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Sono molti i temi che alimentano la discussione e le cronache di questi giorni. Temi che ruotano attorno ai nodi della trasformazione del territorio, della richiesta di partecipazione dal basso nelle scelte di governo, che non riconoscono alla politica un elemento di efficacia nella mediazione all’interno di processi democratici; della scelta da parte del movimento ambientalista se collocarsi tra istanze di salvaguardia e di conservazione o se invece provare a misurarsi in un processo di trasformazione in chiave ecologica e quindi interloquire con la controparte che di volta in volta si pone di fronte, ora istituzionale ora del mercato. Sul ruolo stesso della politica nei processi di trasformazione della società.

A partire da questi temi abbiamo chiesto una riflessione a Edoardo Salzano, urbanista con una lunga esperienza dell’amministrazione pubblica sia per i ruoli di consulenza nella pianficazione, sia come amministratore lui stesso.

Partecipazione, trasformazione del territorio, politica che, dopo aver abdicato ai tecnici, si riprende il suo ruolo ma con una scarsa capacità di leggere il futuro. Proviamo a dipanare questa matassa?

«La prima cosa da dire è che la partecipazione è una componente essenziale della democrazia ma che spesso oggi il ricorso alla partecipazione, l’enfasi che vi viene messa e la ricerca affannosa della partecipazione da una parte e l’utilizzo strumentale della partecipazione dall’altra, sono tutti sintomi della crisi della democrazia. Il meccanismo della partecipazione dovrebbe essere interno ad un sistema democratico funzionante. Il nostro sistema democratico ormai non funziona più. Ci sono molti libri su questo tema che condivido e che rappresentano molto chiaramente gli elementi di crisi della democrazia attuale».

Volendoli riassumere?

«Utilizzerei le parole di Luciano Canfora per farlo, che a mio avviso sono molto eloquenti: “impoverimento dell´efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo”. La partecipazione è utilissima, ma è una supplenza temporanea a qualcosa che non c’è e dovrebbe esserci».

E volendo affrontare in questa chiave almeno un corno delle tematiche in discussione, per esempio il tema della trasformazione del territorio?

«Partiamo dal caso Asor Rosa. Grazie alla capacità di forare lo schermo e il turbamento che ha causato l’accostamento del termine ecomostro ad un territorio come quello della Val d’Orcia si è scatenato un polverone proprio in Toscana, che è la regione dove il territorio è mantenuto meglio. L’attenzione alla Toscana fa dimenticare tutto il resto del territorio italiano dove succede molto di peggio. Guardiamo cosa succede a Napoli, giriamo il Lazio, la Calabria, il Veneto le coste della Liguria. Sta succedendo molto di peggio. Quello che avviene in Toscana scandalizza perché avviene proprio lì. Ma chiediamoci perché non ci si accorge dove succede di peggio e perchè quando Soru interviene con politiche molto rigide sul paesaggio è considerato come un pazzo dai suoi colleghi amministratori.

Si continua parlare dello sviluppo del territorio che è un aberrazione secondo me. E questa osservazione me l’ha suggerita la proposta di legge urbanistica presentata recentemente dai Ds. Lì si parla di sviluppo del territorio.

Ma sviluppo del territorio significa lottizzazioni, copertura del territorio con una serie di costruzioni che servono soltanto a chi le fa e non rispondono minimamente al fabbisogno del territorio ma solo alle società immobiliari. Nessuno si accorge che tutte le risorse che vanno in quella direzione, vengono tolte all’industria. La Pirelli o la Fiat che investono nelle società immobiliari, ad esempio, significa che destinano risorse in investimenti più lucrosi anzichè in ricerca e innovazione produttiva.

La facilità con la quale sono remunerati gli investimenti immobiliari è una delle cause della nostra crisi economica e che questo abbia una qualche parentela con lo sviluppo economico è una grave mistificazione. Non credo che tutti i politici siano stupidi ma l’errore è quello di non vedere al di là del proprio naso. Con un effimero risultato in termini sviluppo economico. Che significa invece produrre fichi laddove sono particolarmente buoni o inventare sistemi innovativi per produrre autobus, tanto per fare qualche esempio».

Quindi lei crede che lo sviluppo economico debba essere letto con la lente della sostenibilità?

«Lo sviluppo sostenibile è un termine che è stato stiracchiato e utilizzato da tutte le parti. Una volta, e mi riferisco all definizione del rapporto Brundtland, significava una cosa molto precisa che era già una mediazione. Un concetto globale che riguarda l’insieme delle risorse è stato poi trasformato in sostenibilità ambientale, economica e sociale con l’esigenza di trovare un equilibrio tra tutti e tre. Bisogna quindi adoperarlo con molta cautela. Io per quanto riguarda il territorio sono conservatore. Ogni riduzione della naturalità del territorio devono dimostrarmi che abbia un vera e provata necessità.

Riguardo ai politici che hanno abdicato ai tecnici, non mi trova consenziente. L’urbanistica l’hanno fatta i politici aiutati dai tecnici. A un certo punto la politica della pianificazione, che è a lungo respiro, è stata abbandonata per progetti più di impatto immediato nell’opinione pubblica. Ma il sindaco che affida la sua campagna elettorale ad un piano strutturale ha una visione di futuro, chi lo fa su progetto seppur apprezzabilissimo, ha una visione schiacciata sul presente. In questo sta la terza delle cause della crisi della democrazia. Una riduzione di ogni interesse collettivo ad un interesse individuale immediato, non c’è più un interesse globale, ma un individualismo esasperato».

L’ambientalismo può essere lo strumento utile a riportare il treno sui binari giusti? «L’ambientalismo è la grande carta da giocare perchè sul territorio si gioca il fatto che esistono obiettivi comuni, beni comuni da giocare insieme. E quel tanto di catastrofismo che c’è anche nell’ambientalismo più avanzato, aiuta e come. La partecipazione è una grande scuola per lavorare insieme e può sostituire quello che una volta era la scuola della fabbrica».

Ma deve confrontarsi con una trasformazione sostenibile o limitarsi al ruolo di testimonianza?

«Si confronta con una trasformazione sostenibile, ma deve sapere con cosa si confronta. Deve avere gli strumenti e le conoscenze giuste. Quando il comune fa i conti con i costruttori per la trasformazione immobiliare si fa ingannare con i conti che fanno gli altri. Riconosce a dismisura la rendita immobiliare.

Un ambientalismo che non ha gli strumenti tecnici per capire gli interessi diffusi e che si presenta così al tavolo della governance è sempre battuto. Deve imparare a fare i conti per potersi confrontare. altrimenti perde. E il suo primo interlocutore deve essere l’istituzione pubblica».

Nella stessa pagina un servizio del giornale annunciato così: «Marco Di Lello, dopo la bocciatura del Tar dell'Auditorium di Ravello, promette: cambieremo il Piano urbanistico. E Bassolino telefona al sindaco di Ravello: Insisti, sono con te»

Non erano pretestuose le critiche, non erano infondati gli allarmi sollevati per fermare chi pretendeva di costruire una “opera d’arte” là dove la legge non lo consentiva. Realizzare un auditorium lì, in quel posto, è illegittimo. Così ha stabilito il TAR, rivelando la fragilità delle spericolate “relazioni tecniche stragiudiziali” con le quali (generosamente arrampicandosi su lucidi specchi) si pretendeva di giustificare l’ingiustificabile. Intendiamoci, quella del TAR non è una sentenza definitiva. È aperta la strada del ricorso al Consiglio di Stato, sebbene non sembri (a scorrere i primi commenti) che i promotori dell’auditorium vogliano ricorrervi. A proposito dei commenti, meraviglia la meraviglia manifestata da molti per la sentenza del TAR. Il tribunale amministrativo si era già pronunciato una volta, quando aveva sospeso l’approvazione del PRG proprio perché localizzava lì un auditorium; perché mai il medesimo collegioavrebbe dovuto valutare legittimo ciò che pochi anni fa legittimo, a suo parere, non era?

Colpisce invece l’arroganza di quanti (come De Masi, come Di Lello) dichiarano subito che si dovrà fare (o che si farà) una variante ad hoc per poter eludere la legge. Colpisce e scandalizza, non meraviglia: questi anni ci hanno abituato all’impiego personalizzato della legge. Il maestro di questo sistema siede a palazzo Chigi (anzi, a palazzo Grazioli). Al di là della ferita al paesaggio (che per me sarebbe tale, ma che è certamente questione sulla quale sono legittime opinioni diverse) ciò che mi ha preoccupato fin dal primo momento è stato proprio questo atteggiamento. La legge, che vale per tutti, non consente di realizzare un interventi che a Tizio o a Sempronio sembra interessante? Ebbene, modifichiamo le legge per Tizio o per sempronio. Un uomo di governo dovrebbe sapere che, una volta che ha concesso questo strappo, altri ne seguiranno, e quello che oggi concede a Ravello domani dovrà consentirlo a Maiori o ad Atrani, che presenteranno magari progetti firmati da Libeskind o da Isozaki, magari per realizzare un albergo essenziale per l’agibilità di una grande mostra del cinema.

So bene (l’ho documentato sul mio sito eddyburg.it) che la costa su cui si voleva costruire l’auditorium è scempiata da interventi brutti, abusivi e comunque tollerati da attori insensibili al bello. Vi sembra proprio un pretesto per continuare ad aggiungere nuove illegittimità? È questo il “senso dello Stato” che è maturato in questi anni, in intelligenze aperte e sensibili come quelle di molti difensori dell’auditorium? Constatarlo mi amareggia. Come mi amareggia leggere, da chi ha responsabilità di governo, che si vorrebbe non sostituire il PUT con un altro piano paesistico, ancora più serio, accurato, documentato di quello oggi vigente, ma violentarlo con una variante ad hoc. Negando, con l’esprimere questa intenzione, il principio stesso della pianificazione, sulla cui corretta applicazione ogni amministratore pubblico dovrebbe invece vigilare.

Sullo stesso argomento:

Eddytoriale n. 35 del 19 gennaio 2004

Eddytoriale n. 42 del 2 maggio 2004

e molti altri scritti nella cartella

SOS -SOS - SOS / Ravello

Il rogo che ha devastato una parte del mulino Stucky di Venezia farà ancora discutere nelle sedi giudiziarie, dove andranno accertate eventuali responsabilità. Tra le fiamme è andata distrutta proprio l'area del complesso che nei piani originari «avrebbe dovuto essere utilizzata dal Comune per ospitare diversi archivi attualmente sparsi nella città» - spiega Edoardo Salzano, professore ordinario di urbanistica del Dipartimento di pianificazione dell'Università degli studi Iuav e consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale. Al di là dei risvolti giudiziari futuri, l'incendio dello Stucky è l'occasione per ragionare con Salzano - un artefice del piano regolatore generale del centro storico di Venezia nei primi anni Ottanta - di politiche urbanistiche, del ruolo dell'intervento pubblico e delle trasformazioni che molte città subiscono in seguito alla dismissione delle aree industriali. Sul complesso del mulino Stucky esistevano già da tempo dei progetti nei piani regolatori di Venezia. E' così?

Ai tempi della prima giunta Cacciari, quando hanno cambiato il piano regolatore che avevamo fatto noi qualche anno prima, hanno trasformato la destinazione d'uso anche nel caso dello Stucky. Nel piano precedente lo Stucky doveva essere destinato per un quarto ad alberghi, un quarto a centro congressi, un quarto all'edilizia convenzionata - alloggi a costi moderati - e un quarto al Comune. Al Comune doveva andare la parte dei silos - peraltro difficilmente utilizzabile per altre cose senza distruggerla completamente. Si tratta, infatti, di un edificio cieco con grandi solai e tramogge, un magazzino dove in origine erano conservate le granaglie. Per questo pensavamo di concentrare là tutti gli archivi del Veneto - oltre a quello di Stato ci sono una serie di archivi sparsi per la città. A me sembra che sia proprio una singolare coincidenza che si sia bruciata proprio questa parte. Qualche dubbio mi viene.

Sta di fatto che è andata distrutta l'unica porzione del complesso che doveva ospitare servizi pubblici. Per quanto riguarda le responsabilità saranno le autorità giudiziarie, naturalmente, ad indagare. Diversamente, per la valutazione politica si possono già fare alcune riflessioni. Negli ultimi anni la preponderanza del privato nell'urbanistica e nella gestione del territorio ha prodotto molti danni. Non è ora di ripensare a un rilancio del pubblico?

Si è fatta, a mio parere, un'operazione politicamente sbagliata, cioè rinunciare ad avere una presenza pubblica là dentro e dare ai privati e alla destinazione alberghiera la prevalenza. Ora, anche quella parte che difficilmente potrebbe essere trasformata in un albergo senza distruggerla completamente, viene fortunosamente colpita da un incendio. La mosca nel brodo c'è.

A quali anni risale il piano originario?

Si iniziò a discuterne alla fine degli anni Settanta. La linea della giunta della sinistra - non solo, anche di tutto il consiglio comunale di allora - era che a Venezia si dovessero fare case nuove ma pubbliche. Dato che la possibilità di costruire nuovi alloggi erano - e sono - pochissime, si era deciso di affidare quel poco esclusivamente all'edilizia pubblica. La massima tolleranza verso il privato era prevista con lo Stucky. Il complesso è una sorta di lotto allungato e diviso in quattro quadranti. I due quadranti sul davanti che affacciano sul canale della Giudecca sono monumentali, mentre l'architettura sul retro è in uno stato fatiscente, passibile quindi d'esser fortemente ristrutturata. Avevamo quindi destinato uno dei quadranti posteriori all'edilizia residenziale convenzionata, cioè fatta dal privato ma con una convenzione molto rigida con il Comune e a prezzi controllati. Avevamo aperto una trattativa con la proprietà che era d'accordo su tutto, salvo sulle case. Si era d'accordo sull'affidare al Comune la gestione di quell'ala ora andata distrutta, sull'albergo verso il canale della Giudecca, sul centro congressi e sulle residenze convenzionate. Quando la giunta in cui era assessore Stefano Boato, ha presentato il piano regolatore del centro storico - che ho iniziato a fare io - e portato all'approvazione del consiglio dalla giunta di centrodestra di Laroni, addirittura, lì, nella scheda relativa all'area Stucky, sono state riprese queste indicazioni. Questo accadeva, se non ricordo male, nel '92. Poi quando è subentrata la giunta Cacciari hanno privatizzato tutto. Più nel dettaglio, hanno reso private le case nuove che si costruiscono dietro e dato agli alberghi anche i silos che avevano una destinazione pubblica.

Come riflessione più generale bisogna affrontare il nodo della gestione del patrimonio artistico delle città italiane nel quale non rientrano soltanto i monumenti tradizionalmente intesi, ma anche quelle aree ex-industriali abbandonate nel tempo che assumono un valore urbanistico, se non persino artistico. Non crede che occorra ridefinire l'idea di territorio e rilanciare l'intervento pubblico?

Sì. Accanto allo Stucky - è una curiosità - lo stesso architetto ha costruito un edificio molto più piccolo, la Birreria Dreher. La comprammo come Comune per attuare una bella riconversione. Ne ricavammo 44 appartamenti in edilizia popolare.

Con la giunta Cacciari le cose son cambiate, e hanno iniziato a prevedere anche l'edilizia privata.

Il quartiere della Giudeca, limite estremo meridionale della città verso la laguna aperta, è sempre stato un quartiere popolare. Mantiene tuttora questo profilo?

In origine era un quartiere di orti e conventi, poi è diventato un grosso quartiere operaio legato a quei tentativi di industrializzazione moderna, falliti abbastanza rapidamente, che vanno dallo Stucky alla Dreher alla junghans, una fabbrica di strumenti di precisione, fino ai tradizionali cantieri. Quell'industria, eccetto la cantieristica, è crollata. La Giudecca è stata un quartiere di edilizia economica popolare, cresciuto soprattutto negli anni Sessanta. Un esempio di questa edilizia comunale è l'intervento che facemmo dietro lo Stucky, nell'area Trevisan. E' sempre stata una zona popolare. Ma in questi ultimi anni sta avendo una fortissima trasformazione, sia con le case nuove che hanno costruito nell'area ex-junghals e nel lato opposto dell'isola, sia con il mega-albergo di lusso attualmente in costruzione. E' in atto una trasformazione surrettizia degli alloggi in camere d'affitto, un fenomeno devastante.

Cominciamo dalle parole

Quando ci si parla, e si proviene da esperienze diverse e da linguaggi diversi (com’è oggi il nostro caso), è utile mettersi d’accordo sul significato delle parole.

Perché le parole sono state inventate per rivelare, per comunicare, per esprimere. Invece spesso sono usate per nascondere, per coprire, per dissimulare. Dalle parole nasce la comprensione, ma può nascere anche l’equivoco

E perché spesso nei linguaggi “tecnici”, nei linguaggi delle varie culture e discipline, le parole sono adoperate in un senso un po' diverso, o molto diverso, da quello del linguaggio comune. Quanto più le varie culture, le varie discipline, i vari specialismi sono separati, quanto più insomma manca una cultura comune, tanto più c’è il rischio dell’incomprensione.

Vorrei che almeno su alcune parole chiave noi ci si intenda. Perciò vi dirò che cosa intendo per città, per territorio, e per progettare: le tre parole del tema della mia conversazione. E poi vi dirò che cosa è secondo me l’urbanista, cioè il mestiere della persona che vi sta parlando.

La città

La città nella storia...

La città non è un insieme di case. La città è, semmai, la casa di una società, di una comunità.

La città è il luogo che gli uomini hanno creato quando hanno dovuto vivere insieme per svolgere una serie di funzioni che non potevano svolgere da soli: custodire e difendere i frutti del proprio lavoro, il sovrappiù della loro produzione; scambiare il sovrappiù tra loro, e con gli abitanti di altri luoghi.

La città è originariamente legata alla difesa e allo scambio: le mura e il mercato sono i primi elementi fondativi della città, le prime funzioni urbane. E il luogo della città, il suo sito, è scelto in funzione delle esigenze della difesa e del commercio: le alture, e le isole nei fiumi, l’incrocio di itinerari terrestri e di vie d’acqua sono gli elementi fisici, geografici, che riconosciamo nella prima storia di quasi tutte le città del mondo.

Me le funzioni urbane si sono via via arricchite. Altre necessità e funzioni comuni si sono aggiunte a quelle della difesa e del commercio e si sono via via affermate: la celebrazione dei valori e delle speranze comuni - la religione -, la tutela dei diritti e la decisione sulle liti - la giustizia -, lo scambio di informazioni e di conoscenze, e l’apprendimento di esse - la scuola -, la rappresentanza e l’azione nell’interesse della comunità - la politica e il governo.

A queste funzioni hanno corrisposto specifici luoghi: i templi e le cattedrali, la piazza e il foro, il tribunale, il bargello, il palazzo del governo, si sono aggiunti al mercato e alla rocca per costituire i luoghi della comunità in quanto tale. I luoghi che si sono differenziati e distinti dalla casa, dal luogo della famiglia, in quanto erano finalizzati ad esprimere, rappresentare e servire non gli interessi del singolo individuo, ma la comunità in quanto tale; non i consumi individuali, ma i consumi collettivi, dell’uomo in quanto membro della società.

Ecco allora in che senso è giusto dire che la città non è un ammasso di case, ma è qualcosa di più: è - come dicevo poc’anzi - la casa della società. E ha, nel suo insieme, un disegno, un armonia, che ne fa un organismo unitario, riconoscibile, dotato da una sua identità e d’una sua bellezza.

Più esattamente: la città è stata questo, fino a quando sono successi avvenimenti che hanno prodotto uno sconquasso pesante. Poiché la città di oggi è certamente molto diversa da quella che le millenarie vicende della civiltà occidentale hanno formato: da quella che possiamo conoscere, e amare, nei centri storici.

...e ai tempi nostri

La città, oggi, è in una crisi profonda. E’ difficile riconoscerle come la “casa della società”: è più facile definirla il luogo della lacerazione della società. Ricordiamo alcuni aspetti della sua crisi attuale: aspetti che sono presenti nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi.

Ricordiamo la crisi d'identità personale e sociale che si consuma nelle metropoli. Ricordiamo il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell' homo socialis (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Ricordiamo le difficoltà crescenti a usare abitazioni adeguate, per località, tipologia e canone d'uso, alle esigenze delle famiglie. Ricordiamo come la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, delle persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri. Ricordiamo l'inquinamento dell'aria e dell'acqua, l'abnorme produzione di rifiuti che minacciano di seppellirci, i rumori che ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio.

E ricordiamo, soprattutto, quell'aspetto della crisi della città che definisco "il paradosso del traffico". Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente - l'ho accennato poco fa - il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

Le ragioni della crisi della città

Sarebbe lungo raccontare le ragioni della crisi della città. A me sembra che ce n'è una che è centrale e nodale, nel senso che tutte le altre si annodano attorno ad essa e ne sono conseguenze, o aspetti, o riflessi.

La questione può essere sintetizzata nel modo seguente. All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati del conflittuale processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto, fin dalla fine del '700 e dell'800, un poderoso aumento della popolazione, e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Più avanti nel tempo (in Italia tra il 1950 e il 1970), per effetto dell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.

Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città dell'ordine di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. E sono città nelle quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini sono tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendono di essere soddisfatte. Nasce quindi una fortissima domanda di fruizione di funzioni urbane: di mobilità, di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.

Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievolite, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.

[Alcuni esempi:

la mobilità e il trionfo della motorizzazione individuale;

la privatizzazione dell'edificabilità e la questione delle aree;

l'incremento dei consumi privati e il deperimento dei consumi pubblici.]

I valori della città

Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia.

Le città, intanto, sono ancora il luogo dell' homosocialis, dell'uomo sociale. Sono il luogo in cui l'uomo è inevitabilmente condotto a cercare l'incontro, lo scambio, il comunicare, lo stare insieme. Sebbene dominata dall'individualismo, la città è ancora il serbatoio dei possibili valori comunitari, delle potenzialità collettive.

E le città poi, soprattutto nel nostro paese - ma nell’intera Europa - sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle nostre città si é consolidato e conservato qualcosa che é un valore in molti sensi: si è conservato e consolidato nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili.

E' un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).

E’ di qui, è dalla tutela e dalla valorizzazione dei valori sociali e culturali che si può partire, che si deve partire per progettare una città nuova: una città capace di superare la crisi attuale.

Il territorio

Quando città e territorioerano realtà antitetiche

Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città era il chiuso, il difeso, l'artificiale, il costruito, il denso, il dinamico, mentre il territorio era il luogo aperto, dove si poteva essere attaccati, dove dominava esclusiva la natura, dove la presenza antropica era rada e discontinua, dove le trasformazioni erano lente come i ritmi della natura.

Nel corso del grandioso e drammatico processo di espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio è venuto via via a modificarsi. La città ha cominciato ad "esportare" parti scomode della sua struttura: le prime sono state le fabbriche, allontanate dal tessuto urbano a causa dell'inquinamento e collocate nelle nuove "zone industriali" in periferia. Si è enormemente accresciuta, fin dalla metà del secolo scorso, l'importanza dei trasporti, e il territorio ha cominciato a essere segnato da infrastrutture come le strade, le ferrovie, i canali navigabili.

Nella seconda metà di questo secolo la mobilità sul territorio è aumentata in misura parossistica: è aumentata la rete delle infrastrutture del trasporto, ed è aumentata la loro utilizzazione. E le infrastrutture hanno creato a loro volta nuove convenienze per l'insediamento di funzioni specializzate: ospedali e caserme, carceri e strutture commerciali, stadi e discoteche sono stati localizzate sempre più frequentemente fuori dalle città, in prossimità dei caselli autostradali o delle superstrade.

Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere e usare il territorio. Oltre alle ragioni derivanti dal fatto che determinate funzioni (quelle di cui ho parlato or ora) sono state localizzate fuori, oltre alle ragioni derivanti dal fatto che è più conveniente accedere a servizi localizzati in città diverse dalla nostra (per l’università, per l’ospedale specializzato, per l’approvvigionamento di merci rare o specializzate, per il concerto o la mostra o lo spettacolo) nuove ragioni sono nate da nuove esigenze: esigenze di contatto con la natura, con ambiente incontaminati, esigenze di rigenerazione psicofisica, di sport attivo, di ricreazione all’aria aperta. La villeggiatura, le gite di fine settimana in collina o nel bosco o a mare, le settimane bianche sulla neve, lo sci e l’alpinismo e la vela: tutte queste pratiche della vita di ciascuno di noi, inesistenti o del tutto marginali fino a qualche decennio fa, ci hanno condotto a usare il territorio in modo sempre più ampio e frequente.

Il “territorio urbanizzato”

Oggi possiamo dire, in definitiva, che il territorio non è più in opposizione alla città: non è l’altro, non è il fuori. Oggi, la città comprende il territorio. Oggi non è più il caso di parlare di città e territorio come di due realtà antitetiche. Oggi è più esatto parlare di territorio urbanizzato come una realtà che comprende insieme le città e il territorio.

Certo, il territorio urbanizzato è formato da realtà tra loro molto diverse. In alcune parti l’urbanizzazione è più densa, la presenza umana è più forte, i flussi di relazione che legano tra loro le diverse persone e attività sono più intensi, la presenza della natura è più debole. In altre parti invece succede il contrario: la presenza della natura è più marcata e più debole è invece la presenza dell’uomo, minore la densità dell’urbanizzazione, l’intensità dei flussi.

La città come “casa della società” si è insomma estesa al territorio, comprendendolo all’interno della rete delle sue esigenze e della sua organizzazione. Questo fenomeno è avvenuto nel corso della seconda metà del secolo scorso e di questo secolo, con un’accelerazione progressiva. E’ avvenuto insomma nello stesso periodo di tempo, e per effetto delle stesse sollecitazioni, che hanno provocato la crisi della città. Quella crisi, la crisi della città, non poteva allora non riverberarsi sul territorio. E infatti nell’organizzazione del territorio vediamo rispecchiarsi allargati quegli stessi fenomeni di degrado che abbiamo visto nella città. Proviamo a comprendere che cosa è successo al territorio per effetto dell’estendersi su di esso della presa della città: e proviamo innanzitutto a comprendere che cosa era il territorio prima di questa presa di possesso..

Quando anche il selvaticoera sociale

Domandiamoci insomma com’era il territorio, fuori dal recinto della città, trecento o duecento o cent'anni fa. Non era un luogo selvaggio e aspro. Fino a cento anni fa il territorio extraurbano era tutto curato, amministrato, gestito. Non solo quello agricolo, che occupava un'area enormemente più estesa di quella odierna, ma anche quello utilizzato per la pastorizia e la silvicoltura, e perfino quello del tutto "selvatico". Perfino i boschi selvaggi, quelli dove le bestie addomesticate non potevano pascolare e che non venivano curati dai boscaioli, erano soggetti a quel minimo di cura che consiste nel togliere via i rami e i tronchi secchi per arderli nei focolari (impedendo così che il corso delle acque nei torrenti tracimasse dagli alvei naturali e rovinasse a valle)

Tutta la natura, insomma, anche quella più selvatica, entrava nel ciclo economico della società. Tutta la natura era "casa dell'uomo", anzi, della comunità. E basta studiare gli usi civici, la loro minuziosa regolamentazione comunitaria volta in larghissima misura all'appropriazione dei prodotti dell'incolto, per comprendere quanto la società, nelle sue forme arcaiche ma non più elementari, fosse presente sull'insieme del territorio.

