che è attribuito il compito (la responsabilità) di tradurre questi interessi in atti di governo che modifichino, dirigano, conducano le trasformazioni della società.

I partiti

Organismo centrale della politica sono i partiti. Questi sono formazioni che nascono dalla società esprimendo gli interessi, le esigenze, i progetti e le proposte di parti di essa. (Ricordate sempre l’origine delle parole, che spesso ne esprimono compiutamente il significato).

Possiamo dire che i partiti, in una società contemporanea sono lo strumento che connette la società al governo. E in effetti, le istituzioni nelle quali si organizza il potere democratico sono alimentati dai partiti.

La Costituzione, che disciplina le istituzioni, mantiene la massima cautela nei confronti dei partiti: li considera come libera espressione della società, quindi si limita a garantirne l’autonomia citandoli in due soli articoli:

Articolo 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Cioè la definizione dei partiti come strumenti mediante i quali i cittadini (la società) concorre a determinare la politica nazionale.

Aticolo 98: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Cioè devono essere neutrali rispetto ai partti gli organismi statali che potrebbero minacciarne l’autonomia.

La politica com’era

Il rapporto tra politica e urbanistica ha conosciuto fasi diverse, in stretta relazione con il rapporto tra politica e società. Per chiarire il mio punto di vista mi riferisco alla mia personale esperienza.

Il grosso della mia attività di urbanista si è svolto in una fase della nostra storia in cui il politico era l’espressione di un partito: di una formazione (tra il sociale e l’istituzionale) la cui coesione, e l’appartenenza dei cui membri, era assicurata dalla comune convinzione della validità di un progetto di società.

Lo scontro politico era la competizione tra progetti di società alternativi, ciascuno riferito agli interessi di determinate classi sociali, ciascuna delle quali però aspirava a soddisfare l’interesse generale.

A seconda del potere conquistato dai portatori dell’uno o dell’altro progetto di società, il compromesso che via via si raggiungeva nella concreta attività di governo era più vicino all’uno o all’altro.

Ciò che voglio sottolineare è che in quella fase l’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un obiettivo di ampio respiro, un progetto di società. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani.

E poichè per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica di arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima conquistare le coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.

La politica è cambiata

La politica è radicalmente cambiata. Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale.

E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare il consenso con una doppia operazione:da una parte, calibrando la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impiegando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza di strati vasti di popolazione.

Ecco una sintesi della caduta della politica:

Dall’interesse generale alla cattura di tutti gli interessi più immediati e spiccioli.

Dalla faticosa costruzione del futuro alle piccole trasformazioni nell’immediato.

Dalla formazione alla manipolazione.

Dalla visione prospettica alla miopia.

Politica, società, istituzioni

La crisi della politica è una componente importante della crisi della democrazia, alla quale abbiamo accennato nella lezione scorsa. Ricordiamo le tre cause che abbiamo ripreso da Luciano Canfora: “impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo”.

Oggi tutti concordano nel riconoscere che vi è un distacco crescente tra i partiti e la società: non solo in Italia, ma particolarmente in Italia.

Questo distacco ha indebolito, e ha messo in crisi, il rapporto tra le istituzioni e la società.

E poiché gli strumenti della pianificazione vivono all’interno del mondo delle istituzioni, ecco che si è indebolito il legame tra urbanistica e società.

Democrazia rappresentativa e democrazia deliberativa

La democrazia quale la conosciamo è definita “democrazia rappresentativa”: il governo e il processo decisionale sono affidati ai rappresentanti, mentre il compito dei cittadini è di andare regolarmente ma saltuariamente alle urne per eleggerli.

La “democrazia deliberativa” è quella forma di governo nella quale i cittadini partecipano direttamente al processo di formazione delle decisioni (discutono e decidono).

Un recente libretto di Paul Ginsborg ( La democrazia che non c’è, Einaudi, 1977. € 8,00) chiarisce bene il signficato di queste espressioni, le ragioni della crisi della democrazia rappresentativa, i diversi aspetti della tensione verso la democrazia deliberativa, le ragioni della difficoltà di quest’ultima.

Si tratta di temi che riprenderemo nei successivi seminari, e anche in quello che concluderà il corso, quando ragioneremo insieme sull’argomento della partecipazione nella formazione degli atti di pianificazione. Ma adesso tocchiamo una questione decisiva per comprendere quali interessi sono messi in gioco dalle decisioni sulla città

L’urbanistica regolativa e la rendita

La privatizzazione del suolo urbano è la prima forma della contraddizione tra sistema economico-sociale e città, ed è il primo ostacolo alla riduzione dei suoi effetti. Chi governa in nome degli interessi collettivo non è libero nelle sue operazioni: deve fare i conti con la proprietà privata del suolo urbano.

Una parte consistente dell’urbanistica (e una parte consistente del lavoro dell’urbanista) è perciò volta a regolare la proprietà privata: non può ignorarla, non può ignorare che il suolo urbano è parcellizzato, suddiviso, frammentato, frantumato: una città che voglia avere una identità, e quindi voglia esprimere un’immagine unitaria di se stessa, non può essere liberamente disegnata, progettata, pianificata sul terreno tenendo conto solo delle sue caratteristiche fisiche: deve fare i conti con la proprietà individuale e i suoi confini. Perciò, deve imporre ai proprietari (ai “particuliers”, dicono i francesi) la sua regola. L’urbanistica non può non essere regolativa.

E la prima fase del mestiere dell’urbanista è stata proprio quella di regolare a priori (mediante lo strumento del “piano regolatore”) i malfunzionamenti che sarebbero nati se le forme della crescita delle città fosse stata solo quella dettata dai vincoli dell’assetto dominicale e dalle leggi del sistema economico.

Per chiarire questo aspetto del problema è utile riprendere il tema della rendita urbana dal punto di vista dell’economia classica. Vi rinvio in proposito al powerpoint.

Vedi le slide nei powerpoint su Politica e Rendita, scaricabili in calce anche in formato .pdf

[1] I testi cui mi riferisco in questo e nel precedente paragrafo sono disponibili in internet; sono raccolti nel mio sito http//eddyburg.it

In fondo alla pagina potete scaricare alcuni testi utili e le scalette delle lezioni.

Per la legislazione urbanistica nazionale e per le legislazioni urbanistiche regionali si rinvia ai numerosi materiali (testi legislativi, discussioni e proposte) contenuti nelle cartelle Legislazione nazionale e Legislazioni regionali nei sito eddyburg.it, nella Sezione Urbanistica e pianificazione. Si suggerisce per le parole indicate dello schema della prima lezione, di consultare la cartella Glossario .

Per la legislazione sulla pianaificazione del paesaggio si consiglia la lettura della seconda parte dello scritto "Filosofia del PPR".

Si consiglia inoltre la lettura dei capitoli 10 e 11 del libro: Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza Bari 2004.

Piero Bevilacqua, Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli editore, Roma 1996, pp. 9-14

La natura che è protagonista nei quattro capitoli qui proposti non rappresenta ovviamente il mondo fisico dei naturalisti e neppure la realtà polisemica e ambigua dei filosofi, per i quali essa è a un tempo il sostrato fisico su cui poggia la società, l'universo, la totalità dell'essere e altre cose ancora. Più semplicemente, essa è la natura degli storici: vale a dire l'ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso. Si potrebbe dunque dire che il senso prevalente del termine si riconosce nella parola - propria del lessico europeo contemporaneo - di ambiente, il quale trova i suoi corrispettivi fedeli nei lemmi di Umwelt, environment, medio ambiente, environnement'[1]. Più decisamente, tuttavia, di quanto non succeda nella letteratura ambientalista, o di quanto non accadeva nella ricerca storica tradizionale, l'ambiente non è solo il contenitore fragile e vulnerato della pressione antropica, né l'inerte fondale su cui campeggiano le magnifiche azioni degli uomini. Esso costituisce al contrario un soggetto indispensabile e protagonista, la controparte imprescindibile dell'agire sociale nel processo di produzione della ricchezza. Prima di ogni cosa la natura è l'insieme delle risorse date: acque e clima, suolo e piante, aria e animali, irradiazione solare ed energia. Sotto forma di pianure e colline, di fiumi e torrenti, di piantagioni e di boschi, di macchie e agricolture, tali risorse si presentano tuttavia a un tempo come forze naturali e prodotti storici, risultati del lavorio millenario dell'azione umana che ha piegato il mondo fisico ai propri bisogni.

Natura domesticata, dunque, fatta servire a compiti produttivi dalle società che hanno di volta in volta calcato il pianeta, e che da tempo è diventata, essa stessa, un elemento del processo storico, una componente interna alla vita sociale degli uomini. Tutto ciò fa parte ormai del fondo più ovvio della nostra cultura, soprattutto di quella italiana, così lungamente intessuta di idealismo storicista, di umanesimo retorico, e comunque di negazione del mondo naturale. Meno ovvio appare oggi riconoscere a questo prodotto storico che è la natura una sua relativa autonomia rispetto all'azione degli individui, una produttività indipendente dalle sollecitazioni del lavoro, una esistenza dinamica, libera e preesistente agli stessi condizionarmenti della tecnica. E invece proprio tale dato costituisce oggi lo stacco più netto rispetto alle convinzioni dominanti, alle elaborazioni ciel passato, per alcuni aspetti alle stesse culture ambientaliste.

