Le cause della corruzione politica sono molte. Alcune affondano nella natura dell'uomo, altre nella storia dei nostri anni. E' a queste ultime che deve rivolgersi la riflessione politica, perché é su di esse che possiamo agire per rimuoverle ed eliminare così, o almeno sensibilmente ridurre, l'arbitrio, l'ingiustizia, lo spreco, la distruzione di valori essenziali per la convivenza civile che la corruzione politica determina.
Una causa rilevante l'ha individuata Giuliano Amato, nel suo programma di governo, là dove ha testualmente ripreso una frase della proposta politica presentata da Achille Occhetto al Presidente della Repubblica [1]. Il Primo ministro (e il Segretario del Pds) hanno detto che é necessario un impegno del Governo per la riforma delle norme che riguardano "regime giuridico dei suoli e indennità di esproprio, per consentire alle amministrazioni locali di superare definitivamente la pratica dell'urbanistica contrattata".
E' la prima volta, dopo decenni, che il capo del Governo, su sollecitazione del leader del maggior partito d'opposizione, s'impegna ad assegnare priorità alla riforma delle norme per il governo del territorio. Ed é la prima volta che il termine "urbanistica contrattata" entra nel linguaggio politico ai livelli più rappresentativi, e che la "pratica" che quel termine esprime viene additata come qualcosa da contrastare, o almeno "superare".Era necessario un trauma per giungere a tanto: il trauma determinato dal fatto che non solo faccendieri e palazzinari, ma anche costruttori seri, presidenti e amministratori delegati di prestigiose società, e soprattutto assessori, sindaci, dirigenti politici influenti, deputati, e perfino potenti ministri ed ex ministri, sono stati acchiappati, da un pugno di magistrati coraggiosi, nella rete del codice penale.
Era necessario, insomma, che esplodesse "Tangentopoli". Ma che c'entra con Tangentopoli l'"urbanistica contrattata"? Domandiamoci innanzitutto che cosa questa espressione significa.
L'"urbanistica contrattata" é la sostituzione, a un sistemadiregole valide ergaomnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazionediretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità.
Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.
Ci fu, nella storia della Repubblica italiana, un altro periodo in cui la subordinazione delle scelte urbanistiche agli interessi privati apparve come uno scandalo. Fu negli anni in cui le scelte di politica economica e sociale compiute per la ricostruzione postbellica (lasciare le briglie sciolte sul collo dell'edilizia privata) provocarono lo sfrenato divampare della speculazione fondiaria ed edilizia. Per ricordare quei tempi, basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60 entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo memorabile film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dall' Espresso e dagli "Amici del Mondo" e indagato da Antonio Cederna, da Italo Insolera e da Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.
Non é forse allora l'urbanistica contrattata qualcosa di simile a quello che caratterizzò quegli anni? A prima vista, potrebbe sembrare. L'urbanistica contrattata può insomma apparire come una forma semplicemente ammodernata della vecchia, tradizionale speculazione fondiaria. (Così come, del resto, l'intreccio tra politica e affari affiorato a partire dalle iniziative del giudice Di Pietro sembra ad alcuni solo l'ennesima manifestazione della millenaria vicenda degli amministratori pubblici che si lasciano corrompere). Ciò che vorrei sostenere invece é che l'urbanistica contrattata é qualcosa non solo di nuovo e diverso rispetto alla vecchia e nota speculazione, ma é qualcosa di infinitamente più grave, perché più penetranti e pervasivi sono i suoi effetti e le distorsioni che induce (che ha indotto) sull'intero ordinamento delle istituzioni e della società.
Per convincersene, basta pensare sulla differenza tra le reazioni sociali all'una e all'altra forma (quella di ieri e quella di oggi) della subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. Trenta e quarant'anni fa la speculazione fondiaria ed edilizia appariva immediatamente come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Oggi, l'urbanistica contrattata é invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei comportamenti: c'é da credere che il termine, se non fosse esplosa Tangentopoli, sarebbe comparso nelle prossime edizioni dei manuali di tecnica urbanistica o di diritto amministrativo. Ieri, insomma, si trattava di violazioni del sistema di regole dato; oggi, della sostituzione, al sistema di regole date, di un nuovo e perverso controsistema di regole. Ieri, erano infrazioni e violazioni puntuali al'organizzazione istituzionale dei poteri; oggi, é la costruzione di un contropotere.
Ma la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno esser compresi meglio ragionando sui suoi meccanismi: sugli "strumenti urbanistici" di Tangentopoli.
L'urbanistica contrattata é in primo luogo trionfo della discrezionalità. Perché una prassi discrezionale possa affermarsi, é necessario che il sistema di regole cui essa si sostituisce venga preliminarmente screditato; il tentativo (ahinoi largamente riuscito) di screditare la pianificazione urbanistica e, più in generale, le regole del governo del territorio, é infatti il filo rosso che percorre gli anni dell'urbanistica contrattata.
Ma poiché la pubblica amministrazione non può rinunciare a ogni regola, non può ridursi a mera discrezionalità, ecco che, accanto alla demolizione delle regole preesistenti, é poi necessario foggiarsi qualche nuova regoletta: qualche istituto o norma che possa coprire la discrezionalità, darle forma e apparenza giuridica. Le regolette della deroga per pubblica utilità, e dell'estensione oltre ogni limite della concessione di opere, sono stati gli strumenti che hanno accompagnato l'urbanistica contrattata, e con essa hanno costruito il percorso che ha condotto a Tangentopoli.
Si cominciò con una legge del 1978, approvata tra Capodanno e la Befana, quando i parlamentari erano ancora impegnati nella digestione delle feste. Una leggina transitoria (doveva durare solo tre anni, ma fu prorogata silenziosamente di triennio in triennio fino al 1987, e poi resa permanente) consentì che le opere pubbliche fossero eseguite anche se in contrasto con gli strumenti urbanistici. Per poter derogare al piano regolatore e costruire là dove esso non lo consentiva, o realizzare, per esempio, un parcheggio o un ospedale là dove erano invece previsti un parco pubblico o una scuola, bastava che il relativo progetto fosse approvato dal Consiglio comunale [2].
Pochi anni dopo, nel 1980 e nel 1982, due leggi finalizzate alla realizzazione di edilizia abitativa pubblica cominciarono a introdurre la concessione in un senso che aveva poco a che fare con l'originario significato di questo istituto [3]. Fino ad allora, la concessione era stata utilizzata per la realizzazione di opere che costituivano un vero e proprio servizio pubblico o di pubblico interesse, del quale era necessaria una gestione tecnica (per farle funzionare e mantenerle in efficienza) ed economica (per rientrare nelle spese che era costata la loro realizzazione). Ferrovie e autostrade sono stati gli esempi classici della concessione in Italia. Nell'uno e nell'altro caso, affidarle in concessione a imprese private doveva significare mobilitare, per la loro realizzazione, risorse del mercato finanziario privato, significava consentire alle imprese realizzatrici di rientrare nelle spese sostenute incamerando le entrate connesse alla gestione del servizio (i biglietti dei treni e i pedaggi autostradali), e significava infine garantire alla pubblica amministrazione che la realizzazione tecnica delle opere fosse corretta, poiché era alle stesse imprese realizzatrici che spettava l'onere della manutenzione. Del resto, era nelle mani del pubblico che rimanevano le decisioni relative all'impostazione (politica, tecnica, amministrativa) dell'opera, poiché era ad esso che restavano affidate le scelte d'impostazione, fino alla redazione del progetto di massima delle opere.
E' evidente che utilizzare l'istituto della concessione, come con le leggi ora citate si é iniziato a fare, per la realizzazione di alloggi di proprietà pubblica, gestiti dai comuni o dagli Istituti per le case popolari o dagli altri soggetti previsti dalla legislazione in materia ha costituito l'inizio di una distorsione di uno strumento di per sé non perverso. La distorsione si é accresciuta poi quando si é esteso (come é avvenuto nel 1987 [4]) l'impiego della concessione a ogni opera comunque di competenza pubblica, quando si sono affidati e ai concessionari anche le competenze di redazione degli studi preliminari e della progettazione di massima (e cioè la determinazione della qualità del prodotto), e quando infine si sono affidate al concessionario le competenze della direzione dei lavori.
Il massimo della perversione si é peraltro raggiunto là dove ai concessionari si é di fatto assegnato addirittura il compito di procacciare i finanziamenti per la realizzazione delle opere. E' quello che succede, senza sollevare scandalo eccessivo, nel Mezzogiorno, proprio ad opera dell'azione statale.
Con la legge di riordino dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno [5] si apre infatti la strada "all'iniziativa progettuale e programmatoria di tecnostrutture aziendali e professionali che si sostituiscono, di fatto, alle istituzioni elettive, nel quadro di una interpretazione lottizzatoria dei rapporti tra le forze politiche e la distribuzione ed utilizzazione delle risorse finanziarie" [6]. In definitiva, "sono così le aziende a redigere i progetti sui quali cercheranno esse stesse i 'canali' giusti per ottenere il finanziamento, in cambio dell'affidamento dell'esecuzione e, talvolta, della gestione dell'opera"[7]. E assai più della qualità delle opere, della loro utilità sociale, della loro priorità, contano le "entrature e le "relazioni.
Ma a quel punto, l'unico ruolo che rimane al potere politico, delegati tutti gli altri al potere economico, é quello di "rappresentare il popolo", cingendo magari la fascia tricolore. Sicché in definitiva la tangente si configura come il compenso per il servizio (di rappresentanza e copertura) reso: uno stipendio.
E' sempre agli inizi degli anni '80 che si colloca il più dispiegato contributo alla delegittimazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico. Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formulazioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una controllata sanatoria dell'abusivismo pregresso. Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Governo decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perseguito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [8]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, come una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzionalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di sinistra, aperta anche al futuro. Un incentivo all'abusivismo, insomma, anziché un deterrente [9].
Per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianificazione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella pianificazione. E' proprio questo ciò che avvenne, nel corso del primo quinquennio degli anni '80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnarono la discussione della legge. In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". L'urbanistica é un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo é nato e si é sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [10] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti é nato e si é rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.
Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato" [11]. Una parte consistente dell'opinione pubblica era giunta ormai a considerare l'abusivismo come qualcosa che non é un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pagare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a saldarvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abusivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. "Sicché, in definitiva, l'abusivismo appariva come qualcosa di assimilabile a una disobbedienza civile nei confronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si proponeva di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica" [12].
Non sono soltanto i lottizzatori e costruttori abusivi i nuovi soggetti che intervengono attivamente nei processi di urbanizzazione degli anni '80. Alle imprese tradizionali, agli abusivi, agli enti pubblici tendono ad affiancarsi, sostituendo questi ultimi, le grandi imprese. Già ai tempi della discussione delle leggi per la casa, negli anni tra il '70 e il '78, queste avevano tentato di presentarsi alla ribalta come soggetti, "di alto profilo organizzativo e di elevata capacità economica", capaci di sostituire lo Stato nella realizzazione, progettazione e gestione non di singole opere, ma di interi "sistemi urbani". Il pretesto, e l'alibi, erano costituiti dal divario tra le emergenti necessità sociali e le condizioni della pubblica amministrazione. Quest'ultima, si diceva, richiede per il suo adeguamento tempi non compatibili con l'urgenza di provvedere (alle case, alle autostrade, ai tribunali, alle poste ecc.ecc.). In attesa della sua riforma - dicevano allora i propugnatori dello "Stato in appalto" - , affidiamo dunque alle grandi imprese i compiti di programmare, pianificare, progettare, costruire, gestire.
Il nesso tra degrado della pubblica amministrazione (e in particolare dei suoi corpi tecnici, a tutti i livelli) e delega di poteri pubblici alle grandi imprese meriterebbe una indagine attenta. Certo é che, nella nostra storia recente, quel nesso si é rivelato un vero circolo vizioso: il degrado degli strumenti dell'azione pubblica costituiva l'alibi per la delega di competenze, quest'ultima deprimeva ulteriormente le strutture pubbliche accrescendo così la credibilità di nuove deleghe e così via, allontanando sempre più il funzionamento del sistema dal modello costituzionale.
La linea dello "Stato in appalto" fu sconfitta negli anni '70, in Parlamento, da una proposta "istituzionalista", che correttamente attribuiva a una equilibrata composizione delle competenze dei diversi livelli istituzionali le funzioni di programmazione territoriale degli interventi nell'edilizia[13]. Ma le parziali riforme di quegli anni non furono accompagnate da un'azione politica coerente, né furono completate in alcuni aspetti essenziali del quadro necessario per esercitare un efficace governo del territorio. E' anche per questo che, a metà degli anni'80, riemerge qualcosa che sembrava sepolto.
Nel marzo del 1987 che Luigi Lucchini, allora presidente della Confindustria, aprendo l'assemblea della sua organizzazione afferma che lo Stato deve rilanciare la spesa per opere pubbliche, smobilizzare "l'ingente patrimonio demaniale non più funzionale alle esigenze", agevolare l'afflusso del risparmio privato alle "grandi opere pubbliche" [14]. La stampa dell'epoca pone in relazione queste richieste del leader degli industriali con le iniziative che stavano avvenendo in quei mesi. Il processo di riorganizzazione delle grandi imprese non si limitava più alla formazione di episodici consorzi di imprese del settore. Si puntava più in alto: a organizzarsi per un poderoso rilancio degli investimenti pubblici, reso possibile dal risparmio conseguito con la crisi del petrolio, che avrebbe potuto compensare il venir meno della spinta alle esportazioni.
Già al potente gruppo Italstat, ferreamente diretto da Ettore Barnabei (arrestato per lo scandalo dei "fondi neri" dell'Iri, e poi rilasciato per un'amnistia "confezionata apposta per lui" [15] ), si erano affiancati due poderosi consorzi: le Grandi opere (Rendo, Di Penta, Gambogi, Del Favero, Maltauro, Pizzarotti, Romagnoli, Segesta) e la Argo (Impresit, Astaldi, Cogefar, Girola, Federici, Recchi, Lodigiani, Vianini).
Accanto a questi, si costituisce l'Igi, l'Istituto per gli studi e la promozione delle grandi infrastrutture, presieduto da Giuseppe Guarino (poi più volte ministro). Nell'Igi ci si propone di realizzare la saldatura organica tra le tre grandi componenti del mondo imprenditoriale: le imprese private, quelle di capitale pubblico, quelle cooperative, rappresentate ciascuna da uno dei tre vicepresidenti. All'Istituto partecipano trentasei tra le maggiori imprese italiane. Interessante la dichiarata finalità sociale: "accelerare la realizzazione delle grandi infrastrutture, attuare un migliore e più attento uso del territorio, stimolare un intervento per il mezzogiorno, promuovere l'attuazione di un sistema delle concessioni che superi le attuali difficoltà delle procedure".
La stampa parla più volte di una nuova potente "lobby del mattone". Altri mettono in evidenza un aspetto preoccupante. Afferma la rivista dell'Istituto nazionale di urbanistica: "Una simile nuova potenza si pone direttamente al livello dei poteri centrali dello Stato: suoi interlocutori non sono le regioni e i comuni, ma direttamente il governo (e le segreterie dei partiti). Eppure esse si propongono di intervenire nelle scelte che determinano il futuro dell'assetto delle città e del territorio. E tra i suoi obiettivi non c'é solo la 'spartizione della torta', ma lo scavalcamento dei metodi e dei procedimenti della pianificazione e la sostituzione ad essi di un potere direttamente gestito dalle aziende" [16]
Già lo si era visto con i primi passi sulla via della "de-pianificazione": le vele dei distruttori dell'urbanistica si gonfiano col vento dell'emergenza. Negli anni '78-'82 era stata "l'emergenza casa", che aveva giustificato le prime deroghe delle leggi di quegli anni e aveva in qualche modo contribuito anche ad alimentare il più esasperato condonismo dell'abusivismo (lo slogan era: "che senso ha prevedere la distruzione di casette abusive se c'é una così forte carenza di case?"). Ma altre "emergenze" si susseguono, e quando non sono causate da calamità naturali e altri eventi imprevedibili, si inventano con italica fantasia. Terremoti, alluvioni, alghe, manifestazioni sportive, esposizioni, celebrazioni, esigenze di ordine pubblico: tutto fa brodo per gli sregolatori.
Tra le "emergenze inventate" va annoverata la calamità territoriale dei Mondiali di calcio. Dal maggio del 1984 si sapeva che la grande kermesse agonistica si sarebbe tenuta in Italia nel 1990, sei anni dopo. Tutto il tempo di provvedere, quindi: ma allora, non sarebbe stata un'emergenza! E infatti si dorme per tre anni. Ci si sveglia nel 1987, e si approva un decreto, dominato dall'urgenza [17]. Questo prevede, nella sostanza, due cose: soldi per opere d'ogni genere, e facoltà di derogare dalle procedure urbanistiche.
Lo strumento impiegato per derogare é la "conferenza". Una riunione di rappresentanti di tutti gli enti interessati, vuoi per competenza tecnica vuoi per obbligo di esprimere pareri o accertare conformità, esamina frettolosamente i progetti delle opere e li approva, anche se sono in deroga agli strumenti urbanistici. Un rappresentante del comune presente a una riunione, in cui in mezza giornata si esaminano decine di progetti, col suo "si" o, molto più raramente, col suo "no", scavalca la discussione dl Consiglio comunale, la partecipazione dei quartieri, il parere della cittadinanza: senza alcuna pubblicità, decide per tutti su opere che, in molti casi, condizionano pesantemente il futuro delle città coinvolte [18].
