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ROMA Le ecodomeniche vanno bene come «spot a fini educativi, ma nella sostanza servono a poco», afferma l'urbanista Edoardo Salzano. Ritornare alla pianificazione delle città, ripensare il trasporto collettivo, rottamare i vecchi bus. Investire risorse, economiche, ma soprattutto politiche. Sono queste le vie da battere per dare soluzione ai problemi del traffico e dell'inquinamento. «D'Alema deve scendere in campo, non può lasciare la partita a Willer Bordon o a Edo Ronchi», cioè al Lavori pubblici o all'Ambiente. «Quanto ha investito, politicamente, l'ex premier Prodi nella rottamazione delle auto? Moltissimo. Ora tocca ai trasporti pubblici, è tempo di iniziare».

Tutti a piedi entusiasticamente. I cittadini manifestano in massa le attese per città più vivibili. Ritiene che queste iniziative servano?

«Vanno bene dal punto di vista strettamente propagandistico, educativo. Sono spot a fin di bene, pubblicità progresso per far capire che il problema c'è e va risolto con modi drastici. Però nella sostanza servono a poco».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Intanto le città dovrebbero essere pianificate, bisognerebbe ripristinare la vecchia sana pianificazione urbanistica per cui si decide dove mettere le cose, dove dislocare le funzioni che attirano traffico, come mescolare tra loro le diverse funzioni della città e non separarle, e come organizzare un sistema efficiente di trasporti collettivi, pubblici e privati che siano. Ecco credo che si dovrebbe cominciare da qui. A Roma, per esempio, si era capito mezzo secolo fa, con lo Sdo (Sistema direzionale orientale) che aveva proprio questo significato, spostare i ministeri, i grandi attrattori di traffico in una zona dove traffico può essere ancora organizzato come un sistema della mobilità - strada più metropolitana - quindi liberare il centro storico. Ma lo Sdo è stato abbandonato, hanno vinto le lobby».

Sta dicendo che non sipianifica più?

«Da vent'anni nella maggior parte delle città e da parte della maggioranza delle forze politiche la pianificazione urbanistica è stata dimenticata. Sono stati privilegiati gli accordi con gli attori più potenti, la contrattazione caso per caso, i condoni, la deroga alla pianificazione invece che il suo rigoroso rispetto».

È un’analisi severa…

«Sì, sono severo. Si deve riprendere a pianificare seriamente, non con le chiacchiere, non promettendo cure del ferro e poi facendo gli accordi con le Ferrovie dello Stato per intasare ulteriormente la prima periferia come si è fatto a Roma. E questa è una vignetta .... ».

Ilministro all'Ambiente Ronchi afferma che ormai le ecodomeniche sono nel Dna di cittadini e rilancia: bisogna estendere le aree pedonalizzate. Può essere questa una valida misura per l'immediato visto che la pianificazione ha tempilunghi?

«A Napoli per esempio si è dimostrato che se si pedonalizza i problemi dei traffico si risolvono, non si aggravano, e non solo nelle zone pedonalizzate. Lì si è intervenuti in piazza Plebiscito che è il luogo di più intenso passaggio del traffico e adesso hanno pedonalizzato anche via Toledo. Certo, bisogna avere la capacità di resistere alle proteste dei commercianti che sono miopi: in Germania i commercianti lottano per avere le aree pedonali, in Italia lottano per non averle. È un indicatore del nostro grave ritardo, perciò c'è bisogno si un'azione di educazione».

Il suo appello a fare di più ha un destinatario preciso?

«D'Alema, sicuramente, la presidenza del Consiglio dei ministri. Mi dispiace dargli un'altra responsabilità, ma è sua, non può affidarla a Willer Bordon (titolare dei Lavori pubblici, ndr) o a Edo Ronchi o a qualche altro rninistro. Si devono investire risorse, in primo luogo risorse politiche. Bisogna far capire che si sta facendo sul serio. E bisogna cominciare la rottamazione dei trasporti pubblici, dare soldi ai Comuni perché buttino via i vecchi sistemi di trasporto e ne facciano di efficienti. Quanto ha investito, politicamente, nella rottamazione delle auto l'ex premier Prodi? Moltissimo, è servito all’economia italiana, è servito alla Fiat ecc. Ora tocca a questo altro fronte. Guai a lasciarlo a Edo Ronchi».

Cfr il manifesto del 28.12.2007)

Titolo originale: A New Park – Ricerche, editing, traduzione, a cura di Fabrizio Bottini

Speriamo che gli sforzi per realizzare un nuovo grande Parco nella nostra Città siano coronati dal successo. È una delle cose di cui New York ha bisogno, di cui ha assolutamente bisogno. Possiede quasi tutto il resto. Le sue dimensioni fisiche iniziano a sfidare e competere con quelle delle più popolose città d’Europa. Lo spirito dei tempi è con lei. Disdegna i ritmi lenti della normale crescita, balzando in avanti nella corsa alla ricchezza e grandezza, quasi fosse sospinta dal vapore e dall’elettricità. Apre le sue porte ai figli vagabondi della terra, che qui trovano la loro casa. Preme sulle acque che la imprigionano e spinge la propria strabordante popolazione a cercar casa nelle vicine contee e stati. Importuni, uomini e imprese bussano alle porte del Common Council per il permesso di trasportare lontano a dormire il nostri concittadini, e riportarli poi la mattina per le faccende della giornata.

L’Isola che occupa è troppo piccolo per lei. Invade I fiumi, e ha ricavato nuove strade nei loro letti. L’eccesso delle navi che si affollano lungo i suoi numerosi moli, trova approdo nelle acque di Long Island o New-Jersey. Nuove, popolose città le crescono attorno, formate da chi viene sospinto oltre i suoi confine, e che può legittimamente considerare parte di sé stessa. Da un lato, un continente in crescita riversa in lei ricchezza e popolazione; dall’altro, il mondo contribuisce alle sue risorse. La situazione instabile del Vecchio Mondo, pure contribuisce alla sua crescita, accelerando e moltiplicando le prue delle navi che puntano verso il suo porto. Le sue strade si affollano sino a soffocare. Tra le ruote che scorrono, il pedone è a rischio. Su due lati del triangolo isoscele si è raggiunta la massima possibilità di crescita. In queste direzioni non è più possibile espandersi, a meno di non superare gli instabili confine del mare. Può solo crescere verso l’alto. Nuovi imponenti edifici si infittiscono, troppo numerosi per contarli. Masse solenni si ergono nel sole. Opulenza e solida grandezza si fanno sempre più visibili, giorno dopo giorno. Il nostro commercio si alimenta della linfa vitale di tutte le nazioni della terra.

Nel pieno di questa fiera lotta per la ricchezza, di questo intenso scontro commerciale, c’è il rischio che si possano dimenticare alcune delle piccole gioie e amabili aspetti dell’esistenza: quelle influenze meditative che nutrono e calmano l’anima. Siamo soprattutto alla ricerca del primato negli affari. Facciamo in modo che non sia solo così. Per quanto gloriosa sia la supremazia commerciale, per quanto indice di grandi vantaggi e poteri, ricordiamoci quanto è dovuto alla bellezza e al riposo: che esistono altri aspetti della mente da coltivare, oltre al calcolare centesimo per centesimo; qualità che il nostro successo ci consente, se lo vogliamo, di coltivare ancor meglio.

Pensiamo che, se il progetto di costituire un nuovo, grande e magnifico Parco si porterà a termine con successo, si sarà realizzato un passo importante nel distogliere l’attenzione del pubblico sul solo svolgimento degli affari: verso l’apprendere che queste attività non sono l’unico fine e scopo della vita.

Questo luogo di piacere eserciterà un’influenza benefica sulla salute della Città. Non c’è forse altra città al mondo che si collochi in una posizione tanto salubre quanto New York: affacciata sul mare su ogni lato, con due grandi fiumi che la lambiscono sui fianchi e soffiano una brezza salutare attraverso le strade, mentre l’Oceano ci permea della sua atmosfera salina, frizzante della fragranza delle onde. Nondimeno, qui esiste una grande concentrazione di umanità. Più di un milione di polmoni lavorano di continuo, giorno e notte, a respirare l’aria della città, molti dentro a vicoli affollati sino all’eccesso, a edifici colmi sino a traboccare. Non abbiamo uno spazio adatto per poter respirare. Se un uomo ci prova, a respirare a fondo, sulla Broadway, si ritrova a boccheggiare polvere, anziché ossigeno. Si può annusare un po’ di brezza sulla nobile Battery, ma ci sarà il costante viavai di carri e omnibus tutto attorno. Il commercio ha usurpato tutto lo spazio. La gloria della Battery è sparita. I nostri concittadini non la frequentano per la sosta, e per tutto ciò che riguarda salute e divertimento, un’onda si abbatte su antiche mura, invano.

Quanti pochi comparativamente i bambini che, dopo aver aperto gli occhi nei confini cittadini, riescono a sopravvivere! Non abbiamo tabelle statistiche a portata di mano, ma possiamo supporre che la gran maggioranza, prima di raggiungere il decimo anno, sia portata alla tomba. Migliaia di vite umane che, nell’aria pura della campagna sarebbero sopravvissute per contribuire alla ricchezza, al sapere e all’onore della nazione, sono così prematuramente perdute. Certo, senza alcun dubbio è vero che questa mortalità sia attribuibile a una grande varietà di cause. Ma per rimuoverle, dobbiamo combatterle una alla volta. Dobbiamo spezzare la fascina bastone per bastone. Messi tutti insieme, sono troppo resistenti per la nostra forza. Non ultima, fra queste cause, è l’aria corrotta, la reclusione all’interno degli edifici a cui sono costretti i nostri bambini. Carcerati dentro casa. Se si avventurano all’esterno, il pericolo di incidente per loro è maggiore di quanto non siano I più lenti rischi della reclusione. Quale possibilità ha un piccolo, quando sono in pericolo gli uomini più forti e attivi, dentro il flusso tonante di una legione di carri e omnibus lanciati? Vogliamo spazi pubblici per la quiete, dove possa circolare aria pura senza alcuna interferenza, che i nostri concittadini possano frequentare a scopo di ricreazione e piacere.

Infondiamo un po’ più di Campagna nella nostra Città. Lasciamo che i nostri occhi gioiscano nel soffermarsi su qualcosa di diverso dalle interminabili facciate di mattoni e pietra. Facciamo sì che nasca un luogo di bellezza naturale, verdeggiante, nel mezzo dell’attuale aridità – che accolga nel suo grembo fitto fogliame, pieno d’aria fragrante che ci distolga dai nostri troppo assorbenti affari – ben tenuto e curato; ed entro questi confine ombrosi, le magnifiche creazioni artistiche – dove il genio porta le sue offerte, e Natura e Arte si mescolano ad evocare immagini di placida e serena bellezza – egualmente aperte al ricco e al povero – a contribuire alla gioia e all’elevazione del sano e del malato, dell’uomo contemplativo come di quello d’azione.

Non abbiamo un Parco, ora, degno di questo nome, o di dimensioni commensurate a quelle della città e dei suoi bisogni. Certo ci sono alcuni giardini, che potrebbero sparire dalla sera alla mattina, se non ci fossero leggi contro i piccoli furti: graziose gemme, magnifici, squisiti. Ma New-York dovrebbe avere un Parco di dimensioni e magnificenza proporzionate al proprio rango e popolazione, e con riferimento particolare al futuro che l’aspetta. Perché New-York è così parsimoniosa con la propria terra? É forse il Mondo Occidentale troppo piccolo per i Parchi? È possibile che l’Inghilterra, con la sua popolazione tanto più densa, compressa al suo interno dall’Oceano su tutti i lati, riesca a destinare nella propria Capitale spazi pubblici consacrati al riposo, in quantità tanto maggiore di quanto non accada nel nuovo Continente?

