Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, investe il territorio italiano.
Trasformazioni che partono dalla città. Sprawl urbano, città “sguaiatamente sdraiata” sulla campagna, fu la prima denominazione del fenomeno quando si manifestò nel mondo anglosassone. Villettopoli, insediamento disperso, oppure città diffusa, città esplosa, viene denominata oggi in Italia, dai critici più severi o da quanti credono scorgervi i segni di una nuova civiltà urbana. In ogni caso, una marmellata di case e ville e villette e tuguri, mescolati a capannoni e capannoncini, arterie variamente intrecciate e piazzali, shopping centers e rutilanti outlet factories. Le nuove forme informi di quella “repellente crosta di cemento e asfalto” di cui s’indignava Antonio Cederna, che via via cancella la natura e la storia, le testimonianze impresse nel nostro territorio, nella sua forma, nel suo paesaggio.
E partono anche da fuori, dal territorio extraurbano, dove la natura lavora meno disturbata dall’azione superba (e spesso squallida) dell’uomo: si manifesta nelle distese coperte dalle selve e dai boschi, dalla macchia e dai pascoli, dalle campagne coltivate nelle pianure o sulle coste terrazzate o sulle ordinate colline. Là dove le trasformazioni non sono minori e non hanno minore incidenza sul futuro dell’uomo, sulla sua vita, sulla sua sicurezza: sui modi della sopravvivenza di quel vasto deposito di risorse naturali (la terra, l’acqua,la vegetazione e la fauna, la biodiversità, l’energia solare imprigionata dalle masse vegetali) e di memoria e bellezza (i mille paesaggi che compongono la variegata facies della nostra Penisola).
Pochi indagano, misurano, valutano queste trasformazioni, offrendo così informazioni attendibili e sicure a chi deve governare. E pochi dalle informazioni disponibili traggono valutazioni, propongono politiche, suggeriscono azioni. Tra i pochi, Antonio di Gennaro. Questo libretto è un ulteriore testimonianza del suo lavoro e della sua utilità. Lo ha scritto con Francesco Innamorato, con cui da anni esplora, impiegando metodi rigorosi e intuizioni audaci, tecnologie raffinate e appassionate escursioni, i territori rurali delle sue regioni. A cominciare dalla Campania. cui è dedicato questo volume.
Tra tutti gli studi che indagano sulle trasformazioni urbane e territoriali questo lavoro si segnala per due caratteristiche.
In primo luogo, assume come soggetto della sua indagine il territorio. Da mero supporto delle utilizzazioni urbane, delle nuove forme della città, del modo in cui gli uomini soddisfano le loro esigenze di abitazione, movimento, ricreazione, lavoro, oppure delle attività del settore agro-silvo-pastorale e della vita e consistenza delle aziende volte alla produzione, il territorio diventa il protagonista essenziale dell’indagine: la sua storia, la sua forma, la sua bellezza sono il valore implicito nell’analisi.
In secondo luogo, e di conseguenza, attribuisce grande rilievo allo strumento della cartografia: cioè della rappresentazione fedele del territorio. In altre occasioni di Gennaro ha polemizzato con quanti ritengano di poter studiare il territorio, i suoi usi, le sue trasformazioni facendo ricorso unicamente ai moduli descrittivi forniti dalla lettura storica, dalle fonti statistiche, dalla interpretazione economica. In questo, come in altri suoi lavori, conferma come l’uso corretto dello strumento cartografico sia essenziale per comprendere realmente che cosa sul territorio avviene, che cosa lo minaccia, che azioni possono salvarlo.
La Casa delle libertà sta lavorando a una legge urbanistica coerente con gli interessi del proprio blocco sociale. Per comprenderne la natura basta considerarne due elementi.
Il primo è l’abbandono del principio secondo il quale tutto il territorio nazionale deve essere governato mediante atti di pianificazione assunti dagli enti territoriali elettivi. Secondo la proposta le regioni possono invece individuare a loro piacimento sia “gli ambiti territoriali da pianificare”, sia “l’ente competente alla pianificazione”.
Ma la scelta più significativa è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati”. Nella concreta situazione italiana, ciò significa l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.
Questa impostazione è talmente distante da quella non solo della sinistra, ma anche di una corretta tradizione liberale europea, da risultare incomprensibile che, a sinistra e al centro, vi sia ancora chi si attarda in una logica di emendamenti e che addirittura si applauda al ribaltamento della gerarchia tra interesse pubblico e interesse privato (immobiliare). Come fa l’INU, che in un suo documento dichiara di condividere senz'altro che la funzione di governo del territorio “possa essere svolta anche con la partecipazione e il contributo diretto di soggetti privati”.
Intendiamoci. Negare l’impostazione del rapporto pubblico/privato sotteso all’impostazione della Casa delle libertà non significa affatto negare la “contrattazione” (quella esplicita, non quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). Essa fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.
Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno di avere l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e magari contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?
E’ un sistema, quello della pianificazione, che funziona bene? Certo che no. Da molti decenni si propongono le modifiche necessarie. Ma i risultati sono stati raggiunti solo in parte molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire la destra.
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Eddytoriale 36 del 21 gennaio 2004
Eddytoriale 38 del 2 marzo 2004
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Per affrontare le questioni poste da Gazzetta Ambiente occorre partire da lontano. Occorre innanzitutto definire l’oggetto attorno al quale ragioniamo: il paesaggio. A me preme allora ricordare che il paesaggio è il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura. Nel paesaggio, nella forma del territorio così come ci appare, natura e storia si integrano variamente nelle varie parti del pianeta. Essi formano così tipi diversi di paesaggio (naturale, agrario, urbano), ciascuno dei quali è caratterizzato da genesi, caratteri, significati, utilità, problemi diversi. È proprio la loro genesi, caratterizzata dalla sintesi tra evento e sito, che definisce quindi l’identità dei luoghi: elemento costitutivo della stessa identità delle comunità, nazionali e locali, che quei luoghi abitano. Prodotto della storia, e identità dei luoghi e delle comunità: questi sono gli attributi del paesaggio che soprattutto mi interessano.
Non sto proponendo qui una particolare interpretazione del paesaggio. Se l’accentuazione del ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi nella comprensione dei suoi valori) è propria di alcuni rilevanti scuole di pensiero (da Emilio Sereni a Piero Bevilacqua, per rimanere in Italia), nella vicenda culturale italiana ed europea il paesaggio è stato oggetto di interpretazioni diverse: da quella estetica a quella storicistiche, dall’”archeologia del territorio” alla “ecologia del paesaggio”. Non credo però che si debba scegliere tra l’una o l’altra interpretazione. Non si tratta dell’espressione di posizioni antitetiche, ciascuna delle quali si contrapponga alle altre, ma della messa in luce di differenti punti di vista, ciascuno dei quali sottolinea uno degli aspetti del paesaggio, rivelandone la ricchezza e la complessità. Il paesaggio, la storia, l’uomo
Sottolineare, come mi sembra giusto fare, il ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi del suo valore) significa porre l’accento sul ruolo dell’uomo. Occorre allora riconoscere che l’intervento dell’uomo sulla natura ha avuto ed ha segni diversi. A volte (in certe epoche, in certe società, in certi luoghi) un ruolo positivo: ha costruito paesaggi (urbani, agrari, naturali anche) ai quali riconosciamo oggi valore d’insegnamento e valore estetico: con la semplice manutenzione, oppure con la formazione di nuovi paesaggi agrari, oppure con la creazione di opere integrate nel paesaggio preesistente, l’uomo ha aggiunto insomma valore alla forma della Terra.
Ma altre volte (con l’incuria e l’abbandono, con l’eliminazione dei segni del passato in nome del profitto immediato, con l’artificializzazione dissennata) ha sottratto valore e distrutto il patrimonio culturale e storico costituito dal paesaggio, ha ridotto la ricchezza della civiltà umana. Una domanda inquietante dobbiamo allora proporci.
È in grado la società di oggi, la cultura che essa esprime, di porsi nei confronti della natura e della costruzione del paesaggio nello stesso modo nel quale si sono posti gli uomini il cui prodotto oggi ammiriamo, e nel quale riconosciamo una componente essenziale della nostra identità? I paesaggi urbani e periurbani la devastazione delle campagne, la distruzione di ambienti naturali, realizzati in Italia nell’ultimo mezzo secolo, non lasciano dubbi in proposito, e invitano alla massima attenzione di fronte alla tentazione di “abbassare la guardia” dell’azione di tutela.
Per invertire la tendenza, per imparare di nuiovo a governare la natura senza negarla, occorre che la tutela del paesaggio diventi una priorità sociale. Perché ciò avvenga, è necessario rendere evidente a tutti quali sono le ragioni per cui è socialmente necessario tutelare e arricchire la qualità del paesaggio (dei paesaggi). Perché, insomma, il paesaggio serve?
In primo luogo, il paesaggio è memoria. Il paesaggio è un deposito di storia. In esso è rappresentato e testimoniato il nostro passato, il passato della nostra civiltà. Esso è dunque il fondamento della identità delle diverse comunità che abitano il pianeta (dalle nazionali alle locali). Esso serve (a noi, e alle generazioni future) perché è una insostituibile risorsa della civiltà, è la materia vitale che alimenta il futuro. Basterebbe questo a comprendere come una società che voglia esistere debba custodire il paesaggio come una propria risorsa primaria.
Ma il paesaggio è anche risorsa economica. Sempre più, nell’economia moderna, tendono ad accrescere il loro peso (fino a diventare dominanti) i settori legati alla produzione di “beni immateriali”, tra i quali i comparti legati alla ricreazione e al benessere fisico, al turismo, alla conoscenza e al godimento estetico assumono crescente rilievo. In moltissime aree dell’Italia (e dell’Europa) il paesaggio di qualità è luogo e condizione per produzioni enogastronomiche “di nicchia”, caratterizzate dalla qualità e dall’identità, fondamentali sia lo sviluppo economico e sociale delle aree coinvolte che per la conservazione di valori universali.
A proposito del ruolo economico del paesaggio nei prossimi decenni non va trascurato il peso che può avere per lo sviluppo dell’occupazione in molte regioni italiane un’azione di manutenzione del suolo, di riduzione dei rischi e dei costi del degrado ambientale, di avvio di un’azione di presidio ambientale. Si tratta di ricostituire e manutenere ambienti naturali distrutti dall’incuria dell’uomo (e minacciosi per la sopravvivenza nelle aree a valle del degrado), oppure ambienti caratterizzati da un assiduo rapporto di costruzione del paesaggio agrario.
Alla qualità del paesaggio è legata anche la qualità della vita: La bellezza dei panorami, l’armonia dei luoghi nei quali si svolge la sua vita sono essenziali per il benessere della donna e dell’uomo, del bambino e dell’anziano. Nell’epoca della globalizzazione, la concorrenza tra le regioni e le città assume sempre di più la qualità dell’ambiente (come componente della qualità della vita) come un valore economico da mettere in gioco nel “marketing urbano”. Ciò pone, una volta ancora, l’esigenza economica di migliorare la qualità del paesaggio anche là dove (come nelle periferie urbane) non si è stati capaci di creare qualità nuove, ma solo di distruggere quelle preesistenti.
Obiettivo primario è quello di conferire piena efficacia alla protezione e al godimento dei beni paesaggistici (di quelli esistenti e di quelli da realizzare) da parte delle generazioni presenti e future. La pianificazione territoriale e urbanistica, come insieme di metodi e strumenti volti ad assicurare coerenza alle trasformazioni del territorio garantendo trasparenza e partecipazione al processo delle decisioni, è l’ambito entro il quale tale obiettivo può essere raggiunto.
A me sembra particolarmente significativo, da questo punto di vista, il modo in cui la legge 431/1985 (la cosiddetta Legge Galasso) ha posto le premesse per innovare il sistema di pianificazione. La legge è stata attuata solo parzialmente, e spesso la sua attuazione è stata una elusione delle sue finalità. Ma l’esperienza di attuazione di quella legge (là dove un’attuazione positiva vi è stata) induce ad sottolineare, e a proporre alcuni indirizzi particolarmente significativi. Li enuncerò in termini molto sintetici:
La “attenta considerazione delle valenze paesistiche e ambientali”, che la legge 431 chiede alla pianificazione ordinaria perché abbia efficacia, deve diventare una costante nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale.
Più precisamente, la prima fase della pianificazione deve essere costituita dall’assidua ricognizione delle qualità naturali e storiche del territorio, come si tentò di fare nell’esperienza della Regione Emilia Romagna del 1985-86 e come hanno prescritto, in modi più o meno chiari, le nuove leggi urbanistiche della Toscana e della Liguria.
La ricognizione delle qualità del territorio deve condurre precettivamente all’individuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili con le caratteristiche proprie di ogni unità di spazio, come condizionenon negoziabile per ogni decisione sulle trasformazione da promuovere o consentire;
La tutela attiva del paesaggio richiede che nel processo di pianificazione vengano integrati tutti gli strumenti disponibili: le politiche e le azioni di settore, gli incentivi finanziari, la partecipazione a programmi e progetti nazionali e sovranazionali, il ricorso all’imprenditoria privata. Questi strumenti non devono essere adoperati in contrasto alla pianificazione oppure come alternativa ad essa, ma - appunto - come suoi strumenti.
Sottolineare l’utilità della pianificazione (come mi sembra indispensabile) significa riconoscere la parzialità, e quindi l’insufficienza della protezione passiva costituita dai vincoli di tutela). Ma credo che il clima culturale e morale che stiamo attraversando (gli anni Ottanta non finiscono mai!) impongano al tempo stesso di ribadirne l’utilità. I vincoli, ancorché non sufficienti, sono utili sotto un duplice profilo. In primo luogo, il vincolo è necessario come difesa temporanea, in attesa che la pianificazione consenta di articolare le politiche, sia attive che passive, di tutela. In secondo luogo perché (come dimostra l’esperienza della legge 431/1985) il vincolo agisce strumentalmente come sollecitazione alla pianificazione, e quindi alla possibilità di una tutela più compiuta e di una fruizione dei beni paesaggistici che ne garantisca la conservazione.
Un ultimo punto vorrei brevemente toccare. La tutela e valorizzazione del paesaggio esprime una pluralità d’interessi collettivi: da quelli nazionali a quelli locali. Occorre evitare sia il rischio del conflitto paralizzante sia quello della negazione di uno o l’altro degli interessi coinvolti.
Il principio di sussidiarietà è il criterio utilizzabile per individuare a chi spetta la responsabilità della scelta in relazione agli oggetti e aspetti su cui occorre decidere.. Lo è, beninteso, se è assunto nella sua accezione corretta, quella elaborata nella recente cultura europea. Non il principio di sussidiarietà inteso come “tutto il potere alla periferia”, ma come riconoscimento del fatto che per ogni decisione c’è un livello giusto al quale quella decisione può essere presa efficacemente. Ma valga il testo ufficiale:
Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità [1],
È davvero difficile pensare che il paesaggio, essendo elemento fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, non rientri pienamente nelle responsabilità (e delle competenze) dello Stato, essendo appunto questione che si pone a una scala nazionale.
Ma se gli organi centrali dello Stato hanno la responsabilità dell’azione di tutela, essi hanno anche quella di promuovere la concorrenza dei poteri nell’azione di tutela. Se la responsabilità primaria in materia di paesaggio spetta allo Stato, anche i livelli di governo regionale e locale sono legittimati (credo d’averlo argomentato a sufficienza) a concorrere con esso nella azione di individuazione, definizione, tutela.
Come può esercitarsi la concorrenza nel campo della pianificazione territoriale e della tutela del paesaggio? Anche qui vi è un principio, e un istituto già introdotto nel nostro ordinamento, che possono aiutare. È il principio secondo il quale gli strumenti di pianificazione, laddove disciplinino beni dello Stato in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possono diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato. Questo principio, del resto, stato introdotto recentemente nell'ordinamento, seppure limitatamente alla pianificazione provinciale, dall'articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, il quale stabilisce che:
la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale [...] assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.
Come propone l’associazione Polis, tale testo normativo può costituire, può essere esteso al di là del suo specifico contesto, e costituire un modello sulla cui base affrontare compiutamente la questione. È un modello, del resto, che è già stato più volte proposte e applicato in concrete esperienze di governo del territorio e può dar luogo, come è stato osservato, a utili semplificazioni e snellimenti delle procedure. Ciò che è nell’interesse di tutti.
[1] Trattato di Maastricht, art.3B.
LA TELENOVELA URBANISTICA
E' davvero un serial la vicenda del regime degli immobili: più lungo di Dinasty, più brutto di Beautiful, più angoscioso di Twin Peaks. Passerà ancora molto tempo, temiamo, prima che quella vicenda possa considerarsi conclusa ed esser raccontata come un vero, nobile romanzo. Passerà molto tempo (é questo che più conta) prima che vi possa essere certezza del diritto sui contenuti economici delle trasformazioni urbane, e chiarezza di poteri nel loro governo.
Mentre scriviamo, il farraginoso elaborato risultante dalla originaria proposta dell'on. Cutrera e dalle abbondanti superfetazioni prodotte dal sovrapporsi di infiniti intarsi emendativi (nei quali si é particolarmente distinto il relatore alla Camera dei Deputati, l'on. Guido D'Angelo) é in discussione nella Commissione Ambiente della Camera.
L'ultimo testo che conosciamo (il lettore lo troverà nel dossier di questo numero) ha una particolarità interessante: apre una finestra sul futuro, ci fa comprendere quale sarà, secondo la volontà della regia, il contenuto delle ultime puntate del serial. E' racchiuso nell'art.22, intitolato "Norme transitorie". (E' sempre in questi angolini nascosti delle leggi che bisogna guardare, per comprendere ciò che realmente avrà efficacia. Ricordate il famoso "anno di moratoria" della legge ponte del 1967, che riempì l'Italia di tanto cemento quanto non se ne era realizzato in un decennio?).
L'articolo 22 afferma, al primo comma, che "le disposizioni della presente legge relative alla determinazione dell'indennità di espropriazione per le aree edificabili nonché del contributo sulla maggiore utilizzazione edificatoria hanno applicazione dopo diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge".
Avete capito bene. Secondo il legislatore questa legge, che ha impegnato centinaia di migliaia di ore di lavoro di senatori e deputati, quando finalmente sarà stata approvata da entrambi i rami del Parlamento e, munita dela firma del Presidente della Repubblica, sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, non entrerà in vigore: resterà sospesa per un anno e mezzo. In questo periodo si ricorrerà per gli espropri, come stabilisce il medesimo articolo, alla legge di Napoli del 1885.
Perché un così lungo periodo di moratoria? Chi lo chiedesse ai parlamentari, si sentirebbe probabilmente rispondere che questo é il tempo occorrente per mettere a punto i meccanismi necessari perché la legge funzioni. Noi saremo certamente maliziosi e irrimediabilmente "dietristi", ma immaginiamo uno scenario diverso, meno europeo e più levantino.
La legge sarà approvata. Il sen.Cutrera, autore dell' originaria impostazione della nuova normativa (ahimé quanto degradata nel tempo!), uscirà formalmente vincitore dalla vicenda. Come Bucalossi, come Galasso, avrà anche lui la "sua" legge. Potrà adoperare l'esito della sua iniziativa per raccogliere i consensi (indubbiamente meritati per le qualità intrinseche del personaggio) nel corso della vicina campagna elettorale.
Nel frattempo, si applicherà per gli espropri una legge sperimentata (mai ricusata dalla Corte costituzionale), per un periodo transitorio. Alla scadenza, una provvidenziale leggina, approvata da un distratto Parlamento, ne prorogherà per la prima volta gli effetti. Di proroga in proroga, la norma transitoria diventerà di fatto permanente. Così, anche i democristiani, che le elaborate invenzioni del sen. Cutrera non hanno mai convinto, e che preferiscono la tranquillità del vecchio alle incertezza del nuovo, avranno vinto.
Una soluzione all'italiana. Una soluzione della quale, nel merito di entrambe le sue conseguenze, non avremmo da dolerci: perché il sen. Cutrera merita certamente la rielezione, e perché la legge di Napoli é certamente meglio di quel pasticciaccio che il Parlamento ha prodotto. Peccato, però, che la riforma del regime degli immobili si allontani ancora nel tempo, che la telenovela debba proseguire ancora per tanti, tanti anni. (75 righe)
Non solo nelle leggi: anche nei Prg bisogna guardare con attenzione negli angolini nascosti delle norme. Sotto il vestito magari accattivante delle tavole e dei disegni, dietro le intenzioni argomentate e convincenti delle relazioni, si nasconde spesso la peggiore deregulation urbanistica. Vogliamo pubblicarne un esempio. Non perché sia eccezionale, o eccezionalmente mistificatorio. No. Anzi, proprio perché, nella sua innocenza, é in qualche modo tipico.
Parliamo del Prg di Rimini, in corso d'adozione. Le sue norme contengono un comma che riproduciamo integralmente, dall'art.2.01. "Il Consiglio comunale (...), previa individuazione e perimetrazione delle aree, approva progetti speciali per servizi e attrezzature di generale interesse volti a sostenere e riqualificare l'ambiente nonché a promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano, su iniziativa di soggetti pubblici e/o privati, anche in variante alle previsioni di Prg secondo le speciali procedure semplificate previste dalle leggi".
Se abbiamo capito bene, il Consiglio comunale può accettare proposte in contrasto al Prg ("anche in variante alle previsioni"), anche di privati, che dichiarino di voler realizzare un "progetto speciale", purché esso sia atto a "promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano". Dove il Prg prevede servizi di quartiere, o un parco pubblico, o una zona agricola, il proprietario, o un qualsiasi altro soggetto d'accordo con lui, può quindi proporre un edificio, magari "intelligente", per uffici, o un centro congressuale, o un villaggio turistico, o una succursale di Disneyland?. Sembra di si.
Gli urbanisti si lamentano sempre delle deroghe ai piani introdotte dalle leggi. Era ora che qualcuno si decidesse a fare un piano capace di autoderogarsi. (32 righe)
La previsione strutturalmente più significativa del Prg di Roma del 1962 era costituita da quello che, negli anni successivi, fu definito "Sistema direzionale orientale" (Sdo). Si trattava di un "asse attrezzato" (nel disegno di allora, una grande autostrada urbana), e da "centri" e "zone" direzionali. Collocato nelle aree libere a metà strada tra la cintura ferroviaria che stringe i quartieri centrali e il Grande raccordo autostradale, lo Sdo avrebbe dovuto costituire il "nuovo centro città", rompere l'espansione a macchia d'olio e svolgere una funzione strategica per la sua riorganizzazione.
Molti anni sono passati da allora. Lo Sdo non é stato realizzato. C'é chi dubita sulla validità attuale della proposta. C'é invece chi ritiene che, opportunamente ridimensionato in alcune sue previsioni (quelle infrastrutturali e quelle volumetriche) e riconvertito nelle sue funzioni, abbia ancora un'importanza strategica per risolvere tre problemi della città.
Tre problemi nodali per il suo futuro. Si tratta del problema della mobilità, se lo Sdo servirà a riorganizzare la rete della grande viabilità nel settore orientale abbandonando le ipotesi autostradali e, soprattutto, costruendo prioritariamente alcune nuove linee del trasporto collettivo su ferro. Si tratta del problema della riqualificazione dei giganteschi e slabbrati quartieri circostanti, poveri di qualsiasi attributo di civiltà. DE si tratta infine del problema del decongestionamento del centro storico, mediante il trasferimento dei ministeri e la sostituzione a questi di utilizzazioni "leggere".
Numerose ipotesi sono state avanzate per le modalità della realizzazione dello Sdo. Scartata, "naturalmente", quella di attrezzare gli uffici comunali, scartate per fortuna anche quelle basate sui criteri della lottizzazione convenzionata, si é approdati a una soluzione che, nonostante un'ambiguità di fondo nel rapporto tra pubblico e privato, non é priva di una sua convincente efficacia. Si é deciso cioé di affidare in concessione a un consorzio di imprese la progettazione urbanistica del sistema e di espropriare preliminarmente le aree. Il finanziamento per l'avvio dell'operazione é già stato stabilito dalla Legge speciale per Roma Capitale.
Nell'ottobre scorso sono state firmate le convenzioni che danno il via all'operazione. Nello stesso mese si sono avute tre notizie. La prima: il Comune avrebbe concesso al Ministero della Difesa di costruire un edificio militare (... mc circa) in una vastissima area dello Sdo, ponendo così una pesantissima ipoteca sulla sua fattibilità. La seconda: con una interpretazione lassista delle norme il Comune starebbe consentendo la realizzazione di numerosi fabbricati direzionali nelle zone industriali, favorendo in tal modo l'ulteriore espansione del "sistema direzionale diffuso" che già caratterizza la Capitale. La terza: sarebbe definitivamente confermato lo spoostamento del Ministero della Sanità sulle rive sud del Tevere, alla Magliana.
Sembra insomma che il Comune abbia deciso, senza dichiararlo esplicitamente ma lasciandolo intendere nei suoi atti concreti, di abbandonare lo Sdo. Ma e' mai possibile realizzare una simile opera contro la volontà del Comune? Non sembra proprio. Tanto più, se si considera che il nuovo significato che allo Sdo si vuole dare, la soluzione insomma di quelle tre questioni sopra ricordate, rendono indispensabile che il Comune, contestualmente alla progettazione dello Sdo, proceda nella formazione degli atti necessari per la pianificazione del centro storico e dei quartieri periferici, nonché nel completamento del sistema della mobilità.
C'é chi ritiene che, l'anno prossimo, la commemorazione del trentennale del Prg del 1962 debba avere, come suo piatto forte, la dichiarazione dell'abbandono dell' avventurosa proposta dello Sdo. E si comincerà allora a discutere se le aree ancora libere dovranno essere tutelate e destinate a parco, oppure se dovranno essere edificate in continuità con u quartieri limitrofi. Si troverà, comunque, un compromesso. Tornerà (é facile prevederlo) la proposta della lottizzazione convenzionata. I proprietari, piccoli e grandi, vecchi e nuovi, tireranno in ogni caso un sospiro di sollievo. I grandi problemi della funzionalità della Capitale d'Italia aspetteranno qualche decennio ancora.
E' PASSATO UN QUARTO DI SECOLO
Fu venticinque anni fa. Da Agrigento a Venezia, in pochi mesi l'Italia fu squassata da frane e alluvioni che rivelarono la fragilità della stessa base fisica della vita sociale e personale degli italiani.
E' passato un quarto di secolo. Molte parole, molte indagini, molte proposte, molte iniziative legislative. Ma nel concreto, pochissime cose sono avvenute che abbiano valso davvero a sanare le ferite allora aperte. E pochissime cose sono cambiate (qualcosa, forse, anche in peggio) negli atteggiamenti morali e culturali, e nel modo di di operare con gli strumenti della tecnica e dell'amministrazione. Non a caso, la stampa ha ricordato il novembre 1966 sotto il segno d'una sostanziale continuità.
Per conto nostro vogliamo ricordare il quarto di secolo che da allora é trascorso pubblicando stralci di un editoriale che Giovanni Astengo scrisse allora su Urbanistica (n.48). Ci sembra purtroppo che quelle parole valgano ancora.
Mi sembra che alcune cose avvenute nel nostro paese negli ultimi tempi, non soltanto offrano più d'una conferma alle tesi che abbiamo esposto nei documenti preparatori di questa Conferenza, ma soprattutto illuminino con una luce diversa, più cruda e più chiara, alcune delle affermazioni che abbiamo fatto, delle analisi che abbiamo avanzato, delle esigenze che abbiamo prospettato.
Voglio soffermarmi brevemente su due punti, tra loro strettamente collegati: le tendenze e le iniziative che si manifestano da parte delle grandi aziende capitalistiche, e il ruolo necessario e possibile del tessuto delle autonomie locali.
Già nell'autunno scorso avevamo individuato e denunciato, praticamente in tutti i documenti preparatori di questa Conferenza, il senso che assumevano le iniziative delle grandi aziende monopolistiche, pubbliche e private, nel settore del' turismo e del tempo libero. A quelle iniziative noi attribuivamo un significato negativo non soltanto per gli effetti che producevano all'interno del settore, ma anche per il più grande disegno politico che ad esse vedevamo sotteso.
Quel disegno politico è diventato oggi del tutto esplicito e chiaro. Con il « programma di emergenza » di Rumor e Giolitti, con i « progetti speciali » predisposti su misura per la FIAT, la Montedison,l'Efim, l'IRI, l'ENI, con l'istituto della « concessione » propagandato dai professorini del Ministero del Bilancio, noi abbiamo visto manifestarsi, in tutta la sua globalità e coerenza, una strategia di lungo periodo; una strategia che mira, con l'alibi di una presunta e non dimostrata « efficienza » e « modernità », a utilizzare strumentalmente la grande domanda insoddisfatta d'investimenti sociali per sostituire, a una Repubblica fondata sugli istituti democratici e sul primato della politica, uno Stato fondato sugli interessi immediati delle grandi aziende monopolistiche e sul primato del profitto.
Questo è il senso che il nostro partito, con la grande maggio ranza delle Regioni e del movimento autonomistico, con il movimento sindacale, ha riconosciuto e contestato nelle proposte del « piano d'emergenza ». Ed è grazie all'opposizione che in tal modo è venuta a determinarsi, che l'ambizioso progetto dei Cefis, degli Agnelli e dei Fanfani sembra oggi ridimensionarsi e offuscarsi. Ma credo che commetteremmo un grave errore se ritenessimo d'aver già vinto, con il successo d'una battaglia, una guerra che è solo alle prime scaramucce.
In realtà, nell'analizzare il ruolo delle grandi aziende monopo listiche nel settore del turismo e del tempo libero, noi non abbiamo affatto sottovalutato gli elementi che forniscono, alle proposte di
quelle aziende, una oggettiva forza di convinzione e una presa reale. Di fronte a una offerta turistica atomizzata, irrazionale, largamente dominata da elementi di speculazione, divoratrice delle risorse naturali e ambientali; di fronte all'incapacità di questo tipo di offerta di fornire una risposta adeguata alla domanda di massa del tempo libero, le grandi aziende monopolistiche hanno veramente buon gioco.
Occorre fornire - abbiamo detto - una risposta che sia alternativa rispetto a quella del monopolio, ma che sappia misurarsi con la novità dei problemi e con la nuova qualità e quantità della domanda. Una risposta che sia basata su un ruolo nuovo dell'impresa privata piccola e media, non più intrisa di elementi di speculazione e di rapina; che sia basata su una rigorosa ed efficiente organizzazione della domanda, gestita dalle associazioni democratiche, dai sindacati, dagli enti locali, da una scuola profondamente rinnovata; che sia basata, soprattutto, su una capacità nuova dei Comuni e delle Regioni di amministrare il territorio e le sue trasformazioni e utilizzazioni, adoperando tutti i possibili strumenti per rendere concreto il principio, per noi irrinunciabile, che l'ambiente, la natura, il paesaggio, la cultura, rappresentano aspetti diversi di un patrimonio collettivo e sociale, che non può essere utilizzato a vantaggio di pochi privilegiati.
Ora il punto che voglio sottolineare è che la nostra capacità di reagire vittoriosamente e di battere fino in fondo la strada delle grandi centrali capitalistiche è interamente affidata alla nostra capacità di realizzare nel concreto, e anche in tempi molto brevi, quella alternativa che proponiamo.
Non nascondiamocelo, compagni, poiché faremmo un errore che pagheremmo a caro prezzo: non solo l'alibi, ma la concreta occasione par passare, è fornita alle grandi aziende dallo stato profondo d'inefficienza, d'incapacità amministrativa, tecnica ed ecenomica, in cui 25 anni di gestione democristiana del potere hanno lasciato precipitare gran parte degli strumenti dell'azione pubblica, a livello degli organi centrali dello Stato come a livello delle Amministrazioni locali.
Non è un caso se le :grandi aziende capitalistiche hanno scelto come terreno di pascolo il Mezzogiorno e le zone montane. Non è un caso se quelle stesse aziende si presentano invece in punta di piedi
e col cappello in mano nelle regioni dove il tessuto dei poteri locali è forte, consolidato dalla tradizione e dall'esperienza politica, radicato nelle masse popolari, consapevole ed efficiente.
Per battere l'avversario di classe nelle forme in cui esso oggi è costretto a presentarsi, dobbiamo fare un salto di qualità. Un salto di qualità che non può manifestarsi soltanto con una nuova e diversa produzione legislativa, ma che si realizza soprattutto nella gestione e nell'amministrazione quotidiana, e che sa però trasfondere in questa la carica politica e ideale che sappiamo impiegare nelle grandi battaglie.