Osserva Luigi Scano: "L'evento calcistico viene cupidamente visto come una nuova occasione per riproporre un vecchio e adusato gioco: prendere le mosse da una circostanza 'straordinaria' per attivare ingenti investimenti, totalmente o prevalentemente pubblici, essenzialmente nel comparto delle opere edificatorie, assumendo l'urgenza e la ristrettezza dei tempi disponibili, l'assenza di coerenti e funzionali previsioni sedimentate negli strumenti di pianificazione e di programmazione, e anche la farraginosità (presunta, e anche reale) delle ordinarie disposizioni di merito, le carenze dei sistemi decisionali politici e delle amministrazioni, come ragioni ('e che ragioni forti!', direbbe Leporello) per sospendere l'efficacia del maggior numero possibile di 'regole'" [19].
I Mondiali fanno rapidamente scuola. Le procedure derogatorie si allargano via via, con ogni legge o leggina che riguarda, direttamente o indirettamente, il governo del territorio. Tra gli esempi più significativi, la legge per le mucillaggini [20], i provvedimenti per le celebrazioni di Cristoforo Colombo [21] e i nuovi provvedimenti speciali per la salvaguardia di Venezia. E' sulle vicende della città lagunare (uno dei bunker di Tangentopoli colpita dalla Magistratura) che é utile soffermarsi.
Nel bene e nel male, Venezia é stata spesso un laboratorio di formule politiche e di istituzioni e procedimenti. Negli anni '70, con la legge scaturita dagli eventi calamitosi del 1966 [22], si cerca di sperimentare la pianificazione di "livello intermedio", il risanamento dell'edilizia storica senza espulsione di abitanti, lo "sportello unico" per l'approvazione dei progetti, l'alleanza programmatica tra Dc, Psi e Pci. Negli anni '80 si sperimentano due istituti, tra loro strettamente connessi nella recente esperienza italiana, tipici della nascente Tangentopoli: i consorzi di imprese e la concessione.
Il consorzio di imprese si é rivelato, in questi mesi di riflessioni giudiziarie, essere diventato lo strumento ideale per evitare gli "inconvenienti" (per le imprese) della concorrenza, per tenere con ciò stesso alti per la collettività i costi della realizzazione delle opere pubbliche, per aumentare infine (in virtù delle "sinergie", parola divenuta alla moda proprio in questi anni) la forza di pressione diretta a ottenere dallo Stato consistenti finanziamenti per i grandi progetti volta per volta decisi. La concessione, cui si é già accennato, é diventata lo strumento per la delega alle aziende private a capitale privato, cooperativo e pubblico (la presenza delle tre componenti é stata sempre considerata necessaria per ottenere una copertura politica completa) della progettazione e realizzazione di grandi progetti di trasformazione territoriale. La connessione tra consorzi e concessione (realizzata mediante l'assegnazione ai consorzi della concessione di opere e/o di servizi) ha costituito infine lo strumento ideale per la simbiosi, in molti casi malavitosa, tra imprenditori, in molti casi corruttori, e politici, in molti casi concussori.
A Venezia le esperienze si sono snodate, in rapida successione, a partire dal 1984, ruotando attorno a tre personaggi di diverso (ma sempre notevole) spessore politico, tutti e tre inquisiti dalla Magistratura in relazione ai noti eventi: Gianni De Michelis, Carlo Bernini e Franco Cremonese. Leader indiscusso del Psi veneziano il primo e due volte ministro, prima alle Partecipazioni statali poi agli Esteri, attualmente vicesegretario del suo partito; leader della Dc veneta dopo Toni Bisaglia, presidente della Regione e poi ministro per i Trasporti il secondo; presidente della Regione dopo Bernini, infine, il terzo.
Tutto é cominciato, cronologicamente, con le modifiche alla legislazione speciale per Venezia apportate con una legge del 1984 [23]: nello stesso anno, quindi, del condono dell'abusivismo edilizio. La nuova legge affida a un consorzio di imprese, denominato Consorzio Venezia Nuova e costituito dal fior fiore delle imprese italiane di costruzioni e di ingegneria, gli studi, la progettazione e l'esecuzione delle opere di competenza dello Stato: opere altamente complesse, e altrettanto costose, che si ritengono necessarie per ripristinare la morfologia lagunare e regolare le maree [24].
Una successiva legge per Venezia [25] si pone l'obiettivo di affrontare in modo finalmente efficace il problema del disinquinamento della laguna, intervenendo organicamente sull'intero bacino scolante con le opere di competenza della Regione: naturalmente, affidando a un apposito consorzio i compiti di progettare ed eseguire le ingenti opere necessarie. Ma é, programmaticamente, un consorzio diverso dal primo, per la sola ragione che i patrons dorotei del Veneto non si fidano del colore politico prevalente attribuito, a ragione o a torto, al Consorzio Venezia Nuova. Il nuovo organismo viene costituito; senza troppa fantasia, viene denominato Consorzio Venezia Disinquinamento: un nome che entrerà, nella torrida estate del 1992, nelle cronache giudiziarie.
Due consorzi dunque, e due concessioni, in relazione alla stessa laguna: l'uno sul solo invaso lagunare, l'altro sull'intero bacino scolante. Come si può pensare però che disinquinamento e riassetto morfologico della medesima laguna, affidati a due soggetti diversi, possano procedere senza un opportuno coordinamento? Ecco allora che, dopo lunghe e animate discussioni "politiche", interviene provvidenzialmente una ulteriore legge [26]. Questa dispone che, per coordinare tra loro i programmi e l'operato della longa manus del Ministero dei lavori pubblici (primo consorzio) con quella della Regione (secondo consorzio). intervenga il Ministero dell'Ambiente. Con quale strumento? Lo spirito dei tempi lo impone. Naturalmente, lo strumento non può essere una struttura pubblica: dovrà essere anch'esso un consorzio, il terzo.
I giochi sembrerebbero finiti. Non é così. Tra le cose urgenti per Venezia c'é la necessità di riprendere il sistematico lavoro di manutenzione dei rii e canali interni, occlusi dal fango e dalle immondizie depositate sul fondo dopo un secolo d'incuria; contemporaneamente, riprendendo anche qui un'antica tradizione abbandonata, si potranno risanare le murature di fondazione dei palazzi. La competenza é del Comune (i soldi, come sempre, sono del contribuente). Ma il Comune non compare alle spalle di nessuno dei tre consorzi fin qui costituiti. Ecco allora che ci si adopera per costituire un quarto consorzio, formato da un accorto dosaggio di partecipazioni incrociate dei componenti degli altri tre consorzi. Si formerebbe così un ideale quadrivio, nel quale far convergere sinergie, finanziamenti, appalti (e, se occorre, tangenti). Le iniziative della Magistratura hanno suggerito di sospendere la formazione del terzo e del quarto soggetto.
Non sempre la costituzione di consorzi é promossa da una iniziativa legislativa, o comunque da una (almeno apparente) promozione pubblica. A volte, la partenza é assolutamente privatistica, anche se, come vedremo, con singolari e discutibili intrecci tra pubblico e privato. A volte, sono le aziende che si organizzano, "inventano" un progetto su cui si propongono di attirare l'opinione pubblica e i "decisori" politici, per ottenere risorse da gestire. A volte, insomma, é l'offerta che si dà da fare per creare la domanda.
Anche qui, Venetia docet. Il caso più singolare é la vicenda della tentata (secondo altri, minacciata) Expo Del Terzo Millennio. Il sasso in piccionaia lo lanciò Gianni De Michelis, nel 1984, in un'intervista giornalistica. Sulla sua idea, e sulle prospettive che essa faceva balenare, si costituì un consorzio di imprese, autodefinitosi Venezia Expo. Lo componeva il solito pool di imprese, molte delle quali autorevoli, potenti, e alcune nella condizione del "privato vicino al pubblico" [27]. L'obiettivo era di sollecitare il Governo italiano a premere perché l'apposito Ufficio internazionale delle esposizioni (il Bie) decidesse di tenere a Venezia la prestigiosa Esposizione universale nell'anno 2000: naturalmente candidandosi a gestire i consistenti flussi finanziari.
Il Governo, naturalmente, si impegnò, con le dichiarazioni e i conseguenti atti di due Presidenti del Consiglio, Craxi e Andreotti. La cosa sembrava fatta. Il gigantesco battage pubblicitario, e le sofisticate operazioni di cattura del consenso dell'opinione pubblica, sembravano essere lì lì per far assegnare all'Italia (e a Venezia) l'onere di organizzare la grande fiera e di realizzare, con una ingentissima spesa mai esattamente quantificata, le costose opere necessarie. La stampa di quei mesi informa che le ambasciate italiane, soprattutto quelle nei paesi che ricevevano, o speravano di ricevere, assistenza dall'erario tramite la Farnesina, sono sollecitate ad adoperarsi per convincere i relativi governi a votare per la soluzione veneziana alla riunione del Bie che deve decidere tra le candidature concorrenti (Ministro per gli Affari esteri era all'epoca De Michelis).
Ma si era messa in moto, nel frattempo, la reazione di chi, temendo l'effetto perverso che una Expo a Venezia avrebbe provocato sul delicato tessuto fisico e sociale della città, contrastava l'iniziativa. Essa coinvolse la più qualificata opinione pubblica nazionale e internazionale, e finì per determinare il pronunciamento sfavorevole del Parlamento europeo e di quello italiano. Il pallone si sgonfiò. Ma il Consorzio rimase in piedi, é ancora vivo in attesa di costruire nuove occasioni d'affari: quello dell'Expo é fallito solo per un soffio, non tanto da spegnere le speranze per il futuro. E comunque, la vicenda é servita per dimostrare come le "sinergie" tra pubblico e privato, costruite spavaldamente fuori dalle regole dell'ufficialità (ma utilizzando senza pregiudizi le leve del potere) possono produrre, per le imprese, e per chi con esse si allea o strumentalmente le utilizza, interessanti prospettive di lavoro.
Concessioni, consorzi di imprese, delega di poteri, nuovi intrecci tra pubblico e privato che consentano di "sveltire", "snellire", "semplificare", "rendere più fluidi i percorsi", "realizzare fruttuose sinergie". Nella costruzione e nell'impiego dello strumentario dell'Italia "moderna" ci sono indubbiamente motivazioni rispettabili (ancorché, nel merito, spesso mal poste e mal risolte). Ma c'é anche, e vorrei dire soprattutto, la formazione dell'ambiente più propizio all'intreccio malavitoso tra i pubblici poteri e le risorse collettive da una parte, e gli interessi privati di potenti soggetti economici e influenti soggetti politici dall'altra parte.
Del resto, per quanto riguarda i due attrezzi di cui ci siamo ora occupati (la concessione e i consorzi) la Comunità economica europea ha da tempo raccomandato di limitare e circondare di garanzie l'istituto della concessione, considerato suscettibile di provocare effetti perversi per l'interesse pubblico e per il corretto funzionamento del mercato. Puntare, da parte della pubblica amministrazione, sull'accordo preventivo tra imprese, tramite la formazione di consorzi che tendano a comprendere al loro interno tutti i potenziali concorrenti, indubbiamente consente di controllare meglio l'esito degli appalti. Non però nel senso di spuntare prezzi migliori, quali sarebbero quelli determinati da una "libera concorrenza", ma in quello di garantire meglio, ponendosi al riparo dalla concorrenza, che i prezzi siano tali da consentire il passaggio di mano di robuste tangenti.
Da questo punto di vista, la panoramica finora aperta su Tangentopoli ha rivelato davvero un inquietante intreccio di responsabilità, di colpe e di tradimenti. Da una parte, i concussori: i politici, in teoria (e nei rotondi discorsi pronunciati nelle cerimonie e sul video) gli esponenti dell'espressione democratica degli interessi generali, che tradiscono il loro mandato, e quindi la moralità del loro ruolo sociale, barattando l'interesse collettivo per una lucrosa sistemazione dei propri interessi economici e/o di potere. Dall'altro lato, i corruttori: gli imprenditori, in teoria (e nelle chiacchiere dei salotti come nei sussiegosi editoriali sui giornali a loto più vicini) i depositari e gli interpreti delle virtù del capitalismo (e occorre dire, in questi chiari di luna, della sua superiorità storica sul socialismo), che gettano via mercato e concorrenza per acquisire sicure rendite di posizione. A un bel connubio davvero era affidata la "modernizzazione" del paese!
La distinzione dei ruoli tra pubblico e privato quale premessa per i rapporti economici tra i soggetti dell'una e dell'altra categoria, é indubbiamente una base indispensabile per il corretto funzionamento di una democrazia moderna. Più antica ancora é la consapevolezza della necessità della distinzione tra pubblico e privato nella gestione dell'urbanizzazione del territorio. Qui la subordinazione degli interessi economici privati agli interessi della città in quanto tale é riconosciuta, fin dai "secoli bui" del medioevo europeo, come la condizione perché la città cresca e si trasformi libera, bella e funzionale [28].
In un'epoca dominata dall'individualismo proprietario, quale é quella che caratterizza la lunga fase dell'egemonia capitalistico-borghese fino alle sue più recenti mutazioni ed espressioni, quella subordinazione ha avuto bisogno di specifici strumenti tecnici perché le regole dell'individualismo proprietario non prevalessero nella città: dunque, là dove ciò - se fosse avvenuto - avrebbe prodotto un insostenibile caos. Per imprimere, all'azione dei singoli proprietari e costruttori, una regola d'insieme volta agli interessi collettivi, si é inventato nella seconda metà del XIX secolo il piano regolatore; e nei primi decenni del XX secolo si é compreso che era necessario accompagnare il piano con gli strumenti che rendano possibile una politica fondiaria non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria, e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare.
L'Italia é arrivata abbastanza tardi, rispetto agli altri paesi europei, a generalizzare la pianificazione urbanistica. Una buona legge fu quella approvata nel 1942, cinquant'anni fa, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni [29]. Essa però rimase inutilizzata per molti anni, finché gli scandali esplosi all'inizio degli anni '60, e le stesse esigenze di efficienza del sistema produttivo, non indussero a generalizzarne l'applicazione [30]. Quando questo avvenne, la Corte costituzionale, con una serie di sentenze pronunciate a partire dal 1968, fece emergere un nodo di fondo irrisolto: la contraddizione tra i "vincoli", e soprattutto quelli "di tipo espropriativo", necessariamente posti dalla pianificazione urbanistica alla utilizzazione edilizia della proprietà privata, e i princìpi ordinatori del sistema giuridico italiano.
Sono passati quasi venticinque anni, e il nodo non é stato ancora sciolto [31]. La legittimità dei vincoli urbanistici e delle indennità espropriative, e quindi della stessa pianificazione, sono messe in dubbio. E' chiaro che questo fornisce alibi consistenti a chi vuole "regolare" l'uso del territorio a partire non dagli interessi della collettività, ma da quelli dei proprietari.
Nel corso degli anni '70 si era compiuto, in particolare a Roma, uno sforzo consistente per raggiungere un obiettivo di grandissimo interesse politico, economico, sociale: rompere la saldatura tra impresa edilizia e speculazione fondiaria, tra profitto e rendita. Tagliando faticosamente con una tradizione che vedeva, nel bilancio delle attività edilizie, prevalere massicciamente gli utili della speculazione su quelli dell'impresa produttiva consistenti gruppi di imprenditori avevano scelto di orientare la loro attività alla realizzazione di edifici sulle aree preventivamente espropriate dal Comune. Ciò era stato possibile utilizzando con intelligenza politica lo strumento costituito dalla legge 167/1962 e trovando una sinergia (questa volta virtuosa) tra la volontà dell'amministrazione di sinistra di realizzare alloggi senza pagare prezzi elevati alla rendita, e la disponibilità di alcune componenti dell'Associazione dei costruttori di ammodernare la categoria avviandola su una strada nettamente "imprenditoriale" [32].
A Roma, ma non soltanto a Roma: in tutte le zone del paese dove il governo del territorio adopera gli strumenti forniti dalle leggi urbanistiche degli anni '60 e '70 (la maggior parte dell'Italia centrale e settentrionale) si cominciano ad affermare realtà imprenditoriali "pulite", che operano (naturalmente senza rimetterci) nelle aree preventivamente espropriate dai comuni, per interventi edilizi in cui i prezzi di vendita sono convenzionati con l'Amministrazione comunale: a carte scoperte.
La tendenza s'inverte nettamente nel decennio successivo. I piani della legge 167/1962 sono svuotati: prima c'era l'esproprio preventivo, adesso sono i proprietari i favoriti nell'edificazione. Avere il "vincolo" del piano 167 sul proprio terreno non é più una penalizzazione, é un premio. Sembrano frustrati i tentativi di affrancare il profitto dalla rendita: quest'ultima riprende il sopravvento. E le cronache urbanistiche degli anni '80 sono costellate da progetti in cui l'iniziativa é assunta da grandi gruppi economici in cui il motore non é l'attività imprenditoriale, ma la "valorizzazione immobiliare".Ciò che interessa non é tanto realizzare, quanto "mettere in portafoglio" il valore di un'area che, da agricola, o industriale (magari coperta da fabbriche obsolete) diventa edificabile per destinazioni ricche: prevale il terziario, privato e pubblico. E il Comune va a rimorchio, mette lo spolverino a decisioni già prese, copre e avalla affari altrui.
Succede dappertutto. Nelle città grandi e in quelle medie e piccole. Nei centri storici (come con la proposta Neo Napoli, sponsorizzata da Paolo Cirino Pomicino) e negli ambienti naturali più delicati e pregevoli (come nella Baia di Sistiana, nel comune di Duino Aurisina). Nelle zone industriali dismesse (come il Lingotto a Torino, la Bicocca e l'Alfa-Portello a Milano, la Zanussi a Pordenone, l'Italsider a Napoli, la Fiat-Novoli a Firenze) e nelle zone esterne ai centri (come i numerosi tentativi nella periferia di Roma e in quella di Milano). Con le amministrazioni di destra, di centro, di centro sinistra, e anche con quelle di sinistra. Il caso tipico, quello che fa esplodere la questione dell'urbanistica contrattata per la dura reazione del nuovo segretario del Pci, é Firenze. Su di esso è opportuno richiamare la memoria non tanto perché sia l'episodio più grave di urbanistica contrattata, ma per il significato emblematico che ha assunto, e per il possibile punto di svolta che ha rappresentato.