Se il Parco di cui abbiamo valutato la possibilità non si realizza in fretta, potremmo non averlo mai più. La crescita della città è così rapida, che esso sarebbe presto occupato in ogni possibile localizzazione, gli isolati costruiti a rendere impossibile la conversione del terreno su cui si trovano a prato e verzura. Ogni momento che passa, aumentano i valori delle aree. Ogni giorno di ritardo va a serio detrimento dell’impresa. Si deve agire subito, o rinunciare per sempre.

Nota: come precisato nell'occhiello, questo dal New York Times è soltanto uno dei tanti editoriali attraverso i quali l'opinione pubblica più avanzata della città cerca di spingere l'amministrazione ad agire in favore del Parco. Un processo iniziato con una serie di interventi del poeta e intellettuale William Cullen Bryant sulle pagine dello Evening Post nel 1844, a cui si aggiungeranno altre figure di grande prestigio, fra cui il fondatore della landscape architecture moderna, Andrew Jackson Downing. Indipendentemente dal suo specifico valore nella storia del parchi urbani, il Central Park ha anche un ruolo fondativo per quanto riguarda l'urbanistica moderna: rappresenta infatti una vistosa correzione del piano esclusivamente "di mercato" per Manhattan del 1811, sottraendo all'edificazione per tempo una grande superficie baricentrica all'insediamento, e considerata all'epoca di valore relativamente contenuto a causa dell'asperità del terreno e della presenza di alcuni impianti tecnici e militari. La valorizzazione, nelle forme che conosciamo ancor oggi, avverrà alcuni anni più tardi, dopo gli espropri e il concorso bandito dalla Commissione per il progetto generale di allestimento. Questo concorso per il Parco verrà vinto dal gruppo formato da Frederick Law Olmsted (che subentra a uno degli ispiratori originari: Andrew Jackson Downing) e Calvert Vaux; un ampio estratto della loro Relazione, pubblicato dal New York Times il 1 maggio 1858, è disponibile sul Mall nella sezione Antologia (f.b.)

here English version

Bisogna comprendere che nell’Islam si agitano fantasmi e pulsioni mortifere, che è nell’interesse di tutti gli uomini di buona volontà – di qualunque parte del mondo, di qualunque culture, religione, etnia – sconfiggere per sempre. Ma bisogna comprendere anche (e in primo luogo, poiché è qui, in Occidente, che viviamo) che il terrorismo che è divampato in Iraq è stato concimato dalla folle politica dell’attuale Presidente degli USA, che ha colto l’occasione dell’orrore delle Twin Towers per perseguire un disegno di potere messo a punto anni prima: terribile occasione, e ancor più terribile coglierla in quel modo.

Bisogna comprendere che l’altro terrorismo, quello ceceno, quello della strage degli innocenti della scuola dell’Ossezia, è stato concimato dal genocidio praticato dalla Russia in Cecenia. Bisogna comprendere che gli attentati suicidi negli autobus e nei ristoranti di Israele (un altro terrorismo ancora) sono stati concimati dai decenni di miseria, di violenza, di sopraffazione nei campi di concentramento e negli altri recinti nei quali sono stati rinchiuse generazioni di palestinesi.

E bisogna comprendere che la minoranza planetaria che pretende di comandare il mondo (perché è la civiltà “superiore”) non può reclamare la solidarietà, e neppure la tolleranza, di quella maggioranza del mondo che i secoli del suo trionfo economico e politico hanno abbandonato (se non gettato) nella miseria e nella morte. Ancora oggi, alcune centinaia di bambini trucidati in Europa accendono infiniti riflettori di più di quanti illuminano le decine di migliaia di bambini sterminati in Africa.

Bisogna comprendere tutto questo per vincere il terrorismo dilagante. E bisogna agire di conseguenza. È stato aperto il vaso di Pandora. Non ha senso inseguire uno ad uno i diavoli che ne sono usciti: sono infiniti. Occorre richiudere il vaso. Non ha senso indossare l’elmetto e circondare il campo dove si nascondono i terroristi: è un campo più vasto delle armate che vogliono accerchiarlo. Occorre togliere al terrorismo l’humus dal quale si alimenta.

Non è Bush, non è Putin, non è tantomeno Berlusconi a lavorare in questa direzione: anzi, continuano a gettare benzina attorno ai fuochi. La direzione l’ha indicata e praticata un altro uomo di destra, Chirac. Senza cedere al ricatto (e mantenendo attiva la legge che i terroristi chiedevano di abrogare) ha aperto immediatamente il dialogo con il mondo all’interno del quale, come pesci nel mare, navigano e si alimentano i gruppi terroristici. Non so ancora, mentre scrivo queste righe, se l’iniziativa della Francia avrà successo. Ma i giornali già ci dicono che gli ostacoli e i bastoni fra le ruote non vengono dal mondo arabo o dall’Islam: vengono dalle forze d’occupazione.

Sul ruolo e sulla politica di queste forze, e dei loro dirigenti remoti, occorrerebbe lavorare. Magari a partire dall’assassinio di Enzo Baldoni, a proposito del quale troppi interrogativi sono rimasti aperti. Come mai le bugie del governo italiano e della Croce rossa? Come mai indossava la maglietta della sua guida? Come mai il filmato era falsificato? Come mai, a differenza a dei colleghi francesi, vi appariva tranquillo e disteso, ironico, come se fosse tra suoi amici e non tra i terroristi? Come mai il secondo filmato si è ridotto a un’unica fotografia? Come mai non si è trovato il suo corpo, e quello della guida non è stato analizzato? Insomma, lo hanno assassinato i terroristi o altri?

Gli eventi di questi mesi gettano luci inquietanti sul mondo dell’Islam, ma anche su quello che solidalmente gli si oppone, elmetto in testa.

Esemplare del clima che si è già instaurato è il modo in cui i mass media hanno informato sulla vicenda di Rete Quattro. Per la stragrande maggioranza dei giornalisti della televisione (privata e pubblica: ormai lo stile e le veline sono uguali) il dramma del giorno era il destino di Emilio Fede e della struttura che dirige. Sembra che i cattivi, i comunisti (nelle cui file è arruolato, non da oggi, il presidente Ciampi) abbiano come unico obiettivo togliere il posto ai lavoratori della Mediaset in odio al loro padrone. Ma quanti hanno messo in evidenza che quel posto è usurpato? Quanti hanno informato che Berlusconi e Fede lo hanno illegittimamente sottratto a un altro gruppo, che da anni ha avuto l’assegnazione di quelle frequenze e che, nonostante avesse tutti i titoli in regola, non l’ha ottenuto per la proterva prepotenze dalla banda B.?

Il dominio è già quasi completo. Bisogna chiudere il cerchio, completamente. Le voci di dissenso possono rimanere, ma devono diventare del tutto marginali. Può restar vivo qualche circolo intellettuale, ma l’opinione pubblica “di massa” deve ricevere la voce d’un solo padrone: deve guardare una sola televisione. Questo è il disegno. Questo spiega perchè Ciampi (così esitante a usare il suo diritto/dovere di rinvio alle camere) non ha firmato la legge Gasparri. Questo motiva l’incredibile scandalo dell’evento di Natale, B. che come primo ministro firma il decreto che premia B. come imprenditore (e punisce l’imprenditore che aveva ottenuto la concessione usurpata da Rete Quattro).

e’ una vergogna difficile da sopportare. È un piano inclinato nel quale si scivola sempre di più. E l’opposizione? Gioca, litiga, balbetta, si divide, parla d’altro. Le differenze sono certo profonde tra Fassino e Di Pietro, tra Bertinotti e Parisi. A me personalmente Rutelli e D’Alema non piacciono affatto, nel senso che non sono d’accordo con le loro posizioni su molte cose (in primo luogo, sol modo di affrontare il berlusconismo, che il secondo ha addirittura favorito). Ma, come ha scritto Paolo Sylos Labini ( Berlusconi e gli anticorpi, Editori Laterza, 2003), il compito più urgente è non dare tregua a Berlusconi. Vincerlo, a cominciare dalle prossime elezioni.

Riuscire a far questo è l’unico augurio che riesco a formulare per il 2004, a me e ai miei amici. A combattere il berlusconismo che è fra noi penseremo dopo.

Non si tratta di una rivendicazione di competenze. Il nuovo Statuto si limita a dire, nell’articolo dedicato alle finalità generali, che “la Regione persegue, tra le finalità prioritarie”, nientedimeno che “la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”, nonché “la tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”. Nulla dice lo Statuto su chi legifera in materia di patrimonio culturale. Nulla sottrae alle competenze stabilite dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie. Si limita a tradurre nello Statuto della Regione Toscana (e mi meraviglierebbe se le altre regioni non l’avessero fatto o non lo facessero) il dettato dell’articolo 9 della Costituzione: “la Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

La Repubblica, dice la Costituzione. Quell’ente, cioè, che secondo la Costituzione oggi vigente “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. In altri termini, quali che siano le competenze legislative in materia, è evidentemente (e costituzionalmente) dovere di tutti i livelli di governo, di tutte le istanze della Repubblica, assumere come finalità della propria azione (dei propri compiti di amministrazione, di gestione, di pianificazione, di regolamentazione, di promozione, di vigilanza, di repressione) quello della tutela del patrimonio culturale.

Non fu del resto la stessa Corte costituzionale, alla quale oggi il governaccio Berlusconi si rivolge, a stabilire che l’azione di tutela non può esercitarsi solo a livello nazionale, ma deve interessare tutti i livelli di governo? Nella sentenza 151/1986, ad esempio, la Corte sostenne che con la legge 431/1985 si era ribadito il concetto di “una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” una “riconsiderazione assidua” che postulava che le azioni di protezione del patrimonio culturale, avviate dal livello nazionale, venissero poi proseguite ai livelli regionale, provinciale, comunale.

Il tentativo del governo di invalidare le affermazioni di principio dello Statuto toscano è inaccettabile sul piano dei principi, come argomenta con efficacia Luigi Scano nella nota scritta per Eddyburg. Ma è pericolosissimo sul piano pratico. Esso può infatti indurre a comportamenti lassisti gli attori del sistema delle autonomie. “È Roma che si occupa della tutela, quindi possiamo (anzi, dobbiamo) non occuparcene noi”. Errore gravissimo sarebbe quello di adottare un comportamento siffatto. Poiché si tratta di una materia che - per la sua stessa natura, per la straordinaria ricchezza del patrimonio nazionale, per il suo essere distribuito e diffuso in ogni luogo e città e paese e contrada e valle e riva - fortemente richiede che la ricognizione e tutela dei suoi elementi siano svolti con “assiduità” da tutte le componenti dell’altrettanto ricco tessuto dei poteri e delle responsabilità pubbliche.

Preoccupa perciò, oltre alla improvvida iniziativa del governo, il silenzio che su questo punto hanno manifestato le Regioni. Da quelle che ritengono che la tutela del patrimonio culturale, storico, paesaggistico non sia solo argomento di retorici gargarismi ci si aspetterebbe una tempestiva adozione, nei loro statuti, di formule analoghe a quella adottata dal Consiglio regionale della Toscana: sarebbe il miglior modo di protestare contro un centralismo lesivo degli interessi nazionali.

Sull'impugnativa del Governo si veda la nota di Luigi Scano

Intanto, i fatti. Un bravo agronomo, appassionato del suo mestiere e professionalmente serio, ha analizzato il PTCP di Napoli e ha scoperto che gran parte delle aree agricole più pregiate erano lasciate senza tutela, affidando alla disponibilità dei comuni la maggiore o minore trasformazione, in alcuni casi prevedendola esplicitamente. Conoscendo bene l’Italia, la Campania e la provincia di Napoli, lui e quanti hanno avuto modo di esaminare le sue carte (e quelle del piano) si sono fortemente preoccupati. Si sa che, tra la possibilità di coltivare e quella di edificare, il dio mercato sceglie la seconda alternativa, e la maggior parte dei comuni pure. I pochi che hanno visto questo rischio hanno gettato gridi d’allarme. Una volta tanto l’opinione pubblica è stata allarmata.