Dovremmo fare un'analisi seria, io credo, degli strumenti che abbiamo già conquistato nelle battaglie generali e nazionali, e che non riusciamo ad utilizzare; scopriremmo di avere un arsenale coperto spesso di polvere. Voglio fare un esempio solo. Nel 1971 abbiamo conquistato, con una lotta lunga e faticosa, una legge che ci consente - fra l'altro - di espropriare, praticamente senza limitazioni, tutte le. aree da destinare agli insediamenti turistici e al tempo libero. Con questa legge il Parlamento ha messo nelle mani dei comuni - abbiamo detto - « uno strumento che può essere decisivo non solo per abbattere la speculazione fondiaria vecchia e nuova ma anche per promuovere forme nuove e avanzate di turismo ».
Ebbene, oggi, in Italia, quanti Comuni sono in grado di utilizzare e gestire questo strumento? Quanti Comuni hanno la capacità tecnica ed amministrativa, oltre che politica, di sfruttare le possibilità che l'art. 27 della 865 loro offre? Quante Regioni hanno promosso una politica di incentivazioni finanziarie e procedurali per aiutare e sollecitare i Comuni in questa direzione? Quanto impegno politico si è speso, abbiamo speso, per aiutare i Comuni a rafforzare le proprie strutture tecniche, per persi concretamente in una dimensione comprensoriale, per rendersi capaci di utilizzare gli strumenti strappati dal movimento di lotta?
E' indubbio che possiamo registrare più di una iniziativa e più di un successo in questa direzione. Ma a parte il fatto che spesso adoperiamo più spazio; sui nostri giornali, per illustrare le mirabilia di un impianto di depurazione che per spiegare i contenuti e gli strumenti di esperienze avanzate nella politica del territorio, a parte questo, mi sembra che stentiamo ancora a porre in modo generalizzato il problema della rifondazione, del rafforzamento, del salto di qualità degli enti elettivi come un grande e centrale problema politico e ideale.
Credo che sia necessario un deciso impegno del partito, di noi tutti, in questa direzione. Solo a questa condizione, solo alla condizíone di riuscire a costruire un tessuto di istituti elettivi democratici ed efficienti in tutto il Paese, e soprattutto là dove esso è oggi più stentato e precario, solo così potremo riuscire a far passare la linea alternativa che proponiamo per i problemi del turismo e del tempo libero.
Non è un caso, d'altra parte, se oggi registriamo un attacco concentrico contro 1e autonomie locali, o più in generale, contro gli istituti rappresentativi. Se ci riflettete, noi siamo riusciti a porre al centro dell'attenzione del paese una serie di problemi, siamo riusciti a far emergere nelle masse lavoratrici e popolari una serie di esigenze, siamo riusciti a far prevalere nell'opinione pubbblica intera una serie di proposte e indicazioni nostre, che realmente sono capaci di mutare il quadro complessivo della società italiana. Quando noi parliamo - nel caso specifico di cui qui ci occupiamo - di un turismo come diritto e come servizio sociale, noi realmente introduciamo una proposta rivoluzionaria, una proposta che tende a trasformare fin dalle radici il modo in cui fino a oggi è concepito il turismo e il tempo libero. E' una reale e integrale alternativa rispetto a un tempo libero dominato dall'individualismo, dal privatismo e dal privilegio, a un turismo come evasione e come fuga dall'alienazione del lavoro verso un'alienazione diversa e complementare
E questa nostra proposta è forte, ed è virtualmente vincente, non solo perché è l'unica pienamente omogenea al carattere sociale della classe operaia, ma anche e soprattutto perché offre una base e uno strumento serio alla politica delle alleanze della classe operaia: nei confronti dei ceti medi produttivi, che solo in una seria programmazione possono trovare l'occasione per uno sviluppo senza crisi laceranti; nei confronti delle popolazioni residenti nei luoghi del turismo, che solo in un turismo strettamente integrato alle economie.
Pianificazione
Scritto per la rubrica “Glossario” de I frutti di Demetra, bollettino di storia e ambiente, n. 5/2005, marzo 2005. Tratta, molto sinteticamente, della pianificazione territoriale e urbanistica e della pianificazione strategica
La moderna pianificazione nasce sostanzialmente quando l’affermazione del sistema capitalistico di produzione, e il parallelo affermarsi della borghesia, si trovano a fare i conti con alcune contraddizioni nel funzionamento della città: contraddizioni che la spontaneità del mercato - rivelatasi decisiva per sviluppare la produzione - non solo non riusciva a risolvere ma anzi aggravava.
Oggi generalmente si intende per pianificazione territoriale ed urbanistica il metodo, e l’insieme degli strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni. Le trasformazioni territoriali oggetto della pianificazione sono quelle, sia fisiche che funzionali, suscettibili (singolarmente o nel loro insieme) di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma di parti significative del territorio, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.
Gli obiettivi posti alla pianificazione variano in relazione al contesto storico. Tutti i possibili sistemi di obiettivi oggi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.
Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazione sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.
Uno dei compiti della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti. Questa è la ragione per cui in Italia la pianificazione è sempre stata (fino alle recentissime rotture costituzionali) competenza specifica ed essenziale degli istituti elettivi di primo grado, nei quali si esplica nel nostro paese la democrazia; e anche la ragione per cui, nell’ambito delle istituzioni elettive, le scelte di maggior respiro (quelle relativa agli strumenti di pianificazione generale, dai piani regolatori comunali a quelli territoriali provinciali e regionali) sono state di competenza degli organismi consiliari, nei quali sono rappresentate anche le minoranze (scelta contraddetta da recentissime, e improvvide, leggi regionali, come quella della Campania).
La pianificazione territoriale e urbanistica nei termini in cui l’ho ora sintetizzata è soggetta in Italia a tensioni, che si esprimono sia in tentativi di adeguamento alle nuove esigenze e ai nuovi strumenti che è possibile impiegare, sia a tentativi di radicale stravolgimento.
Tra i primi collocherei gli sforzi che molte regioni hanno fatto, soprattutto tra il 1995 e il 2000, per introdurre nella legislazione urbanistica procedure e strumenti volti a privilegiare la considerazione degli aspetti ambientali e culturali, ad aggiornare sistematicamente le scelte sul territorio sulla base del ruolo rilevante dei quadri conoscitivi e del monitoraggio degli effetti, a snellire le procedure conservando, e anzi rafforzando, il carattere democratico e la trasparenza del processo delle decisioni.
Tra i secondi porrei in grande evidenza i tentativi compiuti (e malauguratamente vicini a cogliere l’obiettivo, se passa la cosiddetta Legge Lupi) di sostituire all’urbanistica “autoritativa” o “regolativa”, cioè tradotta in regole d’azione sul territorio stabilite dai poteri pubblici espressi dalle istituzioni democratiche, l’urbanistica “negoziata” con i poteri economici dominanti nei differenti contesti territoriali; quindi, in Italia, soprattutto con la proprietà immobiliare e con gli interessi finanziari ad essa legati.
In una posizione intermedia porrei i tentativi, di introdurre, prevalentemente accanto o indipendentemente dalle procedure tradizionali di pianificazione, procedure e strumenti definiti di “pianificazione strategica”. Su questa vale la pena di soffermarsi.
In Italia spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deforma il significato, il contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Anche per questo è utilissima una rubrica, come “Glossario”, che si preoccupa di stabilire il senso delle parole. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jacques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche nella sinistra si sia adoperato quel termine per dire “privato è meglio” sconcerta. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo severo significato reale. Così vale per la parola “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.
Sappiamo che è un termine relativo all’arte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).
Nel campo del territorio e del suo governo la strategia ha allora a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro. E assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso: deve fare i conti con il sistema delle istituzioni, nelle quali il consenso oggi si esprime.
Ulteriore segno dell’italiana confusione dei significati, da noi per pianificazione strategica si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni
Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.
Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorre, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, nella pratica delle istituzioni e impadronendosi di esse e delle loro regole, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti della pianificazione, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.
Edoardo Salzano, 27 febbraio 2005
Ho due ragioni per essere contrario alla costruzione dell’auditorium a Ravello: 1) l’intervento è illegittimo, e battersi per ottenerlo significa avallare la pericolosissima teoria e prassi secondo cui se una legge ostacola ciò che voglio fare, beh, abroghiamola o scavalchiamola; 2) è sbagliato perché non ha senso modificare un paesaggio già perfetto di per sé, che non ha bisogno d’aggiunte.
La prima ragione mi sembra la più grave. Che l’intervento sia in contrasto con la legge regionale 35 (1987), che ha approvato il piano urbanistico territoriale della Costiera in attuazione alla legge Galasso, non è questione di cui si possa dubitare. Lo ha spiegato con molta chiarezza Alessandro Dal Piaz sul Corriere del Mezzogiorno del 14 gennaio 2004. E se qualcuno di quelli che hanno dato il parere favorevole avesse letto il testo della legge regionale e quello del Put non staremmo a questo punto. Del resto, già in una precedente occasione il Tar aveva rilevato che la previsione dell’auditorium è in contrasto con la legge: con l’ordinanza 1350 del 5 luglio 2000, «ritenuto che sussiste il contrasto con il Put» , il Tar sospese la delibera commissariale di adozione del Prg.
Salvatore Settis scriveva su la Repubblica del 23 gennaio: « Chi studierà la svalutazione delle istituzioni? » . E osservava che « l’Italia di questi anni è un eccellente laboratorio d’indagine per chi voglia cimentarsi col tema; specialmente per chi voglia studiare come possano essere le istituzioni a svalutare se stesse, e utilizzando meccanismi istituzionali » .
Questo di Ravello è proprio un caso tipico dell’anomalia italiana descritta da Settis: la Regione promuove un Accordo di programma per tentar di annullare, in un singolo caso, una legge che, viceversa, dovrebbe essere uguale per tutti.
Mi sembra molto grave, e mi dispiace molto che persone come Paolo Sylos Labini e Nicola Cacace, Massimo Cacciari e Franco Barbagallo, Giovanni Valentini e Giorgio Ruffolo — e tanti altri — non se ne siano accorti. So che il clima generale è questo, che la tendenza a privilegiare l’interesse specifico rispetto alla legge è forte, ma a maggior ragione mi preoccupa che nessuno — tra i difensori dell’auditorium — si sia reso conto che anche in questo caso la difesa della legalità deve essere la prima preoccupazione.
Ho parlato e parlo di auditorium, e non di progetto di Niemeyer, perché il progetto non è di Niemeyer. La questione non è di grande rilievo, ma ha avuto un peso strumentale. Non credo che 165 intellettuali si sarebbero spesi per un appello se si fosse trattato di difendere, che so, un progetto dell’architetto Rosa Zeccato. Eppure, stanno difendendo proprio il progetto di Rosa Zeccato, ispirato da uno schizzo di un architetto che, sia pure famoso ( e bravo a costruire nuove città nel deserto), a Ravello non ha mai messo piede. Ce lo dice candidamente il sindaco di Ravello, in un suo ampio intervento sul Corriere del Mezzogiorno del 15 gennaio.
Che il progetto sia di Niemeyer o dell’architetto Zeccato ( che immagino bravissima) a me peraltro poco importa.
Sul merito del progetto per me il punto è un altro. Io sono convinto che non tutte le parti del territorio della nostra civilissima Italia abbiano bisogno di essere trasformate con l’aggiunta di nuovi oggetti. E a me sembra che Ravello abbia una qualità che non tollera né aggiunte né sottrazioni ( salvo forse quelle poche opere abusive che qui o là s’intravedono).
Vogliamo Niemeyer? Benissimo. Ha costruito a Segrate, chiamiamolo a fare un progetto a Scampìa o a Nola o a Soccavo, se la legge e i piani lo consentono. Ma lasciamo in pace Ravello, e per i concerti utilizziamo Villa Rufolo, Villa Cimbrone, e magari San Giovanni del Toro.
Ascoltati gli interventi di quanti sono intervenuti alla trasmissione della Rai Ambiente Italia ( ieri pomeriggio, ndr),
devo dire che le mie preoccupazioni sono aumentate. Non mi hanno convinto le difese della bellezza dell’oggetto, perché non è questo che conta: non stiamo parlando di un quadro attaccato a un muro. Né mi hanno convinto le teorizzazioni di chi sostiene ancora oggi ( come si sosteneva cinquant’anni fa a proposito dei centri storici) che dappertutto si può trasformare a condizione che la trasformazione sia « bella » . Mi ha preoccupato il fatto che il tentativo di scavalcare la legge ( perché è questo che si è fatto) sia stato ridotto dal rappresentante di Legambiente a una questione di « prob lemi legali » , come se si trattasse di un affare di condominio o di eredità. Mi ha preoccupato che si sia addirittura proposto al Consiglio regionale ( come ha fatto il direttore del Wwf) di fare una legge eccezionale per Niemeyer. Dopo il « Lodo Schifani » siamo al « Lodo Benedetto » ? Il paesaggio non si salva se si avalla la teoria secondo la quale la legalità è qualcosa che si può aggiustare, come certi giudici disonesti, pagati da certi avvocati malfattori, aggiustavano certi processi.
Edoardo Salzano
Ha vinto la ragione. La pressione dei cittadini veneziani e del Comune, l'appello dell'opinione pubblica internazionale e della cultura europea e mondiale, il solenne monito del Parlamento europeo, hanno infine prevalso. Il Parlamento della Repubblica è riuscito a far sentire la sua voce e il suo peso. E il Governo dopo aver dato l'impressione di non saper far altro che giocare allo scaricabarile, ha avuto un soprassalto di buon senso e di dignità: ha ritirato la candidatura di Venezia per l'Esposizione universale del 2000.
Ricordiamo tutti la vicenda. L'idea di fare a Venezia una Expo era stata lanciata da Gianni De Michelis nell'autunno 1984, alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative. Le reazioni di una parte consistente dell'opinione pubblica veneziana e italiana furono immediate, ma De Michelis avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell'Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell'industria, si assicurò l'appoggio di prestigiosi esponenti della cultura, costruì una solida piattaforma d'intesa con i dorotei veneti fingendo d'allargare l'impatto dell'Expo all'intero Veneto. Con procedure discutibili, una "prenotazione" ufficiale per l'Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), il quale svolse l'istruttoria preliminare.
Sembrava che i giochi fossero fatti. Mentre lavoravano i promotori dell'Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta sarebbe stata una rovina per Venezia. Si accumularono materiali di conoscenza e di analisi che consentirono di comprendere (e di far comprendere) in che modo l'Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle "pietre" della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l'assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi.
Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell'area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto. Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero.
UNA NUOVA FASE DI ESPANSIONE
La caduta del Muro di Berlino ha trascinato con sè una serie di eventi. Tra questi, una istantanea impennata dei flussi di persone tra Est e Ovest. Il dramma dei profughi albanesi ha costituito un segnale d'allarme evidente; la nuova dirompente fase della perestrojka, seguita al tentativo di golpe, ha portato ad aumentare ancora le dimensioni dell' esodo dall'Est rispetto a quelle gi` previste. E' la teoria dei vasi comunicanti che si manifesta; e di fronte aldivario tra l'abbondanza delle merci all'Ovest e la penuria all'Est, di fronte a una così grande differenza di potenziale tra l'uno e l'altro recipiente, non c'é politica di "difesa dei confini" che regga. Del resto, qualcuno ha osservato che chi ha applaudito alla caduta del Muro di Berlino non può a sua volta proporsi di erigere altri muri. Il "sistema della concorrenza" ha vinto.
Con esso ha vinto la società opulenta, che ora ammalia masse sterminate di consumatori potenziali, scarsamente solvibili finchh non potranno impiegare in modo efficiente la loro forza lavoro. D'altra parte, le aziende dell'Ovest chiedono mano d'opera disponibile a svolgere mansioni poco gradite agli indigeni. La soluzione giusta per affrontare il divario tra Est e Ovest é certamente quella di investire e trasformare la struttura economica all'origine dei flussi, aumentare lì, all'Est (come al Sud) i livelli di produttivit`, di reddito, di consumo. Ma occorrerà molto tempo perché un simile impegno, ancorchh perseguito, si traduca in una sensibile riduzione del dislivello tra i vasi divenuti ormai comunicanti. Sembra perciò che si debba dare per scontata una nuova immigrazione nel nostro Paese, dopo quella dall'Africa nera, dal Maghreb, dall'Asia.
Può riaprirsi allora, nelle città, una nuova fase dell'espansione, dopo quella di cui avevamo registrato l'esaurirsi. La popolazione insediata aumenterà di nuovo, a causa del saldo sociale positivo determinato dalla fine di un'epoca. Di conseguenza aumenteranno di nuovo i fabbisogni; gli standard urbanistici e gli altri elementi dell' armamentario quantitativo riacquisteranno il loro peso. Se così stanno le cose, non sarebbe male attrezzarsi per far fronte decentemente a questa nuova fase dell'espansione: per evitare di ripetere gli errori dei devastanti anni '50 e '60, e per evitar di contraddire nei fatti le proclamate necessità di una urbanistica della qualit` e dell'ambiente. Tre questioni appaiono allora le più urgenti, e chiedono un impegno sia della cultura urbanistica sia dei governi nazionale, regionali e locali.
La questione del regime degli immobili. C'é adesso una ragione in più perché si giunga finalmente al varo di una legge snella, facilmente e rapidamente praticabile, che almeno consenta di acquisire alla mano pubblica le aree da destinare all' edilizia, ai servizi, al verde: magari, con anticipo rispetto al manifestarsi delle concrete esigenze di utilizzazione, come si fa nei paesi civili.La questione delle localizzazioni. Una politica che voglia fare i conti con una immigrazione così particolare, e così "governabile" per le caratteristiche dei soggetti (la maggior parte dei quali ambisce a stabilirsi "in Occidente", ma non a Napoli piuttosto che a Ravenna o a Frosinone) deve essere una politica in grado di governare i flussi, le destinazioni, le localizzazioni degli interventi necessari: dev'essere una politica definita anche nelle sue proiezioni territoriali. Ciò ripropone allora l'esigenza di una definizione coerente della politica territoriale nazionale: ripropone il tema di una effettiva e completa pianificazione territoriale, estesa a tutto l'ambito nazionale.
La questione, infine, della "considerazione" dell'ambiente nella pianificazione. Occorre al più presto rendere cogenti alcune elementari regole per la pianificazione territoriale e urbana, che consentano di ottenere almeno un primo risultato di tutela dell'ambiente. Due regole ci sembrano essenziali. La prima: escludere ogni possibilità di trasformazione fisica e, dove occorra, funzionale delle aree le cui qualità, naturali o storiche, meritano tutela e valorizzazione. La seconda: ridurre al minimo la laterizzazione (ossia la trasformazione in una artificiale crosta impermeabile) di un territorio la cui permeabilità e naturalità si sono già ridotte in modo preoccupante.
Si tratta di obiettivi minimi. Non perseguirli con tenacia e rigore significherebbe condannare il Bel Paese a un orrore non diverso di quello che tutti abbiamo ripetutamente deprecato, a partire da trent'anni fa.
UN PONTE PER LA SICILIA O LA SICILIA COME PONTE?
Si ricomincia a parlare del ponte sullo Stretto di Messina. Già ne abbiamo scritto su queste pagine, molti anni fa ( La piramide sullo Stretto, n.84-85), per denunciare l'assurdità di quell'impresa: non tanto in sè, nella sua valenza di tecnica ingegneristica (non avremmo del resto le competenze necessarie per esprimerci) quanto per la finalità di mero e superficiale prestigio che le viene assegnata dagli italici entusiasmi, e soprattutto per la sua assoluta non priorità nel quadro del complessivo sistema dei trasporti italiano e dei suoi problemi.
Molti sostengono oggi che non vale la pena di preoccuparsi per il ponte sullo Stretto: le difficoltà sono tali e tante che se ne parlerà ricorrentemente, vi si imbastiranno sopra campagne propagandistiche, si approveranno magari altre leggi e leggine per finanziare studi e progetti, ma non si vedr` mai la realizzazione dell'opera.
Andrà così? Può essere. A noi sembra perr che già il solo parlare del Ponte sullo Stretto sia grave, sia per l'atteggiamento che esprime sia perche questa ingombrante presenza impedisce di affrontare in modo serio (e perciò diverso), i problemi dei trasporti e il ruolo in essi della Sicilia. Affidare la soluzione del problema dei collegamenti della Sicilia con il continente a una intrastruttura quale quella di cui si parla i coerente con una determinata strategia territoriale che i l'opposto di quella sensata. E' una strategia che affida le comunicazioni ai vettori su gomma e, subordinatamente, su ferro, trascurando il vettore più economico e meno inquinante, cioh l'acqua. E' una strategia che concepisce la Sicilia come il cul di sacco del sistema dei trasporti, relegando l'Isola al ruolo di estrema appendice di quell'appendice dell'Europa che é l'Italia. E' una strategia, insomma, che colpevolmente non solo non utilizza e valorizza, ma addirittura mortifica e nega due della più rilevanti risorse, storicamente consolidate, di cui l'Italia (se osservata con occhio non provinciale) palesemente dispone. In primo luogo, la sua posizione geografica, culturale e storica di possibile ponte (ma in senso metaforico) tra due continenti e molte civilt`. In secondo luogo, la presenza dell'imponente, potenziale "sistema autostradale acqueo" costituito dall'Adriatico, dal Tirreno e dalla "bretella" ionica.
Ciò che é singolare é che più di un gruppo politico sostiene l'opportunità di un dispiegato "ruolo mediterraneo" dell' Italia. Sono troppo pochi, perr, quanti riescono a comprendere le politiche hanno loro precise proiezioni territoriali, che impongono di dire "no" a certe soluzioni territoriali, per dire "si" ad altre.
"La maturità politica di una società é dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine"; e pensare a lungo termine é indispensabile per poter affrontare vittoriosamente "le cause fondamentali del degrado urbano". Questa (e la fiducia nel ruolo che la città continuerà a svolgere nella civiltà europea, e la consapevolezza della profondità della sua crisi) é la convinzione che anima il Libro verde sull'ambiente urbano, predisposto dalla Commissione delle Comunità europee che sarà approvato in queste settimane dal Parlamento europeo. La Commissione ha affrontato la questione urbana sotto il solo angolo visuale delle politiche ambientali perché é a quest'ultimo aspetto che sono limitate le competenze del Governo europeo. Ma l'approccio ambientale consente agli estensori del documento di cogliere alcuni nodi centrali del dibattito odierno, fornendo indirizzi che potranno avere ricadute positive nella Repubblica italiana, oggi governata dalla miopia, dall'arroganza e dall'imprevidenza.
Il documento si apre con un'affermazione che é già di per sè significativa, e in Italia controcorrente: "Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento di ogni approccio settoriale". I diversi aspetti del degrado urbano sono esaminati tutti con la sinteticità necessaria a un documento politico, ma in modo corretto ed efficace. Unica assenza di rilievo, il regime imobiliare.
L'ufficialità del documento conferisce un particolare interesse alle posizioni espresse in relazione ad alcuni aspetti cruciali del degrado urbano. Oltre a quelle sui temi più strettamente ambientali, vogliamo segnalare quelle sulla mobilità (dove si coglie e si denincia la spirale perversa congestione/nuove strade/aumento del traffico/peggioramento della congestione e dell'inquinamento, e si afferma che "l'obiettivo deve invece consistere nel rendere l' automobile una opzione e non una necessità"), del turismo ("la crescita costante del turismo in determinate città caratterizzate da un patrimonio culturale particolarmente ricco può portare (...) a un deterioramento della qualità della vita degli abitanti"), delle periferie (che si individuano come problema centrale per il futuro delle città e di cui si denuncia l'assenza di qualità propriamente urbana).
Un'affermazione, tra le altre, ci sembra possa sintetizzare il Libro verde. Essa riguarda la vaexata questio del rapporto tra tutela e sviluppo. Il conflitto tra ambiente ed economia - si sostiene - é "un falso problema perché a lungo termine la protezione delle risorse ambientali sar` una precondizione di base per una sana crescita economica". Un'affermazione che sembra dedicata ai tanti "sviluppisti" nostrani, così golosi di frittate da essere incapaci di rinunciare a un uovo oggi per avere una gallina domani.
Ancora una volta l'emergenza adoperata per evitare le "lungaggini" della pianificazione. Il Comune di Firenze ha approvato una variante che consente l'edificazione di 900 mila metri cubi nell'area "non dismessa" della Fiat a Novoli: un'area occupata dallo stabilimento fiorentino della Fiat ancora in funzione, che sarà trasferito ma non si sa ancora dove.
I lettori ricorderanno la vicenda Fiat-Fondiaria, di cui su queste pagine ci siamo più volte occupati. Si trattava di due aree, di caratteristiche molto diverse, accomunate solo da due fatti: sono entrambe nella piana nord-orientale della città, e per entrambe si proponeva una robusta "valorizzazione immobiliare". Il progetto (concepito per la Fondiaria, ma in cui subito la Fiat fu coinvolta) prevedeva l'approvazione, da parte del Comune, di una variante di Prg, con la quale il potere pubblico attribuiva alle aree un calibrato mix di funzioni e, soprattutto, una congrua quantità di volumi (se no, che valorizzazione é?).
L'ambizioso progetto era andato molto avanti, quando il segretario dell'allora Pci, Achille Occhetto, ne interruppe il cammino inducendo la componente maggioritaria della Giunta a dissociarsi. La maggioranza é cambiata. La "valorizzazione" dell'area della Fondiaria é sospesa, in attesa del varo del nuovo Prg. Per l'area Fiat, invece, si va avanti, benché il nuovo Prg sia in avanzata fase di elaborazione, e benchh la prossima entrata in funzione della Città metropolitana di Firenze renda ancor più necessaria che nel passato la prudenza nel definire funzioni e quantità di un'area che é strategica per l'intero assetto intercomunale.
Perché questa urgenza? Lo svela la relazione che accompagna la variante: questa non può attendere perché c'é "l'emergenza giustizia". Di nuovo la parola chiave, di nuovo il grimaldello che apre tutte le porte. Bisogna fare un nuovo palazzo di giustizia. Non ci sono alternative: può esser fatto lì e solo lì. E per realizzare i 200 mila mc degli uffici giudiziari, bisogna regalarne altri 700 mila alla società proprietà dell'area, alla Fiat. Les jeux sont fait. (Del resto, c'é un precedente illustre. Vent'anni fa, a Napoli, il Palazzo di giustizia fu il cavallo di Troia attraverso il quale passa la speculazione del Centro direzionale. Nulla di nuovo sotto il sole.)
Perché, quando, come fu prodotto il fotopiano? A queste domande voglio sinteticamente rispondere per far sì che il lettore, navigando all’ interno di questo meraviglioso prodotto della scienza e della tecnica moderne (lo strumento, il CD-rom) e della scienza e della tecnica storiche (l’ oggetto, Venezia), sappia un po’ del suo spessore.
Nel 1980, a Venezia, era stata rieletta la maggioranza di sinistra e ricostituita la giunta. Esaurito il tentativo di correggere e attuare i piani particolareggiati del 1974, mi posi l’obiettivo (ero di nuovo assessore all’urbanistica) di avviare una pianificazione del tutto rinnovata. Per farlo, strumento indispensabile era una cartografia di qualità adeguata. Per la città storica, la qualità del sito e il livello di dettaglio che volevamo dare al nuovo PRG erano tali da richiedere un prodotto d’eccezionale contenuto cognitivo. Da qui nacque la decisione di avere, tra gli strumenti, un fotopiano a colori in una scala di precisione topografica: quella del rapporto 1:500 ci parve adeguata.
Edgarda Feletti, allora dirigente dell’ufficio centro storico dell’ assessorato all’urbanistica e protagonista della costruzione e della gestione del fotopiano, gettò le basi del progetto. Insieme scegliemmo gli esperti che avrebbero dovuto aiutarci come collaudatori (Rosa Bonetta dell’IUAV e Corrado Mazzon del SIFET ), e per la messa a punto e l’attuazione del progetto (l’ impareggiabile Mario Fondelli, che ci guidò passaggio dalla concezione tradizionale a quella digitale del sistema cartografico, di cui il fotopiano costituiva il primo tassello).
Le gare (per il fotopiano, per le riprese aeree per la cartografia, per la restituzione cartografica) furono bandite nel 1981. La commissione giudicatrice scelse la Compagnia Generale Ripresearee del comandante Licinio Ferretti. Mai scelta si rivelò più oculata. Ferretti fece un lavoro splendido, e seppe rischiare. Prima ancora che il contratto con il Comune fosse stipulato e che fossero rilasciate le autorizzazioni, la CGR non seppe rinunciare ad approfittare di una giornata eccezionalmente limpida (il 25 maggio 1982) e volò: eseguì le riprese (78 strisciate, 1129 fotogrammi) in un solo giorno per il centro storico, in tre giorni successivi per il resto del territorio della Laguna e della Terraferma.
Un anno quasi impiegammo nel tentativo di rimuovere le richieste dell’ amministrazione militare di cancellazione degli “obiettivi strategici” ;. Ci aiutò Andrea Manzella, allora Capo di gabinetto del ministro della Difesa Spadolini. Ma raggiungemmo il successo solo quando, ottenuto un appuntamento con il comandante dell’IGM, gli portammo a Firenze i primi campioni del fotopiano. Il generale Zanetti comprese che non si poteva mutilare un’opera così eccezionale (per l’oggetto, e per la tecnica impiegata) mascherando con i mprobabili aiuole l’Arsenale o l’Ospedale civile: come era stato fatto, pochi anni prima, per il fotopiano alla scala 1:5.000 della Regione.
Secondo il contratto la CGR doveva consegnarci tre copie fotografiche delle 186 tavole a colori relative alla città storica: una per lavorarci, una per il pubblico, la terza da archiviare. Appena vedemmo il prodotto comprendemmo subito che non era possibile tenerlo per noi: chiunque, a Venezia e nel mondo, avrebbe voluto vederlo, goderne, utilizzarlo. Facemmo una gara ulteriore. Scrivemmo a 22 editori italiani chiedendo chi fosse interessato alla commercializzazione del prodotto. Ponemmo una sola condizione: il primo dei prodotti ricavati dal fotopiano doveva essere la sua riproduzione originale e integrale, in piena fedeltà del formato, dei colori, dei segni; la precisione doveva restare quella di una carta topografica alla stessa scala.
Solo la Marsilio Edizioni si dimostrò interessata, e chiese di vedere le tavole. Emanuela Bassetti, amministratore delegato, s’innamorò del prodotto. Lavorò intensamente per trovare sponsor che condividessero le ingenti spese d’impianto, e per risolvere i mille problemi tecnici che si ponevano. Nacque così l’edizione Venezia forma urbis , presentata all’opinione pubblica nel 1985, e poi i fortunati “sottoprodotti” ;. L’ Atlantedi Venezia (poi tradotto in edizioni inglesi e francesi, dalla Princeton Press e da Flammarion), e il diffusissimo poster miniaturizzato alla scala di 1:3.623.
Con questo CD-Rom il fotopiano acquista un’altra dimensione ancora. Si può navigarci dentro, percorrerlo in tutte le direzioni, scegliendo quale, dei mille luoghi di Venezia, ammirare da 1.000 metri d’altezza. Una sensazione altrettanto intensa quanto quella che dovettero avere i tecnici della flotta del comandante Ferretti quando, quel 25 maggio 1982, sorvolarono la città più bella del mondo per assicurarne a tutti la veduta dall’alto.
Occorre evitare – scrive Michelangelo Savino – che “ si creino irreparabili fratture tra il dibattito disciplinare e la pratica di pianificazione condotta avanti dalle amministrazioni, rendendo la riflessione teorico-disciplinare sulle prospettive dell’innovazione della nostra disciplina, un esercizio retorico e slegato dalla realtà”. Attenzione sacrosanta. Chiunque riesca a stare con un piede nei dibattiti che si svolgono nell’accademia e con un altro nelle prassi delle decisioni nelle amministrazioni sperimenta una divaricazione crescente.
Da una parte, sul versante accademico, si tende sempre più a immergersi nelle rarefatte atmosfere delle teorie costruite sulla lettura di altre teorie che a loro volta nascono dalla digestione di altre teorie. Ciò non conduce più vicino alla verità del reale, ma spinge a sfuggirle dirigendosi verso territori sempre più irreali e fatui, dilapidando così un patrimonio di intelligenze di di risorse materiali spesso consistente. Ma dall’altro lato, sul versante delle pratiche, si è sempre più spinti ad abbandonare la riflessione critica su ciò che si è fatto e l’attenzione a ciò che altrove si sperimenta e si propone, per rifugiarsi nella quotidianità e nell’emergenza, nella stanca ripetizione del deja vu e deja fait. Ciò rende lo sguardo sempre più miope, sempre più inadatto a comprendere (e quindi a trasformare) quella realtà immanente alla quale pure ci si vorrebbe dedicare.