La natura, dunque, come il secondo soggetto, il partner attivo, insieme al lavoro umano, nel processo di produzione della ricchezza. Sicché l'economia cessa di apparire l'edificio solitario dell'uomo tecnico, poggiato sulla base di un mondo fisico inerte, e viene a riproporsi quale attività di cooperazione fra lo sforzo muscolare e mentale degli uomini e le risorse dei pianeta. L'albero che cresce e dà frutti non è solo il risultato dei coltivatore che pianta il sente, fornisce il concime e cura lo sviluppo, ma è anche l'esito dei lavorio oscuro delle radici e della chimica del suolo, del libero e gratuito irraggiamento dei sole, del vento e della pioggia. E il seme piantato dal coltivatore, passato di mano in mano, trasformato e reso irriconoscibile rispetto alle sue origini, è stato rinvenuto millenni addietro sulla superficie della terra, spontaneo dono della natura. Dunque, anche sotto questo aspetto, i dati naturali, manipolati nel corso dei tempo dagli uomini, e perciò divenuti storici, sono protagonisti attivi della produzione materiale.

E non si creda che l'esemplificazione sia limitabile al mondo agreste, quello che più agevolmente ancora oggi facciamo coincidere con la realtà naturale meno contaminata dalla tecnica. In realtà, la natura fa la sua parte produttiva anche all'interno della fabbrica contemporanea. I metalli scavati nelle miniere e trasformati in materie prime dalla manipolazione industriale - e dal linguaggio degli economisti - continuano a svolgere decisivi compiti produttivi in virtù delle proprie caratteristiche naturali, valorizzate dalla tecnica, di durezza, flessibilità, resistenza. Anche nel mondo più vaporoso dei gas, che prendono parte a tanti processi dell'industria chimica, la natura è signora, o quanto meno è partner cooperante, grazie al comportamento naturale di quegli elementi, regolato da leggi fisiche, possibilità combinatorie, che gli uomini hanno scoperto e manipolano , ma non creano da sé. E così dicasi per i campi di forza e le energie, e fra queste il dio petrolio, cavato dalle viscere della terra e diventato il cuore pulsante che oggi agita il pianeta.

Forse anche queste verità ora incominciano ad apparire un po' ovvie, o per lo meno non tanto clamorose quanto un tempo. Pure, esse sono rimaste per alcuni secoli sepolte sotto il peso di giganteschi edifici culturali che le hanno rimosse o addirittura cancellate. Primo fra questi, per ampiezza di influenza intellettuale, l'edificio del pensiero economico classico, che almeno da Adam Smith a Marx ha di fatto consacrato il lavoro umano come unico protagonista del processo di valorizzazione, e perciò stesso come il solo responsabile della creazione di ricchezza[2].

E tuttavia l'intento, lo spirito informatore dei saggi qui presentati non è semplicemente volto a ridare visibilità al mondo fisico, a ricollocare la natura al centro della vita produttiva. Noti si tratta soltanto di ricordare agli storici che ricostruiscono le economie del passato quale ruolo abbiano avuto le risorse disponibili, il legnarne dei boschi, l'acqua, il carbone, nel favorire o deprimere il corso della crescita e dello sviluppo dei singoli paesi, come faceva, inascoltato, Karl Wittfogel oltre sessant'anni fa`[3]. Certo, anche tale obiettivo rientra nelle intenzioni perseguite da chi scrive. Riconoscere nel processo di produzione materiale della ricchezza l'esistenza e il ruolo dell'altro, di una realtà esterna all'uomo, non vincolata ai rapporti sociali vigenti, di valore collettivo e di portata universale, è davvero l'inizio di tana rivoluzione culturale appena avviata. E la ricerca storica potrà fornire ad essa un contributo non marginale.

Pure, agli storici è offerta la possibilità di andare anche oltre la ricostruzione del ruolo protagonista del mondo fisico nello svolgimento dei fenomeni economici. Il rapporto degli uomini con le risorse non si limita a produrre beni e merci: esso costituisce in realtà il centro dello svolgimento storico e perciò coinvolge l'insieme delle relazioni sociali, le culture delle popolazioni, le regolazioni del diritto, la politica. È anche questo più vasto mondo che si vuole dunque esplorare da un punto di vista inconsueto alla cultura dellOccidente.

Un primo obiettivo delle ricerche storiche che seguono è perciò quello di sottrarre il lavoro umano alla sua astratta solitudine. Non è solo dallo sforzo fisico e dall'abilità tecnica del lavoratore o della macchina che nascono i beni, ma da uno scambio manipolatorio di questi con il inondo fisico. È noto che Marx - ricorrendo a una terminologia medico-biologica - aveva dato un nome suggestivo a tale rapporto, lo aveva chiamato Stoffwechsel, scambio (o ricambio) materiale o organico. Sotto la pressione del lavoro la natura viene trasformata, cambiata in oggetti materiali che poi entreranno nella circolazione sociale della ricchezza. Ma la ricostruzione storica - così come tutta la complessiva rappresentazione culturale della società - ha dato normalmente conto solo di questa successiva vicenda: raccontando il processo di appropriazione dei pezzi di natura ormai divenuti merce, e i rapporti di produzione e politici fra le classi ai fini del possesso e della distribuzione di queste merci. Al contrario, la storia effettiva dello scambio, del duro rapporto fra uomini e risorse non è stata mai intrapresa: la sua rappresentazione culturale ha illuminato solo la faccia sociale del lavoro, perché alla natura non è stato riconosciuto alcun ruolo produttivo. Eppure, nella rimozione storica della realtà fisica si condensa una pratica molteplice di oscuramento. Perché da un lato è la ricchezza, diventata potere sociale, politico, e culturale che tende a far perdere le sue tracce, a cancellare la propria provenienza, a nascondere il meccanismo di dominio sugli uomini di cui è all'origine. Ma per altri versi è la natura sfruttata dal lavoro urgano, attraverso rapporti sociali determinati, che viene del tutto oscurata: realtà di cui non si dà storia e svolgimento, essendo ogni processo di crescita, sviluppo, differenziazione, rappresentato come interno alla società, che parla solo di sé come di una realtà semovente. Una presunzione ormai millenaria, che i costruttori della rappresentazione sociale - i ceti colti che hanno avuto diritto di parola e che ancora costituiscono una sorta di sfera separata e posta in alto, lontana dai luoghi sporchi e monotoni in cui quotidianamente la natura si trasforma in merce - hanno collaborato a far crescere. È anche attraverso il loro specifico sapere, prevalentemen e umanistico e retorico, che è venuta imponendosi una rappresentazione dell'universo sociale che ha messo in ombra e quasi cancellato dalla storia il sapere tecnico, le conoscenze applicate, la sapienza empirica accumulata: quelle forme di manipolazione originaria della natura che si sono espresse nel lavoro dei campi, nell'uso delle acque, nell'adattamento del territorio, nella cura delle piante, nello scavo delle miniere, nella fabbricazione dei manufatti.

A Marx, per la verità, non era sfuggito - com'è stato di recente ricordato - che il lavoratore, cambiando la natura, cambia al tempo stesso la propria natura (verändert zugleich seine eigene Natur)[4]. E dunque da quel rapporto, dalla specifica qualità di quello scambio, egli viene trasformato, reso diverso dalla nuova forma di dominio e di sfruttamento che impone alla realtà fisica, dai mezzi tecnici dispiegati, dalla natura delle risorse che utilizza. Ma oggi noi possiarno vedere che tale trasformazione costituisce un intero universo sociale, un mondo assai poco esplorato e quasi ignoto, assai più esteso e rilevante nelle società del passato, e che rischia ormai di uscire dall'orizzonte della nostra stessa capacità di percezione, a causa del carattere sempre più tecnicamente mediato dei beni materiali con cui entriamo in contatto. Pure, quel rapporto di scambio che cambia gli uomini, costituisce il motore primari(- di ogni società, per quanto estesa e complessa possa essere la schermatura di quella natura irriconoscibile che è la tecnica. Ma proprio per tale ragione, in un'epoca nella quale l'industria ha ornai cancellato la presenza della natura nelle merci, il sapere storico incomincia a fornire i suoi antidoti, riscoprendo in profondità le relazioni primarie nel processo di produzione della ricchezza. Esso è peraltro in grado di rammentare che da quella relazione originaria sorge la prima e più profonda forma di cultura: quella che gli uomini, per l'appunto, sono costretti a elaborare, e a innovare continuamente, per piegare i dati materiali alle necessità della propria sopravvivenza. Osservazione empirica, invenzione tecnica, coordinamento organizzativo, gerarchia delle relazioni sociali e loro codificazione, procedono da questo impulso originario.

