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9 gennaio 2004– Un incidente tecnico ha mandato in fumo il nuovo EddyburgRiprendo, con l’anno nuovo, l’aggiornamento del vecchio. E mi domando che cosa vorrei vedere accadere nel 2004 (oltre alla nascita del nuovo Eddyburg) per dare torto al pessimismo di Altan. Tante cose.

Cominciamo da casa nostra.

Mi piacerebbe vedere tutte le variegate formazioni dell’area di centro-sinistra riuscire a individuare i valori fondamentali della convivenza civile e battersi coerentemente per farle sopravvivere e trionfare. Il rispetto della legalità, la tutela dei deboli e dei posteri, il primato del comune rispetto all’individuale, la parità dei diritti e dei doveri nel campo dell’informazione dovrebbero essere in cima all’elenco. La sconfitta di Berlusconi e la difficile ricostruzione di tutto ciò che ha distrutto ne dovrebbero essere la conseguenza.

Mi piacerebbe veder fare un passo indietro a quelli che preferiscono i partiti alla politica, la tattica alla strategia, il potere agli obiettivi, le formule ai contenuti. Mi rendo conto che questo comporterebbe molte autocritiche, e un rinnovamento profondo del ceto politico, ma in assenza di ciò l’anno resterà bisestile.

Mi piacerebbe veder crescere, almeno a sinistra, la consapevolezza del fatto che episodi come la crisi della Fiat e il saccheggio Parmalat, fenomeni come l’invasione dei cervelli infantili (leggete l’articolo di Roberto Cotroneo), eventi come l’accresciuto numero di incidenti e catastrofi nel vasto campo dei servizi pubblici, non sono una fatalità, ma l’emergere delle insufficienze di un Mercato per troppi anni idolatrato a destra e a sinistra, e delle perversioni di un sistema economico reso di nuovo senza freni.

Allarghiamo lo sguardo.

Mi piacerebbe che nei popoli dell’Europa e dell’America maturasse la convinzione che, se in alcune dimensioni dello spirito e della convivenza civile la cultura nata sulle sponde del Mediterraneo (quella definita greco-giudaico-cristiana) ha prodotto valori e istituzioni superiori a quelli elaborati da altre civiltà, in altre dimensioni essa ha ancora molto da imparare ascoltando quanto è nato sotto altri soli. E che comunque nessuna civiltà ha il diritto (e neppure il potere) di imporre ad altri i propri modelli, per quanto superiori essi possano essere.

Mi piacerebbe che i reggitori di tutti i popoli – a Nord e a Sud, a Est e a Ovest – comprendessero che il destino dell’umanità che abita il Pianeta Terra è unico, e che la sopravvivenza della specie impone regole che devono prevalere su qualunque altro interesse. Che queste regole non possono essere sostituite da politiche, più o meno generose, di aiuti, ma impongono la costruzione di una economia radicalmente diversa (sul versante della produzione come su quello del consumo) da quella attuale.

Mi piacerebbe che, una volta avviato lo svuotamento dell’oceano di ingiustizie e di violenze che costituisce il brodo di cultura del terrorismo (e restituite in primo luogo dignità, potestà e diritto al popolo palestinese nell’ambito di confini ragionevoli e certi), scomparisse, magari con più veloce gradualità, la tragedia degli atti terroristici, nei quali la rabbia dei “dannati della terra”, intrecciandosi con la perfidia dei criminalie l’insania dei folli, colpisce i giusti e gli innocenti.

Bisogna comprendere che nell’Islam si agitano fantasmi e pulsioni mortifere, che è nell’interesse di tutti gli uomini di buona volontà – di qualunque parte del mondo, di qualunque culture, religione, etnia – sconfiggere per sempre. Ma bisogna comprendere anche (e in primo luogo, poiché è qui, in Occidente, che viviamo) che il terrorismo che è divampato in Iraq è stato concimato dalla folle politica dell’attuale Presidente degli USA, che ha colto l’occasione dell’orrore delle Twin Towers per perseguire un disegno di potere messo a punto anni prima: terribile occasione, e ancor più terribile coglierla in quel modo.

Bisogna comprendere che l’altro terrorismo, quello ceceno, quello della strage degli innocenti della scuola dell’Ossezia, è stato concimato dal genocidio praticato dalla Russia in Cecenia. Bisogna comprendere che gli attentati suicidi negli autobus e nei ristoranti di Israele (un altro terrorismo ancora) sono stati concimati dai decenni di miseria, di violenza, di sopraffazione nei campi di concentramento e negli altri recinti nei quali sono stati rinchiuse generazioni di palestinesi.

E bisogna comprendere che la minoranza planetaria che pretende di comandare il mondo (perché è la civiltà “superiore”) non può reclamare la solidarietà, e neppure la tolleranza, di quella maggioranza del mondo che i secoli del suo trionfo economico e politico hanno abbandonato (se non gettato) nella miseria e nella morte. Ancora oggi, alcune centinaia di bambini trucidati in Europa accendono infiniti riflettori di più di quanti illuminano le decine di migliaia di bambini sterminati in Africa.

Bisogna comprendere tutto questo per vincere il terrorismo dilagante. E bisogna agire di conseguenza. È stato aperto il vaso di Pandora. Non ha senso inseguire uno ad uno i diavoli che ne sono usciti: sono infiniti. Occorre richiudere il vaso. Non ha senso indossare l’elmetto e circondare il campo dove si nascondono i terroristi: è un campo più vasto delle armate che vogliono accerchiarlo. Occorre togliere al terrorismo l’humus dal quale si alimenta.

Non è Bush, non è Putin, non è tantomeno Berlusconi a lavorare in questa direzione: anzi, continuano a gettare benzina attorno ai fuochi. La direzione l’ha indicata e praticata un altro uomo di destra, Chirac. Senza cedere al ricatto (e mantenendo attiva la legge che i terroristi chiedevano di abrogare) ha aperto immediatamente il dialogo con il mondo all’interno del quale, come pesci nel mare, navigano e si alimentano i gruppi terroristici. Non so ancora, mentre scrivo queste righe, se l’iniziativa della Francia avrà successo. Ma i giornali già ci dicono che gli ostacoli e i bastoni fra le ruote non vengono dal mondo arabo o dall’Islam: vengono dalle forze d’occupazione.

Sul ruolo e sulla politica di queste forze, e dei loro dirigenti remoti, occorrerebbe lavorare. Magari a partire dall’assassinio di Enzo Baldoni, a proposito del quale troppi interrogativi sono rimasti aperti. Come mai le bugie del governo italiano e della Croce rossa? Come mai indossava la maglietta della sua guida? Come mai il filmato era falsificato? Come mai, a differenza a dei colleghi francesi, vi appariva tranquillo e disteso, ironico, come se fosse tra suoi amici e non tra i terroristi? Come mai il secondo filmato si è ridotto a un’unica fotografia? Come mai non si è trovato il suo corpo, e quello della guida non è stato analizzato? Insomma, lo hanno assassinato i terroristi o altri?

Gli eventi di questi mesi gettano luci inquietanti sul mondo dell’Islam, ma anche su quello che solidalmente gli si oppone, elmetto in testa.

Esemplare del clima che si è già instaurato è il modo in cui i mass media hanno informato sulla vicenda di Rete Quattro. Per la stragrande maggioranza dei giornalisti della televisione (privata e pubblica: ormai lo stile e le veline sono uguali) il dramma del giorno era il destino di Emilio Fede e della struttura che dirige. Sembra che i cattivi, i comunisti (nelle cui file è arruolato, non da oggi, il presidente Ciampi) abbiano come unico obiettivo togliere il posto ai lavoratori della Mediaset in odio al loro padrone. Ma quanti hanno messo in evidenza che quel posto è usurpato? Quanti hanno informato che Berlusconi e Fede lo hanno illegittimamente sottratto a un altro gruppo, che da anni ha avuto l’assegnazione di quelle frequenze e che, nonostante avesse tutti i titoli in regola, non l’ha ottenuto per la proterva prepotenze dalla banda B.?

Il dominio è già quasi completo. Bisogna chiudere il cerchio, completamente. Le voci di dissenso possono rimanere, ma devono diventare del tutto marginali. Può restar vivo qualche circolo intellettuale, ma l’opinione pubblica “di massa” deve ricevere la voce d’un solo padrone: deve guardare una sola televisione. Questo è il disegno. Questo spiega perchè Ciampi (così esitante a usare il suo diritto/dovere di rinvio alle camere) non ha firmato la legge Gasparri. Questo motiva l’incredibile scandalo dell’evento di Natale, B. che come primo ministro firma il decreto che premia B. come imprenditore (e punisce l’imprenditore che aveva ottenuto la concessione usurpata da Rete Quattro).

e’ una vergogna difficile da sopportare. È un piano inclinato nel quale si scivola sempre di più. E l’opposizione? Gioca, litiga, balbetta, si divide, parla d’altro. Le differenze sono certo profonde tra Fassino e Di Pietro, tra Bertinotti e Parisi. A me personalmente Rutelli e D’Alema non piacciono affatto, nel senso che non sono d’accordo con le loro posizioni su molte cose (in primo luogo, sol modo di affrontare il berlusconismo, che il secondo ha addirittura favorito). Ma, come ha scritto Paolo Sylos Labini ( Berlusconi e gli anticorpi, Editori Laterza, 2003), il compito più urgente è non dare tregua a Berlusconi. Vincerlo, a cominciare dalle prossime elezioni.

Riuscire a far questo è l’unico augurio che riesco a formulare per il 2004, a me e ai miei amici. A combattere il berlusconismo che è fra noi penseremo dopo.

Non si tratta di una rivendicazione di competenze. Il nuovo Statuto si limita a dire, nell’articolo dedicato alle finalità generali, che “la Regione persegue, tra le finalità prioritarie”, nientedimeno che “la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”, nonché “la tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”. Nulla dice lo Statuto su chi legifera in materia di patrimonio culturale. Nulla sottrae alle competenze stabilite dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie. Si limita a tradurre nello Statuto della Regione Toscana (e mi meraviglierebbe se le altre regioni non l’avessero fatto o non lo facessero) il dettato dell’articolo 9 della Costituzione: “la Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

La Repubblica, dice la Costituzione. Quell’ente, cioè, che secondo la Costituzione oggi vigente “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. In altri termini, quali che siano le competenze legislative in materia, è evidentemente (e costituzionalmente) dovere di tutti i livelli di governo, di tutte le istanze della Repubblica, assumere come finalità della propria azione (dei propri compiti di amministrazione, di gestione, di pianificazione, di regolamentazione, di promozione, di vigilanza, di repressione) quello della tutela del patrimonio culturale.

Non fu del resto la stessa Corte costituzionale, alla quale oggi il governaccio Berlusconi si rivolge, a stabilire che l’azione di tutela non può esercitarsi solo a livello nazionale, ma deve interessare tutti i livelli di governo? Nella sentenza 151/1986, ad esempio, la Corte sostenne che con la legge 431/1985 si era ribadito il concetto di “una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” una “riconsiderazione assidua” che postulava che le azioni di protezione del patrimonio culturale, avviate dal livello nazionale, venissero poi proseguite ai livelli regionale, provinciale, comunale.

Il tentativo del governo di invalidare le affermazioni di principio dello Statuto toscano è inaccettabile sul piano dei principi, come argomenta con efficacia Luigi Scano nella nota scritta per Eddyburg. Ma è pericolosissimo sul piano pratico. Esso può infatti indurre a comportamenti lassisti gli attori del sistema delle autonomie. “È Roma che si occupa della tutela, quindi possiamo (anzi, dobbiamo) non occuparcene noi”. Errore gravissimo sarebbe quello di adottare un comportamento siffatto. Poiché si tratta di una materia che - per la sua stessa natura, per la straordinaria ricchezza del patrimonio nazionale, per il suo essere distribuito e diffuso in ogni luogo e città e paese e contrada e valle e riva - fortemente richiede che la ricognizione e tutela dei suoi elementi siano svolti con “assiduità” da tutte le componenti dell’altrettanto ricco tessuto dei poteri e delle responsabilità pubbliche.

Preoccupa perciò, oltre alla improvvida iniziativa del governo, il silenzio che su questo punto hanno manifestato le Regioni. Da quelle che ritengono che la tutela del patrimonio culturale, storico, paesaggistico non sia solo argomento di retorici gargarismi ci si aspetterebbe una tempestiva adozione, nei loro statuti, di formule analoghe a quella adottata dal Consiglio regionale della Toscana: sarebbe il miglior modo di protestare contro un centralismo lesivo degli interessi nazionali.

Sull'impugnativa del Governo si veda la nota di Luigi Scano

Intanto, i fatti. Un bravo agronomo, appassionato del suo mestiere e professionalmente serio, ha analizzato il PTCP di Napoli e ha scoperto che gran parte delle aree agricole più pregiate erano lasciate senza tutela, affidando alla disponibilità dei comuni la maggiore o minore trasformazione, in alcuni casi prevedendola esplicitamente. Conoscendo bene l’Italia, la Campania e la provincia di Napoli, lui e quanti hanno avuto modo di esaminare le sue carte (e quelle del piano) si sono fortemente preoccupati. Si sa che, tra la possibilità di coltivare e quella di edificare, il dio mercato sceglie la seconda alternativa, e la maggior parte dei comuni pure. I pochi che hanno visto questo rischio hanno gettato gridi d’allarme. Una volta tanto l’opinione pubblica è stata allarmata.