Questa divaricazione tra riflessione e prassi è oggi pericolosa come non mai. Essa infatti isterilisce risorse e disperde potenzialità proprio in una fase nella quale la massima utilizzazione delle risorse disponibili è conditio sine qua non per evitare il rischio d’una decadenza irreversibile della nostra civiltà, fino al limite della sua scomparsa. Come sfuggirle? In primo luogo, rendendosi conto che una simile divaricazione esiste, che essa allontana tra loro mondi l’uno all’altro indispensabili, che essa deve essere superata: pena, la sterilità della riflessione e l’inefficacia dell’azione. Mi sembra che il taglio che il curatore ha dato a questo volume indichi una chiara presa di coscienza del problema. Il lettore si renderà conto facilmente che i materiali raccolti consentono di compiere qualche passo rilevante nella direzione giusta. Può forse aiutare nella stessa direzione tentar di delineare qualche punto fermo, sul quale chi è più impegnato nella riflessione e chi è più ripiegato sulla prassi potrebbero verificare convergenze potenzialmente utili. Nel mio ragionamento mi riferirò soprattutto alla situazione del Mezzogiorno, ma credo che esso possa valere anche per il resto del paese.
Il ruolo che l’ambiente fisico ha avuto nel condizionare lo sviluppo dell’economia, della società e delle istituzioni è stato analizzato con intelligenza, soprattutto (negli ultimi decenni) da Piero Bevilacqua e dai suoi allievi. Leggere alcune delle monografie del suo libro Tra natura e storia [1] aiuta a comprendere qualcosa che non sfugge a un’analisi anche empirica (ma non viziata dagli idola dell’industrialismo). Il destino economico, sociale e istituzionale del Mezzogiorno è legato alla capacità dei gruppi dirigenti di comprendere che, lì più ancora che altrove, l’ambiente (la sua ricchezza, la sua storicità, la sua bellezza espressa e quella esprimibile) sono, insieme all’intelligenza umana, l’unica base materiale dello sviluppo. E di comprenderlo non in termini meramente accademici, per poi agire in modo opposto a ciò che una comprensione finalizzata all’agire comporterebbe.
A me sembra indubbio che la situazione attuale e le sue prospettive rendano imperativa l’attenzione all’ambiente fisico come base del possibile sviluppo. La produzione manifatturiera generica è in evidente declino, non solo per l’imperizia e la rapacità degli attori determinanti. L’agricoltura generica (quella che produce beni fungibili) non ha alcun futuro, come diventerà palese in modo dirompente con il venir meno dei sussidi europei. A che cos’altro dunque può essere affidata una speranza di sviluppo nelle regioni del Mezzogiorno se non a un’intelligente applicazione della cultura e del lavoro dell’uomo ai dati della natura, nel rispetto e nella sapiente utilizzazione di ciò che l’innesto tra queste due risorse ha prodotto nel passato?
Molti segni in direzione di uno sviluppo simile già si vedono. Essi tralucono però negli interstizi delle politiche ufficiali (della destra come della sinistra), la quale nel suo complesso appare mossa da ispirazioni di segno opposto, obsolete, perdenti e distruttive. L’utilizzazione rapace di ciò che lavoro e natura hanno prodotto nei millenni trascorsi, la sostituzione dei paesaggi di consolidata bellezza con panorami dominati dal cemento e dall’asfalto, la utilizzazione idiota di terreni resi fertili da eventi geologici milionari per la localizzazione di gigantesche aree industriali (destinate a restar deserte di uomini e di attività) o addirittura per impianti di smaltimento dei rifiuti: questi sono gli eventi che ancor oggi si registrano.
Un siffatto modo di procedere non è solo in contrasto con ogni elementare responsabilità civile e culturale nei confronti del mondo attuale e delle generazioni future, ma è insano anche da un punto di vista esclusivamente economico. È infatti evidente a tutti che il turismo ha nel Mezzogiorno una enorme potenzialità di sviluppo proprio grazie alla possibilità di utilizzare il vastissimo patrimonio di natura, paesaggio, storia, arte, costumi, prodotti, intimamente legati al territorio e alla suo millenario processo di formazione. È utilizzando in modo durevole questo patrimonio immenso (ma quindi, in primo luogo, tutelandolo attraverso la conoscenza e la salvaguardia) che il Mezzogiorno può trovare una ragione di sviluppo alternativa rispetto alle produzioni manifatturiere ormai obsolete, o alle produzioni agricole generiche ormai indifendibili in territori come i nostri, oppure rispetto a quelle di un “turismo di quantità” dissipatore della sua stessa materia prima.
L’ubriacatura del “privato e bello”, l’apoteosi del “meno Stato e più mercato”, stanno passando di moda. I risultati che si volevano ottenere si sono rivelati illusori. Il mercato ha confermato la sua insufficienza a svolgere anche solo le funzioni regolatrici del valore di scambio senza una forte presenza pubblica, figuriamoci a tener conto della sempre più estesa domanda sociale di accrescere i valori d’uso.
Tuttavia il danno che la fortuna di quegli slogan ha provocato sono consistenti, soprattutto là dove – come nel Mezzogiorno – la debolezza dello Stato era diventata cronica ed era stata surrogata da un individualismo distruttore e da un familismo spesso criminoso. La questione alla quale generazioni di meridionalisti si erano dedicati (la costruzione nel Mezzogiorno di strumenti di una statualità moderna) mi sembra quindi oggi più centrale che mai. Il rafforzamento delle strutture pubbliche è quindi, oggi, problema prioritario. Senza un potere politico dotato di strumenti efficaci diventa impossibile guidare le forze dell’economia verso orizzonti coerenti con gli interessi generali; diventa impossibile scegliere tra impieghi produttivi e strategici delle risorse disponibili e impegni parassitari e miopi; diventa impossibile scegliere a quali risorse attribuire priorità, per quali loro utilizzazioni, in vista di quali interessi.
In questo quadro due questioni mi sembrano particolarmente rilevanti, entrambe sottese agli argomenti trattati in questo volume: la questione della legalità, la questione della pianificazione.
Perché un’amministrazione pubblica sia efficace, e perciò capace di incidere sulla realtà, essa deve essere rispettata. Può esserlo in due modi: può imporsi col ricatto del terrore (ed è il modo praticato dalla criminalità organizzata: da noi, mafia, camorra, ndrangheta); oppure può guadagnare il consenso dei cittadini. Quest’ultima strada richiede però alcune condizioni che l’amministrazione deve assicurare al cittadino (ricordando che questo temine è sostanzialmente diverso da quello di suddito).
La prima condizione è che al cittadino sia chiara la ragione di ciascuna delle regole che l’amministrazione lo impegna a rispettare. La seconda è che le regole siano rispettate da tutti, ugualmente rigorose per chi può violarle e per chi deve rispettarle. Perciò mi sembra che combattere il burocratismo (imperante in molta parte dell’amministrazione pubblica) sia un impegno civile, e che pratiche come la co-pianificazione e l’intesa interistituzionale siano da praticare largamente. Perciò, soprattutto, mi sembra che il rispetto della legalità sia nel Mezzogiorno un impegno d’onore ancor più necessario che in altre regioni d’Italia e d’Europa.
Ragioni confluenti, sebbene distinte, inducono a ritenere che la pianificazione sia uno metodo (più ancora che un insieme di strumenti) essenziale soprattutto nel Mezzogiorno. Non solo perchè la certezza delle procedure e la trasparenza delle decisioni (caratteristiche esenziali della buona pianificazione) sono connotati rilevanti di un’azione amministrativa tesa al ripristino della legalità. Ma anche perchè è evidente che essa potrebbe svolgere un ruolo decisivo come strumento di uno sviluppo basato – come non può non essere nelle regioni meridionali - su un’attenta considerazione delle risorse dell’ambiente. Sempre che essa sia, beninteso, una “buona pianificazione”.
Per meritare tale attributo essa dovrebbe essere il luogo nel quale tutte le scelte degli enti pubblici suscettibili di indurre trasformazioni territoriali (da quelle dello “sviluppo” a quelle della “tutela”) trovino la loro sintesi. Tanto per fare un esempio, i contenuti dei “piani operativi regionali” (POR), i programmi e i progetti di infrastrutture d’interesse regionale, le politiche regionali per l’abitazione, il turismo, l’agricoltura, dovrebbero trovare la loro coerenza – e la coerenza con le regole per il corretto impiego delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali e con i relativi vincoli – in un atto di pianificazione unitario, sottoposto al vaglio del confronto pubblico, impegnativo nei suoi esiti prima di dar luogo a decisioni operative. È così che succede nel Mezzogiorno? Non mi sembra.
Una “buona pianificazione”, perciò utile ad affrontare i problemi del Mezzogiorno in coerenza con le tesi ra sostenute, dovrebbe avere nella lettura attenta (e sistematicamente aggiornata) delle risorse territoriali la base conoscitiva d’ogni decisione. Da tale lettura dovrebbe discendere un sistema non di “vincoli”, ma di definizione delle opportunità e delle condizioni che l’esigenza di non dissipare o degradare il valore delle risorse territoriali, pongono a ogni ipotizzabile trasformazione. Quante e quali sono le banche di dati sistematicamente aggiornate disponibili nelle regioni, nelle province (e nei comuni) del Mezzogiorno? Quanti sono i sistemi informativi territoriali vivi (cioè sistematicamente aggiornati) che possano sorreggere le scelte di localizzazione sistematiche (della pianificazione) o episodiche (dell’emergenza)? Non mi sembra che ci sia da rallegrarsi del bilancio.
Anche nel Mezzogiorno ha preso piede l’impiego di “nuovi strumenti” mediante i quali determinare le trasformazioni territoriali. Non più strumenti di “governo”, ma di “governance”. Non più piani regolatori generali o piani territoriali di coordinamento, ma patti territoriali, programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione urbana, i programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio e così enumerando. E negli ultimi tempi, i piani strategici.
In termini generali, questi strumenti hanno un aspetto positivo e uno negativo. Il primo sta nel fatto che essi tendono a superare limiti oggettivi degli strumenti tradizionali, e in tal senso offrono possibilità aggiuntive. L’aspetto negativo sta nel fatto che invece tendono a essere utilizzati come alternativa alla pianificazione tradizionale. Questo è un errore gravissimo. Tutti quegli strumenti (con una sola eccezione) premiano le esigenze, le opportunità, le disponibilità del breve periodo, e offrono spazi consistenti agli interessi privati, in particolare a quelli più forti. Sono quindi utilmente impiegabili a due sole condizioni: che vi sia un rigoroso sistema di regole certe e forti sul territorio, mediante le quali siano garantite le prospettive di una utilizzazione durevole delle risorse disponibili, e quindi un efficace sistema di pianificazione; che il potere pubblico sia autorevole, qualificato, decisamente orientato a favorire la prevalenza degli interessi generali e la tutela degli interessi “deboli”.
Non mi sembra che queste due condizioni siano diffusamente presenti nel Mezzogiorno. Se è così (e dove è così, e finché è così), sostituire governance a government, affannarsi nella formazione di strumenti urbanistici “anomali” invece di quelli ordinari, altro non significa che premiare, una volta ancora, gli interessi forti e le opportunità di breve periodo rispetto a ogni altro interesse e opportunità. Nel concreto, nelle regioni del Mezzogiorno questo quindi significa privilegiare, una volta ancora, le utilizzazioni edilizie dei suoli e la valorizzazione della rendita fondiaria alle utilizzazioni coerenti con l’esigenza di uno sviluppo durevole e con l’opportunità di un pieno impiego delle risorse territoriali. Significa premiare e promuovere il consolidamento delle attività economiche parassitarie anziché lo sviluppo di quelle innovative e produttive nei settori dell’agricoltura di qualità e di sito, dei servizi alle persone e alle imprese, del turismo di conoscenza e di fruizione evoluta del territorio, delle produzioni avanzate ad alta intensità di intelligenza e a bassa intensità di consumo di territorio e di energia.
Diverso è il ragionamento per quanto riguarda la pianificazione strategica. Per la verità con questo termine si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica italiana) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni
Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “anomali” prodotti a go-go dalla fertile fantasia derogatoria degli anni 90, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.
Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorrere, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo quando si vota; ma soprattutto nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse è solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.
Edoardo Salzano
4 settembre 2004
[1] Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1966
La Laguna di Venezia è un bene prezioso dell’umanità. Pochi si rendono conto che quella di Venezia è l’unica laguna che è rimasta tale, sfuggendo al destino comune a tutte le lagune: trasformarsi in un pantano e poi in un campo, oppure diventare una baia marina. Questo destino è stato evitato alla Laguna di Venezia grazie al saggio impiego, per molti secoli, di tutte le risorse disponibili (politiche, amministrative, culturali, tecniche, finanziarie). Con l’Ottocento le cose sono cambiate. La tecnica non ha più assecondato e guidato la natura, l’ha contrastata e negata. La prospettiva temporale non è stata il lungo periodo, il domani, il futuro, ma l’oggi, l’immediato, il contingente. L’interesse dominante non è stato quello della comunità, ma quello dell’individuo (e naturalmente del più forte e più furbo).
Le stesse regole del governo del territorio (i piani urbanistici) hanno avuto il loro centro e il loro motore nella crescita dell’urbanizzato ed edificato, nella trasformazione della natura in cemento e asfalto, nell’espansione delle città. Solo da pochissimi decenni la pianificazione si è finalmente fatta carico anche delle esigenze della “altra parte” del nostro mondo: quella nella quale il lavoro dell’uomo si compone con la natura rispettandone le leggi e i ritmi. Sono nati così, accanto ai piani tradizionali (il PRG, il PTC) dei piani specialistici: orientati ad affrontare non l’insieme dei temi e degli obiettivi del governo del territorio, ma un particolare aspetto: i piani per la difesa delle acque e del suolo, i piani per la tutela del paesaggio, i piani per le aree protette. Questi piani non regolano tutti gli aspetti della vita dell’uomo sulla terra: solo quelli (e tutti quelli) che hanno a che fare con la loro specifica missione. Dettano legge solo per un aspetto, ma per quell’aspetto la loro legge non è appellabile, prevale su qualsiasi altra.
La costituzione del Parco della Laguna nord si pone in questa logica. Rispetto ad altri strumenti della pianificazione specialistica esso ha anche un’altra valenza: non è solo un Piano, è anche una Istituzione. Spesso l’urbanistica è fallita perché si è ridotta a documenti di carta, non tradotti in una gestione del reale. L’Istituzione garantisce che, per la Laguna, questo non avverrà. Essa garantisce che la tutela della Laguna diventi un fatto dinamico: un disegno che si traduce in azioni. In questa logica la prospettiva possibile è che il Parco della Laguna nord sia destinata a perdere il suo riferimento geografico: che diventi un modo nuovo (ma simile a quello del passato più lontano e sapiente) di governare l’insieme della Laguna.
Pomigliano d’Arco, provincia di Napoli. Era un grosso borgo agricolo nella fertile pianura nutrita dalle ceneri del Vesuvio. Lo sviluppo industriale iniziò negli anni Trenta, proseguì negli anni Settanta con L’Alfa Sud e l’Alenia: l’Area di sviluppo industriale è oggi la più grande del Mezzogiorno. Il borgo agricolo è cresciuto, più gonfiato dalla “decompressione” di Napoli che arricchito dall’indotto delle grandi industrie: oggi è una città di quasi 50 mila abitanti. Una città, con tutti i problemi delle città-periferie metropolitane, private dall’antica identità e incerte nella ricerca di una nuova. Una città in un territorio devastato dalle “grandi opere” della gestione dorotea e regionale del dopo-terremoto: giganteschi viadotti stradali e ferroviari, raccordi monumentali che si perdono nel nulla, ruderi di antichi casali e brandelli di ricchi paesaggi agrari devastati dall’intrico delle infrastrutture.
Una nuova amministrazione è subentrata da qualche anno a quelle disciolte per infiltrazioni camorristiche. Sta tentando, con tutte le risorse disponibili, di migliorare la qualità della vita urbana, di costruire una identità che proietti la storia nel futuro: con l’urgenza di chi vuole sottoporsi presto al giudizio dell’elettorato. Da questa volontà sono nate le prime realizzazioni: un grande parco urbano, il restauro di antichi palazzi, la ricostruzione di una piazza centrale: traguardi significativi ma modesti, parziali. In attesa e in vista del nuovo piano regolatore il Sindaco (il diessino Michele Caiazzo) ha sollecitato la cultura dei professionisti della città (gli architetti, gli ingegneri, gli urbanisti) a proporre idee per definire l’assetto fisico e funzionale di un’area strategica.
Si tratta di un’area occupata da qualche brandello di tessuto edilizio, a volte abusivo, da qualche industria abbandonata, da uno stadio e alcuni edifici testimonianze di un discreto razionalismo degli anni Trenta. Un’area davvero strategica per la posizione, e per il ruolo che il bando del Concorso d’idee, promosso dal Comune, le assegna. É collocata tra la Via Roma, tratto urbano dell’antica via che, attraverso Baiano, collegava Napoli alle Puglie, e la Via dell’Impero, matrice mussoliniana della zona delle industrie. E’ collocata quindi tra la città e l’area industriale: una potenziale cerniera tra l’una e l’altra. L’uno dei suoi margini è percorso dal monumentale viadotto della ferrovia Cicumvesuviana: l’ingombro dell’immane struttura determina, sul piano di campagna, un volume vuoto alto sette metri e largo oltre una decina, lungo quanto l’intera area del concorso. L’altro margine è attraversato dalla linea dismessa della ferrovia, che fiancheggia l’intera città giungendo fino al nuovo parco urbano.
Ventotto gruppi di professionisti, da ogni parte d’Italia (ma naturalmente in prevalenza della Campania) hanno partecipato al concorso. Il primo premio non è stato assegnato dalla Giuria[1], che ha diviso il monte premi tra tre ex equo e tre menzioni. Ho partecipato all’esame delle proposte, alla loro valutazione, alla scelta finale. Non scrivo per illustrare e commentare le scelte, ma per esprimere una vivissima preoccupazione, sulla quale mi piacerebbe che si discutesse.
Nessuna proposta (questo è il mio giudizio) ha colto le potenzialità del tema proposto, la contraddittoria ricchezza dell’area, il suo ruolo strategico, le aspettative dell’amministrazione.
Nessuna proposta ha affrontato il grande tema del rapporto tra la città e la zona industriale. Nessuna proposta ha utilizzato la riprogettazione dell’area come momento e punto di partenza per una riqualificazione della città, e nemmeno (il che sarebbe stato comunque riduttivo) dei suoi bordi inclusi nell’ambito di studio. Che l’area non fosse sospesa nel vuoto lo si è compreso solo nei pochissimi progetti che hanno almeno disegnato la rete stradale urbana principale o hanno proteso deboli filamenti di verde verso il parco urbano.
La grande maggioranza delle proposte si è limitata a proporre scampoli di disegno urbano per le aree vuote comprese nell’ambito di studio: a seconda delle propensioni, c’è chi le ha adornate di variegati parchi, e chi le ha riempite di massicce costruzioni. Quasi nessuno ha disegnato un nuovo assetto dell’area (da raggiungere magari con gradualità d’interventi): le preesistenze edilizie sono state o ignorate, oppure rigorosamente perimetrate e congelate nella loro attuale ghettizzata consistenza. Sembrava che l’incarico formulare proposte fosse stato avanzato non da un’amministrazione civica, ma da un promotore immobiliare, di stampo tradizionale (metri cubi a volontà) o aggiornato (praticelli verdi e laghetti artificiali).
Del tutto trascurato è stato il grande tema dell’accesso alla città dalla stazione della ferrovia circumvesuviana, che drena ogni giorno decine di migliaia di cittadini. E nessuno è stato sfiorato dall’interesse per il tema della utilizzazione del grande vuoto costituito dal volume del viadotto ferroviario: eppure l’accattivante e civile stazione, costruita proprio nellain un segmento della cavità sotto la ferrovia, costituiva un evidente esempio.
La partecipazione è stata larga. La maggior parte dei partecipanti giovani. Le idee parziali numerose e utili (la giuria non ha faticato a trovare i sei gruppi da segnalare). Come mai, allora, questo sostanziale fallimento? Come mai una risposta così insufficiente da parte della cultura e della professione? Ho una ipotesi di risposta a questa domanda.
Nelle università (nella maggioranza delle università) e nelle riviste (nella maggioranza delle riviste) non si insegna più l’urbanistica. La progettazione urbana si è ridotta ad architettura.
Ricordiamo la metafora dell’arco e delle pietre nascosta nella descrizione del ponte, con cui il Marco Polo di Italo Calvino risponde alla curiosità del Kublai Kan:
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco.
Ecco. Temo che si debba dire che la funzione ordinatrice dell’arco (l’urbanistica) è scomparsa. La città si è frammentata ed esplosa nella singolarità delle sue pietre, degli oggetti, le ”parti”; il ponte è diventato un cumulo di macerie, di “frammenti urbani”. La contrapposizione del “progetto” al “piano”, che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e la sostituzione del primo al secondo, ha manifestato così i suoi frutti. Questi sono, è facile vederlo, la scomparsa dell’attenzione al contesto (al contesto fisico e funzionale, ma anche al contesto sociale e culturale); l’ignoranza delle relazioni tra le parti, e l’incapacità perfino di governare nel loro insieme oggetti di media complessità (quale è una parte di città).
Lungi dl ricordare, con Eugenio Montale, che “il tutto è più importante delle sue parti”, si è dissolto il tutto nelle sue parti, che così sono diventate inanimate e sterili. Da dove si può ripartire per far sì che gli architetti e gli ingegneri (quelli almeno che lo vogliano) ridiventino urbanisti, e cioè operatori capaci di contribuire ad affrontare i problemi della città, in questa difficile fase della sua esistenza?
Edoardo Salzano
[1] Composta dal Sindaco, da tre esperti (G.C. De Carlo, E. Salzano, M. Zambrini) e da tre rappresentanri degli o0rdini professionali (P. Pisciotta, M. Vinci e …).
La città.
Quando pensiamo la parola “città” ci vengono in mente cose molto diverse. A volte ci viene alla mente un insieme di edifici e di persone, variamente raggruppati attorno a spazi ed edifici pubblici, animato da flussi e arricchito da incontri, ben delimitato rispetto alla campagna, se non più da una cinta di rassicuranti mura, da una cerchia di ordinati sobborghi. A volte, invece, vediamo (con la mente, e anche con gli occhi) un ammasso disordinato di edifici di mille fogge e forme, spesso sgraziati e sempre male accostati, coacervo di attività confliggenti (dai bambini a passeggio alle automobili accatastate sui marciapiedi, da rumorose industrie a malati negli ospedali), una nube di esalazioni di diverso colore e spessore e veleno.
Se riflettiamo un attimo, ci rendiamo conto che la prima immagine è quella della città così come la storia l’ha consegnata alla civiltà contemporanea, la seconda è la città come la nostra civiltà l’ha resa. Tra le due immagini (e le due città) sono diverse le forme, i rumori, e anche i tempi e i rapporti. La città di ieri era il luogo degli incontri, quella di oggi è la città delle solitudini. La città di ieri era il luogo dell’integrazione tra ceti, abitudini, mestieri diversi, quella di oggi è il luogo delle segregazioni. La città di ieri viveva il tempo tranquillo del vicinato e del quartiere, quella di oggi vive il tempo frenetico dello spazio metropolitano e della motorizzazione individuale.
La città della storia non è recuperabile, se non dalla fantasia della memoria. Ma da un paio di secoli almeno gli uomini hanno cominciato a individuare i modi mediante i quali si potesse rendere la città contemporanea più amichevole, ordinata, vivibile, funzionale, imparando qualcosa dall’insegnamento della città della storia. In questo scritto cercherò di raccontare in che modo in Italia si è tentato, nell’ultimo mezzo secolo, di costruire degli attrezzi, giuridicamente fondati, per migliorare l’assetto delle città, e del territorio sul quale hanno via via esteso la loro rete di relazioni[1].
Forse il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, è nato nel 1811, in quella città delle Americhe che da New Amsterdam era diventata New York. Aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e fabbrichette. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.
Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. E’ sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo.. (Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.)
L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento dello sviluppo.
Ma era un’economia basata su due principi. Il primo era la libertà individuale: più questa era priva di freni, più sapeva tirare, più si perseguiva, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. Il secondo era la riduzione d’ogni bene a merce, d’ogni valore a valore di scambio. Questi due principi costituivano anche due limiti pericolosissimi per quel sistema economico-sociale. Il secondo limite lo si scoprì molto più tardi: quando nacque la questione ambientale (e su questo torneremo più avanti). Il primo limite lo scoprì prestissimo: a New York, nel 1811.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pianificazione urbanistica divenne una procedura normale per regolare le trasformazioni e, soprattutto, l’espansione delle grandi città (nelle società industrializzate come nelle terre colonizzate dal capitalismo europeo). Poco più tardi leggi specifiche generalizzarono il metodo, le tecniche e le procedure della pianificazione a tutte le realtà territoriali nelle quali si manifestavano, o si prevedevano, trasformazioni significative dell’assetto fisico o dell’organizzazione funzionale. L’Italia arrivò con un certo ritardo. Dopo un dibattito durato un decennio, nel 1942 venne approvata la legge urbanistica ancora oggi in vigore.
Una buona legge urbanistica, quella che fu approvata, nel pieno della seconda guerra mondiale. A rileggerla oggi così come allora fu approvata essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti. E’ questa legge che costituisce ancora oggi il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Ecco gli elementi essenziali della “legge madre” dell’urbanistica italiana.
Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.
Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio.
La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare, ”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica non fu adoperata.
Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi relativi ad ambiti più ampi del comune (“area vasta”). Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.
Se era una buona legge, come mai non si sono visti i suoi effetti? Come mai le città appaiono oggi devastate e spesso invivibili? Allora l’urbanistica, la pianificazione, non servono? Non è così. Il fatto è che, negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione gli eventi bellici non permisero di applicarla, e poi nell’immediato dopoguerra, essa fu volutamente messa in archivio. E’ proprio negli anni del dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.
I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. Ma in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto. La logica dei PRG fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.
Più sostanzialmente, la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.
Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.
Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.
Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, richiede che non si pianifichi. Infatti, dal dopoguerra fino agli anni Sessanta, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o boicottata dagli organi più politicizzati del governo. Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.
All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola (42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali). Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6%. Accanto a questa trasformazione, si registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Fra il 1955 e il 1971, nove milioni di italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali, e quasi altrettanti cambiano comune di residenza all’interno della stessa regione
Nel frattempo, lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica. Una vasta campagna di iniziativa e proposta culturale e politica, promossa dagli urbanisti “militanti” nell’INU e sostenuta dalle forse politiche di sinistra, pose l’esigenza di rinnovare integralmente gli strumenti della pianificazione.
I tentativi di ottenere una “riforma urbanistica” durarono decenni. Ancora oggi, non sono stati coronati da successo: la legge del 1942 è rimasta la struttura portante dell’attuale legislazione. Oggi, retrospettivamente, qualcuno comincia a domandarsi se all’inizio degli anni Sessanta non si sia fatto un errore, predicando la necessità di una “riforma urbanistica” senza aver prima provato ad applicare la legge del 1942.. È il parere, ad esempio, di una economista molto attenta alle vicende dell’urbanistica, Ada Becchi, la quale si domanda: perché gli urbanisti non si siano “battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era” , e perché “all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova” [2].
Domanda del tutto legittima. La risposta può forse essere cercata nella cultura politica prevalente in quegli anni tra gli urbanisti militanti, e in certo loro distacco dalla concretezza della situazione reale del paese. E forse anche in una carenza di analisi sulle relazioni tra il carattere devastante delle trasformazioni avvenute nel periodo della ricostruzione postbellica e le “carenze” della legge urbanistica del 1942.
La domanda di modernità e razionalità che emergeva dalle stesse trasformazioni dell’assetto sociale ed economico dell’Italia (dai settori avanzati della produzione come dai ceti urbani i che conoscevano più benessere, più democrazia e più conoscenza) trovò altre strade per raggiungere una qualche soddisfazione: se la “riforma” si allontanava all’orizzonte, la legislazione urbanistica del 1942 si arricchiva di strumenti nuovi. Aiutava oggettivamente in questa direzione il verificarsi di effetti catastrofici del modo che si era adottato per affrontare il rapporto tra sviluppo e ambiente: un modo caratterizzato (per essere sintetici) dallo sfruttamento rapace, miope e progressivo di quella risorsa essenziale, scarsa e non riproducibile che è il territorio. Numerosi edifici crollavano a Napoli per effetto del sovraccarico edilizio su un suolo fragile e trascurato; ad Agrigento un intero quartiere franava a valle per lo stesso motivo, documentato da un’impareggiabile indagine ministeriale [3]. L’alluvione di Firenze e l’eccezionale alta marea nella laguna veneziana rivelavano le sciagure che conseguono dall’utilizzazione selvaggia, e dagli interventi meramente ingegneristici (e cementificatori) del territorio extraurbano: da quegli anni, le alluvioni e le loro conseguenze sui territori di fondo valle diventarono endemiche. Nelle città maggiori cominciava a manifestarsi la congestione del traffico, dovuta all’espansione irrazionale che era stata provocata alla produzione e al consumo di automobili.
La “riforma” si ridusse via via a uno sbiadito vessillo. Ma il tronco della legge urbanistica del 1942 si arricchì di nuovi strumenti, potenzialmente suscettibili di conferire razionalità e qualità funzionale all’assetto delle città. Nel 1967 la “legge ponte”, firmata da Giacomo Mancini (un grande ministro dei Lavori pubblici), oltre a stimolare i comuni a pianificare e a disciplinare lo lottizzazioni edilizie (che erano state lo strumento principale del dissesto del territorio) introdusse anche in Italia gli “standard urbanistici”. Si stabilì che in tutti i piani urbanistici, generali e attuativi, si doveva prevedere la presenza di adeguati spazi per le esigenze collettive: il verde e lo sport, le scuole, le attrezzature per la vita civile, la sanità, il commercio, il culto, i parchi urbani. I parcheggi. Almeno sul terreno quantitativo, i luoghi del consumo comune, che erano stati i fuochi ordinatori della forma e delle funzioni della città medioevale, assumevano di nuovo centralità.
Per effetto della legge ponte le città si dotarono di piani regolatori in modo diffuso. Nelle regioni del centro , soprattutto, del nord in modo più massiccio, ma anche altrove. La qualità era però ben differente da luogo a luogo. In alcuni comuni (soprattutto in Emilia Romagna, dove una “cultura della pianificazione” aveva preceduto, e in qualche misura stimolato e orientato la stessa legge ponte, ma anche in Lombardia, nel Veneto, in Piemonte) i piani erano basati su un accurato dimensionamento. Quest’ultimo consiste nel basare la quantità di aree urbanizzabili (e in generale le nuove superfici edilizie previste dai piani) su una ragionevole previsione della domanda dovuta alla crescita della popolazione e delle attività produttive, all’esigenza di migliorare la qualità delle abitazioni e così via. In altre aree del paese (e non solo nelle regioni meridionali) i fabbisogni di aree urbanizzabili era gonfiato a dismisura, oppure il dimensionamento veniva del tutto trascurato, oppure ancora ai calcoli esibiti nelle mendaci relazioni illustrative corrispondevano, nelle tavole del piano e nelle sue norme, quantità del tutto difformi (e sempre molto maggiori.
In realtà, lo strumento preteso a New York all’inizio del XIX secolo per razionalizzare l’espansione urbana, veniva impiegato per un altro dei suoi possibili effetti: valorizzare le aree attorno alle città. Come è abbastanza noto, il valore di un terreno che da agricolo diventa potenzialmente edificabile aumenta molte volte. E così aumenta il valore di un terreno nel quale, invece di un edificio di modeste dimensioni, se ne può costruire uno più grande, oppure adibibile a utilizzazioni più pregiate. Il paradosso è che questo aumento di valore è del tutto indipendente dal fatto che, su quel terreno edificabile, un nuovo edificio nasca davvero: è la virtualità edificatoria impressa dal piano con il colore o il retino che genera il valore.
Se in alcune parti d’Italia gli strumenti dell’urbanistica di quegli anni furono impiegati per rendere le città più efficienti e più belle (se il dimensionamento fu più rigoroso, le analisi sulla struttura del suolo più accurate, gli spazi per le utilità pubbliche e collettive dimensionati in modo più generoso e localizzati con maggiore attenzione), e se in altre parti invece ciò che soprattutto contava era la quantità delle aree per l’edificazione privata rese urbanizzabili ed edificabili, ciò fu causato dal peso che, nelle differenti realtà, avevano gli interessi della speculazione fondiaria e dell’investimento immobiliare. Peso oggettivo, rispetto ai comparti moderni della vita economica, e peso nelle decisioni politiche degli amministratori. Ma questo ci conduce a ragionare della rendita fondiaria, che era appunto il tema politico sotteso al dibattito per la riforma urbanistica.