Certo, per sventare ogni trappola deterministica non bisogna mai dimenticare che il meccanismo della vita sociale e la costruzione delle classi, le loro dinamiche ed evoluzioni, non si esauriscono in quella relazione primaria. Esiste una storia degli uomini tra loro che costituisce il continente forse più vasto e più ricco delle umane vicende, e che può tranquillamente dimenticarsi dei suoi legami e della sua dipendenza dalla natura. E la storia, per l'appunto, come già si è accennato, al pari degli altri saperi sociali si è fondata, per così dire, su questa dimenticanza: come se la società altro non fosse che un'edificazione autonoma, un continuo processo di accumulazione sui propri dati costitutivi, svincolata da ogni legame e dipendenza dalle condizioni materiali su cui continuamente, in realtà, essa si riproduce. E non è certo difficile capirne il perché. Come è accaduto nel passato, e come continua ad accadere a tutt'oggi, esistono gruppi sociali e classi capaci di creare e godere prosperità comandando e pagando il lavoro altrui, lo scambio materiale con le risorse realizzato da ceti sottoposti, o sfruttando risorse che appartengono a paesi lontani, semplicemente facendo viaggiare beni, uomini e merci. La vicenda del commercio mondiale è stata in buona parte questa: ed essa non ha mai costretto i mercanti delle città a sporcarsi le mani nella terra o nelle miniere. È sufficiente d'altronde richiamare alla mente una verità sociale ben nota. Che cosa è la ricchezza se non il possesso, l'accumulazione e l'uso di beni prodotti da altri, quei beni che i ceti operai e contadini sono obbligati, essi sì, a produrre tramite il loro duro e diuturno scambio con la natura? E quanta storia autonoma è stata prodotta dall'alto di quel dominio sociale! La storia, per l’appunto, che gli storici si sono incaricati di raccontare, disincarnata da ogni legame con le oscure origini materiali del possesso e ciel potere.

E tuttavia quell'ambito per così dire primario della realtà sociale conserva un rilievo davvero non marginale per illuminare con nuova ampiezza i processi del passato, per aprire nuovi spiragli nella comprensione dei meccanismi della vita associata, dei processi di trasformazione materiale e di doininio. La necessità di produrre ricchezza in un delimitato territorio determina infatti l'elaborazione di forme specifiche di cultura, che marcano poi profondamente i saperi tecnici locali, le mentalità diffuse delle popolazioni, i loro comportamenti prevalenti, dando spesso vita a norme non scritte, a regole, patti, istituzioni che fanno poi la stoffa del processo storico. Si tratta di un ambito di realtà materiali c culturali, che hanno durate lunghe, difficili da rilevare e da misurare, che subiscono continuc rielaborazioni e adattamenti per effetto di eventi successivi e dell'incontro con altre culture, c che spesso compongono, nel loro sviluppo temporale, un arcipelago di durate diverse, stratificate. Tutte, a ogni modo sono produzioni storiche: e perciò deperibili e soggette a distruzione, come gli edifici e le civiltà.

L'Italia, nella sua straordinaria e antica varietà regionale mostra un campionario di grande interesse di tali realtà. E la loro esplorazione offre l'opportunità di portare nuovi punti di vista, contributi inediti alla storia e alla cultura nazionale.

[1]Una vasta ricognizione storico-semantica del termine è in L. Spitz, Milieu and ambiance an assay in historkal semantics, in «Philosophy and Phenomenological Research», iii, 1942-43.

[2]Si veda la radicale demolizione teorica che di quell'edificio ha compiuto, privilegiando il ruolo rimosso della natura, H. Immler, Natur in der ökonomisthen Theorie, Opladen 1955. Sul ruolo cooperativo della mura nel processo economico cfr. dello stesso autore Vom Wert dei Natur. Zur ökologischen Reform von Wirtschaft und Gesellschaft, Opladen 1990. Del primo dei due testi ho dato conto nel mio articolo :Natura e lavoro. Analisi e riflessioni intorno a un libro, in «Meridiana" 1994, 20.

[3]Cfr. K. A. Wittfogel, Die natürlichen Ursachen der Wirtschaftgeschichte in «Archiv fur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1932, 67.

[4]Cfr. G. Böhhme-J. Grebe, Soziale Naturwissenchaft Uber die Wissenschaftliche Bearbeitung des Stoffwechsels Mensch-Natur, in Soziale Naturwissenschaft. Wege zu einerErweiterung dei Okologie a cura cli G. Böhme e E. Schramm, Frankfurt a. M. 1954, p. 30. Sullo sviluppo storico del concetto, M. Dencke, Zur Tragfähigkeit des Stoffwechselbegriffs, ivi. pp. 42 sgg.

Come abbiamo visto, nel corso degli anni 70, sotto la spinta del movimento sindacale per la casa e il territorio, si erano venuti mettendo a punto nuovi meccanismi di programmazione per l'intervento pubblico nell'edilizia. Si trattava dello sviluppo e del consolidamento di una riforma già avviata all'inizio degli anni 60 (con la legge 167 del 1962), nel quadro di una definizione organica dei rapporti tra le strutture centrali dello Stato e le neonate regioni. La programmazione pluriennale dell'intervento pubblico nell'edilizia abitativa, l'attribuzione alle regioni delle competenze di ripartizione territoriale dei finanziamenti e di verifica dell'efficacia degli interventi, la realizzazione integrata di alloggi e servizi sociali, l'acquisizione preventiva delle aree da parte dei comuni e l'inclusione dei nuovi insediamenti nelle procedure e nelle coerenze della pianificazione urbanistica: questi erano i cardini del nuovo assetto del settore, formato con l'attenzione soprattutto alla definizione di una corretta ed equilibrata ripartizione delle responsabilità dei compiti tra Stato, regioni e comuni.

Il meccanismo non è ancora del tutto a regime, che subito lo si scardina. Si comincia con una legge per l'accelerazione delle opere pubbliche del 1978, approvata tra Capodanno e la Befana, quando i parlamentari erano ancora impegnati nella digestione delle feste. Una leggina transitoria (doveva durare solo tre anni, ma fu prorogata silenziosamente di triennio in triennio fino al 1987, e poi resa permanente) consente che le opere pubbliche siano eseguite anche se in contrasto con gli strumenti urbanistici. Per poter derogare al piano regolatore e costruire là dove esso non lo consente, o realizzare, per esempio, un parcheggio o un ospedale là dove sono invece previsti un parco pubblico o una scuola, basta che il relativo progetto sia approvato dal Consiglio comunale. Questo, così, approva il progetto tecnico di una scuola o una strada (magari subendo il ricatto dell'urgenza, pena la perdita del mutuo) e approva invece una variazione di rilievo al piano regolatore [1].

Con questa legge l'urbanistica, nei comuni, passa di fatto dalle competenze degli assessorati all'urbanistica a quelli ai lavori pubblici. Le decisioni, anche formali, sul territorio non avvengono infatti più mediante i piani (e le lunghe e ampie discussioni che questi provocano), ma con un comma marginale introdotto nelle delibere di approvazione dei progetti di opere pubbliche, di competenza appunto degli assessori ai lavori pubblici. Negli anni 60 e 70 i partiti si contendevano gli assessorati all'urbanistica. Negli anni 80 diventano invece più ambiti quelli ai lavori pubblici. Un segno non marginale dei tempi nuovi che si stanno aprendo.

[1] Legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Questa stessa legge introduce un'altra gravissima norma: il ripristino, come forma generale e ordinaria di contrattazione, della trattativa privata, che era stata fortemente limitata dalla Direttiva comunitaria 305 del 1971 e dalla conseguente legge 540 del 1977.

DAL CAPITOLO IV

IL VENTO DELL’EMERGENZA NELLE VELE DELLA DEREGULATION

Quando le "emergenze" non sono causate da calamità naturali e altri eventi impre­vedibili si inventano, con italica fantasia. Manifestazioni sportive, esposizioni, celebrazioni, esigenze di ordine pubblico: tutto fa brodo per gli sregolatori.

Tra le "emergenze inventate" va annoverata la calamità territoriale dei Mondiali di calcio. Dal maggio del 1984 si sapeva che la grande kermesse agonistica si sarebbe tenuta in Italia nel 1990, sei anni dopo. Tutto il tempo di provvedere, quindi: ma allora, non sarebbe stata un'emergenza! E infatti si dorme per tre anni. Ci si sveglia nel 1987, e si approva un decreto, dominato dall'urgenza [1]. Questo prevede, nella sostanza, due cose: soldi per opere d'ogni genere, e facoltà di derogare sia dalle procedure degli appalti che da quelle urbanisti­che.

I finanziamenti previsti sono 3.500 miliardi di lire, ma gli incrementi dei prezzi por­tano la spesa a 7.320 miliardi: più del doppio. Gli appalti sono affidati in deroga alle norme ordinarie, con un largo ricorso all'istituto della concessione della progettazione e dell'esecu­zione delle opere. La deroga è motivata dalla considerazione che esiste una "eccezionale ur­genza derivante da avvenimenti imprevedibili": abbiamo appena ricordato che era dal 1984 che si sapeva che i campionati mondiali di calcio si sarebbero svolti in Italia nel 1990.