È chiaro che un territorio sottoposto a siffatte regole, finalizzate a siffatte stringenti necessità (riscaldarsi, ripararsi, nutrirsi), era anche un territorio custodito. Era un territorio sul quale si esercitava un controllo sociale. Era un territorio che veniva sentito e vissuto dall'uomo come un patrimonio, perché immediatamente ne traeva elementari ma indispensabili benefici.

Le grandi trasformazioni di questo secolo: il non urbano diventa res nullius

Nell'ultimo secolo, e in modo particolarissimo negli ultimi cinquant'anni. La città si è estesa a macchia d'olio, e ancora più vaste sono proliferate le sue propaggini "rururbane": lo "svillettamento" delle campagne di pianura e dei colli, le lottizzazioni a nastro lungo le coste e le vie di comunicazione. La campagna coltivata si è enormemente ridotta, abbandonando tutti i terreni acclivi e gran parte delle zone interne dello stivale. La pastorizia si è ridotta ad attività marginale e di risulta. Dalle montagne e dalle colline l'insediamento è "franato", la popolazione ha abbandonato i paesini ad alta quota e si è trasferita verso le grandi città, i fondi valle, le coste.

Non è stato solo uno spostamento di residenze e una trasformazione della produzione. Non è stato neppure solo un fenomeno quantitativo. Il possente salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall'economia e dalla società. L'extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d'attesa per l'ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell'urbano, luogo delle discariche, dell'esportazione "fuori" degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti serrati nella loro scatola di latta.

Vorrei leggervi a questo proposito una pagina di Italo Calvino. Nel suo splendido libro Le città invisibili, Calvino descrive una città che invade il territorio con i suoi rifiuti, e ne muore soffocata.

La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall'ultimo modello d'apparecchio.

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d'ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali :d'imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. [...]

Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s'espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l'imponenza del gettito aumenta e le cataste s'innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l'arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne . [...]

Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell'estremo crinale, immondezzai d'altre città, che anch'esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. [...] Più ne cresce l'altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d'anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori :per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, :ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai [1].

.

Questo di Calvino è evidentemente un paradosso. Ma nasconde una verità profonda ed evidente. Se non sappiamo governare il territorio, se non sappiamo evitare che l’urbanizzazione diventi degrado e distruzione della natura, se non sappiamo evitare che l’urbanizzazione si riduca ad esportazione dei rifiuti della crisi urbana, il territorio si vendicherà nei confronti della città. Le alluvioni che oramai sono parte della cronaca stagionale, e gli incendi dei boschi che ogni anno distruggono vegetazione, fauna - e ahimè anche uomini - sono testimonianze ricorrenti di un rapporto perverso tra la città e il “fuori”, l’extraurbano, e sono campanelli d’allarme minacciosi.

Progettare oggi

La pianificazione urbanisticae la pianificazione territoriale

Per domandarci come si può, oggi, progettare una città e un territorio adeguati alle esigenze di oggi, e capaci di superare la crisi in atto, dobbiamo innanzitutto domandarci quali siano gli strumenti di cui disponiamo. Quello che conosco meglio, e che mi sembra si possa adoperare con una qualche efficacia, è la pianificazione territoriale e urbanistica, come componente e metodo guida di un’azione pubblica democratica di governo del territorio. Domandiamoci allora che cos’è questa cosa, la pianificazione.

La pianificazione nasce, nei tempi moderni, come tentativo di dare una risposta positiva alla crisi della città dell’Ottocento. Il prevalere dell’individualismo nell’organizzazione della città aveva dato luogo ad anarchia, disagio, inefficienza. Occorreva regolare lo sviluppo urbano con uno strumento che riuscisse a dare coerenza a cose che erano diventate incoerenti e contraddittorie. La pianificazione nasce così come insieme di regole, dettate dall’autorità pubblica, miranti a dare ordine alle trasformazioni della città e a fornire una cornice all’interno della quale potessero esplicarsi le attività di costruzione e utilizzazione poste in opera da operatori privati.

La struttura della città e dell’urbanizzazione è molto mutata da allora. Abbiamo visto alcuni rilevanti aspetti del cambiamento. Voglio richiamare l’estensione del processo di urbanizzazione all’intero territorio. Se è successo quello che è successo, se la città si è “impadronita” dell’intero territorio, allora oggi non basta più imprimere, attraverso la pianificazione, regole alle trasformazioni della città. Bisogna estendere la pianificazione all’intero territorio. Nasce così, come estensione e proiezione della pianificazione urbanistica, la pianificazione territoriale.

Nuove esigenze, nuovi obiettivi

E cambiano gli obiettivi specifici della pianificazione territoriale e urbana. Fino a qualche decennio fa l’esigenza primaria era l’espansione: la pianificazione era lo strumento per governare la crescita. Si espandevano le città, e nuove aree dovevano essere sottratte alla natura e impegnate dalle costruzioni. Cresceva a dismisura la motorizzazione individuale, e occorreva costruire nuove strade, superstrade, autostrade.

Oggi si è preso atto che l’espansione non è più il problema centrale: la popolazione non aumenta, è c’è addirittura un eccesso di costruzioni sulle necessità della popolazione e delle attività. Il problema centrale è diventato quello della riqualificazione delle immense periferie costruite negli anni ‘50 e ‘60 e ‘70: di renderle umani, civili, abitabili per tutte le donne e gli uomini, i bambini e i ragazzi, gli anziani.

E si è preso atto che l’espansione della motorizzazione individuale e su gomma pone più problemi di quanti ne risolva. Non occorre incentivarla con la costruzione di nuove strade, superstrade e autostrade. Occorre invece dirottare quote consistenti della domanda di mobilità urbana e interurbana dall’automobile alla metropolitana, al tram, al filobus, e quote rilevanti della domanda di trasporto delle merci dal camion al treno e alla nave. Occorre insomma allargare l’impiego di mezzi di trasporto meno costosi, meno inquinanti, meno consumatori di spazio e di energia di quelli oggi prevalenti.

Infine, è nata l’esigenza di porre al centro della pianificazione l’esigenza della tutela e della valorizzazione dell’ambiente naturale e storico. Come garanzia di un futuro possibile (una progrediente degradazione dell’ambiente minaccia di distruggere le stesse possibilità di vita delle generazioni future) e come risorsa per lo sviluppo economico (sappiamo che la qualità dell’ambiente diviene sempre più una delle carte vincenti nella concorrenza internazionale tra le città e le regioni).

Sviluppo, qualità, ambiente

Quest'ultima considerazione ci conduce a un tema che oggi mi sembra centrale: quello del rapporto tra questione urbana e questione ambientale. Progettare oggi una città e un territorio adeguati significa affrontare in modo soddisfacente entrambe le questioni. Significa avviare la costruzione di una città e un territorio nei quali sia superata l'antinomia tra sviluppo e tutela dell'ambiente: in cui anzi la tutela delle qualità dell'ambiente sia vissuta come la premessa e l'occasione e la materia stessa d'un nuovo sviluppo economico e sociale.

Mi ricollego qui a una concezione del rapporto tra ambiente e sviluppo che è ancora controcorrente, nel nostro paese. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si

garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo

economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati

livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo

allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un

sensibile miglioramento dell'ambiente. Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è

insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione

preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. Questa affermazione oggi è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto:

nell'affermazione, appunto, che, come afferma la C.E.E., [2] la qualità dell'ambiente è "una

precondizione di base" per lo sviluppo economico.

Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Voglio limitarmi a sottolinearne una, posta in evidenza anch'essa dalla C.E.E. Questa afferma in termini espliciti che

"la qualità della città é stata riconosciuta come un valore

nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e

la qualità della vita dovrebbero diventare elementi

essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della

città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo

sviluppo economico".

E' insomma la maggiore o minore qualità urbana che consente alle città d'Europa di concorrere più o meno

vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è

in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno

sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e

del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la

penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.

Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa

nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e

materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità

finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di

obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che

storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari,

proprie di questa o di quella città e fondative della sua

individualità; conservare la bellezza esistente e costruire

bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.

Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è

oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù

di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità

assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori

dalla concorrenza nazionale e internazionale.

Non ho la pretesa di aggiungere alcunché al dibattito che da

tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei

limitarmi a ricordare che se al termine "sviluppo" vogliamo

attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente

separarlo dal termine "crescita".

Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo

sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune

tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O

almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti

da tali grandezze sono crescenti.

La "città sostenibile"

In effetti, quanto parlano di sviluppo molti di noi si

riferiscono a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel

rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'O.N.U.

che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo

sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel

Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del

presente senza compromettere la capacità delle generazioni future

di soddisfare i propri" [3].

La mia proposta è appunto quella di applicare la definizione della Commissione dell'O.N.U. alla città, con una sola correzione: sostituendo cioè la parole "senza compromettere" con la parola "migliorare". Questa correzione mi sembra importante per due ragioni. In primo luogo perché

ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta,

e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne

abbiamo ricevuta. In secondo luogo perché la condizione delle nostre

città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è

tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo

assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia

ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di

oggetti e di persone.

L'obiettivo insomma che dobbiamo proporci è allora quello di costruire una città (e un territorio) sostenibili, tali cioè da soddisfare i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni futura di soddisfare i propri.

Alcuni temi più urgentiper la pianificazione territoriale e urbana

Quali sono, oggi, alcune cose concrete che si possono fare, nella progettazione della città e del territorio, per avvicinarsi all'obiettivo della città sostenibile? Vorrei proporne due.

Sulla prima mi sono già soffermato, quindi vi accennerò soltanto: si tratta della questione della mobilità: di una nuova organizzazione del sistema dei trasporti che consenta di spostare quote importanti dal trasporto individuale su gomma a quello collettivo su ferro. E di una nuova organizzazione della città che, giocando sulle localizzazioni e sugli orari, riduca la domanda di mobilità.

La seconda questione urgente e concretamente affrontabile oggi, è quella che definisco come la costruzione, nella città e nel territorio, di un "sistema delle qualità". Su questo voglio indugiare qualche minuto.

Ciò che vorrei proporre è di rovesciare il modo di considerare la città. Vorrei proporre di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltatore. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi dedicati alla ricreazione e alla ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al consumo comune (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).

Vorrei proporre di costruire un "sistema" costituito dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali (le aree e gli elementi a prevalente connotazione naturalistica, il centro antico e le altre testimonianze ed emergenze storiche, le attrezzature e gli altri luoghi destinati alla fruizione sociale), collegandole fra loro sia - dove possibile - attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale alberato protetto) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.

L'urbanista, l'architetto

Mi tocca adesso affrontare un ultimo tema: che cosa è l'urbanista, l'addetto alla progettazione della città e del territorio. In particolare, in che cosa l'urbanista si differenzia dall'architetto, che storicamente ha svolto questa funzione. Sarò brevissimo, perché mi limiterò a leggere un piccolo brano di Italo Calvino.

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual'è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non e sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell'arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? E' solo dell'arco che m'importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.

Ecco, l'urbanista si occupa dell'arco, l'architetto delle pietre. L'architetto progetta singoli oggetti, e definisce le regole secondo le quali essi devono essere costruiti. L'urbanista si occupa di definire le regole secondo le quali essi devono essere composti perché raggiungano, nel loro insieme, un'armonia e una funzionalità complessive.

L'architetto disegna la casa dell'uomo, l'urbanista la casa della società. Ma su questo punto potremo intrattenerci sulla base delle domande che porrete voi stessi. Intanto vi ringrazio per l'attenzione e la pazienza.

[1]Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi.

[2] Si veda il "Libro verde sull'ambiente urbano" approvato dalla Cee. E' pubblicato in Italia nel volume La città sostenibile, Edizioni delle autononomie, Roma 1991.

[3]Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1989.

La ragione della città, il motivo del suo storico affermarsi come luogo della civiltà, nella possibili per il cittadino e per il produttore - di fruire della complessità di funzioni che in essa sono concentrate: di muoversi dall'una all'altra in un breve spazio di tempo; di avere "il mondo ai propri piedi". Oggi, proprio la mobilità che in crisi profonda. Spostarsi da un luogo all'altro un problema, a volte un dramma, sempre un costo e uno spreco.

E' allora del tutto ragionevole che il Ministro per le Aree urbane, uomo d'esperienza metropolitana (é stato Sindaco di Milano), abbia iniziato l'attività del suo Ministero affrontando, come questione prioritaria, quella del traffico. In questi giorni si aprirà nelle Commissioni parlamentari la discussione sul disegno di legge, presentato dai Ministri per le Aree urbane, e per i LL.PP., Tognoli e De Rose: un provvedimento intitolato "Disposizioni in materia di parcheggi e programma triennale per le aree maggiormente popolate".

E' bene dire subito che la proposta di Tognoli e De Rose non sembra tale da affrontare risolutivamente la questione, mentre può costituire un contributo ulteriore ai processi in atto di consolidamento della motorizzazione individuale, di svuotamento della pianificazione urbanistica e di rafforzamento del potere dei grandi consorzi di imprese.

Obiettivo del provvedimento la definizione e realizzazione, in tutti i comuni nei quali il traffico pone problemi, di "programmi urbani dei parcheggi". Il disegno di legge non privo di una sua organicità. Gli undici comuni più grandi (Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania e Palermo) sono obbligati a formare, entro 60 giorni, un "programma urbano di parcheggi per il triennio 1988-1990"; altri comuni saranno obbligati a farlo con un decreto ministeriale. Una volta approvato il programma da parte del Governo, i comuni devono attuarne le previsioni con "piani annuali degli interventi", contenenti l'indicazione precisa delle opere che si intendono realizzare e delle loro caratteristiche tecniche ed economiche, selezionando le opere sulla base dell'analisi costi-benefici, il Governo concede contributi pari al 90% degli interessi sui mutui da contrarre con la Cassa depositi e prestiti; per un importo complessivo di opere pari a 200 miliardi nel triennio. Le opere possono essere progettate ed eseguite utilizzando tutta la gamma delle possibili consentite dalle leggi vigenti: ma chiara la sollecitazione ad adoperare la formula della concessione a imprese o consorzi di imprese.

Le connessioni del programma con una più complessiva strategia dei trasporti sono quasi nulle: i comuni dovranno "tener conto del piano urbano del traffico, ove esistente" (sic), e nella formulazione del programma dovranno preoccuparsi di "favorire il decongestionamento dei centri storici, l'istituzione di isole pedonali, la creazione di parcheggi adiacente alle fermate di trasporto collettivo a grande capacità". Nessun riferimento ai programmi e alle politiche per il trasporto collettivo. Come se l'utilità dei parcheggi non fosse subordinata al loro ruolo di elementi di un complessivo sistema della mobilità, fondato su un trasporto collettivo efficiente: un sistema che tutti dicono di volere, ma che resta scritto sui "Libri dei sogni".

Le connessioni con la pianificazione urbanistica sono invece del tutto ignorate. anzi, per consentire pi chiaramente ai comuni di liberarsi dai "lacci e lacciuoli" dei piani regolatori, si prescrive che le opere previste possono essere in deroga ai piani, riesumando un'antica e nefasta Legge del 1978, approvata allora per accelerare, congiunturalmente, la realizzazione delle opere pubbliche. Ma l'elemento forse più significativo, a questo proposito, é il rigoroso silenzio sullo strumento che dovrebbe assicurare la coerenza degli interventi puntuali con la strategia urbanistica definita dal piano regolatore: al programma pluriennale d'attuazione, - obbligatorio per i grandi comuni fin dal 1977, e considerato allora una importante innovazione volta a conferire ordine e razionalità alle trasformazioni urbane. E' noto che la ventata della deregulation, provocando legislazioni regionali lassiste e comportamenti comunali spesso dominati dall'occasionalità e dalla discrezionalità nalità, ha lasciato quasi cadere in desuetudine il programma pluriennale di attuazione. Il Governo non ha coraggio di proporre l'abrogazione di questo strumento: più facile ucciderlo silenziosamente, ignorandolo e sottraendo di fatto alle sue coerenze gli interventi pi massicci, come appunto quello di parcheggi.

Il disegno di legge Tognoli-De Rose allora davvero un segnale importante d'un clima e d'un destino. Le città (e soprattutto le grandi aree urbane) sono in preda a una crisi profonda. Una crisi che si manifesta in numerosi aspetti materiali: al dramma del traffico si accompagna il degrado fisico sempre più pronunciato di aree sempre più vaste, poiché scomparsa da decenni la cultura, e la prassi, della manutenzione urbana; le condizioni delle primordiali componenti dell'ambiente (la terra, l'aria, l'acqua) sono caratterizzati dai veleni che ospitano e diffondono; alcuni dei tradizionali bisogni (la casa, determinati servizi) sono ben lungi dall'essere soddisfatti a livelli socialmente ed economicamente sopportabili, nonostante le ingenti risorse investite.

E' facile rendersi conto che tutti gli elementi della crisi urbana hanno un denominatore, e una causa, comuni. Essi sono il prodotto di una accumulazione d'individualismo, che ha raggiunto il livello di guardia. Ha raggiunto quel livello al quale la complessità e la ricchezza (di funzioni, di relazioni, di occasioni) si rovesciano in anarchia e povertà. Si può uscire da una crisi siffatta utilizzando gli strumenti adeguati al governo di una realtà sistemica, qual' indubbiamente la città: privilegiando quindi le ragioni della ricerca di una coerenza complessiva delle trasformazioni, e della prevalenza delle soluzioni collettive ai problemi di massa: pianificazione e programmazione urbanistica, dunque, e trasporto pubblico. Il Governo ha scelto invece la strada opposta: quella di isolare singoli problemi, selezionando quelli sui quali si può trovare il consenso più forte e più immediato, e concentrare su di essi tutti gli sforzi, anche a costo di lacerare il tessuto complessivo.

E non c' dubbio che la proposta dei parcheggi ha, da punto di vista che il Governo ha non da oggi assunto, vantaggi considerevoli.

Promettere un sollievo immediato alle migliaia di automobilisti impaniati nel traffico, i quali preferiscono trovare un parcheggio che trasformarsi in utenti del trasporto pubblico. Offre alle grandi imprese un consistente volume d'affari, finalmente regolato da procedure efficienti e rapide. Allarga gli spazi dell'intermediazione, palese e oscura, che agli appalti fa da alone. Elimina alcune strozzature che minacciano di restringere il mercato della maggiore industria italiana. Infine, consente di ridare slancio alle classiche operazioni di valorizzazione e sfruttamento della rendita immobiliare, indubbiamente provocate dalla localizzazione e realizzazione di quei grandi attrattori di traffico che sono i parcheggi.

Sono vantaggi solo per il breve periodo, e per alcune categorie già privilegiate? Non importa. Le categorie premiate sono quelle che contano. E per il futuro, dopodomani ci si penserà: anzi, ci penseremo.

Il Consiglio dei ministri non aveva ancora deciso se confermare o meno l’impegno del Governo Berlusconi e consentire agli USA di Bush di realizzare una nuova base militare a Vicenza. Impegni variegati erano stati espressi da autorevoli esponenti nella maggioranza. I giochi sembravano aperti. Ma Prodi tagliò gli indugi e troncò la discussione con una frase, pronunciata da Sofia: “Il problema è urbanistico, decida il comune”. Poi si capì che il trasferimento di responsabilità era solo di facciata: per Prodi il comune aveva già deciso, poiché il Consiglio comunale, a stragrande maggioranza di centrodestra, aveva già accettato. Ma la frase era rimasta, incisa nelle effimere tavole di bronzo dei mass media: “Il problema è urbanistico”.

Poi, la grande manifestazione del 17 febbraio. Una protesta corale, gioiosa, pacifica e allegra, piena di NO (come si fa a non esprimere tanti NO quando dai decisori arrivano a piene mani tante scelte sbagliate?) ma piena di speranza per un domani diverso. Una protesta nella quale molte ragioni si sono sommate: la delusione per un governo che “non dice nulla di sinistra” e il disagio di chi vede ridurre il welfare e aumentare le tasse, il pacifismo di principio e l’opposizione alla guerra come strumento privilegiato di politica internazionale, la critica al governo Bush e l’antiamericanismo di chi vede negli USA il motore del neocolonialismo globale, il desiderio di vivere meglio a casa propria e la ripulsa per la cementificazione del territorio.

Non sarà merito della frase di Prodi, ma l’urbanistica è stata davvero l’elemento unificante dell’evento: il territorio, l’attenzione alle sue trasformazioni e al suo destino. Lo ha annotato un osservatore intelligente, come Furio Colombo. “La questione è: contano i cittadini nelle decisioni che li riguardano e li coinvolgono direttamente e che cambieranno la loro vita? In questo senso non sono d’accordo con il dire che tutto ciò ‘non è una questione di piano regolatore’. Perché quando non si ascoltano i cittadini neppure sul piano regolatore, che vuol dire la vita vicino a casa, è molto difficile che li si ascolti su grandi controversie lontane”. Le nuove strutture militari scaricate sul territorio vicentino “avranno a che fare, molto prima che con la politica del mondo, con le falde acquifere di Vicenza, con il centro storico di Vicenza, con il traffico di Vicenza, con la famosa ‘compatibilità’ ambientale del nuovo richiesto con il ‘vecchio’ che esiste già. Ovvero: da un lato la vita dei cittadini, dall’altro la qualità storica unica al mondo della città palladiana”. Il ragionamento è sacrosanto.

La stragrande maggioranza dei manifestanti erano vicentini che protestavano per l’ulteriore danno al loro territorio. E ad essi si univano moltissimi, di quelli venuti da fuori, che portavano l’adesione delle analoghe proteste territoriali contro la TAV in Val di Susa, contro il Pontone sullo Stretto, contro il MoSE a Venezia. Presenze significative. Per comprenderne il senso basta ricordare l’arroganza con la quale in Italia rilevati stradali e ferroviari e trafori, ponti e megacentri commerciali, cittadelle dello sport e quartieri abusivi, auditorium e porticcioli turistici, torri solitarie (come a Savona) o trine (come a Milano) aggiungono carichi su un territorio fragile, prezioso, custode di risorse vitali. La protesta di Vicenza esprime un disagio e una ribellione che ha radici molto vaste e diffuse. All’inizio degli anni 70 un politico intelligente, Alarico Carrassi, responsabile del territorio del PCI, scrisse: “Per la riforma urbanistica il detonatore è la casa”: la tensione sociale sulla questione abitativa aprì infatti la strada a una breve stagione di riforme sul governo del territorio. Forse oggi il segnale che viene da Vicenza indica una strada simile.

Di Baia Sistiana si è parlato una prima volta nel 1990, quando un progetto attuativo del PRG fu presentato al Consiglio comunale. Del progetto si criticavano le cubature eccessive, la trasformazione edilizia della Baia, l’eccessiva altezza delle costruzioni nella limitrofa Cava, la minaccia di privatizzazione della fruizione del litorale. L’operazione fu bloccata da una campagna di stampa e da un NO all’ultim’ora del ministro dei Beni culturali (Facchiano).

Fu redatto un nuovo PRG (alla cui progettazione collaborai) che ridimensionò fortemente le cubature, previde un sistema di parcheggi a monte e l’eliminazione del traffico lungo la costa, definì le garanzie per la fruizione libera degli spazi balneari. L’obiettivo era quello di promuovere, accanto alla balneazione, un turismo a rapida rotazione d’uso e lunga durata, legato alla convegnistica e ad altre funzioni di profilo internazionale. La prospettiva di Baia Sistiana era inquadrata in una serie di scelte per l’intero territorio comunale che attribuiva il primato alla tutela del paesaggio carsico, alla difesa delle attività agro-silvo-pastorali dalla pressione della domanda di seconde case dei triestini, alla tutela dell’identità dei borghi carsici e al rilancio del loro ruolo.

La polemica è divampata di nuovo l’anno scorso. Sono state approvate dal Consiglio comunale una piccola variante al PRG e il PP attuativo, ed è stato presentato dalla proprietà un progetto architettonico che chiarisce la prospettiva verso la quale si muove. La variante, il PP e il connesso progetto sono stati criticati per più motivi: alcuni legati alla tutela delle risorse naturali, altri di natura funzionale: 1) la modifica delle utilizzazioni consentite nelle nuove costruzioni, che prefigurano un destino di “villaggio residenziale al mare”: una periferia di Trieste; 2) la tendenza strisciante verso la privatizzazione della fruizione balneare; 3) il livello della progettazione architettonica, ispirata a modelli assolutamente inaccettabili (si ricostruisce in vitro un falso stile locale, mai esistito, denominato “istro-veneto”).

Le associazioni ambientaliste si opposero con manifestazioni pubbliche e con puntuali osservazioni. Di esse non si è tenuto conto in nessun modo, non presentandole neppure ai consiglieri comunali, con evidente spregio della legalità e di quel minimo di procedure di partecipazione che le leggi vigenti prevedono.

La sentenza del TAR dà ragione alla associazioni ambientalistiche su punti che hanno anche un interesse più generale. Due punti soprattutto mi sembrano rilevanti.

In primo luogo, le osservazioni sono state respinte senza un’adeguata motivazione. Afferma la sentenza che non è “in alcun modo sostenibile che il consiglio comunale si sia motivatamente pronunciato su osservazioni il cui contenuto non gli è stato palesato e sul cui motivato rigetto o recepimento non ha sicuramente votato”. Di conseguenza,“nel caso di specie né la commissione consiliare né, maggior ragione, il Consiglio comunale hanno in nessun modo adempiuto alla prescrizione normativa di una ‘motivata pronuncia’ sulle osservazioni”.

In secondo luogo, il TAR ha ribadito che il piano attuativo deve essere successivo a un piano regolatore generale in vigore, mentre le associazioni avevano segnalato che il Consiglio comunale aveva approvato una variante al piano regolatore che non era ancora materialmente esistente. La sentenza afferma che “appare ictu oculi evidente che con un siffatto modo di procedere il Consiglio comunale ha completamente rinunciato a valutare la conformità degli elaborati che peraltro ‘sono’ lo strumento urbanistico, ai propri intendimenti, approvando poco più che uno strumento in bianco e compiendo quindi una macroscopica illegittimità, in violazione delle prerogative che la legge gli affida ed ai compiti che gli impone di svolgere”. In definitiva, “l’operato del Comune non può ritenersi rispettoso del generale principio della subordinazione della pianificazione attuativa a quella generale”.

Salva Baia Sistiana? Per ora. Le vittorie saranno sempre precarie (e affidate alla generosità di persone come Dario Predonzan e Wilma Diviacchi) finché non ci saranno governanti capaci, a tutti i livelli di governo, di farsi carico degli interessi generali e di difendere il “tesoro comune” del paesaggio contro il suo sfruttamento economico immediato. Per Baia Sistiana, né Comune, né Provincia né Regione si sono mostrati fino a oggi capaci di assumere le responsabilità che la presenza di un siffatto gioiello richiederebbero.

Edoardo Salzano, 25 maggio 2004

La notizia sul sito del WWF Trieste

Quando si guarderà la Piana dall’alto di Monte Morello, di notte, al centro della piana, tra le luci dell’aeroporto e quelle dell’Osmannoro, tra le file dei lampioni dell’Autostrada, della Ferrovia, della Mezzana, apparirà ancora il grande buco nero del Parco. Ma di giorno le cose ritroveranno il loro valore: l’area senza luci apparirà nella sua realtà: l’unica zona ancora non impestata dai mille disordinati manufatti di cemento e d’asfalto, da ciò che Firenze e Prato hanno disordinatamente scaricato nell’antica campagna irrorata dall’Arno e dai suoi affluenti. Apparirà finalmente nel suo aspetto di ordinata campagna, solcata dai filari di alberi e di siepi che riprenderanno il tracciato degli antichi percorsi, attraversata dai lievi sentieri per i pedoni e i ciclisti, sugli argini dei corsi d’acqua che avranno ritrovato la loro vegetazione e il loro lento percorso.