Di chi è la terra su cui sorge la città? A che fine, e da chi, deve essere utilizzata? Questa è la grande questione. Il suolo urbano era (alcuni secoli fa, in moltissime città europee) di proprietà comune: della città, o del Signore, o del Vescovo, che ne cedevano l’uso per costruirvi le case e le botteghe. Con l’avvento della borghesia la proprietà del suolo fu frammentata e privatizzata. Il suo ruolo principale non fu più quello di costituire la base e, in qualche modo, la materia prima per la costruzione della città, ma divenne sempre più quello di consentire l’arricchimento, con poca fatica, di quanti via via ne venivano in possesso [4].
Da allora, la città è come percorsa da due armate che hanno obiettivi diversi, strumenti diversi, poteri volta a volta diversi. L’una è quella costituita da quanti hanno interesse alla funzionalità della città, alla sua bellezza, alla sua vivibilità: sono quanti usano la città per abitare, per lavorare (siano essi operai o industriali, impiegati o padroni), per conoscere e divertirsi. L’altra armata è costituita da quanti usano la città per arricchirsi mediante il gioco dei valori delle aree fabbricabili. Si tratta di armate a confini variabili: l’industriale è anche proprietario di terreni e di edifici, l’operaio è anche proprietario di una casetta il cui valore aumenterebbe a dismisura se fosse possibile costruirvi un grattacielo. Se non tutti, la grande parte dei soggetti che si muovono sullo scenario della città sono spinti a militare verso l’una e l’altra delle armate a seconda del peso che assegnano alla loro funzione di utenti della città, o di suoi sfruttatori. E purtroppo, mentre l’interesse venale appare con chiarezza ed evidenza, quello alla vivibilità urbana (e a come questa sia ridotta o minacciata o addirittura annullata dal gioco della speculazione) appare più difficilmente, e meno immediatamente comprensibile.
Così, la legge ponte che ridusse l’edificabilità ed estese la pianificazione urbanistica, il decreto sugli standard che ampliò le aree da utilizzare per il verde e le attrezzature collettive (e che perciò riduceva le prospettive di arricchimento dei proprietari) furono certamente vittorie di chi si sentiva in primo luogo utente della città. Ma furono vissute come dure sconfitte dagli altri. La Corte costituzionale intervenne, nel 1968, oggettivamente a vantaggio di questi ultimi: decretò l’illegittimità costituzionale delle norme delle leggi urbanistiche che consentivano di espropriare, a un valore sostanzialmente agricolo, le aree ad alcuni proprietari (quelli interessati da previsioni di spazi pubblici, strade e così via), mentre consentiva ad altri di arricchirsi.
Da allora a oggi, si sono susseguite proposte di riforma mai approvate dal Parlamento, leggine che tentavano di prorogare o tamponare gli effetti della sentenza costituzionale, e reiterate denunce di quest’ultima. Ma l’ingiustizia rilevata dalla Corte costituzionale rimane, i cambiamenti nelle utilizzazioni del suolo decise dai piani regolatori determinano aumenti o diminuzioni dei valori fondiari, e la mano degli interessi immobiliari continua a premere sulla matita con cui gli urbanisti e gli amministratori disegnano il futuro della città.
La legge urbanistica del 1942 prevedeva, come ho ricordato, uno strumento che avrebbe potuto contenere gli effetti dell’appropriazione privata dei suoli urbani, almeno nelle aree di nuova urbanizzazione, impedendo che l’incremento di valore, derivante dalle decisioni della collettività, si traducesse in un aumento dei costi degli alloggi e delle urbanizzazioni. Si tratta di quell’articolo (il 18) che consentiva ai comuni di espropriare le aree nelle quali il piano prevedesse cospicue trasformazioni (come quelle nelle quali all’utilizzazione agricola il piano prevede di sostituire quella edilizia). Solo due comuni, in Italia, tentarono di applicare quello strumento, ma i tentativi di allargarne l’incidenza furono frustrati dai ricorsi dei privati e dall’appoggio che ad essi diede la magistratura amministrativa.
Il tentativo di costituire demani comunali di aree edificabili fu ripreso nel 1962. Quasi come un sottoprodotto del dibattito sulla riforma urbanistica (che in quegli anni divampava più acceso) il ministro democristiano Sullo fece approvare al Parlamento una legge la quale, per “favorire l’acquisizione di aree da destinare all’edilizia economica e popolare”, consentiva ai comuni di espropriare aree in misura consistente (si poteva giungere al 70% dell’intero fabbisogno di nuove aree edificabili),. Le aree così acquisite dal Comune vengono urbanizzate e cedute agli utilizzatori (con priorità a quanti realizzano edilizia destinata ai ceti meno abbienti).
La legge fu usata anch’essa (come quasi tutti gli strumenti positivi dell’urbanistica) in modo molto differenziato, nello spazio e nel tempo. In alcune parti del paese si trascurò del tutto la possibilità di utilizzarla come strumento di una politica di crescita razionale della città; in alcune fasi della nostra vita politica si indebolì la portata della legge, e addirittura la su utilizzò a vantaggio della proprietà fondiaria. Ma nei comuni in cui si era consolidata una “cultura della pianificazione” l’impiego congiunto delle potenzialità di questa legge e delle nuove regole prescritte in materia di standard urbanistici consentirono di realizzare parti di città dove è più gradevole vivere, le abitazioni costano meno, gli spazi verdi e le attrezzature pubbliche sono più abbondanti, meglio distribuiti, più facilmente utilizzabili dalle cittadine e i cittadini.
Accanto a quella sul regime dei suoli, un’altra grande questione si affacciò negli anni Sessanta e non è stata risolta (ma, semmai, si è progressivamente aggravata): la questione del traffico. Mentre in altri paesi europei, alla costruzione di una rete autostradale e all’espansione del parco automobili si accompagnavano intelligenti ed efficaci politiche di ampliamento della rete del ferro (ferrovie regionali, linee metropolitane, tramvie in sede propria o promiscua), di utilizzazione delle vie d’acqua per il trasporto delle merci, di promozione del trasporto meccanico leggero (biciclette), in Italia tutti gli sforzi erano indirizzati alla costruzione della rete autostradale e alla promozione, con ogni mezzo, del trasporto individuale. Gli anni Sessanta sono stati gli anni dell’automobile: questa è diventata la regina del trasporto e, contemporaneamente, la distruttrice della città.
Nell’orizzonte urbano si è manifestato insomma quello che definisco "il paradosso del traffico". Nelle grandi e medie città, nelle ore di punta (cioè nei momenti in cui i cittadini hanno più bisogno di spostarsi) le strade diventano ingorghi di dimensioni maggiori o minori. I marciapiedi sono sottratti alla loro originaria destinazione, e il pedone è ostacolato dalle automobili disordinatamente in sosta. Le piazze, i luoghi nati per l’incontro e la sosta degli abitanti, sono diventate immensi parcheggi. E muoversi, spostarsi è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.
Dietro a questo disagio, dietro al “paradosso del traffico”, ci sono certamente ragioni di politica generale (e di miopia nazionale). Ma è giusto sottolineare che ci sono anche colpe ed errori degli urbanisti. L’urbanistica del Novecento ha indotto infatti a progettare le città applicando una “zonizzazione funzionale” rigidamente e ottusamente applicata: distinguendo cioè nettamente la parti della città destinate pressoché integralmente alla residenza, quelle adibite all’industria, all’artigianato, alle attività direzionali. In tal modo non solo si è contraddetto il carattere complesso della città, si è dimenticato che la sua ricchezza e la sua vitalità sono determinate dalla vicinanza di funzioni, ruoli, attività, ceti sociali diversi. Ciò ha provocato e provoca ancora, nelle ore di punta, giganteschi esodi delle automobili dalla zone residenziali a quelle dell’industria e delle altre attività lavorative, spesso localizzate sui lati opposti del centro storico.
Fino alla fine degli anni Sessanta l’urbanistica italiana era indirizzata al tentativo (a volte riuscito, altre meno) di governare l’espansione della città. Le grandi trasformazioni territoriali, l’incremento della popolazione, l’ancor più accentuato incremento delle aree urbanizzate derivante dalle iniziative di valorizzazione economica dei terreni avevano fatto sì che le città fossero in continua espansione: si calcola che in negli anni successivi al dopoguerra le superfici urbanizzate siano aumentate del 1000 per 100 (mille per cento): in pochi decenni si è radicalmente trasformata (coprendola di strade, palazzi, piazzali, capannoni, ville e villette ecc.) una quantità di terreno pari a dieci volte quella che si è urbanizzata in alcuni millenni. Sulla base di un’analisi della realtà e delle tendenze si proclamò in quegli anni che “l’età dell’espansione è terminata”. Il problema al quale volgere l’attenzione diveniva sempre di più quello del risanamento, della riqualificazione, del recupero e riuso, della gestione e manutenzione dell’enorme stock di edifici e urbanizzazioni realizzato nei decenni precedenti. In questo quadro, alcuni problemi assunsero rilievo sociale e provocarono il formarsi di alcuni nuovi strumenti.
In primo luogo, il problema della casa. Non era più, se non marginalmente, un problema quantitativo. Si trattava di razionalizzare l’uso dello stock edilizio esistente, di avviare politiche di recupero, di ridurre le paradossali differenze che si erano sedimentate nei livelli degli affitti (dove si andava dai fitti “bloccati” ai valori dell’anteguerra, fino ai fitti “liberi” il cui livello era in molti casi diventato insopportabile per i redditi delle famiglie medie). Si comprese poi, più generalmente, che la politica urbanistica non era sufficiente a governare le trasformazioni urbane se non era integrata da politiche attive, in grado di condizionare o promuovere, anche con strumenti finanziari, i comportamenti degli operatori privati, e di vincolare alle scelte urbanistiche la politica di bilancio dei comuni.
Vennero così introdotti alcuni utili strumenti. L’ equo canone, tendente a stabilire una sorta di “prezzo amministrato” delle abitazioni, tale da compensare l’investimento e il risparmio ma da non incidere eccessivamente sui redditi familiari. La programmazione dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa, nel cui ambito trovava finalmente posto il recupero degli edifici inutilizzati o degradati, che avrebbe dovuto assumere importanza crescente. La programmazione dell’attuazione dei piani regolatori mediante il programma pluriennale d’attuazione, che avrebbe dovuto consentire (e in molte zone d’Italia effettivamente consentì) di far convergere le risorse pubbliche e private nel processo di costruzione e trasformazione della città governandole nel tempo anziché solo nello spazio, e consentendo così che le strade e le fogne, le scuole e il verde, venissero programmati, progettati e realizzati in modo coordinato. Si stabiliva che gli oneri dell’urbanizzazione (e cioè le spese necessarie per realizzare effettivamente le attrezzature e i servizi previsti dalla normativa sugli standard urbanistici) venissero poste a carico dei realizzatori delle iniziative edilizie.
E’ nel corso degli anni Settanta che è esploso, in Italia, l’interesse e la preoccupazione per l’ambiente. Preoccupazioni di carattere planetario e consapevolezza della limitatezza e irriproducibilità delle risorse territoriali si sono legate alle esigenze di maggiore qualità, di difesa di quelle (naturali e storiche) presenti nel nostro paese e nei suoi differenziati siti. Poiché la pianificazione urbanistica ha a che fare con il territorio, e questo è una delle componenti essenziali dell’ambiente, lo sviluppo dell’ambientalismo doveva incontrare l’urbanistica. In realtà, ambientalismo e urbanistica sono apparsi per un certo periodo due dimensioni diverse, a volta in opposizione tra loro. E d’altra parte bisogna riconoscere che l’urbanistica moderna si è foggiata, e ha formato i propri strumenti, in relazione alle esigenze di razionalizzazione in una fase di espansione. Ha avuto qualche difficoltà a riconvertire la propria “ideologia”, e i propri attrezzi, in una fase in cui l’esigenza dominante non era più quella della crescita delle grandezze fisiche, ma quella della tutela dell’ambiente e della riqualificazione delle urbanizzazioni consolidate.
L’ambientalismo, per conto suo, ha oscillato tra due tensioni estreme: da un lato, l’aspirazione a disegnare un sistema di valori radicalmente diverso da quelli precedenti, a partire dalla interpretazione del rapporto tra uomo e natura (uomo e creazione del mondo), e dalla lettura dei destini del sistema planetario; dall’altro lato, la difesa della singola realtà naturalistica, o ecologica, o culturale, in questo o in quell’altro luogo. Il movimento ambientalistico ha coniato lo slogan “pensare globalmente, agire localmente” per tentare una sintesi tra queste due visioni - la planetaria e la localistica - delle proprie tensioni. Gli è spesso sfuggito che la pianificazione si pone oggettivamente come il terreno più propizio per compiere tale sintesi.
Un primo passo per introdurre nella pianificazione urbanistica l’obiettivo della tutela dell’ambiente è avvenuto con la cosiddetta “Legge Galasso”, la 431 del 1985. Con questa legge si sono introdotti due rilevanti principi, gravidi di portata pratica. In primo luogo si è stabilito che erano meritevoli di tutela non solo singoli paesaggi eccezionali, ma l’insieme degli elementi caratterizzanti la “forma del paese”: la grande orditura del paesaggio Italiano, costituita dai monti e dalle coste, dai corsi d’acqua e dai boschi, dai vulcani e dai ghiacciai. In secondo luogo si è stabilito che sia questi elementi (rilevanti a livello dell’intero paese), ma anche quelli più minuti e circoscritti e locali (individuabili ai livelli regionale e comunale) dovevano essere tutelati attraverso la pianificazione ordinaria: inserendo, cioè, nei piani d’ogni livello, a partire da quelli regionali una “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.
Di più, il legislatore non poté o non volle dire. Del resto, dal 1970 erano state istituite le regioni a statuto ordinario, previste dalla Costituzione e cui questa affida le competenze legislative in materia di urbanistica, nell’ambito dei principi fissati dalla legislazione nazionale. Era alle regioni, quindi, che spettava il compito di arricchire, implementare e tradurre nel sistema della pianificazione i principi stabiliti dalla legge Galasso. Come al solito, alcune lo fecero, altre no. Tra quelle che lo fecero alcune si comportarono correttamente (e introdussero, nei loro piani e nella loro legislazione, elementi di effettiva difesa e valorizzazione delle qualità dell’ambiente) altre meno. Salvo poche lodevoli eccezioni, lo Stato non intervenne per sostituire le regioni inadempienti, come pure avrebbe potuto.
Ugualmente lo Stato non è intervenuto per stimolare l’attuazione di un’atra legge rilevante approvata in quegli anni, dopo alcuni decenni di lavoro di commissioni di studio: la legge per la difesa del suolo, approvata nel 1989. Con quella legge si è finalmente operata una sintesi tra due aspetti della questione ambientale, tra loro strettamente legati ma fino allora visti in modo settoriale: la difesa dei suoli dalle acque, e la difesa delle acque, risorsa indispensabile la cui qualità tende a deteriorarsi. I “piani di bacino” dovrebbero definire sia le condizioni che l’esigenza di tutelare la terra e l’acqua pongono alle trasformazioni urbanistiche (e quindi sono un input decisivo per la pianificazione ordinaria delle regioni, le province e i comuni), sia gli specifici interventi e opere che è necessario attuare per porre riparo alle situazioni di rischio e di degrado. La redazione dei piani di bacino procede però con lentezza esasperante.
Fin dall’Ottocento, e per tutto il Novecento, la città ha cominciato ad espandersi sul territorio, coinvolgendolo nella propria rete di comunicazioni e relazioni ed esportandovi ciò che diveniva ingombrante. Le strade e le ferrovie, i sistemi di trasporto delle persone e delle merci avvicinavano sempre più paesi e città una volta separate da ore di percorso. Prima le fabbriche, poi gli ospedali e le carceri, i grandi centri commerciali e quelli di ricreazione e divertimento, le discariche e i depuratori, tutto ciò è venuto via via a occupare territorio. L’espansione delle città e dei paesi è avvenuta lungo le strade che li collegavano, e si è via via infittita: spesso si è trasformata in una continuità edilizia ha travalicato i confini comunali in quei luoghi in cui la città si è trasformata in metropoli. Oggi, ciascun cittadino soddisfa le proprie esigenze (dalla scuola alla salute, dal tempo libero al lavoro) in. ambiti spaziali che non coincidono più con il paese o il quartiere. Dal concetto di città siamo passati a quello di territorio urbanizzato.
Questa trasformazione oggettiva del modo in cui la società vive il territorio ha provocato il nascere di esigenze nuove, e della necessità di nuovi strumenti, per la pianificazione. Si è aperto così, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, il dibattito sulla pianificazione di “area vasta”. Si trattava in primo luogo di istituire le regioni, ma anche di individuare ambiti territoriali più ampi di quelli comunali ai quali applicare la pianificazione: ambiti caratterizzati soprattutto dal fatto che al loro interno i cittadini, per le loro esigenze quotidiane di spostamento dalla casa al lavoro o ai servizi gravitassero sugli stessi poli. E si trattava anche di individuare la dimensione territoriale e la soglia di popolazione nell’ambito delle quali determinati servizi potessero essere convenientemente organizzati. Per esemplificare, non è possibile organizzare gli insediamenti, il servizio di trasporto pubblico e la gestione dei rifiuti a Milano o a Napoli senza governare un ambito molto più vasto di quello del comune capoluogo. Così come non è possibile localizzare adeguatamente una scuola media o un inceneritore in un territorio che comprende molti comuni piccolissimi senza un coordinamento delle politiche urbanistiche che vincoli tutti alle medesime scelte.
Numerosi furono i tentativi compiuti. Si arenarono tutti su di un conflitto: quello tra l’organismo sovracomunale di pianificazione e i singoli comuni che ne facevano parte. Si comprese che il primo non avrebbe avuto autorità sufficiente se i suoi rappresentanti non fossero stati eletti direttamente. Che fare, allora? Aggiungere un ulteriore livello elettivo a quelli già previsti dalla Costituzione? Si scelse un’altra strada. Con la legge 142 del 1990, che ha definito il nuovo ordinamento degli enti locali, si è attribuita la competenza della pianificazione subregionale (e sovracomunale) alle province, e si è stabilità inoltre che, nelle aree nelle quali i flussi pendolari siano più intensi, le connessioni tra i comuni più ricche, la continuità urbana più accentuata, le province assumessero particolari poteri di gestione urbana (sottraendoli ai comuni), costituendo, in luogo della Provincia, la Città metropolitana.
Le città metropolitane non sono state costituite. Il farlo avrebbe comportato lo spostamento di equilibri di potere che le forze politiche non si sono dimostrate disponibili a governare. Le province, invece, hanno avviato (dove più, dove meno) un’attività di pianificazione molto difforme da regione a regione (essa infatti deve essere disciplinata con leggi regionali). E’ troppo presto per stenderne un bilancio. Anche perché, proprio negli anni in cui si ridefiniva l’impalcatura del sistema della pianificazione, il concetto stesso di pianificazione della città e del territorio veniva messo in crisi.
Parallelamente al formarsi di nuovi strumenti positivamente utilizzabili, si è sviluppata (a partire dagli anni Settanta, ma con un’esplosione nel decennio successivo) una tendenza di segno esattamente opposto: una vera e propria controriforma urbanistica che culminò con Tangentopoli. La pianificazione urbanistica fu screditata. Trionfò l’abusivismo. Una visione premoderna più che liberista cominciò a indebolire il potere pubblico; al primato dell’interesse collettivo si venne sostituendo quello dell’interesse di gruppi e di individui. Alla visione complessiva e strategica della città (propria del piano regolatore) furono preferite le decisioni caso per caso, progetto per progetto, proprietario per proprietario. Alla trasparenza delle procedure previste dalla legislazione urbanistica si preferì l’accordo diretto, la contrattazione, il do ut des (humus fertile per la corruzione). Senza modificare il quadro legislativo vigente, vi si introdussero strumenti con esso contraddittori: gli accordi di programma, i progetti urbani integrati ecc., il cui scopo era quello di scavalcare le procedure normali.
Il conflitto tra interessi proprietari e interessi generali della cittadinanza (il conflitto centrale nel governo della città) fu affrontato in termini esattamente capovolti rispetto a quelli tradizionali. L’urbanistica non fu più considerata come un insieme di tecniche e procedure finalizzate a disegnare il miglior possibile assetto nell’interesse collettivo, a definire quindi le regole alle quali (appunto nell’interesse della collettività) gli interventi dei singoli operatori dovevano subordinarsi. Essa divenne il terreno di contrattazione dell’amministratore (e del politico) con gli interessi forti: quelli della rendita, più che quelli del profitto.
Nacque così quella che venne definita (non sempre con un’accentuazione critica) urbanistica contrattata. Essa in ultima analisi può essere definita come la sostituzione, a un sistema di regole valide nei confronti di tutti, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta (e si è manifestata e continua a manifestarsi numerosissime circostanze) ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune [5].
Il danno provocato dall’estendersi dell’urbanistica contrattata (e, più in generale, dalla ricerca di scorciatoie rispetto alle regole della pianificazione urbanistica) è enorme. Ma della sua portata potremo renderci conto solo quando i suoi effetti si saranno manifestati nella realtà: come si sa, i tempi che separano le decisioni sul territorio dal manifestarsi dei loro effetti sulle concrete condizioni di vita dei cittadini sono molto lunghi. Gli errori dei padri li pagano i figli e i nipoti.
Prima ancora che i fautori di un’urbanistica contrattata con i poteri forti si adoperassero per esautorare la pianificazione, nell’ambito stesso della cultura urbanistica era avviato un processo di critica e di revisione degli strumenti dell’urbanistica. Le critiche alla pianificazione tradizionale (quella, cioè foggiata e praticata in Italia sul ceppo della legge del 1942) toccavano diversi profili della questione.
Sotto un primo profilo si criticava (e si critica) la pianificazione per la sua scarsa capacità di rappresentare, mobilitare, governare la società. La si trovava, a questo fine inefficiente e confusa, poco convincente e poco esplicita come rappresentazione degli interessi vincenti. Per le medesime ragioni la si trovava incapace di mobilitare gli interessi che vorrebbe promuovere, e assolutamente inefficiente al fine di governare la società, nel senso di tradursi effettivamente in una serie di azioni che conducano alla realizzazione dell'assetto desiderato e promesso.
Sotto un secondo profilo si chiedeva alla pianificazione efficienza e tempestività nel dare le risposte necessarie ai problemi che essa intenderebbe risolvere. La lunghezza dei tempi che intercorrono dal momento in cui l'esigenza viene posta a quello nel quale essa viene avviata a soluzione sono tali che fuoriescono da qualunque schema di ragionamento economico. Per di più, è altamente improbabile che le previsioni della pianificazione si realizzino effettivamente, oppure si realizzino nei modi e nei tempi promessi.
Sotto un terzo profilo si chiedeva alla pianificazione di essere uno strumento di tutela dell'ambiente naturale e storico. La circostanza che la pianificazione tradizionale abbia a volte promosso, spesso tollerato e consentito, devastazioni delle qualità ambientali ha generato una comprensibile sfiducia nella sua capacità di essere utile a una politica ambientalista. Del resto, la scarsa efficacia del piano lo rende uno strumento poco affidabile anche quando di per sé (nelle scelte delle sue "carte") risponde positivamente all'esigenza ambientalista.
Le critiche avevano certamente un loro fondamento. Non tutte, però, potevano postulare soluzioni all’interno della disciplina dell’urbanistica. Così, il crescente divario tra urbanistica e società (sotteso al primo dei profili critici cui mi sono riferito) non era che un aspetto della più generale crisi della politica. Politica e urbanistica sono due discipline strettamente legate: c’è chi arriva a dire, non senza ragione che “l’urbanistica è una parte della politica” [6], e c’è chi lucidamente definisce il piano urbanistico “una scelta politica tecnicamente assistita” [7]. E se la politica ha smesso di proporre progetti alternativi di società, prospettive concorrenti per il suo futuro, e si è ridotta al mero esercizio del potere, quale ruolo di rappresentanza della società può mai svolgere la pianificazione urbanistica?
Più vicini al dominio dell’urbanistica sono gli altri due profili critici. Di essi si è tenuto conto, negli ultimi lustri, proponendo e sperimentando innovazioni consistenti al modo di definire e adoperare gli strumenti della pianificazione. Due sono, a mio parere, le direzioni più innovative e promettenti.
La prima innovazione ha a che fare soprattutto con il rapporto tra il piano urbanistico e il tempo. Essa si propone di risolvere la questione della eccessiva rigidità degli strumenti urbanistici (che rende il sistema delle scelte pubbliche incapace di seguire con la necessaria adattabilità i cambiamenti delle esigenze sociali, delle disponibilità economiche, delle opportunità politiche), e dell’assoluto disordine provocato dal tentare di raggiungere un’adeguata flessibilità con l’impiego di strumenti episodici e casuali (le varianti, le deroghe e gli altri espedienti via via inventati nel corso degli anni di Tangentopoli). In termini molto sintetici si può dire che la soluzione è stata proposta (a partire dagli anni Ottanta), e introdotta in alcune legislazioni regionali, basandosi sul presupposto che la pianificazione è ormai un’attività costante e sistematica delle pubbliche amministrazioni. Non si tratta insomma di fare, una volta ogni dieci o vent’anni, un Piano, ma di governare le trasformazioni territoriali con una pianificazione caratterizzata da continuità e sistematicità.
In questa logica, è possibile distinguere due tipi di scelte: quelle che hanno un carattere permanente, o comunque devono essere considerate valide in relazione a periodi lunghi (per esempi, le scelte relative alla tutela degli elementi fragili del territorio, alla salvaguardia delle qualità naturali e storiche, alle grandi decisioni di carattere strategico), e scelte che, viceversa, devono essere assunte in relazione ad esigenze e opportunità che possono variare notevolmente nel tempo. Ed è possibile definire e modificare le previsioni di piano relative al secondo ordine di scelte con procedure molto più snelle di quelle attuali. La distinzione tra il “piano strategico” o “strutturale”, e il “piano operativo” o “piano del sindaco”, che si è diffusa nella pubblicistica recente e in alcune legislazioni regionali, è espressione appunto di questa innovazione.
Una seconda innovazione rilevante riguarda, in qualche modo, il rapporto tra la pianificazione e lo spazio fisico. Quest’ultimo è stato generalmente considerato, nella pianificazione tradizionale, come un supporto generico e sostanzialmente omogeneo per l’urbanizzazione. Al territorio non era riconosciuta (se non in alcune esperienze significative perché eccezionali) una personalità propria: non era considerato come un insieme di valori e di risorse, di opportunità differenziate e di dissimulati rischi, che occorreva valutare con attenzione prima di qualunque previsione di trasformazione.
L’emergere delle preoccupazioni e delle esigenze dell’ambientalismo e dell’ecologismo ha contribuito ad attirare l’attenzione degli urbanisti su questo versante. Un impulso notevole all’introduzione, all’interno stesso dei procedimenti della pianificazione, di una nuova attenzione all’ambiente naturale e storico è stato dato con la legge 431 del 1985 (la cosiddetta Legge Galasso). Questa ha sostanzialmente orientato la pianificazione regionale (e, attraverso essa, anche quella dei livelli sottordinati, il provinciale e il comunale) ad attribuire agli strumenti della pianificazione ordinaria “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Da allora, dove più e dove meno, a volte in modo rigoroso altre volte in modo fittizio, badando più al contenuto dei piani o più alle loro denominazioni, si sono sperimentate soluzioni diverse, ma generalmente confluenti, per ispirare la pianificazione delle città e del territorio a un nuovo principio: le qualità naturali e storiche del territorio sono una ricchezza per questa e per le future generazioni; il territorio è sede di risorse limitate e non riproducibili, essenziali per la vita dell’umanità; trascurare questi caratteri del territorio provoca non solo sprechi e impoverimento, ma anche rischi gravi per l’economia e per la stessa vita degli uomini. Questa consapevolezza deve essere alla base di quelle scelte le quali, come la pianificazione, hanno l’obiettivo di governare le trasformazioni del territorio e renderle funzionali al sistema di obiettivi che la collettività si è data [8].
Sul modo in cui queste innovazioni stanno effettivamente cambiando il quadro degli strumenti utilizzati dall’urbanistica, sulle modificazioni che in tal modo possono manifestarsi nel quadro fisico e funzionale della vita dell’uomo e della società (la città e il territorio), occorrerebbe aprire un nuovo capitolo, la cui ampiezza non sarebbe conciliabile né con gli spazi né con i tempi assegnati a questo contributo.
Edoardo Salzano
[1] Per un racconto più ampio di ciò che è successo in Italia nell’ultimo mezzo secolo suggerisco la lettura del libro: Vezio De Lucia, Se questa è una città. Editori Riuniti, Roma 1992.
[2] Ada Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998, p.52.
[3] Ministero dei lavori pubblici, Commissione d’indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministra, on. Giacomo Mancini, Roma, 1966
[4] Una splendida descrizione del processo di privatizzazione del suolo urbano è costituita da: Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Vallardi, Milano 1951
[5] Un’analisi anche urbanistica di Tangentopoli à contenuta nel libro: P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco: Come e perché, Editori Riuniti, Roma 1995 .
[6] Leonardo Benevolo, , Le origini dell’urbanistica moderna, Bari, Laterza 199111
[7] Francesco Indovina, La città diffusa, in Aa.vv, “La città diffusa”, Daest, Venezia 1990.
[8] Ho trattato più ampiamente questo argomento, e altri contenuti in questo scritto, in: Edoardo Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Giuseppe Laterza Editori, Bari-Roma 1998.
Da la Repubblica, 27 dicembre 2007
Per città sostenibile intendiamo una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.
Ogni lettura di un testo, di un documento - e soprattutto di un documento complesso quale é il Libro verde per l'ambiente urbano - é in qualche modo orientata, mirata. Ogni lettura, insomma, è una interpretazione: una traduzione di quel testo nel linguaggio più vicino alla sensibilità e agli interessi culturali del lettore, e alle concrete esigenze che lo spingono a leggerlo. Molti di quanti hanno lavorato a organizzare questo convegno conoscevano già il Libro verde. Hanno deciso di promuovere una iniziativa pubblica che da esso traesse lo spunto perchè hanno ritenuto che fosse particolarmente utile, in questa fase iniziale della vita del Pds, partire da quel documento, da quella formulazione di temi per molti di noi consueti, per tentar di costruire - in un confronto largo - alcuni elementi di una possibile piattaforma per la sinistra italiana. Nell'ambito di questa lettura, che è indubbiamente soggettiva ma che spero non sia troppo distante da quella autentica, è sembrato a noi di cogliere il centro ideale del documento in una consapevolezza che lo pervade. Nella consapevolezza, cioè, che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente (delle qualità del territorio) non c'é sviluppo della società e della città.
"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica": così afferma esplicitamente il Libro verde (p. 51). E non è chi non veda come questa impostazione costituisca un ribaltamento completo non solo della prassi finora (e ancora oggi, nel nostro paese) praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione nelle città, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento della qualità insediativa. Forse sentiremo esporre e argomentare una simile tesi nel corso stesso del nostro convegno. Ma sono certo che nelle comunicazioni e negli interventi che si riferiranno a concrete situazioni locali (penso alle città del Mezzogiorno, ma non solo a quelle) ascolteremo testimonianze dirette sulla pervasiva presenza di una simile, obsoleta concezione del rapporto tra sviluppo e qualità urbana. Sentiremo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in variante o in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o alla ricettività turistica, o a quei "centri direzionali" che da un paio di decenni sembravano abbandonati tra i ferrivecchi dell'urbanistica del boom edilizio.
Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità urbana. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente urbano è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico. Molte ragioni concorrono a formulare quest'affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamenteambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica. Rinvio per questo aspetto alla lettura delle chiarissime pagine che il Libro verde dedica all'argomento, e rinviosoprattutto alle comunicazioni presentate da autorevoli ambientalisti, che ascolteremo e leggeremo in queste due giornate. E consentitemi di rinviare, oltre che alla scienza, anche alla letteratura e alla poesia. Consentitemi allora di rinviare anche alla rilettura di alcune delle Città invisibili di Italo Calvino, nelle quali molti di noi hanno trovato l'espressione perfetta dei loro sogni, e dei loro incubi.
Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico" (p. 42).
Le vicende di ciascuna delle nostre città (le grandi, le medie, le piccole) lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende produttive di beni o di servizi, è in proporzione diretta con la qualità urbana. E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale, un sito, piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di monumenti e luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti; un'attrezzatura urbana efficiente, che consenta al cittadino di accedere con facilità e comodità ai luoghi urbani e di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta. E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere in una gara in cui non é in gioco un premio simbolico o un primato di mero prestigio, non è in palio un Oscar o un Leone d'oro o una citazione nel Guinness dei primati, ma è in gioco una posta molto più concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza. Il governo del territorio - nel suo versante politico e amministrativo come in quello urbanistico - deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana. Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.
Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato. Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell'organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere. E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità. Non ho la pretesa di aggiungere alcunchè al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che, sul terreno molto pratico che ci è proprio sia come urbanisti che come politici, se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti. Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sè un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sè un segno positivo del suo manifestarsi.
In effetti, quando parliamo di sviluppo ci riferiamo a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" (1). Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente. Ma se vogliamo applicare quella definizione all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare - come in questo convegno proponiamo nel suo stesso titolo - di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perchè ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perchè la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua quelità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone %H6%(2)%H6%. Su alcuni rilevanti aspetti di questo trend, e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi che abbiamo proposto per questo incontro: temi ai quali si riferiranno, in modo più o meno diretto, le comunicazioni che saranno illustrate.
La crisi della mobilità è forse l'aspetto più appariscente e drammatico, e certamente il più emblematico, della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressochè interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto. Il Libro verde attribuisce la scelta della motorizzazione individuale anche ai limiti della pianificazione urbanistica. Precisamente al fatto che "la separazione spaziale promossa dalla teoria funzionalista lascia poche alternative all'automobile privata". In altri termini, aver basato la pianificazione sul principio della rigida separazione, in zone collegate solo dalle infrastrutture del trasporto, delle varie funzioni urbane (le abitazioni, le industrie, gli uffici, i servizi ecc. ) ha contribuito ad aumentare sia la domanda globale di mobilità sia la necessità di uno strumento flessibile come l'automobile. E' un'osservazione indubbiamente giusta, ed essa coglie una delle ragioni per cui la cultura urbanistica ha da tempo criticato la rigidità della "zonizzazione monofunzionale". E tuttavia è un'osservazione che ha un valore pratico nelle regioni d'Europa dove le città si sono sviluppate secondo la pianificazione urbanistica. Mi sembra che nelle città italiane, e soprattutto in quelle dove la crisi del traffico è più drammatica (come Napoli e Roma, Palermo e Firenze) la causa urbanistica sia da attribuire molto più alla mancata pianificazione e alla conseguente anarchia degli interventi privati abusivi e di quelli pubblici in deroga, che alla severa applicazione dei canoni dell'"urbanistica funzionalista".
"Quale che sia comunque la miscela di cause che determinal'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti. Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade" (p. 44). Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità". Indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante.
Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti. Forse non ce n'è alcuna oppure, se c'è, è un'eccezione, ed è allora notevole almeno per questo. Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani (magari oggi criticabili e criticati nelle loro regole di fondo) diligentemente attuati; non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente; non abbiamo ricchezza di parchi e boschi nèefficienza di servizi collettivi; non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente. Non abbiamo, in Italia, ciò che tante altre città europee hanno conquistato. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela. E'allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti. Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione "senza opere" che è provocata dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere. (Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte).
Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica, quando leggo le invettive di Argan o di Cacciari. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proposte di Paolo Costa o di Luigi Scano sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, di promuovere quello che Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione". Ma dispero quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiare ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettaremetropolitane nei centri storici, quando vedo i Fori imperiali di Roma o la Piazza San Marco di Venezia ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà, magari sponsorizzati (come il recente episodio veneziano) da autorevoli istituzioni culturali come la Biennale. Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie. E noi stiamo qui come la coda della lucertola, che si agita ancora quando la lucertola è già morta.
Puntare sulla qualità urbana significa indubbiamente guardare alla città con sguardo nuovo. Significa analizzare criticamente la "conurbazione senza confini", che gli anni infiniti del boom edilizio ci hanno regalato. Quella "conurbazione senza confini" che la bella mostra dell'Istituto regionale dei Beni storici e culturali dell'Emilia-Romagna ha qualche anno fa illustrato %H6%(3)%H6%, e la ricerca interuniversitaria condotta da Giovanni Astengo ha puntigliosamente documentato %H6%(4)%H6%. L'assenza di confini certi è ciò che connota la mancanza di identità, di chiarezza di appartenenza, di forma definita e riconoscibile. Ed è infatti ciò che primariamente connota la città insostenibile, costruita dallo spontaneismo e dalla miopia, alleati della speculazione, negli anni della crescita senza forma. Voler raggiungere un sufficiente livello di qualità urbana significa allora anche cercare i confini della città vera, della città umana, della città storica: quei confini tracciati nel centro urbano come nel territorio foraneo organizzato, da antiche culture, in funzione della vita della città. E significa poi intervenire nelle periferie senza forma e senza volto, ridisegnare lì i confini - e la struttura, e le forme - di una città di oggi e di domani nella quale tutti possano riconoscersi, tutti possano ritrovare una identità, una comune cittadinanza.
I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato. Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa: ha vinto la sua storica tenzone con l'alternativa marx-leniniana. Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili (privi cioè di peculiari caratteristiche individuali e perciò sostituibili l'uno all'altro nell'ambito del medesimo genere), il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali. Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene). Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sè capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che dovevamo necessariamente porre all'inizio di questo convegno, anche se non è a questa relazione che tocca svilupparlo, ma alle comunicazioni che le fanno seguito.
A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile - o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili. Una questione che è tanto più importante trattare in quanto essa è totalmente assente dal Libro verde, di cui costituisce l'unica rilevante lacuna. Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.
Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finchè non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.
Su questa affermazione siamo, io credo, largamented'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinti che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi (e non incorrere una volta ancora in una di quelle dichiarazioni d'incostituzionalità che dal 1968 hanno frustrato i tentativi, o conati, di riforma) una riforma dell'attuale assetto del regime immobiliare debba avere alcuni precisi requisiti; alcuni punti fermi, prodotti e raffinati in una elaborazione collettiva che dura da qualche decennio almeno. Varrà la pena di ricordarli.
Le nuove regole del regime immobiliare dovrebbero, innanzitutto, riguardare, e regolare contemporaneamente tutti i beni immobili: cioé sia le aree sia gli edifici. Le concrete trasformazioni territoriali e urbane riguardano infatti sempre di più il già urbanizzato e il già costruito.
Naturalmente, una riforma adeguata dovrebbe definire la questione sia per quanto riguarda i valori che per quanto riguarda i poteri. Dovrebbe cioè risolvere, oltre alla questione delle indennità espropriative, anche quella dei cosiddetti vincoli urbanistici. Che è una questione molto semplice e molto concreta: si riduce alla questione del potere, da parte dell'autorità pubblica, di decidere le "destinazioni d'uso", o più precisamente di decidere le trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, che sono ammissibili in tutte le unità immobiliari, nonché i loro tempi e modi.
Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà, è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso leggittimo del bene. Tanto antico e consolidato è questo principio che essoera già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865. Ma non è solo questa la ragione per cui non sembra a me che esso debba essere abbandonato per assumere criteri (quale quello del plafond de densité) che sono stati abbandonati là dove sono stati inventati.
E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità diespropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.
Ma c'é un punto, un requisito, che voglio soprattutto sottolineare. Ciò che ai fini della possibilità tecnica di ottenere una sufficiente qualità urbana più interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.
"Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale" (p. 11). E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti. Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata. Una pianificazione, come afferma il Libro verde, che vada al di là della rigidità razionalistica dello zoning, al di là dell'urbanistica di Le Corbusier e della Carta d'Atene. Ma anche una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell' espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro. Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.
Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità". E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, volta per volta e in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie che altrimenti non sarebbero soddisfacibili.
Se la definizione che prima ho proposto per qualità urbana è condiviso, allora dovremmo convenire che si devono considerare di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.
Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.
"Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde (p. 14). Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico-sociale, non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può appparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.
Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine" (p. 40). Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare alcuniquesiti, indubbiamente inquietanti. E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l'affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la nostra responsabilità, siamo davvero all'altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati - non senza ragioni - di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso il piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov'é sbagliato, o far correre una strada dove non serve, o rivestire d'un retino tecnico una sanatoria che non va concessa.
Per finire, un'ultima domanda. E' davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, nè elettoralmente nè socialmente, perchè ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Anche su questo dovremo insieme riflettere.
Edoardo Salzano
NOTE%H6%
(1)%H6% Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988. Preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinchè uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr. E. Goldsmith e N. Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano.
(2)%H6% ". . . quelle pompose Babilonie sono città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: CarloCattaneo, "La città come principio", a cura di M. Brusatin, Marsilio, 1972).
(3)%H6% Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, I confini perduti, Graphis, Bologna.
(4)%H6% IT. URB. 80, Rapporto sullo stato dell'urbanizzazione in Italia, "Quaderni di Urbanistica informazioni, n. 8, 1990.
1. Abbiamo la fortuna di parlare di un territorio le cui caratteristiche sono ben note a tutti. Del resto, già dagli interventi che hanno preceduto il mio sono emerse con chiarezza le ragioni per le quali le Dolomiti sono, per noi, "una risorsa da conservare e promuovere". Sono emerse con chiarezza le qualità di questa risorsa, la ricchezza eccezionale del patrimonio che essa costituisce. Voglio sottolineare questi due termini (qualità, patrimonio), e voglio soffermarmi un poco su di essi, perché essi in qualche modo definiscono le coordinate della "stella polare" che deve guidarci nel ragionare su come operare una "sintesi tra conservazione e sviluppo".
Qualità. Questo termine esprime valori che non sono riconducibili a numerario, che perciò trovano con difficoltà spazi adeguati nelle valutazioni ed operazioni economiche. Ma esprime valori che oggi riconosciamo essenziali per la vita della nostra civiltà, e ai quali non siamo più disposti a rinunziare, quali che siano le difficoltà che dobbiamo superare per ottenerne la promozione.
E quando riferiamo il termine "qualità" al territorio, all'ambiente, non ci sfugge che esso esprime una realtà che è sempre il risultato di un sapiente intreccio tra un originario dato naturale, e l'applicazione a questo dato del lavoro e della cultura dell'uomo. Un intreccio tra natura e lavoro nel quale certamente qui, nelle Dolomiti, appare prevalere l'elemento naturale, mentre in altre situazioni - penso ad esempio alla città storica di Venezia - appare prevalere l'elemento storico del lavoro e della cultura; ma che dovunque, là dove raggiunge il requisito della qualità, è caratterizzato da un equilibrio tra l'uno e l'altro elemento.
Come ritrovare, oggi, questo equilibrio tra lavoro e natura?
Rispondere a questa domanda equivale ad affrontare in pieno il tema di questa sessione del convegno. Equivale a domandarsi come sia possibile, oggi, trovare una sintesi tra l'esigenza della conservazione e promozione della risorsa ambientale costituita dalle Dolomiti, e l'esigenza di uno sviluppo economico, sociale e civile di quella società che nelle Dolomiti vive e opera.
Può aiutarci ad andare avanti nel ragionamento riflettere al secondo termine al quale prima mi riferivo: patrimonio. Quando parliamo di una risorsa come di un patrimonio noi intendiamo evidentemente riferirci a qualcosa che non va "sfruttato", che non va trattato come una miniera, o una cava, o un giacimento, dal quale estrarre pezzi per trasformarli, venderli, consumarli, ma va trattato come un qualcosa che può generare ricchezza non effimera solo se viene conservato, adoperato con parsimonia, accresciuto perché generi maggiore ricchezza.
Perciò - tornando ancora al tema di questa sessione - trovare la sintesi tra conservazione e sviluppo equivale per noi a cercare un tipo di sviluppo, nuovo rispetto a quelli che abbiamo conosciuti, il quale non solo non confligga con l'esigenza di tutelare le qualità ambientali, ma anzi assuma la tutela e la crescita di quelle qualità come il motore e - insieme - l'obiettivo dello sviluppo.
Uno sviluppo nuovo. Sappiamo bene, infatti, che lo sviluppo che è stato perseguito fino ad oggi è uno sviluppo fondato su una concezione distorta del rapporto tra uomo e ambiente. È fondato su una concezione dell'ambiente come resnullius, come qualcosa di cui ciascuno può appropriarsi, che tutti possono consumare senza preoccuparsi della ricostituzione, su cui tutti possono scaricare i rifiuti prodotti.
E sappiamo anche che questo sviluppo ha già prodotto, e sta ulteriormente producendo, danno gravissimi: danni via via più ampi, poiché l'allargamento dei diritti democratici, l'aumento del reddito medio e del tempo libero, l'accentuata e facilitata mobilità hanno trasformato la fruizione delle qualità territoriali e ambientali (di quelle prevalentemente naturali come di quelle prevalentemente storiche) da fenomeno di élite a fenomeno di massa.
Con la privatizzazione e recinzione degli accessi alle coste e ai boschi, con la proliferazione delle seconde e delle terze case, con l'ipertrofica infrastrutturazione del territorio, con la sovrapproduzione di rifiuti e la loro disseminazione, questo sviluppo sta provocando la distruzione del patrimonio ambientale con ritmi rapidissimi. E se ciò costituisce un danno per tutto il genere umano, costituisce un danno particolarmente preoccupante ed emergente là dove la fonte prevalente del reddito non è costituita dall'attività industriale manifatturiera o dall'agricoltura intensiva o dal terziario produttivo, ma dall'utilizzazione - saggia o dissennata che sia - del patrimonio ambientale: come qui, come nelle Dolomiti.
2. Uno sviluppo capace di considerare, e governare, la risorsa territorio come un patrimonio deve evidentemente disporre di strumenti adeguati: adeguati perché idonei allo scopo cui devono servire, e - oggi - adeguati perché capaci di operare controtendenza rispetto ai processi in atto, quindi perché forti.
Oggi, l'attenzione delle politiche territoriali riguardante l'ambiente tende a polarizzarsi, e a rivolgere quasi esclusivamente lo sguardo sul settore del disinquinamento.
Impegno e risorse affluiscono, e sono pretesi in misura via via più consistente, per depurare, raccogliere, ridurre la tossicità e la nocività, rendere insomma meno dannosi o meno fastidiosi i rifiuti solidi, liquidi e gassosi che la nostra società produce in così gran quantità. È un settore nel quale certamente giusto impegnarsi, e sacrosante sono le critiche e le proteste per quelle autorità - come la Giunta regionale del Veneto - che producono moltissimo materiale di propaganda e pochissimo disinquinamento. Ma un settore che inevitabilmente, quasi per definizione, è in ritardo sulle cose, sui processi reali: interviene a valle dei processi, può al massimo - e con dispendio crescente di risorse - ridurre la negatività degli effetti.
Le politiche territoriali basate sul disinquinamento non sono di per sé uno strumento adeguato per un governo della risorsa territorio capace di raggiungere la sintesi tra conservazione e sviluppo: il disinquinamento è necessario, ma non sufficiente.
Uno strumento idoneo (ma oggi non forte, e perciò non ancorapienamente adeguato) è costituito dalla pianificazione territoriale e urbanistica. L'importanza di questo strumento sta in ciò, che esso - allo stato degli atti - è l'unico che riesce a governare una realtà, qual'è il territorio, che è un sistema complesso di elementi fisicamente definiti suscettibili di usi diversi. È l'unico strumento capace di garantire non una mera giustapposizione delle varie scelte di settore (i trasporti, i
parchi, l'energia, la produzione, la residenza e così via), ma un assetto fisico e funzionale nel quale le varie utilizzazioni, le varie funzioni, i vari regimi, cui sono sottoposte o sottoponibili le diverse parti del territorio, trovino una loro complessiva coerenza: coerenza interna, e coerenza tra l'assetto del territorio e il sistema di obiettivi culturali, sociali, politici, economici che la collettività assume.
3. La pianificazione territoriale e urbanistica, vista come strumento idoneo a raggiungere un rapporto corretto tra conservazione e sviluppo, tra ambiente e lavoro, tra qualità del patrimonio ambientale e sua adeguata fruizione, ha conosciuto stagioni molto diverse, e conosce ancor oggi indirizzi molto diversi nelle tre regioni che gravitano sull'area dolomitica. Ai due estremi della diversità si pongono, secondo me, il Veneto da una parte, l'Alto Adige dall'altra, mentre mi sembra che, per più di un sostanziale aspetto, in una posizione intermedia si pone la Provincia di Trento
Un modo significativo per comprendere e valutare le politiche territoriali delle regioni dal punto di vista del patrimonio ambientale è indubbiamente costituito dall'impatto che su di esse
ha avuto la legge 431 del 1985: quella legge che è comunemente nota come "Legge Galasso", ma che ben più propriamente bisognerebbe chiamare "Legge Alborghetti, Bassanini, Galasso".
Con la legge 431, come tutti sanno, il Parlamento ha sollecitato le Regioni a procedere nella tutela delle caratteristiche essenziali del paesaggio italiano mediante gli strumenti di una pianificazione territoriale e urbanistica contrassegnata dalla "specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali".
E lo ha fatto con due ordini di stimoli: da un lato, con la prescrizione di redigere piani siffatti e adottarli entro una determinata data (il 31 dicembre 1986); dall'altro lato, con lo stimolo indiretto della apposizione di vincoli di non trasformabilità su determinate aree, vincoli che potevano essere superati solo, appunto, con l'adozione dei piani.
Vorrei annotare, tra parentesi, che la 431 è stata la prima manifestazione, seppure in forme improprie, di quell'attività di indirizzo e coordinamento in materia di assetto del territorio ed ecologia che il Dpr 616 del 1977 attribuisce agli organi centrali dello Stato. E vorrei annotare ancora che, sebbene l'attuazione
della legge sia stata molto deludente rispetto alle aspettative e alle stesse potenzialità, essa ha comunque posto in moto un processo di pianificazione praticamente in tutte le regioni italiane.
Per il Veneto la legge 431 è stata una benefica scossa. È solo grazie alla legge che la Giunta regionale ha frettolosamente ripreso gli studi per la formazione del Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), che da oltre un decennio era
solo un'intenzione e una prescrizione inevasa della legislazione regionale, e ha individuato e in qualche modo vincolato, sul medesimo Ptrc, le 66 aree da destinare alla istituzione di parchi e riserve naturali, che da anni erano oggetto di un elenco mai portato all'approvazione del Consiglio regionale.
Per le due Province del Trentino Alto-Adige, invece, come per il Friuli-Venezia Giulia (e come per l'Umbria, l'unica altra regione italiana ad aver consolidato, prima della legge 431, un'attività di pianificazione d'area vasta), la legge ha provocato quasi solo un adempimento di verifica tecnica della maggiore o minore
validità, rispetto ai nuovi indirizzi del Parlamento, di una politica di pianificazione e di tutela dell'ambiente in corso ormai da molti anni.
4. Particolarmente significativa, mi sembra l'esperienza della Provincia autonoma di Bolzano, della Regione altoatesina (o sud-tirolese): significativa sia per l'insegnamento positivo che per taluni aspetti ne deriva, sia per taluni suoi limiti.
I rappresentanti della Provincia autonoma di Bolzano, siano essi amministratori o tecnici direttamente responsabili, o siano essi semplici operatori culturali e professionali, sono orgogliosi quando possono esporre alcuni numeri significativi[1]. Più dell'85 % del territorio altoatesino è tutelato. E la parte più consistente di questa quota molto rispettabile è costituita dalla superficie vincolata dai piani paesaggistici comunali o intercomunali (46,5 %).
Una superficie tutelata attraverso strumenti di pianificazione atipici (sostanzialmente di solo vincolo che operano in "negativo" rispetto ai piani urbanistici comunali), applicati in modo molto esteso a un territorio che già da molti anni è interamente coperto da piani urbanistici comunali. E a un territorio - questo il secondo dato significativo - che è in larghissima misura antropizzato. Benché il 64 % del territorio altoatesino sia a quota superiore a 1.500 metri, il 73 % è adoperato per le attività primarie. Come ha osservato Silvano Bassetti, "pur in condizioni spesso ai limiti della sopravvivenza, l'antropizzazione del territorio risulta ancora oggi diffusa e capillare secondo modelli prevalenti di agricoltura alpina, conservatisi anche per la stabilità di forme giuridiche di indivisibilità dei fondi rustici ("maso chiuso") e di modelli socio-politici fondati sulla radicata diffusione della popolazione sul territorio"[2].
La politica di tutela ambientale altoatesina non nasce oggi, e le sue ragioni sono certo complesse. È già a partire dagli anni '60 che il territorio è stato soggetto a pianificazione comunale, la quale copre dal 1976 la totalità dei comuni. E nel quadro e col supporto di questa politica, si è sancita e si applica molto rigorosamente - con un sistema di decisioni tecniche ed amministrative fortemente centralizzato - la totale inedificabilità dei boschi e degli alpeggi e il contenimento dell'espansione edilizia ottenuta anche combattendo con decisione sia l'edificazione diffusa sia la costruzione di seconde case per non residenti.
È una politica territoriale, quella altoatesina, nella quale la tutela dell'ambiente e del paesaggio trovano le loro ragioni in un duplice ordine di motivazioni. Da un lato la consapevolezza che i redditi e la loro costanza nel tempo sono legati alla
preservazione del patrimonio che li genera: il paesaggio, insomma, come risorsa economica da far durare per sempre.
Dall'altro lato, e forse ancor più profondamente, la convinzione che quel paesaggio, quell'ambiente, quei modi di produrre e di vivere nel territorio, sono parte fondamentale dell'identità culturale di due minoranze etniche: quella austro-tedesca, minoranza nello Stato e nella stessa Regione, e quella ladina, minoranza nella minoranza.
Una tutela, quindi, nella quale i moventi difensivi sembrano determinanti. E questi stessi moventi difensivi hanno fatto sì che si conservasse nel tempo, al di là e - per così esprimermi - al di sotto delle politiche territoriali, quel modo di gestire i rapporti produttivi e i rapporti patrimoniali che ha largamente resistito alle forme tipiche del sistema capitalistico-borghese italiano. Una tutela, quindi, non priva di elementi di fragilità, da cui derivano i suoi stessi limiti.
Così, a proposito di Dolomiti, c'è da registrare che il territorio urbanizzato si è enormemente accresciuto - in termini relativi - negli ultimi trent'anni passando dai 3.000 ettari al 1950 ai 12.000 ettari odierni. Ciò sembra avvenuto soprattutto nella seconda metà degli anni 70, quando la pianificazione urbanistica comunale ha prevalso sulla pianificazione paesistica.
Sono gli anni in cui ci sono state le maggiori espansioni nei fondo valle, e in cui si è - in alcuni punti significativi - consolidato il sistema degli impianti di risalita.
Oggi, i giochi sembrano potersi riaprire. Mentre nelle valli meno toccate dallo sviluppo turistico ci si rifiuta di adottare il modello consolidato di un turismo affidato agli impianti di risalita, alla concentrazione delle presenze, alla infrastrutturazione del territorio, e si vuole cogliere fino in fondo l'occasione di uno sviluppo basato sul binomio qualità dell'ambiente e qualità del servizio ricettivo, al livello della Provincia sembra riaprirsi un dibattito sull'esigenza, e sull'opportunità, di superare i limiti localistici della dimensione comunale della pianificazione, per introdurre forme di pianificazione, o quanto meno di incisivo coordinamento, al livello di area vasta.
5. Anche nella Provincia autonoma di Trento la tutela dell'ambiente è presente da alcuni decenni all'interno del processo di pianificazione. Un processo di pianificazione, quello trentino, più "classico" di quello altoatesino. Non atipici piani paesistici comunali, ma un vero e proprio piano di area vasta: il Piano urbanistico provinciale, formato per la prima volta nel corso degli anni '60, (fu adottato nel 1964 e approvato nel 1967) al quale fa seguito una legge organica di tutela del paesaggio che, già nel 1971, anticipa alcuni contenuti della legge nazionale 431 del 1985.
Tra i caratteri essenziali dell'impostazione maturata nel Trentino in quegli anni vorrei ricordare soprattutto:
- l'estensione dell'oggetto della tutela, che si esplica (art. 1) nel passaggio dalle "bellezze naturali" singole e d'insieme della legge del '39, a "territori naturali o trasformati dall'opera dell'uomo", superando l'ottica estetizzante strettamente figurativa e adottando una concezione naturale-culturale;
- "la graduale connessione tra tutela paesaggistica e pianificazione urbanistica conferendo ai piani subordinati al Pup (comprensoriali e comunali) valenza paesaggistica, capace di assorbire la tutela stessa nella disciplina territoriale, e alla Giunta provinciale la facoltà transitoria, fino alla formazione dei piani subordinati, di emanare specifiche norme e prescrizioni cartografiche relative ai territori tutelati"[3].
Come nell'Alto-Adige, anche nel Trentino ad una partenza nettamente anticipata rispetto a quasi tutte le altre regioni italiane, corrisponde una fase di appannamento grave nella seconda metà degli anni '70: probabile effetto, e anzi anticipazione - questa volta in negativo - di quel più generale appannamento dell'attenzione politica sui temi della pianificazione, e dell'affacciarsi delle posizioni della deregulation, che negli anni successivi prevalsero a livello nazionale. Fatto sta che, con una legge del 1974, si statuisce la prevalenza della
pianificazione comunale volta all'edificazione sulla pianificazione paesistica. Si restaurano "i diritti derivanti dagli strumenti urbanistici vigenti (senza prescriverne la verifica dal punto di vista paesaggistico), conseguendo principalmente due esiti: togliere di fatto il diritto di veto - e quindi il ruolo preminente - alla tutela, ed in secondo luogo privare di fatto tutta la pianificazione dei contenuti di natura paesaggistica, considerata sempre più come "sovrastrutturale"[4].
Prima ancora della legge 431, fu il disastro di Stava a provocare nel Trentino, nel 1985, una svolta nella politica del territorio. La nuova Giunta provinciale diede una spinta vigorosa a un processo di pianificazione che si era insabbiato. La revisione del Pup, avviata dal 1977 e da allora ferma, fu ripresa e il nuovo Pup veniva approvato nel 1987. Ma fin da subito si approvò una legge di salvaguardia, applicata alle previsioni del piano prima ancora dell'adozione. E contemporaneamente si rilanciò la legislazione per l'istituzione dei parchi naturali, giungendo all'istituzione dei parchi naturali del Brenta-Adamello e Paneveggio - Pale di S. Martino.
Il Pup del 1987 ha suscitato qualche fondata critica, soprattutto per quanto riguarda gli impianti sciistici. La scelta è quella di giungere ad una stabilizzazione degli impianti, intendendo con questo consentire la costruzione di nuovi impianti di risalita là dove la capacità delle piste supera quella degli impianti, e la costruzione di nuove piste là dove invece la situazione è invertita. È un criterio non privo di razionalità "aziendale", ma il rischio che viene denunciato è quello di provocare di fatto, con la realizzazione di nuovi impianti, un aumento del carico urbanistico complessivo.
Per le "seconde case" (l'altra grande causa di degrado del paesaggio e dell'ambiente) l'atteggiamento trentino è simile a quello altoatesino, anche se meno pronunciato. Sostanzialmente, il blocco all'espansione delle "seconde case" è intervenuto quando, alla metà degli anni '70, scoppiò lo scandalo e si elevò la protesta per una grande lottizzazione di ville, villette, alberghi a Fassa Laurina.
E anche la ragione di fondo che determina gli attuali orientamenti politici prevalenti in Trentino mi sembra simile a una delle componenti della posizione altoatesina. Anche nel Trentino sembrano pensare: se non tuteliamo l'ambiente e il paesaggio dall'infrastrutturazione e dal consumo fondiario, se non controlliamo il carico urbanistico nelle zone più pregiate, se non freniamo i processi in atto, la materia prima dell'attività turistica si degrada fino al deperimento, e con essa gli stessi redditi che di essa si giovano.
6. Delle tre regioni dolomitiche italiane, il Veneto indubbiamente quella che regge il fanalino di coda. Grandi dichiarazioni, grande propaganda, grandi programmi, ma ancora nessun segnale concreto di una politica del territorio aperta alla effettiva salvaguardia e valorizzazione dell'ambiente.
Eppure, negli stessi documenti prodotti dalla Giunta regionale le analisi anche acute, e le denuncie anche ferme, non mancano. È l'ultimo documento programmatico approvato dalla maggioranza consiliare, il Programma regionale di sviluppo, quello che adopera forse le parole più forti per denunciare il rapporto
perverso tra sviluppo e ambiente che ha caratterizzato il governo del territorio veneto nell'ultimo ventennio. In esso si afferma, ad esempio, che va sottolineato con forza che lo sviluppo demografico e la redistribuzione territoriale della popolazione da un lato, la crescita della produzione nonchè le modalità tecnologiche con cui tutto ciò si è verificato dall'altro hanno avuto conseguenze pesantemente negative sull'ambiente. La rarefazione della presenza umana nelle zone di collina e di montagna, il trasferimento sull'ambiente di tanti costi interni alle imprese, l'anteporre i risultati concreti dello sviluppo alla tutela e alla valorizzazione dei beni naturali, storici e culturali emergono come alcuni dei tratti salienti del recente processo di crescita socio-economica del Veneto e sono responsabili dei gravi fenomeni di dissesto idrogeologico, di degrado e di inquinamento dell'ambiente e del paesaggio a tutti ormai evidenti.
E ancora:
l'uso indiscriminato dell'aria, dell'acqua e del suolo e la valutazione, del tutto errata, che fosse possibile utilizzare l'ambiente esterno alla casa, alla fabbrica, alla città, agli allevamenti, alle attività agricole, ai consumi turistici, alla mobilità come un ricettore inesauribile hanno portato ad una sempre più grave compromissione delle risorse stesse (...). Infine, i sistemi ambientali di interesse naturalistico - sia montani che fluviali come pure le "zone umide" costiere - risultano particolarmente danneggiati da interventi di trasformazione agricola, dal consumo turistico non controllato, da un'eccessiva attività venatoria e dall'inquinamento [5]
Molto interessanti, e condivisibili, mi sembrano anche le considerazioni che nel Prs si svolgono a proposito del turismo. Dopo aver segnalato che da tempo si registrano "segni di disagio quali il deterioramento ambientale, la caduta di qualità del prodotto offerto e il conseguente scoraggiamento della domanda", si afferma:
La situazione, che può apparire paradossale, si spiega per la particolare composizione del "prodotto turistico", che è fatto prima di tutto di servizi forniti da beni pubblici sostanzialmente non riproducibili (si tratti di beni naturali quali l'aria, l'acqua, il sole o il paesaggio delle spiagge dei monti o dei laghi, oppure di beni storico-artistici quali interi centri storici, singoli monumenti, opere d'arte) ceduti ai turisti a prezzo zero.(...) È intuibile che in questa situazione, di fronte ad una crescita molto rapida della domanda di turismo, la risposta, in termini di adeguamento dell'offerta di servizi e beni turistici privati, risolve il problema solo fintantoché non si creano situazioni di concorrenza nell'uso di beni turistici pubblici non riproducibili (si pensi all'eccesso di alberghi su di una spiaggia o vicino ad una pista da sci, o al miglioramento dell'accessibilità verso un centro storico)[6]
Tornerò più tardi sulla questione del turismo, degli effetti che esso produce sulla risorsa ambiente, e soprattutto sugli indirizzi che, a mio parere, devono affermarsi per ottenere una effettiva sintesi tra sviluppo e conservazione. Per ora vorrei restare nel Veneto, per dire che le analisi sono corrette, ma le cose non sembrano affatto cambiare sul terreno delle concrete politiche territoriali poste in atto.
Non parliamo degli interventi "a valle", delle opere e delle politiche finalizzate al disinquinamento, che pure sono quelle verso le quali più ampiamente sono rivolte l'attenzione e l'impegno: non c'è il piano per i rifiuti tossici e nocivi, non c'è un credibile piano per il risanamento delle acque, non c'è un'iniziativa seria per il risanamento delle aree più calde dal punto di vista dell'inquinamento. Non parliamo dei parchi naturali, neppure uno dei quali è stato istituito. Parliamo del prodotto culturalmente più evoluto della politica territoriale del Veneto, il Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), adottato, dalla Giunta per effetto della Legge 431, il 31 dicembre 1986, ma non ancora approdato nella sede del Consiglio Regionale.
7. L'efficacia è un requisito indispensabile di un atto di governo del territorio, che non voglia porsi solo come contributo accademico. Da questo punto di vista il Ptrc del Veneto è senza dubbio carente. Esso infatti si limita a prescrivere norme
immediatamente efficaci per le sole aree destinate all'istituzione di parchi e riserve naturali e archeologiche.
L'efficacia delle norme relative a tali aree, e la stessa perimetrazione di queste, sollecita a più di un rilievo critico.
Ma più critico ancora il giudizio su alcune conseguenze pratiche e soprattutto sulla concezione culturale che sembra sottesa da una simile scelta.