Lo strumento impiegato per derogare alle procedure urbanistiche è la "conferenza". Una riunione di rappresentanti di tutti gli enti interessati, vuoi per competenza tecnica vuoi per obbligo di esprimere pareri o accertare conformità, esamina frettolosamente i progetti delle opere e li approva, anche se sono in deroga agli strumenti urbanistici. Un rappresen­tante del comune presente a una riunione, in cui in mezza giornata si esaminano decine di progetti, col suo "si" o, molto più raramente, col suo "no", scavalca la discussione del con­siglio comunale, la partecipazione dei quartieri, il parere della cittadinanza: senza alcuna pubblicità, decide per tutti su opere che, in molti casi, condizionano pesantemente il futuro delle città coinvolte.

Si tratta infatti di opere che incidono notevolmente sull'assetto delle città e del terri­torio. Eccone alcune: la ristrutturazione della stazione ferroviaria di Firenze e dell'intero piazzale di S. Maria Novella, la grande circonvallazione a Cagliari, la tangenziale di Verona, tronchi di autostrade un pò dovunque. E poi, dappertutto, alberghi, centri congressi, e na­turalmente stadi e parcheggi: il più delle volte (come a Palermo, come a Trieste) localizzati in luoghi che aumentano la congestione del traffico. È la stessa Corte dei Conti a rilevare "gli effetti destabilizzanti che le opere realizzate hanno indotto nelle città interessate" [2].

In definitiva, come osserva Luigi Scano, lo sport non c'entra e neppure il tifo:

“L'evento calcistico viene cupidamente visto come una nuova occasione per riproporre un vecchio e adusato gioco: prendere le mosse da una circostanza "straordinaria" per attivare ingenti investimenti, totalmente o prevalentemente pubblici, essenzialmente nel comparto delle opere edificatorie, assumendo l'urgenza e la ristrettezza dei tempi disponibili, l'assenza di coerenti e funzionali previsioni sedimentate negli strumenti di pianificazione e di programmazione, e anche la farraginosità (presunta, e anche reale) delle ordinarie disposizioni di merito, le carenze dei sistemi decisionali politici e delle amministrazioni, come ragioni ("e che ragioni forti!", direbbe Leporello) per sospende­re l'efficacia del maggior numero possibile di regole[3].

Nonostante l'eccezionalità delle procedure, alla scadenza del termine solo il 40 per cento delle opere è completato. Come denuncia il Wwf in una conferenza stampa a Mon­tecitorio, degli 87 interventi di viabilità previsti solo 33 sono ultimati, mentre per gli altri 54 lo stato d'avanzamento dei lavori non supera il 65 per cento. Nella conferenza stampa si fa osservare che più d'una impresa che sta operando per i Mondiali è sotto inchiesta ad opera dei giudici milanesi di Mani pulite.

E non c'è forse una sola opera tra quelle finanziate e realizzate che - dopo aumenti dei costi, varianti, prezzi magari raddoppiati o triplicati - non abbia mostrato qualche pecca o malanno e la necessità di nuovi lavori e rifacimenti. "Costato cinquantacinque miliardi, l'impianto sportivo non ha retto al "ciclone": partita rinviata, spogliatoi allagati, impianti elettrici fuori uso" - titolava il 29 settembre 1992 il quotidiano la Repubblica la notizia del mancato incontro allo stadio Marassi di Genova, e concludeva: "per il ristrutturato stadio mondiale è una Caporetto". Ma lasciamo parlare la Corte dei conti.

“Gli investimenti fatti per i mondiali di calcio presentano non solo segni di precoce de­grado, ma appaiono privi dei necessari interventi integrativi che ne avrebbero permes­so l'inserimento nel tessuto urbano. Sulla lievitazione dei costi e sulle inadeguatezze delle strutture portate a termine sono in corso indagini presso le procure della Re­pubblica di Roma e di Palermo. Il versante più problematico è rappresentato dagli in­terventi non previsti originariamente dalla legge che, approvati dalla conferenza dei servizi, sono stati portati a termine dai comuni di Bari, Verona, Firenze, Milano e Roma con grande lievitazione dei costi. D'altra parte, ben 17 opere programmate per l'"Italia 90" non sono state portate a compimento, pur essendo approvate dalla confe­renza dei servizi” [5].

Non ci sono differenze, nel malgoverno, tra Nord e Sud. A Palermo

“le opere relative alla ristrutturazione dello stadio centrale, che in un primo momento erano state deliberate dal consiglio comunale "a termine" nella previsione della di­smissione dell'opera alla fine del campionato, sono oggi oggetto di inchieste giudizia­rie a causa del loro degrado. Anche il nuovo stadio San Gabriele, ultimato solo suc­cessivamente al campionato e non utilizzato, è tuttora chiuso al pubblico. La situazio­ne non appare dissimile a Milano dove gli interventi di adeguamento e ampliamento dello stadio San Siro, il cui costo è lievitato da 64 a 133 miliardi, necessitano di im­mediate modifiche. A Roma la ristrutturazione dello stadio Olimpico, che ha assorbito circa 212 miliardi rispetto agli 80 delle previsioni, è oggetto di particolari indagini della magistratura ordinaria e contabile”[6].

[1] Decreto-legge n.2 del 3 gennaio 1987, convertito in legge e integrato con successivi provvedimenti del 1987, del 1988 e del 1989.

[2] Corte dei Conti, Sezione Enti locali, Relazione sui risultati dell'esame della gestione finanziaria e dell'atti­vità degli enti locali per l'esercizio finanziario 1990, (relazione alle Camere), deliberazione n. 11/1992, p.519.

[3]Luigi Scano, "Anni ottanta e mondiali. Chiuso il cerchio della deregulation", in Urbanistica informa­zioni, n.119, gennaio-febbraio 1990.

[5] Corte dei conti, doc.cit.

[6]Ibidem.

Il testo allegato è stato preparato per una serie di incontri di studio con amministratori e tecnici dei comuni della Sardegna, organizzati per illustrare e discutere il Piano paesaggistico regionale e svoltisi nel dicembre 2006. Accanto a quelli sulla "Filosofia del piano paesaggistico" altri incontri sono stati dedicati all'illustrazione della normativa del PPR e all'esame delle connessioni tra questo e le politiche urbanistiche locali.

Il testo è composto di tre parti. La prima richiama, molto sinteticamente, le intenzioni e gli obiettivi della pianificazione paesaggistica della Sardegna alla luce dei documenti ufficiali e ufficiosi dell’amministrazione che ha avviato la pianificazione del paesaggio sardo.

Nella seconda parte si espongono i punti salienti dell’elaborazione culturale e legislativa italiana in materia, dalla legge Croce del 1921 al Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2000-2004, in riferimento soprattutto a due elementi fondamentali della disciplina del PPR: le categorie di beni paesaggistici, gli ambiti di paesaggio. Si forniscono altresì elementi sulle differenti modalità di tutela e di vincolo, sulle competenze rispettive dei diversi livelli di governo costituzionalmente previsti, suii termini tecnici impiegati.

La terza parte descrive infine alcuni aspetti significativi del progetto di territorio che, sulla base di tali premesse, è stato definito nel PPR.

Agli studenti del corso di Legislazione urbanistica comparata della Facoltà di Pianificazione del territorio dell'Università Iuav di Venezia si raccomanda lo stuudio della seconda parte, e la lettura del primo e del terzo titolo del Codice dei beni culturali e del paesaggio, anch'esso allegato in formato .pdf.

Non c'è esempio migliore del significato che assume negli Stati Uniti l'espressione «sviluppare un'area» (to develop an area). Per «svilupparla» si distrugge radicalmente ogni forma di vegetazione naturale; si ricopre il terreno così liberato con uno strato di cemento (o, nel migliore dei casi, si semina un'erbetta rada che riveste i parchi pubblici delle città); se esiste anche una fascia dl litorale, la si rinforza con un bell'argine di cemento; i corsi d'acqua vengono sistemati a terrazze (o meglio ancora, se possibile, in apposite tubazioni); si avvelena a fondo tutto quanto con potentissimi anticrittogamici e infine si vende il terreno al miglior offerente, cioè a un consumatore istupidito e addomesticato dall'assuefazione alla vita cittadina.

E’ un ricordo della mia infanzia. Abitavo a Gottinga nel dicembre del milleottocentosettanta. Mio padre ed io giungemmo all’Accademia quando il presidente Maust stava cominciando l’appello dei partecipanti alla Gara Mondiale di Matematica. Subito babbo andò a mettersi fra gli iscritti dopo avermi affidato alla signora Katten, amica di famiglia.

Seppi da lei che il colpo del cannone di Pombo, il bidello, avrebbe segnato l’inizio della storica contesa. La signora Katten mi raccontò un episodio, ignoto ai più, intorno all’attività di Pombo. Costui sparava da trent’anni un colpo di cannone per annunciare il mezzogiorno preciso. Una volta se n’era dimenticato. Il dì appresso, allora, aveva sparato il colpo del giorno prima, e così di seguito fino a quel venerdì del milleottocentosettanta, Nessuno a Gottinga si era mai accorto che Pombo sparava il colpo del giorno avanti.

Esauriti i preliminari, la gara ebbe inizio alla presenza del principe Ottone e di un ragguardevole gruppo di intellettuali.

“Uno, due, tre, quattro, cinque… " Nella sala si udivano soltanto le voci dei gareggianti.