Ai piedi del Monte di Sesto le case (a differenza di quanto accadeva molti anni fa) non si arrampicheranno su per le pendici collinari, e i costruttori avranno smesso da tempo di riempire di ville e villette le radure del bosco. Verso il Monte come verso la Piana la linea di demarcazione tra la città costruita e il territorio aperto, fissato dal nuovo Piano strutturale come un “limite invalicabile” alla cementificazione, come una “invariante strutturale” non rimovibile, avrà esercitato il suo potere di difesa della campagna e della natura. Promosso dal Regolamento urbanistico, sarà diventato operativo un attento studio sugli interventi necessari per restaurare il paesaggio agrario e per restituire convenienza economica alle tradizionali attività agricole. La sua attuazione avrà consentito d’evitare il degrado delle aree non boscate né abbandonate alla rinaturalizzazione, di garantire una vita soddisfacente alle famiglie insediate negli spazi aperti, e soggiorni piacevoli e interessanti ai turisti alloggiati nei casali e nelle pievi accortamente restaurate.

I corsi d’acqua avranno ritrovato il loro percorso naturale; le loro sponde saranno di nuovo coperte dalla vegetazione ripariale. Il loro aspetto sarà mutato perfino là dove attraversano la città costruite. Non più fossi maleodoranti e occasionali discariche, non più canalizzazioni cementizie: saranno ridiventati elementi di naturalità, verdeggianti sentieri dove gli uomini e l’acqua corrono paralleli, dal monte alla piana, congiungendo in un unico sistema di percorsi le due grandi realtà naturali del territorio sestese.

Anni fa Sesto Fiorentino correva il rischio di diventare una periferia di Firenze. La qualità della vita era migliore che nel capoluogo: più verde e servizi, meno congestione. Molti avevano preso casa a Sesto pur lavorando a Firenze. Nel capoluogo le case erano care, sempre più alberghi e sempre meno alloggi per i fiorentini. Come nelle altre periferie, anche Sesto minacciava di diventare un quartiere dormitorio della città più importante, rischiava di perdere la sua individualità. L’effetto congiunto di una difesa delle caratteristiche proprie della città, di una buona tenuta dell’economia sestese (oltre alla fabbrica di ceramiche dei Ginori, che era diventata parte costitutiva della città, altre attività si erano consolidate), e di positive iniziative di politica metropolitana promosse dalla Regione e dalla Provincia, aveva scongiurato questo rischio. Con Campi, Signa, Calenzano e gli altri centri della piana fiorentina, Sesto era diventato parte di una rete di centri ciascuno dei quali aveva mantenuto la sua individualità e il peculiare carattere, costituendo (con l’aeroporto e i grandi centri commerciali, con l’università e l’Osmannoro) elementi vitali di una rete di attività, di ambienti, di funzioni tra loro integrate.

A questa rete il Servizio ferroviario regionale, una ricalibratura delle strade carrabili e le nuove linee tranviarie (da Firenze a Campi Bisenzio e al centro di Sesto, attraverso l’Università e Zambra a monte, e Osmannoro a valle) avranno fornito un efficiente e amichevole servizio di trasporto. Una rete di percorsi ciclabili, quasi dovunque in sede propria e sempre protetti, prolungandosi con i sentieri sul Monte Morello, avrà collegato tra loro tutti i luoghi che è interessante e piacevole visitare e percorrere, sia nelle ore e nei giorni liberi che negli spostamenti quotidiani: da Padule al Parco delle Cascine, da Querceto e da Colonnata ai Renai e all’Arno, chi vorrà approfittare degli spostamenti per fare un po’ d’esercizio fisico non avrà che l’imbarazzo della scelta.

Nella vita quotidiana i sestesi avranno ritrovato e consolidato i segni e i luoghi della loro storia. Le denominazioni degli antichi “popoli” dalla cui associazione la moderna Sesto è nata (Quinto e Sesto, Colonnata, Querceto, Padule), e i toponimi antichi e nuovi delle zone “sott’il treno” (Zambra, San Lorenzo) saranno divenute quelle delle “Unità territoriali organiche elementari” (nome complicato, sostanzialmente coincidente con la realtà dell’unità di vicinato o del quartiere). In quelle “Utoe” le cittadine e i cittadini troveranno i servizi di prima necessità, la piazza dove incontrarsi, gli sportelli automatici per l’accesso ai servizi comunali, a quelli postali e bancari, e alle altre necessità quotidiane.

Dal centro di ogni Utoe si dipartiranno percorsi, pedonali e ciclabili, protetti dal pericolo e dall’inquinamento delle automobili, che collegheranno tra loro tutte le parti della città dove sono localizzati i servizi e gli spazi dedicati alla fruizione collettiva: dai parchi e i giardini alle scuole, dai servizi sanitari agli uffici pubblici, dalle piazze alle aggregazioni commerciali. L’insieme di questi percorsi (piacevoli, protetti, con le nuove gradevoli pavimentazioni e piantumazioni di alberi e arbusti) costituirà una rete: la rete delle qualità ambientali, sociali, culturali – alternativa a quella dei precorsi carrabili, dell’asfalto e delle automobili.

Per costruire questa rete - per consentire alle donne e agli uomini, ai bambini e agli anziani, alle biciclette e alle carrozzine, di muoversi e d’inconmtrarsi in una città amica – si sarà dovuto procedere a una ricalibratura della rete stradale. Alcune strade saranno state attrezzate in prevalenza per il transito pedonale e ciclabile e solo in parte del loro spazio potranno essere utilizzate il traffico meccanico locale. Le altre strade delle zone centrali sarà consentito anche la sosta delle automobili, ma solo per i residenti e – nei percorsi più attrattivi – per la sosta operativa legata al commercio e ai servizi. I visitatori occasionali o pendolari, che non avranno voluto o potuto utilizzare l’efficiente ed amichevole rete integrata di traspoprto collettivo, dovranno sistemare le automobili in appositi parcheggi, opportunamente localizzati in modo da consentire di raggiungere ogni luogo con percorsi brevi.

Altri interventi avranno interessato le sedi stradali, ma sempre nell’ottica di migliorare la vivibilità della città, di renderla più piacevole ed efficiente per le cittadine e i cittadini. Così, la realizzazione della nuova strada Mezzana Perfetti-Ricasoli, allontanando dal centro il traffico di attraversamento, avrà consentito di ottenere un notevole alleggerimento dell’asse di via Ariosto, che sarà stato pienamente recuperato a funzioni urbane: attraversato dalla nuova linea tramviaria e fiancheggiato da una comoda pista ciclabile, sarà diventato un viale urbano fiancheggiato da caffè e negozi, e da spazi per la sosta e il ritrovo.

Analogamente, il completamento della rete stradale dell’Osmannoro avrà concorso alla trasformazione radicale del quartiere. Non più un insieme di capannoni e altri edifici malamente assortiti, ma un vero e proprio quartiere urbano, ricco di attività produttive moderne e non inquinanti, di attività commerciali di livello metropolitano, di aziende specializzate nella produzione di servizi ad alto contenuto di tecnologia. E il suo asse centrale (l’attuale via Lucchese) si sarà trasformato anch’esso in un viale urbano, percorso da una linea tranviaria moderna che collegherà comodamente i vari punti del Viale dell’Osmannoro al polo universitario, ai centri e alle stazioni ferroviarie di Sesto e di Campi Bisenzio, e infine a Firenze e a Prato. Verso ovest questa parte di città si concluderà in modo più definito di ora: gli stagni e i prati destinati alla laminazione delle piene dei corsi d’acqua costituiranno un bordo preciso alla città tecnologica. La torre del termovalorizzatore segnerà il limite fra città e campagna.

Avranno cominciato ad essere radicalmente trasformate le “aree urbane non consolidate”: quella delle caserme e quella a monte della Coop a Zambra, ristrutturate anche in connessione alla riorganizzazione della stazione del servizio ferroviario regionale di Zambra, dove un’ampia dotazione di verde avrà posto in connessione il centro di Quinto e quello di Zambra, contribuendo alla costruzione del “sistema delle qualità”; quella di via Pasolini, alleggerita rispetto alle previsioni del vecchio PRG, strettamente integrata con le attrezzature sportive previste a monte, e aperta verso il polo universitario; quella della Ginori, dove il consolidamento della fabbrica sarà stato accompagnato dalla realizzazione di un centro culturale ed espositivo dedicato alla storia e all’arte della ceramica, alla riconfigurazione di un’area nodale per la nuova Sesto, e ad un aumento consistente della dotazione di parcheggi; quella della cartiera, in margine alla stazione ferroviaria, che sarà stata impegnata da un’azienda, pubblica o privata, di rilevo nazionale, interessata a una localizzazione strategica e accessibile come quella; A San Lorenzo e Padule saranno completati gli ultimi insediamenti residenziali verso la piana, collegati a quest’ultima dalla trama di aree verdi e di percorsi che, superando con facilità la strada Mezzana, consentiranno ai Sestesi, in pochi minuti di bicicletta, di godere di un po’ di riposo dallo stress del lavoro e della vita urbana, e di restituire allo sguardo il familiare profilo di Monte Morello, il monte di Sesto.

Edoardo Salzano

First of all, from where we come, where we go.

No society, no culture, no civilization can live without the consciousness of its history. The roots of our life, and of our capacity to be active and responsible members of mankind, are in our history: they are in the history of our civilization, of our country, of our City and our family. Without our roots we become as sterile as uprooted trees.

And no society, no culture, no civilization can progress unless it cares for its posterity: for men and women, for coming generations, for the civilizations that will appear in our universe after us, and will live, utilize and enjoy it as we will have left it.

The livable City: a link between the past and the future

Therefore I think that we must consider, first of all, the livable City as a link between the past and the future: the livable City respects the imprint of history (our roots), and respects those who are not born yet (our posterity).

A livable City is a City that preserves the signs (the sites, the buildings, the layouts) of history. It preserves the historical centers and the castles, the cathedrals and the palaces of the lords and of the City powers, surely. But it also preserves and restores the common houses lived in by common people (what we call “edilizia minore” or “edilizia di base”), which can testify to a rich and wise culture of living and building, and the traces of the historic design of the city, the narrow streets and the neighborhoods square, the traditional relationship between the house and private open space, and private space and community space and public space, and indoors and outdoors.

A livable City is also a City that fights against any waste of the natural resources and that we must leave intact for the humankind, id est for our posterity. In the livable City all the care of planners and designers, all the care of technicians and administrators - and first of all the care of citizens - is applied to use the minimum resources of earth and water and energy: resources that, as now we know, are limited and cannot be reconstituted. Therefore a livable City it also a “sustainable city”: a City that satisfies the needs of the present inhabitants without reducing the capacity of the future generation to satisfy their needs.

Social elements and physical elements

History tells us that in a City social and physical elements are strictly tied together. As the home is the expression and the instrument of family life, in the same way, the City is the expression of social life, and the tool for well being and progress of the community.

It is not possible to separate, in the city, social elements and physical elements: it is only possible to distinguish them.

In the livable City both social and physical elements must collaborate for the well being and the progress of the community, and of the individual persons as members of the community.

The seven aims for the livable city

1. A livable City has no boundaries: it is open to the whole world, and it has no ghettos nor segregated areas.

The City was born, in the history of our civilization, as the site where people became free and equal. The City was transformed as the site where social and economic differences, as well as ethnic and religious ones, created barriers and confined and constituted sharply defined ghettos. In the livable City policies for public services and those for house rent must collaborate with town planning in order to abolish the constraint of boundaries and the disease of segregation.

2. A livable City is marked by the complexity of its functions and by the richness of the interpersonal exchanges it fosters.

The City is traditionally the site of exchanges and of the larger scores of opportunities. The historical centers (where they have not been reduced in tourist Disneylands) tell us how livable is the City where the different functions live together: inhabiting, working, shopping, meeting, recreation, health care. With the rigid application of functional zoning modern town planning menaces to destroy the complexity of the city, and to implement more and more traffic.

3. A livable City is a City where the town planners are able to manage the complexity and the dynamics so that it does not degenerate into congestion and anxiety.

If they are not carefully managed, complexity of functions and dynamics of life can transform the richness of exchanges in to chaos. Congestion of traffic and anxiety in individual lives are more and more characteristics of urban life, exspecially in the bigger cities. Only a wise policy of town planning can enable the public administrators to manage urban development to increase the livability of the city.

4. A livable City has a good relationship with its site and with the environment.

The City is part of the balance between nature and history, between the action and culture of man, and the forces and rhythms of nature. The design of the City (in new developments as well as in restoration of the ancient settlements) must demonstrate the respect and place value on the characteristics of sites and care for the environment.

5. A livable City is the home of the community.

In its golden ages the identity of the City is strictly tied to the prevalence of the interests of the whole community over the interests of groups and individuals. A livable City is not merely an agglomeration of houses: in its organization, as well as in its stones and spaces it must show its reality as home of a community.

6. A livable City is a City where common spaces are the centers of social life and the foci of the entire community.

We will see better tomorrow this point. Today I will only say that a livable City must be built up, or restored, as a continuous network - from the central areas up to the more distant settlements -- where pedestrian paths and bicycle-paths bind together all the sites of social quality and of the community life.

7. And finally, a livable City is not built for the appearance and the glory of architects and City managers, but for the well-being of the citizens.

Town design and town planning are not the result of the imagination and the work of one person (a Genius or a Hero), but the result of a dialectic and the produce of group work, where the different competencies and the different responsibilities (those of the Technicians, the Administrators, the Politicians) systematically collaborate. Only in that way the City can really be, as in its golden ages, the home of the community.

La ragione che ci ha spinto a cercare e a pubblicare questo testo pronunciato da Capo Sealth (o Seattle) dei Salish è in primo luogo nella sua straordinaria bellezza: nella sua toccante poeticità, e nella sua sconvolgente forza profetica. È poi nella nitidezza con cui traspare (ma più giusto sarebbe dire irrompe) quell'intenso e profondo legame dell'uomo con la natura che è tipico, ci dicono, delle società tribali che popolavano quella che oggi chiamiamo America, prima che gli uomini sbarcati dall'Europa distruggessero ciò che preesisteva al loro arrivo. Non crediamo di esagerare troppo se confidiamo al lettore che il testo di Capo Sealth ci è sembrato raccontare l'amore dell'uomo per la natura con una capacità di esprimere sentimenti con immagini paragonabile a quella rivelata dall'ignoto autore del Cantico dei cantici per raccontare l'amore dell'uomo per la donna.

Il testo che pubblichiamo ci è stato fornito, e tradotto dall'inglese, da Domenico Buffarini. È la traduzione del testo originario (qui per la prima volta pubblicato in Italia in versione integrale) raccolto, con il titolo «A long speech of Chief Seattle or Sealth of the Dwamisch tribe», in Oregon historical review, Portland 1885, XXII, pagg. 1033-1035.

Esso induce a riflettere per piú d'una ragione. Rivela una capacità di adesione poeticamente (e quindi primitivamente) consapevole al mondo delle cose, che indica all'umanità di oggi traguardi che devono essere riconquistati anche in un mondo (e un'epoca) in cui la natura è stata profondamente plasmata e trasformata dalla storia.

Denuncia la perdita di valori provocata da quel determinato sviluppo che la rivoluzione capitalistico-borghese ha impresso all'evoluzione dell'umanità. Squarcia dinnanzi allo sguardo il velario che celava (quando Capo Sealth parlava) una prospettiva catastrofica che, dopo Hiroshima e Three Miles Island e Chernobyl, sappiamo possibile. E dimostra, infine, che il termine "recupero" deve comprendere più cose che i beni immobili: civiltà vicine alle nostre, minoranze etniche sconfitte dalla storia, sono portatrici di verità che devono essere non solo rispettate per ciò che sono state, ma, appunto, "recuperate" per il messaggio universale che contengono.

A mo' d'illustrazione, e a commento contemporaneo della profezia di Capo Sealth ("la vostra civiltà produce immondizie ed esse, un giorno, vi annegheranno "), pubblichiamo una pagina di un altro poeta, Italo Calvino, tratta da Le città invisibili (ed. Einaudi, Torino, 1972).

E invitiamo il lettore a fare dell'uno e dell'altro testo una lettura non reazionaria né disarmata, ma a cercare di riflettere su di un punto che a noi sembra accomunare i due scritti al di là dei riscontri più superficiali: che, cioè, per stabilire, nel mondo contemporaneo, un rapporto umano tra la società e l'ambiente fisico, bisogna scavare e trasformare nel profondo. nelle regole di base.

Il testo è qui

Ne parla ampiamente questo sito

Salvatore Settis, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha scritto su Repubblica (18 novembre 2006) un interessante articolo. In esso, partendo da una valutazione della proposta di Rutelli di «un rinnovato impegno per l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole italiane di ogni ordine e grado», affronta la questione dello “scandalo” di Monticchiello da un punto di vista utile e corretto: che cosa fare per evitare che quello scandalo continui ogni giorno a ripetersi, in ogni parte d’Italia? Tra le molte considerazioni giuste di Settis qualcuna merita precisazioni, anche per il ruolo che oggi riveste.

Leggendo l’articolo si ha l’impressione che la legislazione italiana in materia di paesaggio sia stata - dal 1939 a oggi - una serie continua di errori e limiti, e di “continui slittamenti” della responsabilità dallo Stato verso le istituzioni sottordinate. Le cose non stanno così; il sistema legislativo italiano ha conosciuto un continuo progresso da una posizione meramente vincolistica (quale del resto non era neppure interamente la legge del 1939) a una posizione basata sulla considerazione e sul governo integrale di tutti gli aspetti che determinano il paesaggio. E credo che vada in primo luogo ricordato che la tutela del paesaggio è, secondo la nostra Costituzione, impegno della Repubblica, non solo dello Stato. Se a questo spettano le responsabilità maggiori, ci sembra che la «assidua riconsiderazione del territorio nazionale alla luce e in attuazione del suo valore estetico-culturale», cui rinvia sistematicamente la Corte costituzionale, sottolinei la necessità di un impegno altrettanto rilevante delle regioni, delle province, dei comuni.

Ciascuna istituzione con le proprie specifiche responsabilità. Così ci aspettiamo che lo Stato eserciti i propri poteri (e non faccia come a Monticchiello, dove ha dimenticato di pronunciarsi in tempo utile). Aspettiamo che lo Stato si muova oggi, in attuazione al Codice dei beni culturali e del paesaggio, che costituisce il punto più avanzato dell’evoluzione culturale, avviata dalla legge Galasso; che ci ha portati ben lontani dalle logiche meramente vincolistiche e procedimentali. Quelle logiche per le quali lo Stato vincola un bene, e l’effetto del vincolo è che si deve sottoporre alla soprintendenza il progetto di trasformazione, e l’ufficio risponde caso per caso: tegole verdi invece che rosse, un piano di meno, qualche “mitigazione” e così via, discrezionalmente. Una logica alla quale invece Settis sembra ancora legato, se ritiene ancora che si possano applicare oggi le pecette del vincolo procedimentale, forse utili quando il territorio tutelato era del 2 o 3%, mentre oggi, grazie alle leggi degli ultimi 20 anni, è certamente oltre il 50%.

E’ certamente da condividere il giudizio di Settis sulla «infelice riforma del titolo V della Costituzione». E sarebbe davvero una buona cosa se dall’organo presieduto da Settis, e dal ministro Rutelli, partisse una vigorosa iniziativa per correggere il grave errore compiuto dal Parlamento nel 2001. Ma nell’attesa, non adoperiamo la pistola scacciacani dell’antico vincolo procedimentale, ma gli strumenti difensivi foggiati in tempi più recenti.

Oggi lo strumento è l’applicazione rigorosa, integrale, consapevole, e in primo luogo informata, del Codice del paesaggio. Questo dispone che le regioni formino un piano paesaggistico di cui vengono precisati con ampiezza i contenuti. Non potranno essere piani di chiacchiere (come quello preannunciato nelle 99 pagine del documento preliminare al Pit della Toscana), ma piani che censiscano con accuratezza, su una base cartografica adeguata e per tutto il territorio regionale, i beni paesaggistici di cui è già prescritta la tutela (quelli individuati a partire dalla Legge Galasso) o comunque ritenuti d’interesse nazionale e regionale; che dispongano per ciascuna categoria di essi specifiche regole di tutela di ciò che c’è da tutelare; e che indirizzino i comuni a concorrere nella “assidua considerazione”, proseguendo alla scala locale nell’individuazione di ulteriori beni, e tutelando le specifiche qualità dei diversi “ambiti di paesaggio”.

Le regioni sono obbligate, dalla legge, a fare ciò. Se lo fanno d’intesa con le amministrazioni dello Stato (Beni culturali e Ambiente e tutela del territorio), allora le procedure abilitative degli interventi nelle aree tutelate sono semplificate e snellite, e la garanzie della tutela è fornita dal rispetto formale e sostanziale del piano paesaggistico. Altrimenti le procedure restano definite nell’attuale modo, da tutti giudicato complicato e farraginoso.

Certo, per i ministeri coinvolti dalla legge il concorso con le regioni nel redigere i piani paesaggistici non è compito che i loro organi possano fare rimanendo organizzati così come lo sono ora. Ma è certo incomparabilmente meno pesante, e certamente più efficace, la riorganizzazione da compiere per assolvere i compiti nuovi, che quella che sarebbe necessaria se si volessero rincorrere centinaia di migliaia di autorizzazioni paesaggistiche o altri simili atti discrezionali.

Lavorerà in questa direzione il Ministero del quale Settis è autorevolissimo consigliere? C’è da augurarselo. Altrimenti, “ecomostri”, ben peggiori di quello di Monticchiello, continueranno ad accumularsi sul nostro territorio. E si dovrà additare come complice la miopia di chi oggi guarda unicamente all’apprendimento dell’arte del passato (certo utilissimo), e trascura l’applicazione delle buone leggi attuali. Dimenticando che, come afferma Settis, che «il centro del problema si è spostato», e alla «storia delle arti belle» va aggiunta «quella del paesaggio e dell’ambiente, del loro delicato innestarsi sul tessuto urbano», perché «è qui, nella non-tutela del paesaggio e dei tessuti urbani, che si compiono i maggiori scempi, ed è qui che la coscienza civica deve farsi adulta»: anche conoscendo le leggi le ragioni e i modi mediante i quali il territorio viene devastato, e gli strumenti mediante i quali è possibile impedirlo.

Mi sono domandato spesso, in queste ore che cominciano ad allontanarci dalla morte di Giovanni Astengo, perché all'Assemblea dei soci dell'Inu di Pescara decidemmo, tre anni fa, di istituire per lui la carica nuova di presidente onorario dell'Istituto nazionale di urbanistica. Molte ragioni mi sono venute alla mente, tutte giuste, ciascuna di per sé sufficiente. Nessuna, però, definitiva, inequivocabile.

Astengo era il piú prestigioso degli urbanisti italiani. Era l'ultimo d'una generazione (quella dei Piccínato, dei Samonà, dei Detti) che aveva fondato, con la teoria e con la prassi, la moderna cultura urbanistica italiana. E all'apporto di questa generazione - dei padri dell'urbanistica italiana - Astengo aveva portato il contributo, secondo molti di noi essenziale, del rigore scientifico del metodo, della ricerca dell'oggettività delle analisi come base e giustificazione delle scelte della pianificazione.

Astengo era il maestro, e la sua vita era la testimonianza, di un legame stretto tra cultura e amministrazione, tra scienza e polìtica: era il maestro e il testimone della ricerca costante, paziente, sempre sofferta, spesso amara di una interazione profonda tra questi due aspetti essenziali dell'urbanistica quale noi la intendiamo.

Astengo era l'espressione piú intensa della volontà di una disciplina - della sua, della nostra disciplina - di affermarsi, di consolidarsi, di approfondire e rendere attuali le ragioni della propria utilità sociale attraverso l'insegnamento: l'insegnamento come organizzazione del sapere e dei modi concreti di trasmetterlo e propagarlo, e l'insegnamento come apostolato, come testimonianza, come seminagione di certezze (e di dubbi) per la crescita del futuro.

Astengo, infine, aveva svolto un ruolo decisivo, se non nella nascita, certamente nell'affermazione e nel consolidamento dell'Istituto nazionale di urbanistica. È sufficiente ricordare il ruolo di Astengo non solo come direttore della rivista dell’INU, di Urbanistica, ma come protagonista, autore, redattore, editore, perfino finanziatore - con i sacrifici che la modestia dei suoi mezzi gli consentivano -; in una parola, come fattore di Urbanistica, se è lecito adoperare questo termine nel suo significato letterale.

Ciascuna di queste ragioni, ciascuno di questi aspetti della sua personalità era di per sé sufficiente, e ad abundantiam, per onorare l'Inu attribuendo ad Astengo il titolo di presidente onorario. Ma la ragione vera, la ragione profonda della nostra scelta (o, almeno, di chi la propose) sta in un altro elemento. Sta nella profonda, rigorosa, severa moralità di Giovanni Astengo. Era una moralità che si esprimeva in mille modi: da quelli piú quotidiani, piú legati ai comportamenti privati, fino a quelli che determinavano in lui le scelte della vita professionale, culturale, politica. E se i primi potevano far sorridere qualcuno di noi, la sua moralità culturale, pubblica, era per tutti fonte di rispetto: per chi, come noi, concordava con le sue scelte, come per chi non le condivideva.

Io credo che in quella profonda, rigorosa, severa moralità sia non solo una convincente chiave di lettura dei diversi aspetti del contributo di Giovanni Astengo e della loro unitarietà, ma anche il piú importante e attuale insegnamento che ieri la sua presenza, oggi la sua memoria ci può dare. Quello della moralità è un insegnamento controcorrente, fuori moda. È un insegnamento che porta a privilegiare certi valori nei confronti di altri: precisamente, a privilegiare valori difficili contro valori facili.

A privilegiare il rigore dell'analísì, la coerenza del percorso logico, la sistematicità delle scelte, contro la superficialità magari geniale dell'improvvisazione, contro l'intuizione accattivante, contro il gesto che conquista prima di convincere. A nascondere l'affermazione personale nel lavoro collettivo. A posporre l'interesse proprio all'ínteresse comune, l'interesse privato all'interesse pubblico. A praticare, senza neppure predicarla, la tranniquilla ra

Questa moralità contiene in sé i parametri di un certo modo, del modo giusto, di concepire e di praticare l'urbanistica, di essere urbanista. Perciò era giusto che Giovanni Astengo stesse al vertice dell'Inu. Perciò è triste che non ci sia piú. Sta a noi, a noi tutti, far si che il suo insegnamento continui a vivere, a essere un seme per il futuro.

Una domanda necessaria

Se si parla, o si scrive, di PRG o di pianificazione comunale, tutti sanno di che cosa si parla: benché le interpretazioni (spesso cristallizzate in “scuole”) siano diverse, un’idea generale della pianificazione a livello locale si è formata, non solo tra i savants e i clercs, ma anche nell’opinione pubblica corrente, nel pensiero del cittadino. Ciò è dovuto certamente al fatto che c’è ormai una lunga, plurisecolare esperienza di regolazione dei diritti edificatori delle proprietà e di razionalizzazione delle infrastrutture e degli spazi pubblici in Europa. Non è così per la pianificazione d’area vasta. Benché, in Italia, sia stata prevista dall’avveduto legislatore fin dal 1942 [1], e ancora prima sia stata in almeno un caso praticata [2], la pianificazione territoriale non ha avuto fortuna; nessun piano territoriale è stato portato a termine fino all’istituzione delle regioni, e pochissimi nei decenni successivi.