Da un punto di vista pratico è ad esempio preoccupante che non via sia alcuna prescrizione immediatamente efficace per la protezione delle falde acquifere nella fascia a monte della linea delle risorgive. Dal punto di vista culturale, preoccupa invece il fatto che, tutelando con una certa efficacia solo quelle determinate aree di cui si detto, si convalida la tesi - che sembrava ormai superata - secondo la quale sono meritevoli di protezione solo le aree dove la natura è più selvaggia ed aspra, mentre dove l'ambiente è più fortemente antropizzato e foggiato dal lavoro umano esso può continuare ad essere soggetto alle devastazioni: provocate, nel Veneto, più da strumenti urbanistici corrivi che dall'abusivismo.
Altro punto rilevante dell'inadeguatezza del Ptrc sta nel fatto che esso non stabilisce, come invece sarebbe indispensabile, la prevalenza delle scelte derivanti dall'esigenza della tutela dell'ambiente rispetto a qualsiasi piano, programma od intervento settoriali, da chiunque formati. Le trasformazioni del territorio non avvengono unicamente mediante le politiche urbanistiche comunali.
Queste sono certamente rilevanti, soprattutto - dal punto di vista proprio del livello regionale - per i loro effetti cumulativi.
Ma almeno altrettanto agiscono sul territorio gli interventi decisi da autorità che (per il loro potere proprio, o per la manipolazione del consenso che possono esercitare, o più spesso per l'uno e per l'altro insieme) sono sottratte alle decisioni dei piani urbanistici comunali: è del tutto ovvio, oltre che a tutti noto, che l'assetto del territorio determinato in modo consistente dagli investimenti e dagli interventi
dell'Anas, delle società per le autostrade, delle aziende ferroviarie, delle autorità portuali e aeroportuali, delle società per le idrovie, e ancora dalle politiche in campo abitativo, agricolo, commerciale, turistico, industriale, e infine dai progetti Fio, dai programmi di settore, per lo smaltimento dei rifiuti, per le attività estrattive, per le bonifiche, per le acque e così enumerando.
Ora, un piano territoriale deve e può ricondurre a coerenza le diverse iniziative di settore; deve quindi, in primo luogo, verificare a priori la coerenza di tali iniziative con l'esigenza della tutela ambientale. Da questo punto di vista, il PTRC è così lontano dal raggiungere questi obiettivi da apparire addirittura schizofrenico.
Tipico il caso del "sistema relazionale". Nella relazione giustamente si afferma che "dovrà essere riguardato, con la massima attenzione, il rapporto tra sistema infrastrutturale e sistema dell'ambiente", e si rileva criticamente "come - anche nel più recente passato - sia stata posta poca attenzione al corretto inserimento di tracciati viari e relativi manufatti". Ma, nel concreto, il Ptrc si pone come l'assemblaggio acritico di tutti i tracciati e gli interventi che volta per volta sono stati proposti, senza compiere nessuna selezione né delle opere da realizzare nè delle loro priorità.
In un simile atteggiamento subalterno, il Ptrc arriva al punto di configurarsi anzi come il primo atto di politica territoriale che fornisca una legittimità alle più devastanti, e spesso inutili, scelte infrastrutturali che sono state proposte nel corso
dell'ultimo ventennio: dall'autostrada di Alemagna a quella di Valdastico, dalla Treviso-Ostiglia alle complanari di Mestre, dall'idrovia del Sile a quella litoranea a quella tra Venezia e Padova.
8. Credo di avere argomentato a sufficienza - almeno per quanto serve a questo dibattito - che effettivamente esistono differenze consistenti nelle politiche territoriali delle tre regioni dolomitiche. In estrema sintesi, mentre in Alto Adige e nel Trentino, per ragioni di vario ordine (ma per la comune preoccupazione di non deprezzare il "capitale" costituito dal patrimonio ambientale) si rafforzano le politiche tese alla tutela dell'ambiente e al contenimento - più accentuato in Alto-Adige, più blando nel Trentino - dei carichi urbanistici legati al turismo, nel Veneto ci si limita a denunciare ciò che è avvenuto, ma non si riesce o non si vuole riuscire ad impedire che lo stesso avvenga nel futuro. È solo nell'ambito della discussione delle singole leggi istitutive dei parchi, ad esempio, che si riesce ad introdurre qualche contenimento alla realizzazione di nuovi impianti di risalita (e non a caso neppure un solo parco stato finora istituito). E mentre il piano urbanistico provinciale di Trento ha eliminato la previsione dell'autostrada di Valdastico (la famigerata Pi-Ru-Bi), il piano territoriale di coordinamento del Veneto la ripropone.
Il rischio che vedo, a questo punto, è che il relativo ritardo delle dolomiti venete nell'attrezzarsi per il turismo conduca a seguire moduli di intervento che altrove sono superati: a puntare insomma, per una malintesa concorrenza, alla realizzazione di impianti di risalita e caroselli, ad un indiscriminato aumento della ricettività, al conseguente aumento dei carichi urbanistici indotti. Ed a giungere allora, su questa strada, al deperimento della risorsa fondamentale dell'attività turistica.
Non voglio rubare spazio alla relazione che Diego Cason terrà domattina, ma credo che qualche considerazione sul turismo sia a questo punto utile.
9. Il "turismo di massa" sta diventando, in tutto il paese, da un lato una grande occasione di incremento del reddito, dall'altro lato un grande fattore di degradazione dell'ambiente. Le aree più minacciate sono proprio quelle nelle quali, per essere le qualità ambientali (naturali e storiche) più accentuate e più famose, la pressione del consumo turistico è più forte. Da questo punto di vista io credo che il possibile destino, e quindi anche le possibili misure da assumere per indirizzarlo da una parte o dall'altra, siano molto simili in una prestigiosa vallata alpina e in un rinomato centro storico.
Molti esperti del settore ritengono che nei centro storici (e in modo secondo me del tutto equivalente nelle aree a maggior pregio "naturalistico") si debbano svolgere azioni rivolte contemporaneamente in due direzioni.
Da un alto, a qualificare l'offerta turistica: a premiare la qualità sulla quantità, e quindi a migliorare il livello dei servizi, a rendere più direttamente percepibili e fruibili le qualità (naturali o storiche) che caratterizzano i singoli siti, ad allargare i periodi di visita e a ridurre drasticamente le punte, a diversificare l'offerta, e così via.
Dall'altro lato a promuovere quello che Luigi Scano ha recentemente definito "razionamento programmato"[7].
È necessario, cioè definire per ogni bene potenzialmente oggetto di fruizione turistica, qual'è il massimo carico urbanistico che esso può sopportare nei diversi archi di tempo considerati, senza che subentrino elementi di degrado. Ma è poi necessario porre in atto politiche di pianificazione territoriale e urbanistica, di dimensionamento o ridimensionamento dell'offerta, di gestione della domanda (prenotazioni, assegnazioni di turni ecc. ), che consentano di assicurare che, nella realtà, questi determinati carichi non vengano superati.
Così, ad esempio, una volta determinato che in una vallata (o in un complesso monumentale, o in un centro storico) la presenza massima di turisti sopportabile senza degradare l'ambiente e ridurre la stessa qualità della sua fruizione è di tot unità, si tratta di dimensionare gli accessi, la ricettività, i servizi e così via, in modo che essi non consentano il formarsi di un carico maggiore; e si tratta contemporaneamente di organizzare e gestire un servizio di informazioni per l'accesso e la prenotazione, e un servizio di monitoraggio, che consenta di indirizzare i fruitori in relazione all'offerta disponibile.
10. Più in generale, mi sembra certo che una politica del territorio volta a trovare una sintesi, non solo teorica ma operativa, tra salvaguardia e sviluppo, tra l'esigenza di preservare e accrescere il patrimonio ambientale e quella di fare della sua fruizione una occasione di crescita civile, sociale ed economica, cosa che richiede una visione unitaria e una applicazione estesa e rigorosa del metodo della pianificazione territoriale e urbanistica e della programmazione di settore.
E quando si tratta di una realtà unitaria per struttura, vocazione, usi potenziali, problemi, qual'è indubbiamente quella delle Dolomiti, allora mi sembra che sia anche necessario superare i limiti amministrativi, per impedire che essi frantumino la coerenza dell'azione necessaria.
Sarebbe assai utile, a questo proposito, che le tre regioni dolomitiche - il Veneto, il Trentino, l'Alto-Adige - cominciassero a coordinare le loro politiche territoriali: in materia di parchi, i quali spesso interessano ecosistemi che
superano i confini (una volta una foresta era un limite, oggi un possibile elemento di unione); come in materia di indirizzi della pianificazione territoriale; come in materia di infrastrutture; e anche in materia di indirizzi da assumere, e di parametri organizzativi da promuovere, per la gestione di quella realtà per sua natura ostile ai confini che è il turismo.
Ed io credo, per concludere che gli stessi organi centrali dello Stato - il Governo e il Parlamento - non possano restare insensibili rispetto ai problemi che le Dolomiti pongono. Lo Stato di fatto influisce sull'assetto del territorio dolomitico:
con le sue politiche infrastrutturali (pensiamo alle ferrovie, all'Anas, alle concessioni autostradali), con i parchi e le riserve naturali nazionali, con le politiche energetiche e così via.
Anche allo Stato bisogna chiedere di dare coerenza ai propri interventi sul territorio, e di definirli in una intesa con le regioni che non sia a foglia di carciofo, ma si manifesti con il confronto di quadri di coerenza.
Allo Stato, del resto, è affidato il compito di esercitare - come ricordavo - l'indirizzo e il coordinamento anche attraverso la definizione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio. La necessità di affrontare unitariamente, coordinando una pluralità di regioni, i problemi della tutela ambientale e dello sviluppo economico e sociale in un'area così significativa com'è quella dolomitica - questo segmento omogeneo e rilevante dell'intero arco alpino - potrebbe richiedere uno sforzo congiunto di questa portata, che coinvolga Stato e Regioni non come possessori di competenze conflittuali, ma come tessitori di un migliore destino per le Dolomiti.
[1] Vedi, ad es., gli scritti raccolti in: INU, Annuario 1988 Jahrbuch, pubblicazione della sezione Trentino-Alto-Adige dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, Comitato Provinciale dell'Alto-Adige.
[2] "La pianificazione paesaggistica nella provincia autonoma di Bolzano - scheda critica", ibidem.
[3] Vedi la monografia regionale "Provincia di Trento" in: INU, Rapporto sullo stato di attuazione della Legge 431/1985, Quaderni di urbanistica informazioni, n. 4, Roma 1988. Il quaderno contiene i risultati di una ricerca svolta dall'INU per i gruppi parlamentari comunisti.
[4]Ibidem
[5] Regione Veneto, Programma regionale di sviluppo 1988-1990, cap.4.2.
Ibidem, cap. 9.10. .
[7] Mi riferisco a una relazione tenuta a un seminario sul tema: "Centri storici: tra uso, abuso e abbandono", organizzato dal Pri Roma, 4 aprile 1989, atti in corso di stampa
Tra le ragioni che hanno indotto a pubblicare il Catasto napoleonico ce n'è anche una squisitamente conservativa. Da qualche anno i pochissimi esemplari disponibili (all'Archivio di Stato dei Frari e al Comune di Venezia) sono oggetto di così frequente consultazione da far temere, nonostante l'attenzione e la cura con cui sono custoditi, in un loro rapido deperimento. Da qualche anno, infatti, si affollano a leggere le informazioni territoriali fornite dal Catasto napoleonico, oltre agli studiosi di sempre, numerosissimi studenti, architetti, urbanisti, proprietari e operatori immobiliari.
Perché, centottant'anni dopo, un cosi intenso e rinverdito interesse per questo prodotto - forse il più raffinato e moderno - della dominazione francese? È una domanda cui può essere utile cercar di rispondere, anche per comprendere meglio in quale odierno contesto - ideale, culturale e pratico - questo oggetto, tracciato in punta di penna e tenuemente colorato, si collochi.
Il Catasto napoleonico è indubbiamente, al di là della sua originaria finalità censuaria, una rappresentazione geometricamente esatta, e attendibile, della forma della città qual era agli inizi del 1800. Insieme alle altre cartografie storiche, ma con ovvia maggior precisione rispetto a quelle che i reggitori della Serenissima formarono a partire dal xv secolo, esso documenta la forma e la scansione dei lotti, i limiti e la posizione degli edifici, le utilizzazioni dei terreni, e quelle che oggi chiameremmo opere di urbanizzazione (cani, campi, canali, ponti, rive), così come questi fondamentali elementi dell'assetto fisico urbano erano alla data del rilevamento.
Insieme alle altre mappe storiche, il Catasto napoleonico consente perciò di leggere e interpretare l'evoluzione fisica della città. t un ausilio prezioso per individuare le parti del tessuto urbano dove le modificazioni intervenute nel tempo hanno conservato, o proseguito, la trama costituita dalle dimensioni e dalla forma dei lotti e degli edifici, dai loro reciproci rapporti e dalle loro posizioni rispetto alle vie e agli spazi comuni. Per comprendere, insomma, dove le nuove esigenze che via via maturavano hanno condotto a estendere l'edificato o a trasformare le unità edilizie nel rispetto delle non scritte regole formative della morfologia urbana, e dove invece gli eventi successivi (togliendo o aggiungendo terra e volumi, accorpando o suddividendo lotti, riempiendo o scavando rii e canali) hanno violato quelle regole, con maggiore o minore brutalità.
Oggi, l'individuazione e il rispetto delle regole formative della morfologia urbana è l'obiettivo (uno dei principali) cui è volta ogni ben orientata azione di pianificazione urbanistica del territorio conformato dalla storia: in primo luogo quindi, sebbene non esclusivamente, delle città storiche. Ecco quindi l'interesse, e l'utilità, di documenti quale il Catasto napoleonico per chiunque, per ragioni operative o per ragioni di studio e d'esercitazione, debba o voglia cimentarsi nella delicata e complessa impresa di programmare le trasformazioni urbane, o di valutare la conformità dei singoli interventi, da operare su questo o su quest'altro immobile, con l'imperativo della tutela dell'eredità e della qualità del passato. Ed ecco, anche, l'utilità di quei documenti per il proprietario, o per l'operatore immobiliare, che vogliano comprendere i limiti e le condizioni cui è soggetto il loro intervento.
Ma tra tutte le cartografie storiche geometricamente esatte, e attendibili, il Catasto napoleonico veneziano riveste un'importanza che ne fa un documento in qualche modo unico, e ancor più prezioso e utile degli altri.
Il Napoleonico rappresenta e misura Venezia in un momento assolutamente singolare della sua storia. Esso ci mostra Venezia raffigurata com'era quando, dopo dieci secoli di vita, era caduta definitivamente la Repubblica serenissima: quel sistema di reggimento della cosa pubblica (e di garanzia dell'espansione delle fortune private) tra i più raffinati e compiuti, in ispecie per la politica territoriale e urbanistica, che l'occidente abbia conosciuto. Il Catasto napoleonico è quindi come l'estremo lascito, e insieme l'immagine, della. compiutezza statuale della Venezia sovrana.
Quella Venezia, la Venezia della fine del xviii secolo, era anche la città che aveva raggiunto il massimo della sua compiutezzaformale, del suo equilibrio. Fino ad allora, le trasformazioni che si erano succedute avevano sostanzialmente rispettato quelle regole formative della città di cui si diceva. Le continue mutazioni, che caratterizzano ogni organismo vivo, erano avvenute all'interno di un sistema di norme, di principi, di codici scritti e non scritti, di tecniche costruttive e di repertori (all'interno di una cultura) certo non fissi, non immuni da progressi e da cadute, ma che la civiltà veneziana era stata capace di modificare, di arricchire, di perfezionare senza lacerazioni né traumi.
Dopo di allora si apre quella fase ottocentesca - sul cui abbrivio lo sviluppo è poi proseguito quasi fino ai nostri anni - inducendo nella forma urbis deformanti, seppure fortunatamente parziali, stravolgimento. Quella fase nella quale si manifesta la contraddizione - non ancora compiutamente risolta - espressa nel giudizio di E.R. Trincanato: «sventramenti, colmate di canali e sistemazioni edilizie [che] mostrano tutta l'impotenza pretenziosa e nulla della civiltà borghese che ci ha preceduti [ma] nello stesso tempo ci danno un'idea abbastanza precisa della pressione esercitata dalle nuove esigenze della vita moderna in una struttura edilizia incapace di contenerla» (cfr. in G.D. Romanelli, Venezia Ottocento, Venezia 1988).
In realtà determinate trasformazioni, sebbene radicali nella loro sostanza, non avvengono istantaneamente, non sono interamente riconducibili a un episodio e a una data, e si sviluppano invece nel corso di processi che interessa- no archi di tempo non brevi. Così, la sostituzione alle precedenti delle regole e delle tecnologie proprie della cultura degli sventramenti, del cemento armato, dell'indifferenza al sito e anzi della violenza su di esso, non è stata né repentina né totale. Tanto che ancor oggi, quando ormai quella cultura sembra ormai superata e si è agli albori della cultura del recupero, del restauro urbano, della conservazione intelligente, ancora permangono residui delle regole e delle tecnologie preottocentesche, sopravvissute alla bufera dell'età dello sviluppo senza limiti né remore.
E tuttavia se, nonostante questa consapevolezza del perenne intreccio tra vecchio e nuovo, una data si vuole assumere come discrimine tra il processo culturale e storico di formazione di Venezia e la rottura provocata dalla «cultura del cemento armato», è con piena legittimità, e con significato non meramente simbolico, che può essere assunta quella della caduta della Serenissima. E se poi un'immagine può rappresentare più compiutamente di altre la forma urbis maturata prima di quella rottura (e quindi, in qualche modo, all'apogeo di quel processo storico) essa è quella disegnata dai diligenti geometri che composero il Catasto napoleonico.
Ragionare sui motivi specifici dell'attenzione che oggi il Catasto napoleonico richiama induce a una riflessione più generale. Poiché, al di là dei motivi pratici e di quelli culturali, c'è forse una ragione di fondo che sta alla base dell'interesse per il Napoleonico e lo accomuna a quello suscitato in questi anni, in Italia e non solo in Italia, per tutte le testimonianze materiali della nostra storia.
t un interesse non solo scientifico e culturale, ma vitale. Non riguarda solo alcune élite, ma porzioni vastissime, e crescenti, dell'opinione pubblica colta e meno colta. Non coinvolge solo né tanto quanti, per età, sono quasi fisiologicamente inclini a volgere lo sguardo al passato, ma soprattutto i giovani.
t un interesse che si manifesta in mille episodi e situazioni, apparentemente disparati. Dalle fortune della letteratura storica, all'afflusso di visitatori che affollano i musei e le mostre che indagano i più remoti passati o ne esibiscono gli oggetti, alle innumerevoli vicende (in ogni città e quartiere e paese e villaggio) di riconoscimento e difesa delle residue tracce lasciate dalla storia nel territorio urbanizzato e in quello rurale.
È come se la memoria storica fosse diventata un bisogno dell'uomo contemporaneo. Non tanto quella memoria che trova il suo alimento nei grandi accadimenti dell'umanità, nell'avventura dei popoli e delle civiltà, nel succedersi e concatenarsi delle stirpi, dei reami, delle classi. Non tanto, insomma, la Storia maiuscola, quella «generale», ma soprattutto il frantumarsi e riflettersi di questa nella miriade di avvenimenti precisamente localizzati, legati al sito in cui ciascuno di noi vive: la storia riconoscibile nel quotidiano di oggi, presente - con le sue materiali testimonianze di edifici e ruderi e vie e paesaggi e attrezzi - nel breve cerchio dell'esperienza d'ogni giorno.
Il fatto è che, oggi come sempre, per un popolo non esiste civiltà senza consapevolezza delle proprie radici, senza memoria della propria storia. Oggi, però, qualcosa è cambiato rispetto ai millenni che ci hanno preceduto.
È come se, per effetto di quel particolare sviluppo che abbiamo conosciuto nei secoli più recenti della nostra storia, si fosse rotto (non solo a Venezia, ma in tutto il mondo toccato dalla rivoluzione capitalistico-borghese) quell'elemento di continuità nell'evoluzione delle tecniche, dei modi di abitare e di vivere, di costruire e di comunicare, che per secoli e secoli ha consentito all'uomo, per così dire, di vivere la propria storia nella ripetizione di gesti quotidiani omogenei a quelli compiuti dieci o cento generazioni prima.
t come se oggi, allora, la memoria storica, non più godibile in modo direttamente esistenziale, fosse raggiungibile solo mediatamente, culturalmente: con l'intelligenza del comprendere e dell'analizzare più che con la sensibilità del vivere.
Anche il Catasto napoleonico, come tanti altri segni dai quali è testimoniato lo spessore della civiltà di cui siamo parte, è perciò - oltre che un insegnamento, un ausilio tecnico, uno strumento per operare - un modo per trovare il sentimento della storia: un pegno del passato, e perciò stesso un talismano per il nostro futuro.
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Si veda anche, cliccando qui, la Presentazione dell’opera, scritta da Maria Francesca Tiepolo, allora eccezionale Direttore dell’Archivio di Stato di Venezia.
«Quando si deve decidere qualcosa circa le città e i castelli e le province che, per grazia di Dio, sono sottoposti al nostro governo, non c'è nessuno nella nostra amministrazione che sappia dare informazioni precise sui siti nei quali essi si trovano, sulla loro latitudine e longitudine, sui confini e sui domini limitrofi e così via; e se a qualcuno si chiedono informazioni queste sono spesso diverse a seconda dell'interlocutore, perché ciascuno risponde come crede. Si provveda perciò perché nella nostra Cancelleria e nella sede del nostro Consiglio dei Dieci vi sia, veridicamente disegnata, l'immagine di tutte le nostre città, terre, castelli, provincie e luoghi, talché chiunque voglia decidere e provvedere in merito ad essi ne abbia davanti agli occhi reale e precisa cognizione, e non debba affidarsi all'opinione di chicchessia» (versione dal testo latino pubblicato in G.B. Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1868).
Così, mezzo millennio fa (e precisamente il 27 febbraio 1460), Pietro Mocenigo, Bernardo Giustiniano e Marco Donato, i tre capi del Consiglio dei Dieci della Repubblica Serenissima di Venezia, deliberavano di formare la prima cartografia esplicitamente finalizzata al governo del territorio. Già allora quindi, trentadue anni prima del viaggio che portò Crístoforo Colombo ad aprire le strade delle Americhe e la storia a varcare le soglie dell'età moderna, le carte non erano solo un bell'oggetto, l'opera grafica di segno raffinato, la gratificante rappresentazione d'una porzione del mondo: erano soprattutto strumento d'una conoscenza volta al governo, all'azione politica e amministrativa. Già allora, un reggitore della respublica, per essere efficace e corretto nello svolgimento del suo compito, per non essere soggetto alle multiformi e variate opinioni dei suoi interlocutori, doveva disporre d'una cartografia «veridicamente disegnata», tenerla «davanti agli occhi» là dove e quando decideva.
Come delle carte antiche anche del fotopiano a colori del centro storico di Venezia, della moderna forma urbis di questa città preziosa, ciò che in primo luogo e a prima vista colpisce è la bellezza dell'oggetto. Non è un aspetto da trascurare, non foss'altro per il fatto che rende evidente in modo particolare la qualità, la delicatezza (la perfezione, si vorrebbe dire) di quella concreta realtà - fatta di edifici che sono anche valori economici e patrimoni, di acque che sono anche minaccia di allagamentí, di persone che sono anche bisogno di lavoro e di casa: fatta quindi di oggetti e di problemi - che è necessario governare e amministrare per la quale è perciò ogni giorno necessario compiere scelte. Scelte che quella qualità possono salvare e valorizzare oppure, e viceversa, guastare e compromettere.
Anche la bellezza dell'irnmagine, poiché è l'espressione, mediata dalle tecniche più sofisticate oggi esistenti, della bellezza dell'oggetto su cui si esercita l'azione degli amministratori - e di quanti operano, in un modo o nell'altro, nella città e per la città - è un invito ad agire, a scegliere, a decidere perché la ricchezza di quel patrimonio sia conservata e accresciuta: è un invito e una sollecitazione al «buon governo».
Ma se l'amministrazione comunale di Venezia ha deciso d'impegnare una quantità non irrilevante di risorse, e di lavoro, per la costruzione di un nuovo sistema informativo, di cui il fotopiano è il primo elemento, non è certo per una motivazione estetica, né per richiamare se stessa (e gli altri) alle proprie responsabilità. È stato invece per la convinzione che oggi più che mai la conoscenza è il presupposto ineliminabile delle scelte nelle quali consiste l'azione amministrativa e politica.
Quanto più le scelte vogliono essere calzanti con la realtà su cui intervengono, tanto più la conoscenza deve essere precisa, completa, attendibile. Quanto più le scelte vogliono potersi adeguare, con tempestività, ai mutamenti della realtà, tanto più la conoscenza deve essere aggiornabile, in modo altrettanto tempestivo, e sistematico. Perciò si è deciso di procedere, avvalendosi di esperti tra i più qualificati nel settore, all'individuazione delle imprese cui affidare la realizzazione dei sistema cartografico e informativo secondo metodi che garantissero di scegliere le imprese più qualificate a fornire il prodotto più rigoroso. E perciò si è deciso di utilizzare, per la formazione di quel sistema di cui il fotopiano è la componente più ricca di qualità formali immediatamente percepibili, soluzioni tecniche basate sull'impiego delle più sofisticate possibilità dell'informatica.
Una conoscenza quindi, quella di cui il sistema informativo è l'essenziale strumento, che ha una finalizzazione ben più ampia, ricca, complessa di quanto non fosse necessario alla metà del xv secolo. Esso infatti è finalizzato a un modo di governare le trasformazioni nella città che si propone di superare, e radicalmente, i limiti e gli errori che hanno contrassegnato nel recente passato i modi in cui le città si sono modificate. Si sa che - laceratasi con l'età moderna l'unità profonda tra cultura e prassi da cui è stata prodotta la qualità delle città storiche, e la loro capacità di modificarsi di continuo nel rispetto delle regole non scritte che ne determinavano la forma - ai guasti delle trasformazioni operate sotto la sola spinta degli interessi economici privati si è tentato, nei paesi europei, di porre riparo con la pianificazione urbanistica. Ma i modi in cui la pianificazione urbanistica è stata applicata in Italia (e non solo in Italia) sono in questi anni soggetti a una critica di fondo: per il rinvio generalizzato, dai piani generali, a scelte di pianificazione via via più dettagliate; per la rigidità di scelte sull'uso dei territorio compiute una volta per tutte; per il carattere meramente vincolistico delle normative; per l'insufficiente attenzione ai problemi (e all'obiettivo) della qualità urbana; per la separazione tra il momento della pianificazione e quelli della programmazione e della gestione.
Superare questo modo di pianificare esige certo molte cose: intelligenza e capacità di amministratori e di operatori tecnici; adeguamento di leggi; disponibilità di risorse; volontà di innovazione culturale. Tra le altre cose necessarie, non irrilevante è - appunto - la disponibilità di un sistema informativo costruito su misura per un nuovo modo di governare le trasformazioni urbane, ad esso finalizzato: che sia, quindi, così preciso da consentire di evitare il rinvio a successivi strumenti e livelli di piano, così completo da contenere tutte le informazioni necessarie per decidere in relazione agli obiettivi, così aggiornabile da potersi adeguare alle modificazioni via via indotte nella realtà, così flessibile da poter essere impiegato in tutte le fasi del processo di intervento nella città.
Non è certo sfuggito, agli amministratori della città, che realizzare un sistema informativo quale quello del quale qui si sono esposte le ragioni, significa fondare le scelte politiche su un quadro di conoscenze organizzato in modo tale da ridurre fortemente la discrezionalità delle scelte medesime: per meglio dire, da obbligare a rendere misurabili e valutabili gli effetti delle decisioni operate, e da consentire precisi riscontri tra l'enunciazione degli obiettivi e la coerenza con cui da essi derivano concrete conseguenze. Si può allora concludere che il nuovo sistema cartografico veneziano non è solo una innovazione sul piano delle tecniche adoperate e dei metodi di pianificazione cui è finalizzato. Esso è anche (può essere) strumento e sollecitazione a una innovazione sul piano della cultura politica e amministrativa. Ed è significati- vo che una spinta così complessiva, così multiforme, all'innovazione e al progressi venga da una città così antica, e che ha in modo così completo conservato la propria forma urbis: come le tavole qui raccolte limpidamente testimoniano.
Parliamo bene, scriviamo così così. A volerla ridurre a uno slogan, spogliandola della polpa di indagini complesse, è questa la sintesi cui arriva Luca Serianni dopo un lungo ragionare sullo stato di salute dell’italiano. Serianni insegna Storia della lingua alla Sapienza di Roma (i suoi ultimi libri sono una imponente Grammatica italiana per la Utet e un’agile Prima lezione di grammatica per Laterza). È uno dei protagonisti del piccolo fenomeno cui si assiste da qualche tempo: un gran parlare e scrivere di lingua, di grammatica e di sintassi. Al Festivaletteratura di Mantova ha partecipato agli affollati incontri di "pronto soccorso" grammaticale organizzati dall’Accademia della Crusca. Da domani sarà a Pordenonelegge, dove Enzo Golino cura cinque dibattiti dedicati a "Che lingua fa?". Intanto oggi, a Modena, si apre un convegno organizzato dall’Associazione degli storici della lingua, intitolato «Storia della lingua e storia della cucina». Ma ecco anche due libri, molto diversi fra loro: L’italiano. Lezioni semiserie di Beppe Severgnini (Rizzoli) e Tra le pieghe delle parole di Gianluigi Beccaria, (Einaudi). A luglio, poi, si è conclusa la grande ricognizione sulla lingua letteraria del secondo Novecento, diretta da Tullio De Mauro (Utet). Infine fioriscono nuove edizioni di dizionari.
Perché tanta attenzione alla lingua, professor Serianni?
«In Inghilterra, dove è molto diffusa, la chiamano "fedeltà linguistica". Da noi si riteneva che l’attaccamento di solito manifestato da una comunità nei confronti della propria lingua fosse scarsissimo. E invece dobbiamo ricrederci. Qualche anno fa il libro di Bice Mortara Garavelli non sulla lingua, e neanche sulla grammatica, ma sulla punteggiatura, ha ricevuto fior di recensioni e ha venduto al di là di ogni previsione»
A cosa è dovuta questa effervescenza?
«Al fondo ci vedo un’aspirazione normativa. Si vuol sapere l’uso corretto di una forma. Poi il linguista risponde in termini storici, problematici. Generando spesso delusione».
Chissà quante volte le avranno chiesto un parere sul declino del congiuntivo.
«Lì vado sul sicuro. Il congiuntivo non è affatto morto. Un mio collega, Giuseppe Antonelli, ha adottato l’espressione "temperatura percepita". Sembra che faccia un freddo terribile e invece il termometro non va sotto lo zero. Sembra che il congiuntivo stia sparendo, ma tutte le indagini, persino quelle sulla lingua parlata, attestano, per esempio, che dopo il verbo spero il congiuntivo viene adoperato dalla quasi totalità del campione: spero che tu venga, spero che tu stia bene».
Da qui si può dedurre che l’uso dell’italiano non sia tanto sciatto quanto si dice?
«Distinguerei fra lingua parlata e lingua scritta. La prima circola ormai diffusamente. Non abbiamo mai avuto nella storia d’Italia tanti italofoni. E per ottenere questo risultato conviene pagare il prezzo di una certa semplificazione nelle strutture grammaticali. Ma tenga conto che il buon parlante non è colui che parla come un libro, ma colui che sa alternare, a seconda delle circostanze, una lingua ricca a una lingua semplificata».
E la lingua scritta?
«Il discorso è complesso. Non esiste più una lingua della letteratura, ed è la prima volta nella nostra storia. Gli scrittori tutto si propongono fuorché di essere modello. Ora occupano i diversi livelli della stratificazione linguistica e si riferiscono prevalentemente al parlato. La terza parola che compare in Come Dio comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti che ha vinto lo Strega, è "cazzo". È invece migliorata rispetto al passato la "lingua pubblica", la lingua della burocrazia. Le istruzioni di un medicinale, poi, sono generalmente più leggibili. Una regressione si avverte, viceversa, per la lingua scritta della scuola».
Cosa non va?
«Intanto la scrittura non è più uno dei fulcri della scuola. E poi si è allentato quel controllo che invece sarebbe necessario».
Torniamo alla matita blu?
«Sono venute meno le sanzioni. Prenda una questione apparentemente marginale: sta sparendo nella scrittura l’uso di andare a capo. I compiti in classe sono dei blocchi compatti, senza scansione. Viceversa si assiste a un recupero del passato remoto, fortemente inculcato in nome di criteri grammaticali ultratradizionali».
E per quanto riguarda la competenza linguistica, la comprensione delle parole?
«Tullio De Mauro insiste giustamente sui dati allarmanti dell’analfabetismo di ritorno: un quaranta per cento di persone in Italia fa fatica a cavarsela anche con frasi elementari. L’esperienza mi dice che molti adolescenti scolarizzati hanno problemi con dirimere, evincere, faceto, arguto. Un’attesa dubbiosa, poi, li coglie di fronte all’alternativa: legislazione o legislatura?».