Alle diciassette circa, avevano superato il ventesimo migliaio. Il pubblico si appassionava alla nobile contesa e i commenti si intrecciavano. Alle diciannove, Alain, della Sorbona, si accasciò sfinito.

Alle venti, i superstiti erano sette.

”36767, 36768, 36769, 36770…”

Alle ventuno Pombo accese i lampioni. Gli spettatori ne approfittarono per mangiare le provviste portate da casa. “40719, 40720, 40721…”

Io guardavo mio padre, madido di sudore, ma tenace. La signora Katten accarezzandomi i capelli ripeteva come un ritornello: ’Che bravo babbo hai,’ e a me non pareva neppure di avere fame. Alle ventidue precise avvenne il primo colpo di scena: l’algebrista Pull scattò:

"’Un miliardo "

Un oh di meraviglia coronò l’inattesa sortita; si restò tutti col fiato sospeso.

Binacchi , un italiano, aggiunse issofatto:

“’Un miliardo di miliardi di miliardi.’ Nella sala scoppiò un applauso subito represso dal Presidente. Mio padre guardò intorno con superiorità, sorrise alla signora Katten e cominciò:

“’Un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi…’

La folla delirava: "Evviva, evviva." La signora Katten e io, stretti uno all’altro, piangevamo dall’emozione.

“…di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi.’

Il presidente Maust, pallidissimo, mormorava a mio padre, tirandolo per le falde della palandrana: ’Basta, basta, le farà male.’ Mio padre seguitava fieramente:

“… di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi ...’ A poco a poco la sua voce si smorzò, l’ultimo fievole di miliardi gli uscì dalle labbra come un sospiro, indi si abbattè sfinito sulla sedia. Gli spettatori in piedi lo acclamavano freneticamente.

Il principe Ottone gli si avvicinò e stava per appuntargli una medaglia sul petto quando Gianni Binacchi urlò:

"Più uno!"

La folla precipitatasi nell’emiciclo portò in trionfo Gianni Binacchi. Quando tornammo a casa, mia madre ci aspettava ansiosa alla porta. Pioveva. Il babbo, appena sceso dalla diligenza, le si gettò tra le braccia singhiozzando: "Se avessi detto più due avrei vinto io."

INGREDIENTI

Per la base:

6-7 mele

succo di 2 limoni

2-3 cucchiai di zucchero di canna

pinoli, uva passa, cannella in polvere, pepe nero, anice stellata, chiodi di garofano

Per la copertura:

50 gr di burro

80 gr di farina

60 gr di zucchero di canna

60 gr di noci o mandorle tritate

PREPARAZIONE

Tagliare a pezzetti le mele, mescolarle con gli altri ingredienti della base e lasciar macerare per un paio d’ore. Se si formasse troppo sugo aggiungere un paio di fette di pane biscottato sbriciolato.

Vesare in una teglia imburrata.

Mescolare e sbriciolare con le mani il burro, la farina e lo zucchero e coprire la base con il composto così ottenuto.

Aggiungere uniformemente le noci sbriciolate

Infornare per circa 30’.

Il dolce viene altrettanto buono con altri frutti: pere, pesche e albicocche, ecc.

S

MOLTI LAVORI, UN MESTIERE

Una tesi

Ringrazio innanzitutto il direttore del corso di laurea, prof. Luciano Vettoretto, e il preside della facoltà di Pianificazione del territorio, prof, Domenico Patassini, che mi hanno chiesto di svolgere questa lezione. Esporrò subito la mia tesi.

I lavori che oggi fa l’urbanista sono molti. Parecchi dei nostri laureati lavorano nelle pubbliche amministrazioni: ma molti anche negli studi professionali, nelle aziende che si occupano di ambiente o di trasporti o di iniziative commerciali, qualcuno nelle agenzie immobiliari. E qualcuno anche nella scuola e nell’università.

I lavori sono molti. Ma esiste un mestiere dell’urbanista, del planner. Esiste una riconoscibilità di questa figura professionale, un ruolo sociale peculiare – che non è né dell’architetto né del manager, né dell’ingegnere né del sociologo, né del giurista né del geografo, né dell’economista né del geologo, né del naturalista né dello storico – benché di tutti questi saperi e mestieri l’urbanista abbia certamente bisogno.

Esiste un mestiere dell’urbanista: questa è la tesi che mi propongo di argomentare.

Alcune interpretazioni

E allora vale la pena innanzitutto di fare cenno ad alcune interpretazioni della figura dell’urbanista (e dell’urbanistica) che sono state date in anni più o meno vicini.

C’è chi, come Leonardo Benevolo, lega il mestiere dell’urbanista alla necessità di sanare i guasti prodotti nell’ambiente della vita dell’uomo dalle conseguenze della “rivoluzione industriale”, e all’emergere dell’aspirazione (da parte di élite visionarie o di gruppi organizzati di uomini) a una condizione urbana caratterizzata da salubrità, socialità, benessere condiviso.

C’è chi, come Hans Bernoulli, dedica il mestiere dell’urbanista al tentativo di recuperare la grande rottura storica avvenuta quando il trionfo della borghesia, sciogliendo i vincoli feudali che legavano la società e ponendo l’interesse individuale come motore dello sviluppo, infranse anche il sistema delle regole comuni basate sulla proprietà indivisa del suolo urbano, capace di rendere la città bella e funzionale.

C’è chi, assumendo come metafora della nascita dell’urbanistica il piano di New York del 1811, individua il mestiere dell’urbanista come il tentativo di affrontare i disagi derivanti dai conflitti d’uso della città, disagi che la spontaneità dei meccanismi del mercato non riuscivano a risolvere, a causa della contraddizione tra il carattere intrinsecamente sociale, comune, collettivo della città e la logica invincibilmente individualistica che del mercato è padrona.

In tutte questa interpretazioni, l’urbanista è l’uomo che è capace di configurare un assetto del territorio urbano, un disegno, un’organizzazione dei diversi elementi che lo compongono, rispondente a una razionalità. È il tecnico, l’esperto, che riesce a proporre un disegno della città in cui i diversi oggetti, le diverse funzioni necessari alla comunità (gli edifici e le strade, i ponti e le ferrovie, le residenze e le fabbriche, gli ospedali e i parchi: quel complesso di cose che oggi chiamiamo “urbanizzazione”) abbiano ciascuno la propria collocazione giusta in rapporto agli altri elementi che compongono il territorio.

Più tardi si comprenderà che gli elementi artificiali, le “urbanizzazioni”, devono avere un giusto rapporto non solo tra loro,ma anche con gli elementi che preesistono all’urbanizzazione, alle trasformazioni recenti: sia gli elementi naturali (i fiumi e le colline, i boschi e le coste e così via) sia gli elementi storici (gli insediamenti gli edifici e i manufatti antichi, le tracce sepolte o appena dissepolte del passato più remoto, i segni residui percorsi tradizionali, i paesaggi agrari e così via).

Un primo elemento unificante: il territorio

Le diverse interpretazioni del mestiere dell’urbanista riconducono tutte, insomma, a un medesimo oggetto: il territorio.

L’urbanistica è nata in relazione alla città, quindi al territorio urbano. Molto prima che nascesse l’urbanistica moderna possiamo chiamare urbanisti gli uomini che disegnavano sulla carte e sul terreno la forma della città: da Ippodamo di Mileto agli agrimensori dei territori e delle città romane, dai locatores delle città medioevali agli artisti del Rinascimento. Anche l’urbanistica moderna, quella che nasce con l’ascesa al potere della borghesia e la cosiddetta “rivoluzione industriale, si applica alla città, al territorio urbano. Ma i metodi, le sue tecniche e i suoi strumenti si sono presto estesi all’intero territorio.

Possiamo dire che oggi l’urbanistica di occupa ugualmente- certo con differenti modulazioni dei suoi strumenti – a tutto il territorio . quello urbano e quello extraurbano.

Dobbiamo allora domandarci che cos’è il territorio. Nel succedersi dei corsi e delle lezioni scoprirete che ci sono molte definizioni del territorio. Per conto mio non voglio darvi una definizione, ma suggerirvi alcuni connotati, che mi sembrano utili per gettare qualche luce sul nostro mestiere. Vorrei fermarmi su tre caratteristiche del territorio: complesso, sistemico, comune.

IL TERRITORIO

Una realtà complessa

Il territorio è una realtà complessa dal punto di vista della sua genesi: è il prodotto del succedersi di una serie di stratificazioni storiche, nel corso delle quali l’uomo ha interagito con la natura modificandola, addomesticandola, trasformandola più o meno profondamente, a volte rispettandola, a volte violentandola.

È una realtà complessa dal punto di vista degli usi in atto e di quelli possibili, e dei conflitti che possono nascere tra usi alternativi e tra usi antagonisti: un campo può essere usato per coltivare, o per realizzare un parco, o per realizzare cento alloggi o dieci fabbriche. Una zona industriale accanto a un ospedale o un aeroporto accanto a un quartiere residenziale sono dannosi, come è dannosa una scuola irraggiungibile dalle abitazioni che deve servire.