Alcuni uomini politici, di rilievo nazionale, si sono allarmati anch’essi. Nelle sedi istituzionali più vicini al fatto è esplosa una bagarre: dichiarazioni, dimissioni, critiche e recriminazioni. La politica è apparsa imbarazzata: ha compreso di aver compiuto (o lasciato compiere) un errore, ma non è sembrata capace né di valutare la portata dell’errore né l’opportunità (la convenienza) di porvi riparo. Più che il merito della questione (è necessario o no tutelare ambienti e paesaggi di eccezionale valore ecologico, culturale, produttivo anche sacrificando le prospettive di sfruttamento immobiliare? come utilizzare quello strumento, il PTCP, per raggiungere quell’obiettivo?) hanno dominato gli sforzi di coprire l’alleato o scoprire l’avversario (magari all’interno della stessa formazione politica), e magari di coprirsi tutti quanti insieme (le elezioni sono vicine).

La cultura urbanistica, poi, è stata del tutto assente. Hanno taciuto le associazioni degli urbanisti (il cui ruolo sembra ridotto alla promozione professionale degli iscritti), e ha taciuto l’accademia (il cui ruolo sembra ridotto alla trasformazione in prodotti accademici degli incarichi di pianificazione). Se qualche eco la vicenda del PTCP di Napoli ha avuto in quegli ambienti, si tratta di cenni di fastidio “per il polverone sollevato”, o difese dell’autonomia dei comuni contro chi vorrebbe “immaginare vincoli totalizzanti che [ne] espropriano la potestà programmatoria”.

Mi sembra che si dovrebbe rispondere ad alcune domande, che vorrei porre con molta precisione nella speranza di avere, da qualcuno dei visitatori di questo sito, risposte altrettanto precise.

1. È vero o no che il PTC della provincia di Napoli, presentato dall’assessore Riano e adottato dal Consiglio provinciale a maggioranza di centrosinistra, consente di edificare in “25.000 ettari di aree agricole pregiate, che rappresentano il 42% circa delle aree agricole provinciali”, consentendo così di fatto “l’estinzione dei paesaggi agrari di più elevato valore ecologico-ambientale, storico ed estetico percettivo presenti nel territorio provinciale”, come ha dimostrato l’agronomo Antonio Di Gennaro?

2. È vero o no che la legge stabilisce che il PTC provinciale “indica le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti”, mentre tra i compiti che la legge attribuisce alla Provincia vi sono “difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità”, “valorizzazione dei beni culturali”?

3. È vero o no che, anche a prescindere dalla legge, sulla base di una corretta applicazione dei saperi dell’urbanistica e del principio europeo della sussidiarietà, la tutela delle qualità del paesaggio rurale, dei valori ecologici e culturali dei territori aperti, delle potenzialità della produzione agricola di qualità, non è cosa che possa essere affidata alla sfera delle competenze comunali perché palesemente trascende dalla loro scala e dalle loro competenze?

4. È vero o no, uomini della politica e delle istituzioni, che il primo dovere degli eletti e dei loro controllori più diretti è quello di operare perché nelle istituzioni si traducano coerentemente in atti amministrativi efficaci le promesse di tutela e valorizzazione delle risorse naturali, culturali, economiche presenti nelle aree nelle quali vi fate eleggere, e di rispetto per quanto di buono e di bello i nostri antenati hanno saputo costruire, perché anche i posteri ne possano godere?

5. E infine, colleghi urbanisti, è vero o no che la pianificazione del territorio, a scala provinciale e regionale, è vana esercitazione accademica se si riduce ad analisi, esortazioni, raccomandazioni, suggerimenti, direttive, prediche, ammonimenti, scenari e (mi si passi l’orrenda espressione) quant’altro?

Mi piacerebbe che chi governa, e chi si propone di farlo, partisse dalla valutazione degli interessi materiali e morali delle cittadine e dei cittadini. Non solo di quelli di oggi, ma anche di quelli di domani, e che su questa convinzione basasse le sue scelte a proposito dei patrimoni della cultura, del paesaggio e del territorio. Non solo di quelli che hanno voce in capitolo, ma “dell’uomo che va in tram”, per usare il titolo di un bel libro di Carlo Melograni: della donna e dell’uomo che lavora, che vive col suo salario, che non usa l’automobile per andare al lavoro, non usa la scuola privata per i suoi figli, non si cura a Lugano ma alla ASL locale.

Mi piacerebbe che perciò dimostrasse consapevolezza del fatto che, in una società complessa come la nostra, molte esigenze vitali possono essere soddisfatte solo con un forte rilancio dei valori, e degli strumenti, della collettività in quanto tale, e quindi anche del pubblico: penso alla scuola, alla salute, alla mobilità, all’abitare. E penso a una cultura ridotta a distorcente spettacolo e a veicolo di consumi inutili e sempre più spesso dannosi (lo dimostrano le nuove malattie sociali, come l’obesità), a causa anche di una colpevole assenza di impegno, dei partiti non accucciati nella difesa degli interessi dominanti, sul terreno cruciale delle comunicazioni di massa. (Un’assenza, occorre precisare, che non è cominciata con il governo D’Alema).

Mi piacerebbe che riconoscesse che la scomparsa delle grandi ideologie (e quindi dei grandi progetti di società, dei grandi ideali, delle grandi speranze) ha delegittimato i partiti, e che quindi, se questi non vogliono ridursi a camarille preoccupate solo di conservare il propria fetta di potere, la ricerca e la promozione della partecipazione popolare è una scelta obbligata, non un optional: è l’unica strada attraverso la quale si può tentare (con molta fatica, con molto impegno, con molta intelligenza) di ritrovare una sintonia durevole tra eletti ed elettori, tra rappresentanti e rappresentati, e quindi le ragioni di una nuova politica.

Per tutte queste ragioni (e anche perché sono un urbanista) mi piacerebbe che il tema di fondo, attorno al quale tutti gli altri si annodano e trovano riscontro, fosse quello del governo della città e del territorio. Non nell’astrazione delle tecniche che di loro si occupano, ma nella loro concretezza, nella fisicità, nella funzionalità e nella disposizione dei loro elementi: le case (disponibili o no per chi ha un reddito di lavoro) e le strade (libere per i pedoni, le carrozzine, le biciclette e i tram, oppure intasate di automobili), le campagne (destinate alla ricreazione, alla salute, alla produzione di derrate sane, oppure all’edificazione attuale o futura) e i fiumi (utilizzati dalle acque che scorrono sopra e sotto il suolo e alimentano le nostre essenziali risorse, o dalle costruzioni in golena e dai rifiuti in alveo), i servizi scolastici, sanitari, commerciali, sportivi (facilmente accessibili, collegati da una rete di percorsi piacevoli e sicuri, oppure casualmente sparpagliati sui lotti residui e marginali) e i servizi di trasporto collettivo (comodi, frequenti, intelligentemente connessi nelle loro modalità e disegnati in relazione alla domanda di mobilità, oppure casualmente collocati segmento per segmento e distrattamente gestiti).

È la politica urbanistica insomma, nelle sue tre funzioni strategica, regolativa e operativa, che dovrebbe essere insomma al centro delle discussioni e decisioni politiche, nelle città e nelle province. E domani, molto presto, anche nelle regioni e nella Repubblica. È su questi temi che le opzioni delle diverse parti dovrebbero essere chiare, la scelta tra i diversi interessi esplicita, il consenso popolare (del popolo, non dei soliti interessi forti) attivamente ricercato. Non mi pare – almeno dalla lettura dei giornali e dagli sporadici riscontri personali – che di questi temi si parli molto, nel paese oscillante tra un berlusconismo con Berlusconi e un berlusconismo senza.

La Repubblica ha pubblicato con evidenza un articolo di Giovanni Valentini di pesante critica al piano, in questi giorni sottoposto al vaglio pubblico delle “osservazioni”.

Raccogliendo un’accurata analisi di alcuni benemeriti studiosi del paesaggio delle campagne italiane, Valentini scrive che “il Piano territoriale di coordinamento provinciale prevede di ‘strappare’ 25mila ettari su 6Omila di superficie agricola, circa il 42% dei terreni coltivati in provincia di Napoli, per trasformarli in aree urbane con una destinazione ancora imprecisata”.

Conosco Antonio Di Gennaro e i suoi collaboratori, e sono certo dell’attendibilità dei dati delle loro analisi. Sono quindi sicuro che le aree definite dal Ptcp “di riqualificazione urbanistica” comprendono effettivamente, come scrive Valentini, “circa il 42% dei terreni coltivati in provincia di Napoli”. Ho letto personalmente le norme del piano, ed ho verificato che effettivamente in quelle aree si può fare di tutto, sebbene le norme del piano suggeriscano di fare cose buone. Sebbene non sia vero che “preveda” di rendere edificabili 25mila ettari di superficie agricola, è certo che lo “consente”.

Un piano non si valuta di per sé: si valuta nel contesto. Perché è solo il contesto (territoriale, sociale, politico, amministrativo, culturale) che ci racconta come il piano verrà applicato. Quel contesto, il contesto della Campania felix, ha due caratterizzazioni.

Da una parte, un territorio agricolo di eccezionale fertilità e bellezza. Basta ricordare alcuni dei paesaggi compresi nelle “aree di riqualificazione urbanistica”: essi comprendono parti delle colline dei Campi Flegrei, le aree agricole di Ischia e Capri, i terrazzamenti della costiera sorrentina e della conca di Agerola, la pianura vesuviana e nolana, le aree floricole del Somma-Vesuvio, le aree pedemontane dei monti Lattari, la pianura dei fiumi Sebeto e Sarno. Certo, si tratta di residui. Ma residui che sono testimonianze di straordinarie grandezze (così come ciò che oggi vediamo del Partenone è residuo di qualcosa che attraverso quei sopravvissuti lacerti possiamo immaginare, e comprendere).

Dall’altra parte, una tradizione e una prassi di governo del territorio incapaci (eccetto casi singolari e brevi stagioni) di combattere l’abusivismo, contenere la disseminazione edilizia nel territorio, impedire o imbrigliare la speculazione fondiaria ed edilizia, coordinare gli interventi pubblici, migliorare la qualità dei paesaggi urbani e preservare quelli rurali e naturali, soddisfare le esigenze di accessibilità mobilità e sicurezza, rafforzare durevolmente la qualificazione e l’autorevolezza delle pubbliche amministrazioni.

Un siffatto contesto avrebbe suggerito, in queste vaste aree di frizione e di incertezza tra città disgregata e campagna minacciata, di porsi l’obiettivo di affrontare il sacrosanto problema della riqualificazione urbana sulla base di una prioritaria difesa di quanto resta del patrimonio naturale e rurale.

Ciò in primo luogo avrebbe comportato (e dovrebbe comportare) l’attribuzione a una diversa categoria di aree delle parti del territorio già tutelate da strumenti più attenti alle qualità del territorio, e di quelle di più evidente e indiscutibile qualità, come puntualmente suggerisce la nota di Antonio Di Gennaro inserita nella cartella SOS Paesaggi / Campania Felix.

Dovrebbe comportare poi di rendere tassative le norme di “indirizzo” (che i comuni possono quindi seguire o non seguire) contenute nella terza parte delle norme. Almeno per quanto riguarda la definizione di rigorose procedure di individuazione delle qualità naturali, produttive e paesaggistiche delle aree ancora libere, di criteri rigidi e soglie invalicabili per il dimensionamento della crescita edilizia, di coordinamenti ferrei tra comuni appartenenti allo stesso sistema paesaggistico, di costante verifica della provincia sull’implementazione degli obiettivi, delle scelte e delle prescrizioni della pianificazione provinciale.