La situazione peggiora?
«Se facciamo un raffronto con vent’anni fa vediamo segnali preoccupanti. Non poter capire il contenuto di un editoriale su un quotidiano impedisce di avere una visione ampia del mondo».
Qualcuno darebbe la colpa alla lingua sincopata degli sms.
«E farebbe una sciocchezza. Gli sms abituano a scrivere molto e a fare i conti con lo spazio».
Quanto resiste l’italiano ai forestierismi?
«Il francese o lo spagnolo importano meno termini stranieri. Ma questo dipende dalla storia linguistica nostra e di quei paesi. Andando nel terreno minato dell’informatica, gli spagnoli usano ratón invece di mouse. Ma in fondo in Italia continuiamo a dire memoria o allegato. Il forestierismo è come il neologismo: se occupa uno spazio vuoto resiste, altrimenti va in disuso».
Altrove si praticano interventi politici sulle lingue. In Germania è stata semplificata l’ortografia. Da noi è possibile?
«Una politica per la lingua deve tendere ad alimentare la competenza linguistica. Altra cosa è mirare a una certa igiene. Negli anni Cinquanta il linguista Arrigo Castellani scrisse al Corriere della sera invitandoli a usare sempre sopralluogo con due "l". Oggi farei una battaglia per sé stesso, che bisogna scrivere con l’accento, a differenza di quanto si prescrive anche a scuola. L’accento l’hanno sempre usato grandi firme come Oriana Fallaci o Pietro Citati. Che io sappia fra i giornali lo adotta sistematicamente solo Famiglia cristiana. Non farei una battaglia, perché non ne vale la pena, ma un qualche impegno lo metterei per imporre l’accento sui nomi propri sdruccioli. Altrimenti sbaglieremmo sempre quando dovessimo citare Àlice, un piccolo paese in Piemonte, oppure Àtena in Campania».
Anch’io, come Pierluigi Cervellati, sono molto deluso di ciò che sta avvenendo a Venezia, e in particolare nella città storica. Ma le ragioni della mia delusione sono diverse da quelle di Cervellati. Non rimpiango cioè il cosiddetto Piano Benevolo, ma la distruzione che con tale piano, e con la politica urbanistica di cui è l’espressione, si è fatta del precedente piano per la città storica. Distruzione e politica della quale è stato massimo artefice l’assessore Roberto D’Agostino, con cui hanno collaborato come consulenti Leonardo Benevolo e Pierluigi Cervellati.
Condivido pienamente la denuncia di Cervellati. Anch’io critico che si sia abbandonata “la pianificazione per il marketing”. Anch’io condanno la “proliferazione delle camere a ore, locande Bed&Breakfast, snack bar, paninerie e pizzerie” e quel che segue. E però…
Però, come risulta limpidamente da numerosi scritti di Luigi Scano (oggi ospitati in un’apposita cartella nel sito eddyburg.it, da tutti consultabile) una parte consistente dei danni al patrimonio storico della città, che oggi tutti lamentano, è stato causato proprio dall’operazione compiuta con il cosiddetto Piano Benevolo: cioè, con variante di PRG per la città antica, adottato dal comune nel 1996. La base materiale e formale di quel piano è stata costituita dal lavoro impostato e iniziato nel 1982 dalla giunta di sinistra (sindaco Mario Rigo, assessore Edoardo Salzano), interrotto nel 1985 (sindaci Nereo Laroni e poi Costante Degan), ripreso nel 1987 (sindaco Antonio Casellati, assessore Stefano Boato), concluso e reso pubblico nel 1990, e adottato nel 1992 (sindaco Ugo Bergamo, assessore Vittorio Salvagno).
Ho seguito il piano come diretto responsabile nella prima fase, poi come collaboratore esterno negli anni in cui, assessori Boato prima e Salvagno poi, gli uffici diretti da Edgarda Feletti, con la costante collaborazione di Scano, lo conclusero e portarono all’adozione. Come cittadino veneziano, partecipe delle vicende della sua città e direttore di eddyburg.it ho continuato a seguirne le vicende anche negli anni successivi: quello della sua utilizzazione e demolizione, di cui Scano ha puntualmente documentato e raccontato i passaggi.
La Giunta eletta nel 1993 (sindaco Massimo Cacciari), vittima della ventata di neoliberismo che in quegli anni soffiava impetuoso dalle Alpi al Lilibeo, iniziò subito a criticare (vorrei dire a demonizzare, perché nessuna argomentazione razionale fu proposta) il piano del 1992. Colpa del piano era quella di “imbalsamare la città”: la città “non è un monumento”, bisogna sciogliere i “lacci e laccioli che ostacolano l’attività economica”. Mai si è riusciti a dimostrare in che cosa quel piano ostacolasse le attività economiche coerenti con le caratteristiche strutturali e con la storia della città: dalle attività artigianali e quelle negate alla nautica, dalla ricerca e dalle produzioni immateriali alle attività legate al restauro e alla messa in valore dell’enorme patrimonio storico e culturale. Così, per deregolamentare e lasciare le mani libere a qualunque possibile affare sulla città, a qualunque possibile sfruttamento della sua capacità di richiamo nei confronti di qualsiasi operatore economico, le tavole originali del piano costruito nel decennio precedente furono riciclate sostituendone le bandelle e correggendone le legende, le norme furono emendate.
La direzione lungo la quale ci si mosse per adattare il piano alla nuova ideologia (laissez faire, laissez aller) fu perciò una soltanto: eliminare tutte quelle norme che avrebbero consentito di controllare, con un rigore commisurato alla forza delle pressioni sul mercato immobiliare, le destinazioni d’uso, tutelando in particolare la permanenza della “residenza ordinaria” in tutte le numerosissime unità edilizia la cui tipologia le destinava a questa utilizzazione, e promuovendo le attività economiche coerenti con la città. Ed è utile forse ricordare che tra i primi atti della Giunta che distrusse il piano del 1992 ci fu la revoca della deliberazione con la quale la Giunta precedente aveva recepito la Legge Mammì sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici. E che da quella medesima Giunta nacque la proposta di una metropolitana sublagunare da Tessera a Murano e all’Arsenale, utile solo ad aumentare l’afflusso del turismo “mordi e fuggi”: una proposta ancora oggi sul tappeto, contro la quale mi piacerebbe che Pierluigi Cervellati si schierasse con determinazione.
Qui l'articolo di Pierluigi Cervellati
ROMA Le ecodomeniche vanno bene come «spot a fini educativi, ma nella sostanza servono a poco», afferma l'urbanista Edoardo Salzano. Ritornare alla pianificazione delle città, ripensare il trasporto collettivo, rottamare i vecchi bus. Investire risorse, economiche, ma soprattutto politiche. Sono queste le vie da battere per dare soluzione ai problemi del traffico e dell'inquinamento. «D'Alema deve scendere in campo, non può lasciare la partita a Willer Bordon o a Edo Ronchi», cioè al Lavori pubblici o all'Ambiente. «Quanto ha investito, politicamente, l'ex premier Prodi nella rottamazione delle auto? Moltissimo. Ora tocca ai trasporti pubblici, è tempo di iniziare».
Tutti a piedi entusiasticamente. I cittadini manifestano in massa le attese per città più vivibili. Ritiene che queste iniziative servano?
«Vanno bene dal punto di vista strettamente propagandistico, educativo. Sono spot a fin di bene, pubblicità progresso per far capire che il problema c'è e va risolto con modi drastici. Però nella sostanza servono a poco».
Che cosa si dovrebbe fare?
«Intanto le città dovrebbero essere pianificate, bisognerebbe ripristinare la vecchia sana pianificazione urbanistica per cui si decide dove mettere le cose, dove dislocare le funzioni che attirano traffico, come mescolare tra loro le diverse funzioni della città e non separarle, e come organizzare un sistema efficiente di trasporti collettivi, pubblici e privati che siano. Ecco credo che si dovrebbe cominciare da qui. A Roma, per esempio, si era capito mezzo secolo fa, con lo Sdo (Sistema direzionale orientale) che aveva proprio questo significato, spostare i ministeri, i grandi attrattori di traffico in una zona dove traffico può essere ancora organizzato come un sistema della mobilità - strada più metropolitana - quindi liberare il centro storico. Ma lo Sdo è stato abbandonato, hanno vinto le lobby».
Sta dicendo che non sipianifica più?
«Da vent'anni nella maggior parte delle città e da parte della maggioranza delle forze politiche la pianificazione urbanistica è stata dimenticata. Sono stati privilegiati gli accordi con gli attori più potenti, la contrattazione caso per caso, i condoni, la deroga alla pianificazione invece che il suo rigoroso rispetto».
È un’analisi severa…
«Sì, sono severo. Si deve riprendere a pianificare seriamente, non con le chiacchiere, non promettendo cure del ferro e poi facendo gli accordi con le Ferrovie dello Stato per intasare ulteriormente la prima periferia come si è fatto a Roma. E questa è una vignetta .... ».
Ilministro all'Ambiente Ronchi afferma che ormai le ecodomeniche sono nel Dna di cittadini e rilancia: bisogna estendere le aree pedonalizzate. Può essere questa una valida misura per l'immediato visto che la pianificazione ha tempilunghi?
«A Napoli per esempio si è dimostrato che se si pedonalizza i problemi dei traffico si risolvono, non si aggravano, e non solo nelle zone pedonalizzate. Lì si è intervenuti in piazza Plebiscito che è il luogo di più intenso passaggio del traffico e adesso hanno pedonalizzato anche via Toledo. Certo, bisogna avere la capacità di resistere alle proteste dei commercianti che sono miopi: in Germania i commercianti lottano per avere le aree pedonali, in Italia lottano per non averle. È un indicatore del nostro grave ritardo, perciò c'è bisogno si un'azione di educazione».
«D'Alema, sicuramente, la presidenza del Consiglio dei ministri. Mi dispiace dargli un'altra responsabilità, ma è sua, non può affidarla a Willer Bordon (titolare dei Lavori pubblici, ndr) o a Edo Ronchi o a qualche altro rninistro. Si devono investire risorse, in primo luogo risorse politiche. Bisogna far capire che si sta facendo sul serio. E bisogna cominciare la rottamazione dei trasporti pubblici, dare soldi ai Comuni perché buttino via i vecchi sistemi di trasporto e ne facciano di efficienti. Quanto ha investito, politicamente, nella rottamazione delle auto l'ex premier Prodi? Moltissimo, è servito all’economia italiana, è servito alla Fiat ecc. Ora tocca a questo altro fronte. Guai a lasciarlo a Edo Ronchi».
Venezia è l'unica città d'Italia dove i mezzi di trasporto collettivi (qui si chiamano vaporetti) arrivano puntuali, al minuto. Dipende dal fatto che nei canali non ci sono gli ingorghi che caratterizzano le altre città. Venezia è l'unica città del mondo in cui tutto il centro è pedonale. E' l'unica "città senza automobili": realizza cioè l'obiettivo che un recentissimo rapporto della CEE propone a tutte le città europee.
L'antichissima Venezia, la città storica meglio conservata del mondo (nonostante i mille tentativi di renderla uguale alle altre città distrutte dal Novecento), è dunque una città modernissima: è anzi l'emblema, il modello, l'annuncio di un futuro possibile. L'aveva capito il grande architetto Le Corbusier, quando ha detto che a Venezia si era attuata da secoli la grande innovazione che bisognava sforzarsi d'introdurre, con l'urbanistica moderna, in tutte le città del futuro: la separazione del traffico pedonale (nelle calli) dal traffico meccanico (nei canali).
Venezia ha mille problemi. Aver trascurato per decenni la manutenzione della laguna, averne sottratto un terzo al libero flusso delle maree, aver scavato profonde autostrade marine per far approdare le petroliere oceaniche ha reso più grave e rischioso il fenomeno antico delle "acque alte". Il richiamo esercitato dalla città in tutto il mondo, la dimensione di massa assunta dal consumo, l'incapacità di sconfiggere il modello "mordi e fuggi" di un turismo sempre più vorace, distratto e devastatore, tutto ciò ha già prodotto una paurosa mutazione della struttura sociale della città, e un pesante logoramento delle sue stesse strutture fisiche.
Tra i mali di Venezia, non ultimo è quello di avere una classe dirigente, e una rappresentanza istituzionale, divenute sempre più provinciali e grette. Sempre più inconsapevoli della modernità implicita nel modello urbano storico di Venezia (un passato miracolosamente conservato che suggerisce un futuro possibile per tutto il mondo), e sempre più desiderose di adeguare la città agli stereotipi di una modernità orecchiata e fasulla: vuoi per miope interesse affaristico, vuoi per subordinazione culturale. La proposta di tenere a Venezia l'Expo del 2000 è stata la penultima espressione di questo clima. L'ultima, di cui in questi giorni si discute, è quella di realizzare a Venezia una "metropolitana sublagunare".
Secondo il progetto presentato dal sindaco (il d.c. Bergamo, sostenuto da una giunta quadripartita) la metropolitana dovrebbe, dall'area ferroviaria, immergersi nella laguna. Seguendo il percorso dei canali, dovrebbe toccare la Giudecca, le Zattere, l'isola di S,Giorgio, San Marco e la Riva degli Schiavoni, l'Arsenale, il Lido. In una fase successiva, attraversando il Ponte della Libertà, dovrebbe collegare Venezia a Mestre e alle altre città della Terraferma.
A chi dovrebbe servire questa mirabilia tecnologica? E a che cosa? Forse a rendere più rapide le comunicazioni con Mestre dei 10 mila abitanti del Lido? O a risparmiare qualche manciata di minuti nelle comunicazioni tra il quartiere residenziale di S.Elena e gli uffici attorno a Rialto? E' difficile immaginare che per raggiungere questi obiettivi qualcuno pensi di spendere i 768 miliardi oggi previsti (e generosamente promessi dal ministro dei trasporti uscente, il veneto Bernini).
Una cosa è certa, e l'hanno affermata con molta chiarezza sia Cesare De Piccoli, eurodeputato e consigliere comunale del Pds, sia Gianfranco Bettin, esponente dei Verdi e autore d'un bellissimo libro su Venezia. La proposta della metropolitana è un ulteriore tentativo di omologare Venezia ai canoni di un modernismo ormai in crisi in tutto il mondo. E' il colpo di coda dei fautori di quella stessa concezione, distruttrice della irripetibile singolarità di Venezia, che aveva issato la bandiera dell'Expo.
Come per l'Expo, così per la metropolitana ci si propone di "modernizzare" e "vitalizzare" Venezia adoperando strumenti idonei ad aggravare i mali di cui soffre. E infatti, perché sono state inventate le metropolitane, e dove funzionano? Sono state inventate per fornire una risposta di massa a una domanda di massa di spostamenti, e funzionano nelle aree dove una simile domanda esiste. Ebbene, per Venezia (come per altri centri storici) non gareggiamo tutti a lamentare, deprecare, denunciare i danni provocati dal turismo di massa?.Non è per questo che, in tutto il mondo, c'è stata una sollevazione che, in extremis, ha impedito l'Expo?
Prima ancora di analizzare, verificare, valutare tecnicamente i modi, le tecnologie, le condizioni, della metropolitana a Venezia, occorre giudicarla per quello che è. Ed essa è certamente una proposta volta a indurre nella città una poderosa espansione di quei flussi di visita generici, non programmati né programmabili (insomma, il turismo "mordi e fuggi") che sono l'esatto opposto dell'intelligente amore, della consapevole conoscenza, dell'attento e rispettoso godimento di un ambiente ricco di valori e d'insegnamenti che dovrebbero caratterizzare un turismo degno di Venezia.
E' una proposta omogenea al turismo così com'è oggi. Ed è allora anche contraddittoria con uno sviluppo economico "sostenibile": capace cioè di rinunciare a divorare il capitale del futuro per guadagnare oggi un pugno di lire. Un simile sviluppo richiederebbe che si sapesse interrompere oggi il proliferare del turismo di massa come condizione per poter attrarre attività economiche "avanzate". E richiederebbe che si fosse capaci di investire (intelligenza, ricerca, lavoro, capitali) per sperimentare modi di trasporto modernamente capaci di utilizzare le infinite vie d'acqua, che di Venezia sono una ricchezza.
Si vincerà a Venezia, questa volta, la battaglia per salvare Venezia? Oppure bisognerà ancora una volta mobilitare uno schieramento nazionale e internazionale? La città sta discutendo. La decisione dovrà essere presa il 21 maggio, data entro la quale si dovrà trasmettere a Roma la domanda di finanziamento.
Le cause della corruzione politica sono molte. Alcune affondano nella natura dell'uomo, altre nella storia dei nostri anni. E' a queste ultime che deve rivolgersi la riflessione politica, perché é su di esse che possiamo agire per rimuoverle ed eliminare così, o almeno sensibilmente ridurre, l'arbitrio, l'ingiustizia, lo spreco, la distruzione di valori essenziali per la convivenza civile che la corruzione politica determina.
Una causa rilevante l'ha individuata Giuliano Amato, nel suo programma di governo, là dove ha testualmente ripreso una frase della proposta politica presentata da Achille Occhetto al Presidente della Repubblica [1]. Il Primo ministro (e il Segretario del Pds) hanno detto che é necessario un impegno del Governo per la riforma delle norme che riguardano "regime giuridico dei suoli e indennità di esproprio, per consentire alle amministrazioni locali di superare definitivamente la pratica dell'urbanistica contrattata".
E' la prima volta, dopo decenni, che il capo del Governo, su sollecitazione del leader del maggior partito d'opposizione, s'impegna ad assegnare priorità alla riforma delle norme per il governo del territorio. Ed é la prima volta che il termine "urbanistica contrattata" entra nel linguaggio politico ai livelli più rappresentativi, e che la "pratica" che quel termine esprime viene additata come qualcosa da contrastare, o almeno "superare".Era necessario un trauma per giungere a tanto: il trauma determinato dal fatto che non solo faccendieri e palazzinari, ma anche costruttori seri, presidenti e amministratori delegati di prestigiose società, e soprattutto assessori, sindaci, dirigenti politici influenti, deputati, e perfino potenti ministri ed ex ministri, sono stati acchiappati, da un pugno di magistrati coraggiosi, nella rete del codice penale.
Era necessario, insomma, che esplodesse "Tangentopoli". Ma che c'entra con Tangentopoli l'"urbanistica contrattata"? Domandiamoci innanzitutto che cosa questa espressione significa.
L'"urbanistica contrattata" é la sostituzione, a un sistemadiregole valide ergaomnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazionediretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità.
Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.
Ci fu, nella storia della Repubblica italiana, un altro periodo in cui la subordinazione delle scelte urbanistiche agli interessi privati apparve come uno scandalo. Fu negli anni in cui le scelte di politica economica e sociale compiute per la ricostruzione postbellica (lasciare le briglie sciolte sul collo dell'edilizia privata) provocarono lo sfrenato divampare della speculazione fondiaria ed edilizia. Per ricordare quei tempi, basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60 entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo memorabile film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dall' Espresso e dagli "Amici del Mondo" e indagato da Antonio Cederna, da Italo Insolera e da Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.
Non é forse allora l'urbanistica contrattata qualcosa di simile a quello che caratterizzò quegli anni? A prima vista, potrebbe sembrare. L'urbanistica contrattata può insomma apparire come una forma semplicemente ammodernata della vecchia, tradizionale speculazione fondiaria. (Così come, del resto, l'intreccio tra politica e affari affiorato a partire dalle iniziative del giudice Di Pietro sembra ad alcuni solo l'ennesima manifestazione della millenaria vicenda degli amministratori pubblici che si lasciano corrompere). Ciò che vorrei sostenere invece é che l'urbanistica contrattata é qualcosa non solo di nuovo e diverso rispetto alla vecchia e nota speculazione, ma é qualcosa di infinitamente più grave, perché più penetranti e pervasivi sono i suoi effetti e le distorsioni che induce (che ha indotto) sull'intero ordinamento delle istituzioni e della società.
Per convincersene, basta pensare sulla differenza tra le reazioni sociali all'una e all'altra forma (quella di ieri e quella di oggi) della subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. Trenta e quarant'anni fa la speculazione fondiaria ed edilizia appariva immediatamente come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Oggi, l'urbanistica contrattata é invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei comportamenti: c'é da credere che il termine, se non fosse esplosa Tangentopoli, sarebbe comparso nelle prossime edizioni dei manuali di tecnica urbanistica o di diritto amministrativo. Ieri, insomma, si trattava di violazioni del sistema di regole dato; oggi, della sostituzione, al sistema di regole date, di un nuovo e perverso controsistema di regole. Ieri, erano infrazioni e violazioni puntuali al'organizzazione istituzionale dei poteri; oggi, é la costruzione di un contropotere.
Ma la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno esser compresi meglio ragionando sui suoi meccanismi: sugli "strumenti urbanistici" di Tangentopoli.
L'urbanistica contrattata é in primo luogo trionfo della discrezionalità. Perché una prassi discrezionale possa affermarsi, é necessario che il sistema di regole cui essa si sostituisce venga preliminarmente screditato; il tentativo (ahinoi largamente riuscito) di screditare la pianificazione urbanistica e, più in generale, le regole del governo del territorio, é infatti il filo rosso che percorre gli anni dell'urbanistica contrattata.
Ma poiché la pubblica amministrazione non può rinunciare a ogni regola, non può ridursi a mera discrezionalità, ecco che, accanto alla demolizione delle regole preesistenti, é poi necessario foggiarsi qualche nuova regoletta: qualche istituto o norma che possa coprire la discrezionalità, darle forma e apparenza giuridica. Le regolette della deroga per pubblica utilità, e dell'estensione oltre ogni limite della concessione di opere, sono stati gli strumenti che hanno accompagnato l'urbanistica contrattata, e con essa hanno costruito il percorso che ha condotto a Tangentopoli.
Si cominciò con una legge del 1978, approvata tra Capodanno e la Befana, quando i parlamentari erano ancora impegnati nella digestione delle feste. Una leggina transitoria (doveva durare solo tre anni, ma fu prorogata silenziosamente di triennio in triennio fino al 1987, e poi resa permanente) consentì che le opere pubbliche fossero eseguite anche se in contrasto con gli strumenti urbanistici. Per poter derogare al piano regolatore e costruire là dove esso non lo consentiva, o realizzare, per esempio, un parcheggio o un ospedale là dove erano invece previsti un parco pubblico o una scuola, bastava che il relativo progetto fosse approvato dal Consiglio comunale [2].
Pochi anni dopo, nel 1980 e nel 1982, due leggi finalizzate alla realizzazione di edilizia abitativa pubblica cominciarono a introdurre la concessione in un senso che aveva poco a che fare con l'originario significato di questo istituto [3]. Fino ad allora, la concessione era stata utilizzata per la realizzazione di opere che costituivano un vero e proprio servizio pubblico o di pubblico interesse, del quale era necessaria una gestione tecnica (per farle funzionare e mantenerle in efficienza) ed economica (per rientrare nelle spese che era costata la loro realizzazione). Ferrovie e autostrade sono stati gli esempi classici della concessione in Italia. Nell'uno e nell'altro caso, affidarle in concessione a imprese private doveva significare mobilitare, per la loro realizzazione, risorse del mercato finanziario privato, significava consentire alle imprese realizzatrici di rientrare nelle spese sostenute incamerando le entrate connesse alla gestione del servizio (i biglietti dei treni e i pedaggi autostradali), e significava infine garantire alla pubblica amministrazione che la realizzazione tecnica delle opere fosse corretta, poiché era alle stesse imprese realizzatrici che spettava l'onere della manutenzione. Del resto, era nelle mani del pubblico che rimanevano le decisioni relative all'impostazione (politica, tecnica, amministrativa) dell'opera, poiché era ad esso che restavano affidate le scelte d'impostazione, fino alla redazione del progetto di massima delle opere.
E' evidente che utilizzare l'istituto della concessione, come con le leggi ora citate si é iniziato a fare, per la realizzazione di alloggi di proprietà pubblica, gestiti dai comuni o dagli Istituti per le case popolari o dagli altri soggetti previsti dalla legislazione in materia ha costituito l'inizio di una distorsione di uno strumento di per sé non perverso. La distorsione si é accresciuta poi quando si é esteso (come é avvenuto nel 1987 [4]) l'impiego della concessione a ogni opera comunque di competenza pubblica, quando si sono affidati e ai concessionari anche le competenze di redazione degli studi preliminari e della progettazione di massima (e cioè la determinazione della qualità del prodotto), e quando infine si sono affidate al concessionario le competenze della direzione dei lavori.
Il massimo della perversione si é peraltro raggiunto là dove ai concessionari si é di fatto assegnato addirittura il compito di procacciare i finanziamenti per la realizzazione delle opere. E' quello che succede, senza sollevare scandalo eccessivo, nel Mezzogiorno, proprio ad opera dell'azione statale.
Con la legge di riordino dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno [5] si apre infatti la strada "all'iniziativa progettuale e programmatoria di tecnostrutture aziendali e professionali che si sostituiscono, di fatto, alle istituzioni elettive, nel quadro di una interpretazione lottizzatoria dei rapporti tra le forze politiche e la distribuzione ed utilizzazione delle risorse finanziarie" [6]. In definitiva, "sono così le aziende a redigere i progetti sui quali cercheranno esse stesse i 'canali' giusti per ottenere il finanziamento, in cambio dell'affidamento dell'esecuzione e, talvolta, della gestione dell'opera"[7]. E assai più della qualità delle opere, della loro utilità sociale, della loro priorità, contano le "entrature e le "relazioni.
Ma a quel punto, l'unico ruolo che rimane al potere politico, delegati tutti gli altri al potere economico, é quello di "rappresentare il popolo", cingendo magari la fascia tricolore. Sicché in definitiva la tangente si configura come il compenso per il servizio (di rappresentanza e copertura) reso: uno stipendio.
E' sempre agli inizi degli anni '80 che si colloca il più dispiegato contributo alla delegittimazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico. Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formulazioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una controllata sanatoria dell'abusivismo pregresso. Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Governo decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perseguito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [8]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, come una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzionalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di sinistra, aperta anche al futuro. Un incentivo all'abusivismo, insomma, anziché un deterrente [9].
Per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianificazione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella pianificazione. E' proprio questo ciò che avvenne, nel corso del primo quinquennio degli anni '80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnarono la discussione della legge. In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". L'urbanistica é un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo é nato e si é sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [10] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti é nato e si é rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.
Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato" [11]. Una parte consistente dell'opinione pubblica era giunta ormai a considerare l'abusivismo come qualcosa che non é un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pagare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a saldarvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abusivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. "Sicché, in definitiva, l'abusivismo appariva come qualcosa di assimilabile a una disobbedienza civile nei confronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si proponeva di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica" [12].
Non sono soltanto i lottizzatori e costruttori abusivi i nuovi soggetti che intervengono attivamente nei processi di urbanizzazione degli anni '80. Alle imprese tradizionali, agli abusivi, agli enti pubblici tendono ad affiancarsi, sostituendo questi ultimi, le grandi imprese. Già ai tempi della discussione delle leggi per la casa, negli anni tra il '70 e il '78, queste avevano tentato di presentarsi alla ribalta come soggetti, "di alto profilo organizzativo e di elevata capacità economica", capaci di sostituire lo Stato nella realizzazione, progettazione e gestione non di singole opere, ma di interi "sistemi urbani". Il pretesto, e l'alibi, erano costituiti dal divario tra le emergenti necessità sociali e le condizioni della pubblica amministrazione. Quest'ultima, si diceva, richiede per il suo adeguamento tempi non compatibili con l'urgenza di provvedere (alle case, alle autostrade, ai tribunali, alle poste ecc.ecc.). In attesa della sua riforma - dicevano allora i propugnatori dello "Stato in appalto" - , affidiamo dunque alle grandi imprese i compiti di programmare, pianificare, progettare, costruire, gestire.
Il nesso tra degrado della pubblica amministrazione (e in particolare dei suoi corpi tecnici, a tutti i livelli) e delega di poteri pubblici alle grandi imprese meriterebbe una indagine attenta. Certo é che, nella nostra storia recente, quel nesso si é rivelato un vero circolo vizioso: il degrado degli strumenti dell'azione pubblica costituiva l'alibi per la delega di competenze, quest'ultima deprimeva ulteriormente le strutture pubbliche accrescendo così la credibilità di nuove deleghe e così via, allontanando sempre più il funzionamento del sistema dal modello costituzionale.
La linea dello "Stato in appalto" fu sconfitta negli anni '70, in Parlamento, da una proposta "istituzionalista", che correttamente attribuiva a una equilibrata composizione delle competenze dei diversi livelli istituzionali le funzioni di programmazione territoriale degli interventi nell'edilizia[13]. Ma le parziali riforme di quegli anni non furono accompagnate da un'azione politica coerente, né furono completate in alcuni aspetti essenziali del quadro necessario per esercitare un efficace governo del territorio. E' anche per questo che, a metà degli anni'80, riemerge qualcosa che sembrava sepolto.
Nel marzo del 1987 che Luigi Lucchini, allora presidente della Confindustria, aprendo l'assemblea della sua organizzazione afferma che lo Stato deve rilanciare la spesa per opere pubbliche, smobilizzare "l'ingente patrimonio demaniale non più funzionale alle esigenze", agevolare l'afflusso del risparmio privato alle "grandi opere pubbliche" [14]. La stampa dell'epoca pone in relazione queste richieste del leader degli industriali con le iniziative che stavano avvenendo in quei mesi. Il processo di riorganizzazione delle grandi imprese non si limitava più alla formazione di episodici consorzi di imprese del settore. Si puntava più in alto: a organizzarsi per un poderoso rilancio degli investimenti pubblici, reso possibile dal risparmio conseguito con la crisi del petrolio, che avrebbe potuto compensare il venir meno della spinta alle esportazioni.
Già al potente gruppo Italstat, ferreamente diretto da Ettore Barnabei (arrestato per lo scandalo dei "fondi neri" dell'Iri, e poi rilasciato per un'amnistia "confezionata apposta per lui" [15] ), si erano affiancati due poderosi consorzi: le Grandi opere (Rendo, Di Penta, Gambogi, Del Favero, Maltauro, Pizzarotti, Romagnoli, Segesta) e la Argo (Impresit, Astaldi, Cogefar, Girola, Federici, Recchi, Lodigiani, Vianini).
Accanto a questi, si costituisce l'Igi, l'Istituto per gli studi e la promozione delle grandi infrastrutture, presieduto da Giuseppe Guarino (poi più volte ministro). Nell'Igi ci si propone di realizzare la saldatura organica tra le tre grandi componenti del mondo imprenditoriale: le imprese private, quelle di capitale pubblico, quelle cooperative, rappresentate ciascuna da uno dei tre vicepresidenti. All'Istituto partecipano trentasei tra le maggiori imprese italiane. Interessante la dichiarata finalità sociale: "accelerare la realizzazione delle grandi infrastrutture, attuare un migliore e più attento uso del territorio, stimolare un intervento per il mezzogiorno, promuovere l'attuazione di un sistema delle concessioni che superi le attuali difficoltà delle procedure".
La stampa parla più volte di una nuova potente "lobby del mattone". Altri mettono in evidenza un aspetto preoccupante. Afferma la rivista dell'Istituto nazionale di urbanistica: "Una simile nuova potenza si pone direttamente al livello dei poteri centrali dello Stato: suoi interlocutori non sono le regioni e i comuni, ma direttamente il governo (e le segreterie dei partiti). Eppure esse si propongono di intervenire nelle scelte che determinano il futuro dell'assetto delle città e del territorio. E tra i suoi obiettivi non c'é solo la 'spartizione della torta', ma lo scavalcamento dei metodi e dei procedimenti della pianificazione e la sostituzione ad essi di un potere direttamente gestito dalle aziende" [16]
Già lo si era visto con i primi passi sulla via della "de-pianificazione": le vele dei distruttori dell'urbanistica si gonfiano col vento dell'emergenza. Negli anni '78-'82 era stata "l'emergenza casa", che aveva giustificato le prime deroghe delle leggi di quegli anni e aveva in qualche modo contribuito anche ad alimentare il più esasperato condonismo dell'abusivismo (lo slogan era: "che senso ha prevedere la distruzione di casette abusive se c'é una così forte carenza di case?"). Ma altre "emergenze" si susseguono, e quando non sono causate da calamità naturali e altri eventi imprevedibili, si inventano con italica fantasia. Terremoti, alluvioni, alghe, manifestazioni sportive, esposizioni, celebrazioni, esigenze di ordine pubblico: tutto fa brodo per gli sregolatori.