Ed è una realtà complessa dal punto di vista delle letture che ne sono possibili, dei punti di vista sotto i quali può essere utilizzato: molti dei saperi e mestieri che ricordavo prima esprimono proprio questi diverse possibili letture, questi diversi punti di vista: il sociologo, il geografo, l’economista, il geologo, il naturalista, lo storico, e ancora l’ingegnere dei trasporti, l’archeologo e così via.

Una realtà sistemica

Di tutte queste cose che abbiamo enumerato (vicende, usi, letture, oggetti) il territorio non è un semplice magazzino:non è un luogo in cui tutte queste cose sono semplicemente e casualmente ammonticchiate. Tutte queste cose hanno ordine tra loro, sono connesse tra loro in modo che una modifica in un punto, un’azione su una di esse, modifica tutte le altre.

Alcuni esempi.

Aprire un supermercato in una parte periferica della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc. Al tempo stesso,per il fatto che quella parte del territorio viene visitato da molti clienti stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti.

Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico. Analogamente l’apertura di un parcheggio interrato in una parte della città: in genere a questo evento corrisponde l’afflusso di automobili maggiore della capacità del parcheggio, e allora si crea in quella zona un aumento del traffico anziché una sua diminuzione.

A Roma l’interesse suscitato dalla realizzazione di una nuova, modesta opera di architettura (l’edificio di Meyer che avvolge l’Ara Pacis sul Lungotevere di Ripetta) ha provocato una rapida trasformazione della strada che collegava quelpunto a un altro punto nodale (piazza di Spagna), l’espulsione delle botteghe e delle residenze tradizionali, la loro sostituzione con grandi magazzini delle “firme italiane” e una profonda e radicale trasformazione delle caratteristiche sociali dell’area.

La realizzazione di una serie di capannoni industriali e di abitazioni in un’area che per le sue caratteristiche geologiche è permeabile rispetto alla falda idrica provoca un progressivo inquinamento della sottostante riserva d’acqua e quindi un aumento del rischio di malattie oppure la necessità di cancellare una risorsa essenziale per la vita delle popolazioni insediata a valle.

Il territorio, insomma, è un sistema, nel quale le opere di trasformazione dell’uomo e il loro impatto sulle preesistenti caratteristiche, sia naturali che artificiali, genera nuovi equilibri e provoca nuovi eventi, anche in parti distanti e apparentemente non connesse con il luogo della trasformazione.

Il territorio è un bene comune

L’assetto attuale del territorio è determinato da una serie di eventi che sono maturati in un arco lunghissimo di tempo. La collocazione delle attuali città è originato spesso dall’incrocio di due itinerari percorsi da mercanti moltissimi secoli fa. La trasformazione di primitivi villaggi in città e il consolidamento e l’accrescimento di queste è avvenuto per effetto di una somma di iniziative, moltissime delle quali operate dalla collettività,le altre dalle singole famiglie e imprese nell’ambito di decisioni e investimenti pubblici, pagati dalla collettività.

Nessuno realizzerebbe una fabbrica se non ci fosse un sistema di strade e di ferrovie che consente alle merci di entrare e di uscire dalla fabbrica, agli operai di arrivarci, se non esistessero reti di comunicazioni per collegare quella fabbrica a tutti i mercati, se non esistessero scuole nelle quali il personale si forma e così via. Nessuno costruirebbe una casa se non ci fossero strade, scuole, parchi, ferrovie, tram e autobus e così via.

Questa e altre considerazioni spingono a dire che la città e il territorio sono un bene comune, di cui si può fruire individualmente ma che nel suo insieme è un bene creato dall’apporto di tutti (quindi della società), in un lungo percorso storico. Sono beni comuni e pubblici molte sue parti (le strade e le piazze, le scuole e gli ospedali, gli aeroporti e le ferrovie, i parchi e le riserve idriche e così via), ed è un bene comune nel suo insieme.

Gli interessi che agiscono sul territorio

Tuttavia il territorio è il luogo nel quale interagiscono, e spesso sono in conflitto tra loro, interessi diversi. Sentirete parlare molto di questi conflitti nelle lezioni del corso. Sentirete l’acronimo NIMBY (Not In My Back Yard, non nel mio cortile), che viene adoperato per indicare quei conflitti nei quali gli abitanti di una parte del territorio protestano per un impianto utile ma fastidioso che essi non contestano in sé, ma vorrebbero spostato nel cortile degli altri. Spesso sono conflitti che nascono non tanto per egoismo locale, ma perché l’impianto è oggettivamente inutile o dannoso, oppure perché non si è spiegato con sufficiente chiarezza i suoi requisiti: per una mancanza di trasparenza della scelta, insomma.

Vorrei accennarne a un conflitto di carattere diverso, che è sostanziale e fondamentale.

Se un’area dia agricola diventa urbana il suo valore aumenta moltissimo. Ancora di più aumenta se è vicina a una stazione della metropolitana, o a un parco pubblico, oppure se è in una zona ben servita da buoni servizi pubblici. Ancora di più aumenta se su quell’area si possono realizzare sedi di attività pregiate, oppure un numero maggiore di volumi o di superfici utili.

Insomma,per effetto di decisioni e investimenti pubblici il valore economico di un’area può aumentare di moltissimo. Il prezzo di quell’area, ivi compreso il sovrapprezzo derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, viene incassato dal proprietario, senza che esso abbia compiuto nessun lavoro e nessun investimento. Ma esso ricade su chi ha bisogno di quell’area per costruire una fabbrica o un edificio di abitazioni, il quale a sua volta si rivale su chi compra le merci prodotte da quella fabbrica o prende in affitto un alloggio in quell’edificio.

Ma su questo punto, sulla rendita immobiliare, torneremo fra poco

L’URBANISTA

L’urbanista come garante degli interessi collettivi

Non tutti gli interessi che agiscono nella città sono ugualmente garantiti, difesi, rappresentati. Sono certamente sostenuti gli interessi più potenti: quelli delle grandi proprietà immobiliari, che spesso appartengono a istituti di credito e ad altre componenti del mondo della finanza,e sempre più spesso a industrie che tentano di guadagnare con la valorizzazione immobiliare delle loro fabbriche, magari trasferendole dove le aree (e magari la mano d’opera) costano meno. Lo sono quelli delle aziende produttrici, in particolare di quelle che hanno a che fare con l’edilizia. Lo sono quelli dei commercianti, nelle città turistiche quelli degli albergatori e del mondo che attorno al turismo gravita. Si tratta comunque, in ogni caso, di interessi economici riferiti a una categoria particolare, e a una prospettiva temporale di breve periodo.

Cominciano a essere presenti gli interessi delle associazioni ambientaliste e di piccoli gruppi di pressione e d’orientamento. Ma si tratta di presenza il più delle volte deboli, su base volontaristica e spontanea, difficilmente capaci di durare nel tempo lungo delle decisioni amministrative, scarsamente dotati delle informazioni tecniche necessarie per valutare le scelte.

Una volta gli interessi generali erano rappresentati dai partiti politici. Questi avevano un disegno di prospettiva, proponevano un progetto di società di lungo periodo, e anche nell’azione amministrativa (che è riferita alla durata del mandato elettorale, cioè generalmente cinque anni) erano coerenti a quel progetto sociale. Oggi i partiti sono tendenzialmente appiattiti sul breve periodo: domina la preoccupazione di ottenere il maggior numero possibile di voti alle prossime elezioni, ed è più facile ottenere consenso promettendo cose che possano essere realizzate nel breve periodo. Un bel progetto architettonico o un pezzo di superstrada “pagano” di più che un buon piano regolatore: Ma il futuro di un territorio dipende da un buon disegno e programma d’insieme, mentre è certamente compromesso da scelte casuali, episodiche, slegate.

Io credo che in questa situazione all’urbanista spetti, più che mai,più di quando la politica era lungimirante, il compito di rappresentare gli interessi generali e gli interessi del futuro: gli interessi di tutte le cittadine e i cittadini in quanto tali, in quanto abitanti e utilizzatori del “bene comune città”. Quelli di oggi, e quelli di domani, che nessun gruppo sociale e nessuna istituzione rappresenta, e a cui è destinato il Pianeta Terra che noi lasceremo ai nostri posteri.

L’urbanista come portatore di una visione olistica della realtà

All’urbanista spetta anche un’altra responsabilità: quella di essere capace di guardare al territorio nel suo insieme, di avere una visione olistica, sistemica della realtà.

Abbiamo visto che il territorio è un sistema, un insieme di parti tra loro integrate:l’urbanista (per la sua formazione e per il mestiere per il quale è preparato) è, deve essere, capace di non perdersi nell’analisi e nella considerazione delle singole parti dimenticando il contesto al quale appartengono e che le fa vivere, ma deve anzi partire dal contesto, dall’insieme, dal tutto.

“Il tutto è più importante delle sue parti”, diceva il poeta Eugenio Montale. E un altro poeta, Dante Alighieri: “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questa è forma che l’Universo a Dio fa somigliante”.