Parlare, come intendo fare, di un piano territoriale, richiede perciò che si risponda preliminarmente alla domanda: che cos’è un piano territoriale?

Un dibattito lungo tre decenni

La discussione sulla pianificazione d’area vasta si è sviluppata, impetuosa e inconcludente, negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, proponendo e sperimentando (soprattutto dopo l’istituzione delle Regioni) diverse strade. Volta a volta ci si riferiva alla “regione”, fornendo a questo termine accezioni molto diversificate[3], alla “comunità”, riferendosi ad esperienze della cultura americana rivisitate alla luce del personalismo di Emmanuel Mounier[4], al “comprensorio”, già presente nell’elaborazione dell’INU di Piccinato, Astengo, Detti, Samonà negli anni 60, poi tentativamente adoperato in alcune rilevanti esperienze regionali e statali[5].

Vale la pena di osservare che nella discussione (o per meglio dire, nella serie di dibattiti che si accesero e spensero), non si diede mai particolare rilievo alle differenze che avrebbero impedito, o reso troppo problematica, l’applicazione della pianificazione nel Mezzogiorno, e anzi le esperienze di studi preliminari alla formazione di atti di pianificazione furono particolarmente vivaci nel Sud del paese, soprattutto – ma non esclusivamente - in relazione all’attività della Cassa del Mezzogiorno e delle strutture ad essa collegate (come l’Iasm e il Formez).

Una definizione legislativa

Finalmente, nel 1990 si è approdati a una soluzione unanimemente accettata. Con la legge 142 del 1990 (poi integrata e ridefinita nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) si sono individuati i tre livelli di pianificazione validi in Italia (comunale, provinciale e regionale), attribuendo al livello provinciale la denominazione di “piano territoriale di coordinamento”.

Vediamo che cosa dice del PTC il DL 267 del 2000:

“La provincia, inoltre, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali”[6].

Una definizione, come si vede, molto sommaria. Ma si tratta – non dimentichiamolo – di una indicazione che dovrebbe essere di mero principio, poiché la competenza legislativa in materia urbanistica fu trasferita alle Regioni, nel 1948, dall’articolo 117 della Costituzione della Repubblica.

Ma la Regione Campania, come si sa, non ha legiferato in materia: in compagnia del Molise, della Calabria e della Sicilia è una delle pochissime Regioni che non ha una legge organica in materia di urbanistica (o, com’è più corretto dire, di governo del territorio). Nell’avviare la pianificazione territoriale nella provincia di Salerno abbiamo perciò dovuto dare una nostra interpretazione della pianificazione territoriale provinciale (e della dizione Piano territoriale di coordinamento). Mi sembra utile esporla.

Le tre funzioni della pianificazione territoriale:strategia, autocoordinamento, indirizzo

A ben vedere, l’esegesi legislativa, l’esame comparato delle legislazioni regionali, l’analisi delle pratiche professionali e amministrative e l’esplorazione della letteratura consentono di indicare tre funzioni essenziali cui la pianificazione territoriale provinciale (e in generale la pianificazione territoriale, a tutti i livelli) deve adempiere.

Una prima funzione può essere definita strategica. Si tratta di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società. È una funzione che richiama i concetti di “futuro”, di “comunicazione”, di “consenso”.

Una seconda funzione può essere definita diautocoordinamento. Si tratta di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno (trasparenza) possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia. In che modo, però, definire le scelte proprie della Provincia? Nell’assenza di una specifica legislazione (e/o pianificazione) regionale, si è dovuto ragionare con attenzione, e procedere tentativamente, per affrontare questo problema: se ne parlerà più avanti.

Una terza funzione può essere definita diindirizzo. Il livello di pianificazione più direttamente operativo (che è anche quello più tradizionale e sperimentato) è quello comunale, i cui piani sono soggetti all’approvazione degli enti sovraordinati[7]. L’esigenza di razionalità nei rapporti istituzionali, pretenderebbe invece che la coerenza tra le scelte dei diversi enti, e la loro riconduzione a finalità d’interesse generale, non avvenisse più con i tradizionali sistemi di controllo a posteriori sulle decisioni degli enti sottordinati, ma indirizzandoa priori, mediante opportune norme, la loro attività sul territorio.

Le competenze territoriali della Provincia

Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Ma questo principio viene tirato da una parte e dall’altra, a seconda degli interessi di chi lo invoca. Conviene perciò rifarsi a una definizione ufficiale: a quel vero e proprio statuto dell’unione europea che è il Trattato istitutivo della comunità europea, stipulato a Roma nel 1957. Secondo l’articolo 3b, aggiunto al Trattato con l’accordo di Maastricht (1992) [8],

“nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.

Il principio di sussidiarietà è stato coniato, su sollecitazione di Jacques Delors, per difendere le prerogative dei governi nazionali nei confronti della comunità europea: parte, per così dire, “dal basso”, e attribuisce agli organismi sovranazionali solo ciò che al livello nazionale non può essere efficacemente governato. Ma esso è suscettibile anche della lettura inversa: il principio di sussidiarietà afferma anche che, là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E che la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti. É su questa base che è possibile distinguere in modo sufficientemente rigoroso e certo le competenze territoriali della Provincia da quelle della Regione e del Comune.

La pratica della concertazione

Distinguere le competenze tra i diversi livelli istituzionali conduce a comprendere a quale degli enti appartenga la responsabilità delle scelte, e della decisione finale. Ciò non significa affatto abbandonare la pratica della concertazione tra le rappresentanze degli interessi pubblici e collettivi: anzi, sollecita a praticarla correttamente là dove non viene praticata, o viene applicata in modo insufficiente o distorto.

La concertazione ha la sua ragione essenziale nella necessità di abbreviare i tempi delle decisioni in tutte le (numerosissime) questioni nelle quali diversi enti rappresentativi di interessi pubblici e collettivi sono coinvolti. Si tratta di abbandonare la prassi di trasferire le “pratiche” da un ufficio all’altro, con relativa lettera di trasmissione debitamente firmata e protocollata in uscita e in entrata, collocarle in ordine nella relativa pila di pratiche sulla scrivania del dirigente del competente ufficio, da questo trasmessa al funzionario istruttore, da questo poi restituita per la firma al dirigente, trasmessa all’ufficio mittente, per poi collocare questo segmento del procedimento in serie con tutti gli altri necessari segmenti. Si tratta si abbandonare di questo procedimento, che rinvia alla burocrazia degli Zar di tutte le Russie, e di stabilire invece che, quando ne ricorre la necessità oppure periodicamente, funzionari delegati dei diversi uffici competenti per una questione si riuniscono, discutono, decidono, verbalizzano la decisione assunta, stabilendo la data di un successivo incontro in quei soli casi in cui uno o più degli uffici coinvolti ha bisogno di approfondire la conoscenza della questione[9].

Naturalmente, nell’ambito di questo procedimento (nuovo solo perché l’antica prassi ministeriale delle “conferenze di amministrazioni” e delle “conferenze di servizi” è stata abbandonata o corrotta negli ultimi decenni) occorre distinguere con cura i portatori dei diversi interessi, e il sistema delle garanzie cui i procedimenti oggi (sia pure in forme spesso distorte dal barocchismo normativo e dallo smarrimento della ragione originaria dei diversi passaggi procedimentali) sono espressione. Ma a questo, nella materia della pianificazione, dovrebbe provvedere un’avveduta e aggiornata legislazione regionale.

Tre aree di competenza provinciale

Applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree:

A) La tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla capacità di sopportazione del territorio (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva. É evidente che questo compito spetta in modo prevalente alla Provincia, a causa della scala, generalmente infraregionale e sovracomunale, alla quale le risorse suddette si collocano.

B) La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale. Il limite superiore, rispetto all’insieme di elementi collocabili in questa categoria, dovrebbe essere costituito da ciò che viene definito dalla pianificazione di livello regionale ma, come si è detto, in Campania questa è ancora assente.

C) Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale (a differenza delle precedenti), richiedono ugualmente una visione di livello sovracomunale per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale (per esempio, il dimensionamento della residenza e delle attività), oppure che le normative comunali contraddicano le scelte relative alle grandi opzioni d’uso del territorio (per esempio, in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e delle risorse ambientali).

Pianificare non è fare piani, ma non è neppure non fare piani.

Il rapporto tra “pianificazione” e “piano” è certamente complesso. Da tempo gran parte della cultura urbanistica italiana sostiene che non è affatto sufficiente fare un piano (definire una volta per tutte un assetto del territorio, rappresentato in un disegno accompagnato da un apparato di “norme tecniche d’attuazione”), ma che occorre governare le trasformazioni del territorio attraverso una successione di atti (di analisi, di verifica, di controllo, di monitoraggio), che accompagnino sistematicamente il momento centrale delle scelte: che non occorre tanto fare piani, quanto condurre un’attività sistematica di pianificazione[10]. Quest’affermazione viene spesso intesa in due modi, sostanzialmente contrapposti, ciascuno dei quali mi sembra insufficiente a cogliere la realtà.

V’è chi intende la processualità dell’azione di pianificazione semplicemente come il definire, insieme al “piano” classicamente inteso, un apparato tecnico che sia in grado di gestirlo: di tradurre cioè il disegno del piano in trasformazioni del territorio attraverso i necessari adempimenti tecnici (la progettazione delle infrastrutture e dei piani attuativi, l’acquisizione delle aree necessarie per le finalità pubbliche ecc.). Dominus del procedimento rimane insomma il “piano”, ancilla ne è l’implementazione.

La persistenza, in Italia, di questa concezione è probabilmente legata al fatto che da noi la pianificazione urbanistica e territoriale è figlia dell’architettura: di una disciplina cioè per la quale (almeno nella sua concezione oggi dominante) l’Oggetto è la finalità assoluta e l’Architetto ne è creatore e padre esclusivo. Da ciò il grande rilievo che hanno i “piani firmati”, dove l’autorevolezza della firma fa premio sulla coerenza con gli obiettivi sociali e con l’efficacia ai fini della guida delle trasformazioni.

Vi è invece chi, con errore simmetrico, vede la pianificazione come mera processualità: come traduzione in un mutevole documento - in un palinsesto continuamente modificato - delle decisioni che via via gli “attori” più rilevanti o influenti, gli interessi volta per volta più forti, ottengono dal decisore politico o amministrativo. Dove quest’ultimo è mosso non dalla tensione verso un definito progetto di società (che nella pianificazione trova uno dei suoi strumenti), quanto dalla ricerca di un rassicurante consenso sociale.

È difficile non mettere in relazione questa seconda tendenza con una condizione che caratterizza i nostri anni, dopo il tramonto delle grandi ideologie (e delle grandi chiese): il fatto che la politica non è più capace di cercare, o di ottenere, consenso sul proprio progetto di società. Poiché in democrazia il consenso è essenziale, se non lo si raggiunge con la forza delle idee generali, allora ci si deve piegare a ottenerlo con la mediazione spicciola degli interessi: e tanto peggio se questa induce, volta per volta, a compromettere e degradare quel tanto di progetto politico che si era riusciti a formulare[11]. In questa logica, il piano come sistema di regole che consente di raggiungere un definito progetto di territorio è solo un impaccio, e la pianificazione è un modo per scavalcarlo.

Pianificazione, insomma, come travestimento del piano, o come sua negazione. Come evitare che il passaggio dal “piano” alla “pianificazione” eviti entrambi questi trabocchetti? Si può individuare un percorso, azzardare dei tentativi, non formulare una ricetta.

La linea maestra è forse (almeno così l’abbiamo tentata a Salerno) quella di concepire la pianificazione come la composizione di tre eventi:

- la formazione di una base conoscitiva, sistematicamente aggiornata, finalizzata alla definizione, all’aggiornamento, al monitoraggio e alla comunicazione dei documenti contenenti le scelte della pianificazione;

- la definizione e l’aggiornamento di un sistema di regole, formulate in un formato e con un rigore scientifico e giuridico che le rendano opposables au tiers, costruite in relazione a tempi indefiniti, e comunque molto lunghi, riguardanti le finalità generali e permanenti, le grandi indicazioni strategiche e strutturali, che la società assume circa l’uso delle risorse territoriali;

- il succedersi di momenti discreti, a cadenze regolari e istituzionalmente definite (per esempio ogni cinque anni, un ritmo coincidente con quello del mandato amministrativo) nel quale le scelte valide per il breve periodo trovano la loro codificazione in un atto formalizzato, reso esplicito e consolidato da un consenso maggioritario, definito nei suoi effetti, efficace nei confronti dei terzi, impegnativo per il periodo successivo (un “piano”, insomma), e quelle valide a tempo indefinito vengono aggiornate sulla base dell’aggiornamento delle basi informative[12].

L’esigenza del consenso…

Percorrere questa direttrice di lavoro non porta però ad esiti soddisfacenti se non ci si fa anche carico delle esigenze che stanno dietro quelle due posizioni (pianificazione come travestimento del piano tradizionale, e pianificazione come negazione del piano).

Al di sotto della seconda posizione vi è un’esigenza indubbiamente non eludibile: quella del consenso. Per soddisfarla, si fa ricorso crescente a strumenti e a pratiche che in termini sintetici, possiamo ricondurre alla progressiva sostituzione della governance al government: alla sostituzione di pratiche basate sulla partecipazione di un’ampia e variegata platea di soggetti (“attori”) con i quali si costruisce il consenso su un progetto condiviso, alle pratiche autoritative basate sul criterio di gerarchia e di investitura pubblica.

È evidente che, per rendere efficace un progetto di trasformazione del territorio occorre ottenere il consenso, oltre che dei soggetti pubblici direttamente coinvolti (cui abbiamo già accennato a proposito di concertazione tra amministrazioni), anche dei soggetti privati che devono concorrere all’attuazione delle scelte. Molti sono i modi per ottenerlo, le pratiche messe in atto per conseguire il risultato. Le pratiche, però, si valutano (e si costruiscono) in relazione al loro contesto. Altro è la governance in paesi dove l’autorità dell’amministrazione pubblica è forte, e dove gli interessi privati che si vogliono coinvolgere sono quelli degli imprenditori e degli usagers (come nelle esperienze francesi), altro è adoperare quelle medesime pratiche dove l’autorità pubblica è debole, e gli interessi che si vogliono coinvolgere (o che si riesce a coinvolgere) sono in primo luogo quelli della proprietà immobiliare, e degli altri “attori” volti alla percezione di rendite vecchie e nuove.

A me sembra particolarmente rilevante il rischio di una utilizzazione distorta di tecniche consensuali nate in altri orizzonti economici, sociali e amministrativi in ambienti nei quali, come nel Mezzogiorno, l’imprenditorialità è ancora debole rispetto al parassitismo assistenziale e alla speculazione immobiliare, e ancor più debole sono ancora l’amministrazione pubblica, le sue risorse, i suoi strumenti.

…e l’esigenza dell’autorità

L’esigenza dell’autorevolezza dei poteri pubblici è un’esigenza che non nasce solo dalla necessità di costruire, con gli interessi privati, rapporti non subalterni. Essa è anche sottesa alla ricerca, da parte di molte amministrazioni, di una griffe, di un Autore che, con la sua autorità, riesca a supplire alla carenza di autorità dell’amministrazione. Si tratta, evidentemente, di una scorciatoia illusoria: poiché un’amministrazione forte e autorevole per il suo progetto politico, per la determinazione con la quale lo realizza, per la credibilità degli strumenti di cui si è dotata, non ha bisogno di acquistare sul mercato protagonisti cui delegare la costruzione delle scelte (può aver bisogno, semmai, di consulenti che l’aiutino a tracciare e aggiornare il percorso tecnico-scientifico sulla base di una più ampia messe di esperienze).

A Salerno ci siamo impegnati in modo particolare a dotare l’amministrazione di strumenti tecnico amministrativi adeguati, e coerenti col progetto politico che aveva dato l’avvio alla pianificazione territoriale. Il lavoro non è stato semplice né rapido. Del resto, non ci illudevamo che lo fosse: eccezionali sono, nel Mezzogiorno, le amministrazioni dotate di propri strumenti operativi adeguati alle necessità di un efficace governo del territorio. Il tecnico cui era stato affidato dall’assessore al Territorio, Giovanni Lambiase, il compito di essere responsabile interno del lavoro, Gaetano Fiore, ha saputo costituire un piccolo ufficio, costituito da cinque giovani professionisti assunti a contratto di diritto privato (in attesa della formazione di un organico più completo). Benché le procedure di decisione, finanziamento, selezione, stipula dei contratti siano state molto lunghe, il gruppo era all’opera nella fase conclusiva della redazione del piano, talché ha potuto essere un adeguato punto di riferimento per i diversi esperti di settore e – soprattutto – ha potuto essere partecipe delle decisioni tecniche e quindi maturo per seguirne l’implementazione.

Parallelamente, si è provveduto ad acquisire l’hardware per la costituzione di un sistema informativo territoriale (SIT) e – dopo un tentativo inutilmente compiuto di assunzione di personale informatico – a stipulare un contratto di fornitura di servizi per l’impianto del SIT e l’addestramento del personale dell’ufficio ad una società locale (Risorse ambientali). L’operazione è stata di grandissima utilità. Ha consentito, nel giro di pochi mesi, di recuperare il ritardo accumulato e risolvere i problemi derivanti dall’assenza di un preliminare progetto del sistema. In particolare, si è dovuto provvedere a rendere coerenti gli elaborati predisposti dai diversi consulenti di settore, diversi non solo per i formati informatici, ma anche per le coordinate geografiche di riferimento.

Un ruolo notevole, per aiutare la formazione dell’ufficio ponendo i suoi membri a contatto diretto con esperienze consolidate di pianificazione, è stato svolto dal progetto PASS ID 121: un programma di trasferimento di tecnologie dall’ufficio del piano della provincia di Bologna a quello della provincia di Salerno, finanziato dalla regione Campania su fondi della Presidenza del consiglio dei ministri e organizzato dalla società RSO spa di Milano. Il programma si è concretato, oltre che nella partecipazione diretta di tecnici della provincia di Bologna alle operazioni di pianificazione e a soggiorni di lavoro di membri dell’ufficio salernitano in quello bolognese, nella organizzazione di un master, svoltosi nell’arco di un intero anno e aperto ad alcune decine di tecnici e amministratori della provincia e di numerosi comuni del salernitano, su temi relativi alla pianificazione e allo sviluppo. L’esperienza è stata di grande utilità soprattutto perché ha consentito di mettere in contatto diretto tecnici e amministratori comunali con i temi (gli obiettivi, i metodi, i problemi, le scelte) della pianificazione provinciale nel momento della sua formazione, preparando così il terreno alla sua attuazione e implementazione al livello comunale.

Alcuni argomenti di discussione

Alla redazione del piano ha contribuito, come ho accennato, un gruppo di consulenti chiamati dalla Provincia, su indicazione del coordinatore, a fornire contributi specifici di analisi e proposta su determinati settori. Oltre all’esperto in normative urbanistiche Luigi Scano e all’architetto Imma Apreda, che costituivano il nucleo di coordinamento, hanno collaborato Paolo Leon e il CLES, per gli aspetti economico.sociali, Stefano Mazzoleni, Antonio Di Gennaro e altri esperti, per gli aspetti naturalistici; Giuliano Cannata e Alpha Cygni per l’assetto idrogeomorfologico, Matelda Reho per l’economia agro-silvo.pastorale e il paesaggio agrario, Maria Berrini e Ambiente Italia per i rifiuti e il risparmio energetico, Giulio Cantarella per la mobilità.

Oltre al lavoro, per così dire, di routine, un così articolato gruppo di lavoro ha costituito l’occasione per alcune interessanti discussioni, nel corso delle quali si sono confrontate posizioni diverse che il più delle volte hanno raggiunto, nelle scelte del piano, soddisfacenti sintesi, altre volte hanno lasciato l’esigenza di approfondire l’argomento, di proseguire nell’analisi e nella formulazione di proposte. È forse utile enunciare alcuni degli argomenti, rinviando ad altra occasione il loro approfondimento.

Ambiente e/o sviluppo nel Mezzogiorno?

Ha senso, in una situazione nella quale la produzione di beni ha raggiunto livelli di assoluta sovrabbondanza e in un mercato nel quale la popolazione e la forza lavoro sono in costante diminuzione, seguire ancora i segni tardivi di potenziale espansione di alcuni settori produttivi e di alcuni comparti dell’industria manifatturiera per promuoverne lo sviluppo? E, nel medesimo quadro e in una situazione in cui la produzione agricola delle aree più produttive del Nord basterebbe a sfamare l’intera popolazione italiana, ha senso rincorrere, tutelare e cercar di favorire lo sviluppo di produzioni agricole (sia pure di qualità), i cui costi le pongono fatalmente “fuori mercato”? E ancora, quale speranza di sopravvivenza hanno le strutture insediative a bassa densità che caratterizzano vaste aree collinari e pedemontane interne, e quindi che senso sociale ha investire per frenarne l’abbandono? Ha senso investire in attività primarie di presidio nelle aree dove l’abbandono dell’uomo ha causato la dominanza degli assetti naturalistici, anziché promuoverne una rinaturalizzazione integrale – un sostanziale inselvatichimento – forse più efficace ai fini della difesa del suolo? Questi sono alcuni interrogativi che sono stati sollevati nelle discussioni sul piano.

Le scelte adottate nel piano sono generalmente orientate nel dare una risposta positiva a siffatti quesiti, senza peraltro considerare conclusiva la risposta. In effetti, ha certamente senso una politica del territorio orientata a radicare – ovunque tecnicamente possibile ed economicamente sostenibile – la presenza dell’uomo e delle sue attività sul territorio, a promuovere produzioni agricole e silvo-pastorali “di nicchia” ove siano suscettibili di conservare o accrescere le attuali qualità (dei prodotti, e del paesaggio), a tutelare e valorizzare le ricchissime risorse paesaggistiche e culturali inserendone la fruizione nel crescente flusso del turismo mondiale.

Queste scelte, però, hanno un reale significato di sviluppo se sono inserite in una quadro del quale non siano componenti marginali e subalterne, ma ne divengano componenti centrali: se diventano espressive di una nuova strategia dello sviluppo. Una strategia basata non sulla crescita della produzione di beni e servizi ottenibili, a costi minori, in altre parti del territorio nazionale (ed europeo), e producibili nel Mezzogiorno solo al prezzo di una ulteriore espansione dell’assistenzialismo (quello diretto, o quello malavitoso e abusivista), ma sullo sviluppo di quei prodotti e quei servizi la cui qualità esprime valori tipici di quei luoghi: della loro storia e della loro natura.

Alcuni settori e attività che sono sembrati particolarmente significativi sono le produzioni agricole della costiera amalfitana e dell’area delle “colline della qualità” (nel medio-alto corso del Sele), quelle latteo-casearie dell’agro di Capaccio e dell’altopiano dei Lattari, le attività per la commercializzazione dei prodotti agricoli tipici e quelle relative alla comunicazione, e – in larghissima misura – quelle orientate alla fruizione ricreativa e culturale, alla conservazione e all’adeguamento tecnologico del ricchissimo patrimonio culturale e paesaggistico.

Il “progetto di abbandono”

E’ nel quadro di una politica e di un’attività amministrativa coerentemente volte a una simile strategia che diviene possibile fornire risposte realistiche ma non disperate a progredenti fenomeni di abbandono. In aree non marginali del Salernitano (e dell’intero Mezzogiorno) il carico di popolazione e attività economicamente sostenibili nell’ambito delle attività oggi praticate tenderà inevitabilmente a ridursi ulteriormente, man mano che le leggi dell’economia prevarranno (come non può non avvenire) su quelle dell’assistenzialismo, e che la ricerca di condizioni di vita moderna e cittadina spingerà i giovani all’abbandono del paesello natio. L’abbandono sarà inevitabile. Ma se verrà lasciato alle sole regole dello spontaneismo, gli effetti saranno altrettanto devastanti quanto quelli delle grandi trasformazioni territoriali che contrassegnarono il nostro paese negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo.

Occorre perciò definire un “progetto di abbandono”. Occorre individuare quali sono (dove ci sono) le aree nelle quali la natura e la storia indicano la possibilità (e l’economia riconosce la convenienza) di praticare colture agricole, zootecniche, forestali di qualità tale da far premio sui maggiori costi di produzione. Occorre individuare, area per area, in relazione alle caratteristiche dell’assetto geomorfologico e di quello vegetazionale, quali sono le opere di presidio necessarie per mantenere il suolo, evitare il suo disfacimento e garantire la stabilità dei versanti: quali sono le vegetazioni più opportune, le naturalizzazioni più convenienti, i ripristini più necessari. Occorre definire calibrati programmi di fruizione, a fini turistici, delle risorse naturalistiche e dei beni culturali disseminati sul territorio, e realistici progetti di organizzazione, valorizzazione, commercializzazione del vasto patrimonio destinabile alla crescente domanda di ricreazione, conoscenza, cultura. Occorre individuare, nelle aree nelle quali le utilizzazioni coerenti con le caratteristiche dei luoghi non comportano che una bassa densità insediativa, quali modelli di organizzazione dei servizi e delle infrastrutture (economiche, organizzative, urbanistiche, amministrative ecc.) siano attivabili per garantire soddisfacenti livelli di vita in condizioni “non urbane”. E occorre individuare quali risorse siano disponibili in funzione delle risorse localmente attivabili, quale “piegatura”occorra conferire agli investimenti ordinari per renderli funzionali al “progetto di abbandono”.

Il passo successivo della pianificazione provinciale, l’implementazione del piano consegnato nel giugno scorso, dovrà condurre ad approfondire – tra gli altri – questi specifici argomenti. Alle modalità secondo cui sarà gestito l’abbandono e, insieme, ai modi nei quali si sarà capaci di valorizzare le specifiche risorse locali, è affidata la capacità di vaste regioni del Mezzogiorno, e del Mezzogiorno nel suo complesso, di reagire positivamente alla forbice tra degrado e omologazione, cui altrimenti la storia lo condanna.

Le gambe del piano

Il piano è certo (l’ho già affermato) un insieme di regole: regole direttamente operative, là dove la responsabilità e la competenza sono interamente della Provincia, e regole che lo diventeranno per il tramite della pianificazione provinciale. E il piano è dotato del suo apparato normativo, particolarmente incisivo là dove si tratta di garantire l’integrità fisica del territorio e la sua identità culturale. Ma il piano (la pianificazione) deve essere anche un insieme di azioni, necessarie per raggiungerne gli obiettivi e attivate da una molteplicità di soggetti. Nel PTCP si è data un’importanza notevole a questo aspetto poco tradizionale, sebbene si sia convinti che molto lavoro vada ancora fatto in questa direzione, e molte possibilità vadano esplorate.

Nel PTCP si sono individuati una serie di “ambiti”, individuati soprattutto in relazione alle caratteristiche, ai problemi e alle prospettive del sistema insediativo, ma costruiti tenendo conto delle interrelazioni tra insediamento e ambiente, tra organizzazione della vita dell’uomo e della società e habitat naturale. Per ciascuno di questi ambiti[13] si sono indicati (accanto alla descrizione e alla individuazione dei problemi e degli obiettivi generali) le specifiche azioni che è necessario porre in essere per raggiungere gli obiettivi proposti e la loro articolazione, gli strumenti da adoperare e i soggetti da attivare per ciascuna di esse. E’ soprattutto in questa parte del piano che si sono inseriti gli strumenti di “programmazione integrata” e di “contrattazione programmata”, che sempre più attirano l’attenzione e sollecitano l’interesse degli amministratori, dei politici e delle forse sociali.