A Firenze, nell'estate del 1984, vengono resi pubblici due progetti d'investimento immobiliare, l'uno della Fiat, nell'area di Novoli, l'altro della Fondiaria. La prima era già proprietaria dell'area, e voleva "valorizzarla". La Fondiaria aveva comprato in vista dell'operazione un vasto compendio di aree nella piana a nord-est della città, lungo una direttrice considerata strategica per la riorganizzazione dell'intera area metropolitana. L'insieme dei due progetti comportava la costruzione di 4,2 milioni di metri cubi, su 228 ettari, e un investimento valutato in 2 mila miliardi.
Il Comune aveva avviato la redazione del nuovo piano regolatore. Attendere la formazione di questo (affidato a due consulenti di grande prestigio e affidabilità, Giovanni Astengo e Giuseppe Campos Venuti) avrebbe permesso di compiere le scelte sulle aree interessate dall'operazione nel quadro, ed in funzione, delle scelte più complessive sulla città, finalizzando gli interventi nell'area nord-est a un progetto di riqualificazione ambientale, all'esigenza di decongestionare il centro storico, all'obiettivo di una più corretta localizzazione metropolitana delle attrezzature urbane. E' quello che suggerisce, ad esempio, l'Istituto nazionale di urbanistica.
Ma le esigenze di "valorizzazione immobiliare" non possono attendere. Gli investitori fremono. Acquisiscono le necessarie comprensioni politiche e amministrative, e ottengono dal comune l'approvazione di una variante ad hoc al piano regolatore vigente. Questa viene adottata dal Consiglio comunale (a maggioranza di centro sinistra) nel marzo 1985. La maggioranza (di sinistra), che subentra dopo le elezioni amministrative conferma le decisioni. La variante prosegue il suo iter, tra le polemiche più aspre e la crescente opposizione di un fronte composito e ampio, indebolito dalla posizione defilata, ma favorevole alla variante Fiat-Fondiaria, del Pci.
Prima che la variante giunga alla sua conclusione, un colpo di scena. Nel giugno del 1989 il Segretario del Pci, Achille Occhetto, intima l'altolà. In una riunione del Comitato federale di Firenze, piena di tensione, giungono una telefonata e due messi del Segretario: i comunisti non possono ulteriormente avallare le scelte della Fondiaria e della Fiat per l'area nord-est, il cui destino deve essere tracciato da un vero piano regolatore generale.
Il partito, a Firenze e non solo a Firenze, é diviso. Anche chi non era convinto dell'operazione Fiat-Fondiaria esprime preoccupazione per il fatto che sia stata necessaria la "telefonata di un segretario di partito" per correggere scelte sbagliate. Il punto é che non si trattava solo di correggere le decisioni di una federazione o di una giunta. Si trattava anche e soprattutto di indicare, con un gesto forte e chiaro, che l'andazzo seguito per oltre un decennio non era compatibile con il nuovo corso del Pci. Un trauma quindi, certamente, ma un trauma necessario: poiché bisognava superare un vuoto che per troppi anni aveva caratterizzato la politica del Pci nei confronti dell'urbanistica: nei confronti dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio.
Un trauma come quello di Firenze non ci fu, in quegli anni, a Milano. E fu un peccato, perché proprio nella "capitale morale d'Italia" la prassi dell'urbanistica contrattata aveva preso più piede, ed era stata anzi teorizzata: proprio negli anni delle giunte di sinistra [33].
A Milano la tradizione era antica. Fin dal dopoguerra si praticava il "rito ambrosiano": una prassi, inventata ai tempi della maggioranza di centro, sembra dall'assessore democristiano Filippo Hazon, che "superava" le norme del piano regolatore vigente concedendo concessioni edilizie (allora si chiamavano ancora "licenze di costruzione") là dove non si sarebbe potuto, con l'ipocrita formula della "licenza in precario". Ma é all'inizio degli anni '80 che il "rito ambrosiano" entra nelle sua fase propulsiva. Vengono approvate decine di varianti puntuali, con le quali si autorizzano oltre 12 milioni di metri cubi di nuove strutture edilizie per il terziario: come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, e come se fosse del tutto indifferente la loro collocazione nella città: per di più, in una città trasformatasi in una agglomerazione caotica, destrutturata, invivibile e inefficiente.
Ma il rito ambrosiano non si ferma alle varianti. Come descrivono Barbacetto e Veltri, "in mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finanziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io amministratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)" [34]: contropartite garantite da lettere private, tenute accuratamente segrete. Difficile credere che ci sia stato qualcuno così ingenuo da non pensare che, tra le contropartite, potevano essercene altre oltre alle case popolari e ai parchi! Il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle successive azioni della magistratura.
Il libro di Barbacetto e Veltri é uscito pochi giorni prima dell'esplosione innescata dal giudice Di Pietro, ed ha un singolare carattere profetico. Ma ancor più profetica appare oggi una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio, riportata nel libro. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto:" Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca" [35]. Così era, a Milano (e non solo).
Sebbene a Milano non ci sia stata nessuna telefonata dalle Botteghe oscure, il Pci (nel frattempo era divenuto Pds) uscì comunque dal gioco, con uno scontro aspro che si aprì quando due consiglieri comunali della lista Pci-Pds, Franco Bassanini e Paolo Hutter, decisero di opporsi a un provvedimento fatto su misura per gli interessi fondiari dell'Italstat, provocando la caduta della giunta di sinistra. Si trattava di un piano che riguardava tre aree limitrofe: una di proprietà della Fiera, l'altra del Comune e la terza (pari a oltre la metà del complesso) dell'Alfa, poi passata in mano all'Iri, da questa all'Italstat e da questa alla Sistemi urbani. In totale, 22 ettari Le esigenze di razionalizzazione della Fiera (un ente di diritto pubblico) erano il grimaldello "d'interesse pubblico" che si voleva utilizzare per rendere edificabile, con 400 mila metri cubi di terziario conditi da alberghi e da un centro congressi (raggiungibile solo in automobile!), l'area della Sistemi urbani.
Il piano era stato approvato dalla precedente amministrazione. I due consiglieri del Pds, i Verdi, e un vasto fronte di associazioni ambientalistiche e culturali, chiedevano che il piano fosse ridimensionato e finalizzato solo alle esigenze pubbliche. Un aspro scontro nel Pds portò al prevalere di questa posizione. Il piano fu bocciato in Consiglio comunale. Su questo si aprì la crisi, e il Pds uscì dalla maggioranza e, anche a Milano, dal sistema dell'urbanistica contrattata. Almeno, si spera.
Così vasta si é rivelata Tangentopoli che uscirne non sembra facile. La società si é manifestata in preda a un'infezione così ramificata e coinvolgente che non basta intervenire su di un solo aspetto.
Non bastano le cure più evidenti, quali le nuove norme per gli appalti delle quali da tempo le organizzazioni più direttamente coinvolte nel processo edilizio (dai sindacati dei lavoratori all'associazione padronale) suggeriscono la necessità. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combattere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta sforzarsi di ripristinare la concorrenzialità tra le imprese, come la Cee invita a fare e come sembra stia facendo il ministro per i Lavori pubblici.
Occorre anche altro. Non si tratta infatti solo di un problema di corruzione diffusa: si tratta di una distorsione pesante e consolidata delle basi del sistema dei poteri. Occorre allora, in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del governo del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò nei terribili anni '80 é stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.
Da dove cominciare, però? Dov'é il capo del filo di Arianna che può aiutarci a uscire da Tangentopoli?
"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che analizzava Tangentopoli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si é tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprattutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbattimento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse" Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legislazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e progetti organici sul regime degli immobili" [36].
La soluzione giusta di un problema é in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'ambiente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi é stato artificialmente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianificazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e spero che il lettore che mi ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora é evidente il che fare.
Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo generale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e metropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli interventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Basta con le deleghe a strutture privatistiche di compiti che sono propri dei poteri elettivi, e basta con le deroghe, le varianti e variantine a vantaggio di Tizio e di Sempronio: basta insomma con l'armamentario dell'"urbanistica contrattata". E basta con la distrazione e con il disinteresse dei politici, come se la pianificazione non fosse il compito e lo strumento indispensabile di una politica moderna, e fosse invece soltanto una ubbia "culturale" o una mansione meramente "professionale" di una qualche corporazione.
Occorre, insomma, una pianificazione efficace ma trasparente, flessibile ma capace di imprimere sempre alle trasformazioni del territorio la coerenza necessaria al governo di mutamenti rapidi in una realtà complessa. Una pianificazione che sappia ripristinare un adeguato sistema di garanzie: garanzie per i diversi livelli istituzionali coinvolti, garanzie per gli interessi economici presenti, ma soprattutto garanzie per i fruitori della città: quelli di oggi, e quelli di domani.
Occorre poi, in secondo luogo, che vada affrontata in modo rigoroso, e finalmente risolta, la questione del regime degli immobili, soprattutto nei suoi due punti cardini: quello dei valori economici e quello dei poteri.
Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà immobiliare (aree ed edifici), è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso legittimo del bene. Tanto antico è questo principio che esso era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865, anche se l'affermazione di principio non é stata mai tradotta in norme e comportamenti con essa conseguenti. E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità di espropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.
Dal punto di vista dei poteri, ciò che soprattutto interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori sia tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.
Soltanto se questi due obiettivi (la rinascita della pianificazione e la riforma del regime degli immobili) saranno raggiunti si saranno poste le condizioni di fondo perché anche gli altri provvedimenti necessari possano trovare una dispiegata efficacia, e perché possa essere così prosciugato il terreno melmoso del disordine e della corruzione su cui sorge Tangentopoli. Senza illudersi con ciò di aver realizzato la città ideale o costruito la società perfetta, ma con la certezza di essere almeno più vicini all'obiettivo di rendere l'Italia un paese moderno e civile, al livello degli altri che appartengono all'Europa.
Venezia, H aprile aa[1] - Mi riferisco alle dichiarazioni programmatiche pronunciate dall'on. Giuliano Amato al Senato della Repubblica il 30 giugno 1992 e al documento illustrato dall'on. Achille Occhetto, a nome del Pds, al Presidente della Repubblica nell'incontro del 17 giugno 1992.
[2] - Legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Con questa legge l'urbanistica, nei comuni, passò di fatto dalle competenze degli assessorati all'urbanistica a quelli ai lavori pubblici. Le decisioni, anche formali, sul territorio non avvenivano infatti più mediante i piani (e le lunghe e ampie discussioni che questi provocavano), ma con un comma marginale introdotto nelle delibere di approvazione dei progetti di opere pubbliche, di competenza appunto degli assessori ai lavori pubblici. Non a caso, negli anni '60 e '70 i partiti si contendevano gli assessorati all'urbanistica, mentre negli anni '80 divennero invece più ambiti quelli ai lavori pubblici.
[3] - Legge n.25 del 15 febbraio 1980 e legge n.94 del 25 marzo 1982.
[4] - Legge n.80 del 17 febbraio 1987, .
[5] - Legge n.64 del 1 marzo 1986.
[6] - Alessandro Dal Piaz, "La questione urbana nel Mezzogiorno", in: La città sostenibile, a cura di Edoardo Salzano, Edizione delle autonomie, Roma 1992, p.187.
[7] - Ibidem.
[8] - Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.
[9] - Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La dimensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del periodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1989; cfr.p.199).
[10] - Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denominato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci.
[11] - Si veda, ad esempio, l'editoriale del n.80, marzo-aprile 1985, della rivista Urbanistica informazioni.
[12] - Ibidem.
[13] - Mi riferisco soprattutto alla legge per la casa, n.865 del 22 ottobre 1971 e alle leggi del periodo 1977-78.
[14] - Si veda, ad esempio, Urbanistica informazioni, n.92, marzo-aprile 1987, p.2.
[15] - Come dichiarava, ad esempio, Franco Bassanini; si veda Panorama, 25 settembre 1988, p.58.
[16] - Ibidem.
[17] - Decreto-legge n.2 del 3 gennaio 1987, convertito in legge e integrato con successivi provvedimenti del 1987, del 1988 e del 1989.
[18] - Alcuni esempi: la ristrutturazione della stazione ferroviaria di Firenze e del piazzale di S.Maria Novella, la grande circonvallazione a Cagliari, la tangenziale a Verona, tronchi di autostrade un pò dovunque, e poi dappertutto alberghi, centri congressi e, naturalmente, stadi e parcheggi. Grandissima parte delle opere finanziate e "facilitate" per i Mondiali sono state completate soltanto dopo il suo svolgimento.
[19] - LuigiScano, "Anni ottanta e mondiali. Chiuso il cerchio della deregulation", in Urbanisticainformazioni, n.119, gennaio-febbraio 1990.
[20] - Legge n.426 del 30 dicembre 1989, Misure di sostegno per le attività economiche nelle aree interessate dagli eccezionali fenomeni di eutrofizzazione verificatisi nell'anno 1989 nel mare Adriatico. Per ovviare alla sovralimentazione delle alghe si sono riempite le coste di piscine, acquasplash, ampliamenti di alberghi e così via. .
[21] - Legge n.205 del 29 maggio 1989. Anche le Colombiane sono servite soprattutto a finanziare strade, non solo a Genova, sede delle celebrazioni. Tra i casi più straordinari si ricordano la Dogana di Segrate, la tangenziale Cremona-Brescia, la complanare di Lucca, la tangenziale di Piacenza, la Torino-Frejus. Parafrasando il noto detto francese, si potrebbe dire che "la politica delle opere pubbliche ha le sue ragioni che la ragione non comprende".
[22] - Legge n.171 del 16 aprile 1973.
[23] - Legge n.798 del 29 novembre 1984.
Cfr il manifesto del 28.12.2007)
Titolo originale: A New Park – Ricerche, editing, traduzione, a cura di Fabrizio Bottini
Speriamo che gli sforzi per realizzare un nuovo grande Parco nella nostra Città siano coronati dal successo. È una delle cose di cui New York ha bisogno, di cui ha assolutamente bisogno. Possiede quasi tutto il resto. Le sue dimensioni fisiche iniziano a sfidare e competere con quelle delle più popolose città d’Europa. Lo spirito dei tempi è con lei. Disdegna i ritmi lenti della normale crescita, balzando in avanti nella corsa alla ricchezza e grandezza, quasi fosse sospinta dal vapore e dall’elettricità. Apre le sue porte ai figli vagabondi della terra, che qui trovano la loro casa. Preme sulle acque che la imprigionano e spinge la propria strabordante popolazione a cercar casa nelle vicine contee e stati. Importuni, uomini e imprese bussano alle porte del Common Council per il permesso di trasportare lontano a dormire il nostri concittadini, e riportarli poi la mattina per le faccende della giornata.
L’Isola che occupa è troppo piccolo per lei. Invade I fiumi, e ha ricavato nuove strade nei loro letti. L’eccesso delle navi che si affollano lungo i suoi numerosi moli, trova approdo nelle acque di Long Island o New-Jersey. Nuove, popolose città le crescono attorno, formate da chi viene sospinto oltre i suoi confine, e che può legittimamente considerare parte di sé stessa. Da un lato, un continente in crescita riversa in lei ricchezza e popolazione; dall’altro, il mondo contribuisce alle sue risorse. La situazione instabile del Vecchio Mondo, pure contribuisce alla sua crescita, accelerando e moltiplicando le prue delle navi che puntano verso il suo porto. Le sue strade si affollano sino a soffocare. Tra le ruote che scorrono, il pedone è a rischio. Su due lati del triangolo isoscele si è raggiunta la massima possibilità di crescita. In queste direzioni non è più possibile espandersi, a meno di non superare gli instabili confine del mare. Può solo crescere verso l’alto. Nuovi imponenti edifici si infittiscono, troppo numerosi per contarli. Masse solenni si ergono nel sole. Opulenza e solida grandezza si fanno sempre più visibili, giorno dopo giorno. Il nostro commercio si alimenta della linfa vitale di tutte le nazioni della terra.
Nel pieno di questa fiera lotta per la ricchezza, di questo intenso scontro commerciale, c’è il rischio che si possano dimenticare alcune delle piccole gioie e amabili aspetti dell’esistenza: quelle influenze meditative che nutrono e calmano l’anima. Siamo soprattutto alla ricerca del primato negli affari. Facciamo in modo che non sia solo così. Per quanto gloriosa sia la supremazia commerciale, per quanto indice di grandi vantaggi e poteri, ricordiamoci quanto è dovuto alla bellezza e al riposo: che esistono altri aspetti della mente da coltivare, oltre al calcolare centesimo per centesimo; qualità che il nostro successo ci consente, se lo vogliamo, di coltivare ancor meglio.
Pensiamo che, se il progetto di costituire un nuovo, grande e magnifico Parco si porterà a termine con successo, si sarà realizzato un passo importante nel distogliere l’attenzione del pubblico sul solo svolgimento degli affari: verso l’apprendere che queste attività non sono l’unico fine e scopo della vita.