Alcuni uomini politici, di rilievo nazionale, si sono allarmati anch’essi. Nelle sedi istituzionali più vicini al fatto è esplosa una bagarre: dichiarazioni, dimissioni, critiche e recriminazioni. La politica è apparsa imbarazzata: ha compreso di aver compiuto (o lasciato compiere) un errore, ma non è sembrata capace né di valutare la portata dell’errore né l’opportunità (la convenienza) di porvi riparo. Più che il merito della questione (è necessario o no tutelare ambienti e paesaggi di eccezionale valore ecologico, culturale, produttivo anche sacrificando le prospettive di sfruttamento immobiliare? come utilizzare quello strumento, il PTCP, per raggiungere quell’obiettivo?) hanno dominato gli sforzi di coprire l’alleato o scoprire l’avversario (magari all’interno della stessa formazione politica), e magari di coprirsi tutti quanti insieme (le elezioni sono vicine).

La cultura urbanistica, poi, è stata del tutto assente. Hanno taciuto le associazioni degli urbanisti (il cui ruolo sembra ridotto alla promozione professionale degli iscritti), e ha taciuto l’accademia (il cui ruolo sembra ridotto alla trasformazione in prodotti accademici degli incarichi di pianificazione). Se qualche eco la vicenda del PTCP di Napoli ha avuto in quegli ambienti, si tratta di cenni di fastidio “per il polverone sollevato”, o difese dell’autonomia dei comuni contro chi vorrebbe “immaginare vincoli totalizzanti che [ne] espropriano la potestà programmatoria”.

Mi sembra che si dovrebbe rispondere ad alcune domande, che vorrei porre con molta precisione nella speranza di avere, da qualcuno dei visitatori di questo sito, risposte altrettanto precise.

1. È vero o no che il PTC della provincia di Napoli, presentato dall’assessore Riano e adottato dal Consiglio provinciale a maggioranza di centrosinistra, consente di edificare in “25.000 ettari di aree agricole pregiate, che rappresentano il 42% circa delle aree agricole provinciali”, consentendo così di fatto “l’estinzione dei paesaggi agrari di più elevato valore ecologico-ambientale, storico ed estetico percettivo presenti nel territorio provinciale”, come ha dimostrato l’agronomo Antonio Di Gennaro?

2. È vero o no che la legge stabilisce che il PTC provinciale “indica le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti”, mentre tra i compiti che la legge attribuisce alla Provincia vi sono “difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità”, “valorizzazione dei beni culturali”?

3. È vero o no che, anche a prescindere dalla legge, sulla base di una corretta applicazione dei saperi dell’urbanistica e del principio europeo della sussidiarietà, la tutela delle qualità del paesaggio rurale, dei valori ecologici e culturali dei territori aperti, delle potenzialità della produzione agricola di qualità, non è cosa che possa essere affidata alla sfera delle competenze comunali perché palesemente trascende dalla loro scala e dalle loro competenze?

4. È vero o no, uomini della politica e delle istituzioni, che il primo dovere degli eletti e dei loro controllori più diretti è quello di operare perché nelle istituzioni si traducano coerentemente in atti amministrativi efficaci le promesse di tutela e valorizzazione delle risorse naturali, culturali, economiche presenti nelle aree nelle quali vi fate eleggere, e di rispetto per quanto di buono e di bello i nostri antenati hanno saputo costruire, perché anche i posteri ne possano godere?

5. E infine, colleghi urbanisti, è vero o no che la pianificazione del territorio, a scala provinciale e regionale, è vana esercitazione accademica se si riduce ad analisi, esortazioni, raccomandazioni, suggerimenti, direttive, prediche, ammonimenti, scenari e (mi si passi l’orrenda espressione) quant’altro?

Mi piacerebbe che chi governa, e chi si propone di farlo, partisse dalla valutazione degli interessi materiali e morali delle cittadine e dei cittadini. Non solo di quelli di oggi, ma anche di quelli di domani, e che su questa convinzione basasse le sue scelte a proposito dei patrimoni della cultura, del paesaggio e del territorio. Non solo di quelli che hanno voce in capitolo, ma “dell’uomo che va in tram”, per usare il titolo di un bel libro di Carlo Melograni: della donna e dell’uomo che lavora, che vive col suo salario, che non usa l’automobile per andare al lavoro, non usa la scuola privata per i suoi figli, non si cura a Lugano ma alla ASL locale.

Mi piacerebbe che perciò dimostrasse consapevolezza del fatto che, in una società complessa come la nostra, molte esigenze vitali possono essere soddisfatte solo con un forte rilancio dei valori, e degli strumenti, della collettività in quanto tale, e quindi anche del pubblico: penso alla scuola, alla salute, alla mobilità, all’abitare. E penso a una cultura ridotta a distorcente spettacolo e a veicolo di consumi inutili e sempre più spesso dannosi (lo dimostrano le nuove malattie sociali, come l’obesità), a causa anche di una colpevole assenza di impegno, dei partiti non accucciati nella difesa degli interessi dominanti, sul terreno cruciale delle comunicazioni di massa. (Un’assenza, occorre precisare, che non è cominciata con il governo D’Alema).

Mi piacerebbe che riconoscesse che la scomparsa delle grandi ideologie (e quindi dei grandi progetti di società, dei grandi ideali, delle grandi speranze) ha delegittimato i partiti, e che quindi, se questi non vogliono ridursi a camarille preoccupate solo di conservare il propria fetta di potere, la ricerca e la promozione della partecipazione popolare è una scelta obbligata, non un optional: è l’unica strada attraverso la quale si può tentare (con molta fatica, con molto impegno, con molta intelligenza) di ritrovare una sintonia durevole tra eletti ed elettori, tra rappresentanti e rappresentati, e quindi le ragioni di una nuova politica.

Per tutte queste ragioni (e anche perché sono un urbanista) mi piacerebbe che il tema di fondo, attorno al quale tutti gli altri si annodano e trovano riscontro, fosse quello del governo della città e del territorio. Non nell’astrazione delle tecniche che di loro si occupano, ma nella loro concretezza, nella fisicità, nella funzionalità e nella disposizione dei loro elementi: le case (disponibili o no per chi ha un reddito di lavoro) e le strade (libere per i pedoni, le carrozzine, le biciclette e i tram, oppure intasate di automobili), le campagne (destinate alla ricreazione, alla salute, alla produzione di derrate sane, oppure all’edificazione attuale o futura) e i fiumi (utilizzati dalle acque che scorrono sopra e sotto il suolo e alimentano le nostre essenziali risorse, o dalle costruzioni in golena e dai rifiuti in alveo), i servizi scolastici, sanitari, commerciali, sportivi (facilmente accessibili, collegati da una rete di percorsi piacevoli e sicuri, oppure casualmente sparpagliati sui lotti residui e marginali) e i servizi di trasporto collettivo (comodi, frequenti, intelligentemente connessi nelle loro modalità e disegnati in relazione alla domanda di mobilità, oppure casualmente collocati segmento per segmento e distrattamente gestiti).

È la politica urbanistica insomma, nelle sue tre funzioni strategica, regolativa e operativa, che dovrebbe essere insomma al centro delle discussioni e decisioni politiche, nelle città e nelle province. E domani, molto presto, anche nelle regioni e nella Repubblica. È su questi temi che le opzioni delle diverse parti dovrebbero essere chiare, la scelta tra i diversi interessi esplicita, il consenso popolare (del popolo, non dei soliti interessi forti) attivamente ricercato. Non mi pare – almeno dalla lettura dei giornali e dagli sporadici riscontri personali – che di questi temi si parli molto, nel paese oscillante tra un berlusconismo con Berlusconi e un berlusconismo senza.

La Repubblica ha pubblicato con evidenza un articolo di Giovanni Valentini di pesante critica al piano, in questi giorni sottoposto al vaglio pubblico delle “osservazioni”.

Raccogliendo un’accurata analisi di alcuni benemeriti studiosi del paesaggio delle campagne italiane, Valentini scrive che “il Piano territoriale di coordinamento provinciale prevede di ‘strappare’ 25mila ettari su 6Omila di superficie agricola, circa il 42% dei terreni coltivati in provincia di Napoli, per trasformarli in aree urbane con una destinazione ancora imprecisata”.

Conosco Antonio Di Gennaro e i suoi collaboratori, e sono certo dell’attendibilità dei dati delle loro analisi. Sono quindi sicuro che le aree definite dal Ptcp “di riqualificazione urbanistica” comprendono effettivamente, come scrive Valentini, “circa il 42% dei terreni coltivati in provincia di Napoli”. Ho letto personalmente le norme del piano, ed ho verificato che effettivamente in quelle aree si può fare di tutto, sebbene le norme del piano suggeriscano di fare cose buone. Sebbene non sia vero che “preveda” di rendere edificabili 25mila ettari di superficie agricola, è certo che lo “consente”.

Un piano non si valuta di per sé: si valuta nel contesto. Perché è solo il contesto (territoriale, sociale, politico, amministrativo, culturale) che ci racconta come il piano verrà applicato. Quel contesto, il contesto della Campania felix, ha due caratterizzazioni.

Da una parte, un territorio agricolo di eccezionale fertilità e bellezza. Basta ricordare alcuni dei paesaggi compresi nelle “aree di riqualificazione urbanistica”: essi comprendono parti delle colline dei Campi Flegrei, le aree agricole di Ischia e Capri, i terrazzamenti della costiera sorrentina e della conca di Agerola, la pianura vesuviana e nolana, le aree floricole del Somma-Vesuvio, le aree pedemontane dei monti Lattari, la pianura dei fiumi Sebeto e Sarno. Certo, si tratta di residui. Ma residui che sono testimonianze di straordinarie grandezze (così come ciò che oggi vediamo del Partenone è residuo di qualcosa che attraverso quei sopravvissuti lacerti possiamo immaginare, e comprendere).

Dall’altra parte, una tradizione e una prassi di governo del territorio incapaci (eccetto casi singolari e brevi stagioni) di combattere l’abusivismo, contenere la disseminazione edilizia nel territorio, impedire o imbrigliare la speculazione fondiaria ed edilizia, coordinare gli interventi pubblici, migliorare la qualità dei paesaggi urbani e preservare quelli rurali e naturali, soddisfare le esigenze di accessibilità mobilità e sicurezza, rafforzare durevolmente la qualificazione e l’autorevolezza delle pubbliche amministrazioni.

Un siffatto contesto avrebbe suggerito, in queste vaste aree di frizione e di incertezza tra città disgregata e campagna minacciata, di porsi l’obiettivo di affrontare il sacrosanto problema della riqualificazione urbana sulla base di una prioritaria difesa di quanto resta del patrimonio naturale e rurale.

Ciò in primo luogo avrebbe comportato (e dovrebbe comportare) l’attribuzione a una diversa categoria di aree delle parti del territorio già tutelate da strumenti più attenti alle qualità del territorio, e di quelle di più evidente e indiscutibile qualità, come puntualmente suggerisce la nota di Antonio Di Gennaro inserita nella cartella SOS Paesaggi / Campania Felix.

Dovrebbe comportare poi di rendere tassative le norme di “indirizzo” (che i comuni possono quindi seguire o non seguire) contenute nella terza parte delle norme. Almeno per quanto riguarda la definizione di rigorose procedure di individuazione delle qualità naturali, produttive e paesaggistiche delle aree ancora libere, di criteri rigidi e soglie invalicabili per il dimensionamento della crescita edilizia, di coordinamenti ferrei tra comuni appartenenti allo stesso sistema paesaggistico, di costante verifica della provincia sull’implementazione degli obiettivi, delle scelte e delle prescrizioni della pianificazione provinciale.

Non si tratta di gettare alle ortiche il Ptc, ma di utilizzare la fase delle osservazioni per migliorarlo.

La pianificazione urbanistica viene da una tradizione di attenzione primaria, e spesso esclusiva, per le esigenze della crescita, della razionalizzazione e della riqualificazione degli insediamenti. Da qualche decennio si è compreso che occorre dare la medesima importanza all’altro obiettivo: quello della salvaguardia del patrimonio comune costituito dalla natura e dal paesaggio. In determinati contesti, e in determinati momenti, è questo l’obiettivo che deve dominare. Così è oggi, nelle residue aree risparmiate dalla disordinata colata edilizia nella Campania Felix.

Quali siano questi strumenti (o almeno, alcuni di essi) lo si è già raccontato su queste pagine. In particolare, nella cartella dedicata a Milano. In quella città, la città di Mani pulite, sono in atto due processi convergenti: l’uno sul piano teorico, l’altro su quello dei fatti. Da una parte, nell’incapacità di aggiornare le regole della pianificazione tradizionale in modo da superarne i limiti e di renderle adeguate alle esigenze dell’operatività, nell’accademia se ne teorizza le morte, nella politica le si cancella e nella pratica le si sostituisce con l’egemonia dell’iniziativa privata. Dall’altra parte, calpestando allegramente quanto di legge comune pur sopravvive, si riempiono di calcestruzzo e asfalto, acciaio e vetro, tutti gli spazi resisi disponibili, con l’unica preoccupazione di fare soldi.