Il tentativo (a mio parere non ancora del tutto riuscito) è stato quello di gettare un ponte tra la pianificazione “classica” e quella “anomala”: di utilizzare gli istituti (e le risorse) di quest’ultima per dare al piano ulteriori “gambe” oltre a quelle già consentite dalle “regole”. Un ponte tra due realtà che tendono viceversa a marciar separate, spesso in contraddizione l’una con l’altra. Dove da un lato (quello della pianificazione “classica”) vi è la certezza del diritto, la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte, l’efficacia erga omnes – ma anche la rigidità, l’inerzia, la scarsa efficacia – e dall’altra (quella della pianificazione “anomala”) vi sono le risorse, il consenso, la duttilità (ma anche la discrezionalità, la derogazione, la confusione degli interessi).

Anche questo, in definitiva, è un argomento a proposito del quale il piano si sforza di indicare alcune direzioni di lavoro, con la consapevolezza che esse sono da percorrere nel difficile cammino del passaggio concreto dal piano alla pianificazione. Un passaggio affidato a chi, localmente, ha la responsabilità politica o quella tecnico-amministrativa di sviluppare il lavoro giunto a un primo traguardo.

Edoardo Salzano

Loutro, Creta, 15 agosto 2001

[1] Legge 8 agosto 1942, n. 1150. Si veda in proposito: Cinquant'anni dalla legge urbanistica italiana : 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori riuniti, Roma 1993.

[2] Mi riferisco al piano di bonifica delle Paludi pontine, per cui rinvio a: P. Sica, Storia dell’urbanistica - , vol. III: Il Novecento, Editori Laterza, Bari 19914, pp. 350 e segg.

[3] Alla regione si riferiva l’istituto nazionale di urbanistica nel suo Codice dell’urbanistica, proposto nel 1960 (si veda in: Urbanistica, n. 33, aprile 1961). Ma a realtà, situazioni e proposte del tutto diverse si riallacciava Giancarlo De Carlo (ILSES, Relazioni del seminario La nuova dimensione della città: la città-regione, Stresa 19-21 gennaio 1962). In sede politica e legislativa i termini di riferimento erano ancora diversi.

[4] Il movimento Comunità fu lanciato e alimentato da Adriano Olivetti, illuminato e colto industriale eporediese, nel 1947. Si veda: V. Ochetto, Adriano Olivetti, Milano, Mondadori 1985; G. Berta , Le idee al potere, tra la fabbrica e la comuinità, Milano, Edizioni Comunità, 1980.

[5] Comprensori, come associazioni di più comuni o come emanazioni della regione, furono proposti e applicati dalle prime legislazioni regionali in Piemonte, Emilia Romagna, Umbria, Veneto, Lazio, Lombardia, verso la metà degli anni Settanta.

[6] Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 20, comma 2.

[7] Benché ad osservatori esterni ciò sembri incredibile, in Campania i piani comunali non sono approvati da un unico ente (generalmente le Regioni hanno delegato le province), ma: i piani dei comuni capoluoghi di provincia sono approvati dalla Regione, quelli compresi nelle Comunità montane(104 comuni su 158) da queste, e solo il residuo(53 su 158) dalla Provincia.

[8] L’articolo è stato ratificato e ridenominato come articolo 5 con l’accordo di Amsterdam (1997).

[9] Come, seppure in termini assai diversificati, fanno la legge 5/1995 della Regione Toscana, la legge 28/1995 e la legge 31/1997 della Regione Umbria, la legge 23/1999 della Regione Basilicata, la legge 38/1999 della Regione Lazio, la legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna.

[10] Si veda, ad esempio, E. Salzano, L’urbanistica dal “piano” alla “pianificazione”, in: “La Rivista Trimestrale”, n.4, dicembre 1985, pp. 9-28.

[11] Tipici, in proposito, i patteggiamenti in materia ambientale: il rapido passaggio dalle proclamazioni generali alle concessioni più devastanti.

[12]Mi riferisco a un “modello” di pianificazione che ho cominciato a sperimentare a Venezia e a Carpi negli anni Ottanta, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni Novanta (si veda, in particolare: L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in: Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana - 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.137-153), che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali recenti, e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato di legge urbanistica nazionale della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati (Camera dei deputati - XIII legislatura, Resoconto della VIII Commissione permanente, giovedì 11 gennaio 2001, Allegato 2, Norme in materia urbanistica).

[13] Essi sono i seguenti: Agro Sarnese-Nocerino, Costiera Amalfitana, Salerno, Valle dell’Irno, Eboli-Battipaglia, Picentini, Alto Sele, Vallo di Diano, Cilento, Cava dei Tirreni.

COMMIATO

Per vent'anni ho scritto gli editoriali di questa rivista senza firmarli. Esprimevano la posizione della rivista e, salvo sporadiche eccezioni e rari errori, quella dell'Istituto. L'editoriale di questo numero ha invece la mia firma. Esprime la mia posizione e valutazione personale. E' un mio dovere, visto che é un editoriale di commiato e perciò anche di rendiconto presentato, in prima persona, da chi ha avuto la responsabilità della conduzione (e prima ancora della fondazione) della rivista. Ed é un mio diritto, visto che chiudo, con questo numero, una esperienza ventennale: una esperienza che mi ha dato molto, e mi ha preso altrettanto. Una esperienza della quale sono grato a quanti me l'hanno consentita, e soprattutto a quanti con me hanno collaborato, traendone molti oneri e pochi onori.

I lettori più attenti di Urbanistica informazioni lo sanno: erano alcuni anni che si parlava di modificare l'assetto delle attività editoriali dell'Inu, e io stesso avevo preparato da tempo un nuovo progetto, che avrebbe dovuto vedere una diversa caratterizzazione di questa stessa rivista, e un mio diverso impegno. Ma la rottura é stata precipitosa. Senza che gli organi dell'Inu potessero discutere il progetto editoriale e dargli corpo, il Consiglio direttivo ha deciso, a maggioranza, di annullare "tutti gli incarichi di direzione e redazionali, centrali e regionali".

Perché questo é avvenuto? Credo che la ragione sia, in qualche misura, legata alla stessa storia della rivista. Alla storia della rivista, e alla storia dell'Inu. Più precisamente, al fatto che nell'Inu ha prevalso una posizione culturale che, per semplicità, definirò "di destra".

Una posizione che non sopportava il fatto che su questa rivista ci si fosse sempre nettamente, recisamente schierati contro alcune cose, e a favore di altre.

Contro l'urbanistica contrattata, contro il riconoscimento e il consolidamento dell'appartenenza privata dell'edificabilità, contro la decadenza degli istituti del potere pubblico e la sostituzione ad essi di tecnostrutture private, piccole o grandi. E a favore di un regime degli immobili basato sul primato degli interessi collettivi, a favore d'una visione dell'urbanista come figura che esplica una funzione d'interesse pubblico, a favore d'una pianificazione che affermi la priorità della coerenza sulla flessibilità, del piano sul progetto, del duraturo sull'effimero. Cercherò, nelle note qui accanto, di argomentare quest'affermazione

Edoardo Salzano

VENT'ANNNI DI URBANISTICA INFORMAZIONI

La nascita di Urbanistica informazioni é legata a una fase cruciale della vita dell'Inu: a una fase in cui era grandemente incerta la stessa capacità dell'Istituto di sopravvivere. Alla fine del 1968, al Congresso nazionale di Napoli, la contestazione studentesca aveva dissolto il vecchio Inu. Si tentava di avviare una nuova fase della vita dell'Inu, con elementi di continuità ma anche con rilevanti elementi di discontinuità con il passato. Attorno a Edoardo Detti, eletto Presidente nel 1970, si riunisce un gruppetto di soci che avvia la ricostruzione dell'Istituto: tra i vecchi leader, solo Luigi Piccinato, Vincenzo Cabianca e Alessandro Tutino affiancano il nuovo presidente.

Gli interlocutori principali non sono più i Baroni e i Ministri, le autorità accademiche e quelle governative. Essi vengono scelti nelle forze di base e nei poteri locali; i comitati di quartiere, i comuni e le neonate regioni, i sindacati dei lavoratori e le associazioni più combattive che lottano per la casa, per i servizi, per il verde. Se le ragioni dell'urbanistica vogliono affermarsi, esse devono diventare patrimonio delle parti più attive e combattive della società: soltanto così si potranno compiere progressi anche sul terreno delle istituzioni.Parallelamente, si compie un consistente sforzo culturale per comprendere meglio le regole che di fatto determinano i processi di trasformazione urbana e territoriale. La critica alla speculazione fondiaria ed edilizia diventa più ferma, ma soprattutto più precisa. Si pone attenzione particolare agli esiti sociali delle operazioni e delle politiche urbanistiche. Si scoprono e si indagano le leggi dello "sfruttamento capitalistico del territorio"; a questo tema è dedicato il XIII Congresso nazionale, che significativamente si tiene nella sede della Cgil (il sindacato "rosso" dei lavoratori) ad Ariccia, presso Roma.

La ricostruzione dell'Inu dopo il '68

Fu in quegli anni, all'inizio del 1971, che Detti, colpito da un mio articolo sull' Unità in cui polemizzavo con una operazione "di destra" in corso nella Sezione campana, mi chiese di occuparmi della stampa. Così nacque la proposta di una rivista che rendesse l'Inu presente nella società e nell'immediatezza degli avvenimenti che incidevano sul territorio

Il progetto iniziale, per la verità, era diverso da quello che poi é stato attuato. Volevamo fare un mensile in collaborazione con altre organizzazioni culturali e sociali. Ma dopo un anno di tentativi, non si riuscì a raggiungere una decisione operativa. Si decise allora che l'Inu sarebbe partito da solo. Si era convinti che l'Inu rinnovato, finalmente liberato dalle collusioni con il Potere e con l'Accademia, aveva bisogno d'una voce, sia pure modesta, utilizzabile per ricostituire una base associativa e per radicarsi nella società civile. E non si riteneva opportuno riprendere la gestione di Urbanistica, in quegli anni affidata a Giovanni Astengo: sia per la pesante situazione di deficit che già caratterizzava la rivista ufficiale dell'Inu, sia, e soprattutto, per rispetto al suo direttore e alle sue fatiche.

Urbanistica informazioni per essere nella società

Così, all'inizio del 1972, uscì il primo numero di Urbanistica informazioni, stampato a Torino, nella stessa tipografia dove veniva stampata Urbanistica. In tutta la prima fase l'artigianalità era massima. Io stesso feci il progetto grafico. Con Vezio De Lucia costruivamo l'impaginazione incollando le bozze dei pezzi, che in grandissima parte scrivevamo noi stessi. Giulio Tamburini, Valeria Erba, Sandro Dal Piaz, Laura Falconi Ferrari, Felicia Bottino, Giusa Marcialis, Luigi Falco, Antonino Trupiano erano, nella fase iniziale, i collaboratori più assidui. Solo le iniziali, tra parentesi, siglavano gli articoli: volevamo evitare ogni personalizzazione. Non v'era personale retribuito. Le spese (poche) erano direttamente a carico dell'Istituto, i cui soci erano duecento: la rivista serviva anche per far conoscere l'Inu, aumentarne la base associativa. La rivista era semplice, severa, povera; tentava di non essere, né apparire, sciatta. Tutto era affidato alla ricchezza informativa, al contenuto, alla scrittura (tagliavamo e correggevamo impietosamente, a volte riscrivendo da capo).

Non ricordo la tiratura, che era comunque tra le 2 mila e le 3 mila copie, né il costo. La contabilità dell'Inu, e conseguentemente quella della rivista, era tenuta alla buona. Neppure c'erano archivi organizzati. A quei tempi, e per molti anni ancora, erano cose che non ci potevamo permettere: ci rimettevamo di nostro, a volte non solo il tempo.

Fin dall'inizio si impostò una struttura sostanziale della rivista che rimase immutata nelle sue linee essenziali, che furono - nelle differenti versioni ed edizioni - modificate e arricchite ma non stravolte.

Quattro erano le componenti essenziali di ogni fascicolo: gli editoriali; una parte informativa, formata da numerosi pezzi brevi (via via, nel tempo, diventarono ahimè meno numerosi e più lunghi); le cronache dell'Inu, che rappresentavano l'apporto ufficiale dell'Istituto; i dossier monografici, che col tempo diventarono una componente essenziale della rivista e, oltre a ciò, diedero luogo ai Quaderni.

In tutto il primo periodo (fino al 1978) gli interventi esterni, i veri e propri "articoli" firmati, erano eccezionali. Ma si aprì un dibattito, avviato da un intervento critico di Sandro Tutino il quale rilevava l'assenza di voci che esprimessero opinioni diverse da quelle della redazione o esplicitamente (come negli editoriali) oppure implicitamente (nella selezione e titolazione dei pezzi informativi). Da allora si promosse programmaticamente la ricerca di contributi diversi, che furono sollecitati sia aprendo dibattiti su determinati temi individuati dalla redazione, sia sollecitando l'espressione di "opinioni" che fossero chiaramente espresse come tali

Mentre la "struttura sostanziale" della rivista si è modificata gradualmente, la sua struttura formale ha conosciuto invece due cambiamenti di rilievo. Il primo ha coinciso con il mio trasferimento da Roma (dove la rivista veniva redatta e, dopo i primissimi numeri, anche stampata) a Venezia, e con la ricerca di qualche elemento di maggiore professionalità e di un carattere più strutturato e "ricco". Il secondo ha coinciso con la ripresa, da parte dell'Istituto, del possesso di Urbanistica, e con la volontà di avvicinare la grafica delle due riviste per dare un'immagine unitaria delle pubblicazioni dell'Inu.

Il primo cambiamento avvenne alla fine del 1976. Il progetto grafico fu disegnato da uno specialista. L'obiettivo era quello di rendere la rivista più visibile, data la discreta fortuna della vendita nelle librerie specializzate, che con grande fatica si era riusciti ad avviare. Il secondo cambiamento avvenne nel 1985, in occasione della nuova edizione di Urbanistica, ripresa in gestione dall'Istituto che ne affidò la direzione a Bernardo Secchi e l'edizione alla Franco Angeli. Per la grafica ci rivolgemmo allora alla stessa specialista che aveva disegnato la nuova veste di Urbanistica. I mutamenti più significativi di sostanza che corrisposero alla nuova forma sono stati l'aumento del numero delle pagine, l'ampliamento degli editoriali, la stabilizzazione delle "opinioni" e l'introduzione della rubrica "Anto-logia".

Il tentativo di unificazione formale e l'aumento di peso di Urbanistica informazioni rese però le due riviste troppo simili. Dopo un paio di annate si decise quindi di "impoverire" la rivista bimestrale. Tenendo conto anche dell' accresciuta offerta di materiale derivante dal consolidarsi dei "dossier", si iniziò la pubblicazione dei Quaderni monografici.

Un bilancio

Un bilancio della funzione sociale della rivista andrebbe commisurato innanzitutto al suo primo obiettivo: aiutare la ripresa organizzativa dell'Inu, far conoscere l'Istituto e diffondere la sua cultura, fornire ai soci un servizio che ne motivasse l'appartenenza. A me sembra che questo obiettivo sia stato raggiunto in misura abbastanza soddisfacente, come testimonia l'andamento di quel significativo "termometro" che é il numero dei soci: questi erano crollati a 231 nel 1979, erano diventati più di 1300 dieci anni dopo.

Il secondo obiettivo era quello di informare, nel modo il più possibile ampio, e "tendenzioso": in piena sintonia, dunque, con la rinnovata cultura dell'Inu, e con l'intento di contribuire all'affermazione (e, quando occorreva, alla difesa) del metodo e della prassi della pianificazione, del primato degli interessi collettivi e del ruolo degli istituti della democrazia. Strettamente connesso con questo obiettivo era quello di intervenire, per denunciare e proporre in relazione a quei medesimi intenti, ispirati a quello medesima cultura.

Abbiamo raggiunto questi obiettivi? Non posso essere io a dichiararlo. Posso però ricordare alcuni temi sui quali il nostro intervento è stato utile, sia perché anticipatore di altri, o addirittura unico, sia perché su quei temi la situazione si è modificata, forse anche per il nostro contributo.

Mi riferisco ai temi dell'intervento sul territorio delle grandi centrali del capitale privato, cooperativo e pubblico (un tema che abbiamo sollevato, con argomentate denunce, all'inizio degli anni '70, che abbiamo seguito nel corso degli anni, ma che é apparso in tutta la sua gravità solo in questi mesi, in occasione di Tangentopoli), del decentramento politico e amministrativo dei comuni e più in generale, dell'ordinamento amministrativo dello Stato (la nuova legge sulle autonomie locali é stata il risultato anche del nostro lavoro), dell'abusivismo edilizio e urbanistico, del recupero edilizio e, più tardi, della riqualificazione urbana, della tutela delle qualità del territorio e della pianificazione paesistica (siamo stati tra i pochi a stimolare un'applicazione corretta della cosiddetta Legge Galasso, e gli unici a documentarne l'attuazione).

Mi riferisco infine alla costante attenzione che abbiamo rivolto alla questione della riforma urbanistica, sul duplice versante del regime degli immobili e dei principi della pianificazione. E alla simmetrica denuncia che abbiamo fatto, ben prima che si parlasse di Tangentopoli, delle pratiche nefaste della "urbanistica contrattata", documentate nella loro consistenza e illustrate nelle loro conseguenze sull'assetto del territorio, sul sistema dei poteri e sulla moralità pubblica.

In relazione a questi temi, come alle concrete vicende della pianificazione a tutti i livelli, i fascicoli di Urbanisticainformazioni rimangono un archivio utile molto al di là della contingenza. Mentre le pagine sparse della Antologia possono, se proseguite, costituire un rilevante e aggiornato "fondo" della cultura urbanistica italiana e un non irrilevante strumento di formazione culturale delle nuove generazioni, e i "dossier" e i "Quaderni", "inventati" e curati in particolare da Filippo Ciccone, costituiscono ormai uno strumento di lavoro per chiunque operi nel campo dell'urbanistica.

Urbanistica informazioni e la cultura dell'Inu

Fino all'inizio degli anni '80 c'era consonanza piena tra le posizioni espresse da Urbanistica informazioni e quelle dell'Inu. Nel corso degli anni successivi cominciarono a registrarsi segni di differenza e di contrasto. Sul loro manifestarsi ha indubbiamente inciso la fase che attraversiamo.

Gli anni '80 sono infatti anni difficili per l'urbanistica italiana. Se il decennio precedente è stato quello nel quale (pur sotto l'infuriare del terrorismo rosso e delle "stragi di Stato") si sono strappati alcuni pezzi di riforma, gli anni '80 sono stati caratterizzati dalla stabilizzazione conservatrice e da una vera "controriforma urbanistica", i cui cardini sono stati lo smantellamento della legislazione riformatrice, l'utilizzazione di tutte le possibili situazioni d'emergenza (vere o inventate) per derogare rispetto agli strumenti e alle procedure della pianificazione, la legittimazione dell'abusivismo edilizio e urbanistico, il progressivo abbandono del principio della priorità dell'interesse generale a vantaggio della prassi dell'attribuzione di un valore salvifico a tutti gli interessi particolari, individuali, locali, privati. La "urbanistica contrattata" é l'espressione più compiuta e matura della nuova tendenza imperante.In quegli stessi anni si modificava la base associativa dell'Inu, e il suo mondo culturale di riferimento. Il "fare urbanistica", che una volta era appannaggio di una coraggiosa pattuglia di anticipatori, era ormai divenuto un'attività svolta da molte centinaia di tecnici, amministratori, ricercatori. Ciò provocava il confluire nell'Istituto di una pluralità di tensioni, di moventi, di interessi culturali, di aspettative professionali e accademiche. Ne nasceva lo stemperarsi graduale della capacità d'intervenire con tempestività e chiarezza sui fatti esterni, la difficoltà ad esprimere posizioni precise sulle stesse questioni di più diretto interesse degli urbanisti, e infine l'appannarsi di una "cultura dell'Inu" come tale riconoscibile.

Con tutte le approssimazioni e semplificazioni inevitabili quando si vuole costringere in poche righe l'illustrazione di una situazione complessa e dinamica, mi sembra che le posizioni, le linee, le tendenze che si sono manifestate all'inizio degli anni '80 possano essere ricondotte (almeno per quanto riguarda la loro incidenza più diretta sulla situazione dell'Inu) a due soltanto: quali che siano le sfumature e le articolazioni con cui ciascuna di esse concretamente si presenta.

Da una parte, quelle posizioni nelle quali è palese ed esplicita la continuità con la tradizione culturale dell'Istituto nei suoi cardini fondamentali: la prevalenza dell'interesse collettivo su quello particolare nelle soluzioni urbanistiche, il carattere strutturalmente pubblico del ruolo dell'urbanista, la stretta integrazione tra aspetti tecnici e aspetti politici, la priorità del momento della pianificazione rispetto a quelli esecutivi, progettuali, architettonici.

Dall'altra parte, le posizioni tendenti di fatto a proporre, e a praticare, una sorta di neutralità tecnica e culturale, di vera e propria indifferenza, dell'urbanista e della sua operazione professionale rispetto alle vicende e alle regole della politica, a privilegiare (se non ad esclusivizzare) vuoi gli aspetti, più che di analisi, di descrizione della realtà, vuoi, e soprattutto, gli aspetti formali, progettuali, morfologici delle trasformazioni urbane, quasi disinteressandosi dei concreti processi di trasformazione territoriale e del loro carattere complessivo. E' quella posizione che Luigi Scano ha definito di "afasia avalutativa", nella quale l'Inu é scivolato sempre di più nel corso degli ultimi anni.

"Complicità oggettive"

Ricordo un editoriale su Urbanistica informazioni del 1982, dove apertamente polemizzavo con quanti (anche nel mondo degli urbanisti) retrospettivamente irridevano agli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare che erano stati compiuti dai padri dell'urbanistica italiana negli anni '50, alle battaglie culturali e all'impegno professionale degli urbanisti che avevano tentato (a volte riuscendovi) di salvare le città italiane con la pianificazione. Una irrisione apparentemente volta al passato, ma in realtà finalizzata a colpire bersagli del presente.

Tira un vento di critica liquidatoria, scrivevo. Ma non si può ignorare che una simile critica esprime una "complicità oggettiva" (questo era il titolo dell'articolo) con la linea controriformista della maggioranza di governo e con la "deregulation" legislativa, Il patrimonio di elaborazioni e iniziative dell'urbanistica italiana, concludevo, deve essere assunto criticamente e, come ogni patrimonio culturale, pretende d'essere superato: non liquidato però, non negato attraverso un rientro dell'urbanistica nel ventre dell' architettura, attraverso l'enfatizzazione del momento individuale del progetto contro il momento collettivo del piano.

All'interno dell'Inu il confronto tra la posizione più critica e quella più difensiva della pianificazione ebbe il suo punto di partenza in una serie di iniziative volte programmaticamente alla "verifica dell'efficacia degli strumenti urbanistici", che culminarono nel Congresso di Genova del 1983. Parve allora ad alcuni che la difesa delle ragioni dell'urbanistica, e del piano, impedisse di porre nel dovuto rilievo la necessità di un rinnovamento dei metodi e degli strumenti della pianificazione. Altri individuavano invece, in una critica troppo unilaterale ai limiti e agli errori della pianificazione tradizionale, una pericolosa tendenza alla liquidazione dell'intero patrimonio culturale dell'urbanistica italiana.

Un mutamentodel patrimonio genetico

Riflettendoci a distanza di anni, mi rendo conto che da tempo si era avviato un vero e proprio mutamento del patrimonio genetico dell'Inu, riflesso e conseguenza del riverberarsi di concreti scontri d'interessi.

Il primo segnale fu forse costituito, verso la fine degli anni '70, dalla proposta di convertire l'Inu in una sorta di centro erogatore di servizi professionali. La proposta non fu accettata, perché si riteneva sbagliato introdurre nell'Inu, dove il lavoro dei membri degli organismi dirigenti era sempre stato volontario e gratuito, interessi di carattere venale e professionale, che avrebbero tra l'altro comportato una riduzione della libertà critica verso quei committenti cui ci si legava economicamente.Un secondo segnale fu costituito dall'incapacità di riprendere e completare la piattaforma di riforma del regime degli immobili, che era stata messa a punto negli anni tra il 1980 e il 1983 da una commissione coordinata da Luigi Scano. Essa era stata presentata alle organizzazioni sindacali, con grande interesse da parte dei loro dirigenti. Avrebbe dovuto essere precisata in alcuni punti di carattere strettamente tecnico (la definizione delle distinzione tra le "trasformazioni aventi rilevanza urbanistica" e le altre): le incertezze finirono per prevalere sull'esigenza di completare la proposta per rilanciarla con forza tra le formazioni politiche e sociali. Quella incapacità probabilmente non rivelava difficoltà tecniche, ma il disagio di proseguire lungo una linea di riforma che conduceva allo scontro aperto con i nuovi interessi immobiliari.

L'episodio più rilevante e significativo riguarda il tentativo di organizzare il XIX Congresso dell'Inu, che si è svolto a Milano nel 1990, come "congresso a tesi". L'intenzione era quella di far emergere, con la massima chiarezza ossibile, le diverse posizioni che nell'Istituto esistevano ma che non riuscivano a manifestarsi in modo compiuto. Solo dal confronto tra posizioni chiare, sostenevo, può nascere un dibattito fruttuoso al termine del quale, se possibile, emerga una sintesi, oppure si organizzi il pluralismo nelle forme della democrazia. Non bisogna temere di esprimere anche tesi contrapposte, se questo può aiutare a chiarire, a comprendere, a confrontare.

Per sollecitare il lavoro in questa direzione, presentai io stesso alcune tesi, sui punti nodali (quali il regime degli immobili, il rapporto pubblico-privato, il ruolo dell'urbanista). E quando altri presentarono tesi nelle quali non riconoscevo le mie posizioni, formulai e illustrai serenamente tesi alternative. Il tentativo di giungere a un compromesso ad ogni costo impedì un fruttuoso dibattito. La linea che prevalse fu quella di stemperare, annebbiare, smussare. Annegare ogni dissenso in un generico unanimismo sembrava essere diventato l'obettivo dominante.

In questa logica, vi furono perfino tentativi di espungere dalle tesi, che avevo presentato come base di discussione al congresso, riferimenti ad alcune situazioni concrete, utili per illustrare le tendenze in atto nella grandi città italiane (Milano, Firenze, Napoli, Roma) e le nuove forme della speculazione. Guarda caso, si trattava degli esempi più vistosi di quella "urbanistica contrattata" che finirà poi sulle prime pagine dei giornali e nelle aule giudiziarie. E significativamente, qualche anno dopo, all'Assemblea nazionale dei soci tenuta a Firenze il 30 maggio 1992, gli stessi che volevano anni prima censurare i riferimenti alle situazioni scandalose si opponevano all'approvazione di un ordine del giorno sui fatti di corruzione politico-urbanistica di Milano.

"Destra", "centro", "sinistra"

Negli ultimissimi anni, più d'un episodio ha reso evidenti due cose. La prima: all'interno dell'Inu si sono manifestati schieramenti, facilmente riconducibili alle classiche definizioni di "destra", "centro" e "sinistra". La seconda: la crisi degli organi dirigenti deriva dal fatto che queste diverse posizioni non si riconoscono in quanto tali, in quanto "diverse", e quindi non si apre tra loro una dialettica, un confronto esplicito, chiaro nei suoi termini e nei suoi sviluppi, che conduca a scelte definite.