Tra le "emergenze inventate" va annoverata la calamità territoriale dei Mondiali di calcio. Dal maggio del 1984 si sapeva che la grande kermesse agonistica si sarebbe tenuta in Italia nel 1990, sei anni dopo. Tutto il tempo di provvedere, quindi: ma allora, non sarebbe stata un'emergenza! E infatti si dorme per tre anni. Ci si sveglia nel 1987, e si approva un decreto, dominato dall'urgenza [17]. Questo prevede, nella sostanza, due cose: soldi per opere d'ogni genere, e facoltà di derogare dalle procedure urbanistiche.
Lo strumento impiegato per derogare é la "conferenza". Una riunione di rappresentanti di tutti gli enti interessati, vuoi per competenza tecnica vuoi per obbligo di esprimere pareri o accertare conformità, esamina frettolosamente i progetti delle opere e li approva, anche se sono in deroga agli strumenti urbanistici. Un rappresentante del comune presente a una riunione, in cui in mezza giornata si esaminano decine di progetti, col suo "si" o, molto più raramente, col suo "no", scavalca la discussione dl Consiglio comunale, la partecipazione dei quartieri, il parere della cittadinanza: senza alcuna pubblicità, decide per tutti su opere che, in molti casi, condizionano pesantemente il futuro delle città coinvolte [18].
Osserva Luigi Scano: "L'evento calcistico viene cupidamente visto come una nuova occasione per riproporre un vecchio e adusato gioco: prendere le mosse da una circostanza 'straordinaria' per attivare ingenti investimenti, totalmente o prevalentemente pubblici, essenzialmente nel comparto delle opere edificatorie, assumendo l'urgenza e la ristrettezza dei tempi disponibili, l'assenza di coerenti e funzionali previsioni sedimentate negli strumenti di pianificazione e di programmazione, e anche la farraginosità (presunta, e anche reale) delle ordinarie disposizioni di merito, le carenze dei sistemi decisionali politici e delle amministrazioni, come ragioni ('e che ragioni forti!', direbbe Leporello) per sospendere l'efficacia del maggior numero possibile di 'regole'" [19].
I Mondiali fanno rapidamente scuola. Le procedure derogatorie si allargano via via, con ogni legge o leggina che riguarda, direttamente o indirettamente, il governo del territorio. Tra gli esempi più significativi, la legge per le mucillaggini [20], i provvedimenti per le celebrazioni di Cristoforo Colombo [21] e i nuovi provvedimenti speciali per la salvaguardia di Venezia. E' sulle vicende della città lagunare (uno dei bunker di Tangentopoli colpita dalla Magistratura) che é utile soffermarsi.
Nel bene e nel male, Venezia é stata spesso un laboratorio di formule politiche e di istituzioni e procedimenti. Negli anni '70, con la legge scaturita dagli eventi calamitosi del 1966 [22], si cerca di sperimentare la pianificazione di "livello intermedio", il risanamento dell'edilizia storica senza espulsione di abitanti, lo "sportello unico" per l'approvazione dei progetti, l'alleanza programmatica tra Dc, Psi e Pci. Negli anni '80 si sperimentano due istituti, tra loro strettamente connessi nella recente esperienza italiana, tipici della nascente Tangentopoli: i consorzi di imprese e la concessione.
Il consorzio di imprese si é rivelato, in questi mesi di riflessioni giudiziarie, essere diventato lo strumento ideale per evitare gli "inconvenienti" (per le imprese) della concorrenza, per tenere con ciò stesso alti per la collettività i costi della realizzazione delle opere pubbliche, per aumentare infine (in virtù delle "sinergie", parola divenuta alla moda proprio in questi anni) la forza di pressione diretta a ottenere dallo Stato consistenti finanziamenti per i grandi progetti volta per volta decisi. La concessione, cui si é già accennato, é diventata lo strumento per la delega alle aziende private a capitale privato, cooperativo e pubblico (la presenza delle tre componenti é stata sempre considerata necessaria per ottenere una copertura politica completa) della progettazione e realizzazione di grandi progetti di trasformazione territoriale. La connessione tra consorzi e concessione (realizzata mediante l'assegnazione ai consorzi della concessione di opere e/o di servizi) ha costituito infine lo strumento ideale per la simbiosi, in molti casi malavitosa, tra imprenditori, in molti casi corruttori, e politici, in molti casi concussori.
A Venezia le esperienze si sono snodate, in rapida successione, a partire dal 1984, ruotando attorno a tre personaggi di diverso (ma sempre notevole) spessore politico, tutti e tre inquisiti dalla Magistratura in relazione ai noti eventi: Gianni De Michelis, Carlo Bernini e Franco Cremonese. Leader indiscusso del Psi veneziano il primo e due volte ministro, prima alle Partecipazioni statali poi agli Esteri, attualmente vicesegretario del suo partito; leader della Dc veneta dopo Toni Bisaglia, presidente della Regione e poi ministro per i Trasporti il secondo; presidente della Regione dopo Bernini, infine, il terzo.
Tutto é cominciato, cronologicamente, con le modifiche alla legislazione speciale per Venezia apportate con una legge del 1984 [23]: nello stesso anno, quindi, del condono dell'abusivismo edilizio. La nuova legge affida a un consorzio di imprese, denominato Consorzio Venezia Nuova e costituito dal fior fiore delle imprese italiane di costruzioni e di ingegneria, gli studi, la progettazione e l'esecuzione delle opere di competenza dello Stato: opere altamente complesse, e altrettanto costose, che si ritengono necessarie per ripristinare la morfologia lagunare e regolare le maree [24].
Una successiva legge per Venezia [25] si pone l'obiettivo di affrontare in modo finalmente efficace il problema del disinquinamento della laguna, intervenendo organicamente sull'intero bacino scolante con le opere di competenza della Regione: naturalmente, affidando a un apposito consorzio i compiti di progettare ed eseguire le ingenti opere necessarie. Ma é, programmaticamente, un consorzio diverso dal primo, per la sola ragione che i patrons dorotei del Veneto non si fidano del colore politico prevalente attribuito, a ragione o a torto, al Consorzio Venezia Nuova. Il nuovo organismo viene costituito; senza troppa fantasia, viene denominato Consorzio Venezia Disinquinamento: un nome che entrerà, nella torrida estate del 1992, nelle cronache giudiziarie.
Due consorzi dunque, e due concessioni, in relazione alla stessa laguna: l'uno sul solo invaso lagunare, l'altro sull'intero bacino scolante. Come si può pensare però che disinquinamento e riassetto morfologico della medesima laguna, affidati a due soggetti diversi, possano procedere senza un opportuno coordinamento? Ecco allora che, dopo lunghe e animate discussioni "politiche", interviene provvidenzialmente una ulteriore legge [26]. Questa dispone che, per coordinare tra loro i programmi e l'operato della longa manus del Ministero dei lavori pubblici (primo consorzio) con quella della Regione (secondo consorzio). intervenga il Ministero dell'Ambiente. Con quale strumento? Lo spirito dei tempi lo impone. Naturalmente, lo strumento non può essere una struttura pubblica: dovrà essere anch'esso un consorzio, il terzo.
I giochi sembrerebbero finiti. Non é così. Tra le cose urgenti per Venezia c'é la necessità di riprendere il sistematico lavoro di manutenzione dei rii e canali interni, occlusi dal fango e dalle immondizie depositate sul fondo dopo un secolo d'incuria; contemporaneamente, riprendendo anche qui un'antica tradizione abbandonata, si potranno risanare le murature di fondazione dei palazzi. La competenza é del Comune (i soldi, come sempre, sono del contribuente). Ma il Comune non compare alle spalle di nessuno dei tre consorzi fin qui costituiti. Ecco allora che ci si adopera per costituire un quarto consorzio, formato da un accorto dosaggio di partecipazioni incrociate dei componenti degli altri tre consorzi. Si formerebbe così un ideale quadrivio, nel quale far convergere sinergie, finanziamenti, appalti (e, se occorre, tangenti). Le iniziative della Magistratura hanno suggerito di sospendere la formazione del terzo e del quarto soggetto.
Non sempre la costituzione di consorzi é promossa da una iniziativa legislativa, o comunque da una (almeno apparente) promozione pubblica. A volte, la partenza é assolutamente privatistica, anche se, come vedremo, con singolari e discutibili intrecci tra pubblico e privato. A volte, sono le aziende che si organizzano, "inventano" un progetto su cui si propongono di attirare l'opinione pubblica e i "decisori" politici, per ottenere risorse da gestire. A volte, insomma, é l'offerta che si dà da fare per creare la domanda.
Anche qui, Venetia docet. Il caso più singolare é la vicenda della tentata (secondo altri, minacciata) Expo Del Terzo Millennio. Il sasso in piccionaia lo lanciò Gianni De Michelis, nel 1984, in un'intervista giornalistica. Sulla sua idea, e sulle prospettive che essa faceva balenare, si costituì un consorzio di imprese, autodefinitosi Venezia Expo. Lo componeva il solito pool di imprese, molte delle quali autorevoli, potenti, e alcune nella condizione del "privato vicino al pubblico" [27]. L'obiettivo era di sollecitare il Governo italiano a premere perché l'apposito Ufficio internazionale delle esposizioni (il Bie) decidesse di tenere a Venezia la prestigiosa Esposizione universale nell'anno 2000: naturalmente candidandosi a gestire i consistenti flussi finanziari.
Il Governo, naturalmente, si impegnò, con le dichiarazioni e i conseguenti atti di due Presidenti del Consiglio, Craxi e Andreotti. La cosa sembrava fatta. Il gigantesco battage pubblicitario, e le sofisticate operazioni di cattura del consenso dell'opinione pubblica, sembravano essere lì lì per far assegnare all'Italia (e a Venezia) l'onere di organizzare la grande fiera e di realizzare, con una ingentissima spesa mai esattamente quantificata, le costose opere necessarie. La stampa di quei mesi informa che le ambasciate italiane, soprattutto quelle nei paesi che ricevevano, o speravano di ricevere, assistenza dall'erario tramite la Farnesina, sono sollecitate ad adoperarsi per convincere i relativi governi a votare per la soluzione veneziana alla riunione del Bie che deve decidere tra le candidature concorrenti (Ministro per gli Affari esteri era all'epoca De Michelis).
Ma si era messa in moto, nel frattempo, la reazione di chi, temendo l'effetto perverso che una Expo a Venezia avrebbe provocato sul delicato tessuto fisico e sociale della città, contrastava l'iniziativa. Essa coinvolse la più qualificata opinione pubblica nazionale e internazionale, e finì per determinare il pronunciamento sfavorevole del Parlamento europeo e di quello italiano. Il pallone si sgonfiò. Ma il Consorzio rimase in piedi, é ancora vivo in attesa di costruire nuove occasioni d'affari: quello dell'Expo é fallito solo per un soffio, non tanto da spegnere le speranze per il futuro. E comunque, la vicenda é servita per dimostrare come le "sinergie" tra pubblico e privato, costruite spavaldamente fuori dalle regole dell'ufficialità (ma utilizzando senza pregiudizi le leve del potere) possono produrre, per le imprese, e per chi con esse si allea o strumentalmente le utilizza, interessanti prospettive di lavoro.
Concessioni, consorzi di imprese, delega di poteri, nuovi intrecci tra pubblico e privato che consentano di "sveltire", "snellire", "semplificare", "rendere più fluidi i percorsi", "realizzare fruttuose sinergie". Nella costruzione e nell'impiego dello strumentario dell'Italia "moderna" ci sono indubbiamente motivazioni rispettabili (ancorché, nel merito, spesso mal poste e mal risolte). Ma c'é anche, e vorrei dire soprattutto, la formazione dell'ambiente più propizio all'intreccio malavitoso tra i pubblici poteri e le risorse collettive da una parte, e gli interessi privati di potenti soggetti economici e influenti soggetti politici dall'altra parte.
Del resto, per quanto riguarda i due attrezzi di cui ci siamo ora occupati (la concessione e i consorzi) la Comunità economica europea ha da tempo raccomandato di limitare e circondare di garanzie l'istituto della concessione, considerato suscettibile di provocare effetti perversi per l'interesse pubblico e per il corretto funzionamento del mercato. Puntare, da parte della pubblica amministrazione, sull'accordo preventivo tra imprese, tramite la formazione di consorzi che tendano a comprendere al loro interno tutti i potenziali concorrenti, indubbiamente consente di controllare meglio l'esito degli appalti. Non però nel senso di spuntare prezzi migliori, quali sarebbero quelli determinati da una "libera concorrenza", ma in quello di garantire meglio, ponendosi al riparo dalla concorrenza, che i prezzi siano tali da consentire il passaggio di mano di robuste tangenti.
Da questo punto di vista, la panoramica finora aperta su Tangentopoli ha rivelato davvero un inquietante intreccio di responsabilità, di colpe e di tradimenti. Da una parte, i concussori: i politici, in teoria (e nei rotondi discorsi pronunciati nelle cerimonie e sul video) gli esponenti dell'espressione democratica degli interessi generali, che tradiscono il loro mandato, e quindi la moralità del loro ruolo sociale, barattando l'interesse collettivo per una lucrosa sistemazione dei propri interessi economici e/o di potere. Dall'altro lato, i corruttori: gli imprenditori, in teoria (e nelle chiacchiere dei salotti come nei sussiegosi editoriali sui giornali a loto più vicini) i depositari e gli interpreti delle virtù del capitalismo (e occorre dire, in questi chiari di luna, della sua superiorità storica sul socialismo), che gettano via mercato e concorrenza per acquisire sicure rendite di posizione. A un bel connubio davvero era affidata la "modernizzazione" del paese!
La distinzione dei ruoli tra pubblico e privato quale premessa per i rapporti economici tra i soggetti dell'una e dell'altra categoria, é indubbiamente una base indispensabile per il corretto funzionamento di una democrazia moderna. Più antica ancora é la consapevolezza della necessità della distinzione tra pubblico e privato nella gestione dell'urbanizzazione del territorio. Qui la subordinazione degli interessi economici privati agli interessi della città in quanto tale é riconosciuta, fin dai "secoli bui" del medioevo europeo, come la condizione perché la città cresca e si trasformi libera, bella e funzionale [28].
In un'epoca dominata dall'individualismo proprietario, quale é quella che caratterizza la lunga fase dell'egemonia capitalistico-borghese fino alle sue più recenti mutazioni ed espressioni, quella subordinazione ha avuto bisogno di specifici strumenti tecnici perché le regole dell'individualismo proprietario non prevalessero nella città: dunque, là dove ciò - se fosse avvenuto - avrebbe prodotto un insostenibile caos. Per imprimere, all'azione dei singoli proprietari e costruttori, una regola d'insieme volta agli interessi collettivi, si é inventato nella seconda metà del XIX secolo il piano regolatore; e nei primi decenni del XX secolo si é compreso che era necessario accompagnare il piano con gli strumenti che rendano possibile una politica fondiaria non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria, e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare.
L'Italia é arrivata abbastanza tardi, rispetto agli altri paesi europei, a generalizzare la pianificazione urbanistica. Una buona legge fu quella approvata nel 1942, cinquant'anni fa, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni [29]. Essa però rimase inutilizzata per molti anni, finché gli scandali esplosi all'inizio degli anni '60, e le stesse esigenze di efficienza del sistema produttivo, non indussero a generalizzarne l'applicazione [30]. Quando questo avvenne, la Corte costituzionale, con una serie di sentenze pronunciate a partire dal 1968, fece emergere un nodo di fondo irrisolto: la contraddizione tra i "vincoli", e soprattutto quelli "di tipo espropriativo", necessariamente posti dalla pianificazione urbanistica alla utilizzazione edilizia della proprietà privata, e i princìpi ordinatori del sistema giuridico italiano.
Sono passati quasi venticinque anni, e il nodo non é stato ancora sciolto [31]. La legittimità dei vincoli urbanistici e delle indennità espropriative, e quindi della stessa pianificazione, sono messe in dubbio. E' chiaro che questo fornisce alibi consistenti a chi vuole "regolare" l'uso del territorio a partire non dagli interessi della collettività, ma da quelli dei proprietari.
Nel corso degli anni '70 si era compiuto, in particolare a Roma, uno sforzo consistente per raggiungere un obiettivo di grandissimo interesse politico, economico, sociale: rompere la saldatura tra impresa edilizia e speculazione fondiaria, tra profitto e rendita. Tagliando faticosamente con una tradizione che vedeva, nel bilancio delle attività edilizie, prevalere massicciamente gli utili della speculazione su quelli dell'impresa produttiva consistenti gruppi di imprenditori avevano scelto di orientare la loro attività alla realizzazione di edifici sulle aree preventivamente espropriate dal Comune. Ciò era stato possibile utilizzando con intelligenza politica lo strumento costituito dalla legge 167/1962 e trovando una sinergia (questa volta virtuosa) tra la volontà dell'amministrazione di sinistra di realizzare alloggi senza pagare prezzi elevati alla rendita, e la disponibilità di alcune componenti dell'Associazione dei costruttori di ammodernare la categoria avviandola su una strada nettamente "imprenditoriale" [32].
A Roma, ma non soltanto a Roma: in tutte le zone del paese dove il governo del territorio adopera gli strumenti forniti dalle leggi urbanistiche degli anni '60 e '70 (la maggior parte dell'Italia centrale e settentrionale) si cominciano ad affermare realtà imprenditoriali "pulite", che operano (naturalmente senza rimetterci) nelle aree preventivamente espropriate dai comuni, per interventi edilizi in cui i prezzi di vendita sono convenzionati con l'Amministrazione comunale: a carte scoperte.
La tendenza s'inverte nettamente nel decennio successivo. I piani della legge 167/1962 sono svuotati: prima c'era l'esproprio preventivo, adesso sono i proprietari i favoriti nell'edificazione. Avere il "vincolo" del piano 167 sul proprio terreno non é più una penalizzazione, é un premio. Sembrano frustrati i tentativi di affrancare il profitto dalla rendita: quest'ultima riprende il sopravvento. E le cronache urbanistiche degli anni '80 sono costellate da progetti in cui l'iniziativa é assunta da grandi gruppi economici in cui il motore non é l'attività imprenditoriale, ma la "valorizzazione immobiliare".Ciò che interessa non é tanto realizzare, quanto "mettere in portafoglio" il valore di un'area che, da agricola, o industriale (magari coperta da fabbriche obsolete) diventa edificabile per destinazioni ricche: prevale il terziario, privato e pubblico. E il Comune va a rimorchio, mette lo spolverino a decisioni già prese, copre e avalla affari altrui.
Succede dappertutto. Nelle città grandi e in quelle medie e piccole. Nei centri storici (come con la proposta Neo Napoli, sponsorizzata da Paolo Cirino Pomicino) e negli ambienti naturali più delicati e pregevoli (come nella Baia di Sistiana, nel comune di Duino Aurisina). Nelle zone industriali dismesse (come il Lingotto a Torino, la Bicocca e l'Alfa-Portello a Milano, la Zanussi a Pordenone, l'Italsider a Napoli, la Fiat-Novoli a Firenze) e nelle zone esterne ai centri (come i numerosi tentativi nella periferia di Roma e in quella di Milano). Con le amministrazioni di destra, di centro, di centro sinistra, e anche con quelle di sinistra. Il caso tipico, quello che fa esplodere la questione dell'urbanistica contrattata per la dura reazione del nuovo segretario del Pci, é Firenze. Su di esso è opportuno richiamare la memoria non tanto perché sia l'episodio più grave di urbanistica contrattata, ma per il significato emblematico che ha assunto, e per il possibile punto di svolta che ha rappresentato.
A Firenze, nell'estate del 1984, vengono resi pubblici due progetti d'investimento immobiliare, l'uno della Fiat, nell'area di Novoli, l'altro della Fondiaria. La prima era già proprietaria dell'area, e voleva "valorizzarla". La Fondiaria aveva comprato in vista dell'operazione un vasto compendio di aree nella piana a nord-est della città, lungo una direttrice considerata strategica per la riorganizzazione dell'intera area metropolitana. L'insieme dei due progetti comportava la costruzione di 4,2 milioni di metri cubi, su 228 ettari, e un investimento valutato in 2 mila miliardi.
Il Comune aveva avviato la redazione del nuovo piano regolatore. Attendere la formazione di questo (affidato a due consulenti di grande prestigio e affidabilità, Giovanni Astengo e Giuseppe Campos Venuti) avrebbe permesso di compiere le scelte sulle aree interessate dall'operazione nel quadro, ed in funzione, delle scelte più complessive sulla città, finalizzando gli interventi nell'area nord-est a un progetto di riqualificazione ambientale, all'esigenza di decongestionare il centro storico, all'obiettivo di una più corretta localizzazione metropolitana delle attrezzature urbane. E' quello che suggerisce, ad esempio, l'Istituto nazionale di urbanistica.
Ma le esigenze di "valorizzazione immobiliare" non possono attendere. Gli investitori fremono. Acquisiscono le necessarie comprensioni politiche e amministrative, e ottengono dal comune l'approvazione di una variante ad hoc al piano regolatore vigente. Questa viene adottata dal Consiglio comunale (a maggioranza di centro sinistra) nel marzo 1985. La maggioranza (di sinistra), che subentra dopo le elezioni amministrative conferma le decisioni. La variante prosegue il suo iter, tra le polemiche più aspre e la crescente opposizione di un fronte composito e ampio, indebolito dalla posizione defilata, ma favorevole alla variante Fiat-Fondiaria, del Pci.
Prima che la variante giunga alla sua conclusione, un colpo di scena. Nel giugno del 1989 il Segretario del Pci, Achille Occhetto, intima l'altolà. In una riunione del Comitato federale di Firenze, piena di tensione, giungono una telefonata e due messi del Segretario: i comunisti non possono ulteriormente avallare le scelte della Fondiaria e della Fiat per l'area nord-est, il cui destino deve essere tracciato da un vero piano regolatore generale.
Il partito, a Firenze e non solo a Firenze, é diviso. Anche chi non era convinto dell'operazione Fiat-Fondiaria esprime preoccupazione per il fatto che sia stata necessaria la "telefonata di un segretario di partito" per correggere scelte sbagliate. Il punto é che non si trattava solo di correggere le decisioni di una federazione o di una giunta. Si trattava anche e soprattutto di indicare, con un gesto forte e chiaro, che l'andazzo seguito per oltre un decennio non era compatibile con il nuovo corso del Pci. Un trauma quindi, certamente, ma un trauma necessario: poiché bisognava superare un vuoto che per troppi anni aveva caratterizzato la politica del Pci nei confronti dell'urbanistica: nei confronti dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio.
Un trauma come quello di Firenze non ci fu, in quegli anni, a Milano. E fu un peccato, perché proprio nella "capitale morale d'Italia" la prassi dell'urbanistica contrattata aveva preso più piede, ed era stata anzi teorizzata: proprio negli anni delle giunte di sinistra [33].
A Milano la tradizione era antica. Fin dal dopoguerra si praticava il "rito ambrosiano": una prassi, inventata ai tempi della maggioranza di centro, sembra dall'assessore democristiano Filippo Hazon, che "superava" le norme del piano regolatore vigente concedendo concessioni edilizie (allora si chiamavano ancora "licenze di costruzione") là dove non si sarebbe potuto, con l'ipocrita formula della "licenza in precario". Ma é all'inizio degli anni '80 che il "rito ambrosiano" entra nelle sua fase propulsiva. Vengono approvate decine di varianti puntuali, con le quali si autorizzano oltre 12 milioni di metri cubi di nuove strutture edilizie per il terziario: come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, e come se fosse del tutto indifferente la loro collocazione nella città: per di più, in una città trasformatasi in una agglomerazione caotica, destrutturata, invivibile e inefficiente.
Ma il rito ambrosiano non si ferma alle varianti. Come descrivono Barbacetto e Veltri, "in mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finanziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io amministratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)" [34]: contropartite garantite da lettere private, tenute accuratamente segrete. Difficile credere che ci sia stato qualcuno così ingenuo da non pensare che, tra le contropartite, potevano essercene altre oltre alle case popolari e ai parchi! Il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle successive azioni della magistratura.
Il libro di Barbacetto e Veltri é uscito pochi giorni prima dell'esplosione innescata dal giudice Di Pietro, ed ha un singolare carattere profetico. Ma ancor più profetica appare oggi una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio, riportata nel libro. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto:" Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca" [35]. Così era, a Milano (e non solo).
Sebbene a Milano non ci sia stata nessuna telefonata dalle Botteghe oscure, il Pci (nel frattempo era divenuto Pds) uscì comunque dal gioco, con uno scontro aspro che si aprì quando due consiglieri comunali della lista Pci-Pds, Franco Bassanini e Paolo Hutter, decisero di opporsi a un provvedimento fatto su misura per gli interessi fondiari dell'Italstat, provocando la caduta della giunta di sinistra. Si trattava di un piano che riguardava tre aree limitrofe: una di proprietà della Fiera, l'altra del Comune e la terza (pari a oltre la metà del complesso) dell'Alfa, poi passata in mano all'Iri, da questa all'Italstat e da questa alla Sistemi urbani. In totale, 22 ettari Le esigenze di razionalizzazione della Fiera (un ente di diritto pubblico) erano il grimaldello "d'interesse pubblico" che si voleva utilizzare per rendere edificabile, con 400 mila metri cubi di terziario conditi da alberghi e da un centro congressi (raggiungibile solo in automobile!), l'area della Sistemi urbani.
Il piano era stato approvato dalla precedente amministrazione. I due consiglieri del Pds, i Verdi, e un vasto fronte di associazioni ambientalistiche e culturali, chiedevano che il piano fosse ridimensionato e finalizzato solo alle esigenze pubbliche. Un aspro scontro nel Pds portò al prevalere di questa posizione. Il piano fu bocciato in Consiglio comunale. Su questo si aprì la crisi, e il Pds uscì dalla maggioranza e, anche a Milano, dal sistema dell'urbanistica contrattata. Almeno, si spera.
Così vasta si é rivelata Tangentopoli che uscirne non sembra facile. La società si é manifestata in preda a un'infezione così ramificata e coinvolgente che non basta intervenire su di un solo aspetto.
Non bastano le cure più evidenti, quali le nuove norme per gli appalti delle quali da tempo le organizzazioni più direttamente coinvolte nel processo edilizio (dai sindacati dei lavoratori all'associazione padronale) suggeriscono la necessità. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combattere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta sforzarsi di ripristinare la concorrenzialità tra le imprese, come la Cee invita a fare e come sembra stia facendo il ministro per i Lavori pubblici.
Occorre anche altro. Non si tratta infatti solo di un problema di corruzione diffusa: si tratta di una distorsione pesante e consolidata delle basi del sistema dei poteri. Occorre allora, in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del governo del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò nei terribili anni '80 é stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.
Da dove cominciare, però? Dov'é il capo del filo di Arianna che può aiutarci a uscire da Tangentopoli?
"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che analizzava Tangentopoli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si é tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprattutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbattimento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse" Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legislazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e progetti organici sul regime degli immobili" [36].
La soluzione giusta di un problema é in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'ambiente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi é stato artificialmente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianificazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e spero che il lettore che mi ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora é evidente il che fare.
Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo generale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e metropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli interventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Basta con le deleghe a strutture privatistiche di compiti che sono propri dei poteri elettivi, e basta con le deroghe, le varianti e variantine a vantaggio di Tizio e di Sempronio: basta insomma con l'armamentario dell'"urbanistica contrattata". E basta con la distrazione e con il disinteresse dei politici, come se la pianificazione non fosse il compito e lo strumento indispensabile di una politica moderna, e fosse invece soltanto una ubbia "culturale" o una mansione meramente "professionale" di una qualche corporazione.
Occorre, insomma, una pianificazione efficace ma trasparente, flessibile ma capace di imprimere sempre alle trasformazioni del territorio la coerenza necessaria al governo di mutamenti rapidi in una realtà complessa. Una pianificazione che sappia ripristinare un adeguato sistema di garanzie: garanzie per i diversi livelli istituzionali coinvolti, garanzie per gli interessi economici presenti, ma soprattutto garanzie per i fruitori della città: quelli di oggi, e quelli di domani.
Occorre poi, in secondo luogo, che vada affrontata in modo rigoroso, e finalmente risolta, la questione del regime degli immobili, soprattutto nei suoi due punti cardini: quello dei valori economici e quello dei poteri.
Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà immobiliare (aree ed edifici), è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso legittimo del bene. Tanto antico è questo principio che esso era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865, anche se l'affermazione di principio non é stata mai tradotta in norme e comportamenti con essa conseguenti. E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità di espropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.
Dal punto di vista dei poteri, ciò che soprattutto interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori sia tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.
Soltanto se questi due obiettivi (la rinascita della pianificazione e la riforma del regime degli immobili) saranno raggiunti si saranno poste le condizioni di fondo perché anche gli altri provvedimenti necessari possano trovare una dispiegata efficacia, e perché possa essere così prosciugato il terreno melmoso del disordine e della corruzione su cui sorge Tangentopoli. Senza illudersi con ciò di aver realizzato la città ideale o costruito la società perfetta, ma con la certezza di essere almeno più vicini all'obiettivo di rendere l'Italia un paese moderno e civile, al livello degli altri che appartengono all'Europa.
Venezia, H aprile aa[1] - Mi riferisco alle dichiarazioni programmatiche pronunciate dall'on. Giuliano Amato al Senato della Repubblica il 30 giugno 1992 e al documento illustrato dall'on. Achille Occhetto, a nome del Pds, al Presidente della Repubblica nell'incontro del 17 giugno 1992.
[2] - Legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Con questa legge l'urbanistica, nei comuni, passò di fatto dalle competenze degli assessorati all'urbanistica a quelli ai lavori pubblici. Le decisioni, anche formali, sul territorio non avvenivano infatti più mediante i piani (e le lunghe e ampie discussioni che questi provocavano), ma con un comma marginale introdotto nelle delibere di approvazione dei progetti di opere pubbliche, di competenza appunto degli assessori ai lavori pubblici. Non a caso, negli anni '60 e '70 i partiti si contendevano gli assessorati all'urbanistica, mentre negli anni '80 divennero invece più ambiti quelli ai lavori pubblici.
[3] - Legge n.25 del 15 febbraio 1980 e legge n.94 del 25 marzo 1982.
[4] - Legge n.80 del 17 febbraio 1987, .
[5] - Legge n.64 del 1 marzo 1986.
[6] - Alessandro Dal Piaz, "La questione urbana nel Mezzogiorno", in: La città sostenibile, a cura di Edoardo Salzano, Edizione delle autonomie, Roma 1992, p.187.
[7] - Ibidem.
[8] - Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.
[9] - Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La dimensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del periodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1989; cfr.p.199).
[10] - Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denominato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci.
[11] - Si veda, ad esempio, l'editoriale del n.80, marzo-aprile 1985, della rivista Urbanistica informazioni.
[12] - Ibidem.
[13] - Mi riferisco soprattutto alla legge per la casa, n.865 del 22 ottobre 1971 e alle leggi del periodo 1977-78.
[14] - Si veda, ad esempio, Urbanistica informazioni, n.92, marzo-aprile 1987, p.2.
[15] - Come dichiarava, ad esempio, Franco Bassanini; si veda Panorama, 25 settembre 1988, p.58.
[16] - Ibidem.
[17] - Decreto-legge n.2 del 3 gennaio 1987, convertito in legge e integrato con successivi provvedimenti del 1987, del 1988 e del 1989.
[18] - Alcuni esempi: la ristrutturazione della stazione ferroviaria di Firenze e del piazzale di S.Maria Novella, la grande circonvallazione a Cagliari, la tangenziale a Verona, tronchi di autostrade un pò dovunque, e poi dappertutto alberghi, centri congressi e, naturalmente, stadi e parcheggi. Grandissima parte delle opere finanziate e "facilitate" per i Mondiali sono state completate soltanto dopo il suo svolgimento.
[19] - LuigiScano, "Anni ottanta e mondiali. Chiuso il cerchio della deregulation", in Urbanisticainformazioni, n.119, gennaio-febbraio 1990.
[20] - Legge n.426 del 30 dicembre 1989, Misure di sostegno per le attività economiche nelle aree interessate dagli eccezionali fenomeni di eutrofizzazione verificatisi nell'anno 1989 nel mare Adriatico. Per ovviare alla sovralimentazione delle alghe si sono riempite le coste di piscine, acquasplash, ampliamenti di alberghi e così via. .
[21] - Legge n.205 del 29 maggio 1989. Anche le Colombiane sono servite soprattutto a finanziare strade, non solo a Genova, sede delle celebrazioni. Tra i casi più straordinari si ricordano la Dogana di Segrate, la tangenziale Cremona-Brescia, la complanare di Lucca, la tangenziale di Piacenza, la Torino-Frejus. Parafrasando il noto detto francese, si potrebbe dire che "la politica delle opere pubbliche ha le sue ragioni che la ragione non comprende".
[22] - Legge n.171 del 16 aprile 1973.
[23] - Legge n.798 del 29 novembre 1984.