Al di là delle parole dei poeti, quello che comunque è certo è che le parti del territorio non si governano se non si comprende il tutto. Verità, questa, largamente dimenticata. Il territorio è oggi, nel nostro paese, trasformato da interventi occasionali, sporadici, promossi da questa o da quella esigenza. Là un pezzo di strada, qui l’ampliamento di un porto, l’autorizzazione a un capannone industriale, la trasformazione di un magazzino in una discoteca. In un’area destinata dal piano regolatore a verde pubblico si costruiscono case per i militari, dove la golena del fiume deve essere protetta per timore di esondazioni e per far scorrere la corrente in caso di piene di costruisce una fabbrica.

È questo modo di operare, sollecitato dall’urgenza e permesso dalla miopia, l’urbanista deve ricordare che è così che si sono provocati le catastrofi che hanno funestato in più occasioni le nostre terre, che è così che si provocato il degrado di quello che una volta era chiamato il Belpaese. E a questo modo che l’urbanista deve reagire, predicando e praticando una visione olistica, sistemica delle cose: quella visione che è espressa dal metodo e dagli strumenti della pianificazione, di cui fra poco ci occuperemo.

L’urbanista come regista di saperi e mestieri diversi

Abbiamo visto che il territorio è una realtà complessa, e che molti punti di vista (molti saperi e molti mestieri) sono impiegati per conoscerla, analizzarla, valutare le sue potenzialità e i suoi rischi. Ciò significa che il lavoro dell’urbanista, poiché ha a che fare con il territorio e il governo delle sue trasformazioni, deve collaborare con gli esperti di altre discipline, deve avvalersi dell’apporto di saperi e mestieri diversi dal suo. Il suo è un lavoro eminentemente interdisciplinare.

Ma tra le altre discipline l’urbanista svolge (là dove si cimenta con gli strumenti della pianificazione) due funzioni particolari.

Innanzitutto egli svolge un ruolo di coordinamento: il geologo e lo statistico, il programmatore e lo storico dell’ambiente, il fitogeografo e il sociologo, il giurista e l’economista collaborano con la regia dell’urbanista. Così come, nel cinema, gli attori e lo scenografo, l’elettricista e il costumista, l’operatore di macchina e il fotografo sono coordinati dal regista.

E come nel cinema, la regia dell’urbanista è finalizzata a un risultato. Dai saperi degli altri l’urbanista deve trarre ciò che può tradursi in un progetto di spazio,in una disciplina delle trasformazioni del territorio, e nell’individuazione di ciò che bisogna fare (le azioni,le valutazioni, il monitoraggio) per tradurre il disegno del piano in concrete trasformazioni del territorio.

Non è un lavoro facile, quello dell’urbanista. Per esercitarlo è necessario essere curiosi e umili: curiosi per conoscere abbastanza bene i mestieri altrui così da saperli utilizzare; umili per rispettare la specificità delle altre discipline.

TRE PAROLE

Pianificazione

Il metodo praticato dal planner è la “pianificazione”. Vi do’ una prima definizione di questo termine.

Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono. A questo campo, solo a questo campo (ma, insieme, a tutto questo campo) deve essere secondo me diretta la responsabilità e la competenza della pianificazione.

È importante distinguere due termini molto vicini: “piano” e “pianificazione”.

Il piano è un documento, composto da carte e testi scritti, che disciplina l’assetto di un determinato territorio. La pianificazione è un’attività che si sviluppa attraverso la redazione e approvazione di piani, la loro valutazione, il monitoraggio della realtà che il piano si propone di modificare, la valutazione di tali modificazioni, la conseguente modifica degli obiettivi e la stesura di nuovi piani, di nuovi documenti composti da carte e testi scritti.

Della pianificazione fa parte l’indicazione delle azioni che sono necessarie per attuare le trasformazioni previste dal piano, così come fa parte l’individuazione degli indici e dei parametri che devono essere sottoposti a monitoraggio per misurare e valutare l’attuazione del piano.

Ecco altre due, definizioni, non contraddittorie tra loro né con la mia. Quella di Antonio Cederna, che accentua l’aspetto morale della pianificazione urbanistica:

“La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese”.

Giorgio Ruffolo è un economista. In un importante saggio sulla necessità di una politica ambientale ha dato una definizione che mi sembra molto bella della pianificazione territoriale, che vi propongo:

“Il quarto pilastro di un ambientalismo moderno è la pianificazione territoriale. E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico”.

L’urbanista e l’architetto

La definizione di Ruffolo introduce il concetto di bellezza: “dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa”, produrre “valore aggiunto estetico”. Ma non si tratta della bellezza dell’oggetto: è una bellezza d’insieme. E nella differenza tra attenzione all’oggetto e attenzione all’insieme sta il fondo della differenza tra due mestieri che, nel nostro paese (a differenza di moltissimi altri) sono molto vicini e quasi confusi: l’urbanista e l’architetto. A me sembra molto chiaro un passo di Italo Calvino, che cito spesso per rispondere al quesito: che differenza c’è tra l’urbanista e l’architetto. Ecco il passo di Calvino.

“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco”.

L’urbanista si occupa dell’arco, l’architetto delle pietre. L’architetto progetta singoli oggetti, e definisce le regole secondo le quali essi devono essere costruiti. L’urbanista si occupa di definire le regole secondo le quali essi devono essere composti perché raggiungano, nel loro insieme, un’armonia e una funzionalità complessive. L’architetto disegna la casa dell’uomo, l’urbanista la casa della società.

Democrazia

“Disegnare la casa della società” significa esprimere quest’ultima. Da quando nasce l’urbanistica moderna ciò significa che è essenziale il legame tra urbanistica e pianificazione da un lato, società e democrazia dall’altro lato.

La democrazie non è una formula astratta, è un regime molto concreto, che è giunto a maturazione in un determinato processo storico e si è svolto in una determinata parte del mondo.

La democrazia che conosciamo non è l’unica esistita,né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi teniamocela, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione. Ricordiamo soprattutto che essa è stata messa in crisi da alcune cause precise, che lo storico Luciano Canfora sintetizza così:

“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo”.

Solo se siamo consapevoli dei suoi limiti ed errori – delle sue cause - potremo: 1) tentar di migliorarla nell’applicazione, 2) non interrompere la ricerca di un sistema migliore.

Bisogna ricordare sempre che le istituzioni hanno senso solo nel loro contesto (storico, territoriale, economico). Perciò non ha senso parlare di esportare istituzioni, senza che prima abbiano maturato le condizioni che lo rendano possibile. Aver dimenticato questo è uno degli errori della globalizzazione.

Economia

Come imparerete la città, nel suo sorgere come invenzione dell’uomo e nel suo affermarsi (come oggi nel suo dissolversi tra megalopoli e sprawl), è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.

Non possono mancare perciò alcune parole chiave rilevanti a questo proposito: sviluppo, bene e merce, rendita sono essenziali.

Nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità.

Consistenti correnti di pensiero, che cominciano a tradursi in pratiche, hanno rivelato che questo sviluppo è arrivato a un punto mortale. Si sono manifestati i limiti delle risorse disponibili sul pianeta, e la loro esistenza configge con la natura stessa di questo sistema economico, obbligato alla crescita indefinita.

L’espressione più felice è forse quella di Kenneth Boulding

“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”.

L’operazione culturale che ha dovuto essere compiuta per raggiungere un simile risultato è stata quella di ridurre ogni bene e merce,e di cancellare il valor d’uso riducendo ogni valore a valore di scambio. È allora importante tenere ben presenti queste distinzioni.

Il bene è un oggetto (o un servizio, o un sentimento) che ha valore di per se,per l’uso che ne fa l’essere umano; la merce è un oggetto (o un servizio) la cui funzione è solo quella di essere scambiato con un altro oggetto o servizio. Il bene è caratterizzato da identità, la merce da fungibilità: il fungibile universale è la moneta, espressione sublimata della merce. Il valor d’uso è riferito ovviamente al bene, il valore di scambio alla merce.

Questa economia nella quale viviamo riconosce il valore dei beni solo riducendoli in merce. Il che spesso significa eliminarne il valor d’uso, o attribuirne il godimento solo ad alcuni. Ma questa economia non èl’unica possibile: difendere oggi i beni (le coste e i boschi, i beni culturali sparsi sul territorio o sedimentati in essi e nelle città, i corsi d’acqua e le culture dei luoghi) ha senso anche perché tutela - in vista di una economia futura possibile - patrimoni che altrimenti sarebbero distrutti per sempre.

Tra tutte le parole dell’economia quella che ha più incidenza per il territorio è indubbiamente la rendita. È grazie alla rendita, e al peso che essa ha nell’economia italiana, che quote rilevanti e del tutto ingiustificate del territorio vengono sottratte ai loro usi ragionevoli e trasformati in una “repellente crosta di cemento e asfalto”,come ripeteva Antonio Cederna. Che cos’è la rendita? È una delle tre forme di reddito:il salario, remunerazione del lavoro, il profitto, remunerazione dell’impresa, la rendita, remunerazione della proprietà.

A differenza delle altre due forme di reddito, come ha scritto recentemente l’economista Giorgio Lunghini,

“la rendita non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà”.