Questo luogo di piacere eserciterà un’influenza benefica sulla salute della Città. Non c’è forse altra città al mondo che si collochi in una posizione tanto salubre quanto New York: affacciata sul mare su ogni lato, con due grandi fiumi che la lambiscono sui fianchi e soffiano una brezza salutare attraverso le strade, mentre l’Oceano ci permea della sua atmosfera salina, frizzante della fragranza delle onde. Nondimeno, qui esiste una grande concentrazione di umanità. Più di un milione di polmoni lavorano di continuo, giorno e notte, a respirare l’aria della città, molti dentro a vicoli affollati sino all’eccesso, a edifici colmi sino a traboccare. Non abbiamo uno spazio adatto per poter respirare. Se un uomo ci prova, a respirare a fondo, sulla Broadway, si ritrova a boccheggiare polvere, anziché ossigeno. Si può annusare un po’ di brezza sulla nobile Battery, ma ci sarà il costante viavai di carri e omnibus tutto attorno. Il commercio ha usurpato tutto lo spazio. La gloria della Battery è sparita. I nostri concittadini non la frequentano per la sosta, e per tutto ciò che riguarda salute e divertimento, un’onda si abbatte su antiche mura, invano.
Quanti pochi comparativamente i bambini che, dopo aver aperto gli occhi nei confini cittadini, riescono a sopravvivere! Non abbiamo tabelle statistiche a portata di mano, ma possiamo supporre che la gran maggioranza, prima di raggiungere il decimo anno, sia portata alla tomba. Migliaia di vite umane che, nell’aria pura della campagna sarebbero sopravvissute per contribuire alla ricchezza, al sapere e all’onore della nazione, sono così prematuramente perdute. Certo, senza alcun dubbio è vero che questa mortalità sia attribuibile a una grande varietà di cause. Ma per rimuoverle, dobbiamo combatterle una alla volta. Dobbiamo spezzare la fascina bastone per bastone. Messi tutti insieme, sono troppo resistenti per la nostra forza. Non ultima, fra queste cause, è l’aria corrotta, la reclusione all’interno degli edifici a cui sono costretti i nostri bambini. Carcerati dentro casa. Se si avventurano all’esterno, il pericolo di incidente per loro è maggiore di quanto non siano I più lenti rischi della reclusione. Quale possibilità ha un piccolo, quando sono in pericolo gli uomini più forti e attivi, dentro il flusso tonante di una legione di carri e omnibus lanciati? Vogliamo spazi pubblici per la quiete, dove possa circolare aria pura senza alcuna interferenza, che i nostri concittadini possano frequentare a scopo di ricreazione e piacere.
Infondiamo un po’ più di Campagna nella nostra Città. Lasciamo che i nostri occhi gioiscano nel soffermarsi su qualcosa di diverso dalle interminabili facciate di mattoni e pietra. Facciamo sì che nasca un luogo di bellezza naturale, verdeggiante, nel mezzo dell’attuale aridità – che accolga nel suo grembo fitto fogliame, pieno d’aria fragrante che ci distolga dai nostri troppo assorbenti affari – ben tenuto e curato; ed entro questi confine ombrosi, le magnifiche creazioni artistiche – dove il genio porta le sue offerte, e Natura e Arte si mescolano ad evocare immagini di placida e serena bellezza – egualmente aperte al ricco e al povero – a contribuire alla gioia e all’elevazione del sano e del malato, dell’uomo contemplativo come di quello d’azione.
Non abbiamo un Parco, ora, degno di questo nome, o di dimensioni commensurate a quelle della città e dei suoi bisogni. Certo ci sono alcuni giardini, che potrebbero sparire dalla sera alla mattina, se non ci fossero leggi contro i piccoli furti: graziose gemme, magnifici, squisiti. Ma New-York dovrebbe avere un Parco di dimensioni e magnificenza proporzionate al proprio rango e popolazione, e con riferimento particolare al futuro che l’aspetta. Perché New-York è così parsimoniosa con la propria terra? É forse il Mondo Occidentale troppo piccolo per i Parchi? È possibile che l’Inghilterra, con la sua popolazione tanto più densa, compressa al suo interno dall’Oceano su tutti i lati, riesca a destinare nella propria Capitale spazi pubblici consacrati al riposo, in quantità tanto maggiore di quanto non accada nel nuovo Continente?
Se il Parco di cui abbiamo valutato la possibilità non si realizza in fretta, potremmo non averlo mai più. La crescita della città è così rapida, che esso sarebbe presto occupato in ogni possibile localizzazione, gli isolati costruiti a rendere impossibile la conversione del terreno su cui si trovano a prato e verzura. Ogni momento che passa, aumentano i valori delle aree. Ogni giorno di ritardo va a serio detrimento dell’impresa. Si deve agire subito, o rinunciare per sempre.
Nota: come precisato nell'occhiello, questo dal New York Times è soltanto uno dei tanti editoriali attraverso i quali l'opinione pubblica più avanzata della città cerca di spingere l'amministrazione ad agire in favore del Parco. Un processo iniziato con una serie di interventi del poeta e intellettuale William Cullen Bryant sulle pagine dello Evening Post nel 1844, a cui si aggiungeranno altre figure di grande prestigio, fra cui il fondatore della landscape architecture moderna, Andrew Jackson Downing. Indipendentemente dal suo specifico valore nella storia del parchi urbani, il Central Park ha anche un ruolo fondativo per quanto riguarda l'urbanistica moderna: rappresenta infatti una vistosa correzione del piano esclusivamente "di mercato" per Manhattan del 1811, sottraendo all'edificazione per tempo una grande superficie baricentrica all'insediamento, e considerata all'epoca di valore relativamente contenuto a causa dell'asperità del terreno e della presenza di alcuni impianti tecnici e militari. La valorizzazione, nelle forme che conosciamo ancor oggi, avverrà alcuni anni più tardi, dopo gli espropri e il concorso bandito dalla Commissione per il progetto generale di allestimento. Questo concorso per il Parco verrà vinto dal gruppo formato da Frederick Law Olmsted (che subentra a uno degli ispiratori originari: Andrew Jackson Downing) e Calvert Vaux; un ampio estratto della loro Relazione, pubblicato dal New York Times il 1 maggio 1858, è disponibile sul Mall nella sezione Antologia (f.b.)
Mi piacerebbe che chi governa, e chi si propone di farlo, partisse dalla valutazione degli interessi materiali e morali delle cittadine e dei cittadini. Non solo di quelli di oggi, ma anche di quelli di domani, e che su questa convinzione basasse le sue scelte a proposito dei patrimoni della cultura, del paesaggio e del territorio. Non solo di quelli che hanno voce in capitolo, ma “dell’uomo che va in tram”, per usare il titolo di un bel libro di Carlo Melograni: della donna e dell’uomo che lavora, che vive col suo salario, che non usa l’automobile per andare al lavoro, non usa la scuola privata per i suoi figli, non si cura a Lugano ma alla ASL locale.
Mi piacerebbe che perciò dimostrasse consapevolezza del fatto che, in una società complessa come la nostra, molte esigenze vitali possono essere soddisfatte solo con un forte rilancio dei valori, e degli strumenti, della collettività in quanto tale, e quindi anche del pubblico: penso alla scuola, alla salute, alla mobilità, all’abitare. E penso a una cultura ridotta a distorcente spettacolo e a veicolo di consumi inutili e sempre più spesso dannosi (lo dimostrano le nuove malattie sociali, come l’obesità), a causa anche di una colpevole assenza di impegno, dei partiti non accucciati nella difesa degli interessi dominanti, sul terreno cruciale delle comunicazioni di massa. (Un’assenza, occorre precisare, che non è cominciata con il governo D’Alema).
Mi piacerebbe che riconoscesse che la scomparsa delle grandi ideologie (e quindi dei grandi progetti di società, dei grandi ideali, delle grandi speranze) ha delegittimato i partiti, e che quindi, se questi non vogliono ridursi a camarille preoccupate solo di conservare il propria fetta di potere, la ricerca e la promozione della partecipazione popolare è una scelta obbligata, non un optional: è l’unica strada attraverso la quale si può tentare (con molta fatica, con molto impegno, con molta intelligenza) di ritrovare una sintonia durevole tra eletti ed elettori, tra rappresentanti e rappresentati, e quindi le ragioni di una nuova politica.
Per tutte queste ragioni (e anche perché sono un urbanista) mi piacerebbe che il tema di fondo, attorno al quale tutti gli altri si annodano e trovano riscontro, fosse quello del governo della città e del territorio. Non nell’astrazione delle tecniche che di loro si occupano, ma nella loro concretezza, nella fisicità, nella funzionalità e nella disposizione dei loro elementi: le case (disponibili o no per chi ha un reddito di lavoro) e le strade (libere per i pedoni, le carrozzine, le biciclette e i tram, oppure intasate di automobili), le campagne (destinate alla ricreazione, alla salute, alla produzione di derrate sane, oppure all’edificazione attuale o futura) e i fiumi (utilizzati dalle acque che scorrono sopra e sotto il suolo e alimentano le nostre essenziali risorse, o dalle costruzioni in golena e dai rifiuti in alveo), i servizi scolastici, sanitari, commerciali, sportivi (facilmente accessibili, collegati da una rete di percorsi piacevoli e sicuri, oppure casualmente sparpagliati sui lotti residui e marginali) e i servizi di trasporto collettivo (comodi, frequenti, intelligentemente connessi nelle loro modalità e disegnati in relazione alla domanda di mobilità, oppure casualmente collocati segmento per segmento e distrattamente gestiti).
È la politica urbanistica insomma, nelle sue tre funzioni strategica, regolativa e operativa, che dovrebbe essere insomma al centro delle discussioni e decisioni politiche, nelle città e nelle province. E domani, molto presto, anche nelle regioni e nella Repubblica. È su questi temi che le opzioni delle diverse parti dovrebbero essere chiare, la scelta tra i diversi interessi esplicita, il consenso popolare (del popolo, non dei soliti interessi forti) attivamente ricercato. Non mi pare – almeno dalla lettura dei giornali e dagli sporadici riscontri personali – che di questi temi si parli molto, nel paese oscillante tra un berlusconismo con Berlusconi e un berlusconismo senza.
La Repubblica ha pubblicato con evidenza un articolo di Giovanni Valentini di pesante critica al piano, in questi giorni sottoposto al vaglio pubblico delle “osservazioni”.
Raccogliendo un’accurata analisi di alcuni benemeriti studiosi del paesaggio delle campagne italiane, Valentini scrive che “il Piano territoriale di coordinamento provinciale prevede di ‘strappare’ 25mila ettari su 6Omila di superficie agricola, circa il 42% dei terreni coltivati in provincia di Napoli, per trasformarli in aree urbane con una destinazione ancora imprecisata”.
Conosco Antonio Di Gennaro e i suoi collaboratori, e sono certo dell’attendibilità dei dati delle loro analisi. Sono quindi sicuro che le aree definite dal Ptcp “di riqualificazione urbanistica” comprendono effettivamente, come scrive Valentini, “circa il 42% dei terreni coltivati in provincia di Napoli”. Ho letto personalmente le norme del piano, ed ho verificato che effettivamente in quelle aree si può fare di tutto, sebbene le norme del piano suggeriscano di fare cose buone. Sebbene non sia vero che “preveda” di rendere edificabili 25mila ettari di superficie agricola, è certo che lo “consente”.
Un piano non si valuta di per sé: si valuta nel contesto. Perché è solo il contesto (territoriale, sociale, politico, amministrativo, culturale) che ci racconta come il piano verrà applicato. Quel contesto, il contesto della Campania felix, ha due caratterizzazioni.
Da una parte, un territorio agricolo di eccezionale fertilità e bellezza. Basta ricordare alcuni dei paesaggi compresi nelle “aree di riqualificazione urbanistica”: essi comprendono parti delle colline dei Campi Flegrei, le aree agricole di Ischia e Capri, i terrazzamenti della costiera sorrentina e della conca di Agerola, la pianura vesuviana e nolana, le aree floricole del Somma-Vesuvio, le aree pedemontane dei monti Lattari, la pianura dei fiumi Sebeto e Sarno. Certo, si tratta di residui. Ma residui che sono testimonianze di straordinarie grandezze (così come ciò che oggi vediamo del Partenone è residuo di qualcosa che attraverso quei sopravvissuti lacerti possiamo immaginare, e comprendere).
Dall’altra parte, una tradizione e una prassi di governo del territorio incapaci (eccetto casi singolari e brevi stagioni) di combattere l’abusivismo, contenere la disseminazione edilizia nel territorio, impedire o imbrigliare la speculazione fondiaria ed edilizia, coordinare gli interventi pubblici, migliorare la qualità dei paesaggi urbani e preservare quelli rurali e naturali, soddisfare le esigenze di accessibilità mobilità e sicurezza, rafforzare durevolmente la qualificazione e l’autorevolezza delle pubbliche amministrazioni.
Un siffatto contesto avrebbe suggerito, in queste vaste aree di frizione e di incertezza tra città disgregata e campagna minacciata, di porsi l’obiettivo di affrontare il sacrosanto problema della riqualificazione urbana sulla base di una prioritaria difesa di quanto resta del patrimonio naturale e rurale.
Ciò in primo luogo avrebbe comportato (e dovrebbe comportare) l’attribuzione a una diversa categoria di aree delle parti del territorio già tutelate da strumenti più attenti alle qualità del territorio, e di quelle di più evidente e indiscutibile qualità, come puntualmente suggerisce la nota di Antonio Di Gennaro inserita nella cartella SOS Paesaggi / Campania Felix.
Dovrebbe comportare poi di rendere tassative le norme di “indirizzo” (che i comuni possono quindi seguire o non seguire) contenute nella terza parte delle norme. Almeno per quanto riguarda la definizione di rigorose procedure di individuazione delle qualità naturali, produttive e paesaggistiche delle aree ancora libere, di criteri rigidi e soglie invalicabili per il dimensionamento della crescita edilizia, di coordinamenti ferrei tra comuni appartenenti allo stesso sistema paesaggistico, di costante verifica della provincia sull’implementazione degli obiettivi, delle scelte e delle prescrizioni della pianificazione provinciale.
Non si tratta di gettare alle ortiche il Ptc, ma di utilizzare la fase delle osservazioni per migliorarlo.
La pianificazione urbanistica viene da una tradizione di attenzione primaria, e spesso esclusiva, per le esigenze della crescita, della razionalizzazione e della riqualificazione degli insediamenti. Da qualche decennio si è compreso che occorre dare la medesima importanza all’altro obiettivo: quello della salvaguardia del patrimonio comune costituito dalla natura e dal paesaggio. In determinati contesti, e in determinati momenti, è questo l’obiettivo che deve dominare. Così è oggi, nelle residue aree risparmiate dalla disordinata colata edilizia nella Campania Felix.
Quali siano questi strumenti (o almeno, alcuni di essi) lo si è già raccontato su queste pagine. In particolare, nella cartella dedicata a Milano. In quella città, la città di Mani pulite, sono in atto due processi convergenti: l’uno sul piano teorico, l’altro su quello dei fatti. Da una parte, nell’incapacità di aggiornare le regole della pianificazione tradizionale in modo da superarne i limiti e di renderle adeguate alle esigenze dell’operatività, nell’accademia se ne teorizza le morte, nella politica le si cancella e nella pratica le si sostituisce con l’egemonia dell’iniziativa privata. Dall’altra parte, calpestando allegramente quanto di legge comune pur sopravvive, si riempiono di calcestruzzo e asfalto, acciaio e vetro, tutti gli spazi resisi disponibili, con l’unica preoccupazione di fare soldi.
“Speculazione immobiliare”: è un’espressione certamente arcaica: ne parlano gli storici fin dai tempi della Roma di Nerone. È abusata, ed è troppo sintetica per rappresentare la ricchezza delle pulsioni e degli errori, delle illusioni e degli interessi che hanno suscitato quei due processi (fatalmente convergenti, e anzi intrecciati). La storia della riutilizzazione dell’area dell’ex Fiera è un esempio efficace di come gli interessi economici parassitari (la speculazione immobiliare non produce ricchezza, ma la distrugge), la compiacenza dei pubblici poteri, lo sguardo benevolo della cultura, progredendo con sicurezza sui binari delle new theories e delle old practices, distrugga la città: il più alto prodotto, quindi, della civiltà europea. Illustra quindi in modo adeguato la sinteticità di quel termine, ne aggiorna il significato.
La storia è molto semplice; l’ha raccontata Sergio Brenna anche in questo sito. L’Ente Fiera di Milano ha spostato la sua attività in un’altra area, ottenendo dal Comune, nella vecchia area, una utilizzazione idonea ad assicurargli un ampio tornaconto economico. L’Ente fiera (un istituto di diritto privatistico) ha bandito un concorso per la “valorizzazione” dell’area, indipendentemente da qualsiasi ragionamento (e naturalmente da qualsiasi decisione pubblica) sia sull’assetto urbanistico sia sulle funzioni, definendo per di più quantità di volumi ancora superiori a quelle concesse dal Comune. Un’operazione nella quale il motore e, al tempo stesso, l’arbitro è stato costituito dall’interesse economico aziendale. La ricerca non è stata diretta a valutare che cosa serve alla città e ai cittadini, quali esigenze di spazio vi siano per gli usi collettivi e il verde, quali necessità di decongestionamento e di accessibilità, ma semplicemente, in che modo può essere ottenuto il maggior tornaconto in termini di “immagine” e in termini di valuta. Il risultato,eccolo qui. Novecentomila metri cubi di residenze e uffici, stipati nei tre stravaganti oggetti illustrati qui accanto, con un disegno urbano che – lungi dall’integrarsi con i quartieri circostanti, come studi in corso da decenni proponevano – si oppone alla città e la nega. E con un carico urbanistico che, se volesse essere soddisfatto in base alle norme vigenti nella Regione Lombardia, richiederebbe paradossalmente la cessione dell’intera area (anziché del 50% contrattato).