“Speculazione immobiliare”: è un’espressione certamente arcaica: ne parlano gli storici fin dai tempi della Roma di Nerone. È abusata, ed è troppo sintetica per rappresentare la ricchezza delle pulsioni e degli errori, delle illusioni e degli interessi che hanno suscitato quei due processi (fatalmente convergenti, e anzi intrecciati). La storia della riutilizzazione dell’area dell’ex Fiera è un esempio efficace di come gli interessi economici parassitari (la speculazione immobiliare non produce ricchezza, ma la distrugge), la compiacenza dei pubblici poteri, lo sguardo benevolo della cultura, progredendo con sicurezza sui binari delle new theories e delle old practices, distrugga la città: il più alto prodotto, quindi, della civiltà europea. Illustra quindi in modo adeguato la sinteticità di quel termine, ne aggiorna il significato.

La storia è molto semplice; l’ha raccontata Sergio Brenna anche in questo sito. L’Ente Fiera di Milano ha spostato la sua attività in un’altra area, ottenendo dal Comune, nella vecchia area, una utilizzazione idonea ad assicurargli un ampio tornaconto economico. L’Ente fiera (un istituto di diritto privatistico) ha bandito un concorso per la “valorizzazione” dell’area, indipendentemente da qualsiasi ragionamento (e naturalmente da qualsiasi decisione pubblica) sia sull’assetto urbanistico sia sulle funzioni, definendo per di più quantità di volumi ancora superiori a quelle concesse dal Comune. Un’operazione nella quale il motore e, al tempo stesso, l’arbitro è stato costituito dall’interesse economico aziendale. La ricerca non è stata diretta a valutare che cosa serve alla città e ai cittadini, quali esigenze di spazio vi siano per gli usi collettivi e il verde, quali necessità di decongestionamento e di accessibilità, ma semplicemente, in che modo può essere ottenuto il maggior tornaconto in termini di “immagine” e in termini di valuta. Il risultato,eccolo qui. Novecentomila metri cubi di residenze e uffici, stipati nei tre stravaganti oggetti illustrati qui accanto, con un disegno urbano che – lungi dall’integrarsi con i quartieri circostanti, come studi in corso da decenni proponevano – si oppone alla città e la nega. E con un carico urbanistico che, se volesse essere soddisfatto in base alle norme vigenti nella Regione Lombardia, richiederebbe paradossalmente la cessione dell’intera area (anziché del 50% contrattato).

L’apparire dei risultati figurativi della decisione ha naturalmente suscitato scalpore. Alcuni intellettuali, rivelandosi singolarmente retro, hanno celebrato nel gigantismo faraonico e fuori scala e nella bizzarria delle forme le magnifiche sorti e progressive della “Rinascimento di Milano”. Renato Mannheimer ha addirittura affermato che “la nuova iniziativa edilizia accentua considerevolmente il processo di rinascita di Milano”, che “le ricerche motivazionali hanno mostrato come essa stimoli nei cittadini la voglia di fare, di sfidare in qualche modo la natura attraverso la tecnologia” e che “essa simboleggi proprio il 'puntare in alto', tipico dei milanesi nei periodi migliori”. Osservatori diversamente intelligenti hanno invece rilevato come “il ‘fàmolo strano’ sembra infatti essere l'unica regola certa di una professione che ha rinunciato alla pretesa etica di governare la trasformazione riducendo il governo del territorio a un problema di audience di massa”, e ha ricordato “l'acre battuta di Noel Coward in Law and Order: Non so dove stia puntando Londra, ma più si alzano i grattacieli, più si abbassa la morale” (Fulvio Irace).

Forme d’accatto, bizzarrie d’importazione, che (a differenza delle parole scritte sui libri o dei quadri immessi nei musei) si pavoneggiano agli occhi di tutti, contribuiscono al degrado della città, propagandano la sua dissoluzione da ordinata e armoniosa casa della società ad accumulo disordinato di oggetti la cui smisurata arroganza celebra unicamente la presunzione dei suoi autori e dei suoi giudici.

Un ampio servizio dell’Espresso, oltre a illustrare la questione, elenca altri quindici progetti che potrebbero avere caratteristiche analoghe. Forse non adotteranno le medesime forme e la medesima indifferenza al contesto figurativo. Ma è certo che la cornice nella quale si collocano lo spingerà verso il medesimo risultato urbanistico e sociale. Essa è infatti determinata da quel documento “Ricostruire la Grande Milano”, che è stato illustrato e criticato anche in questo sito, adottato dalla Giunta milanese, apprezzato in più sedi accademiche e utilizzato ampiamente per il progetto di legge urbanistica della Casa delle Libertà. Dio salvi Milano, e soprattutto i milanesi.

Mi sarebbe piaciuto che in questo quadro, nel quadro di un governo unitario della Laguna di Venezia (l’unica laguna al mondo sopravvissuta per mille anni) e della rete di pendolarismi e di memorie che riunisce i comuni che su di essa gravitano, gli antichi municipi e i villaggi divenuti città (Favaro, Chirignago, Mestre) e uniti in un unico comune tra il 1923 il 1926, e con essi magari Marghera, Burano, Pellestrina, riacquistassero una parte della loro autonomia, come la legge istitutiva delle Citta metropolitane (1990) da tempo prevede.

Quella legge fu decisa, dopo un dibattito durato un paio di decenni, proprio per ottenere che, in aree connotate da flussi di relazione e da caratteristiche fisiche mediante cui si era unito ciò che i confini comunali tenevano diviso (le aree metropolitane), si potesse contemperare il governo unitario del funzionamento metropolitano con l’autonomia delle singole parti. Nessuna di queste doveva dominare le altre, e perciò si disponeva che il comune capoluogo si dividesse in più unità (i nuovi comuni), e che tali divenissero anche i preesistenti centri minori.

Si riuscì a far inserire dal legislatore Venezia tra le città metropolitane indicate dalla legge, accanto a Milano e a Napoli, a Bologna e a Firenze, a Bari e a Torino, a Genova e a Cagliari. Da allora, alle nuove richieste di separare Venezia e Mestre, gli esponenti di tutte le principali forze politiche veneziane risposero sostanzialmente nel modo seguente.

”Nelle vostre richieste di separazione di parti del territorio così diverse ci sono ragioni valide, ma accettarle semplicisticamente, così come voi semplicisticamente proponete, produrrebbe danni considerevoli, per moltissime ragioni. Abbiamo ottenuto che Venezia potesse trasformarsi in una città metropolitana, governando così sull’intero ambito della Laguna e del suo territorio, oggi divisi tra più di una ventina di comuni. La grande Venezia, la ricostituita Venezia, che in tal modo insieme formeremo potrà, e anzi dovrà, agevolmente suddividersi in quelle diverse realtà locali capaci di governare i locali interessi”.

Così si promise. Il nuovo sindaco eletto nel 1993 giurò anzi di incatenarsi al cancello del municipio se non fosse riuscito a convincere la Regione a costituire la Città metropolitana di Venezia nel giro di un anno. Poi, nessun concreto passo avanti. Nessun tentativo energico e vistoso di costringere chi doveva ad attuare la legge del 1990. Nessuno sforzo visibile di costruire la città metropolitana “dal basso”, di farla vivere nella realtà con iniziative aggregatrici dei comuni: con iniziative e intese per decidere insieme un unico piano territoriale, un’unica posizione chiara per il governo della laguna, un’unica politica metropolitana per la casa, per i servizi, per i trasporti e per la regolazione del traffico, per i rifiuti e il disinquinamento. Gli accordi, quando pure ci sono stati, hanno avuto un carattere burocratico e tecnico: non sono stati politici, non hanno sollecitato i cittadini a sentirsi partecipi di un disegno unitario, figli e cittadini della Grande Venezia.

In assenza di ciò, in assenza di una risposta positiva e ragionevole alle tensioni separatiste, come meravigliarsi se dalle urne uscirà domattina, un risultato che renderà più piccola Venezia, più povera Mestre, più complicata la vita del cittadino veneziano, più deboli i poteri locali nel confronto con il Consorzio Venezia Nuova, più lontana la prospettiva di un governo unitario della Laguna? O se le ragioni del NO vinceranno di misura, rivelando la profondità della spaccatura che da decenni divide il popolo veneziano?

I responsabili di questo destino non saranno stati (o non saranno stati solo) i promotori del referendum.

Ricordiamone alcuni elementi. Una critica dello Stato sociale della Prima Repubblica privo della proposta di un nuovo Stato sociale: di un nuovo sistema capace di garantire, più e meglio di quello vigente, i diritti comuni in materia di salute, assistenza, sicurezza sociale, istruzione. Un cedimento ai principi della nuova destra dell’Occidente fino a mutuarne gli slogan più infecondi (più mercato e meno Stato, privato è bello ecc.). La rincorsa al secessionismo di Bossi e alle demagogie localistiche, dimenticando che “federalismo” significa unificazione e non divisione, e che in paese “normale” non si fa un secondo passo (il “federalismo”) senza aver discusso il bilancio del primo (il regionalismo).

Le forze politiche della sinistra hanno certo delle scusanti. Non è facile misurarsi con i problemi di una fase indubbiamente nuova dell’assetto del mondo senza avere alle proprie spalle un’analisi compiuta ed efficace come quella che, nel precedente assetto, era stata fornita dal marxismo. Un’analisi, non una descrizione: una lettura scientifica della struttura della società e dell’economia, delle tendenze profonde e dei possibili futuri, un’individuazione delle forze in gioco e – all’interno di queste – di quella o di quelle cui può essere affidato il progresso dell’umanità. Si può comprendere quindi l’oscillazione della sinistra, le sue stesse divisioni, l’alternarsi di fughe in avanti proposte, e di passi indietro praticati. Si può comprendere, ma non giustificare, poiché nell’arsenale delle pratiche e dei principi della “democrazia borghese” e di un buongoverno coerente con il sistema capitalistico esistevano, come esistono, strumenti e valori capaci di assicurare (almeno entro i limiti di quella democrazia e di quel sistema) una decente soddisfazione delle esigenze dell’umanità e del suo sviluppo civile: quindi, di tenere aperte le strade di un più ricco futuro nel quale trovassero soluzione anche i problemi di fondo del mondo contemporaneo.

Il primo valore e strumento è il primato della legge comune: dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle regole stabilite. Ha giovato a ribadire e a praticare questo primato la tolleranza verso il conflitto d’interessi, e il fastidio a volte manifestato verso la magistratura (quasi espressione di una difesa corporativa della politica)? Non credo proprio. Non si può anzi escludere che un simile atteggiamento, oltre a giovare direttamente al peggior satrapo che l’Italia abbia conosciuto, abbia contribuito al distacco della politica dal popolo.

Il secondo valore e strumento è la cura del patrimonio comune della nazione. Non c’è bisogno di essere ambientalisti, non c’è bisogno di avere consapevolezza del valore di quella quota della ricchezza del mondo che è depositata nei nostri territori e nelle nostre città, per comprendere che una visione anche aziendalistica (la “azienda Italia”) imporrebbe di avere una cura di quel patrimonio ben diversa da quella attuale. Non solo di quella praticata dai demolitori riuniti nell’accampamento berlusconiano, ma anche di quella dimostrata dalle formazioni politiche della sinistra: tutte mi sembra, nessuna esclusa.

Una prova di questa carenza della sinistra, dell’infezione che dalla destra berlusconiana si è propagata altrove? L’assoluta assenza, nella campagna elettorale appena conclusa dei temi relativi al governo del territorio, alle politiche urbane, alla pianificazione territoriale e urbanistica. Un’assenza antica, che ha fatto dimenticare il passato dei partiti della sinistra negli anni 60 e 70: quando la modernizzazione del paese e il buon governo passavano dall’impegno per la riforma delle strutture (ivi compresa quella urbanistica) e da quello nell’amministrazione urbanistica delle città dove la sinistra era al governo. Un’assenza che, fino a quando permarrà, peserà sul futuro. Lo testimonia un episodio che ha condiviso la cronaca con i risultati elettorali: la questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania.

Il personale politico italiano non ha ancora compreso che la pianificazione del territorio, dentro e fuori le città, è uno strumento essenziale se si vuole risolvere a priori i potenziali conflitti nell’uso del suolo, se si vuole trovare una sintesi tra le diverse esigenze (quelle della tutela e quella della trasformazione, quella delle funzioni private e quelle dei servizi collettivi, quelle che inquinano e quelle che risanano). Probabilmente perché, al tempo stesso, non ha compreso che i problemi di oggi vanno risolti con una visione di prospettiva, di lungo periodo, strategica. La tattica di affrontare i problemi accantonandoli, di evitare i conflitti dando ragione all’ultimo che protesta, consente forse di vincere una campagna elettorale, non di rendere l’Italia un “paese normale”, all’altezza delle sue risorse e della sua storia.

Si veda anche la Lettera a Micromega, firmata da alcune decine di urbanisti molti mesi fa (e ancora senza risposta).

Su tutto si può discutere. L’ordinanza del giudice del Tribunale dell’Aquila potrà essere criticata, e anche contestata. Ma i giudizi unanimi e perentori (salvo pochissime eccezioni: grazie, Paolo Mieli) sono stati emessi subito, senza neppure aver letto quel dispositivo che insigni giuristi hanno giudicato ineccepibile. A me il crocifisso nelle aule non ha mai dato fastidio (mentre me ne darebbe molto il ritratto di B: se malauguratamente divenisse Presidente della Repubblica), ma penso che nessun uomo religioso possa oggi, nella civile e democratica Europa, presumere che la sua fede possa vincere per imposizione di legge. Credo nella superiorità dei valori elaborati dalla civiltà occidentale nei millenni della sua variopinta storia, ma non penso che siano gli unici al mondo, e men che meno che possano prevalere affidandosi alla forza.