Non si tratta di gettare alle ortiche il Ptc, ma di utilizzare la fase delle osservazioni per migliorarlo.

La pianificazione urbanistica viene da una tradizione di attenzione primaria, e spesso esclusiva, per le esigenze della crescita, della razionalizzazione e della riqualificazione degli insediamenti. Da qualche decennio si è compreso che occorre dare la medesima importanza all’altro obiettivo: quello della salvaguardia del patrimonio comune costituito dalla natura e dal paesaggio. In determinati contesti, e in determinati momenti, è questo l’obiettivo che deve dominare. Così è oggi, nelle residue aree risparmiate dalla disordinata colata edilizia nella Campania Felix.

Quali siano questi strumenti (o almeno, alcuni di essi) lo si è già raccontato su queste pagine. In particolare, nella cartella dedicata a Milano. In quella città, la città di Mani pulite, sono in atto due processi convergenti: l’uno sul piano teorico, l’altro su quello dei fatti. Da una parte, nell’incapacità di aggiornare le regole della pianificazione tradizionale in modo da superarne i limiti e di renderle adeguate alle esigenze dell’operatività, nell’accademia se ne teorizza le morte, nella politica le si cancella e nella pratica le si sostituisce con l’egemonia dell’iniziativa privata. Dall’altra parte, calpestando allegramente quanto di legge comune pur sopravvive, si riempiono di calcestruzzo e asfalto, acciaio e vetro, tutti gli spazi resisi disponibili, con l’unica preoccupazione di fare soldi.

“Speculazione immobiliare”: è un’espressione certamente arcaica: ne parlano gli storici fin dai tempi della Roma di Nerone. È abusata, ed è troppo sintetica per rappresentare la ricchezza delle pulsioni e degli errori, delle illusioni e degli interessi che hanno suscitato quei due processi (fatalmente convergenti, e anzi intrecciati). La storia della riutilizzazione dell’area dell’ex Fiera è un esempio efficace di come gli interessi economici parassitari (la speculazione immobiliare non produce ricchezza, ma la distrugge), la compiacenza dei pubblici poteri, lo sguardo benevolo della cultura, progredendo con sicurezza sui binari delle new theories e delle old practices, distrugga la città: il più alto prodotto, quindi, della civiltà europea. Illustra quindi in modo adeguato la sinteticità di quel termine, ne aggiorna il significato.

La storia è molto semplice; l’ha raccontata Sergio Brenna anche in questo sito. L’Ente Fiera di Milano ha spostato la sua attività in un’altra area, ottenendo dal Comune, nella vecchia area, una utilizzazione idonea ad assicurargli un ampio tornaconto economico. L’Ente fiera (un istituto di diritto privatistico) ha bandito un concorso per la “valorizzazione” dell’area, indipendentemente da qualsiasi ragionamento (e naturalmente da qualsiasi decisione pubblica) sia sull’assetto urbanistico sia sulle funzioni, definendo per di più quantità di volumi ancora superiori a quelle concesse dal Comune. Un’operazione nella quale il motore e, al tempo stesso, l’arbitro è stato costituito dall’interesse economico aziendale. La ricerca non è stata diretta a valutare che cosa serve alla città e ai cittadini, quali esigenze di spazio vi siano per gli usi collettivi e il verde, quali necessità di decongestionamento e di accessibilità, ma semplicemente, in che modo può essere ottenuto il maggior tornaconto in termini di “immagine” e in termini di valuta. Il risultato,eccolo qui. Novecentomila metri cubi di residenze e uffici, stipati nei tre stravaganti oggetti illustrati qui accanto, con un disegno urbano che – lungi dall’integrarsi con i quartieri circostanti, come studi in corso da decenni proponevano – si oppone alla città e la nega. E con un carico urbanistico che, se volesse essere soddisfatto in base alle norme vigenti nella Regione Lombardia, richiederebbe paradossalmente la cessione dell’intera area (anziché del 50% contrattato).

L’apparire dei risultati figurativi della decisione ha naturalmente suscitato scalpore. Alcuni intellettuali, rivelandosi singolarmente retro, hanno celebrato nel gigantismo faraonico e fuori scala e nella bizzarria delle forme le magnifiche sorti e progressive della “Rinascimento di Milano”. Renato Mannheimer ha addirittura affermato che “la nuova iniziativa edilizia accentua considerevolmente il processo di rinascita di Milano”, che “le ricerche motivazionali hanno mostrato come essa stimoli nei cittadini la voglia di fare, di sfidare in qualche modo la natura attraverso la tecnologia” e che “essa simboleggi proprio il 'puntare in alto', tipico dei milanesi nei periodi migliori”. Osservatori diversamente intelligenti hanno invece rilevato come “il ‘fàmolo strano’ sembra infatti essere l'unica regola certa di una professione che ha rinunciato alla pretesa etica di governare la trasformazione riducendo il governo del territorio a un problema di audience di massa”, e ha ricordato “l'acre battuta di Noel Coward in Law and Order: Non so dove stia puntando Londra, ma più si alzano i grattacieli, più si abbassa la morale” (Fulvio Irace).

Forme d’accatto, bizzarrie d’importazione, che (a differenza delle parole scritte sui libri o dei quadri immessi nei musei) si pavoneggiano agli occhi di tutti, contribuiscono al degrado della città, propagandano la sua dissoluzione da ordinata e armoniosa casa della società ad accumulo disordinato di oggetti la cui smisurata arroganza celebra unicamente la presunzione dei suoi autori e dei suoi giudici.

Un ampio servizio dell’Espresso, oltre a illustrare la questione, elenca altri quindici progetti che potrebbero avere caratteristiche analoghe. Forse non adotteranno le medesime forme e la medesima indifferenza al contesto figurativo. Ma è certo che la cornice nella quale si collocano lo spingerà verso il medesimo risultato urbanistico e sociale. Essa è infatti determinata da quel documento “Ricostruire la Grande Milano”, che è stato illustrato e criticato anche in questo sito, adottato dalla Giunta milanese, apprezzato in più sedi accademiche e utilizzato ampiamente per il progetto di legge urbanistica della Casa delle Libertà. Dio salvi Milano, e soprattutto i milanesi.

Mi sarebbe piaciuto che in questo quadro, nel quadro di un governo unitario della Laguna di Venezia (l’unica laguna al mondo sopravvissuta per mille anni) e della rete di pendolarismi e di memorie che riunisce i comuni che su di essa gravitano, gli antichi municipi e i villaggi divenuti città (Favaro, Chirignago, Mestre) e uniti in un unico comune tra il 1923 il 1926, e con essi magari Marghera, Burano, Pellestrina, riacquistassero una parte della loro autonomia, come la legge istitutiva delle Citta metropolitane (1990) da tempo prevede.

Quella legge fu decisa, dopo un dibattito durato un paio di decenni, proprio per ottenere che, in aree connotate da flussi di relazione e da caratteristiche fisiche mediante cui si era unito ciò che i confini comunali tenevano diviso (le aree metropolitane), si potesse contemperare il governo unitario del funzionamento metropolitano con l’autonomia delle singole parti. Nessuna di queste doveva dominare le altre, e perciò si disponeva che il comune capoluogo si dividesse in più unità (i nuovi comuni), e che tali divenissero anche i preesistenti centri minori.

Si riuscì a far inserire dal legislatore Venezia tra le città metropolitane indicate dalla legge, accanto a Milano e a Napoli, a Bologna e a Firenze, a Bari e a Torino, a Genova e a Cagliari. Da allora, alle nuove richieste di separare Venezia e Mestre, gli esponenti di tutte le principali forze politiche veneziane risposero sostanzialmente nel modo seguente.

”Nelle vostre richieste di separazione di parti del territorio così diverse ci sono ragioni valide, ma accettarle semplicisticamente, così come voi semplicisticamente proponete, produrrebbe danni considerevoli, per moltissime ragioni. Abbiamo ottenuto che Venezia potesse trasformarsi in una città metropolitana, governando così sull’intero ambito della Laguna e del suo territorio, oggi divisi tra più di una ventina di comuni. La grande Venezia, la ricostituita Venezia, che in tal modo insieme formeremo potrà, e anzi dovrà, agevolmente suddividersi in quelle diverse realtà locali capaci di governare i locali interessi”.

Così si promise. Il nuovo sindaco eletto nel 1993 giurò anzi di incatenarsi al cancello del municipio se non fosse riuscito a convincere la Regione a costituire la Città metropolitana di Venezia nel giro di un anno. Poi, nessun concreto passo avanti. Nessun tentativo energico e vistoso di costringere chi doveva ad attuare la legge del 1990. Nessuno sforzo visibile di costruire la città metropolitana “dal basso”, di farla vivere nella realtà con iniziative aggregatrici dei comuni: con iniziative e intese per decidere insieme un unico piano territoriale, un’unica posizione chiara per il governo della laguna, un’unica politica metropolitana per la casa, per i servizi, per i trasporti e per la regolazione del traffico, per i rifiuti e il disinquinamento. Gli accordi, quando pure ci sono stati, hanno avuto un carattere burocratico e tecnico: non sono stati politici, non hanno sollecitato i cittadini a sentirsi partecipi di un disegno unitario, figli e cittadini della Grande Venezia.

In assenza di ciò, in assenza di una risposta positiva e ragionevole alle tensioni separatiste, come meravigliarsi se dalle urne uscirà domattina, un risultato che renderà più piccola Venezia, più povera Mestre, più complicata la vita del cittadino veneziano, più deboli i poteri locali nel confronto con il Consorzio Venezia Nuova, più lontana la prospettiva di un governo unitario della Laguna? O se le ragioni del NO vinceranno di misura, rivelando la profondità della spaccatura che da decenni divide il popolo veneziano?

I responsabili di questo destino non saranno stati (o non saranno stati solo) i promotori del referendum.

Ricordiamone alcuni elementi. Una critica dello Stato sociale della Prima Repubblica privo della proposta di un nuovo Stato sociale: di un nuovo sistema capace di garantire, più e meglio di quello vigente, i diritti comuni in materia di salute, assistenza, sicurezza sociale, istruzione. Un cedimento ai principi della nuova destra dell’Occidente fino a mutuarne gli slogan più infecondi (più mercato e meno Stato, privato è bello ecc.). La rincorsa al secessionismo di Bossi e alle demagogie localistiche, dimenticando che “federalismo” significa unificazione e non divisione, e che in paese “normale” non si fa un secondo passo (il “federalismo”) senza aver discusso il bilancio del primo (il regionalismo).

Le forze politiche della sinistra hanno certo delle scusanti. Non è facile misurarsi con i problemi di una fase indubbiamente nuova dell’assetto del mondo senza avere alle proprie spalle un’analisi compiuta ed efficace come quella che, nel precedente assetto, era stata fornita dal marxismo. Un’analisi, non una descrizione: una lettura scientifica della struttura della società e dell’economia, delle tendenze profonde e dei possibili futuri, un’individuazione delle forze in gioco e – all’interno di queste – di quella o di quelle cui può essere affidato il progresso dell’umanità. Si può comprendere quindi l’oscillazione della sinistra, le sue stesse divisioni, l’alternarsi di fughe in avanti proposte, e di passi indietro praticati. Si può comprendere, ma non giustificare, poiché nell’arsenale delle pratiche e dei principi della “democrazia borghese” e di un buongoverno coerente con il sistema capitalistico esistevano, come esistono, strumenti e valori capaci di assicurare (almeno entro i limiti di quella democrazia e di quel sistema) una decente soddisfazione delle esigenze dell’umanità e del suo sviluppo civile: quindi, di tenere aperte le strade di un più ricco futuro nel quale trovassero soluzione anche i problemi di fondo del mondo contemporaneo.