L’apparire dei risultati figurativi della decisione ha naturalmente suscitato scalpore. Alcuni intellettuali, rivelandosi singolarmente retro, hanno celebrato nel gigantismo faraonico e fuori scala e nella bizzarria delle forme le magnifiche sorti e progressive della “Rinascimento di Milano”. Renato Mannheimer ha addirittura affermato che “la nuova iniziativa edilizia accentua considerevolmente il processo di rinascita di Milano”, che “le ricerche motivazionali hanno mostrato come essa stimoli nei cittadini la voglia di fare, di sfidare in qualche modo la natura attraverso la tecnologia” e che “essa simboleggi proprio il 'puntare in alto', tipico dei milanesi nei periodi migliori”. Osservatori diversamente intelligenti hanno invece rilevato come “il ‘fàmolo strano’ sembra infatti essere l'unica regola certa di una professione che ha rinunciato alla pretesa etica di governare la trasformazione riducendo il governo del territorio a un problema di audience di massa”, e ha ricordato “l'acre battuta di Noel Coward in Law and Order: Non so dove stia puntando Londra, ma più si alzano i grattacieli, più si abbassa la morale” (Fulvio Irace).
Forme d’accatto, bizzarrie d’importazione, che (a differenza delle parole scritte sui libri o dei quadri immessi nei musei) si pavoneggiano agli occhi di tutti, contribuiscono al degrado della città, propagandano la sua dissoluzione da ordinata e armoniosa casa della società ad accumulo disordinato di oggetti la cui smisurata arroganza celebra unicamente la presunzione dei suoi autori e dei suoi giudici.
Un ampio servizio dell’Espresso, oltre a illustrare la questione, elenca altri quindici progetti che potrebbero avere caratteristiche analoghe. Forse non adotteranno le medesime forme e la medesima indifferenza al contesto figurativo. Ma è certo che la cornice nella quale si collocano lo spingerà verso il medesimo risultato urbanistico e sociale. Essa è infatti determinata da quel documento “Ricostruire la Grande Milano”, che è stato illustrato e criticato anche in questo sito, adottato dalla Giunta milanese, apprezzato in più sedi accademiche e utilizzato ampiamente per il progetto di legge urbanistica della Casa delle Libertà. Dio salvi Milano, e soprattutto i milanesi.
Mi sarebbe piaciuto che in questo quadro, nel quadro di un governo unitario della Laguna di Venezia (l’unica laguna al mondo sopravvissuta per mille anni) e della rete di pendolarismi e di memorie che riunisce i comuni che su di essa gravitano, gli antichi municipi e i villaggi divenuti città (Favaro, Chirignago, Mestre) e uniti in un unico comune tra il 1923 il 1926, e con essi magari Marghera, Burano, Pellestrina, riacquistassero una parte della loro autonomia, come la legge istitutiva delle Citta metropolitane (1990) da tempo prevede.
Quella legge fu decisa, dopo un dibattito durato un paio di decenni, proprio per ottenere che, in aree connotate da flussi di relazione e da caratteristiche fisiche mediante cui si era unito ciò che i confini comunali tenevano diviso (le aree metropolitane), si potesse contemperare il governo unitario del funzionamento metropolitano con l’autonomia delle singole parti. Nessuna di queste doveva dominare le altre, e perciò si disponeva che il comune capoluogo si dividesse in più unità (i nuovi comuni), e che tali divenissero anche i preesistenti centri minori.
Si riuscì a far inserire dal legislatore Venezia tra le città metropolitane indicate dalla legge, accanto a Milano e a Napoli, a Bologna e a Firenze, a Bari e a Torino, a Genova e a Cagliari. Da allora, alle nuove richieste di separare Venezia e Mestre, gli esponenti di tutte le principali forze politiche veneziane risposero sostanzialmente nel modo seguente.
”Nelle vostre richieste di separazione di parti del territorio così diverse ci sono ragioni valide, ma accettarle semplicisticamente, così come voi semplicisticamente proponete, produrrebbe danni considerevoli, per moltissime ragioni. Abbiamo ottenuto che Venezia potesse trasformarsi in una città metropolitana, governando così sull’intero ambito della Laguna e del suo territorio, oggi divisi tra più di una ventina di comuni. La grande Venezia, la ricostituita Venezia, che in tal modo insieme formeremo potrà, e anzi dovrà, agevolmente suddividersi in quelle diverse realtà locali capaci di governare i locali interessi”.
Così si promise. Il nuovo sindaco eletto nel 1993 giurò anzi di incatenarsi al cancello del municipio se non fosse riuscito a convincere la Regione a costituire la Città metropolitana di Venezia nel giro di un anno. Poi, nessun concreto passo avanti. Nessun tentativo energico e vistoso di costringere chi doveva ad attuare la legge del 1990. Nessuno sforzo visibile di costruire la città metropolitana “dal basso”, di farla vivere nella realtà con iniziative aggregatrici dei comuni: con iniziative e intese per decidere insieme un unico piano territoriale, un’unica posizione chiara per il governo della laguna, un’unica politica metropolitana per la casa, per i servizi, per i trasporti e per la regolazione del traffico, per i rifiuti e il disinquinamento. Gli accordi, quando pure ci sono stati, hanno avuto un carattere burocratico e tecnico: non sono stati politici, non hanno sollecitato i cittadini a sentirsi partecipi di un disegno unitario, figli e cittadini della Grande Venezia.
In assenza di ciò, in assenza di una risposta positiva e ragionevole alle tensioni separatiste, come meravigliarsi se dalle urne uscirà domattina, un risultato che renderà più piccola Venezia, più povera Mestre, più complicata la vita del cittadino veneziano, più deboli i poteri locali nel confronto con il Consorzio Venezia Nuova, più lontana la prospettiva di un governo unitario della Laguna? O se le ragioni del NO vinceranno di misura, rivelando la profondità della spaccatura che da decenni divide il popolo veneziano?
I responsabili di questo destino non saranno stati (o non saranno stati solo) i promotori del referendum.
Ricordiamone alcuni elementi. Una critica dello Stato sociale della Prima Repubblica privo della proposta di un nuovo Stato sociale: di un nuovo sistema capace di garantire, più e meglio di quello vigente, i diritti comuni in materia di salute, assistenza, sicurezza sociale, istruzione. Un cedimento ai principi della nuova destra dell’Occidente fino a mutuarne gli slogan più infecondi (più mercato e meno Stato, privato è bello ecc.). La rincorsa al secessionismo di Bossi e alle demagogie localistiche, dimenticando che “federalismo” significa unificazione e non divisione, e che in paese “normale” non si fa un secondo passo (il “federalismo”) senza aver discusso il bilancio del primo (il regionalismo).
Le forze politiche della sinistra hanno certo delle scusanti. Non è facile misurarsi con i problemi di una fase indubbiamente nuova dell’assetto del mondo senza avere alle proprie spalle un’analisi compiuta ed efficace come quella che, nel precedente assetto, era stata fornita dal marxismo. Un’analisi, non una descrizione: una lettura scientifica della struttura della società e dell’economia, delle tendenze profonde e dei possibili futuri, un’individuazione delle forze in gioco e – all’interno di queste – di quella o di quelle cui può essere affidato il progresso dell’umanità. Si può comprendere quindi l’oscillazione della sinistra, le sue stesse divisioni, l’alternarsi di fughe in avanti proposte, e di passi indietro praticati. Si può comprendere, ma non giustificare, poiché nell’arsenale delle pratiche e dei principi della “democrazia borghese” e di un buongoverno coerente con il sistema capitalistico esistevano, come esistono, strumenti e valori capaci di assicurare (almeno entro i limiti di quella democrazia e di quel sistema) una decente soddisfazione delle esigenze dell’umanità e del suo sviluppo civile: quindi, di tenere aperte le strade di un più ricco futuro nel quale trovassero soluzione anche i problemi di fondo del mondo contemporaneo.
Il primo valore e strumento è il primato della legge comune: dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle regole stabilite. Ha giovato a ribadire e a praticare questo primato la tolleranza verso il conflitto d’interessi, e il fastidio a volte manifestato verso la magistratura (quasi espressione di una difesa corporativa della politica)? Non credo proprio. Non si può anzi escludere che un simile atteggiamento, oltre a giovare direttamente al peggior satrapo che l’Italia abbia conosciuto, abbia contribuito al distacco della politica dal popolo.
Il secondo valore e strumento è la cura del patrimonio comune della nazione. Non c’è bisogno di essere ambientalisti, non c’è bisogno di avere consapevolezza del valore di quella quota della ricchezza del mondo che è depositata nei nostri territori e nelle nostre città, per comprendere che una visione anche aziendalistica (la “azienda Italia”) imporrebbe di avere una cura di quel patrimonio ben diversa da quella attuale. Non solo di quella praticata dai demolitori riuniti nell’accampamento berlusconiano, ma anche di quella dimostrata dalle formazioni politiche della sinistra: tutte mi sembra, nessuna esclusa.
Una prova di questa carenza della sinistra, dell’infezione che dalla destra berlusconiana si è propagata altrove? L’assoluta assenza, nella campagna elettorale appena conclusa dei temi relativi al governo del territorio, alle politiche urbane, alla pianificazione territoriale e urbanistica. Un’assenza antica, che ha fatto dimenticare il passato dei partiti della sinistra negli anni 60 e 70: quando la modernizzazione del paese e il buon governo passavano dall’impegno per la riforma delle strutture (ivi compresa quella urbanistica) e da quello nell’amministrazione urbanistica delle città dove la sinistra era al governo. Un’assenza che, fino a quando permarrà, peserà sul futuro. Lo testimonia un episodio che ha condiviso la cronaca con i risultati elettorali: la questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania.
Il personale politico italiano non ha ancora compreso che la pianificazione del territorio, dentro e fuori le città, è uno strumento essenziale se si vuole risolvere a priori i potenziali conflitti nell’uso del suolo, se si vuole trovare una sintesi tra le diverse esigenze (quelle della tutela e quella della trasformazione, quella delle funzioni private e quelle dei servizi collettivi, quelle che inquinano e quelle che risanano). Probabilmente perché, al tempo stesso, non ha compreso che i problemi di oggi vanno risolti con una visione di prospettiva, di lungo periodo, strategica. La tattica di affrontare i problemi accantonandoli, di evitare i conflitti dando ragione all’ultimo che protesta, consente forse di vincere una campagna elettorale, non di rendere l’Italia un “paese normale”, all’altezza delle sue risorse e della sua storia.
Su tutto si può discutere. L’ordinanza del giudice del Tribunale dell’Aquila potrà essere criticata, e anche contestata. Ma i giudizi unanimi e perentori (salvo pochissime eccezioni: grazie, Paolo Mieli) sono stati emessi subito, senza neppure aver letto quel dispositivo che insigni giuristi hanno giudicato ineccepibile. A me il crocifisso nelle aule non ha mai dato fastidio (mentre me ne darebbe molto il ritratto di B: se malauguratamente divenisse Presidente della Repubblica), ma penso che nessun uomo religioso possa oggi, nella civile e democratica Europa, presumere che la sua fede possa vincere per imposizione di legge. Credo nella superiorità dei valori elaborati dalla civiltà occidentale nei millenni della sua variopinta storia, ma non penso che siano gli unici al mondo, e men che meno che possano prevalere affidandosi alla forza.
Ho sempre pensato che questi fossero pensieri comuni al mondo della sinistra, a quello della solidarietà e a quello del liberalesimo: anzi, pensieri normali. Quando ho contribuito a scegliere chi eleggere ai vertici delle istituzioni ho sempre pensato che i miei candidati fossero persone che sanno anteporre il ragionamento all’impulso dell’emozione, il pensiero al turbamento. L’episodio del crocifisso di Ofena ha fatto vacillare le mie certezze.
La mia preoccupazione è stata ribadita, pochi giorni dopo, dalle reazioni febbrili all’annuncio che, richiesti di esprimersi tra quale, tra quindici stati del mondo (compresa l’Europa) costituisse oggi la maggiore minaccia per la pace, la maggioranza degli interpellati abbia risposto Israele. E allora? Possibile che noi, civili europei, colti giornalisti, pensosi pensatori, eminenti statisti, navigati politici, non si sia imparato a distinguere Stato e razza, governo e religione? Possibile che non si possa criticare Israele senza passare per antisemiti? Soprattutto in una situazione nella quale (come tra il Giordano e il Mediterraneo) la piaga purulenta della pluridecennale riduzione di generazioni di palestinesi nei campi di concentramento (e non è certo Yasser Arafat il colpevole di questo regime concentrazionario) ha formato vivai di ribellione e di terrorismo, dove il diritto dei popoli e le pronunce degli organismi internazionali sono stati ripetutamente e impunemente violati, dove l’unica legge avvertibile nei rapporti tra popoli l’uno all’altro ostile è “occhio per occhio, dente per dente”.
A me sembra del tutto ragionevole che oltre la metà degli europei interpellati abbia posto, tra i paesi che più minacciano oggi la pace, Israele insieme all’Irak, alla Nord Corea, all’Iran e agli USA. Sì possono certamente avere altri pensieri e formulare altre graduatorie, si può valutare diversamente l’eccesso di autodifesa di Sharon, ma da questo a indignarsi e tacciare di antisemitismo quegli europei che quell’eccesso lo ritengono deleterio e rischioso per la pace, mi sembra davvero inquietante.
Mi domando le ragioni di questa apparente generalizzata incapacità di ragionare, di sceverare, di distinguere. Non so trovarle. Qualcuno mi aiuta?
L’avevo chiarito aderendo all’iniziativa “un voto in prestito per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente”. Questo è oggi l’obiettivo: una sinistra che riesca a superare le sue divisioni e, pur conservando la ricchezza costituita dalla molteplicità delle sue anime, sappia trovare le ragioni della sua unità. E che poi, su questa base, possa diventare uno dei momenti determinanti di una coalizione di governo – quale quella che il sistema maggioritario richiede e che è necessaria per battere non solo Berlusconi, ma anche la destra in Italia.
È sulla base di un risultato positivo, largamente positivo, che bisogna ora cominciare a lavorare. Lo ha detto con chiarezza il coordinatore della segreteria dei DS, Vannino Chiti, nel suo primo commento ai risultati elettorali: «Il centrosinistra aumenta i consensi rispetto al 1996, quando vinse le elezioni politiche. Ora inizia il lavoro per elaborare un programma che permetta di costruire un'alleanza in grado di vincere e di arrivare al governo del Paese». Credo che si debba subito raccogliere l’invito di Chiti: noi elettori aspetteremo e valuteremo a questo primo traguardo le formazioni del centro e della sinistra.
Io credo che al primo punto debba esserci (che non possa non esserci) altro obiettivo che il ripristino della legalità. È su questo punto che Berlusconi ha inferto le peggiori ferite alla convivenza e alla democrazia, al sentimento comune e ai diritti di tutti. Mi piacerebbe che al primo punto di un programma comune ci fosse questo impegno: e l’elenco preciso delle piante velenose da sradicare e di quelle virtuose da piantare al loro posto. Mi rendo conto che è una questione delicata. La linea perversa di Berlusconi e dei suoi accoliti è cominciata negli anni di Craxi, e il suo prodromo si chiama Tangentopoli: quel male non è stato sradicato, e solo dal suo sradicamento passa la possibilità di costruire una reale alternativa di governo.
Da questo primo punto molti altri ne nascono. Ripristinare la legalità comporta anche ripristinare i diritti: quegli degli uomini di oggi, della loro salute, del lavoro, della formazione. Ma anche quelli degli uomini di domani: quindi, l’obiettivo dell’impiego virtuoso delle risorse e dell’esercizio, a questo proposito, della virtù della parsimonia.. Sarebbe bello, e anche utile, riprendere alcune intuizioni lasciate cadere frettolosamente: da quella dell’austerità a quella della “riconversione ecologica dell’economia. È su questo terreno (oltre che su quello della pace e dell’affermazione di un’idea non imperialistica del rapporto tra le culture diverse) che si gioca il futuro del mondo: come, con quali profonde innovazioni nelle scienze dell’uomo e in quelle delle cose, è possibile operare perché i limiti del nostro pianeta non diventino fonti di sperequazioni, di drammi e infine di catastrofi, ma suggeriscano nuove strade allo sviluppo dell’uomo e del suo bisogno?
Molti, anche fuori dai nostri confini, vedrebbero come un segnale importante che dall’Italia, dal paese che ha avuto la più alta percentuale di votanti alle elezioni europee, la discussione sul governo da costruire dopo Berlusconi si aprisse con un respiro universale. E credo che anche le nuove generazioni si entusiasmerebbero più a questi temi che a quelli che la cronaca politica squaderna ai loro occhi.
A me, come urbanista, mi farebbe piacere, e mi sembrerebbe giusto, anche per un altro motivo. Affrontare la questione di un impiego ragionevole e durevole delle risorse porterebbe in primo piano il tema del governo del territorio e delle sue trasformazioni, della tutela delle ricchezze in esso depositate dalla natura e dalla storia, della pianificazione come strumento indispensabile per portare a sintesi le differenti esigenze che si manifestano nell’uso del suolo. È un tema che da troppo tempo è scomparso dall’attenzione delle forze politiche (e degli stessi mass media), con grave danno per il futuro del paese e per le esigenze attuali delle cittadine e dei cittadini.
Eddytoriale 47, 7 giugno 2004
Un voto in prestito
È una questione di cultura, innanzitutto. I paesaggi campani sono tra i più antichi e nobili del mondo: basta pensare ai terrazzamenti della costiera amalfitana e di quella sorrentina; basta pensare ai feracissimi terreni della piana tra Napoli e Caserta, resi tra i più fertili del mondo dalle millenarie ceneri vesuviane. Basta pensare ai Campi Flegrei, straordinari per l’intreccio di rarità geotermiche e lasciti greci e romani.