Ho sempre pensato che questi fossero pensieri comuni al mondo della sinistra, a quello della solidarietà e a quello del liberalesimo: anzi, pensieri normali. Quando ho contribuito a scegliere chi eleggere ai vertici delle istituzioni ho sempre pensato che i miei candidati fossero persone che sanno anteporre il ragionamento all’impulso dell’emozione, il pensiero al turbamento. L’episodio del crocifisso di Ofena ha fatto vacillare le mie certezze.

La mia preoccupazione è stata ribadita, pochi giorni dopo, dalle reazioni febbrili all’annuncio che, richiesti di esprimersi tra quale, tra quindici stati del mondo (compresa l’Europa) costituisse oggi la maggiore minaccia per la pace, la maggioranza degli interpellati abbia risposto Israele. E allora? Possibile che noi, civili europei, colti giornalisti, pensosi pensatori, eminenti statisti, navigati politici, non si sia imparato a distinguere Stato e razza, governo e religione? Possibile che non si possa criticare Israele senza passare per antisemiti? Soprattutto in una situazione nella quale (come tra il Giordano e il Mediterraneo) la piaga purulenta della pluridecennale riduzione di generazioni di palestinesi nei campi di concentramento (e non è certo Yasser Arafat il colpevole di questo regime concentrazionario) ha formato vivai di ribellione e di terrorismo, dove il diritto dei popoli e le pronunce degli organismi internazionali sono stati ripetutamente e impunemente violati, dove l’unica legge avvertibile nei rapporti tra popoli l’uno all’altro ostile è “occhio per occhio, dente per dente”.

A me sembra del tutto ragionevole che oltre la metà degli europei interpellati abbia posto, tra i paesi che più minacciano oggi la pace, Israele insieme all’Irak, alla Nord Corea, all’Iran e agli USA. Sì possono certamente avere altri pensieri e formulare altre graduatorie, si può valutare diversamente l’eccesso di autodifesa di Sharon, ma da questo a indignarsi e tacciare di antisemitismo quegli europei che quell’eccesso lo ritengono deleterio e rischioso per la pace, mi sembra davvero inquietante.

Mi domando le ragioni di questa apparente generalizzata incapacità di ragionare, di sceverare, di distinguere. Non so trovarle. Qualcuno mi aiuta?

L’avevo chiarito aderendo all’iniziativa “un voto in prestito per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente”. Questo è oggi l’obiettivo: una sinistra che riesca a superare le sue divisioni e, pur conservando la ricchezza costituita dalla molteplicità delle sue anime, sappia trovare le ragioni della sua unità. E che poi, su questa base, possa diventare uno dei momenti determinanti di una coalizione di governo – quale quella che il sistema maggioritario richiede e che è necessaria per battere non solo Berlusconi, ma anche la destra in Italia.

È sulla base di un risultato positivo, largamente positivo, che bisogna ora cominciare a lavorare. Lo ha detto con chiarezza il coordinatore della segreteria dei DS, Vannino Chiti, nel suo primo commento ai risultati elettorali: «Il centrosinistra aumenta i consensi rispetto al 1996, quando vinse le elezioni politiche. Ora inizia il lavoro per elaborare un programma che permetta di costruire un'alleanza in grado di vincere e di arrivare al governo del Paese». Credo che si debba subito raccogliere l’invito di Chiti: noi elettori aspetteremo e valuteremo a questo primo traguardo le formazioni del centro e della sinistra.

Io credo che al primo punto debba esserci (che non possa non esserci) altro obiettivo che il ripristino della legalità. È su questo punto che Berlusconi ha inferto le peggiori ferite alla convivenza e alla democrazia, al sentimento comune e ai diritti di tutti. Mi piacerebbe che al primo punto di un programma comune ci fosse questo impegno: e l’elenco preciso delle piante velenose da sradicare e di quelle virtuose da piantare al loro posto. Mi rendo conto che è una questione delicata. La linea perversa di Berlusconi e dei suoi accoliti è cominciata negli anni di Craxi, e il suo prodromo si chiama Tangentopoli: quel male non è stato sradicato, e solo dal suo sradicamento passa la possibilità di costruire una reale alternativa di governo.

Da questo primo punto molti altri ne nascono. Ripristinare la legalità comporta anche ripristinare i diritti: quegli degli uomini di oggi, della loro salute, del lavoro, della formazione. Ma anche quelli degli uomini di domani: quindi, l’obiettivo dell’impiego virtuoso delle risorse e dell’esercizio, a questo proposito, della virtù della parsimonia.. Sarebbe bello, e anche utile, riprendere alcune intuizioni lasciate cadere frettolosamente: da quella dell’austerità a quella della “riconversione ecologica dell’economia. È su questo terreno (oltre che su quello della pace e dell’affermazione di un’idea non imperialistica del rapporto tra le culture diverse) che si gioca il futuro del mondo: come, con quali profonde innovazioni nelle scienze dell’uomo e in quelle delle cose, è possibile operare perché i limiti del nostro pianeta non diventino fonti di sperequazioni, di drammi e infine di catastrofi, ma suggeriscano nuove strade allo sviluppo dell’uomo e del suo bisogno?

Molti, anche fuori dai nostri confini, vedrebbero come un segnale importante che dall’Italia, dal paese che ha avuto la più alta percentuale di votanti alle elezioni europee, la discussione sul governo da costruire dopo Berlusconi si aprisse con un respiro universale. E credo che anche le nuove generazioni si entusiasmerebbero più a questi temi che a quelli che la cronaca politica squaderna ai loro occhi.

A me, come urbanista, mi farebbe piacere, e mi sembrerebbe giusto, anche per un altro motivo. Affrontare la questione di un impiego ragionevole e durevole delle risorse porterebbe in primo piano il tema del governo del territorio e delle sue trasformazioni, della tutela delle ricchezze in esso depositate dalla natura e dalla storia, della pianificazione come strumento indispensabile per portare a sintesi le differenti esigenze che si manifestano nell’uso del suolo. È un tema che da troppo tempo è scomparso dall’attenzione delle forze politiche (e degli stessi mass media), con grave danno per il futuro del paese e per le esigenze attuali delle cittadine e dei cittadini.

Eddytoriale 47, 7 giugno 2004

Un voto in prestito

È una questione di cultura, innanzitutto. I paesaggi campani sono tra i più antichi e nobili del mondo: basta pensare ai terrazzamenti della costiera amalfitana e di quella sorrentina; basta pensare ai feracissimi terreni della piana tra Napoli e Caserta, resi tra i più fertili del mondo dalle millenarie ceneri vesuviane. Basta pensare ai Campi Flegrei, straordinari per l’intreccio di rarità geotermiche e lasciti greci e romani.

È una questione di sicurezza per le vite e le risorse umane. Desta orrore leggere che sulle pendici a rischio del Vesuvio, nella “zona rossa”, si concede ancora di costruire (si veda il Corriere della sera del 25 ottobre, che denuncia: “Ai piedi del Vesuvio ogni giorno si scoprono nuovi cantieri. Nei paesi della zona rossa, quelli a più alto rischio in caso di ripresa dell’attività eruttiva del vulcano, si continua a costruire. E non abusivamente, ma con tanto di licenza edilizia”). E com’è possibile che si debba oggi ancora temere ad ogni pioggia per i paesi e i paesani nella piana del Sarno?

Ed è infine una questione delle risorse economiche offerte da un’agricoltura pregiata. Il valore (anche economico) delle uve e dei limoni, degli ortaggi e dell’olio, delle albicocche e delle cerase, dovrà scomparire per il proliferare di case, casarelle, capannoni e capannoncini, così come sono scomparsi dalla Piana del Sarno i famosi Sammarzano cacciati dai veleni industriali e da quelli degli additivi chimici? Proprio oggi, che le produzioni agricole di qualità (e di nicchia) cominciano a essere fruttuosamente commercializzate e trovano accoglienti mercati nel mondo?

La Campania ha tre importanti scadenze, e tre possibili strumenti, in questa settimane. Quello che richiede un intervento più urgente è il Piano territoriale provinciale di Napoli. Ha preoccupato molto l’affermazione dell’assessore all’urbanistica, secondo il quale il piano tutelerebbe 30mila ettari di aree a produzione agricole: meno del 30% della superficie territoriale, contro il 45% attuale (e l’80% del 1960). Come preoccupano le norme che affidano al completamento urbanistico i 15mila ettari denominati “aree di frangia”: aree che comprendono le terre murate, gli aranceti e gli arboreti promiscui della penisola sorrentina, porzioni significative dei versanti collinari flegrei, con gli orti arborati ad elevata complessità strutturale dei ciglionamenti medievali, e infine quote cospicue degli orti arborati ed albicoccheti del pedemonte Vesuviano. Si è nella fase delle osservazioni: si può correggerlo

La regione sta predisponendo due atti: il piano territoriale, e la legge urbanistica regionale. Potrebbero essere strumenti utilissimi, se mettessero dei paletti seri all’occupazione edilizia dei territori aperti. Se il primo non fosse una mera descrizione della realtà e l’indicazione di “direttrici strategiche”. Se la legge non fosse tutta di procedure volte a razionalizzare il trend, ma ponesse alcune coraggiose scelte di merito.

Per esempio, se stabilisse che “nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente”. Che “le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali”. Che “nuovi impegni del suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti quando non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e infrastrutture esistenti”. Che il territorio agricolo non vale solo per la generica funzione produttiva, ma anche per il suo valore e la sua utilità“storico-culturale, estetico-percettiva e paesaggistica, di mantenimento dei cicli idrologici e biogeochimici e di riproduzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo)”, e per la sua idoneità a costituire delle “cinture verdi per l’attenuazione degli impatti locali e globali dei sistemi urbani, di risorsa per lo svago e la vita all’aria aperta”. Che alla pianificazione provinciale spetta, tra l’altro, “di evitare ingiustificati consumi di suolo e di tutelare l’integrità funzionale e strutturale dei sistemi ecologico-naturalistici, agro-forestali, paesaggistici e storico-culturali”. Che il piano comunale ” garantisce l’integrità strutturale e funzionale del territorio agricolo, forestale e naturale”. Che, a tal fine, “il piano comunale determina come invariante strutturale la linea che separa il territorio urbano da quello aperto”, e stabilisce che in quest’ultimo “è vietata qualunque trasformazione che non sia finalizzata agli usi specifici del territorio rurale stabiliti dalla legge regionale”.

Una legge urbanistica che ponesse questi paletti sarebbe una legge utile. Un piano regionale che avesse alla sua base questi principi, sarebbe un documento condivisibile. Un piano territoriale provinciale che fosse emendato in questa direzione, sarebbe adeguato alle esigenze del futuro.


Paesaggi della Campania, dai Sistemi di terra di Antonio Di Gennaro, dal sito di Risorsa

Renato Guttuso (26 dicembre 1911 - 18 gennaio 1987)

Pubblichiamo il discorso pronunciato da in occasione della consegna del XVII Premi Internacional Catalunya 2005

Con il passare degli anni, ogni giorno di più provo la sensazione di usurpare il tempo che mi resta da vivere e penso che nulla più giustifichi il posto che io occupo ancora su questa Terra. Pertanto la vostra decisione costituisce una preziosa consolazione, mi garantisce che vi sono sempre presente e che tutto ciò che ho prodotto negli ultimi tre quarti di secolo non è già sorpassato. Vi esprimo pertanto tutta la mia gratitudine.

Sono trascorsi pochi mesi da quando abbiamo saputo dalla stampa che per iniziativa della Generalitat de Catalunya a Barcellona è nata un’Euroregione Pirenei-Mediterraneo, una vasta contrada di frontiera a cavallo tra due regioni, alla quale occorre aggiungere i due paesi Baschi e dove si può riconoscere, ingrandita, l’antica Marche de Gothie (marca gotica) risalente ai tempi carolingi, il cui capoluogo, non dimentichiamolo, era appunto Barcellona.

Ho conosciuto un’epoca in cui l’identità nazionale era l’unico principio concepibile cui si ispiravano le relazioni tra gli Stati, ma sappiamo bene quali guai ne siano derivati. Così come voi l’avete concepita, l’euroregione crea tra i paesi nuove relazioni che superano le frontiere e controbilanciano le antiche rivalità per mezzo di legami concreti che prevalgono in scala locale sui piani economici e culturali. Che il vostro premio mi sia consegnato a Parigi, per un’eccezione dovuta alle prerogative dell’età e di cui vi ringrazio, è un modo in più per sottolineare questo avvicinamento tra gli Stati, per superare i confini dei quali è stata creata l’euroregione come quella tra Catalogna, i paesi ad essa vicini e la Francia meridionale.

Personalmente, avverto il riallacciarsi di questi legami con la Catalogna in modo alquanto intimo, essendo partecipe di una corrente di pensiero alla quale nel corso del XX secolo si è dato il nome di strutturalismo, ma contrariamente a ciò che si è abituati a credere non si tratta affatto di un’invenzione moderna. Già nel corso del XIII-XIV secolo era già apparsa, quanto meno a grandi linee, nel grande intellettuale catalano il cui nome in francese si pronuncia Raymond Lulle. Il mondo è naturalmente percepito come caos. Per ovviare a ciò, i predecessori di Lulle avevano ordinato per gradi gli aspetti del reale, in funzione delle loro più o meno grandi somiglianze. Al contrario, Lulle partì invece dalla differenza, opponendo i termini estremi e facendo scaturire tra loro delle mediazioni. Egli concepì altresì un sistema logico molto originale che permetteva, per mezzo di operazioni ricorrenti, di catalogare tutte le relazioni possibili tra i concetti e gli esseri e mise dunque il concetto di rapporto alla base del meccanismo del pensiero.