Gli schieramenti non sono in alcun modo riconducibili a quelli tra forze politiche: non sono le tessere di partito che contano (esse sono distribuite tra gli schieramenti) ma le posizioni culturali. E il discrimine tra "destra" e "sinistra" é rappresentato da atteggiamenti diversi su alcune questioni di fondo, che sarà utile riepilogare.

Secondo una "parte", é giusto condannare senza mezzi termini la prassi che lega le scelte della pianificazione all'accordo preventivo con questo o quell'altro proprietario immobiliare, e che privilegia la ricerca di intese tra amministratore pubblico e privato proprietario non nella fase di attuazione delle scelte, ma in quella della loro definizione. La posizione di Urbanistica informazioni su questo punto é stata sempre molto rigorosa: siamo arrivati, nel 1986, a chiedere l'attenzione della Corte costituzionale. Ma secondo l'altra "parte" l'"urbanistica contrattata" é invece una strada obbligata per "rendere efficace il piano", per "farsi carico delle ragioni dell'economia" : di un'economia, per la verità, intesa in un modo abbastanza arcaico.

Sulla questione del regime degli immobili, quella medesima "parte" che ha il suo riferimento in Urbanistica informazioni ritiene giusto restar ancorati (come la rivista ha fatto nei venti anni della sua vita) agli obbiettivi della indifferenza alle destinazioni dei piani dei proprietari (tutti, quelli inclusi nelle zone suscettibili di trasformazioni e quelli esclusi), della non appartenenza privata del diritto a operare trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, della non appropriazione da parte dei proprietari dei benefici derivanti dalle decisioni della collettività. L'altra "parte", invece, ritiene che si può e si deve riconoscere una determinata edificabilità minima (un plafond di edificabilità) a tutti i proprietari i cui beni siano inclusi in quelli trasformabili, e trattare per ottenere le aree da destinare alle utilizzazioni pubbliche operando trasferimenti di edificabilità.

Un altro punto nodale riguarda il ruolo dell'urbanista. Io resto convinto che la funzione della pianificazione urbanistica é (come alcuni di noi sostenevano nelle tesi presentate al Congresso di Milano) eminentemente di interesse pubblico, e quindi l'urbanista, in quanto responsabile tecnico degli atti di pianificazione, "é costitutivamente una figura pubblica ed esplica un ruolo pubblico" sia quando é un funzionario pubblico sia quando collabora come libero professionista. A questa posizione si contrappongono invece quanti ritengono che l'urbanista debba essere una figura professionale caratterizzata dalla "neutralità" e da una tecnicità al servizio di chiunque: in piena sintonia con quell'Inu "afasico e avalutativo" cui accennavo.

Altri punti di dissenso tra "sinistra" e "destra" certamente ci sono. Mi sembra che quelli che ho enunciato siano però sufficienti per comprendere come sia veramente drammatico che un istituto culturale, quale l'Inu é, non sia riuscito negli ultimi anni a far emergere in modo esplicito e argomentato, riconoscibile e comprensibile anche al di fuori della stretta cerchia degli organi dirigenti, le reali posizioni.

La speranza é che queste note di commiato, se certamente sono il prodotto di una sconfitta di quella posizione che ho definito di "sinistra", consentano almeno l'avvio di una discussione aperta, di un confronto chiaro, che si concluda poi al prossimo Congresso nazionale dell'Inu, che dovrà tenersi a Palermo entro pochi mesi.

Edoardo Salzano


La polis è più importante delle sue parti”.

E. Montale

Premessa

Siamo in questi anni giunti a un singolare crocicchio. Due percorsi sembrano incrociarsi: da una parte, quello dell'evoluzione legislativa e amministrativa e delle tensioni (o distensioni) ideologiche, politiche, culturali che ne condizionano il cammino; dall'altra parte, quello dell'evoluzione della situazione reale delle città e del territorio. L'uno e l'altro percorso, e soprattutto il loro incrociarsi, determinano una situazione di crisi: di frattura rispetto al passato, di necessità di superamento di antiche categorie, di rischio anche acuto di regressione.

2. Limiti e arresto del processo di riforma

A ben vedere, l'evoluzione legislativa e amministrativa avviata con il dibattito sulla “riforma urbanistica” nei primi anni '60, con la legge per l'edilizia economica e popolare del 1962, e poi proseguita con la “legge ponte” urbanistica del 1967, con la “riforma della casa” del 1971, con l'entrata in funzione dell'ordinamento regionale, con le tre leggi degli anni della solidarietà nazionale (la Bucalossi, la legge per l'edilizia sovvenzionata e agevolata, quella per l'equo canone), aveva prodotto un quadro non privo d'una sua intrinseca, sebbene incompleta, coerenza riformativa.

Già nella ultima fase della formazione di un siffatto nuovo quadro normativo i commentatori più attenti avevano rilevato come alcune carenze dell'impostazione legislativa, ove non rapidamente sanate, avrebbero potuto condurre a un indebolimento, se non addirittura a uno sgretolamento, del nuovo edificio legislativo.

Gli elementi di critica principali concernevano quattro aspetti:

1) La scarsa attenzione del legislatore al problema della gestione delle leggi. Un punto di particolare debolezza in proposito veniva individuato nelle disfunzioni e nell'insufficiente livello qualitativo delle strutture dell'azione pubblica, sia a livello nazionale (i Ministeri) che a livello locale (i Comuni).

2) La mancata chiarezza nella definizione del regime immobiliare , e in sostanza nella determinazione di ciò che appartiene al pubblico e ciò che appartiene al privato, in termini di potere e in termini economici, nelle decisioni e nei risultati delle trasformazioni territoriali e urbane. Questa insufficiente chiarezza ha provocato la raffica di sentenze della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato che hanno paralizzato l'attività urbanistica.

3) La scarsa attenzione ai problemi del recupero edilizio e urbano , che cominciava a emergere, fin dai primi anni '70, come il tema centrale degli anni futuri. Solo con la legge 457 del 1978 si cominciò a porre una certa, ma ancora ben troppo modesta, attenzione a questo tema.

4) Il progressivo manifestarsi di tendenze politiche (e poi anche culturali) regressive, di vera e propria controriforma urbanistica , a cui non sembrava rispondere una controtend enza sufficientemente agguerrita, tenace, consapevole, determinata.

Nessuno di questi quattro motivi di debolezza fu sanato negli anni successivi al 1979. Anzi, la rottura della “solidarietà nazionale” provocò il paradosso di indurre lo stesso PCI a esprimere dubbi e incertezze sulla validità della strategia delineata nel “processo di riforma”, fino a divenire permeabile alle tesi della necessità di una deregulation.

Gli sforzi compiuti dalle forze riformatrici e dall'opinione pubblica più ; sensibile negli anni più recenti non hanno condotto perciò a una ripresa, a uno sviluppo e al completamento del “processo di riforma”, ma si sono esaurite nel tentativo di contrastare (esemplare la vicenda del condono edilizio) le più sciatte pratiche e le più aberranti proposte della tendenza controriformatrice.

3. Le trasformazioni decisive degli anni '80

Contemporaneamente, sul piano poco discutibile delle cose, si sono manifestate vistose modificazioni nell'assetto della produzione, della società e del territorio. Alcune di queste modificazioni hanno una particolare rilevanza ai fini dell'urbanistica, ed è perciò ad esse che accennerò.

In primo luogo, si è avuta una netta inversione della curva che rappresenta il rapporto tra abitanti e stanze. Come gli urbanisti avevano pronosticato alla fine degli anni '60, si è passati da una fase dominata da una scarsità diffusa e generalizzata di stanze rispetto agli abitanti, a una fase in cui, mentre a livello statistico generale si manifesta una marcata sovrabbondanza di stanze, nelle diverse realtà italiane i fabbisogni abitativi emergenti riguardano un numero limitato di aree, non sono rilevanti (e tendono a scomparire) in termini quantitativi anche in queste aree, e appaiono determinati più da una inadeguata corrispondenza tra la qualità dell'offerta e quella della domanda (in termini di dimensioni degli alloggi e in termini di prezzi) che da una effettiva scarsità. Parallelamente, l'attività di pianificazione urbanistica compiuta dopo la legge ponte del 1967 (i cosiddetti « piani della seconda generazione ») ha fatto sì che praticamente in tutte le città grandi e medie le aree già utilizzate per servizi e attrezzature, e quelle comunque vincolate a tale destinazione, coprono largamente i fabbisogni.

In secondo luogo, è mutato l'assetto della produzione. Negli anni '50 si avviò in Italia quel tumultuoso e ingovernato processo di riduzione del peso delle attività agricole e di conseguente esodo dalle campagne, i cui modi (cioè l'assoluto “spontaneismo” cui fu lasciato il processo) pesantemente aggravarono i dissesti e gli squilibri della struttura sociale e dell'assetto territoriale del Paese. Negli anni '70 si è avviato un processo di riduzione del peso della produzione industriale, sia in termini di addetti che in termini di spazi fisicamente occupati sul territorio, e di un parallelo incremento delle attività dei servizi. Ogni città italiana ha “il suo Lingotto“: ha l'edificio o il complesso o la zona, fino a pochi anni fa simbolo e motore della vita economica e sociale della città , abbandonato e in cerca di seconda utilizzazione. E ogni città italiana è tesa a indagare (o inventare) la sua vocazione terziaria, a ricercare modi e strumenti e occasioni mediante le quali garantire la presenza di quote crescenti di attività di servizio, possibilmente “di livello superiore”.

In terzo luogo, sta mutando il modo in cui sono organizzati flussi delle comunicazioni di persone, merci, e soprattutto - in questa fase - di informazioni. Il progresso tecnico, applicato alla costruzione di una organizzazione radicalmente diversa di quei flussi che sono stati storicamente determinanti per la stessa nascita, e poi per il consolidamento, della città (e della civiltà urbana), genera tensioni nuove, e apre nuove possibilità, nella distribuzione delle attività sul territorio e nella stessa sua organizzazione. A partire dag', anni '60, le autostrade (come agli inizi del secolo le ferrovie) trasformarono radicalmente, e non in meglio, l'assetto territoriale del Paese, provocando rapidi e drastici mutamenti nella geografia delle città e delle aree, spostamenti di popolazione e di attività, spesso anche (per gli effetti diretti e ancora di più per gli effetti indotti) devastazioni dell'ambiente e della struttura fisica del territorio. A partire dagli anni '80, la posa di un cavo sofisticato per la trasmissione di informazioni potrà provocare gli stessi effetti della costruzione di un'autostrada o di una ferrovia.

In quarto luogo, infine, è mutato il grado di consapevolezza sulla decisività dei valori espressi dall'ambiente naturale, e, più in generale, da quel grande e derelitto giacimento di ricchezza costruito dall'accumulazione storica sul territorio di lavoro e di civiltà. Questi valori sono avvertiti, ormai a livello di massa, come decisivi per più d'un aspetto. Per il rischio che minaccia la stessa sopravvivenza del genere umano a causa della dissipazione forsennata che si è compiuta, e si continua a compiere, della risorsa fondamentale della vita dell'uomo e della società. Per lo spreco di ricchezza che comporta, in termini economici, la distruzione di quella risorsa sia per le spese ingentissime necessarie per ricostituire il territorio e pagare i danni dei dissesti ormai divenuti patologici e ricorrenti, sia per i mancati guadagni derivanti dalla mancanza di una loro saggia amministrazione. Infine, per la crescente presa di coscienza del fatto che il territorio è la vivente espressione e testimonianza della storia della nostra civiltà, la quale, nel suo fluire, ha impresso su di esso i segni ancor oggi visibili della sua evoluzione, dove più concentrati (i centri storici) dove meno :(il paesaggio agrario), ed è perciò componente non eliminabile della memoria storica della società.

4. Sviluppo senza crescita, qualità come obiettivo

L'insieme di queste novità, oggettive e soggettive, lungo l'uno e l'altro dei due percorsi cui ci siamo riferiti, determina una situazione di crisi precisamente nel senso che, mentre si è interrotto quel “ processo di riforma” avviato negli anni '60, si è contemporaneamente prodotta una radicale modificazione dello scenario nel quale si colloca l'azione dell'urbanistica rispetto a quello nel quale la cultura e la prassi avevano foggiato i loro metodi e strumenti. Si rifletta su alcuni elementi che emergono dal quadro che s'è adesso delineato.

Si può intanto senz'altro affermare che l'età della generalizzata espansione quantitativa delle aree urbanizzate (delle città) si è ; definitivamente conclusa. La portata di questa affermazione, sulla quale ormai tutti concordano, è facilmente comprensibile se si riflette sul fatto che le città, e comunque le aree urbanizzate, hanno vissuto una fase (si vorrebbe dire un'epoca) di crescita pressoché continua e generalizzata a partire dalla prima metà del XIX secolo. Ciò dà conto sia dello spessore del cambiamento strutturale che è intervenuto, sia dei problemi d'innovazione che esso pone a una disciplina, l'urbanistica, conformatasi nel suo attuale assetto culturale e tecnico proprio nel secolo a cavallo del 1900. Occorre ormai misurarsi non più con il problema della gestione della crescita continua e costante di tutte le grandezze implicate nel processo di urbanizzazione, ma con il problema, di qualità tutt'affatto diversa, dello sviluppo senza crescita quantitativa.

Ma si può del pari affermare che, all'esaurirsi delle esigenze quantitative che erano state dominanti nei decenni trascorsi (nel campo della residenza come in quello dei servizi, come in quello della produzione), ha corrisposto il maturare e il crescere di un 'esigenza di qualità . Questa si manifesta in più d'un aspetto, nasce da una molteplicità di moventi e interessi. Nasce da quella nuova attenzione nei confronti della risorsa ambientale di cui si è or ora detto. Nasce dal fatto che i bisogni quantitativi si avviano a essere soddisfatti e quindi si affacciano bisogni nuovi. Nasce da una sorta di soprassalto critico nei confronti della repellente immagine offerta dalle squallide periferie costruite negli anni della speculazione ruggente. E nasce anche dalla circostanza che le fasce di forza lavoro a più elevata qualificazione professionale (interlocutori privilegiati, e anzi indispensabili ed essenziali in una società che vuole affidare il proprio sviluppo ad attività ad alta qualificazione) pongono la qualità ambientale come uno dei requisití essenziali per l'accettazione di un'offerta di lavoro.

5. “Deregulation”: una proposta illusoria

Sono appunto queste due connotazioni di fondo dell'epoca che è iniziata (il problema dello sviluppo senza crescita, l'esigenza di qualità) che sembrano decisive nel porre all'urbanistica italiana ed europea i traguardi di una ricerca e una sperimentazione innovatrice. Ma l'esigenza di una modifica del quadro operativo, amministrativo e legislativo dell'urbanistica deriva anche da un altro ordine di questioni, che è sotteso non certo alle posizioni dei profeti della “deregulation” (la cui espressione più grezza ma più efficace è costituita da Franco Nicolazzi, per molti anni Ministro per i LL.PP.), ma a un’esigenza in qualche modo avvertita da una parte di quel fronte ampio che alle posizioni suddette ha finito per aggregarsi: le questioni relative al rapporto tra ruolo del pubblico e ruolo del privato nel processo delle trasformazioni urbane e territoriali.

Nell’urbanistica tradizionale (quella sorta e foggiata nell’epoca dell’espansione) il ruolo del pubblico, con la pianificazione e regolamentazione urbanistica, sostanzialmente si esauriva nel fornire una blanda regolamentazione razionalizzatrice all’attività edilizia dei proprietari privati, e nel gestire direttamente solo il “ritaglio territoriale” costituito dalle opere pubbliche. C’era in sostanza una precisa suddivisione di campi. Il grosso della città era pienamente lasciato all’iniziativa dei privati, garantiti più che vincolati da un insieme di norme che tendevano ad assicurare un minimo di condizioni d’ ;igiene e di regolarità, e sovente un massimo di utilizzazione economica. Il “residuo” costituito dagli spazi pubblici (strade e piazze, scuole, giardini) era invece l’ambito dell’intervento pubblico diretto: anch’esso volto, a ben vedere, a incentivare, regolare, distribuire i valori economici derivanti dalle iniziative edilizie private.

Verso la fine degli anni ‘60 vi fu però una serie di sostanziali modificazioni, non solo quantitative. Aumentò la quantità degli spazi pubblici, soprattutto per effetto della “legge ponte” del 1967, e a essa si aggiunse quella degli spazi dove l’intervento edilizio poteva avvenire su aree espropriate, per effetto della legge 167 del 1962 e della 865 del 1971. Cominciò a porsi il problema di un più penetrante intervento pubblico e furono foggiati alcuni strumenti utilizzabili per risolverlo: per regolare nel tempo l’attuazione dei piani urbanistici con la “legge Bucalossi” del 1977; per governare gli esiti sociali della costruzione di edilizia residenziale privata, con la legge per l’equo canone del 1978; per incentivare i proprietari a recuperare il patrimonio edilizio degradato, con la legge 457 del 1978.

In definitiva, mentre da un lato l’intervento pubblico diretto ruppe gli argini del “ritaglio” entro il quale era confinato e dilagò fino a coincidere (o a poter coincidere) con tutta l’espansione urbana, dall’altro lato esso cominciò a incidere (o a poter incidere) nel patrimonio edilizio esistente, condizionando la proprietà privata anche su questo versante. Il punto è, però, che risultati così innovativi, per il modo stesso in cui vennero gradualisticamente e dialetticamente raggiunti, spesso pagando per i necessari compromessi il prezzo dell’ambiguità e dell’oscurità della formulazione legislativa, non hanno dato luogo a un quadro legislativo organico e chiaro, dotato d’una sua esplicita e formale chiarezza. Essi si sono invece manifestati come aggiunte, innesti, e se si vuole superfetazioni, di un quadro legislativo preesistente, in tutt'altra direzione orientato. E si è pervenuti così alla costruzione di un castello di norme e procedure cui l'ulteriore aggiunta delle legislazioni regionali e dei provvedimenti “per l'emergenza”, per lo “snellimento delle procedure”, e infi ne per il condono edilizio hanno conferito forme che definir barocche è fin troppo benevolo.

Non è allora privo di motivazioni, se non di ragioni, il cittadino che protesta perché, illuminato solo dal corto raggio dei suoi immediati interessi, vede l'urbanistica unicamente come un insieme di “lacci e lacciuoli”, e corre a impigliarsi nella pania di chi demagogicamente gli promette di tagliar via d'un colpo quel groviglio. Solo che, proprio per tutto ciò che abbiamo finora argomentato, a chiunque sappia sollevare un po' lo sguardo (e non molti sono quelli che ci provano) appare subito evidente che è del tutto illusoria la ricetta della “deregulation”, e che neppure un semplice riordinamento del castello legislativo è misura sufficiente. Poiché il compito vero, e risolutivo, che in questa fase di transizione si pone è quella, ben più impegnativo, di riflettere su che cosa occorra modificare per rendere metodi, indirizzi e strumenti dell'urbanistica adeguati alla soluzione dei problemi così come questi oggi si pongono : poi trarre da questa riflessione, naturalmente, tutte le necessarie conseguenze politiche, legislative e amministrative.

6. È ancora necessaria la pianificazione?

Lungo una simile linea di ragionamento occorre porsi una prima e preliminare domanda: è ancor oggi necessario tener fermo il principio base dell’ urbanistica moderna che è la pianificazione ? La domanda non è assolutamente accademica. Si potrebbe trascurarla se emergesse solo dall’ambito del rozzo e sprovveduto empirismo proprio della “filosofia” nicolazziana. Essa però è stata posta anche su un terreno meno volgare, da interlocutori che hanno un peso culturale e pratico non trascurabile.

Così, per cominciare, ha posto quell’interrogativo, per rispondere in termini negativi, una consistente porzione della cultura degli architetti. Il dibattito su una presunta antinomia tra “piano” e “ progetto”, che ha occupato negli ultimi anni le riviste di architettura, tendeva in sostanza a dimostrare che l’istituto stesso della pianificazione era irrimediabilmente obsoleto; che, viceversa e di conseguenza, il compito di conferire ordine, dignità, riconoscibilità, bellezza all’aggregato urbano doveva essere affidato al progetto, all’ ;opera individuale, e immediatamente realizzabile, del singolo architetto.

Ma la tendenza a considerare non più necessaria la formazione di un quadro di coerenze degli interventi sul territorio (di un piano) si manifesta anche in numerosi versanti del dibattito e dell'azione politici e amministrativi. Dai programmi di riordino delle reti infrastrutturali, ai progetti per il ponte sullo Stretto di Messina; dall'uso generalizzato della deroga ope legis per le opere pubbliche rispetto alle prescrizioni dei piani, all'attenzione degli effetti sull'ambiente solo come puntuale e puntiforme verifica di singole opere di grande dimensione: tutto avviene decidendo (quando si riesce a decidere) su singole opere, su singoli settori, su singoli aspetti parzialmente considerati, ricercando al massimo una sorta di razionalità limitata e circoscri tta, e senza tener conto di una razionalità complessiva; quella razionalità complessiva la cui ricerca è peraltro imposta dalle leggi che obbligano a pianificare il territorio ai livelli regionali e comunali, e a formulare a livello nazionale indirizzi che definiscono i lineamenti dell'assetto territoriale complessivo.

E tuttavia, la pianificazione è oggi più che mai necessaria . Non solo per le ragioni di sempre. Non solo cioè perché, in un mondo in cui - con la rivoluzione capitalistico-borghese - si è definitivamente affermato il carattere sociale della produzione, a ciò non può non far riscontro una capacità e volontà di governare le trasformazioni dell'assetto territoriale secondo una logica anch'essa sociale. Non solo perché il territorio è un sistema (o se si vuole un “sistema di sistemi”), il cui assetto deve essere guidato tenendo conto delle oggettive ínterrelazioni che esistono tra le diverse componenti della sua organizzazione. Non solo per questo, ma anche per una serie di ragioni più specificamente legate alle novità che si sono manifestate, o che si stanno manifestando, nella presente fase di transizione.

Ma argomentare l' attuale necessità della pianificazione conduce allora inevitabilmente a ragionare su ciò che, del tradizionale modo di pianificare, deve essere cambiato perché la pianificazione sia realmente adeguata ad affrontare la realtà nei termini in cui essa oggi si :pone, a governare le trasformazioni che hanno luogo nell'età dello sviluppo senza crescita, della qualità come obiettivo determinante, della necessità di un rapporto nuovo tra azione pubblica e intervento privato.

7. Dal piano alla pianificazione

Non a caso abbiamo finora adoperato il termine “pianificazione” anziché il termine “piano”. Quest'ultimo termine suggerisce infatti l'immagine di uno strumento, costruito come la definizione del desiderabile assetto di una determinata parte del territorio, concluso e statico. Uno strumento che, una volta delineato, verrà poi successivamente attuato mediante una separata attività di gestione e, nei casi migliori, di programmazione dei modi nei quali sviluppare nel tempo la sua attuazione.

Una simile concezione non è più sufficiente. Essa poteva valere, a livello urbano, in una fase di espansione quando, trascurando le trasformazioni all'interno di quanto già esisteva, si trattava di governare le “aggiunte” alla città costruita. Non è più sufficiente in una fase in cui la rapidità, la diffusione e le caratteristiche delle trasformazioni in atto impongono, a tutti i livelli, un'azione di governo delle trasformazioni urbane e territoriali che sia continua e sistematica, una capacità di adeguare tempestivamente le scelte al mutare degli eventi, un'attenzione, mai praticata nel passato, nei confronti degli operatori, pubblici e privati, delle loro esigenze, delle loro disponibilità, una retroazione costante tra le conseguenze della pianificazione e le sue scelte.

Spostare però l'accento dallo strumento del “piano” all'attività di “pianificazione” significa non concepire e praticare più l'uso dei tre momenti tradizionali del “piano” (ossia del disegno dell'assetto desiderato), del “programma” (ossia della scelta, all'interno dell'universo delle opportunità definite del “piano”, di quelle da realizzare in una fase determinata), e della “gestione” (ossia dell'attuazione concreta, attraverso “progetti” esecutivi, degli interventi previsti dal “programma”) come tre operazioni separate e successive, ma concepire invece, e praticare, i tre momenti suddetti come momenti logici di un'attività (la “pianificazione”, appunto) che si svolge con una stretta e continua interazione tra l'uno e l'altro momento. Talché, ad esempio, ciò che emerge nel momento del programma o della gestione (i momenti più prossimi all'impatto con la realtà economica e sociale) retroagisca sul momento del piano inducendo a modificare, se necessario, le scelte; ma le modificazioni non siano, come adesso avviene, correzioni parziali e puntuali del piano, tali da stravolgere, nella loro successione, l'iniziale coerenza: si traducano invece nella definizione di un diverso quadro di coerenza.

Ciò significa allora, in sostanza, che occorre passare da una concezione del piano come definizione e disegno d'una situazione finale d'equilibrio, da raggiungere successivamente mediante una catena di atti (di programma e di gestione) attuativi di quel determinato e prefissato disegno, a una concezione della pianificazione come la successiva definizione di una serie di situazioni d'equilibrio, ciascuna caratterizzata da una sua intrinseca coerenza.

È probabilmente nel quadro di una simile concezione della pianificazione che potrà essere raggiunta la sintesi tra quei due obiettivi che oggi appaiono spesso le bandiere di due opposti schieramenti: quello della coerenza del disegno complessivo, e quello della flessibilità necessaria per il modificarsi della realtà e delle decisioni politiche e amministrative. Ed è in un quadro siffatto che possono essere trovate anche le risposte ad altre domande che sono poste dalla presente fase di transizione.

8. L'ambiente: il punto di partenza della pianificazione

L'esigenza della qualità, che caratterizza in modo determinante - come abbiamo accennato - l'epoca nella quale senza avvertirlo siamo entrati, ha tra le sue componenti essenziali una nuova attenzione per l'ambiente. E forse la necessità inderogabile di salvaguardare l'ambiente nel suo complesso (subito diremo che cosa intendiamo con questa espressione) è ciò che, mentre da un lato ribadisce e conferma la necessità della pianificazione, dall'altro lato pone ad essa i più impegnativi compiti di innovazione.

Ma occorre innanzitutto precisare che cosa, in queste note, intendiamo per ambiente. Ponendoci dal punto di vista dell'urbanista e non da quello dell'ecologo o del geografo o dell'ambientalista o dello storico o del geologo, consideriamo l'ambiente come il prodotto di un millenario investimento di lavoro e di cultura che l'uomo ha compiuto per trasformare la natura e renderla idonea a ospitare la vita e le attività umane. Ciò che soprattutto ci interessa è cogliere e sottolineare questo intreccio tra natura e lavoro, tra preesistenza fisica e opera di trasformazione, non solo perché è unicamente partendo dalla consapevolezza di questo intreccio che si può conoscere l'ambiente (nella sua qualità, nella sua struttura, nelle sue caratteristiche), ma anche perché è proprio nel delineare le regole mediante le quali occorre oggi proseguire quell'intreccio che si esplica l' azione dell'urbanista.

Considerare in tal modo l'ambiente comporta alcune conseguenze che meritano di essere rese esplicite. La prima è che, ponendosi da un simile punto di vista, l'interesse e l'attenzione per l'ambiente non possono limitarsi ad alcune parti, ad alcuni ritagli dotati di qualità o di rarità notevoli: i centri storici, le porzioni ancora intatte delle coste, i boschi residui, i biotopi di particolare interesse e cosi via. Essi devono invece considerare l'insieme del sistema ambientale , variamente caratterizzato da forme diverse, da diverse incidenze, da diverse qualità dell'intervento storico dell'uomo: in tutta la vasta gamma delle situazioni e trasformazioni che vanno dall'estremo “naturale” costituito dai brandelli di territorio mai trasformato dal lavoro umano (ma ne esistono ancora in Italia?), fino all'estremo “artificiale” costituito da quelle zone nelle quali l'originario dato naturale è stato del tutto cancellato, attraverso la vasta gamma delle situazioni (la natura governata dei boschi, le varie facies del paesaggio agrario, i centri storici) nei quali intervento umano e natura hanno trovato differenti forme d'equilibrio.