È una questione di sicurezza per le vite e le risorse umane. Desta orrore leggere che sulle pendici a rischio del Vesuvio, nella “zona rossa”, si concede ancora di costruire (si veda il Corriere della sera del 25 ottobre, che denuncia: “Ai piedi del Vesuvio ogni giorno si scoprono nuovi cantieri. Nei paesi della zona rossa, quelli a più alto rischio in caso di ripresa dell’attività eruttiva del vulcano, si continua a costruire. E non abusivamente, ma con tanto di licenza edilizia”). E com’è possibile che si debba oggi ancora temere ad ogni pioggia per i paesi e i paesani nella piana del Sarno?
Ed è infine una questione delle risorse economiche offerte da un’agricoltura pregiata. Il valore (anche economico) delle uve e dei limoni, degli ortaggi e dell’olio, delle albicocche e delle cerase, dovrà scomparire per il proliferare di case, casarelle, capannoni e capannoncini, così come sono scomparsi dalla Piana del Sarno i famosi Sammarzano cacciati dai veleni industriali e da quelli degli additivi chimici? Proprio oggi, che le produzioni agricole di qualità (e di nicchia) cominciano a essere fruttuosamente commercializzate e trovano accoglienti mercati nel mondo?
La Campania ha tre importanti scadenze, e tre possibili strumenti, in questa settimane. Quello che richiede un intervento più urgente è il Piano territoriale provinciale di Napoli. Ha preoccupato molto l’affermazione dell’assessore all’urbanistica, secondo il quale il piano tutelerebbe 30mila ettari di aree a produzione agricole: meno del 30% della superficie territoriale, contro il 45% attuale (e l’80% del 1960). Come preoccupano le norme che affidano al completamento urbanistico i 15mila ettari denominati “aree di frangia”: aree che comprendono le terre murate, gli aranceti e gli arboreti promiscui della penisola sorrentina, porzioni significative dei versanti collinari flegrei, con gli orti arborati ad elevata complessità strutturale dei ciglionamenti medievali, e infine quote cospicue degli orti arborati ed albicoccheti del pedemonte Vesuviano. Si è nella fase delle osservazioni: si può correggerlo
La regione sta predisponendo due atti: il piano territoriale, e la legge urbanistica regionale. Potrebbero essere strumenti utilissimi, se mettessero dei paletti seri all’occupazione edilizia dei territori aperti. Se il primo non fosse una mera descrizione della realtà e l’indicazione di “direttrici strategiche”. Se la legge non fosse tutta di procedure volte a razionalizzare il trend, ma ponesse alcune coraggiose scelte di merito.
Per esempio, se stabilisse che “nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente”. Che “le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali”. Che “nuovi impegni del suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti quando non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e infrastrutture esistenti”. Che il territorio agricolo non vale solo per la generica funzione produttiva, ma anche per il suo valore e la sua utilità“storico-culturale, estetico-percettiva e paesaggistica, di mantenimento dei cicli idrologici e biogeochimici e di riproduzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo)”, e per la sua idoneità a costituire delle “cinture verdi per l’attenuazione degli impatti locali e globali dei sistemi urbani, di risorsa per lo svago e la vita all’aria aperta”. Che alla pianificazione provinciale spetta, tra l’altro, “di evitare ingiustificati consumi di suolo e di tutelare l’integrità funzionale e strutturale dei sistemi ecologico-naturalistici, agro-forestali, paesaggistici e storico-culturali”. Che il piano comunale ” garantisce l’integrità strutturale e funzionale del territorio agricolo, forestale e naturale”. Che, a tal fine, “il piano comunale determina come invariante strutturale la linea che separa il territorio urbano da quello aperto”, e stabilisce che in quest’ultimo “è vietata qualunque trasformazione che non sia finalizzata agli usi specifici del territorio rurale stabiliti dalla legge regionale”.
Una legge urbanistica che ponesse questi paletti sarebbe una legge utile. Un piano regionale che avesse alla sua base questi principi, sarebbe un documento condivisibile. Un piano territoriale provinciale che fosse emendato in questa direzione, sarebbe adeguato alle esigenze del futuro.
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Paesaggi della Campania, dai Sistemi di terra di Antonio Di Gennaro, dal sito di Risorsa
Non voglio ricordare ancora, se non per rapidi accenni, i guai che il cavalier B., e la sua congrega, stanno producendo: un’intera cartella di Eddyburg è dedicata a questo - ed è piena di lacune. Il primo guaio è il conflitto tra il diritto personale (del singolo) e il diritto comune (di tutti). Quanto siamo lontani oggi dal modo in cui, due millenni e mezzo fa, lo declinò Sofocle. E quanto lontana la figura dei piccoli approfittatori di oggi dal dramma di Antigone, dalla legge morale che la opponeva alla legge della polis. Se è l’attuale quadro politico nazionale a costituire l’emblema del 2004, allora occorre dire che due millenni e mezzo sono passati in discesa, dalle stelle alle stalle.
Come sappiamo bene i guai sono anche altrove: nel territorio e nell’ambiente, nelle finanze pubbliche e nell’economia, nei rapporti di lavoro (anche gli industriali se ne accorgono) e in quelli internazionali (le gag orchestrate con il giovane Bush non nascondono nulla), nello stato sociale e nei diritti di cittadinanza, e nella libertà d’informazione, che ogni altra cosa condiziona . Perciò occorre che il primo segno che verrà dalle urne sia una inequivocabile, sonora sconfitta della “Casa delle libertà”, in tutte le sue componenti e soprattutto in quella trainante.
Ma poi occorre costruire il futuro. Non si può aspettare le elezioni del 2006 per modificare il quadro politico italiano. Occorre cominciare subito a lavorare, e le elezioni di sabato e domenica prossimo sono un momento e uno strumento da non perdere a questo fine. Occorre cominciare a pensare al governo che verrà dopo.
Io credo che non possa essere un governo nel quale abbiano un peso determinante quanti hanno oggettivamente favorito la vittoria di Berlusconi: non solo per sciagurato errore di calcolo, ma per sostanziale affinità di cultura (parlo di cultura in senso antropologico, beninteso, perché dell’altra il Cavaliere ne rivela poca). Non possono essere i più forti quelli per i quali gli slogan “privato è bello”, “più mercato meno Stato”, “via i lacci e i laccioli”, sono tesi da condividere. Il prossimo non può essere un governo nel quale abbiano un peso schiacciante le forze moderate - pure essenziali per costruire uno stato di diritto e uno stato moderno, quindi attento a utilizzare con saggezza le risorse materiali e morali della nazione. Non può essere un governo nel quale la sinistra sia ridotta ai margini, tollerata, usata come l’esercito coloniale usava gli ascari. Altrimenti, la sconfitta di Berlusconi (ove si riuscisse a ottenerla) sarebbe solo una confitta tattica: lo ritroveremmo al potere dopo cinque anni.
A me sembra che se la sconfitta di Berlusconi vedesse, sul fronte dei vincitori, il Triciclo in posizione dominante, ciò renderebbe molto più difficile ottenere, domani, una coalizione nella quale le ragioni della sinistra ottenessero il giusto rilievo. E per ragioni della sinistra intendo quelle che, molto spesso, sono state inventate dalla borghesia ma poi da questa lasciate cadere nel fango.
Mi riferisco al ruolo essenziale dello Stato - in tutte le sua articolazioni istituzionali - in una società moderna di uomini liberi. Mi riferisco al primato del comune sull’individuale (“il tutto è più importante delle sue parti”), al rifiuto della “guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali”, alla solidarietà – nelle società e tra le società – come valore basilare, alla responsabilità verso le generazioni future, al rispetto delle leggi severe dell’economia ma alla loro finalizzazione alle leggi della società.
Battere Berlusconi dunque, e privilegiare, all’interno dell’opposizione, le componenti della sinistra (quelle esterne al "Triciclo", per intenderci). Ma queste, non sono forse esse stesse farcite di errori, di debolezze, di egoismi? Certamente. Ma di questo parleremo subito dopo il 14 giugno, dove si porrà la questione della costituzione di una "per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente".
Per le argomentazioni che costituiscono le premesse di questo testo vedi l'eddytoriale 44.
Qui trovate l'appello Spero che chi ha aderito a qiuell'appello raccolga il mio invito, anche quelli che aderiscono alle componenti di sinistra delle formazioni del "Triciclo".
B. dispone oggi in Italia di un potere che nessuna costituzione razionalmente costruita in una società occidentale poteva immaginare. Ciò dipende dal concorrere di due eventi.
Da un lato, i meccanismi di rafforzamento dei poteri degli organi esecutivi (il presidente del consiglio dei ministri e il governo nazionale, come i sindaci, i “governatori” regionali e le rispettive giunte) rispetto agli organi collegiali e pluralisti (il parlamento, i consigli), che sono stati introdotti negli ultimi anni (tutti d’accordo) per “garantire la governabilità”..
Dall’altro lato l’evento, assolutamente unico nei paesi occidentali, del giungere al massimo vertice del governo di un uomo che detiene un potere monopolistico nel settore delle comunicazioni: di quel “quarto potere”, cioè, il cui peso non è stato in alcun modo regolato dalla cultura e dalla prassi delle istituzioni che, negli ultimi tre secoli, si sono occupate esclusivamente dell’equilibrio tra gli altri tre, classici poteri (il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario).
L’esistenza di questo potere straordinario non incontra un efficace limite nell’opposizione: sia per la sua attuale frammentazione, sia per la sua rappresentanza parlamentare, di molto inferiore rispetto al suo peso nell’elettorato. Gli unici due limiti effettivi consistono nel Capo dello Stato e nella Magistratura. Il primo è un limite temporaneo: il mandato di Ciampi scadrà, e il trend non è tale da far presumere che sarà sostituito, che so, da Tina Anselmi. L’unico vero limite (in assenza del quale il potere di B. non sarebbe straordinario, ma “sconfinato”), è la magistratura. Da qui il grande impegno di B. e dei suoi giannizzeri contro il Terzo potere.
Se così stanno le cose, io credo che l’argine che ci separa dal regime sia davvero molto sottile. La sua fragilità dovrebbe indurci a due decisioni: evitare qualunque azione che possa indebolirlo; impiegare ogni energia per far cessare al più presto l’anomalia di quello straordinario (e tendenzialmente sconfinato) potere.
A me sembra perciò che l’antiberlusconismo non sia un “tallone d’Achille” né, come altri hanno detto, una “ossessione”, ma semplicemente la consapevolezza della centralità e urgenza, in Italia, della questione democratica: dove per democrazia non si intenda la mera procedura elettorale, ma la corrispondenza la più profonda possibile tra volontà dei governati e azione dei governanti (ossia, tra il popolo sovrano e gli esecutori della sua volontà).
Certo, per battere Berlusconi occorre seguire anche le procedure elettorali che sono uno strumento della democrazia, e uno dei più importanti. Ma battere Berlusconi è un prius rispetto a ogni altra scelta. Perciò sono contrario, oggi, all’astensionismo. Perciò sono favorevole a ogni sforzo per costituire un fronte comune, aggregando le forze più diverse per raggiungere l’obiettivo primo (purché, ovviamente, condividano le ragioni democratiche della scelta). Perciò sono preoccupato per qualsiasi accordo che, in cambio di risultati parziali, comporti un rafforzamento di Berlusconi.
Stiamo attenti però. Battere Berlusconi non significa battere il berlusconismo. Questo si è infiltrato in strati molto vasti del mondo politico, e della stessa società. È il risultato della combinazione tra mali antichi della politica italiana: il doroteismo, il potere come fine a se stesso, e il craxismo, la modernità come valore, la corruzione come strumento neutrale del potere. (A questo miscuglio di per sé pestifero B. ha aggiunto la riduzione dell’interesse generale all’interesse del Dominus, con un salto all’indietro all’età delle monarchie assolutiste). È il prodotto della caduta degli ideali, dei “progetti di società”, delle visioni escatologiche, della capacità della politica di guidare la società verso il futuro interpretandone le speranze più alte.
Per battere il berlusconismo (impresa di ampio respiro) bisognerebbe che la politica riprendesse il suo ruolo. Che non cadesse più nell’errore di illudersi di sconfiggere l’avversario assumendone le parole d’ordine e gli obiettivi, come pure il centrosinistra ha fatto nell’intero decennio che è alle nostre spalle, tessendo in tal modo il tappeto rosso che ha agevolato l’accesso di Berlusconi al potere. Se gli slogan condivisi sono “meno Stato e più mercato”, “privato è bello”, “tagliare i lacci e laccioli che intralciano l’impresa”, allora, regime o non regime, Berlusconi è più convincente di D’Alema.
Gli storici attribuiscono un ruolo centrale alla battaglia di Stalingrado. Tra la fine del 1942 e l’autunno del 1943 l’Inghilterra, che aveva resistito a stento alle ondate di bombardieri tedeschi, era l’unica nazione libera: il resto dell’Europa, dal Don all’Atlantico e dai Dardanelli al Baltico era in mano ad Hitler. La battaglia di El Alamein aveva dimostrato la superiorità dell’armata anglo-americana, ma gli alleati non avevano ancora attraversato il Mediterraneo. L’unico fronte di terra era quello orientale. Lì, i tedeschi avevano gettato il 70% dei loro effettivi: circa 3 milioni di uomini dotati di 10.000 carri armati e 3.000 aerei. La scommessa di Hitler era di impadronirsi dei campi petroliferi del Caucaso e delle altre ingenti risorse minerarie e agricole del continente sovietico. Spezzare la resistenza dell’URSS gli avrebbe consentito di spostare il grosso delle truppe verso l’occidente, sconfiggere Gran Bretagna e USA. Nonostante le invocazioni di Stalin, il “secondo fronte” in occidente tardava a realizzarsi.
A Stalingrado bisognava resistere, ad ogni costo. E Ivan resistette. Rafforzata dai consistenti aiuti di materiali e mezzi (soprattutto i camion) forniti dagli USA grazia alla legge “affitti e prestiti” (promulgata dagli Stati uniti per aiutare lo sforzo bellico inglese, che consentiva agli alleati il diritto di acquistare materiali bellici e materie prime con pagamento alla fine della guerra), l’Armata Rossa ebbe il tempo di riorganizzarsi e di scatenare un’intelligente controffensiva, che rimase un classico nelle strategie militari. L’armata di Von Paulus si arrese al generale Zuchov. Cominciò, nel febbraio 1943, la sconfitta della Germania nazista. Le tappe successive furono, nel luglio del medesimo anno lo sbarco in Sicilia, nel giugno 1944 lo sbarco in Normandia e la liberazione di Roma, nell'agosto l'insurrezione di Parigi e l'ingresso di Charles De Gaulle nella capitale francese, nell’aprile 1945 l’insurrezione nell’Italia del Nord e la liberazione delle grandi città, e nello stesso mese lo storico incontro tra l’esercito USA e l’Armata Rossa sull’Elba.
È giusto, insomma, ringraziare gli USA (ripeto: quelli di Roosevelt, non quelli di Bush) del contributo che hanno dato alla liberazione dell’Europa dalla tragedia del nazifascismo: con le risorse materiali, con la partecipazione alla campagna d'Italia, con lo sbarco sulle spiagge della Normandia. Ma non è giusto dimenticare che quella liberazione è stata possibile grazie all’unità delle forze e degli Stati antifascisti, è simboleggiata dall’accordo tra Churchill, Roosvelt e Stalin (qui accanto a Yalta, nel1945), ed è iniziata con il sacrificio di Ivan tra le macerie di Stalingrado. Grazie anche a te, Ivan.
Una prima ragione sta in questo: che è l’ultima volta che in Italia la politica ha dato speranza, alle donne e agli uomini. Perciò la straordinaria commozione che sollevò la sua morte. Perciò la trasversalità del suo rimpianto (che ha toccato persone che militavano in ogni formazione, che votavano per ogni lista, che credevano in ogni fede). Perciò, ancora oggi, le reazioni immediate da ogni versante se qualche sprovveduta valutazione ne sminuisce la figura.
Ma cerchiamo di andare un po’ più avanti. Domandiamoci perché Berlinguer ha saputo dare speranza.
Per dare speranza, la condizione necessaria è dare fiducia; e Berlinguer, pur così schivo, così alieno dall’apparire prima di essere, così disinteressato dall’impegno a “bucare lo schermo” (così lontano, quindi,dal vizio capitale che macchia oggi quasi tutti i politici), dava fiducia. Le sue parole venivano accolte come vere, schiette, sincere. Il suo essere politico veniva sentito come dedicarsi al servizio di un’idea per gli uomini. Si poteva non essere d’accordo con lui, ma non si poteva dubitare dell’onestà delle sue analisi e delle sue proposte.
Sulla base di questa condizione, Berlinguer ha saputo proporre strategie che non riguardavano mai soltanto l’interesse del suo partito, e neppure solo quello delle classi, della nazione e del popolo che direttamente rappresentava ed esprimeva. Ha avuto la capacità di vedere, anticipandoli, i temi grandi della sua epoca, e di indicare per ciascuno di essi una soluzione possibile.
Comprese che gli errori dell’Occidente avevano condannato al deperimento la speranza sollevata dalla Rivoluzione d’Ottobre, che quindi il Socialismo reale era un guscio svuotato d’ogni capacità di progresso. Propose l’ Eurocomunismo perché si riprendesse la via d’una nuova sinistra nel mondo, superando le miopie accomodanti e gli estremismi fuorvianti che avevano lacerato le sinistre europee.