Dall’arte combinatoria da lui inventata, nel corso dei secoli Nicolas de Cues, Charles de Bovelles, Leibniz e in seguito la linguistica strutturale e l’antropologia trassero validi insegnamenti.

E in considerazione del legame con il movimento di idee al quale faccio riferimento che, se voi lo permettete, io metterei sotto gli auspici di Raymond Lulle l’onore che ricevo oggi. (Del resto come Dante per il toscano e il maestro Eckart per il tedesco, Lulle non fu forse il padre della vostra lingua letteraria?).

Poiché sono nato all’inizio del XX secolo e in considerazione del fatto che fino alla sua fine ne sono stato uno dei testimoni, mi viene spesso chiesto di pronunciarmi su di esso. Sarebbe sconveniente che io mi elevassi a giudice degli avvenimenti tragici che l’hanno contrassegnato: ciò spetta a coloro che li vissero in modo doloroso, mentre io sono stato fortunato a più riprese, anche se l’intera mia carriera ne è stata fortemente influenzata.

L’etnologia - in merito alla quale ci si può domandare se sia prima di tutto una scienza o un’arte (ma può anche darsi che sia entrambe le cose) - affonda le sue radici in parte in un’epoca antica e in parte in un’altra, recente.

Alla fine del Medioevo e nel Rinascimento, quando gli uomini riscoprirono l’antichità greco-romana, quando i gesuiti fecero del greco e del latino il presupposto stesso del loro insegnamento, non praticarono forse una forma primigenia di etnologia? Fu allora che si ammise che nessuna civiltà è in grado di analizzarsi se non dispone di qualche altra civiltà che serva da termine di paragone.

Il Rinascimento trovò nella letteratura antica il modo di mettere in prospettiva la propria cultura, mettendo a confronto i concetti contemporanei con quelli di altri tempi e di altri luoghi. La sola differenza tra la cultura classica e la cultura etnografica è dovuta all’estensione del mondo conosciuto nelle rispettive epoche: all’inizio del Rinascimento, l’universo umano era delimitato dai confini del bacino del Mediterraneo. Di tutto il resto si congetturava soltanto l’esistenza, ma si sapeva già che nessuna frazione di umanità poteva aspirare a capirsi se non ponendosi in rapporto con tutte le altre.

Nel corso del XVIII e del XIX secolo, l’umanesimo si diffonde dunque grazie agli sviluppi dell’esplorazione geografica. Nelle carte geografiche sono incluse Cina e India. La nostra terminologia universitaria, che designa il loro studio sotto il nome di filologia non classica, con la sua incapacità a creare un termine originale ammette di fatto che si tratta del medesimo movimento umanista che si estende a un territorio nuovo. Interessandosi poi alle ultime civiltà ancora snobbate - le società dette primitive - l’etnologia fece percorrere all’umanesimo la sua terza tappa.

Essendo scomparse le civiltà antiche, non ci si poteva spingere fino ad esse se non attraverso i testi e le tendenze di pensiero. Quanto all’Oriente e all’Estremo Oriente, dove tale difficoltà non sussisteva, il metodo rimase immutato, perché si credeva che civiltà così lontane non meritassero attenzione se non per le loro produzioni più dotte e più raffinate.

Le modalità conoscitive dell’etnologia sono al contempo più esteriori e più interiori (si potrebbe dire più grezze e più fini) di quelle dei suoi precursori. Per penetrare in società dall’accesso particolarmente difficile, l’etnologia è obbligata a collocarsi molto al di fuori (antropologia fisica, preistoria, tecnologia) e altresì molto dentro, tramite l’identificazione da parte dell’etnologo del gruppo con il quale condivide l’esistenza e dando estrema importanza alle più piccole sfumature della vita spirituale degli indigeni.

Sempre al di qua e al di là dell’umanesimo tradizionale, l’etnologia gli va oltre, in tutti i sensi.

Il suo campo d’azione include la totalità delle terre abitate, mentre il suo metodo mette insieme procedimenti derivanti da tutte le forme del sapere, le scienze umane e le scienze naturali.

Ma la nascita dell’etnologia procede altresì da considerazioni più tardive e di altro ordine. E nel corso del XVIII secolo che l’Occidente ha acquisito la convinzione che l’estensione progressiva della propria civiltà era ineluttabile e che avrebbe minacciato l’esistenza di migliaia di società più umili e fragili le cui lingue, credenze, arti e istituzioni erano tuttavia testimonianze insostituibili della ricchezza e della diversità delle creature umane. Se si nutriva la speranza di poter conoscere un giorno che cosa è l’uomo, era importante finché si era ancora in tempo riunire tutte queste realtà culturali totalmente estranee agli apporti e alle imposizioni dell’Occidente, compito tanto più pressante in quanto queste società senza scrittura non fornivano alcun documento scritto né, per la maggior parte, documentazioni figurative.

Ebbene, prima ancora che tale missione sia sufficientemente portata avanti, tutto ciò è in procinto di scomparire o, per lo meno, di cambiare radicalmente. I piccoli popoli che noi definiamo indigeni ricevono ora tutte le attenzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e, allorché sono invitati alle riunioni internazionali, ciascuno di essi prende coscienza dell’esistenza dell’altro. Gli indiani americani, i maori della Nuova Zelanda, gli aborigeni australiani scoprono di aver sperimentato destini assai simili e di possedere interessi comuni. Al di là dei particolarismi che conferiscono a ciascuna cultura la propria specificità, si va delineando una coscienza collettiva. Al tempo stesso ciascuna di queste culture si impregna dei metodi, delle tecniche e dei valori dell’Occidente. Senza alcun dubbio questa uniformazione non sarà mai portata a termine. Altre differenze vanno progressivamente emergendo, offrendo nuovo materiale alla ricerca etnologica. Ma in un’umanità diventata compartecipe, queste differenze saranno di altra natura: non più esterne alla civiltà occidentale, bensì interne alle forme ibride di essa, ed estese a tutta la Terra.

Questo cambiamento di rapporti tra le varie componenti della famiglia umana sviluppata in modo diseguale, da un’angolazione tecnica è la conseguenza di uno sconvolgimento più profondo. Poiché nel corso dell’ultimo secolo ho assistito a questa catastrofe senza eguali nella storia dell’umanità, mi si permetterà di evocarla su un piano personale. Alla mia nascita la popolazione della Terra contava un miliardo e mezzo di abitanti. Quando entrai nella vita attiva, verso il 1930, gli abitanti della Terra erano già arrivati a due miliardi. Oggi sono sei miliardi e se dobbiamo credere alle previsioni dei demografi tra qualche decennio si arriverà a nove miliardi.

Gli esperti ci dicono che quest’ultima cifra rappresenterà il punto più alto e che in seguito la popolazione declinerà così rapidamente - aggiungono altri - che nel volgere di qualche secolo graverà una minaccia sulla sopravvivenza della nostra specie. Ad ogni buon conto essa avrà già esercitato gravi danni sulla diversità, non soltanto culturale, ma altresì biologica, facendo scomparire molte specie animali e vegetali.

Il responsabile di queste estinzioni è senza alcun dubbio l’uomo, ma le loro ripercussioni si ritorcono contro di lui. Non esiste alcuna grande calamità contemporanea, probabilmente, che non abbia la propria origine diretta o indiretta nella difficoltà crescente di vivere insieme, inconsciamente avvertita da un’umanità in preda all’esplosione demografica e che - al pari di quei bachi della farina che si intossicano a distanza nel sacco che li rinchiude, ben prima che cominci a mancare loro il cibo - si metterebbe a odiarsi da sola, perché una prescienza misteriosa l’avverte che sta diventando troppo numerosa perché ciascuno dei suoi membri possa liberamente gioire dei suoi beni essenziali, che sono lo spazio aperto, l’acqua pura e l’aria incontaminata.

E così la sola chance offerta all’umanità sarebbe quella di riconoscere di essere diventata vittima di se stessa. Tale condizione la mette su un piano di eguaglianza con qualsiasi altra forma di vita che essa si è adoperata e continua ad adoperarsi a distruggere.

Tuttavia, se l’uomo possiede prima di tutto dei diritti in quanto essere vivente, ne risulta che tali diritti, riconosciuti all’umanità in quanto specie, trovano i loro limiti naturali nei diritti delle altre specie. I diritti dell’umanità cessano di esistere nel momento stesso in cui esercitarli mette a repentaglio l’esistenza di altre specie.

Il diritto alla vita e al libero sviluppo delle specie viventi ancora rappresentate sulla Terra può soltanto definirsi imprescrittibile, per la ragione molto semplice che la scomparsa di una specie qualsiasi scava un buco, irreparabile, a scala umana, nel sistema della creazione.

Soltanto questo modo di considerare l’uomo potrebbe raccogliere l’assenso di tutte le civiltà. La nostra prima di tutto, perché il concetto che vi ho appena illustrato è lo stesso dei giureconsulti romani, intrisi di influenze stoiche, che definirono la legge naturale come l’insieme di rapporti generali fissati dalla natura tra tutti gli esseri viventi per la loro comune conservazione; quello altresì delle grandi civiltà orientali e dell’Estremo Oriente, ispirate dall’induismo e dal buddismo; quello, infine, dei popoli cosiddetti sottosviluppati e persino dei più umili tra loro, ovvero le società prive di scrittura che gli etnologi studiano. Grazie a sagge usanze, che avremmo torto a relegare al rango di superstizioni, esse evitano la distruzione da parte dell’uomo delle altre specie viventi, imponendogliene il rispetto morale, associato a regole molto severe per garantirne la conservazione. Per quanto queste ultime società siano assai differenti le une dalle altre, esse concordano nel fare dell’uomo un soggetto ricevente e non un maestro della creazione.

Questa è la lezione che l’etnologia ha appreso da esse, e auguriamoci che al momento di unirsi al concerto delle nazioni queste società la mantengano integra e che, grazie al loro esempio, noi si sappia esserne ispirati.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Per inquadrare il potenziale ruolo innovativo degli usi civici nella riqualificazione dei territori rurali, introduco una definizione generale di “territorio” come ilbene comune per eccellenza. Il territorio è il prodotto di lunga durata di processi di civilizzazione e di domesticazione della natura che si sono susseguiti nel tempo trasformando il medesimo ambiente fisico in un evento culturale (il paesaggio urbano e rurale) attraverso relazioni coevolutive fra insediamento antropico e ambiente. Quando si parla di sostenibilità come insieme di risorse da trasmettere alle generazioni future, parliamo innanzitutto del patrimonio territoriale che ereditiamo da millenni di processi di territorializzazione. In Toscana l’impianto infrastrutturale che utilizziamo è principalmente etrusco e romano, il paesaggio che viviamo è quello del fitto reticolo di città medio-piccole medievali e rinascimentali, il paesaggio agrario storico che ammiriamo è quello mediceo-lorenese.

Questa immensa opera d’arte vivente (prodotta e mantenuta nel tempo dalle “genti vive”, come le ha nominate Lucio Gambi), il territorio appunto, deve essere considerato bene comune in quanto esso costituisce l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana e al realizzarsi delle relazioni socio-culturali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, un valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo, finalizzato alla competizione sul mercato globale.

Mettere al centro delle politiche pubbliche il bene comune “territorio” consente di perseguire la dimensione qualitativa, non solo quantitativa, dei singoli beni che lo compongono: acqua, suolo, città, infrastrutture, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici e cosi via. La soluzione delle più importanti crisi ecologiche – ecosistemi, energia, salute, clima, alimentazione, relazioni città-campagna, impronta ecologica– passa attraverso la difesa e la valorizzazione dei caratteri peculiari di ogni luogo, nelle sue componenti urbane, naturali e agroforestali, perché è nella specifica modalità di interrelazione di queste tre componenti che si fonda in ogni luogo la forma puntuale della riproduzione della vita umana materiale e sociale.

L'insieme dei beni comuni che connotano ogni luogo e la sua specifica identità, dovrebbe costituire il nucleo fondativo, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” di ciascun luogo e dei diritti dei cittadini rispetto ai singoli beni che lo costituiscono.

I piani che regolano le trasformazioni del territorio, a tutte le scale, dovrebbero pertanto essere preceduti e coerenti con un corpus statutario socialmente condiviso che definisce, con riferimento a un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i caratteri identitari dei luoghi, i loro valori patrimoniali, i beni comuni non negoziabili, le regole di trasformazione che consentano la riproduzione e la valorizzazione durevole dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici.

Ma quali elementi del territorio possono iniziare un percorso di reidentificazione collettiva come beni comuni, non privatizzabili e non alienabili? Molti sono gli elementi in via di privatizzazione e sottrazione alla fruizione e alla gestione collettiva: le riviere marine, lacustri e fluviali, molti paesaggi agroforestali recintati, molti spazi pubblici urbani (sostituiti da supermercati e mall), gli spazi aperti interclusi della città diffusa, delle villettopoli e della disseminazione dei capannoni industriali, le gated communities e le città blindate, i paesaggi degradati e anomici delle periferie urbane, la ricca rete della viabilità storica (sostituita dai paesaggi semplificati delle autostrade e superstrade) e cosi via.