Vediamo una definizione scientifica della rendita, quella di Claudio Napoleoni:

“Si chiama rendita il reddito che il proprietario di certi beni percepisce in conseguenza del fatto che tali beni sono, o vengono resi, disponibili in quantità scarsa; dove la scarsità va intesa in uno dei seguenti sensi:

1) i beni in questione appartengono alla categoria degli agenti naturali, disponibili in quantità limitata e inferiore al fabbisogno;

2) i beni in questione vengono resi disponibili da chi li possiede in quantità inferiore alla domanda che di essi si avrebbe in corrispondenza di prezzi uguali ai loro costi”.

Le tre forme di rendita esprimono differenti classi sociali. Al salario corrisponde l’operaio, proprietario della forza-lavoro. Al profitto corrisponde il capitalista, organizzatore della produzione che esercita comprando sul mercato le diverse componenti del capitale. Alla rendita corrisponde il proprietario degli immobili (aree ed edifici) adoperati nel processo produttivo.

Storicamente, la rivoluzione borghese (Inghilterra e Francia fine XVIII secolo, Germania metà XIX secolo) ha rappresentato la vittoria della borghesia capitalistica sulla proprietà fondiaria d’impronta feudale (ancien régime).

Una delle ragioni per cui l’Italia è distante dagli altri paesi europei è proprio l’incidenza della rendita, dovuta al fatto che la borghesia, giunta al potere in ritardo rispetto agli altri paesi europei, ha potuto prevalere solo alleandosi all’ancienrégime, quindi alla rendita.

PER CONCLUDERE

Territorio, società economia. Questa sono le tre coordinate del mestiere dell’urbanista. La prima, la principale, è essa stessa all’incrocio di diverse storie, di diverse dimensioni. Come muoversi in questa mappa?

Credo che sia essenziale avere consapevolezza della dimensione etica del lavoro dell’urbanista. E credo che la stella polare che può orientarci (riprendo le cose che aveva detto con molta forza il professor Patassini) è l’interesse comune.

Attenti alle parole. Comune non è individuale, ma l’interesse individuale ha nella soddisfazione dell’interesse comune la cornice necessaria. Comune non è pubblico, ma spesso è pubblico lo strumento necessario per soddisfare un interesse comune.

Comune significa interesse di una comunità di cittadine e cittadini. Una comunità riconoscibile, dotata di identità, caratterizzata dal senso di appartenenza dei suoi membri. Ma una comunità aperta, che riconosce nello scambio con le altre comunità il motore del suo sviluppo: quello vero, lo sviluppo dell’essere e non dell’avere.

Venezia, 2 ottobre 2006

Anna Marson, Alberto Magnaghi, Walter Bonan, Edoardo Salzano

Il curioso mostriciattolo (al quale nessuno augura lunga vita) uscito dalla Commissione senatoriale, in tema di cognomi, invita a riflettere sul significato e la storia di un istituto secolare connaturato al nostro vivere come lo sono il giorno e la notte. Secondo la proposta, i genitori hanno quattro possibilità: imporre al figlio il cognome del padre, o quello della madre, o ambedue in ordine padre-madre, o madre-padre. Poiché i figli, i nipoti, e gli altri discendenti potrebbero fare, a loro volta, difformi libere scelte, il percorso generazionale diventerebbe una gimkana onomastica della quale non si capiscono né il significato né l’utilità. Eppure nel mondo occidentale - e in paesi all’avanguardia nella tutela dei diritti individuali - convivono senza traumi sistemi distinti nella trasmissione del nome: gli islandesi danno ai figli un cognome formato dal nome di battesimo del padre e da un suffisso che significa "figlio di" o "figlia di"; gli anglosassoni impongono il nome del padre (la madre già ha perduto il suo cognome col matrimonio, assumendo quello del marito); in area ispanica e portoghese i figli hanno il doppio cognome, in ordine padre-madre nella prima e madre-padre nella seconda. L’ansia omologatrice dell’Unione europea, per fortuna, non si è ancora intromessa in questo delicato campo.

La storia del cognome - come identificativo di una famiglia e di una discendenza - è di grandissimo interesse sociale. Nel medioevo, smarrita la tradizione romana di indicare con nomi diversi l’individuo, la sua famiglia e la gens di appartenenza, la persona era normalmente identificata con un nome imposto al momento del battesimo. Questo era sufficiente in società poco strutturate, con popolazioni disperse, radi insediamenti, modeste città. Tuttavia questo semplice sistema diventa inadeguato alla fine del primo millennio quando la società ricomincia a crescere, sviluppandosi demograficamente, culturalmente ed economicamente. Comincia a farsi necessaria l’identificazione non equivoca delle persone, per l’applicazione delle norme giuridiche, per far funzionare la giustizia e l’amministrazione, per le transazioni economiche, i passaggi di proprietà, gli atti di successione. Necessità tanto più sentita in quelle società nelle quali il numero dei nomi utilizzati al battesimo era ristretto e le omonimie frequenti; necessità ineludibile man mano che cresceva la popolazione e si sviluppavano i centri urbani. Nelle classi nobiliari e aristocratiche si diffonde il desiderio di affermare l’identità della discendenza con un nome fisso e non con una complicata successione genealogica di individui. Questi sono identificati da un nome personale e da un cognome che riassume l’ascendenza, identifica la famiglia di appartenenza e viene trasmesso in via ereditaria. Un processo lungo e graduale che si diffonde lentamente nell’arco di un millennio.

In Toscana, l’uso dei cognomi diventa frequente nel XII secolo tra le grandi famiglie urbane, spesso di origine feudale; così in Piemonte e nelle Venezie. Anche in Francia, in Germania e in Inghilterra il processo inizia nell’XI o nel XII secolo. Più a nord, nell’Europa scandinava, l’utilizzo di un cognome (patronimico) stabile si afferma nel XVIII secolo, mentre ancor oggi in Islanda (come si è detto) ai figli è imposto un patronimico che varia di generazione in generazione.

La diffusione del cognome, come tante altre innovazioni culturali o sociali, ebbe un gradiente economico e geografico: prima nei ceti signorili e nobili, nelle élite mercantili e borghesi, poi nel volgo e tra i contadini; prima nelle città, poi nelle campagne; prima nelle regioni ad alta densità poi nelle aree meno popolate. I due medievisti Christiane Klapisch e David Herlihy, cui si deve un monumentale studio sul Catasto del 1427, hanno trovato che il 37 per cento dei contribuenti di Firenze avevano un cognome, contro il 20 per cento nelle altre città toscane e il 9 per cento nelle campagne. Questo a conferma del gradiente geografico. Tra i 100 contribuenti più ricchi, 88 (cioè quasi tutti) avevano un cognome, mentre tra i 1493 nuclei familiari più poveri (che non pagavano tributo: oggi si chiamerebbero "incapienti") solo 176 nuclei (il 12 per cento) avevano un cognome. E questo a conferma del gradiente economico. Sempre a Firenze, secondo il censimento del 1551, solo il 32 per cento dei capifamiglia uomini aveva un cognome, ma nel 1630 la proporzione era raddoppiata al 64 per cento, e nelle strade delle zone benestanti praticamente tutti avevano un cognome. Il Concilio di Trento, e l’obbligo della tenuta dei registri parrocchiali per iscrivervi battesimi, sepolture e matrimoni, dette una spinta decisiva alla diffusione dei cognomi, anche se in certe zone (per esempio nella diocesi di Perugia) questi si affermano solo nella seconda metà del ‘700. In epoca napoleonica, il cognome fisso ed ereditario diventa un obbligo in larga parte d’Europa.

Di cognomi c’è grande varietà nel nostro paese, arricchita nel tempo da variazioni lessicali (sorta di "mutazioni") o da processi migratori. I cognomi fissi sono anche una sorta di marcatore genetico che ha permesso agli studiosi interessanti analisi di genetica delle popolazioni. Cognomi con origini spesso legate a un patronimico; oppure al mestiere o alla professione esercitati; o alla toponomastica e all’origine geografica; o ancora a particolari caratteristiche personali (un difetto o una qualità fisica, o del carattere) di un qualche capostipite. Un terreno fertile di ricerca per i linguisti.

A volere essere cinici, potremmo dire che nell’era dell’informatica non c’è più bisogno del cognome fisso. La prima missiva che ogni neonato riceve proviene dall’agenzia delle entrate, e contiene il tesserino di plastica verde col codice fiscale. Si possono facilmente creare appositi algoritmi per collegare i vari codici personali in famiglie, discendenze, gruppi. Perché dunque aggrapparsi alla tradizione del cognome? Perché non permettere a ciascuno di identificarsi come meglio crede? In questa luce la proposta-mostriciattolo potrebbe anche essere tollerata. Eppure ha un senso dare un’identificazione alla discendenza familiare, per sottolinearne la continuità o affermare l’appartenenza. Che sarebbe compromessa dal cervellotico sistema proposto.

La legge italiana prevede saggiamente che la donna sposata conservi il suo cognome. Sembra sensato sperare che rafforzi la propria saggezza, disponendo che ai figli vengano trasmessi, come è giusto, entrambi i cognomi. E che l’ordine sia fisso, e una volta per tutte si decida se si vuol stare dalla parte degli spagnoli o dei portoghesi, dando il primo posto al cognome del padre come è tradizione dei fieri castigliani o cedendo cortesemente il passo alla madre secondo l’amabile usanza lusitana.

Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la tua stessa Casa. Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te

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