Comprese che le riforme strutturali del paese (le riforme della società, non quelle, nelle quali oggi ci si attarda, delle sue cornici istituzionali) richiedevano una maggioranza che si poteva trovare solo rompendo gli schieramenti. Propose il Compromesso storico come alleanza strategica tra le grandi correnti di pensiero, e le forse sociali e politiche che ad esse si ricollegavano, per costruire un progetto comune.
Comprese (primo tra i politici italiani) che la prospettiva del disastro ambientale e quella di un crescente divario, fino alla rottura, della forbice tra paesi ricchi e paesi poveri non potevano essere scongiurate se non affrontando alla sua radice lo spreco immane di risorse che un consumo asservito alla produzione determinava. Propose l’ Austerità come indirizzo per instaurare giustizia, efficienza, ordine e “una moralità nuova”.
Comprese, prima dei valorosi giudici di Mani pulite, che la politica stava scivolando nell’affarismo non come accessorio, ma come obiettivo dei giochi di potere; da ciò, come molti commentatori hanno ricordato in queste settimane, il suo rifiuto alle offerte consociative di Craxi. Propose la Questione morale come centrale per riaffermare la dignità della politica, la sua capacità di lavorare per un trasparente sistema di obiettivi coerentemente perseguiti.
Spero che i materiali (solo un inizio, per ora) che ho raccolto nella cartella a lui dedicata facciano comprendere la realtà e il valore di Enrico Berlinguer anche a chi non ha vissuto i suoi anni partecipandone gli eventi. E che le poche immagini riescano ad esprimere qualcosa della sua ritrosa capacità di incontrare i cuori delle persone.
Vai alla cartella dedicata a Enrico Berlinguer
Ci hanno allontanato dall’Europa che avevamo contribuito a far nascere. E soprattutto, in pochi anni hanno distrutto ciò che era stato costruito in un paio di secoli. Bisogna fermarli. Al più presto. Questa volta non ci si può far arrestare, sulla soglia del seggio, dalla disaffezione per i politici d’oggi.
Qualche argomento in più va speso sulla terza affermazione. Non voterò per la lista “Uniti per l’ulivo” per tre ordini di ragioni.
Perché è un raggruppamento nel quale prevale la componente moderata del centro-sinistra: è una formazione sostanzialmente di centro, e io preferisco una formazione sostanzialmente di sinistra.
Perché è troppo spiccata la presenza in quella aggregazione di quanti hanno preparato il terreno a Berlusconi e ai suoi: lo hanno oggettivamente assecondato con atti (la bicamerale, lo spoil system e il federalismo, per citarne alcuni) e con parole d’ordine (privato è bello, più mercato e meno stato, basta lacci e lacciuoli, per citare le prime che mi vengono in mente) che esprimevano l’abbandono del rigore a vantaggio della demagogia, e un forte deficit di intelligenza politica.
Infine, perché è stato sconcertante il comportamento dei leader di quel raggruppamento in tutta la vicenda della guerra in Iraq (ma come, solo adesso vi accorgete che i soldati italiani lì sono agli ordini dei peggiori guerrafondai?)
Mi trovo francamente in grande difficoltà a scegliere, tra le altre liste antiberlusconiane, quale preferire. A tutte rivolgo un rimprovero: non sono state capaci di rinunciare alle ragioni delle loro modeste individualità, diciamo pure ai loro egoismi personali o di apparaticchi, per cercar di costruire la “seconda gamba del centro-sinistra”: una componente politica di sinistra ed ecologista (come, secondo le intenzioni di Achille Occhetto, avrebbe dovuto caratterizzarsi il partito che raccoglieva l’eredità del PCI), capace di costituire un solido alleato dei centristi di Prodi, Amato e Fassino.
Renderà meno impegnativa la mia scelta il ragionamento espresso in un appello, lanciato da Franco Ottaviano e sostenuto da moltissime persone che stimo, che riporto qui di seguito. Il titolo dell’appello è Un voto " in prestito”per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente.
Mi sembra che esso esprima con chiarezza, a un tempo, la situazione del tutto insoddisfacente nella quale ci troviamo, l’esigenza primaria di battere la destra devastatrice, ma insieme la volontà di dare al nostro voto per le europee un’indicazione positiva per il futuro dell'Italia.
Non vogliamo solo battere Berlusconi, vogliamo anche che il nostro voto serva a scuotere la sinistra, a farle ritrovare un linguaggio comune, a contribuire alla formazione di uno schieramento che oggi ancora non c’è: uno schieramento di forze diverse, ma capaci di unirsi in un comune sistema di valori e in un comune e convincente programma di governo.
Ognuno di noi, insomma, scelga nell’ambito delle formazioni di centro-sinistra quella che gli sembra abbia fatto meno errori, che sia più decisa a cogliere le aspettative di legalità e di giustizia, di rispetto per i cittadini di oggi e per quelli di domani, e che insieme gli appaia più propensa a impegnarsi, all’indomani delle elezioni, alla formazione di un fronte vasto (più vasto di quello di Berlusconi) e solidale su un numero limitato di cose da fare ( in primis, ricostruire ciò che B. ha distrutto).
Se l’insieme dei voti che saranno raccolti dalle liste opposte alla destra saranno molto di più di quelli berlusconiani, e se al loro interno avranno più peso quelli orientati alla ricostruzione di un’Italia diversa, allora la fine della notte sarà più vicina.
Il testo dell'appello Un voto in prestito
L'immagine illustra la grande manifestazione indetta dalla CGIL a Roma il 23 marzo 2002. E' tratta da questo sito: http://www.pmt.cgil.it/manifesta/inizio.htm
La discussione nata dal delitto malavitoso di Rozzano si è tradotta in una critica ai prodotti più appariscenti (e certamente non tra i peggiori) della cultura architettonica e urbanistica moderna. Abbandonando rapidamente le denunce alle periferie prodotte, negli anni Cinquanta e Sessanta, dalla più ignobile speculazione fondiaria ed edilizia, la deprecazione si è rivolta ai risultati degli sforzi compiti negli anni Settanta e Ottanta per proporre modelli diversi da quelli allora prevalenti: gli enormi scatoloni di dieci o quindici piani accostati l’uno all’altro senza spazio se non quello degli stretti corridoi lasciati all’automobile.
Singolare che nessuno abbia confrontato i requisiti oggettivi dei quartieri di edilizia economica e popolare di Rozzano (con i larghi viali alberati, i giardini decentemente curati e i marciapiedi in ordine) ai quartieri di Torpignattara o della Balduina a Roma, di Pianura o dell’Arenella a Napoli, di viale Zara a Milano o di viale Lazio a Palermo: i mostruosi prodotti, cioè, di quelle due operazioni (la divisione del terreno in lotti tutti fabbricabili, e la moltiplicazione dell’area di ciascuno di essi per il numero dei piani abitabili) a cui si riduce, secondo Leonardo Benevolo, la speculazione immobiliare. Ma tant’è. È più facile additare come “mostri” episodi singolari (si chiamino essi Corviale o Le Vele, lo Zen o Laurentino 38) che affrontare l’analisi dei meccanismi generalizzati di appropriazione privata di beni comuni (tale è infatti il territorio urbanizzato), che ancora agiscono nella città.
Voci ragionevoli si sono pur levate (e in questo sito ne ho raccolte molte). Hanno ricordato come l’origine del disagio della vita in quei presunti “mostri” sia nella cattiva amministrazione, che non ha saputo né dotarli della necessaria mixitè sociale, né completarli con i previsti servizi sociali e con l’attrezzatura dei progettati spazi pubblici, né garantire l’indispensabile manutenzione, e nemmeno garantirne la custodia. Certo, ai difensori di Corviale e dello Zen si può obiettare che un buon urbanista deve comprendere quali sono i caratteri del contesto politico e amministrativo, e tenerne conto. Ma non è insensata la loro replica, quando ricordano l’enorme fabbisogno abitativo insoddisfatto cui occorreva dare risposta, e insieme il clima di accesa speranza in un veloce rinnovamento della politica e dell’amministrazione che caratterizzava gli anni nei quali quegli episodi sono maturati. Anni, ricordiamolo, in cui la “riforma urbanistica” era al centro delle parole d’ordine della politica, e i sindacati dei lavoratori riempivano le piazze di affollati cortei per chiedere “la casa come servizio sociale”.
L’articolo di Paolo Desideri, al quale mi sono riferito aprendo questo pezzo, chiarisce però almeno uno dei termini del problema. Se da una parte (quella dei difensori delle ragioni del patrimonio culturale dell’urbanistica e dell’architettura moderna) si è evocata l’epoca delle battaglie per le riforme della società, dell’affermazione degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, delle speranze di un rinnovamento della città basato sull’uguaglianza dei diritti e sulla condivisione dei destini, Desideri preannuncia lucidamente un’epoca ben diversa. Afferma infatti: “Più consona alle attese e alla cultura abitativa dell’uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città non pianificata, le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista” ( Repubblica, 18 settembre 2003).
È proprio così. Questo è il mostro che il possibile (non inevitabile) futuro ci prepara: proliferazione dell’abusivismo, dissipazione del territorio, degradazione del paesaggio, spreco di suolo e d’energia, dissoluzione dei vincoli sociali, chiusura nel privatismo – e asservimento al Grande Fratello padrone dell’etere e delle coscienze, suscitatore .
Se posso buttarla in politica, direi che all’epoca degli uomini di Togliatti, De Gasperi e Nenni, di Pertini, Moro e Berlinguer, Desideri oppone come inevitabile l’epoca degli uomini di Berlusconi. Speriamo che, oltre a intravederla, quest’epoca non la desideri.
Vedi anche Periferie
Non c’è da meravigliarsi se la maggioranza procede così. La linea culturale della maggioranza è espressa dalla vignetta di Giannelli: costruisca chi può, tanto c’è il prossimo condono. Per rafforzare il concetto che la tutela del paesaggio non è preoccupazione del governo del territorio un altro emendamento precisa che, se le attività del governo del territorio sono “volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità”, ciò va visto “in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio”.
Sviluppo del territorio. Non siamo nati ieri e non siamo nati fuori del mondo. Sappiamo bene che quando oggi, sotto il dominio del peggiore sistema capitalistico-borghese che si sia potuto immaginare, si parla negli USA di “developement” o in Francia di “développement” o in Italia di “sviluppo”, non si allude al concetto di miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, di parsimoniosa fruizione delle risorse, di accrescimento dei valori d’uso presenti nel territorio, ma semplicemente di edilizia e infrastrutture: sviluppo di cemento, ferro, asfalto.
Questo sviluppo è dunque, chiaramente ed esplicitamente, il fine, l’obiettivo, la missione cui il governo del territorio è votato. Anche l’esclusione della tutela del paesaggio e dei beni culturali è funzionale a questa missione. Contraddicendo una linea di pensiero che, fin dai tempi di Bottai, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria, contraddicendo quindi gli indirizzi culturali e legislativi che dalle leggi del 1939 e del 1942 avevano condotto alla “legge Galasso” e alle successive leggi regionali, paesaggio e trasformazioni territoriali sono divisi: affidati a leggi diverse, a uomini diversi, a strumenti diversi. Non c’è dubbio a chi spetterà la parola (la prima e l’ultima) in caso di contrasti: non certo a chi rappresenta i musei e i bei panorami del passato, ma a chi investe, occupa, trasforma, agli “energumeni del cemento armato”, pubblico e privato.
Un tassello rivelatore è stato aggiunto così a un disegno già di per sé perverso, Un disegno il cui centro (lo ripeto una volta ancora) sta nel porre gli interessi degli sviluppatori privati all’origine e al centro delle decisioni sul territorio, scardinando la pianificazione come strumento dell’affermazione del primato dell’interesse pubblico. È chiaro che questo disegno è del tutto coerente con l’ideologia degli uomini del Cavaliere: ne ha ricordato i tratti essenziali pochi giorni fa Ritanna Armeni. Ma perché l’opposizione non fa sentire la sua voce di dissenso, non denuncia lo scandalo di questa impostazione, i danni che provocherà nella vita delle donne e degli uomini di questa e delle future generazioni? Forse perché è stato il centro sinistra, con la modifica del titolo V della Costituzione, ad aprire la strada. Forse perché la proposta di legge della Margherita non è poi tanto distante da quella di Forza Italia. Forse perché i cattivi consigli dell’INU hanno confuso le idee ai legislatori e agli altri opinion maker della sinistra. Forse perché il territorio, i suoi valori, il suo destino sono questioni irrilevanti rispetto allo “sviluppo”.
Forse per tutte queste ragioni insieme. Ma allora non lamentiamoci se Berlusconi regnerà per più tempo di Mussolini. Se la verità è a destra, se anche la sinistra usa le sue parole, perché votare a sinistra?
Qui l'ultimo eddytoriale dedicato alla legge Lupi-
Qui la vignetta di Giannelli, e molte altre
Al nostro B. non è (ancora) consentito praticare siffatti strumenti per affermare il suo dominio. Deve limitarsi a pratiche più sommesse. È riuscito a completare il suo impossessamento delle reti televisive, ottenendo l’approvazione della legge Gasparri-Mediaset e costringendo, attraverso i suoi uomini in Rai, a costringere la presente alle dimissioni. Attraverso la Moratti prosegue l’appiattimento della cultura (esemplare il tentativo di cancellare Darwin). Intanto, l’Italia è scivolata negli ultimi posti nella graduatoria dei paesi per la ricerca, che è il settore che indica il futuro. Sembra addirittura che la P2 sia un’eredità da difendere, se è vero che una pubblicazione ufficiale dileggia l’eroina della Resistenza e della democrazia che ha presieduto la commissione d’indagine su quell’oscuro episodio della nostra storia recente. Su questi argomenti ho inserito articoli di Staiano, Bongi, Colombo, Ricci, Scalfaro, Galimberti, e le vignette di Altan e Giannelli. Un appello di alcuni famosi personaggi della Resistenza francese, molto bello, annoda ai temi (e alle proposte) di quegli anni le battaglie di oggi per i diritti sociali, la formazione e la cultura di massa, la comunicazione; l’ho tradotto prt voi.
Per le questioni della città e del territorio lo spazio maggiore lo occupano le reazioni all’articolo di Mario Pirani in appassionata difesa dell’auditorium di Ravello. Molti hanno avuto la possibilità di rendere noti gli argomenti della loro contrarietà all’intervento inviandoli a Eddyburg che, a differenza di Repubblica, li ha pubblicati (ma a me lo spazio costa meno): troverete così le valutazioni di Giulio Pane, Giuseppe Palermo, Lodo Meneghetti, Desidera Pasolini dall’Onda; e naturalmente, la debole replica di Pirani.
Articoli di Luigi Mazza e di Vezio De Lucia commentano la legge urbanistica Lupi-Mantini. Una nota di Flavia Schiavo aggiorna sulla situazione urbanistica di Palermo, un documento di Mare vivo e WWF su quella dell’Argentario, srticoli di Vitucci sulle grandi opere a Venezia.
Antonio Di Gennaro stimola (a partire dalla vicenda del PTCP di Napoli) a una riflessione sulle idee della sinistra. Nella stessa direzione sollecita una nota in calce a una lettera di Lodo Meneghetti. C’è poco da stare allegri, anche in vista delle prossime elezioni europee. A tutt’oggi ho solo tre certezze:voterò, voterò contro Berlusconi, non voterò per la Lista Prodi. Per il resto vedremo. Questa volta possiamo approfittare del fatto che il sistema proporzionale rende possibile scegliere con tranquillità. Ma certo che, se anche alle politiche nazionali avremo da un lato un raggruppamento moderato (com’è quello del Triciclo: stringeranno la mano a Bush a Roma, il 4 giugno?) e dall’altro la dispersione delle proposte e la confusione delle lingue, ci sarà poco da stare allegri.
Ho deciso di spedirvi più frequentemente la newsletter. Questa volta la inserisco anche come eddytoriale.
In un articolo che ho scritto per la rivista Areavasta (e che inserirò nel sito appena possibile) tento di dare qualche elemento in questa direzione. In estrema sintesi, la mia tesi è che gli interventi proposti e la forma istituzionale adottata per studiarli, sperimentarli, progettarli, eseguirli, sono entrambe in palese opposizione con la possibilità di conservare la Laguna così come è: cioè nel suo carattere essenziale di sistema ecologico in permanente equilibrio tra due destini opposti, ed entrambi distruttivi (terra o mare), grazie unicamente al saggio impiego di una costante azione locale di manutenzione/trasformazione svolta guidando e assecondando (ma non stravolgendo né violando) le leggi e i ritmi della natura.
Certo, un’azione siffatta sarebbe in palese contrasto con le leggi che hanno governato lo sviluppo negli ultimi due secoli. Ma sarebbe perciò stesso anche la sperimentazione pratica d’un modo oggi innovativo di affrontare un problema di frontiera, che è aperto in tutto il mondo: quello di gestire il difficile rapporto tra la soddisfazione delle crescenti esigenze dell’uomo e il rispetto dei limiti e delle qualità delle risorse che il pianeta e la sua storia mettono a disposizione nostra (e dei nostri posteri).
È evidente che da un impegno determinato e “alto” in questa direzione potrebbe nascere un nuovo progetto di sviluppo di Venezia e dell’intera Città metropolitana, fondato sulla cultura della qualità e non della crescita quantitativa, sulla conoscenza e sulla fruizione delle straordinarie ricchezze dell’ambiente naturale e storico e non sulla loro dissipazione consumistica, sulla valorizzazione intesa come restituzione di valori esistenti e non come accrescimento del valore fondiario.