In questo quadro di processi di deterritorializzazione, va sottolineato il potenziale ruolo innovativo che possono assumere gli spazi aperti agroforestalinella produzione di beni e servizi pubblici per la riqualificazione della qualità dell’abitare il territorio e la città. Ruolo che può richiamare, con forme e attori sociali nuovi, le complesse e integrate funzioni storiche di governo pubblico dei beni comuni (nella classificazione estensiva richiamata da Giovanna Ricoveri[1]), dei beni demaniali e di uso civico come classificati più specificamente, ad esempio da Pietro Nervi[2]: Inoltre diviene fondamentale il ruolo degli spazi agroforestali nella rideterminazione di equilibri sinergici fra città e territorio, e nell’elevamento del benessere delle città (l’agricoltura periurbana, i parchi agricoli multifunzionali, ecc).

Molte di queste funzioni di produzione di beni e servizi pubblici si fondano potenzialmente su microimprese a valenza etica (in campo ambientale, agricolo e sociale), in grado di riappropriarsi di saperi produttivi, artigiani, ambientali, artistici per la cura del territorio.

E’compito dei municipi, delle province e delle regioni[3], favorire l’insediamento di questi attori negli spazi agroforestali agevolandone le attività produttive, le forme associative, (contro il dominio esogeno della grande industria agroalimentare), promuovendo forme sperimentali di ripopolamento rurale nelle quali le attività di produzione di “ beni comuni” siano riconosciute per agevolare il ritorno dei giovani (incentivi per il recupero e la riqualificazione dell’edilizia rurale, dei piccoli centri urbani e delle infrastrutture storiche come i terrazzamenti, le piantate, i fossi, i canali; remunerazione delle attività di cura ambientale e del paesaggio; servizi tecnici alle aziende; agenzie locali di sviluppo; promozione di forme associative e cooperative; promozione del microcredito, tutela degli interessi dei titolari dei diritti di uso civico, ecc).

In queste linee di rinnovamento delle politiche municipali sugli spazi agroforestali, i beni demaniali e gli usi civici residui, invertendo la deriva in atto dell’alienazione e della privatizzazione[4], potrebbero essere valorizzati, in questo contesto più generale, come laboratori sperimentali per forme collettive di ripopolamento rurale; il tema della proprietà collettiva degli usi civici si potrebbe trasferire in forme associate e pattizie fra enti pubblici e produttori/abitanti per la gestione delle terre.

L’azione di ripopolamento con queste caratteristiche di uso sperimentale degli usi civici e dei beni demaniali potrebbe avere l’obiettivo di ricostrurire comunità locali consapevoli dei beni comuni e forme comunitarie per la loro cura e gestione, attivando sinergicamente funzioni produttive, energetiche, paesistiche, economiche, e di elevamento di qualità della vita delle città, rivalutando il ruolo degli agricoltori quali fornitori di beni e servizi pubblici.

In questa prospettiva che, a partire dai laboratori sperimentali dei territori gravati da usi civici, dovrebbe riconsiderare il ruolo generale degli spazi agroforestali, non è più sufficiente considerare il territorio non edificato come bene pubblico (che lo stato, le regioni e gli enti locali possono vendere per far cassa, come sta avvenendo per molti beni demaniali); occorre che sia considerato come un bene comune, che non può essere venduto né essere usucapito, alla stregua delle terre civiche storiche. Occorre pertanto ricostruire la geografia delle terre civiche e di quelle comunitarie, da usare come laboratorio di un modello di sviluppo locale alternativo, ecologicamente sostenibile.

Attivando queste politiche è possibile superare la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del territorio e dei suoi beni patrimoniali, reintroducendo il concetto “terzo” di uso comune di molte componenti territoriali: innanzitutto riconoscendone il valore di bene (o fondo) comune dotato di autonomia rispetto ai beni privati e pubblici; e individuando forme di gestione attraverso processi partecipativi di cittadinanza attiva che consentano di riprendere il senso (non necessariamente la forma storica[5]) degli usi civici: la finalità non di profitto ma di produzione di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e, più in generale, beni e servizi di utilità pubblica generale; la comunità costituita da una pluralità di abitanti/produttori di una collettività territoriale, che in qualche modo si associano per esercitare un uso collettivo dei beni patrimoniali della società locale; questo uso, essendo collettivo, conforma le attività di ogni attore allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio, la salvaguardia e valorizzazione ambientale, paesistica, economica del patrimonio stesso in forme durevoli e sostenibili (autoriproducibilità della risorsa), sviluppando forme di autogoverno responsabile delle comunità locali.

Il problema principale di questa prospettata inversione di tendenza è infatti che non si può dare una gestione del territorio come bene comune se esso è gestito da una sommatoria di interessi individuali in una società individualistica di consumatori[6]. E’ necessario dunque che esistano forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un luogo, ovvero che sia agevolato un cambiamento politico-culturale (che ho denominato coscienza di luogo [7]) attraverso processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali , solidali e comunitarie[8].

La coscienza di luogo si sviluppa anche come attivazione (e riattivazione) di saperi per la cura del luogo: conoscenza densa e profonda dei valori patrimoniali dal punto di vista ambientale, estetico, culturale, economico; capacità di distinguere le trasformazioni coerenti con la loro tutela e valorizzazione da quelle distruttive; capacità di attivare saperi e tecniche per la loro trasformazione (riappropriazione di saperi ambientali, territoriali, produttivi, artistici, comunicativi, relazionali)

L’introduzione di questo terzo attore comunitario (attraverso la proprietà collettiva di beni comuni) nella gestione e governo del territorio, favorirebbe una trasformazione politica generale, nel senso di contenere i processi di privatizzazione e mercificazione di beni comuni e di riattribuire all’ente pubblico territoriale il ruolo di salvaguardia dei beni stessi e della valorizzazione del patrimonio civico; favorirebbe inoltre la ricostituzione di momenti comunitari di gestione delle risorse favorendo la crescita di economie solidali nel campo alimentare, ambientale, paesistico, turistico, artigianale, culturale, formativo

[1] “una prima categoria include l’acqua, la terra , l’aria, le foreste e la pesca e cioè i beni di sussistenza da cui dipende la vita….saperi locali, spazi pubblici, biodoversità;…spazi di autorganizzazione delle comunità locali; una seconda categoria comprende i beni comuni globali come l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace… su cui non esistono diritti comunitari territoriali; una terza categoria è quella dei servizi pubblici: acqua, scuola, sanità, trasporti…”

G. Ricoveri, “Il passato che non passa” in: G. Ricoveri, Beni comuni fra tradizione e futuro,EMI, Bologna 2005

[2] a) produzione di beni: forestali legnosi e non legnosi, pascoli, frutti, selvaggina, prodotti dl sottobosco, qualità e tipicità alimentare, risorse del sottosuolo; reti corte di produzione e consumo, produzione energetica locale; b) produzione di servizi naturali finali: salvaguardia idrogeologica e valorizzazione dei sistemi fluviali, produzione di equilibri ambientali, conservazione della biodiversità, fruizione escursionistica, caccia e pesca, funzioni culturali (informazioni ecomuseali), funzioni estetico-paesaggistiche ; c) base territoriale di risorse naturali e antropiche trasmissibile alle generazioni future: il carattere intergenerazionale del demanio e degli usi civici ne determinano il carattere “costituzionale” di autosostenibilità nella riproduzione temporale delle risorse. In: Pietro Nervi, “La gestione patrimoniale dei demani civici fra tradizione e modernità” in G. Soccio (a cura di), Terre collettive ed usi civici , Edizioni del Parco del Gargano, Foggia 2003

[3]“In questo spirito, invitiamo gli Enti Locali (Comuni, Province e Regioni) a salvaguardare e difendere gli usi civici presenti nel loro territorio, garantendone in primo luogo l’inalienabilità e la proprietà collettiva, contro il moltiplicarsi degli abusi e delle usurpazioni di interesse esclusivamente privato che oggi vi allignano e, d’intesa con i legittimi proprietari e le comunità locali, a favorire e promuovere forme innovative di gestione associata e cooperativa di questo patrimonio ai fini della salvaguardia e valorizzazione ambientale ed ecologica del territorio” (appello contro la privatizzazione degli usi civici promosso dall’associazione Ecologia Politica, 1995)

[4] “La Regione Toscana ha proceduto alla messa in vendita del patrimonio agricolo e forestale, attraverso la legge 9 del 29 gennaio 1997. Dopo avere reso disponibile ciò che fino a qualche anno prima faceva parte del demanio pubblico, gli enti locali hanno fatto un inventario dei loro beni individuando quelli suscettibili di vendita. La cultura della privatizzazione risulta ben evidente dal titolo stesso della legge dove si parla di “valorizzazione ed alienazione”: non può esistere valorizzazione senza appropriazione da parte di soggetti privati. Con questo orizzonte culturale, la legge ha permesso la vendita, in due successivi bandi, di circa 345 beni, comprati in parte dai concessionari (40%) e da soggetti stranieri (5%)”.

Riccardo Bocci, La privatizzazione delle terre pubbliche in Toscana , Relazione al Seminario:”Terra e usi civici in Italia”,Ecologiapolitica. Ricerche per l’Alternativa, in collaborazione con la Rete del Nuovo Municipio, Terra Futura, Firenze l’8 aprile 2005.

[5] ..”le comunità titolari dei diritti civici non esistono più, talora fisicamente – perché i vecchi contadini sono morti o sono emigrati lontano, in città – talora culturalmente – perché non sanno e non sono interessati a sapere dei diritti che pur potrebbero esercitare. La proposta che Ecologiapolitica avanza in proposito è quella di mantenere ferma la destinazione d’uso e il vincolo di incommerciabilità dei demani civici e insieme di iniziare a ricostituire le comunità proprietarie, associando in tutte le forme possibili i soggetti che vi hanno titolo – affidando per esempio la coltivazione delle terre e la manutenzione dei boschi a cooperative concessionarie, garantendo loro tutti i finanziamenti reperibili ed i servizi minimali: la casa, mediante l'acquisizione e il restauro degli abitati abbandonati; le strade, che vanno di regola risistemate e non solo per le gite domenicali; le scuole, che vanno riattivate, ecc., in modo che su queste terre si possa condurre una vita civile, traendone reddito ed assicurando nel contempo una gestione conservativa dell'ambiente”. In: G. Ricoveri, relazione al seminario Terra e usi civici in Italia, seminario Terra Futura cit.

[6] “fondamentali sarebbero, ove venisse attuato il ruolo della pianificazione paesistica, la tutela e la valorizzazione della proprietà collettiva….sono proprio le terre collettive a evidenziare che nessun funzionamento, normativa, azione di controllo, riuscirebbero a gestire correttamente l’uso sociale del territorio in assenza di consapevolezza da parte dei residenti e quindi di impegno da parte delle amministrazioni comunali” Pietro Federico, “Usi civici e ambiente” in Serafina Bueti (a cura di ) Usi civici, Grosseto, 1995

[7] vedasi il mio: Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000

[8] Il processo partecipativo deve consentire di avviare processi di trasformazione di produttori alienati e atomizzati, consumatori passivi, appendici della democrazia televisiva, in cittadinanza attiva in grado di associarsi per la gestione e la produzione dei beni comuni, di decidere sul futuro delle città, di ricomporre le figure di produttore, abitante e consumatore ricostruendo identità comunitarie e relazioni sociali capaci di autogoverno e di pensare collettivamente futuro e di praticarlo.

L’homo civicus si da in una società civile che si associa e si occupa, attraverso un patto fra individui, gruppi, rappresentanze di interessi, della cosa pubblica.

Dal sito www.parchivimercatese.it, dell'Associazione per i Parchi del Vimercatese, a commento dell'appello di eddyburg contro l'emendamento parcofago

Da "La pietà", 1927, in Sentimento del tempo

Titolo originale Beneficial effects of zoning plan - Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Il programma delineato dalla Commissione per le altezze degli edifici e lo zoning ha ricevuto il consenso di chiunque vedesse i propri interessi toccati dalla zonizzazione e l’approvazione è stata data proprio a causa di un interesse personale.

Vorrei fare alcune considerazioni positive sul piano, sotto più punti di vista, perché credo ne trarranno largo beneficio non solo quei quartieri in cui vengono impedite le cosiddette “attività indesiderate” ma anche quelle zone in cui tali usi saranno consentiti. La Commissione per lo zoning ha fatto anche un ottimo lavoro delimitando quei quartieri in cui la manifattura può essere consentita o meno.

Un grave danno è stato arrecato in passato non tanto dalla costruzione di fabbriche in certi quartieri quanto dai continui cambi di localizzazione di tutti i tipi di attività commerciali. E infatti il piano di zonizzazione dice che “ sarà consentita l’espansione commerciale nei quartieri in cui quest’uso è già presente, ma dovrà rimanere entro questi quartieri e dovrà cessare la sua costante delocalizzazione”. Il piano per “ salvare la Fifth Avenue” è un semplice aspetto, anche se interessante, di un’idea più complessa.

A questo punto, quale sarà l’effetto sul mercato immobiliare di Manhattan? La mia personale opinione, basata su venticinque anni di esperienza, è che alla fine gli affitti e i valori di mercato si ri-stabilizzeranno in tutte le zone commerciali.