Il primo valore e strumento è il primato della legge comune: dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle regole stabilite. Ha giovato a ribadire e a praticare questo primato la tolleranza verso il conflitto d’interessi, e il fastidio a volte manifestato verso la magistratura (quasi espressione di una difesa corporativa della politica)? Non credo proprio. Non si può anzi escludere che un simile atteggiamento, oltre a giovare direttamente al peggior satrapo che l’Italia abbia conosciuto, abbia contribuito al distacco della politica dal popolo.

Il secondo valore e strumento è la cura del patrimonio comune della nazione. Non c’è bisogno di essere ambientalisti, non c’è bisogno di avere consapevolezza del valore di quella quota della ricchezza del mondo che è depositata nei nostri territori e nelle nostre città, per comprendere che una visione anche aziendalistica (la “azienda Italia”) imporrebbe di avere una cura di quel patrimonio ben diversa da quella attuale. Non solo di quella praticata dai demolitori riuniti nell’accampamento berlusconiano, ma anche di quella dimostrata dalle formazioni politiche della sinistra: tutte mi sembra, nessuna esclusa.

Una prova di questa carenza della sinistra, dell’infezione che dalla destra berlusconiana si è propagata altrove? L’assoluta assenza, nella campagna elettorale appena conclusa dei temi relativi al governo del territorio, alle politiche urbane, alla pianificazione territoriale e urbanistica. Un’assenza antica, che ha fatto dimenticare il passato dei partiti della sinistra negli anni 60 e 70: quando la modernizzazione del paese e il buon governo passavano dall’impegno per la riforma delle strutture (ivi compresa quella urbanistica) e da quello nell’amministrazione urbanistica delle città dove la sinistra era al governo. Un’assenza che, fino a quando permarrà, peserà sul futuro. Lo testimonia un episodio che ha condiviso la cronaca con i risultati elettorali: la questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania.

Il personale politico italiano non ha ancora compreso che la pianificazione del territorio, dentro e fuori le città, è uno strumento essenziale se si vuole risolvere a priori i potenziali conflitti nell’uso del suolo, se si vuole trovare una sintesi tra le diverse esigenze (quelle della tutela e quella della trasformazione, quella delle funzioni private e quelle dei servizi collettivi, quelle che inquinano e quelle che risanano). Probabilmente perché, al tempo stesso, non ha compreso che i problemi di oggi vanno risolti con una visione di prospettiva, di lungo periodo, strategica. La tattica di affrontare i problemi accantonandoli, di evitare i conflitti dando ragione all’ultimo che protesta, consente forse di vincere una campagna elettorale, non di rendere l’Italia un “paese normale”, all’altezza delle sue risorse e della sua storia.

Si veda anche la Lettera a Micromega, firmata da alcune decine di urbanisti molti mesi fa (e ancora senza risposta).

Su tutto si può discutere. L’ordinanza del giudice del Tribunale dell’Aquila potrà essere criticata, e anche contestata. Ma i giudizi unanimi e perentori (salvo pochissime eccezioni: grazie, Paolo Mieli) sono stati emessi subito, senza neppure aver letto quel dispositivo che insigni giuristi hanno giudicato ineccepibile. A me il crocifisso nelle aule non ha mai dato fastidio (mentre me ne darebbe molto il ritratto di B: se malauguratamente divenisse Presidente della Repubblica), ma penso che nessun uomo religioso possa oggi, nella civile e democratica Europa, presumere che la sua fede possa vincere per imposizione di legge. Credo nella superiorità dei valori elaborati dalla civiltà occidentale nei millenni della sua variopinta storia, ma non penso che siano gli unici al mondo, e men che meno che possano prevalere affidandosi alla forza.

Ho sempre pensato che questi fossero pensieri comuni al mondo della sinistra, a quello della solidarietà e a quello del liberalesimo: anzi, pensieri normali. Quando ho contribuito a scegliere chi eleggere ai vertici delle istituzioni ho sempre pensato che i miei candidati fossero persone che sanno anteporre il ragionamento all’impulso dell’emozione, il pensiero al turbamento. L’episodio del crocifisso di Ofena ha fatto vacillare le mie certezze.

La mia preoccupazione è stata ribadita, pochi giorni dopo, dalle reazioni febbrili all’annuncio che, richiesti di esprimersi tra quale, tra quindici stati del mondo (compresa l’Europa) costituisse oggi la maggiore minaccia per la pace, la maggioranza degli interpellati abbia risposto Israele. E allora? Possibile che noi, civili europei, colti giornalisti, pensosi pensatori, eminenti statisti, navigati politici, non si sia imparato a distinguere Stato e razza, governo e religione? Possibile che non si possa criticare Israele senza passare per antisemiti? Soprattutto in una situazione nella quale (come tra il Giordano e il Mediterraneo) la piaga purulenta della pluridecennale riduzione di generazioni di palestinesi nei campi di concentramento (e non è certo Yasser Arafat il colpevole di questo regime concentrazionario) ha formato vivai di ribellione e di terrorismo, dove il diritto dei popoli e le pronunce degli organismi internazionali sono stati ripetutamente e impunemente violati, dove l’unica legge avvertibile nei rapporti tra popoli l’uno all’altro ostile è “occhio per occhio, dente per dente”.

A me sembra del tutto ragionevole che oltre la metà degli europei interpellati abbia posto, tra i paesi che più minacciano oggi la pace, Israele insieme all’Irak, alla Nord Corea, all’Iran e agli USA. Sì possono certamente avere altri pensieri e formulare altre graduatorie, si può valutare diversamente l’eccesso di autodifesa di Sharon, ma da questo a indignarsi e tacciare di antisemitismo quegli europei che quell’eccesso lo ritengono deleterio e rischioso per la pace, mi sembra davvero inquietante.

Mi domando le ragioni di questa apparente generalizzata incapacità di ragionare, di sceverare, di distinguere. Non so trovarle. Qualcuno mi aiuta?

L’avevo chiarito aderendo all’iniziativa “un voto in prestito per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente”. Questo è oggi l’obiettivo: una sinistra che riesca a superare le sue divisioni e, pur conservando la ricchezza costituita dalla molteplicità delle sue anime, sappia trovare le ragioni della sua unità. E che poi, su questa base, possa diventare uno dei momenti determinanti di una coalizione di governo – quale quella che il sistema maggioritario richiede e che è necessaria per battere non solo Berlusconi, ma anche la destra in Italia.

È sulla base di un risultato positivo, largamente positivo, che bisogna ora cominciare a lavorare. Lo ha detto con chiarezza il coordinatore della segreteria dei DS, Vannino Chiti, nel suo primo commento ai risultati elettorali: «Il centrosinistra aumenta i consensi rispetto al 1996, quando vinse le elezioni politiche. Ora inizia il lavoro per elaborare un programma che permetta di costruire un'alleanza in grado di vincere e di arrivare al governo del Paese». Credo che si debba subito raccogliere l’invito di Chiti: noi elettori aspetteremo e valuteremo a questo primo traguardo le formazioni del centro e della sinistra.

Io credo che al primo punto debba esserci (che non possa non esserci) altro obiettivo che il ripristino della legalità. È su questo punto che Berlusconi ha inferto le peggiori ferite alla convivenza e alla democrazia, al sentimento comune e ai diritti di tutti. Mi piacerebbe che al primo punto di un programma comune ci fosse questo impegno: e l’elenco preciso delle piante velenose da sradicare e di quelle virtuose da piantare al loro posto. Mi rendo conto che è una questione delicata. La linea perversa di Berlusconi e dei suoi accoliti è cominciata negli anni di Craxi, e il suo prodromo si chiama Tangentopoli: quel male non è stato sradicato, e solo dal suo sradicamento passa la possibilità di costruire una reale alternativa di governo.

Da questo primo punto molti altri ne nascono. Ripristinare la legalità comporta anche ripristinare i diritti: quegli degli uomini di oggi, della loro salute, del lavoro, della formazione. Ma anche quelli degli uomini di domani: quindi, l’obiettivo dell’impiego virtuoso delle risorse e dell’esercizio, a questo proposito, della virtù della parsimonia.. Sarebbe bello, e anche utile, riprendere alcune intuizioni lasciate cadere frettolosamente: da quella dell’austerità a quella della “riconversione ecologica dell’economia. È su questo terreno (oltre che su quello della pace e dell’affermazione di un’idea non imperialistica del rapporto tra le culture diverse) che si gioca il futuro del mondo: come, con quali profonde innovazioni nelle scienze dell’uomo e in quelle delle cose, è possibile operare perché i limiti del nostro pianeta non diventino fonti di sperequazioni, di drammi e infine di catastrofi, ma suggeriscano nuove strade allo sviluppo dell’uomo e del suo bisogno?

Molti, anche fuori dai nostri confini, vedrebbero come un segnale importante che dall’Italia, dal paese che ha avuto la più alta percentuale di votanti alle elezioni europee, la discussione sul governo da costruire dopo Berlusconi si aprisse con un respiro universale. E credo che anche le nuove generazioni si entusiasmerebbero più a questi temi che a quelli che la cronaca politica squaderna ai loro occhi.

A me, come urbanista, mi farebbe piacere, e mi sembrerebbe giusto, anche per un altro motivo. Affrontare la questione di un impiego ragionevole e durevole delle risorse porterebbe in primo piano il tema del governo del territorio e delle sue trasformazioni, della tutela delle ricchezze in esso depositate dalla natura e dalla storia, della pianificazione come strumento indispensabile per portare a sintesi le differenti esigenze che si manifestano nell’uso del suolo. È un tema che da troppo tempo è scomparso dall’attenzione delle forze politiche (e degli stessi mass media), con grave danno per il futuro del paese e per le esigenze attuali delle cittadine e dei cittadini.

Eddytoriale 47, 7 giugno 2004

Un voto in prestito

È una questione di cultura, innanzitutto. I paesaggi campani sono tra i più antichi e nobili del mondo: basta pensare ai terrazzamenti della costiera amalfitana e di quella sorrentina; basta pensare ai feracissimi terreni della piana tra Napoli e Caserta, resi tra i più fertili del mondo dalle millenarie ceneri vesuviane. Basta pensare ai Campi Flegrei, straordinari per l’intreccio di rarità geotermiche e lasciti greci e romani.

È una questione di sicurezza per le vite e le risorse umane. Desta orrore leggere che sulle pendici a rischio del Vesuvio, nella “zona rossa”, si concede ancora di costruire (si veda il Corriere della sera del 25 ottobre, che denuncia: “Ai piedi del Vesuvio ogni giorno si scoprono nuovi cantieri. Nei paesi della zona rossa, quelli a più alto rischio in caso di ripresa dell’attività eruttiva del vulcano, si continua a costruire. E non abusivamente, ma con tanto di licenza edilizia”). E com’è possibile che si debba oggi ancora temere ad ogni pioggia per i paesi e i paesani nella piana del Sarno?

Ed è infine una questione delle risorse economiche offerte da un’agricoltura pregiata. Il valore (anche economico) delle uve e dei limoni, degli ortaggi e dell’olio, delle albicocche e delle cerase, dovrà scomparire per il proliferare di case, casarelle, capannoni e capannoncini, così come sono scomparsi dalla Piana del Sarno i famosi Sammarzano cacciati dai veleni industriali e da quelli degli additivi chimici? Proprio oggi, che le produzioni agricole di qualità (e di nicchia) cominciano a essere fruttuosamente commercializzate e trovano accoglienti mercati nel mondo?