Ma quando mai le forze politiche riprenderanno d affrontare simili temi,a costruire e a proporre un progetto di città e di società, invece di affannarsi alla ricerca del consenso immediato (poco importa se dei commercianti o dei proprietari immobiliari, dei gondolieri o delle grandi holding) da spendere alle prossime elezioni?
Le forze politiche, ecco l’altro tema cui voglio accennare: che fanno in Italia? Su che dibattono e si dividono? Non parlo di quelle sul versante berlusconiano, parlo di quelle alle quali vorrei affidare qualche speranza. Magari non per “i domani che cantano” (i lendemains qui chantent di Paul Èluard), ma per un domani democratico come era quello di De Gasperi e Togliatti, e quello di Moro e Berlinguer: quello della Prima repubblica. Insomma, un domani un po’ più simile all’Europa delle grandi socialdemocrazie e della destre civili.
Sul versante opposto a Berlusconi il tifo è tra i fautori del partito unico e quelli dell’alleanza di partiti diversi (Ulivo si, Ulivo no), tra i modi di arrivarci o di non arrivarci, tra le tecniche da adoperare perché nessuna perda nulla del potere che ha (e magari ne guadagni).
È palese a tutti che non sono questi i problemi reali. Sembra a me (che sono solo un osservatore della politica) che quelli centrali siano due: come restituire all’Italia una competitività economica che ha perso. Come impedire che la deriva impressa da Berlusconi alle nostre istituzioni (ivi compreso il quarto potere, la pubblica comunicazione) non arrivi definitivamente al regime verso il quale è ossessivamente avviata.
Che quest’ultimo sia un rischio drammatico il presidente del maggiore partito del centrosinistra non l’ha compreso, visto che continua a deprecare la “ossessione antiberlusconiana”. Ha dovuto ricordarglielo un vecchio cattolico e democristiano, Oscar Luigi Scalfaro. Gliene sono grato.
Renato Soru, si sa, ha fatto un’operazione coraggiosa e controcorrente: ha imposto l’inedificabilità, da subito e per un periodo di tempo limitato, delle residue coste libere della Sardegna, in attesa che una corretta pianificazione possa stabilire dove e come devono essere trasformate e dove è meglio che restino come sono. Oltre che alle manifestazioni di opposizione esplicita (che naturalmente erano scontate) si è diffusa una sottile campagna di denigrazione. Essa ha serpeggiato in gran parte della stampa, locale e nazionale. Non solo tra i giornali che esplicitamente si oppongono alla tutela ritenendo – per convinta posizione ideologica - la bellezza del paesaggio un bene sacrificabile agli affari. Ma anche di quelli che usano difendere ambiente e paesaggio, promuovendo spesso campagne condivisibili e denunce argomentate delle malefatte dei “energumeni del cemento armato”, come li definiva Antonio Cederna.
La calunnia, come lo Spirito santo, soffia dove vuole: “sotto voce sibilando va scorrendo, va ronzando”. Nel caso specifico, ha ronzato dove ci sono collusioni, grandi e piccole, con gli affari che le bellezze delle coste sarde hanno generato. Poiché Soru non è un metalmeccanico, il bersaglio della “auretta assai graziosa” è subito trovato: lui è uno che non vuole far fare affari sulle coste perché lui gli affari li ha già fatti. Per di più abusivi, quindi non può permettersi di criticare la villa abusiva di Berlusconi. Ecco trovato il tallone d’Achille di Renato Soru: ha una villa abusiva sulla costa.
Il venticello della calunnia è penetrante: “nelle orecchie della gente s'introduce destramente”. Perciò è arrivato anche nelle mie. Ho voluto vederci chiaro. Amici sardi mi hanno documentato. Ho avuto la documentazione (infamante, nelle intenzioni) che l’ex presidente forzaitaliota della Sardegna, l’onorevole Pili, ha esibito nel parlamento regionale per denunciare, col clamore richiesto dai fatti, lo scandaloso comportamento del presidente Renato Soru.
Le accuse di Pili (quello – ricordate? – che copiò integralmente il suo discorso di Presidente della Sardegna da quello del Presidente della Lombardia, Formigoni) sono contenute in un dossier pubblicato in internet, all'indiriizzo indicato in calce. E’ intitolato “Pubbliche virtù e vizi privati”. Si apre con una sintesi della denuncia: Soru è il vizioso proprietario di “una villa sulla riva del mare demolita e ricostruite contro tutte le norme di Legge, una pineta di migliaia di alberi rasa al suolo impunemente e sostituita con ceppi di vite, manipolazioni ingannevoli delle norme, e soprattutto il grande rischio speculativo sulle coste della Sardegna”.
Il virtuoso fustigatore dei privati vizi di Renato Soru molto avveduto non è. Pubblica infatti le immagini e i documenti che dimostrano non solo l’innocenza, ma anche l’avvedutezza, il buon gusto, il rispetto del paesaggio, la cura dei beni comuni dell’attuale Presidente della Sardegna. Come infatti limpidamente emerge dalla documentazione, e dalle immagini, Soru ha compiuto una soffice “ristrutturazione edilizia”, pienamente consentita dalle norme, trasformando una brutta villotta similtirolese in una sommessa costruzione mediterranea, senza aggiungere un metrocubo di volume nè un metroquadrato di superficie. Per di più, ha sradicato alcune decine di eucaliptus, piante notoriamente allogene, piantando al loro posto vigne e mandorli tipici della vegetazione locale.
Siamo agli antipodi dell’iniziativa del capo dell’on. Pili, Silvio Berlusconi e della sua orribile reggia della Certosa. Particolare non trascurabile: barriere insormontabili e vigilantes pubblici e privati scoraggiano chiunque (perfino i magistrati) ad avvicinarsi al maniero del cavalier B.; persone che conosco sono sbarcati l’estate scorsa sulla spiaggetta dove sorge la villa di Soru, ne hanno tranquillamente attraversato lo scoperto, salutando (cortesemente ricambiati) il signor Soru che leggeva il giornale su una sdraia.
Questa differenza, del resto, l’hanno rilevata anche altri. Sul The Independent di ieri (6 dicembre) si legge, a proposito di Berlusconi: “ His Neronian tastes in property were well known even before he began tinkering with his Sardinian villa. Mr Soru could not be more different”.
L'articolo di The Independent
Il dossier (autolesionista) dell'on Pili
Altri articoli su Soru e la Sardegna
Altri articoli su Berlusconi e la sua villa
La calunnia è un venticello, parole e musica
In questi giorni il TAR dovrebbe esprimersi sulla legittimità o meno dell’iniziativa del Comune. Ho espresso più volte e in varie sedi la mia posizione. Voglio qui ribadirne e precisarne alcuni aspetti.
La questione della legittimità. Sarà la giustizia amministrativa a dire la parola definitiva (ma si era già pronunciata in precedenza, dichiarando illegittimo il PRG proprio perché prevedeva un auditorium in quel sito). Per conto mio, ho argomentato e fornito materiali a iosa, e non voglio ripetermi. Voglio sottolineare però il mio sconcerto per il fatto che nessuno dei sostenitori del progetto (con l’unica eccezione di Carlo Gasparrini, volenteroso arrampicatore su specchi impervi e scivolosi) ha ritenuto degno di rilievo il rispetto della legge. Tutti hanno ritenuto che, riguardo alla (presunta) eccellenza del progetto, il rispetto della legge dovesse passare in secondo piano.
Mi sembra un atteggiamento di gravità eccezionale, tenendo conto tra l’altro che la legge rispetto alla quale contrasta la localizzazione di un auditorium (e di qualunque altra opera) è una legge regionale, che la regione è favorevole all’intervento, e che il Consiglio regionale può benissimo modificare la legge (non fa forse modifiche ad personam il Parlamento nazionale per questioni molto più ignobili?)
Considerare la legge un intralcio burocratico, che è lecito eludere per una causa dichiarata giusta da chi ha più ascolto nei mass media, mi sembra un segno terribile dell’abisso nel quale siamo caduti: se almeno è vero, come a me sembra vero, che il sistema delle regole e la sua certezza nei confronti di tutti è il portato della convivenza democratica e una delle sue condizioni. So che la lista di quanti credono che una giusta causa può scavalcare la legge è lunga (e si apre autorevolmente con Bush, Sharon e Berlusconi), ma non pensavo che avesse adepti nei settori dello schieramento culturale e politico che mi sono vicini.
La questione del merito. Tralascio le argomentazioni di carattere paesaggistiche: altri si sono espressi più efficacemente di quanto potrei fare, e io stesso ho detto quel che pensavo (ho detto anche che non mi sembrava affatto scandaloso che altri sostenessero tesi diverse e anzi opposte). Non ritorno sulle questioni urbanistiche, e cioè agli effetti sulla funzionalità di un sistema insediativi che la Regione Campania, nei suoi documenti programmatici, ha definito “ad economia turistica satura”; non mi dilungo sull’accessibilità dei luoghi e sulla loro vivibilità, di cui un aumento del carico insediativo aggraverebbe la crisi. Voglio invece replicare a una giustificazione dell’intervento che viene spesso sollevata dai suoi difensori.
Essa è icasticamente espressa nell’immagine, che riporto nella massima dimensione consentita qui sotto, che mi ha inviato Domenico de Masi (che ringrazio). Il senso di quest’immagine è il seguente: questo luogo è tutt’altro che un “paesaggio perfetto”. È stato già pesantemente scempiato da interventi che l’hanno reso orribile. Un intervento di elevata qualità non può che migliorarlo.
L’argomento è tutt’altro che sciocco. Esso potrebbe motivare un’iniziativa legislativa regionale che volesse riparare il vulnus di legittimità. Quindi mi sembra utile discuterlo. Per farlo, dovrò intrecciare argomenti di legittimità e argomenti di merito.
Mi dicono che le costruzioni recenti che appaiono nella fotografia di de Masi sono in grandissima prevalenza abusive o illegittime. Ciò deriva evidentemente dal fatto che la collettività aveva ritenuto che il paesaggio non dovesse essere modificato, e che la sua volontà è stata calpestata. Sostenere il progetto Niemeyer significa quindi consolidare una prassi sbagliata, confermare una devastazione che si riconosce essere tale e darle legittimità; quindi distruggere la speranza che si possa, domani o fra cent’anni, realizzare un progetto diverso.
Quale progetto? Se vengono demolite (non solo negli altri paesi europei, ma anche in Italia) edifici e quartieri legittimi ma ritenuti obsoleti, se nello stesso Mezzogiorno, nella stessa Campania, nella stessa provincia di Salerno coraggiosi amministratori locali demoliscono centinaia di costruzioni abusive (Eboli, Gerardo Rosania), è forse impossibile pensare che le ferite inferte al magico paesaggio della costiera amalfitana, della costa sottesa alle splendide ville di Ravello possano essere risarcite, che esperti e delicati architetti paesaggisti (meglio se più abili a maneggiare pietra viva e arbusti che a gettare calcestruzzo), e magari interi laboratori universitari, possano essere impegnati a disegnare un progetto di paesaggio che recuperi gli antichi terrazzamenti? È impossibile proporsi di definire e presentare all’opinione pubblica un progetto di restauro di quei siti?
Una volta era impensabile escludere dai centri storici le demolizioni e ricostruzioni che li hanno devastati. Ciò fino agli anni in cui scese in campo l’associazione Italia Nostra, e maturò – nella cultura e nella società - una nuova coscienza: finchè si comprese che alle immissioni di edifici contemporanei bisogna sostituire il restauro, il recupero, il risanamento di ciò che la storia ha consolidato.
A Ravello si vuole celebrare, con il progetto Niemeyer, un episodio omologo alla piacentiniana Via della Conciliazione, oppure vogliamo aprire la strada del restauro del paesaggio?
Si può anche non decidere subito. Ma, almeno, non si cancelli la speranza che, domani una società più consapevole dei suoi interessi di lunga durata, possa seguire la seconda via.
L'articolo di Mario Pirani e la mia lettera
La lettera di Giuseppe Palermo
La lettera di A. Croce, M. De Cunzo, G. Donatoni, C. Iannello
Sullo stesso argomento: Eddytoriale 35 del 19 gennaio 2004
L’episodio si presta a due ordini di considerazioni. In primo luogo, dopo oltre un decennio di esperienza è possibile fare un bilancio dell’applicazione degli “strumenti innovativi” e dei loro effetti sulla città. A Bologna la benemerita Compagnia dei Celestini si è impegnata da tempo in un’analisi accurata. Essa conferma l’esito deludente (perfino in una città nella quale l’amministrazione dell’urbanistica è stata storicamente all’avanguardia) delle “innovazioni” facilone introdotte in Italia. Le valutazioni sugli esiti dimostrano infatti l’inconsistenza da un lato, la negatività dall’altro dei risultati raggiunti. Non hanno cambiato in meglio l’assetto delle città, non hanno introdotto in modo generalizzato (o almeno ampio) nuova qualità urbana, non hanno ridotto i tempi del processo delle decisioni: non hanno insomma prodotto i risultati che dovevano motivarne l’esistenza e lo “strappo” rispetto alla pianificazione tradizionale. Invece, hanno rivelato la loro vera natura: strumenti per restituire alla valorizzazione privata aree destinate dai piani urbanistici a funzioni pubbliche, per derogare alle norme garantiste relative alle densità edilizie e agli altri parametri finalizzati alla vivibilità e all’igiene, in una parola, per derogare nell’interesse privato dei proprietari immobiliari alle norme poste nell’interesse dei cittadini.
Anche a Bologna, e non solo negli anni di Guazzaloca. Il programma dei 26 PRU è infatti il prolungamento (ovviamente peggiorato) di una linea già percorsa dalla giunta Vitali. Il centrosinistra aveva promosso, mediante il medesimo strumento, il doppio delle costruzioni avviate adesso: anche allora, sulla base delle richieste degli immobiliaristi, su aree aventi una diversa destinazione di PRG. La continuità della politica urbanistica della giunta di centrodestra con quella di centrosinistra è probabilmente la ragione per cui i DS si sono presentati divisi sulla valutazione del programma dei 26 PRU.
Una simile continuità, in un campo delicatissimo nel quale da sempre Bonomia docet, ove persistesse sarebbe per il nuovo candidato sindaco Sergio Cofferati uno scoglio forse più duro dello stesso Guazzaloca. Gli auguro di cuore di superarli entrambi: per Bologna ma anche per il significato più generale che una decisa correzione di rotta avrebbe.
Due effetti del provvedimento sono evidenti: Berlusconi può dire di aver mantenuto le sue promesse; il degrado dello Stato (della pubblica amministrazione) avrà un vigoroso impulso. Sul primo punto si potrebbe obbiettare: ma vuoi che l’elettorato non si accorga subito che quel provvedimento ruba ai poveri per dare ai ricchi? E i ricchi non sono una minoranza del corpo elettorale? Mi piacerebbe che fosse così, ma non ne sono sicuro. Per due ragioni che proverò ad esporre.
La prima. Berlusconi ha il monopolio dell’informazione. Lo ha denunciato un uomo non sospetto di sinistrismo: Giuseppe Tesauro, il capo dell’Antitrust. Avere il potere di controllare le due aziende che detengono la maggioranza schiacciante dell’informazione radiotelevisiva significa avere lo stesso potere del Grande fratello (quello di Orwell, non quello della TV). Oltre alla denuncia di Tesauro leggetevi anche lo scritto di Luciano Canfora sulla democrazia, e domandatevi se è anchora questo il regime che ci governa. Io temo che una parte consistente degli italiani si farà convincere che il premier sta lavorando nella direzione giusta,e che ha dato sia ai poveri che ai ricchi (perchè questi investano e diano occupazione).
La seconda. Per battere Berlusconi e la sua accolita alle prossime elezioni ci vuole un’antagonista, che abbia una forza paragonabile a quella dell’avversario. Non mi sembra che il centrosinistra abbia saputo affermare con una forza, continuità e capacità di convinzione confrontabile con quelle spese da Berlusconi per propagandare il suo “meno tasse” quello che ha scritto Fabrizio Galimberti sul giornale della Confindustria: che le tasse bisogna pagarle, che le tasse servono a finanziare i servizi e le opere necessari per la vita e il benesssere dei cittadini e la funzionalità delle imprese, che perciò l’obiettivo è quello di far funzionare meglio lo Stato.
Quello che è certo è che, per far pagare a una platea dai confini ancora incerti un po’ meno di tasse il governo ha ulteriormente aggravato llo stato della pubbblica amministrazione. Sempre più spesso le regioni, le province, i comuni si trocveranno di fronte al dilemma: aumentare le imposte o ridurre i servizi. Sempre più spesso l’ideologia berlusconiana (alla quale nessun’altra si oppone) indurrà a ridurre i servizi, quando l’obiettivo dovrebbe essere quello di aumentarli e migliorarli. Colpiti saranno soprattutto i meno difesi: i giovani, le donne, gli emigrati, gli anziani.
E i posteri, per i quali il Belpaese (distrutto sia con i ripetuti condoni, con lo stravolgimento delle leggi sull’ambiente e il paesaggio, con la demolizione della pubblica amministrazione) sarà una favola raccontata da qualche nonno o nonna che potrà raccontare com’era l’Italia quando Antonio Cederna faceva le sue battaglie, quando Giacomo Mancini salvava l’Appia Antica, quando la prima Giunta Bassolino faceva rinascere Napoli, quando il Parlamento dopo i crolli di Agrigento discuteva su una nuova legge urbanistica, quando i partiti di sinistra portavano l’Emilia Romagna e il suo territorio al livello dei paesi più avanzati d’Europa.
P.S. - Questa nota non intende demonizzare Berlusconi, ma ricordare quello che è. L'immagine è tratta dall'Allegoria del cattivo governo, di Ambrogio Lorenzetti, nel Palazzo comunale di Siena. Qui sotto l'immagine intera.