Credo che nei vecchi quartieri, dalla Trentatreesima Strada fino a Chambers Street, i valori aumenteranno gradualmente fino a riallinearsi a quelli vigenti prima che le attività commerciali si trasferissero verso nord. I quartieri di più recente costruzione, dalla Trentatreesima strada fino alla Cinquantanovesima, aumenteranno il loro valore più rapidamente di quanto sia avvenuto in passato e, una volta stabilizzati, i valori immobiliari di entrambi i quartieri si manterranno costanti nel tempo.

Il piano di zonizzazione è la soluzione di uno dei più grossi problemi che New York abbia mai affrontato in molti anni. Tutti sanno che i valori immobiliari si abbassano da Chambers Street verso la Trentatreesima strada, con l’eccezione della Fourth Avenue, proprio a causa del continuo spostamento dei centri di attività commerciale. Nella zona di Broadway, da Chambers Street fino alla Quarantesima strada, i valori sono crollati dappertutto, con percentuali che variano tra il 40 e il 70 per cento.

L’area tra la Quattordicesima e la Trentesima Strada, anche se non nelle stessa misura, ha perso abbastanza valore da bloccare qualsiasi investimento e da provocare un mancato introito per la città di milioni di dollari.

”Salviamo New York”, lo slogan dei commercianti della Fifth Avenue, non viene vale soltanto per quell’area. Il piano di zonizzazione salverà l’intera New York, perché recupererà tutte quelle grandi aree a sud della Trentatreesima Strada, oggi a rischio per il costante spostamento dei centri di attività commerciale.

Il piano di zonizzazione prevede, logicamente, per questi vecchi quartieri una destinazione d’uso commerciale, dato che già oggi gli scambi e la produzione tendono a concentrarsi qui.

Il ritorno dei commerciati in quei quartieri che sono stati migliorati apposta per loro, tra la Quattordicesima e la Ventitreesima strada, significa che gli spazi oggi sfitti verranno presto riutilizzati. Gli affitti, così, aumenteranno e i valori immobiliari di conseguenza ricominceranno a salire.

Con l’aumento della domanda, si costruiranno nuovi edifici e ci saranno strutture progettate appositamente per l’uso previsto, dalle quali si trarrà il maggior guadagno possibile. In questi quartieri è previsto di limitare la manifattura in certe zone lungo Broadway, Fifth Avenue e Madison Avenue e lungo tutta la Fourth Avenue.

Credo che la zona tra la Quattordicesima e la Trentatreesima strada, lì dove la manifattura sarà consentita dal piano di zonizzazione, diventerà zona di rifornimento per la grande area di commercio al dettaglio subito a nord e sarà il mercato di riferimento per la vendita al dettaglio in tutto il paese. Sarà, consentitemi l’espressione, il quartiere manifatturiero di classe di New York.

Ci sarà competizione per accaparrarsi gli edifici meglio posizionati e, poichè l’area è decisamente limitata, non ci sono dubbi sul fatto che i valori aumenteranno con regolarità.

La riqualificazione del quartiere a sud della quattordicesima strada è già nei fatti. Le cronache delle ultime settimane hanno registrato l’intenzione di molti grossi proprietari di valorizzare i loro terreni con edifici dotati di moderne strutture antincendio per destinarli alla manifattura leggera.

La parte bassa della zona commerciale deve praticamente essere ricostruita, dato che gli edifici esistenti sono completamente inadeguati e non rispondono ai severi requisiti richiesti per la sicurezza richiesti dai vari dipartimenti. E dato che i valori dei terreni in questa zona sono più bassi che altrove i margini di guadagno per costruire sono sicuramente più alti.

Oltre al piano di zonizzazione, la nuova metropolitana di Broadway riuscirà senza dubbio a riportare la produzione in quest’area. Dichiarazioni ufficiali del Dipartimento delle Finanze dicono che l’anno scorso i valori di questa zona hanno raggiunto il livello più basso ma che la tendenza al rialzo è già evidente.

Sono completamente d’accordo, e credo che, anche se non si ritornerà ai valori del passato con la stessa rapidità con cui sono scesi, credo che il ripopolamento dei vecchi quartieri commerciali porterà ad un costante aumento di valore.

Chi investe con i valori di oggi trarrà grandi soddisfazioni dai propri investimenti.

here English version

Sempre sull’introduzione dei principi di zoning nel piano di New York trovate qui un altro articolo pubblicato sul New York Times. E qui un brano tratto dal libro di Franco Mancuso “Le vicende dello zoning” (g.b.)

Mi riferisco, evidentemente, ai danni inferti alla componente fisica del patrimonio comune: il paesaggio, l’ambiente, il territorio. Raccolgo lo spunto dall’introduzione di Maria Serena Palieri a un utile libretto, che ha curato, nel quale sono raccolti contributi di Giuseppe Chiarante e Vittorio Emiliani e documenti sugli “sprovvedimenti” del governo sui beni culturali ( Patrimonio SOS – La grande svendita del tesoro degli italiani, L’Unità). Una consapevolezza sottolineata al recente convegno di Italia Nostra ( ancora “Italia da salvare”, Roma, 23 maggio 2004).

Scrive Palieri, commentando la richiesta, sacrosanta, di mettere al primo punto del programma elettorale dell’Ulivo l’impegno di cancellare tutte le leggi del governo Berlusconi: “Ma il colpo di bacchetta magica, quando sarà il momento, cancellerà le controriforme di sanità, scuola, pensioni, abrogherà la legge Cirami. Una cosa non potrà fare: restituirci il tesoro “nostro” che, nel frattempo, “loro” avranno dilapidato”.

Fanno parte del tesoro dilapidato i pezzi del demanio pubblico venduto, i paesaggi devastati dall’incentivo ricorrente all’abuso urbanistico, ma soprattutto le “opere pubbliche” realizzate scavalcando con arroganza tutti quei controlli (urbanistici, paesaggistici, ambientali) che nei paesi civili costituiscono il filtro tra le tecniche settoriali e i duraturi interessi generali. Fa parte del tesoro dilapidato la Laguna di Venezia, che comincia a essere distrutta in alcune sue parti essenziali delle opere collaterali al MoSE.

In questi giorni stanno distruggendo dighe ottocentesche tutelate ope legis e con vincoli specifici, stanno asportando 3,5 milioni di metri cubi di fondale consolidato da seimila anni (il “caranto”), stanno installando distruttivi cantieri su oasi naturalistiche protette (oggi quella di Ca’ Roman, domani quella degli Alberoni), stanno approfondendo i canali che immettono acque marine nella Laguna, stanno avviando la costruzione si una muraglia alta sette metri sulla diga nord della Bocca di Lido, dove si preparano a costruire una nuova isola di 13 ettari (in Laguna da decenni è vietato ogni nuovo interrimento) e a distruggere la celebre Secca del Bacàn. Tutto ciò per un progetto che non sarà mai completato, che se fosse completato non funzionerebbe, di cui per di più nessuno ha valutato i costi di gestione (che non saranno inferiori a quelli della gestione di un aeroporto), né ha deciso a chi accollarli.

Non c’è più tempo da perdere. Non si può aspettare un nuovo Parlamento e un nuovo governo per tentare di fermare i vandali. Occorre che le associazioni, i rappresentanti degli interessi diffusi si mobilitino concretamente. Occorre che i candidati alle prossime elezioni si impegnino ad arrestare già da subito la dilapidazione del tesoro comune.

Occorre che ciascuno di noi elettori esprima la sua preferenza per quelli, tra i candidati e tra le liste, che più chiaramente, esplicitamente e operativamente si schierino a difesa del patrimonio della nazione. Segnando una discontinuità non solo nei confronti della maggioranza berlusconiana, ma anche nei confronti degli atteggiamenti opportunistici e tatticistici – e in definitiva corrivi con il clima culturale del berlusconismo – che si sono manifestati all’interno delle precedenti maggioranze.

Vedi anche ancora Salvare Venezia

Vedi anche La Laguna di Venezia e gli interventi proposti

Secondo il presidente dell’INU il conflitto è tra due sistemi di pianificazione: “autoritativo vs contrattuale”. Vorrei cominciare ad osservare che, definire la pianificazione “classica” (come Luigi Mazza definisce quella basata sul sistema giuridico che nasce dalla legge del 1942 rivisitata nel dopoguerra e va fino alle più recenti leggi regionali) come urbanistica “autoritativa” o “autoritaria” significa scambiare i consigli comunali (e provinciali e regionali) con i carabinieri. Il sistema classico della pianificazione si basa sull’assunto che le scelte sul territorio sono appannaggio sostanziale (e non solo formale) del potere pubblico democratico. Il che significa che sono i consigli, liberamente eletti, a decidere, e che sono strutture da loro dipendenti e controllate a preparare gli atti tecnici necessari alla scelta.

Significa questo negare la “contrattazione”? Affatto. (Evidente che parlo della contrattazione esplicita, non di quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). La contrattazione esplicita fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967, anno della regolamentazione dei piani di lottizzazione coinvenzionata. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.

Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi, l’uno civile l’altro tecnico. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno urbanistico del sistema basato sulla sostituzione dellla contrattazione all’autorità (alla democrazia rappresentativa): il danno, cioè, di avere il disegno e l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?

E’ un sistema, quello della pianificazione classica, che funziona bene? Certo che no. Giovanni Astengo, tra i fondatori dell’urbanistica italiana ne criticò i limiti con parole che dovrebbero essere ricordate oggi (qui sotto il link). Da molti decenni gli urbanisti - una volta soprattutto gli urbanisti dell’INU - suggerivano le modifiche necessarie: una maggiore attenzione all’attuazione (“dal piano alla pianificazione”), un rafforzamento consistente delle strutture tecniche, una maggiore attenzione alla domanda e alle risorse della società e dell’economia. Risultati raggiunti solo in parte, molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire altri modelli: non da oggi, se già potevo rilevarlo in un mio scritto del 1985 (qui sotto il link).

Sarò più breve sul secondo idola tribus, ribadito dal presidente dell’INU: che sia necessario “fare pressione per avere finalmente la legge statale di riforma urbanistica”. Su questo punto la mia risposta è molto semplice, ed è articolabile in pochi punti tra loro connessi:

1) una legge statale di riforma urbanistica è necessaria se è una buona legge (ho riassunto, nell’Eddytoriale 20 del 14 luglio 2003, i contenuti che una buona legge dovrebbe avere per essere utile a migliorare l’assetto delle città e del terriorio);

2) era vicina alla legge necessaria quella il cui testo unificato fu predisposto da Lorenzetti allo scadere della scorsa legislatura, e che colpevolmente i partiti che oggi compongono l’Ulivo (e anche gli altri) fecero cadere (a proposito, mi domando come fa l’INU a essere favorevole sia alla Lorenzetti che alla Lupi, che sono agli antipodi);

3) non mi sembra immaginabile che un regime il quale privilegia il privato sul pubblico, l’occasionale sul duraturo, la svendita del patrimonio comune al suo accrescimento, gli affari dei suoi leader al rispetto della legalità – che da un simile regime possa essere tollerata una legge urbanistica utile.

Vogliamo discutere su questi punti? Le pagine di Eddyburg sono aperte. Sarebbe bello se lo fossero anche quelle di Urbanistica informazioni e del sito dell’INU.

Sugli stessi argomenti:

Eddytoriale 36 del 21 gennaio 2004

Eddytoriale 38 del 2 marzo 2004

Il “testo unificato”, come si commentava nell’eddytoriale 36, “è una riproposizione peggiorata della proposta Lupi, con inserito qualche brandello della Mantini”. Ne enuclea i punti salienti il documento presentato all’audizione parlamentare dall’associazione Italia Nostra (è nella cartella dedicata alla legislazione nazionale, insieme ai documenti dell’INU e al testo Lupi). Li sintetizzo ulteriormente.

Un elemento significativo della proposta è l’abbandono del principio (da decenni acquisito alla cultura urbanistica e al sistema legislativo italiano) secondo il quale tutto il territorio nazionale deve essere governato mediante atti di pianificazione, capaci di assicurare coerenza e trasparenza alle scelte sul territorio da chiunque compiute, assunti dagli enti territoriali elettivi.

Secondo il “testo unificato” le regioni possono invece individuare a loro piacimento sia “gli ambiti territoriali da pianificare” (e possono anche decidere che alcune aree del territorio non siano pianificate), sia “l’ente competente alla pianificazione”, cioè chi deve pianificare (articolo 5, comma 1).

Osserva Italia Nostra che “una regione potrebbe, a esempio, attribuire le competenze pianificatorie soltanto alle province, escludendo sé medesima e i comuni, mentre un’altra regione potrebbe attribuire le medesime competenze a speciali agenzie, e limitare la pianificazione solamente agli ambiti di trasformazione morfologica urbana”. Abbandono di principio, insomma, del cardine del sistema europeo della pianificazione, per cui la coerenza d’insieme e l’unitarietà del sistema delle scelte di governo del territorio sono attribuiti al loro riferirsi con certezza al sistema degli enti territoriali elettivi a rappresentanza generale (in Italia, comuni, province, regioni, stato).

Del tutto diverso l’atteggiamento dell’INU, che nel documento dell’ottobre 2003 aveva già dichiarato che “si tratta certamente di una innovazione di grande interesse, rispetto alla attuale situazione”, e si limitava ad indicare l’opportunità che “decisioni di questo tipo [siano] assunte nel contesto della concertazione istituzionale“.