La Campania ha tre importanti scadenze, e tre possibili strumenti, in questa settimane. Quello che richiede un intervento più urgente è il Piano territoriale provinciale di Napoli. Ha preoccupato molto l’affermazione dell’assessore all’urbanistica, secondo il quale il piano tutelerebbe 30mila ettari di aree a produzione agricole: meno del 30% della superficie territoriale, contro il 45% attuale (e l’80% del 1960). Come preoccupano le norme che affidano al completamento urbanistico i 15mila ettari denominati “aree di frangia”: aree che comprendono le terre murate, gli aranceti e gli arboreti promiscui della penisola sorrentina, porzioni significative dei versanti collinari flegrei, con gli orti arborati ad elevata complessità strutturale dei ciglionamenti medievali, e infine quote cospicue degli orti arborati ed albicoccheti del pedemonte Vesuviano. Si è nella fase delle osservazioni: si può correggerlo

La regione sta predisponendo due atti: il piano territoriale, e la legge urbanistica regionale. Potrebbero essere strumenti utilissimi, se mettessero dei paletti seri all’occupazione edilizia dei territori aperti. Se il primo non fosse una mera descrizione della realtà e l’indicazione di “direttrici strategiche”. Se la legge non fosse tutta di procedure volte a razionalizzare il trend, ma ponesse alcune coraggiose scelte di merito.

Per esempio, se stabilisse che “nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente”. Che “le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali”. Che “nuovi impegni del suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti quando non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e infrastrutture esistenti”. Che il territorio agricolo non vale solo per la generica funzione produttiva, ma anche per il suo valore e la sua utilità“storico-culturale, estetico-percettiva e paesaggistica, di mantenimento dei cicli idrologici e biogeochimici e di riproduzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo)”, e per la sua idoneità a costituire delle “cinture verdi per l’attenuazione degli impatti locali e globali dei sistemi urbani, di risorsa per lo svago e la vita all’aria aperta”. Che alla pianificazione provinciale spetta, tra l’altro, “di evitare ingiustificati consumi di suolo e di tutelare l’integrità funzionale e strutturale dei sistemi ecologico-naturalistici, agro-forestali, paesaggistici e storico-culturali”. Che il piano comunale ” garantisce l’integrità strutturale e funzionale del territorio agricolo, forestale e naturale”. Che, a tal fine, “il piano comunale determina come invariante strutturale la linea che separa il territorio urbano da quello aperto”, e stabilisce che in quest’ultimo “è vietata qualunque trasformazione che non sia finalizzata agli usi specifici del territorio rurale stabiliti dalla legge regionale”.

Una legge urbanistica che ponesse questi paletti sarebbe una legge utile. Un piano regionale che avesse alla sua base questi principi, sarebbe un documento condivisibile. Un piano territoriale provinciale che fosse emendato in questa direzione, sarebbe adeguato alle esigenze del futuro.


Paesaggi della Campania, dai Sistemi di terra di Antonio Di Gennaro, dal sito di Risorsa

Non voglio ricordare ancora, se non per rapidi accenni, i guai che il cavalier B., e la sua congrega, stanno producendo: un’intera cartella di Eddyburg è dedicata a questo - ed è piena di lacune. Il primo guaio è il conflitto tra il diritto personale (del singolo) e il diritto comune (di tutti). Quanto siamo lontani oggi dal modo in cui, due millenni e mezzo fa, lo declinò Sofocle. E quanto lontana la figura dei piccoli approfittatori di oggi dal dramma di Antigone, dalla legge morale che la opponeva alla legge della polis. Se è l’attuale quadro politico nazionale a costituire l’emblema del 2004, allora occorre dire che due millenni e mezzo sono passati in discesa, dalle stelle alle stalle.

Come sappiamo bene i guai sono anche altrove: nel territorio e nell’ambiente, nelle finanze pubbliche e nell’economia, nei rapporti di lavoro (anche gli industriali se ne accorgono) e in quelli internazionali (le gag orchestrate con il giovane Bush non nascondono nulla), nello stato sociale e nei diritti di cittadinanza, e nella libertà d’informazione, che ogni altra cosa condiziona . Perciò occorre che il primo segno che verrà dalle urne sia una inequivocabile, sonora sconfitta della “Casa delle libertà”, in tutte le sue componenti e soprattutto in quella trainante.

Ma poi occorre costruire il futuro. Non si può aspettare le elezioni del 2006 per modificare il quadro politico italiano. Occorre cominciare subito a lavorare, e le elezioni di sabato e domenica prossimo sono un momento e uno strumento da non perdere a questo fine. Occorre cominciare a pensare al governo che verrà dopo.

Io credo che non possa essere un governo nel quale abbiano un peso determinante quanti hanno oggettivamente favorito la vittoria di Berlusconi: non solo per sciagurato errore di calcolo, ma per sostanziale affinità di cultura (parlo di cultura in senso antropologico, beninteso, perché dell’altra il Cavaliere ne rivela poca). Non possono essere i più forti quelli per i quali gli slogan “privato è bello”, “più mercato meno Stato”, “via i lacci e i laccioli”, sono tesi da condividere. Il prossimo non può essere un governo nel quale abbiano un peso schiacciante le forze moderate - pure essenziali per costruire uno stato di diritto e uno stato moderno, quindi attento a utilizzare con saggezza le risorse materiali e morali della nazione. Non può essere un governo nel quale la sinistra sia ridotta ai margini, tollerata, usata come l’esercito coloniale usava gli ascari. Altrimenti, la sconfitta di Berlusconi (ove si riuscisse a ottenerla) sarebbe solo una confitta tattica: lo ritroveremmo al potere dopo cinque anni.

A me sembra che se la sconfitta di Berlusconi vedesse, sul fronte dei vincitori, il Triciclo in posizione dominante, ciò renderebbe molto più difficile ottenere, domani, una coalizione nella quale le ragioni della sinistra ottenessero il giusto rilievo. E per ragioni della sinistra intendo quelle che, molto spesso, sono state inventate dalla borghesia ma poi da questa lasciate cadere nel fango.

Mi riferisco al ruolo essenziale dello Stato - in tutte le sua articolazioni istituzionali - in una società moderna di uomini liberi. Mi riferisco al primato del comune sull’individuale (“il tutto è più importante delle sue parti”), al rifiuto della “guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali”, alla solidarietà – nelle società e tra le società – come valore basilare, alla responsabilità verso le generazioni future, al rispetto delle leggi severe dell’economia ma alla loro finalizzazione alle leggi della società.

Battere Berlusconi dunque, e privilegiare, all’interno dell’opposizione, le componenti della sinistra (quelle esterne al "Triciclo", per intenderci). Ma queste, non sono forse esse stesse farcite di errori, di debolezze, di egoismi? Certamente. Ma di questo parleremo subito dopo il 14 giugno, dove si porrà la questione della costituzione di una "per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente".

Per le argomentazioni che costituiscono le premesse di questo testo vedi l'eddytoriale 44.

Qui trovate l'appello Spero che chi ha aderito a qiuell'appello raccolga il mio invito, anche quelli che aderiscono alle componenti di sinistra delle formazioni del "Triciclo".

B. dispone oggi in Italia di un potere che nessuna costituzione razionalmente costruita in una società occidentale poteva immaginare. Ciò dipende dal concorrere di due eventi.

Da un lato, i meccanismi di rafforzamento dei poteri degli organi esecutivi (il presidente del consiglio dei ministri e il governo nazionale, come i sindaci, i “governatori” regionali e le rispettive giunte) rispetto agli organi collegiali e pluralisti (il parlamento, i consigli), che sono stati introdotti negli ultimi anni (tutti d’accordo) per “garantire la governabilità”..

Dall’altro lato l’evento, assolutamente unico nei paesi occidentali, del giungere al massimo vertice del governo di un uomo che detiene un potere monopolistico nel settore delle comunicazioni: di quel “quarto potere”, cioè, il cui peso non è stato in alcun modo regolato dalla cultura e dalla prassi delle istituzioni che, negli ultimi tre secoli, si sono occupate esclusivamente dell’equilibrio tra gli altri tre, classici poteri (il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario).

L’esistenza di questo potere straordinario non incontra un efficace limite nell’opposizione: sia per la sua attuale frammentazione, sia per la sua rappresentanza parlamentare, di molto inferiore rispetto al suo peso nell’elettorato. Gli unici due limiti effettivi consistono nel Capo dello Stato e nella Magistratura. Il primo è un limite temporaneo: il mandato di Ciampi scadrà, e il trend non è tale da far presumere che sarà sostituito, che so, da Tina Anselmi. L’unico vero limite (in assenza del quale il potere di B. non sarebbe straordinario, ma “sconfinato”), è la magistratura. Da qui il grande impegno di B. e dei suoi giannizzeri contro il Terzo potere.

Se così stanno le cose, io credo che l’argine che ci separa dal regime sia davvero molto sottile. La sua fragilità dovrebbe indurci a due decisioni: evitare qualunque azione che possa indebolirlo; impiegare ogni energia per far cessare al più presto l’anomalia di quello straordinario (e tendenzialmente sconfinato) potere.

A me sembra perciò che l’antiberlusconismo non sia un “tallone d’Achille” né, come altri hanno detto, una “ossessione”, ma semplicemente la consapevolezza della centralità e urgenza, in Italia, della questione democratica: dove per democrazia non si intenda la mera procedura elettorale, ma la corrispondenza la più profonda possibile tra volontà dei governati e azione dei governanti (ossia, tra il popolo sovrano e gli esecutori della sua volontà).

Certo, per battere Berlusconi occorre seguire anche le procedure elettorali che sono uno strumento della democrazia, e uno dei più importanti. Ma battere Berlusconi è un prius rispetto a ogni altra scelta. Perciò sono contrario, oggi, all’astensionismo. Perciò sono favorevole a ogni sforzo per costituire un fronte comune, aggregando le forze più diverse per raggiungere l’obiettivo primo (purché, ovviamente, condividano le ragioni democratiche della scelta). Perciò sono preoccupato per qualsiasi accordo che, in cambio di risultati parziali, comporti un rafforzamento di Berlusconi.

Stiamo attenti però. Battere Berlusconi non significa battere il berlusconismo. Questo si è infiltrato in strati molto vasti del mondo politico, e della stessa società. È il risultato della combinazione tra mali antichi della politica italiana: il doroteismo, il potere come fine a se stesso, e il craxismo, la modernità come valore, la corruzione come strumento neutrale del potere. (A questo miscuglio di per sé pestifero B. ha aggiunto la riduzione dell’interesse generale all’interesse del Dominus, con un salto all’indietro all’età delle monarchie assolutiste). È il prodotto della caduta degli ideali, dei “progetti di società”, delle visioni escatologiche, della capacità della politica di guidare la società verso il futuro interpretandone le speranze più alte.

Per battere il berlusconismo (impresa di ampio respiro) bisognerebbe che la politica riprendesse il suo ruolo. Che non cadesse più nell’errore di illudersi di sconfiggere l’avversario assumendone le parole d’ordine e gli obiettivi, come pure il centrosinistra ha fatto nell’intero decennio che è alle nostre spalle, tessendo in tal modo il tappeto rosso che ha agevolato l’accesso di Berlusconi al potere. Se gli slogan condivisi sono “meno Stato e più mercato”, “privato è bello”, “tagliare i lacci e laccioli che intralciano l’impresa”, allora, regime o non regime, Berlusconi è più convincente di D’Alema.

Gli storici attribuiscono un ruolo centrale alla battaglia di Stalingrado. Tra la fine del 1942 e l’autunno del 1943 l’Inghilterra, che aveva resistito a stento alle ondate di bombardieri tedeschi, era l’unica nazione libera: il resto dell’Europa, dal Don all’Atlantico e dai Dardanelli al Baltico era in mano ad Hitler. La battaglia di El Alamein aveva dimostrato la superiorità dell’armata anglo-americana, ma gli alleati non avevano ancora attraversato il Mediterraneo. L’unico fronte di terra era quello orientale. Lì, i tedeschi avevano gettato il 70% dei loro effettivi: circa 3 milioni di uomini dotati di 10.000 carri armati e 3.000 aerei. La scommessa di Hitler era di impadronirsi dei campi petroliferi del Caucaso e delle altre ingenti risorse minerarie e agricole del continente sovietico. Spezzare la resistenza dell’URSS gli avrebbe consentito di spostare il grosso delle truppe verso l’occidente, sconfiggere Gran Bretagna e USA. Nonostante le invocazioni di Stalin, il “secondo fronte” in occidente tardava a realizzarsi.