La seconda conseguenza, strettamente connessa alla prima, è che l'ambiente, nel suo insieme e nelle sue parti, non può non essere analizzato criticamente , mediante un'operazione culturale che sappia condurre a distinguere ciò che deve essere conservato da ciò che può e deve essere trasformato, e che in secondo luogo - e soprattutto - sappia individuare le regole che devono essere seguite nel trasformare l'ambiente. Regole che - vogliamo precisarlo subito - devono comunque essere orientate alla tutela e alla valorizzazione di tutto ciò che la storia, nella sua mai interrotta vicenda, ha sedimentato nel territorio fino a quel punto di svolta nel quale le ragioni del massimo sfruttamento economico e del massimo privatismo hanno sopraffatto qualsiasi altro valore.

La terza conseguenza, anch'essa strettamente connessa alle prime due, è che l'attenzione e l'interesse per l'ambiente devono tradursi in un'attività di progettazione del territorio . L'analisi critica del sistema ambientale deve infatti dar luogo a una serie di azioni, che nel loro insieme devono determinare una trasformazione del sistema ambientale. Esse dovranno esser volte a una pluralità di obiettivi specifici: dove a vincolare (e a gestire) zone di assoluta immodificabilità, e zone in cui la fruizione deve essere attentamente controllata; dove a definire quali elementi dell'ambiente e del paesaggio, tracce e testimonianze della nostra storia, debbano restar immutati e costituire anzi la trama delle trasformazion i possibili, e in quali modi, e con quali strumenti, e con quale considerazione dei costi e dei benefici economici e sociali; dove, infine, si debba procedere a vere e proprie operazioni di recupero o di riprogettazione dell'ambiente territoriale e di quello urbano.

Ed è qui che vogliamo annotare, come fra parentesi, che non a caso abbiamo interamente ricondotto l'obiettivo della qualità a quello della tutela e della valorizzazione dell'ambiente. Siamo infatti convinti che, anche là dove le tracce della natura e della storia sono più esili, e dove quindi una nuova e sufficiente qualità dell'ambiente può essere raggiunta solo con vistose trasformazioni (con l'opera dell'architetto), queste trasformazioni conseguono realmente una qualità sufficiente solo se assumono come elementi ordinatori, come cardini del nuovo disegno dell'ambiente urbano, quelle tracce impresse dalla natura e dalla storia.

Ecco allora, in definitiva, perché singole azioni di protezione e di vincolo di singole porzioni del sistema ambientale, ancorché necessarie e anzi benemerite in una fase quale quella attuale, sono però tutt'altro che sufficienti. Ecco perché è indispensabile un'azione di pianificazione, un'attività sistematica di governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali che assuma la salvaguardia e la valorizzazione delle risorse ambientali (in quell'accezione, che riteniamo completa più che larga, cui ci siamo riferiti) come obiettivo prioritario e fondamentale: anzi, come criterio di valutazione e di misura della correttezza della pianificazione. Ed ecco, anche, perché il tema dell'ambiente pone all'urbanistica, alla scienza e alla tecnica della pianificazione, un impegnativo compito di rinnovamento.

Ciò di cui si tratta è infatti ribaltare la tradizionale logica pianificatoria, che assumeva come problema e obiettivo centrale (lo abbiamo ricordato più volte) quello della valutazione e della regolazione delle quantità aggiuntive di urbanizzazione. Si tratta di sviluppare i germi già presenti nella storia migliore dell'urbanistica italiana (ricordiamo ad esempio gli orti storici di Siena salvati da Luigi Piccinato, le colline di Firenze, di Assisi, Gubbio e Bergamo, di Bologna, tutelate rispettivamente da Edoardo Detti, da Giovanni Astengo, da Armando Sarti), e dare un più dispiegato valore e significato alle intuizíoni che queste esperienze hanno sorretto. Si tratta, in una parola, di porre il territorio (la sedimentazione storica che in esso è presente, la sua fisicità, il paesaggio, la sua struttura e la sua forma) come la base della pianificazione.

9. Il programma: momento centrale della pianificazione

Pianificare oggi, governare le trasformazioni urbane e territoriali così come è preteso dai nuovi problemi e dalle nuove esigenze, richiede (già lo abbiamo argomentato) un massimo di coerenza e d'unità tra i tre momenti del piano, del programma e della gestione. Ciascuno di questi momenti logici ha però una sua autonomia e perciò, oltre a porsi il problema fondamentale dell'intreccio tra di essi e di un modo di pianificare che fortemente li unifichi, si pongono (si devono porre) in modo innovativo anche i problemi interni a ciascuno dei momenti suddetti.

Abbiamo già affrontato, nel precedente paragrafo, quello che ci sembra il più rilevante problema del “momento logico” del piano. Per quanto riguarda il momento del programma ci sembra che il problema principale sia quello di comprendere che, in un'epoca dominata dalla velocità delle trasformazioni e dalla loro non compiuta configurazione, nonché dalla circostanza che le trasformazioni (sia fisiche che, soprattutto, sociali e funzionali) riguardano prevalentemente ciò che, dall'assetto urbano e territoriale, già esiste, in un'epoca siffatta il programma è davvero, per più d'un aspetto, l'anello decisivo della catena degli atti di pianificazione.

Il programma è infatti il momento in cui si deve compiere il censimento delle risorse disponibili a essere impiegate nell'attività di trasformazione, e quindi anche degli operatori concretamente mobilitabili; in cui, parallelamente, si deve scegliere - tra le varie esigenze sociali che postulano, per la loro soddisfazione, trasformazioni urbane e territoriali - quelle che nel successivo “breve periodo” devono e possono essere soddisfatte; in cui, di conseguenza, si deve decidere quali delle previsioni stabilite nel momento logicamente antecedente del piano saranno attuate, diventeranno cioè esecutive, nel periodo suddetto.

Il momento del programma quindi, oltre a costituire il momento del bilancio e della verifica, e dell'eventuale aggiornamento, del piano, è anche quel momento in cui si devono costruire una serie di raccordi di massima rilevanza ai fini di una pianificazione effettivamente operante.

In primo luogo, il raccordo con l'insieme delle istanze politiche attraverso cui si esprime la sovranità popolare. E' il momento in cui concretamente si sceglie, in cui si trasformano istanze sociali in priorità politiche. In cui veramente si disvela al massimo grado il sistema degli interessi che questa o quell'altra forza politica, questa o quell'altra maggioranza, effettivamente esprimono. In cui quindi è massimamente decisiva la trasparenza del procedimento mediante il quale si perviene alle decisioni.

In secondo luogo, il raccordo con la politica di bilancio dell'istituto cui è affidato il compito della pianificazione (volta per volta, il Comune, la Provincia, la Regione, lo Stato). In effetti, una pianificazione che voglia possedere il requisito dell' efficacia , che voglia non ridursi (come troppe volte nel passato è avvenuto) a un “libro dei sogni”, che voglia tradursi in opere, in concreti interventi, deve poter condizionare le politiche economiche, e in particolare le politiche della spesa: queste sono le gambe con cui solo può camminare. E viceversa, la politica di bilancio ha bisogno della pianificazione come di quell'insieme di scelte e di tecniche che può permetterle di avere una coerenza non solo contabile, ma dispiegatamente sociale.

In terzo luogo, infine, il raccordo con quella vasta gamma di operatori pubblici e privati che dovrà re alizzare e gestire le scelte del piano e del programma. Questo ci sembra un punto davvero decisivo, proprio per i mutamenti che sono intervenuti nella società e nella città e che richiedono un rinnovamento coraggioso di tutte le categorie, teoriche e pratiche, dell'urbanistica. È opportuno quindi soffermarvisi con una certa ampiezza.

10. Un nuovo rapporto tra pubblico e privato

Si è già detto che aveva cominciato a “saltare”, negli anni '70, la rigida separazione tra l'area dell'intervento pubblico e quella dell'intervento privato, e si è già visto come il primo avesse iniziato a incidere, in modo sostanziale e non solo nei termini di un quantitativo allargamento dello spazio di sua diretta pertinenza, sullo spazio di pertinenza del privato. Con l'equo canone, con il programma pluriennale d'attuazione ex lege 10/1977, con le iniziative e provvidenze per il recupero dell'edilizia abitativa, l'azione pubblica si dotava infatti di strumenti potenzialmente capaci di condizionare e orientare il mercato privato, in modo fortemente innovativo. (Non a caso vi fu chi ricomprese queste innovazioni in quegli “elementi di socialismo” di cui Enrico Berlinguer segnalava e stimolava l'introduzione nella società italiana.)

Di queste innovazioni non si comprese probabilmente la portata, né, di conseguenza, la necessità di una strategia che le sorreggesse e le sviluppasse: e questa fu probabilmente - già lo abbiamo accennato - una delle cause del “riflusso urbanistico”. (Non a caso, del resto, alla parola d'ordine “di destra” della deregulation corrispose “a sinistra” lo slogan del “giacobinismo degli urbanisti”.) Esse, in realtà, entrarono a far parte del quadro legislativo perché la logica delle cose, perché le novità strutturali, conducevano oggettivamente in una simile direzione.

È infatti evidente che in una fase in cui problema centrale cessa di essere quello dell'espansione e diviene quello dell'intervento nella città esistente, l'azione pubblica non può più concentrare la propria attività nella predisposizione e nella gestione delle “ aggiunte” alla città esistente. Per raggiungere i propri obiettivi essa deve intervenire in ciò che avviene all'interno degli organismi urbani, per favorire e incentivare il recupero delle unità edilizie non occupate o degradate, per evitare fenomeni patologici nel mercato delle locazioni, per riqualificare gli spazi urbani, per controllare le trasformazione delle destinazioni d'uso ecc.

Ma è evidente allora che, in questo nuovo scenario, cambiano gli interlocutori. Le figure dominanti non sono più quelle dell'antica triade (l'amministrazione pubblica, il proprietario fondiario, l'imprenditore capitalistico), e l'azione pubblica non può più semplicemente ridursi a sostituire (o tosare) la proprietà fondiaria, acquistando ed espropriando i terreni per darli in uso o in proprietà all'imprenditore. L'area sociale sulla quale l'azione pubblica opera è un ben più complesso groviglio di figure sociali e di interessi economici, nei confronti dei quali non si possono eseguire tagli netti. Il ruolo del pu bblico tende a divenire, in modo sempre più dispiegato, quello del soggetto che guida e indirizza, stimola, sorregge l'attività di una grande pluralità di soggetti privati (o privatistici), orientandone le convenienze e le azioni in modo che queste, nel loro complesso, siano finalizzate agli obiettivi perseguiti.

Un simile ruolo implica una notevole trasformazione degli strumenti mediante i quali l'azione pubblica si esplica. Non solo una trasformazione dei veri e propri “strumenti urbanistici” (i quali, anzi, hanno una flessibilità tale da consentire consistenti adattamenti ai nuovi problemi), ma una trasformazione che deve incidere soprattutto - a nostro parere - su due problemi, su due nodi ancor oggi irrisolti: quello del regime immobiliare, e quello delle strutture funzionali dell'azione pubblica. La mancata soluzione dell'uno e dell'altro problema è ciò che più pesantemente condiziona il momento della gestione: dell'ultimo, dunque, dei tre momenti logici della pianificazione su cui volevamo soffermarci.

11. La questione del regime immobiliare

C'è ancora oggi chi sostiene che la questione del regime immobiliare si pone nei termini in cui si poneva, in Italia, negli anni '60. Cioè come questione che potesse essere risolta mediante l'acquisizione (a prezzo di mercato o con il compenso di un'indennità espropriativa) di aree da assoggettare a urbanizzazione pubblica e cedere poi agli utilizzatori. Se quanto si è sostenuto a proposito delle trasformazioni avvenute e in atto è vero, allora è del tutto evidente che un simile modo di vedere il problema, e di proporre le conseguenti soluzioni, è del tutto superato, ed esprime un ritardo culturale che deve rapidamente esser sanato.

La questione, oggi, non è quella del regime dei suoli ; è quella, certo più complessa, del regime immobiliare. Il problema non è più (poiché l'epoca dell'espansione, in Italia e in Europa, è terminata) quello di impedire che la rendita fondiaria determini i modi e tempi dell'espansione delle città, incida sul prezzo finale delle costruzioni da realizzare. Il problema è divenuto, da molti anni a questa parte (e precisamente da quando l'attenzione si è focalizzata sul recu pero, sul riuso, sul governo del patrimonio edilizio e urbano esistente) quello del controllo, della tosatura o dell'integrale ablazione della rendita immobiliare urbana, in tutte le forme del suo manifestarsi.

È insomma necessario definire innanzitutto - in termini culturali, politici, legislativi - che cosa appartiene al pubblico e che cosa appartiene al privatonelle decisioni e nei valori economici connessi alle trasformazioni urbane e territoriali . Si tratta, evidentemente, di una estensione del problema, e dell'obiettivo, sotteso all'antica questione del regime dei suoli. Oggi, non si tratta più soltanto di decidere quanto si debba pagare al proprietario del suolo nudo quando lo si voglia espropriare per ampliare la città. Oggi si tratta anche, e soprattutto, di decidere univocamente quanto sia necessario riconoscere al proprietario del valore dell'immobile (dell'area quin di e della costruzione) quando la mano pubblica decida di espropriare, o acquistare, o convenzionare, o tassare, o determinare il canone di locazione d'uso per sé o per qualunque altro soggetto.

Si tratta invero di un problema decisivo, per più di una ragione. Quella economica innanzitutto: perché una quota ingente dei valori derivanti da scelte della pubblica amministrazione deve remunerare la rendita, gravando perciò sul profitto e sul salario? Quella morale: la corruzione diventa inevitabile quando le scelte degli amministratori pubblici determinano ingenti variazioni dei patrimoni dei soggetti privati. Quella dell' efficaciadella pianificazione : è ampiamente dimostrato ormai che le valutazioni tecniche e quelle politiche sono soccombenti, o almeno pesantemente distorte, nel gioco d'interessi conseguenti dall'appropriazione proprietaria della rendita urbana.

Ma perché la questione venga finalmente risolta, è indispensabile che lo sia in modo equo: non solo perché altrimenti la soluzione sarebbe soccombente, come troppe volte è accaduto, sotto la scure della Corte costituzionale, ma anche perché altrimenti non verrebbe realizzata quella “indifferenza dei proprietari alle destinazioni di piano” che, già un quarto di secolo fa, Aldo Moro poneva come un obiettivo irrinunciabile. E l'unico modo equo appare, appunto, quello di definire un regime generale degli immobili , che sia assunto in ogni operazione pertinente agli immobili in cui la pubblica amministrazione abbia un ruolo diretto o indiretto.

Alla questione del regime immobiliare è del resto legata un'altra questione che è essenziale risolvere per poter governare le trasformazíoni urbane e territoriali (per poter pianificare) : quella della capacità della pubblica amministrazione di decidere le cosiddette “destinazioni d'uso”, stabilendo quali sono le utilizzazioni consentite in ciascuna unità di spazio. L'una e l'altra questione sembrano poter essere risolte cogliendo e sviluppando l'intuizione originariamente espressa da Aldo Sandulli, allora presidente della Corte costituzionale. Affermando cioè, in termini giuridicamente chiari, che il diritto di decidere circa le trasformazioni che hanno incidenza, o singolarmente o negli effetti cumulativi che ne conseguono, sull'assetto delle città e del territorio, appartiene alla mano pubblica: sicché è a questa che spettano non solo le scelte, ma i valori economici che da tali scelte derivano.

12 La questione delle strutture pubbliche per la pianificazione

Pianificare oggi, governare le trasformazioni territoriali e urbane in modo adeguato alle esigenze e ai problemi dell'attuale fase di transizione, è certo - lo si sarà compreso per tutto quel che finora si è detto - operazione ben più complessa e impegnativa di quanto prima non fosse. Basta pensare alla nuova esigenza di qualità che oggi emerge. Basta pensare alla differenza che c'è tra il redigere un “piano” una volta per tutte e il condurre un'attività sistematica e continua di pianificazione , a sua volta basata su un'attività continua e sistematica di analisi, ed entrambe finalizzate a definire successive configurazioni, tutte trasparentemente formate, d'un quadro di coerenza delle trasformazioni territoriali e urbane. Basta pensare al maggiore impegno tecnico e amministrativo richiesto da un'azione che è sempre meno di regolazione astratta degli interventi privati e sempre più di guida e indirizzo e sostegno alle operazioni di una molteplicità di soggetti.

È da decenni che la migliore cultura urbanistica sostiene che la possibilità di esercitare un effettivo ed efficace governo del territorio ha il suo passaggio obbligato nella formazione di strutture pubbliche di pianificazione . Questo problema, mai risolto in modo compiuto, è oggi più urgente che mai proprio per le novità che sono intervenute. Non è (neppure questo) un problema quantitativo; per meglio dire, non è un problema che ha nei dati quantitativi il suo aspetto essenziale. L'aspetto essenziale può esser colto, invece, se si comprende quale dovrebbe essere il ruolo d'una struttura tecnica adeguata, soprattutto in relazione a due suoi interlocutori primari: i rappresentanti politici dell'amministrazione, le competenze e professionalità esterne all'amministrazione.

Nei confronti del primo interlocutore (la rappresentanza politica) il ruolo della struttura tecnica non è solo quello di garantire la “ continuità” dell'Amministrazione: anche se si deve sottolineare la maggior rilevanza di questo aspetto in una fase in cui ciò che conta non è il “piano”, formato una volta per tutte, ma la continuità e sistematicità di un processo di pianificazione. L'elemento fondamentale sta invece nel compito della struttura tecnica di definire, col massimo di responsabilità, quali sono i dati oggettivi e non rinunciabili dell'assetto del territorio e del governo delle sue trasformazioni che devono essere assunti come vincoli, o come obiettivi, nelle scelte politiche, e conseguentemente di rendere espliciti quali sono gli ambiti di discrezionalità politica e amministrativa entro i quali può e deve esercitarsi l'azione delle rappresentanze politiche. Non quindi un rapporto di subordinazione, ma un rapporto di interazione basato sulla definizione e delimitazione dei due diversi ambiti di autonomia, professionalità (e potere) del tecnico e del politico.

E nei confronti del secondo interlocutore (le professionalità e competenze esterne all'Amministrazione), se il ruolo della struttura tecnica è fondamentale e ineliminabile sì da non essere surrogabile dal ricorso ad apporti esterni, esso tuttavia non può essere visto come esclusivo e omni-assorbente. Sarebbe sbagliato configurare la struttura tecnica pubblica come qualcosa che esegue per l'Amministrazione tutte le operazioni che normalmente le strutture professionali e di consulenza svolgono per le imprese private. Loro compito specifico è invece quello di avvalersi, nel modo più largo possibile, di apporti esterni, sia per utilizzare tutte le competenze specialistiche necessarie per il governo del territorio, sia per avvalersi delle collaborazioni opportune per i compiti che non rientrino nel l'attività ordinaria dell'Amministrazione. Ma è evidente che è la struttura tecnica pubblica che deve decidere per che cosa, a chi, come richiedere apporti esterni, che ,è essa che deve impostarne e indirizzarne l'operato, valutarne i. risultati, utilizzarne i prodotti.

Ma se così stanno le cose (o meglio, se così dovrebbero stare), allora è chiaro che le strutture tecniche pubbliche per il governo del territorio dovrebbero essere dotate di un elevatissimo grado di professionalità. Non di professionalità generica, o derivante dal ricalco di professionalità nate e formate in funzione di committenze generiche: ma di quella specifica professionalità che è necessaria per dirigere e coordinare le attività tecniche necessarie per governare le trasformazioni territoriali e urbane.

È a partire da questa necessaria caratteristica, da questo essenziale requisito, che devono essere visti i problemi delle modalità di reclutamento dei dipendenti pubblici, della loro formazione, della loro retribuzione. Sono problemi nei confronti dei quali non solo l'elaborazione, ma anche solo l'attenzione delle forze politiche e sindacali è ancora del tutto insufficiente. Ma sono problemi davvero nodali per chi ritenga che il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali sia più che mai essenziale, in questa difficile fase di transizione dal regno della quantità al regno della qualità.

13. Crisi del processo di riforma?

Qual è allora il significato di quella “crisi dell'urbanistica” ; di cui parlavamo all'inizio di queste note? È davvero necessario registrare il fallimento di quell'azione di rinnovamento che si è mossa verso l'obiettivo della “riforma urbanistica”? Ci sembra di dover sostenere che hanno torto quanti affermano che la crisi sostanziale coincida con il fallimento di quel “processo di riforma” che, avviato nei primi anni '60, era proseguito fino alla fine degli anni '70. Certo, quel processo ha incontrato limiti, ha conosciuto errori; epperò, ha anche accumulato positivi fattori di crescita. Ha contribuito in modo non irrilevante a produrre alcuni almeno di quegli elementi di novità che indubbiamente caratterizzano il nostro presente. Non abbiamo del resto già osservato, sia pure di sfuggita, che la stessa esigenza e domanda di qualità dell'assetto urbano e territoriale nasce anche dal fatto che i fabbisogni quantitativi, che esigenze minime di razionalità nell'uso almeno dei territori urbani, sono stati raggiunti?

Occorre allora - più che porre l'accento sulla sprovveduta e devastante rozzezza dell'on. Nicolazzi, sulla sordità delle forze politiche, sulla scarsa determinazione e continuità delle forze sociali, sugli equivoci e sui velleitarismi del mondo culturale - concentrare l'attenzione su di un nodo più interno. Crediamo infatti si possa sostenere che quel processo di riforma si è arrestato perché erano esaurite le ragioni che l'avevano provocato, erano divenute obsolete le forme nelle quali si era sviluppato, erano mutate le esigenze che ne costituivano il riferimento.

Tornano alla memoria le parole con cui Tolst oi descrive la morte del Generale Kutusov, l'uomo che esprime la Russia contadina e comanda l'armata dello Zar fino alla sconfitta di Napoleone, fino alla liberazione della Russia. Scrive Tolstoi: “Al rappresentante del popolo russo ora che il nemico era stato distrutto, la Russia liberata e posta al massimo della gloria, al russo come russo non restava più nulla da fare. Al rappresentante della guerra nazionale non restava altro che la morte. Ed egli morì”.

Quel “processo di riforma” si è arrestato non perché alcuni becchini lo hanno sepolto, ma perché è mutato il quadro delle esigenze e delle realtà che l'avevano reso necessario: perché non restava altro che arrestarlo. Non però - questo risulterà del tutto evidente al lettore - perché non sia più necessario realizzare le condizioni idonee a garantire l'esercizio di un efficace e trasparente governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali; non perché non siano necessarie profonde riforme nell'assetto proprietario, in quello delle istituzioni, come in quello degli strumenti e delle tecniche. Ma perché è oggi necessario un nuovo “processo di riforma”, che sappia assumere come proprie coordinate i nuovi affioranti bisogni, le nuove condizioni strutturali, e insomma quel complesso di elementi che determinano, nel nostro Paese, una realtà soggettiva e oggettiva profondamente diversa rispetto a quella che, trentacinque anni fa, stimolò e alimentò il processo rinnovatore che abbiamo conosciuto.

È così, è lavorando in questo spirito, che è possibile uscire dalla “crisi” dell'urbanistica. Cogliendo appunto, come all'inizio dicevamo, il suo carattere di frattura rispetto al passato, la necessità che essa pone di superare antiche categorie, il rischio in essa implicito (ma implicito in ogni crisi) di regressione. Cogliendo però anche tutte le potenzialità presenti: da quelle soggettivamente maturate nella fase ormai trascorsa, a quelle oggettivamente provocate dalle mutate condizioni strutturali.

Parliamo bene, scriviamo così così. A volerla ridurre a uno slogan, spogliandola della polpa di indagini complesse, è questa la sintesi cui arriva Luca Serianni dopo un lungo ragionare sullo stato di salute dell’italiano. Serianni insegna Storia della lingua alla Sapienza di Roma (i suoi ultimi libri sono una imponente Grammatica italiana per la Utet e un’agile Prima lezione di grammatica per Laterza). È uno dei protagonisti del piccolo fenomeno cui si assiste da qualche tempo: un gran parlare e scrivere di lingua, di grammatica e di sintassi. Al Festivaletteratura di Mantova ha partecipato agli affollati incontri di "pronto soccorso" grammaticale organizzati dall’Accademia della Crusca. Da domani sarà a Pordenonelegge, dove Enzo Golino cura cinque dibattiti dedicati a "Che lingua fa?". Intanto oggi, a Modena, si apre un convegno organizzato dall’Associazione degli storici della lingua, intitolato «Storia della lingua e storia della cucina». Ma ecco anche due libri, molto diversi fra loro: L’italiano. Lezioni semiserie di Beppe Severgnini (Rizzoli) e Tra le pieghe delle parole di Gianluigi Beccaria, (Einaudi). A luglio, poi, si è conclusa la grande ricognizione sulla lingua letteraria del secondo Novecento, diretta da Tullio De Mauro (Utet). Infine fioriscono nuove edizioni di dizionari.

Perché tanta attenzione alla lingua, professor Serianni?

«In Inghilterra, dove è molto diffusa, la chiamano "fedeltà linguistica". Da noi si riteneva che l’attaccamento di solito manifestato da una comunità nei confronti della propria lingua fosse scarsissimo. E invece dobbiamo ricrederci. Qualche anno fa il libro di Bice Mortara Garavelli non sulla lingua, e neanche sulla grammatica, ma sulla punteggiatura, ha ricevuto fior di recensioni e ha venduto al di là di ogni previsione»

A cosa è dovuta questa effervescenza?

«Al fondo ci vedo un’aspirazione normativa. Si vuol sapere l’uso corretto di una forma. Poi il linguista risponde in termini storici, problematici. Generando spesso delusione».

Chissà quante volte le avranno chiesto un parere sul declino del congiuntivo.

«Lì vado sul sicuro. Il congiuntivo non è affatto morto. Un mio collega, Giuseppe Antonelli, ha adottato l’espressione "temperatura percepita". Sembra che faccia un freddo terribile e invece il termometro non va sotto lo zero. Sembra che il congiuntivo stia sparendo, ma tutte le indagini, persino quelle sulla lingua parlata, attestano, per esempio, che dopo il verbo spero il congiuntivo viene adoperato dalla quasi totalità del campione: spero che tu venga, spero che tu stia bene».

Da qui si può dedurre che l’uso dell’italiano non sia tanto sciatto quanto si dice?

«Distinguerei fra lingua parlata e lingua scritta. La prima circola ormai diffusamente. Non abbiamo mai avuto nella storia d’Italia tanti italofoni. E per ottenere questo risultato conviene pagare il prezzo di una certa semplificazione nelle strutture grammaticali. Ma tenga conto che il buon parlante non è colui che parla come un libro, ma colui che sa alternare, a seconda delle circostanze, una lingua ricca a una lingua semplificata».

E la lingua scritta?

«Il discorso è complesso. Non esiste più una lingua della letteratura, ed è la prima volta nella nostra storia. Gli scrittori tutto si propongono fuorché di essere modello. Ora occupano i diversi livelli della stratificazione linguistica e si riferiscono prevalentemente al parlato. La terza parola che compare in Come Dio comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti che ha vinto lo Strega, è "cazzo". È invece migliorata rispetto al passato la "lingua pubblica", la lingua della burocrazia. Le istruzioni di un medicinale, poi, sono generalmente più leggibili. Una regressione si avverte, viceversa, per la lingua scritta della scuola».