Ma la scelta più significativa che emerge dallo smilzo testo legislativo è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati” (articolo 4, comma 3). Nella concreta situazione italiana, ciò significa l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.

Italia Nostra osserva che una simile impostazione “è pienamente coerente con l’assunto della piena e totale mercificazione del territorio e degli immobili che lo compongono”, cioè “con un assunto che è stato respinto dai massimi teorici dell’economia liberale classica dei secoli trascorsi, in considerazione del fatto che il territorio, e gli immobili che lo compongono, non possiedono per nulla, o scarsissimamente, quei requisiti di divisibilità, riproducibilità e fungibilità che costituiscono i presupposti essenziali e irrinunciabili dell’efficiente funzionamento del libero mercato”.

Al ribaltamento della gerarchia tra interesse pubblico e interesse privato (immobiliare) applaude invece l’INU, che “condivide senz'altro che tale funzione [il governo del territorio] possa essere svolta anche con la partecipazione e il contributo diretto di soggetti privati”.

L’analisi dell’inaccettabile impostazione del “testo unificato” potrebbe proseguire (e nel documento di Italia Nostra prosegue). Voglio limitarmi a concludere che l’impostazione della “Casa delle libertà” è talmente distante da quella non solo della sinistra, ma anche di una corretta tradizione liberale europea, da risultare incomprensibile che, a sinistra e al centro, vi sia ancora chi si attarda in una logica di emendamenti e “depeggioramenti”: o, come arditamente scrive l’INU, addirittura di “miglioramenti”. Ma l’attuale gruppo dirigente dell’antico istituto degli urbanisti italiani sembra ormai pienamente conquistato dall’ideologia urbanistica negoziale e contrattuale del regime.

Questi hanno trovato nuovo alimento, e indubbia grinta, nell’avvento di Berlusconi e dei suoi Viceré: primo fra tutti il “governatore” del Veneto, Galan; l’ex funzionario della Fininvest, con un inaspettato blitz, ha forzato la Commissione per la salvaguardia di Venezia a dare il parere (naturalmente favorevole, date le maggioranze) senza neppure esaminare i voluminosi dossier che compongono il progetto.

Ma essi contano alleati di rilievo nelle stesse file della maggioranza di centro-sinistra. Il sindaco ulivista Paolo Co sta è considerato non solo sostenitore del Consorzio Venezia Nuova e dei suoi progetti, ma anche disinvolto manipolatore delle volontà espresse dalla maggioranza comunale e abile utilizzatore delle sue incertezze. I quotidiani di oggi esprimono stupore per l’accordo che Costa ha trovato con Berlusconi nel formare un Ufficio di piano (incaricato di delicati compiti di coordinamento tecnico dei progetti per il riequilibrio della Laguna): un Ufficio di piano nel quale non solo i critici del MoSE, ma perfino le competenze ambientalmente orientate sono presenti in misura irrilevante (1 su 12).

Riepiloghiamo i fatti. Mentre – prevalentemente a livello locale - dopo anni di studi e di dibattiti, dopo aver compreso le ragioni per cui l’equilibrio della Laguna, conservato per circa un millennio, è divenuto precario per dissennati interventi antropici, si era trovato largo consenso su un programma di interventi molto ampio, diffuso e sostanzialmente morbido, rivolto a eliminare le cause del degrado (e quindi dell’aggravarsi del fenomeno delle acque alte), dall’altra parte –e soprattutto a livello di governo – si affrontava il problema in termini riduttivi, costosi, meramente ingegneristici e meccanici. Nel 1984 si giunse ad affidare a un consorzio di imprese di costruzione, il Consorzio Venezia Nuova (impresa leader la Impregilo) lo studio, la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione delle opere necessarie per “il riequilibrio della Laguna e la difesa dei centri storici dalle acque alte”. Un’anomalia assoluta in un sistema economico basato sulla concorrenza e sul mercato e in un sistema giuridico fondato sulla prevalenza degli interessi pubblici. Ma tant’è: un altro tassello dell’inquietante mosaico definito “anomalia italiana” (una illustrazione semplice degli eventi qui riassunti è nel mio scritto “La Laguna di Venezia e gli interventi proposti”).

Il Consorzio Venezia Nuova è diventato il vero potere nella città. Grazie agli ingenti finanziamenti pubblici ha tessuto una rete di relazioni negli ambienti imprenditoriali, accademici, politici, editoriali, tecnici, a Venezia e a Roma. L’oggettiva complessità della vicenda (e della stessa Laguna) ha reso distratta l’opinione pubblica nazionale, abilmente sollecitata a commuoversi invece per il rischio dell’affondamento di Venezia e delle sue inondazioni, che il MoSE miracolosamente (magia dell’eco biblica!) scongiurerebbe. Resistono le associazioni ambientaliste (in prima linea la sezione veneziana di Italia Nostra), alcuni nuovi comitati di base, e i partiti dell’area rosso-verde (peraltro incapaci di reagire alle manovre del sindaco con atti più incisivi di un sommesso brontolìo).

Una scoperta di queste ultime settimane testimonia il danno che l’appalto unico al Consorzio Venezia Nuova provoca non solo alla Laguna, ma anche al pubblico erario. E’ stato reso noto il progetto di un gruppo di ingegneri, particolarmente esperti nelle costruzioni marine, il quale ha tre attributi rilevanti: è estremamente più morbido nell’approccio tecnico, nelle soluzioni proposte, nell’impatto esercitato nell’ambiente lagunare; rispetta i tre requisiti decisivi, posti dal legislatore e non rispettati dal MoSE, della gradualità, sperimentalità e reversibilità; costerebbe da un terzo alla metà del progetto MoSE nella fase di costruzione, e infinitamente meno nella gestione (che al MoSE pone rilevantissimi problemi, ancora non risolti né quantificati). Forse è per questo che i padroni della città non lo hanno preso in considerazione.

Titolo originale: "A city of homes" Aim of zoning plan - Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Una vita domestica decorosa e confortevole la chiave di lettura del rapporto della Commissione - Le fabbriche danneggiano la residenza - L’insalubrità e la mancanza di igiene sono causate dalla mancanza di aria e luce nei quartieri sovraffollati.

La Commissione per la suddivisione in distretti e le restrizioni alle costruzioni consegnerà domani la bozza del suo rapporto alla Commissione Bilancio, contenente le raccomandazioni riguardanti i regolamenti per contenere le costruzioni in alcune zone, limitando le altezze degli edifici, e più in generale per mantenere stabili i valori immobiliari e promuovere l’igiene e la bellezza dell’ambiente urbano.

Il rapporto rileva come nel costruire la città anche una pianificazione insufficiente sia meglio di niente e come nella crescita di New York non sia stato seguito alcun piano. La città ha ormai raggiunto un punto oltre il quale la crescita non pianificata non può non portare al disastro economico e sociale. Già oggi, a causa di una crescita edilizia casuale e del diffondersi di usi inappropriati – rileva la commissione – il valore capitale di intere aree si è fortemente svalutato.

“Mentre a New York le forze economiche spingono a concentrare le grosse fabbriche lungo i corsi d’acqua e presso i terminal ferroviari e a concentrare alcune piccole industrie in prossimità del commercio all’ingrosso e al dettaglio, di hotel e dei terminal passeggeri nel centro di Manhattan, ci sono molti altri tipi di piccole attività che non hanno vincoli di alcun tipo e vengono localizzate indiscriminatamente per tutta la città” dice il rapporto. “Le fabbriche danneggiano il tessuto residenziale. Distruggono le comodità, la quiete e i vantaggi della vita domestica. Non c’è nulla di più vitale per una città dell’abitare della propria popolazione. Non c’è nulla di più essenziale per garantire la qualità dell’abitare che escludere i traffici commerciali e la produzione industriale dalle strade residenziali.

Una decorosa vita domestica la chiave di lettura

Il rapporto spiega nel dettaglio questo disagio ed è proprio l’importanza di condizioni opportune per la vita domestica la chiave di lettura. Il problema del sovraffollamento è strettamente connesso alla localizzazione degli spazi per gli scambi e per la produzione. La commissione rileva come in molti casi è il costruttore che specula il principale responsabile del posizionamento del primo edificio in un isolato. Il primo ha luce e aria in abbondanza e lo spazio al piano terra si affitta con facilità. Seguono poi gli altri e i loro costruttori non hanno motivo per tenere le altezze più basse o dotarli di più ampi cortili o corti interne rispetto al primo. Aree di questo tipo sono cresciute per singole aggiunte successive e molte sono ormai al punto di rimanere soffocate dalla propria stessa crescita.

“L’attrattività sociale ed economica di edifici contenuti in altezza e dotati di un minimo di cortile o di spazi aperti è stata chiaramente riconosciuta dalle case-appartamento promosse dalla legge sull’edilizia popolare”, continua il rapporto. “Se un regolamento simile fosse stato adottato per gli uffici e i laboratori si sarebbero evitati gravi danni. Solo attraverso un piano che divida l’intera città in zone, gli utili principi contenuti nella legge per l’edilizia popolare possono essere mutualmente applicati a tutti i tipi di edifici in ogni parte della città. Si dovrà procedere prima ad un raggruppamento parziale degli edifici in relazione all’uso e poi ad una differenziazione delle altezze e delle previsioni di spazi aperti, in conformità con l’intensità d’uso, attuale e prevista, nelle varie parti della città”.

La Commissione ritiene che un piano per zone omogenee consenta di stabilire norme appropriate e ragionevoli per ogni singolo edificio e, allo stesso tempo, di garantire la sostanziale uniformità normativa relativamente ad altezze e spazi aperti per tutti gli edifici dentro un unico isolato. Ma questo piano guarderà anche al futuro. La difficoltà del piano, comunque, è che non si possono radere al suolo gli edifici né si possono mettere in discussione i diritti acquisiti per ripartire da zero. Il piano deve partire dalle condizioni esistenti. La Commissione ritiene, tuttavia, che senza dubbio alcune norme porteranno mutui benefici sia ai proprietari che alla collettività. Le proposte relative alle zone omogenee, perciò, si limitano a dare solo quelle indicazioni che la magistratura competente può considerare contemplate dalla legge. Il regolamento proposto si applica solo alle future costruzioni e ai relativi usi.

Lo spazio per le abitazioni è salvo

Il piano di zonizzazione divide la città in aree residenziali, aree per il terziario e aree senza restrizioni. Nei quartieri residenziali il piano lascia alle abitazioni i fronti stradali dovunque sia possibile. I viali e le strade principali vengono incluse quasi sempre nei quartieri d’affari, dato che la destinazione d’uso a uffici sul viale si può estendere per circa 300 metri sul retro delle strade residenziali. Nei quartieri meno costruiti è sembrato realistico destinare solo seconda o terza strada ad uffici. Un piano complessivo per il futuro assetto della città non è stato ancora elaborato.

Un piano complessivo per i porti e le attrezzature ferroviarie non è stato ancora messo a punto. Lo sviluppo futuro dei parchi non è stato ancora approfondito. Per questo un uso realistico o auspicabile per molte aree è ancora estremamente incerto e il rapporto cita ad esempio le aree intorno Jamaica Bay e Gravesend Bay e la riva sud di Richmond. Di conseguenza queste e alcune aree in simili condizioni non sono state classificate e non sono state poste restrizioni.

Sono previsti cinque limiti di altezza. L’altezza dell’edificio viene limitata in relazione alla larghezza della strada. I multipli variano da due volte e mezzo la sezione stradale, nei quartieri d’affari e finanziari di Manhattan, a una volta la sezione stradale in molti quartieri non edificati negli altri quattro distretti.

La Commissione, comunque, ha attenuato la rigorosa applicazione di questo principio stabilendo che, per calcolare l’altezza limite sulla base della larghezza della strada, una strada più stretta di 15 metri deve essere considerata come una di 15 metri ed una strada più stretta di 30 metri deve essere considerata come una di 30 metri

Consentiti edifici fino a 20 piani

Per una parte dell’area della Fifth Avenue vengono proposti i limiti di un quarto e di una volta e mezzo la sezione stradale. L’altezza di due volte la larghezza della strada è consentita in una stretta fascia sul waterfront di Manhattan e lungo l’East River waterfront di Brooklyn, Queens e nel Bronx; anche per una piccola area intorno gli uffici principali e il centro d’affari di Brooklyn. Nelle zone dove il limite è due volte la larghezza delle strade da 18 metri, gli edifici possono arrivare a 36 metri, o circa 10 piani, sul fronte stradale e, arretrando di circa 4 metri, possono salire di altri 4 piani oltre quell’altezza.

Sulle strade di 30 metri gli edifici possono arrivare a 60 metri, o circa 16 piani, sul fronte stradale e, arretrando di circa quattro metri, possono salire di altri 4 piani oltre quell’altezza.

L’unico distretto in cui viene proposta un’altezza limite di due volte e mezzo la sezione stradale è l’area degli uffici della Lower Mahattan. L’altezza di due volte la larghezza della strada è consentita nelle aree residue dei quartieri commerciali e industriali più intensamente sviluppati, in un’ampia fascia nel centro dell’isola, dalla parte più bassa della città fino alla Cinquantanovesima Strada.

Quando lo zoning diventa strumento per un ordine razziale oltre che edilizio: un brano tratto da "Le vicende dello zoning" di Franco Mancuso. (g.b.)

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