A Stalingrado bisognava resistere, ad ogni costo. E Ivan resistette. Rafforzata dai consistenti aiuti di materiali e mezzi (soprattutto i camion) forniti dagli USA grazia alla legge “affitti e prestiti” (promulgata dagli Stati uniti per aiutare lo sforzo bellico inglese, che consentiva agli alleati il diritto di acquistare materiali bellici e materie prime con pagamento alla fine della guerra), l’Armata Rossa ebbe il tempo di riorganizzarsi e di scatenare un’intelligente controffensiva, che rimase un classico nelle strategie militari. L’armata di Von Paulus si arrese al generale Zuchov. Cominciò, nel febbraio 1943, la sconfitta della Germania nazista. Le tappe successive furono, nel luglio del medesimo anno lo sbarco in Sicilia, nel giugno 1944 lo sbarco in Normandia e la liberazione di Roma, nell'agosto l'insurrezione di Parigi e l'ingresso di Charles De Gaulle nella capitale francese, nell’aprile 1945 l’insurrezione nell’Italia del Nord e la liberazione delle grandi città, e nello stesso mese lo storico incontro tra l’esercito USA e l’Armata Rossa sull’Elba.

È giusto, insomma, ringraziare gli USA (ripeto: quelli di Roosevelt, non quelli di Bush) del contributo che hanno dato alla liberazione dell’Europa dalla tragedia del nazifascismo: con le risorse materiali, con la partecipazione alla campagna d'Italia, con lo sbarco sulle spiagge della Normandia. Ma non è giusto dimenticare che quella liberazione è stata possibile grazie all’unità delle forze e degli Stati antifascisti, è simboleggiata dall’accordo tra Churchill, Roosvelt e Stalin (qui accanto a Yalta, nel1945), ed è iniziata con il sacrificio di Ivan tra le macerie di Stalingrado. Grazie anche a te, Ivan.

Una prima ragione sta in questo: che è l’ultima volta che in Italia la politica ha dato speranza, alle donne e agli uomini. Perciò la straordinaria commozione che sollevò la sua morte. Perciò la trasversalità del suo rimpianto (che ha toccato persone che militavano in ogni formazione, che votavano per ogni lista, che credevano in ogni fede). Perciò, ancora oggi, le reazioni immediate da ogni versante se qualche sprovveduta valutazione ne sminuisce la figura.

Ma cerchiamo di andare un po’ più avanti. Domandiamoci perché Berlinguer ha saputo dare speranza.

Per dare speranza, la condizione necessaria è dare fiducia; e Berlinguer, pur così schivo, così alieno dall’apparire prima di essere, così disinteressato dall’impegno a “bucare lo schermo” (così lontano, quindi,dal vizio capitale che macchia oggi quasi tutti i politici), dava fiducia. Le sue parole venivano accolte come vere, schiette, sincere. Il suo essere politico veniva sentito come dedicarsi al servizio di un’idea per gli uomini. Si poteva non essere d’accordo con lui, ma non si poteva dubitare dell’onestà delle sue analisi e delle sue proposte.

Sulla base di questa condizione, Berlinguer ha saputo proporre strategie che non riguardavano mai soltanto l’interesse del suo partito, e neppure solo quello delle classi, della nazione e del popolo che direttamente rappresentava ed esprimeva. Ha avuto la capacità di vedere, anticipandoli, i temi grandi della sua epoca, e di indicare per ciascuno di essi una soluzione possibile.

Comprese che gli errori dell’Occidente avevano condannato al deperimento la speranza sollevata dalla Rivoluzione d’Ottobre, che quindi il Socialismo reale era un guscio svuotato d’ogni capacità di progresso. Propose l’ Eurocomunismo perché si riprendesse la via d’una nuova sinistra nel mondo, superando le miopie accomodanti e gli estremismi fuorvianti che avevano lacerato le sinistre europee.

Comprese che le riforme strutturali del paese (le riforme della società, non quelle, nelle quali oggi ci si attarda, delle sue cornici istituzionali) richiedevano una maggioranza che si poteva trovare solo rompendo gli schieramenti. Propose il Compromesso storico come alleanza strategica tra le grandi correnti di pensiero, e le forse sociali e politiche che ad esse si ricollegavano, per costruire un progetto comune.

Comprese (primo tra i politici italiani) che la prospettiva del disastro ambientale e quella di un crescente divario, fino alla rottura, della forbice tra paesi ricchi e paesi poveri non potevano essere scongiurate se non affrontando alla sua radice lo spreco immane di risorse che un consumo asservito alla produzione determinava. Propose l’ Austerità come indirizzo per instaurare giustizia, efficienza, ordine e “una moralità nuova”.

Comprese, prima dei valorosi giudici di Mani pulite, che la politica stava scivolando nell’affarismo non come accessorio, ma come obiettivo dei giochi di potere; da ciò, come molti commentatori hanno ricordato in queste settimane, il suo rifiuto alle offerte consociative di Craxi. Propose la Questione morale come centrale per riaffermare la dignità della politica, la sua capacità di lavorare per un trasparente sistema di obiettivi coerentemente perseguiti.

Spero che i materiali (solo un inizio, per ora) che ho raccolto nella cartella a lui dedicata facciano comprendere la realtà e il valore di Enrico Berlinguer anche a chi non ha vissuto i suoi anni partecipandone gli eventi. E che le poche immagini riescano ad esprimere qualcosa della sua ritrosa capacità di incontrare i cuori delle persone.

Vai alla cartella dedicata a Enrico Berlinguer

Ci hanno allontanato dall’Europa che avevamo contribuito a far nascere. E soprattutto, in pochi anni hanno distrutto ciò che era stato costruito in un paio di secoli. Bisogna fermarli. Al più presto. Questa volta non ci si può far arrestare, sulla soglia del seggio, dalla disaffezione per i politici d’oggi.

Qualche argomento in più va speso sulla terza affermazione. Non voterò per la lista “Uniti per l’ulivo” per tre ordini di ragioni.

Perché è un raggruppamento nel quale prevale la componente moderata del centro-sinistra: è una formazione sostanzialmente di centro, e io preferisco una formazione sostanzialmente di sinistra.

Perché è troppo spiccata la presenza in quella aggregazione di quanti hanno preparato il terreno a Berlusconi e ai suoi: lo hanno oggettivamente assecondato con atti (la bicamerale, lo spoil system e il federalismo, per citarne alcuni) e con parole d’ordine (privato è bello, più mercato e meno stato, basta lacci e lacciuoli, per citare le prime che mi vengono in mente) che esprimevano l’abbandono del rigore a vantaggio della demagogia, e un forte deficit di intelligenza politica.

Infine, perché è stato sconcertante il comportamento dei leader di quel raggruppamento in tutta la vicenda della guerra in Iraq (ma come, solo adesso vi accorgete che i soldati italiani lì sono agli ordini dei peggiori guerrafondai?)

Mi trovo francamente in grande difficoltà a scegliere, tra le altre liste antiberlusconiane, quale preferire. A tutte rivolgo un rimprovero: non sono state capaci di rinunciare alle ragioni delle loro modeste individualità, diciamo pure ai loro egoismi personali o di apparaticchi, per cercar di costruire la “seconda gamba del centro-sinistra”: una componente politica di sinistra ed ecologista (come, secondo le intenzioni di Achille Occhetto, avrebbe dovuto caratterizzarsi il partito che raccoglieva l’eredità del PCI), capace di costituire un solido alleato dei centristi di Prodi, Amato e Fassino.

Renderà meno impegnativa la mia scelta il ragionamento espresso in un appello, lanciato da Franco Ottaviano e sostenuto da moltissime persone che stimo, che riporto qui di seguito. Il titolo dell’appello è Un voto " in prestito”per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente.

Mi sembra che esso esprima con chiarezza, a un tempo, la situazione del tutto insoddisfacente nella quale ci troviamo, l’esigenza primaria di battere la destra devastatrice, ma insieme la volontà di dare al nostro voto per le europee un’indicazione positiva per il futuro dell'Italia.

Non vogliamo solo battere Berlusconi, vogliamo anche che il nostro voto serva a scuotere la sinistra, a farle ritrovare un linguaggio comune, a contribuire alla formazione di uno schieramento che oggi ancora non c’è: uno schieramento di forze diverse, ma capaci di unirsi in un comune sistema di valori e in un comune e convincente programma di governo.

Ognuno di noi, insomma, scelga nell’ambito delle formazioni di centro-sinistra quella che gli sembra abbia fatto meno errori, che sia più decisa a cogliere le aspettative di legalità e di giustizia, di rispetto per i cittadini di oggi e per quelli di domani, e che insieme gli appaia più propensa a impegnarsi, all’indomani delle elezioni, alla formazione di un fronte vasto (più vasto di quello di Berlusconi) e solidale su un numero limitato di cose da fare ( in primis, ricostruire ciò che B. ha distrutto).

Se l’insieme dei voti che saranno raccolti dalle liste opposte alla destra saranno molto di più di quelli berlusconiani, e se al loro interno avranno più peso quelli orientati alla ricostruzione di un’Italia diversa, allora la fine della notte sarà più vicina.

Il testo dell'appello Un voto in prestito

L'immagine illustra la grande manifestazione indetta dalla CGIL a Roma il 23 marzo 2002. E' tratta da questo sito: http://www.pmt.cgil.it/manifesta/inizio.htm

La discussione nata dal delitto malavitoso di Rozzano si è tradotta in una critica ai prodotti più appariscenti (e certamente non tra i peggiori) della cultura architettonica e urbanistica moderna. Abbandonando rapidamente le denunce alle periferie prodotte, negli anni Cinquanta e Sessanta, dalla più ignobile speculazione fondiaria ed edilizia, la deprecazione si è rivolta ai risultati degli sforzi compiti negli anni Settanta e Ottanta per proporre modelli diversi da quelli allora prevalenti: gli enormi scatoloni di dieci o quindici piani accostati l’uno all’altro senza spazio se non quello degli stretti corridoi lasciati all’automobile.

Singolare che nessuno abbia confrontato i requisiti oggettivi dei quartieri di edilizia economica e popolare di Rozzano (con i larghi viali alberati, i giardini decentemente curati e i marciapiedi in ordine) ai quartieri di Torpignattara o della Balduina a Roma, di Pianura o dell’Arenella a Napoli, di viale Zara a Milano o di viale Lazio a Palermo: i mostruosi prodotti, cioè, di quelle due operazioni (la divisione del terreno in lotti tutti fabbricabili, e la moltiplicazione dell’area di ciascuno di essi per il numero dei piani abitabili) a cui si riduce, secondo Leonardo Benevolo, la speculazione immobiliare. Ma tant’è. È più facile additare come “mostri” episodi singolari (si chiamino essi Corviale o Le Vele, lo Zen o Laurentino 38) che affrontare l’analisi dei meccanismi generalizzati di appropriazione privata di beni comuni (tale è infatti il territorio urbanizzato), che ancora agiscono nella città.

Voci ragionevoli si sono pur levate (e in questo sito ne ho raccolte molte). Hanno ricordato come l’origine del disagio della vita in quei presunti “mostri” sia nella cattiva amministrazione, che non ha saputo né dotarli della necessaria mixitè sociale, né completarli con i previsti servizi sociali e con l’attrezzatura dei progettati spazi pubblici, né garantire l’indispensabile manutenzione, e nemmeno garantirne la custodia. Certo, ai difensori di Corviale e dello Zen si può obiettare che un buon urbanista deve comprendere quali sono i caratteri del contesto politico e amministrativo, e tenerne conto. Ma non è insensata la loro replica, quando ricordano l’enorme fabbisogno abitativo insoddisfatto cui occorreva dare risposta, e insieme il clima di accesa speranza in un veloce rinnovamento della politica e dell’amministrazione che caratterizzava gli anni nei quali quegli episodi sono maturati. Anni, ricordiamolo, in cui la “riforma urbanistica” era al centro delle parole d’ordine della politica, e i sindacati dei lavoratori riempivano le piazze di affollati cortei per chiedere “la casa come servizio sociale”.

L’articolo di Paolo Desideri, al quale mi sono riferito aprendo questo pezzo, chiarisce però almeno uno dei termini del problema. Se da una parte (quella dei difensori delle ragioni del patrimonio culturale dell’urbanistica e dell’architettura moderna) si è evocata l’epoca delle battaglie per le riforme della società, dell’affermazione degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, delle speranze di un rinnovamento della città basato sull’uguaglianza dei diritti e sulla condivisione dei destini, Desideri preannuncia lucidamente un’epoca ben diversa. Afferma infatti: “Più consona alle attese e alla cultura abitativa dell’uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città non pianificata, le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista” ( Repubblica, 18 settembre 2003).

È proprio così. Questo è il mostro che il possibile (non inevitabile) futuro ci prepara: proliferazione dell’abusivismo, dissipazione del territorio, degradazione del paesaggio, spreco di suolo e d’energia, dissoluzione dei vincoli sociali, chiusura nel privatismo – e asservimento al Grande Fratello padrone dell’etere e delle coscienze, suscitatore .

Se posso buttarla in politica, direi che all’epoca degli uomini di Togliatti, De Gasperi e Nenni, di Pertini, Moro e Berlinguer, Desideri oppone come inevitabile l’epoca degli uomini di Berlusconi. Speriamo che, oltre a intravederla, quest’epoca non la desideri.

Vedi anche Periferie

Non c’è da meravigliarsi se la maggioranza procede così. La linea culturale della maggioranza è espressa dalla vignetta di Giannelli: costruisca chi può, tanto c’è il prossimo condono. Per rafforzare il concetto che la tutela del paesaggio non è preoccupazione del governo del territorio un altro emendamento precisa che, se le attività del governo del territorio sono “volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità”, ciò va visto “in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio”.

Sviluppo del territorio. Non siamo nati ieri e non siamo nati fuori del mondo. Sappiamo bene che quando oggi, sotto il dominio del peggiore sistema capitalistico-borghese che si sia potuto immaginare, si parla negli USA di “developement” o in Francia di “développement” o in Italia di “sviluppo”, non si allude al concetto di miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, di parsimoniosa fruizione delle risorse, di accrescimento dei valori d’uso presenti nel territorio, ma semplicemente di edilizia e infrastrutture: sviluppo di cemento, ferro, asfalto.

Questo sviluppo è dunque, chiaramente ed esplicitamente, il fine, l’obiettivo, la missione cui il governo del territorio è votato. Anche l’esclusione della tutela del paesaggio e dei beni culturali è funzionale a questa missione. Contraddicendo una linea di pensiero che, fin dai tempi di Bottai, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria, contraddicendo quindi gli indirizzi culturali e legislativi che dalle leggi del 1939 e del 1942 avevano condotto alla “legge Galasso” e alle successive leggi regionali, paesaggio e trasformazioni territoriali sono divisi: affidati a leggi diverse, a uomini diversi, a strumenti diversi. Non c’è dubbio a chi spetterà la parola (la prima e l’ultima) in caso di contrasti: non certo a chi rappresenta i musei e i bei panorami del passato, ma a chi investe, occupa, trasforma, agli “energumeni del cemento armato”, pubblico e privato.

Un tassello rivelatore è stato aggiunto così a un disegno già di per sé perverso, Un disegno il cui centro (lo ripeto una volta ancora) sta nel porre gli interessi degli sviluppatori privati all’origine e al centro delle decisioni sul territorio, scardinando la pianificazione come strumento dell’affermazione del primato dell’interesse pubblico. È chiaro che questo disegno è del tutto coerente con l’ideologia degli uomini del Cavaliere: ne ha ricordato i tratti essenziali pochi giorni fa Ritanna Armeni. Ma perché l’opposizione non fa sentire la sua voce di dissenso, non denuncia lo scandalo di questa impostazione, i danni che provocherà nella vita delle donne e degli uomini di questa e delle future generazioni? Forse perché è stato il centro sinistra, con la modifica del titolo V della Costituzione, ad aprire la strada. Forse perché la proposta di legge della Margherita non è poi tanto distante da quella di Forza Italia. Forse perché i cattivi consigli dell’INU hanno confuso le idee ai legislatori e agli altri opinion maker della sinistra. Forse perché il territorio, i suoi valori, il suo destino sono questioni irrilevanti rispetto allo “sviluppo”.

Forse per tutte queste ragioni insieme. Ma allora non lamentiamoci se Berlusconi regnerà per più tempo di Mussolini. Se la verità è a destra, se anche la sinistra usa le sue parole, perché votare a sinistra?

Qui l'ultimo eddytoriale dedicato alla legge Lupi-

Qui la vignetta di Giannelli, e molte altre

Al nostro B. non è (ancora) consentito praticare siffatti strumenti per affermare il suo dominio. Deve limitarsi a pratiche più sommesse. È riuscito a completare il suo impossessamento delle reti televisive, ottenendo l’approvazione della legge Gasparri-Mediaset e costringendo, attraverso i suoi uomini in Rai, a costringere la presente alle dimissioni. Attraverso la Moratti prosegue l’appiattimento della cultura (esemplare il tentativo di cancellare Darwin). Intanto, l’Italia è scivolata negli ultimi posti nella graduatoria dei paesi per la ricerca, che è il settore che indica il futuro. Sembra addirittura che la P2 sia un’eredità da difendere, se è vero che una pubblicazione ufficiale dileggia l’eroina della Resistenza e della democrazia che ha presieduto la commissione d’indagine su quell’oscuro episodio della nostra storia recente. Su questi argomenti ho inserito articoli di Staiano, Bongi, Colombo, Ricci, Scalfaro, Galimberti, e le vignette di Altan e Giannelli. Un appello di alcuni famosi personaggi della Resistenza francese, molto bello, annoda ai temi (e alle proposte) di quegli anni le battaglie di oggi per i diritti sociali, la formazione e la cultura di massa, la comunicazione; l’ho tradotto prt voi.

Per le questioni della città e del territorio lo spazio maggiore lo occupano le reazioni all’articolo di Mario Pirani in appassionata difesa dell’auditorium di Ravello. Molti hanno avuto la possibilità di rendere noti gli argomenti della loro contrarietà all’intervento inviandoli a Eddyburg che, a differenza di Repubblica, li ha pubblicati (ma a me lo spazio costa meno): troverete così le valutazioni di Giulio Pane, Giuseppe Palermo, Lodo Meneghetti, Desidera Pasolini dall’Onda; e naturalmente, la debole replica di Pirani.

Articoli di Luigi Mazza e di Vezio De Lucia commentano la legge urbanistica Lupi-Mantini. Una nota di Flavia Schiavo aggiorna sulla situazione urbanistica di Palermo, un documento di Mare vivo e WWF su quella dell’Argentario, srticoli di Vitucci sulle grandi opere a Venezia.

Antonio Di Gennaro stimola (a partire dalla vicenda del PTCP di Napoli) a una riflessione sulle idee della sinistra. Nella stessa direzione sollecita una nota in calce a una lettera di Lodo Meneghetti. C’è poco da stare allegri, anche in vista delle prossime elezioni europee. A tutt’oggi ho solo tre certezze:voterò, voterò contro Berlusconi, non voterò per la Lista Prodi. Per il resto vedremo. Questa volta possiamo approfittare del fatto che il sistema proporzionale rende possibile scegliere con tranquillità. Ma certo che, se anche alle politiche nazionali avremo da un lato un raggruppamento moderato (com’è quello del Triciclo: stringeranno la mano a Bush a Roma, il 4 giugno?) e dall’altro la dispersione delle proposte e la confusione delle lingue, ci sarà poco da stare allegri.

Ho deciso di spedirvi più frequentemente la newsletter. Questa volta la inserisco anche come eddytoriale.

In un articolo che ho scritto per la rivista Areavasta (e che inserirò nel sito appena possibile) tento di dare qualche elemento in questa direzione. In estrema sintesi, la mia tesi è che gli interventi proposti e la forma istituzionale adottata per studiarli, sperimentarli, progettarli, eseguirli, sono entrambe in palese opposizione con la possibilità di conservare la Laguna così come è: cioè nel suo carattere essenziale di sistema ecologico in permanente equilibrio tra due destini opposti, ed entrambi distruttivi (terra o mare), grazie unicamente al saggio impiego di una costante azione locale di manutenzione/trasformazione svolta guidando e assecondando (ma non stravolgendo né violando) le leggi e i ritmi della natura.

Certo, un’azione siffatta sarebbe in palese contrasto con le leggi che hanno governato lo sviluppo negli ultimi due secoli. Ma sarebbe perciò stesso anche la sperimentazione pratica d’un modo oggi innovativo di affrontare un problema di frontiera, che è aperto in tutto il mondo: quello di gestire il difficile rapporto tra la soddisfazione delle crescenti esigenze dell’uomo e il rispetto dei limiti e delle qualità delle risorse che il pianeta e la sua storia mettono a disposizione nostra (e dei nostri posteri).

È evidente che da un impegno determinato e “alto” in questa direzione potrebbe nascere un nuovo progetto di sviluppo di Venezia e dell’intera Città metropolitana, fondato sulla cultura della qualità e non della crescita quantitativa, sulla conoscenza e sulla fruizione delle straordinarie ricchezze dell’ambiente naturale e storico e non sulla loro dissipazione consumistica, sulla valorizzazione intesa come restituzione di valori esistenti e non come accrescimento del valore fondiario.

Ma quando mai le forze politiche riprenderanno d affrontare simili temi,a costruire e a proporre un progetto di città e di società, invece di affannarsi alla ricerca del consenso immediato (poco importa se dei commercianti o dei proprietari immobiliari, dei gondolieri o delle grandi holding) da spendere alle prossime elezioni?

Le forze politiche, ecco l’altro tema cui voglio accennare: che fanno in Italia? Su che dibattono e si dividono? Non parlo di quelle sul versante berlusconiano, parlo di quelle alle quali vorrei affidare qualche speranza. Magari non per “i domani che cantano” (i lendemains qui chantent di Paul Èluard), ma per un domani democratico come era quello di De Gasperi e Togliatti, e quello di Moro e Berlinguer: quello della Prima repubblica. Insomma, un domani un po’ più simile all’Europa delle grandi socialdemocrazie e della destre civili.

Sul versante opposto a Berlusconi il tifo è tra i fautori del partito unico e quelli dell’alleanza di partiti diversi (Ulivo si, Ulivo no), tra i modi di arrivarci o di non arrivarci, tra le tecniche da adoperare perché nessuna perda nulla del potere che ha (e magari ne guadagni).

È palese a tutti che non sono questi i problemi reali. Sembra a me (che sono solo un osservatore della politica) che quelli centrali siano due: come restituire all’Italia una competitività economica che ha perso. Come impedire che la deriva impressa da Berlusconi alle nostre istituzioni (ivi compreso il quarto potere, la pubblica comunicazione) non arrivi definitivamente al regime verso il quale è ossessivamente avviata.

Che quest’ultimo sia un rischio drammatico il presidente del maggiore partito del centrosinistra non l’ha compreso, visto che continua a deprecare la “ossessione antiberlusconiana”. Ha dovuto ricordarglielo un vecchio cattolico e democristiano, Oscar Luigi Scalfaro. Gliene sono grato.

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