Cosa non va?

«Intanto la scrittura non è più uno dei fulcri della scuola. E poi si è allentato quel controllo che invece sarebbe necessario».

Torniamo alla matita blu?

«Sono venute meno le sanzioni. Prenda una questione apparentemente marginale: sta sparendo nella scrittura l’uso di andare a capo. I compiti in classe sono dei blocchi compatti, senza scansione. Viceversa si assiste a un recupero del passato remoto, fortemente inculcato in nome di criteri grammaticali ultratradizionali».

E per quanto riguarda la competenza linguistica, la comprensione delle parole?

«Tullio De Mauro insiste giustamente sui dati allarmanti dell’analfabetismo di ritorno: un quaranta per cento di persone in Italia fa fatica a cavarsela anche con frasi elementari. L’esperienza mi dice che molti adolescenti scolarizzati hanno problemi con dirimere, evincere, faceto, arguto. Un’attesa dubbiosa, poi, li coglie di fronte all’alternativa: legislazione o legislatura?».

La situazione peggiora?

«Se facciamo un raffronto con vent’anni fa vediamo segnali preoccupanti. Non poter capire il contenuto di un editoriale su un quotidiano impedisce di avere una visione ampia del mondo».

Qualcuno darebbe la colpa alla lingua sincopata degli sms.

«E farebbe una sciocchezza. Gli sms abituano a scrivere molto e a fare i conti con lo spazio».

Quanto resiste l’italiano ai forestierismi?

«Il francese o lo spagnolo importano meno termini stranieri. Ma questo dipende dalla storia linguistica nostra e di quei paesi. Andando nel terreno minato dell’informatica, gli spagnoli usano ratón invece di mouse. Ma in fondo in Italia continuiamo a dire memoria o allegato. Il forestierismo è come il neologismo: se occupa uno spazio vuoto resiste, altrimenti va in disuso».

Altrove si praticano interventi politici sulle lingue. In Germania è stata semplificata l’ortografia. Da noi è possibile?

«Una politica per la lingua deve tendere ad alimentare la competenza linguistica. Altra cosa è mirare a una certa igiene. Negli anni Cinquanta il linguista Arrigo Castellani scrisse al Corriere della sera invitandoli a usare sempre sopralluogo con due "l". Oggi farei una battaglia per sé stesso, che bisogna scrivere con l’accento, a differenza di quanto si prescrive anche a scuola. L’accento l’hanno sempre usato grandi firme come Oriana Fallaci o Pietro Citati. Che io sappia fra i giornali lo adotta sistematicamente solo Famiglia cristiana. Non farei una battaglia, perché non ne vale la pena, ma un qualche impegno lo metterei per imporre l’accento sui nomi propri sdruccioli. Altrimenti sbaglieremmo sempre quando dovessimo citare Àlice, un piccolo paese in Piemonte, oppure Àtena in Campania».

Anch’io, come Pierluigi Cervellati, sono molto deluso di ciò che sta avvenendo a Venezia, e in particolare nella città storica. Ma le ragioni della mia delusione sono diverse da quelle di Cervellati. Non rimpiango cioè il cosiddetto Piano Benevolo, ma la distruzione che con tale piano, e con la politica urbanistica di cui è l’espressione, si è fatta del precedente piano per la città storica. Distruzione e politica della quale è stato massimo artefice l’assessore Roberto D’Agostino, con cui hanno collaborato come consulenti Leonardo Benevolo e Pierluigi Cervellati.

Condivido pienamente la denuncia di Cervellati. Anch’io critico che si sia abbandonata “la pianificazione per il marketing”. Anch’io condanno la “proliferazione delle camere a ore, locande Bed&Breakfast, snack bar, paninerie e pizzerie” e quel che segue. E però…

Però, come risulta limpidamente da numerosi scritti di Luigi Scano (oggi ospitati in un’apposita cartella nel sito eddyburg.it, da tutti consultabile) una parte consistente dei danni al patrimonio storico della città, che oggi tutti lamentano, è stato causato proprio dall’operazione compiuta con il cosiddetto Piano Benevolo: cioè, con variante di PRG per la città antica, adottato dal comune nel 1996. La base materiale e formale di quel piano è stata costituita dal lavoro impostato e iniziato nel 1982 dalla giunta di sinistra (sindaco Mario Rigo, assessore Edoardo Salzano), interrotto nel 1985 (sindaci Nereo Laroni e poi Costante Degan), ripreso nel 1987 (sindaco Antonio Casellati, assessore Stefano Boato), concluso e reso pubblico nel 1990, e adottato nel 1992 (sindaco Ugo Bergamo, assessore Vittorio Salvagno).

Ho seguito il piano come diretto responsabile nella prima fase, poi come collaboratore esterno negli anni in cui, assessori Boato prima e Salvagno poi, gli uffici diretti da Edgarda Feletti, con la costante collaborazione di Scano, lo conclusero e portarono all’adozione. Come cittadino veneziano, partecipe delle vicende della sua città e direttore di eddyburg.it ho continuato a seguirne le vicende anche negli anni successivi: quello della sua utilizzazione e demolizione, di cui Scano ha puntualmente documentato e raccontato i passaggi.

La Giunta eletta nel 1993 (sindaco Massimo Cacciari), vittima della ventata di neoliberismo che in quegli anni soffiava impetuoso dalle Alpi al Lilibeo, iniziò subito a criticare (vorrei dire a demonizzare, perché nessuna argomentazione razionale fu proposta) il piano del 1992. Colpa del piano era quella di “imbalsamare la città”: la città “non è un monumento”, bisogna sciogliere i “lacci e laccioli che ostacolano l’attività economica”. Mai si è riusciti a dimostrare in che cosa quel piano ostacolasse le attività economiche coerenti con le caratteristiche strutturali e con la storia della città: dalle attività artigianali e quelle negate alla nautica, dalla ricerca e dalle produzioni immateriali alle attività legate al restauro e alla messa in valore dell’enorme patrimonio storico e culturale. Così, per deregolamentare e lasciare le mani libere a qualunque possibile affare sulla città, a qualunque possibile sfruttamento della sua capacità di richiamo nei confronti di qualsiasi operatore economico, le tavole originali del piano costruito nel decennio precedente furono riciclate sostituendone le bandelle e correggendone le legende, le norme furono emendate.

La direzione lungo la quale ci si mosse per adattare il piano alla nuova ideologia (laissez faire, laissez aller) fu perciò una soltanto: eliminare tutte quelle norme che avrebbero consentito di controllare, con un rigore commisurato alla forza delle pressioni sul mercato immobiliare, le destinazioni d’uso, tutelando in particolare la permanenza della “residenza ordinaria” in tutte le numerosissime unità edilizia la cui tipologia le destinava a questa utilizzazione, e promuovendo le attività economiche coerenti con la città. Ed è utile forse ricordare che tra i primi atti della Giunta che distrusse il piano del 1992 ci fu la revoca della deliberazione con la quale la Giunta precedente aveva recepito la Legge Mammì sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici. E che da quella medesima Giunta nacque la proposta di una metropolitana sublagunare da Tessera a Murano e all’Arsenale, utile solo ad aumentare l’afflusso del turismo “mordi e fuggi”: una proposta ancora oggi sul tappeto, contro la quale mi piacerebbe che Pierluigi Cervellati si schierasse con determinazione.

Qui l'articolo di Pierluigi Cervellati

ROMA Le ecodomeniche vanno bene come «spot a fini educativi, ma nella sostanza servono a poco», afferma l'urbanista Edoardo Salzano. Ritornare alla pianificazione delle città, ripensare il trasporto collettivo, rottamare i vecchi bus. Investire risorse, economiche, ma soprattutto politiche. Sono queste le vie da battere per dare soluzione ai problemi del traffico e dell'inquinamento. «D'Alema deve scendere in campo, non può lasciare la partita a Willer Bordon o a Edo Ronchi», cioè al Lavori pubblici o all'Ambiente. «Quanto ha investito, politicamente, l'ex premier Prodi nella rottamazione delle auto? Moltissimo. Ora tocca ai trasporti pubblici, è tempo di iniziare».

Tutti a piedi entusiasticamente. I cittadini manifestano in massa le attese per città più vivibili. Ritiene che queste iniziative servano?

«Vanno bene dal punto di vista strettamente propagandistico, educativo. Sono spot a fin di bene, pubblicità progresso per far capire che il problema c'è e va risolto con modi drastici. Però nella sostanza servono a poco».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Intanto le città dovrebbero essere pianificate, bisognerebbe ripristinare la vecchia sana pianificazione urbanistica per cui si decide dove mettere le cose, dove dislocare le funzioni che attirano traffico, come mescolare tra loro le diverse funzioni della città e non separarle, e come organizzare un sistema efficiente di trasporti collettivi, pubblici e privati che siano. Ecco credo che si dovrebbe cominciare da qui. A Roma, per esempio, si era capito mezzo secolo fa, con lo Sdo (Sistema direzionale orientale) che aveva proprio questo significato, spostare i ministeri, i grandi attrattori di traffico in una zona dove traffico può essere ancora organizzato come un sistema della mobilità - strada più metropolitana - quindi liberare il centro storico. Ma lo Sdo è stato abbandonato, hanno vinto le lobby».

Sta dicendo che non sipianifica più?

«Da vent'anni nella maggior parte delle città e da parte della maggioranza delle forze politiche la pianificazione urbanistica è stata dimenticata. Sono stati privilegiati gli accordi con gli attori più potenti, la contrattazione caso per caso, i condoni, la deroga alla pianificazione invece che il suo rigoroso rispetto».

È un’analisi severa…

«Sì, sono severo. Si deve riprendere a pianificare seriamente, non con le chiacchiere, non promettendo cure del ferro e poi facendo gli accordi con le Ferrovie dello Stato per intasare ulteriormente la prima periferia come si è fatto a Roma. E questa è una vignetta .... ».

Ilministro all'Ambiente Ronchi afferma che ormai le ecodomeniche sono nel Dna di cittadini e rilancia: bisogna estendere le aree pedonalizzate. Può essere questa una valida misura per l'immediato visto che la pianificazione ha tempilunghi?

«A Napoli per esempio si è dimostrato che se si pedonalizza i problemi dei traffico si risolvono, non si aggravano, e non solo nelle zone pedonalizzate. Lì si è intervenuti in piazza Plebiscito che è il luogo di più intenso passaggio del traffico e adesso hanno pedonalizzato anche via Toledo. Certo, bisogna avere la capacità di resistere alle proteste dei commercianti che sono miopi: in Germania i commercianti lottano per avere le aree pedonali, in Italia lottano per non averle. È un indicatore del nostro grave ritardo, perciò c'è bisogno si un'azione di educazione».

Il suo appello a fare di più ha un destinatario preciso?

«D'Alema, sicuramente, la presidenza del Consiglio dei ministri. Mi dispiace dargli un'altra responsabilità, ma è sua, non può affidarla a Willer Bordon (titolare dei Lavori pubblici, ndr) o a Edo Ronchi o a qualche altro rninistro. Si devono investire risorse, in primo luogo risorse politiche. Bisogna far capire che si sta facendo sul serio. E bisogna cominciare la rottamazione dei trasporti pubblici, dare soldi ai Comuni perché buttino via i vecchi sistemi di trasporto e ne facciano di efficienti. Quanto ha investito, politicamente, nella rottamazione delle auto l'ex premier Prodi? Moltissimo, è servito all’economia italiana, è servito alla Fiat ecc. Ora tocca a questo altro fronte. Guai a lasciarlo a Edo Ronchi».

Venezia è l'unica città d'Italia dove i mezzi di trasporto collettivi (qui si chiamano vaporetti) arrivano puntuali, al minuto. Dipende dal fatto che nei canali non ci sono gli ingorghi che caratterizzano le altre città. Venezia è l'unica città del mondo in cui tutto il centro è pedonale. E' l'unica "città senza automobili": realizza cioè l'obiettivo che un recentissimo rapporto della CEE propone a tutte le città europee.

L'antichissima Venezia, la città storica meglio conservata del mondo (nonostante i mille tentativi di renderla uguale alle altre città distrutte dal Novecento), è dunque una città modernissima: è anzi l'emblema, il modello, l'annuncio di un futuro possibile. L'aveva capito il grande architetto Le Corbusier, quando ha detto che a Venezia si era attuata da secoli la grande innovazione che bisognava sforzarsi d'introdurre, con l'urbanistica moderna, in tutte le città del futuro: la separazione del traffico pedonale (nelle calli) dal traffico meccanico (nei canali).

Venezia ha mille problemi. Aver trascurato per decenni la manutenzione della laguna, averne sottratto un terzo al libero flusso delle maree, aver scavato profonde autostrade marine per far approdare le petroliere oceaniche ha reso più grave e rischioso il fenomeno antico delle "acque alte". Il richiamo esercitato dalla città in tutto il mondo, la dimensione di massa assunta dal consumo, l'incapacità di sconfiggere il modello "mordi e fuggi" di un turismo sempre più vorace, distratto e devastatore, tutto ciò ha già prodotto una paurosa mutazione della struttura sociale della città, e un pesante logoramento delle sue stesse strutture fisiche.

Tra i mali di Venezia, non ultimo è quello di avere una classe dirigente, e una rappresentanza istituzionale, divenute sempre più provinciali e grette. Sempre più inconsapevoli della modernità implicita nel modello urbano storico di Venezia (un passato miracolosamente conservato che suggerisce un futuro possibile per tutto il mondo), e sempre più desiderose di adeguare la città agli stereotipi di una modernità orecchiata e fasulla: vuoi per miope interesse affaristico, vuoi per subordinazione culturale. La proposta di tenere a Venezia l'Expo del 2000 è stata la penultima espressione di questo clima. L'ultima, di cui in questi giorni si discute, è quella di realizzare a Venezia una "metropolitana sublagunare".

Secondo il progetto presentato dal sindaco (il d.c. Bergamo, sostenuto da una giunta quadripartita) la metropolitana dovrebbe, dall'area ferroviaria, immergersi nella laguna. Seguendo il percorso dei canali, dovrebbe toccare la Giudecca, le Zattere, l'isola di S,Giorgio, San Marco e la Riva degli Schiavoni, l'Arsenale, il Lido. In una fase successiva, attraversando il Ponte della Libertà, dovrebbe collegare Venezia a Mestre e alle altre città della Terraferma.

A chi dovrebbe servire questa mirabilia tecnologica? E a che cosa? Forse a rendere più rapide le comunicazioni con Mestre dei 10 mila abitanti del Lido? O a risparmiare qualche manciata di minuti nelle comunicazioni tra il quartiere residenziale di S.Elena e gli uffici attorno a Rialto? E' difficile immaginare che per raggiungere questi obiettivi qualcuno pensi di spendere i 768 miliardi oggi previsti (e generosamente promessi dal ministro dei trasporti uscente, il veneto Bernini).

Una cosa è certa, e l'hanno affermata con molta chiarezza sia Cesare De Piccoli, eurodeputato e consigliere comunale del Pds, sia Gianfranco Bettin, esponente dei Verdi e autore d'un bellissimo libro su Venezia. La proposta della metropolitana è un ulteriore tentativo di omologare Venezia ai canoni di un modernismo ormai in crisi in tutto il mondo. E' il colpo di coda dei fautori di quella stessa concezione, distruttrice della irripetibile singolarità di Venezia, che aveva issato la bandiera dell'Expo.

Come per l'Expo, così per la metropolitana ci si propone di "modernizzare" e "vitalizzare" Venezia adoperando strumenti idonei ad aggravare i mali di cui soffre. E infatti, perché sono state inventate le metropolitane, e dove funzionano? Sono state inventate per fornire una risposta di massa a una domanda di massa di spostamenti, e funzionano nelle aree dove una simile domanda esiste. Ebbene, per Venezia (come per altri centri storici) non gareggiamo tutti a lamentare, deprecare, denunciare i danni provocati dal turismo di massa?.Non è per questo che, in tutto il mondo, c'è stata una sollevazione che, in extremis, ha impedito l'Expo?

Prima ancora di analizzare, verificare, valutare tecnicamente i modi, le tecnologie, le condizioni, della metropolitana a Venezia, occorre giudicarla per quello che è. Ed essa è certamente una proposta volta a indurre nella città una poderosa espansione di quei flussi di visita generici, non programmati né programmabili (insomma, il turismo "mordi e fuggi") che sono l'esatto opposto dell'intelligente amore, della consapevole conoscenza, dell'attento e rispettoso godimento di un ambiente ricco di valori e d'insegnamenti che dovrebbero caratterizzare un turismo degno di Venezia.

E' una proposta omogenea al turismo così com'è oggi. Ed è allora anche contraddittoria con uno sviluppo economico "sostenibile": capace cioè di rinunciare a divorare il capitale del futuro per guadagnare oggi un pugno di lire. Un simile sviluppo richiederebbe che si sapesse interrompere oggi il proliferare del turismo di massa come condizione per poter attrarre attività economiche "avanzate". E richiederebbe che si fosse capaci di investire (intelligenza, ricerca, lavoro, capitali) per sperimentare modi di trasporto modernamente capaci di utilizzare le infinite vie d'acqua, che di Venezia sono una ricchezza.

Si vincerà a Venezia, questa volta, la battaglia per salvare Venezia? Oppure bisognerà ancora una volta mobilitare uno schieramento nazionale e internazionale? La città sta discutendo. La decisione dovrà essere presa il 21 maggio, data entro la quale si dovrà trasmettere a Roma la domanda di finanziamento.

Le cause della corruzione politica sono molte. Alcune affondano nella natura dell'uomo, altre nella storia dei nostri anni. E' a queste ultime che deve rivolgersi la riflessione politi­ca, perché é su di esse che possiamo agire per rimuoverle ed eliminare così, o almeno sen­sibilmente ridurre, l'arbitrio, l'ingiustizia, lo spreco, la distruzione di valori essenziali per la convivenza civile che la corruzione politica determina.

Una causa rilevante l'ha individuata Giuliano Amato, nel suo programma di governo, là dove ha testualmente ripreso una frase della proposta politica presentata da Achille Oc­chetto al Presidente della Repubblica [1]. Il Primo ministro (e il Segretario del Pds) hanno detto che é necessario un impegno del Governo per la riforma delle norme che riguardano "regime giuridico dei suoli e indennità di esproprio, per consentire alle amministrazioni lo­cali di superare definitivamente la pratica dell'urbanistica contrattata".

E' la prima volta, dopo decenni, che il capo del Governo, su sollecitazione del leader del maggior partito d'opposizione, s'impegna ad assegnare priorità alla riforma delle norme per il governo del territorio. Ed é la prima volta che il termine "urbanistica contrattata" entra nel linguaggio politico ai livelli più rappresentativi, e che la "pratica" che quel termine esprime viene additata come qualcosa da contrastare, o almeno "superare".Era necessario un trauma per giungere a tanto: il trauma determinato dal fatto che non solo faccendieri e palazzinari, ma anche costruttori seri, presidenti e amministratori delegati di prestigiose società, e soprattutto assessori, sindaci, dirigenti politici influenti, deputati, e perfino po­tenti ministri ed ex ministri, sono stati acchiappati, da un pugno di magistrati coraggiosi, nella rete del codice penale.

Era necessario, insomma, che esplodesse "Tangentopoli". Ma che c'entra con Tangen­topoli l'"urbanistica contrattata"? Domandiamoci innanzitutto che cosa questa espressione significa.

Che cos'è l'urbanistica contrattata

L'"urbanistica contrattata" é la sostituzione, a un sistemadiregole valide ergaomnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazionediretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al siste­ma di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità.

Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del terri­torio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando in­somma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vo­gliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.

Ci fu, nella storia della Repubblica italiana, un altro periodo in cui la subordinazione delle scelte urbanistiche agli interessi privati apparve come uno scandalo. Fu negli anni in cui le scelte di politica economica e sociale compiute per la ricostruzione postbellica (lasciare le briglie sciolte sul collo dell'edilizia privata) provocarono lo sfrenato divampare della speculazione fondiaria ed edilizia. Per ricordare quei tempi, basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60 entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo memorabile film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dall' Espresso e dagli "Amici del Mondo" e indagato da Antonio Cederna, da Italo Insolera e da Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.

Non é forse allora l'urbanistica contrattata qualcosa di simile a quello che caratterizzò quegli anni? A prima vista, potrebbe sembrare. L'urbanistica contrattata può insomma ap­parire come una forma semplicemente ammodernata della vecchia, tradizionale specula­zione fondiaria. (Così come, del resto, l'intreccio tra politica e affari affiorato a partire dalle iniziative del giudice Di Pietro sembra ad alcuni solo l'ennesima manifestazione della millenaria vicenda degli amministratori pubblici che si lasciano corrompere). Ciò che vorrei sostenere invece é che l'urbanistica contrattata é qualcosa non solo di nuovo e diverso ri­spetto alla vecchia e nota speculazione, ma é qualcosa di infinitamente più grave, perché più penetranti e pervasivi sono i suoi effetti e le distorsioni che induce (che ha indotto) sull'intero ordinamento delle istituzioni e della società.

Per convincersene, basta pensare sulla differenza tra le reazioni sociali all'una e all'altra forma (quella di ieri e quella di oggi) della subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. Trenta e quarant'anni fa la speculazione fondiaria ed edilizia appariva immediata­mente come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Oggi, l'urbanistica contrattata é invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei compor­tamenti: c'é da credere che il termine, se non fosse esplosa Tangentopoli, sarebbe compar­so nelle prossime edizioni dei manuali di tecnica urbanistica o di diritto amministrativo. Ie­ri, insomma, si trattava di violazioni del sistema di regole dato; oggi, della sostituzione, al sistema di regole date, di un nuovo e perverso controsistema di regole. Ieri, erano infra­zioni e violazioni puntuali al'organizzazione istituzionale dei poteri; oggi, é la costruzione di un contropotere.

Ma la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno esser compresi meglio ragionando sui suoi meccanismi: sugli "strumenti urbani­stici" di Tangentopoli.

Dalle regole alle regolette

L'urbanistica contrattata é in primo luogo trionfo della discrezionalità. Perché una prassi discrezionale possa affermarsi, é necessario che il sistema di regole cui essa si sostituisce venga preliminarmente screditato; il tentativo (ahinoi largamente riuscito) di screditare la pianificazione urbanistica e, più in generale, le regole del governo del territorio, é infatti il filo rosso che percorre gli anni dell'urbanistica contrattata.

Ma poiché la pubblica amministrazione non può rinunciare a ogni regola, non può ridursi a mera discrezionalità, ecco che, accanto alla demolizione delle regole preesistenti, é poi necessario foggiarsi qualche nuova regoletta: qualche istituto o norma che possa coprire la discrezionalità, darle forma e apparenza giuridica. Le regolette della deroga per pubblica utilità, e dell'estensione oltre ogni limite della concessione di opere, sono stati gli strumenti che hanno accompagnato l'urbanistica contrattata, e con essa hanno costruito il percorso che ha condotto a Tangentopoli.

Si cominciò con una legge del 1978, approvata tra Capodanno e la Befana, quando i parlamentari erano ancora impegnati nella digestione delle feste. Una leggina transitoria (doveva durare solo tre anni, ma fu prorogata silenziosamente di triennio in triennio fino al 1987, e poi resa permanente) consentì che le opere pubbliche fossero eseguite anche se in contrasto con gli strumenti urbanistici. Per poter derogare al piano regolatore e costruire là dove esso non lo consentiva, o realizzare, per esempio, un parcheggio o un ospedale là dove erano invece previsti un parco pubblico o una scuola, bastava che il relativo progetto fosse approvato dal Consiglio comunale [2].

Pochi anni dopo, nel 1980 e nel 1982, due leggi finalizzate alla realizzazione di edilizia abitativa pubblica cominciarono a introdurre la concessione in un senso che aveva poco a che fare con l'originario significato di questo istituto [3]. Fino ad allora, la concessione era stata utilizzata per la realizzazione di opere che costituivano un vero e proprio servizio pubblico o di pubblico interesse, del quale era necessaria una gestione tecnica (per farle funzionare e mantenerle in efficienza) ed economica (per rientrare nelle spese che era co­stata la loro realizzazione). Ferrovie e autostrade sono stati gli esempi classici della con­cessione in Italia. Nell'uno e nell'altro caso, affidarle in concessione a imprese private do­veva significare mobilitare, per la loro realizzazione, risorse del mercato finanziario priva­to, significava consentire alle imprese realizzatrici di rientrare nelle spese sostenute inca­merando le entrate connesse alla gestione del servizio (i biglietti dei treni e i pedaggi au­tostradali), e significava infine garantire alla pubblica amministrazione che la realizzazione tecnica delle opere fosse corretta, poiché era alle stesse imprese realizzatrici che spettava l'onere della manutenzione. Del resto, era nelle mani del pubblico che rimanevano le deci­sioni relative all'impostazione (politica, tecnica, amministrativa) dell'opera, poiché era ad esso che restavano affidate le scelte d'impostazione, fino alla redazione del progetto di massima delle opere.

E' evidente che utilizzare l'istituto della concessione, come con le leggi ora citate si é iniziato a fare, per la realizzazione di alloggi di proprietà pubblica, gestiti dai comuni o dagli Istituti per le case popolari o dagli altri soggetti previsti dalla legislazione in materia ha costituito l'inizio di una distorsione di uno strumento di per sé non perverso. La distor­sione si é accresciuta poi quando si é esteso (come é avvenuto nel 1987 [4]) l'impiego della concessione a ogni opera comunque di competenza pubblica, quando si sono affidati e ai concessionari anche le competenze di redazione degli studi preliminari e della progetta­zione di massima (e cioè la determinazione della qualità del prodotto), e quando infine si sono affidate al concessionario le competenze della direzione dei lavori.

Il massimo della perversione si é peraltro raggiunto là dove ai concessionari si é di fatto assegnato addirittura il compito di procacciare i finanziamenti per la realizzazione delle opere. E' quello che succede, senza sollevare scandalo eccessivo, nel Mezzogiorno, pro­prio ad opera dell'azione statale.

Con la legge di riordino dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno [5] si apre infatti la strada "all'iniziativa progettuale e programmatoria di tecnostrutture aziendali e professio­nali che si sostituiscono, di fatto, alle istituzioni elettive, nel quadro di una interpretazione lottizzatoria dei rapporti tra le forze politiche e la distribuzione ed utilizzazione delle risor­se finanziarie" [6]. In definitiva, "sono così le aziende a redigere i progetti sui quali cerche­ranno esse stesse i 'canali' giusti per ottenere il finanziamento, in cambio dell'affidamento dell'esecuzione e, talvolta, della gestione dell'opera"[7]. E assai più della qualità delle opere, della loro utilità sociale, della loro priorità, contano le "entrature e le "relazioni.

Ma a quel punto, l'unico ruolo che rimane al potere politico, delegati tutti gli altri al potere economico, é quello di "rappresentare il popolo", cingendo magari la fascia trico­lore. Sicché in definitiva la tangente si configura come il compenso per il servizio (di rap­presentanza e copertura) reso: uno stipendio.

Condono dell'abusoe delegittimazione del piano

E' sempre agli inizi degli anni '80 che si colloca il più dispiegato contributo alla delegit­timazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico. Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formula­zioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una con­trollata sanatoria dell'abusivismo pregresso. Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Go­verno decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perse­guito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [8]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, co­me una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzio­nalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di si­nistra, aperta anche al futuro. Un incentivo all'abusivismo, insomma, anziché un deterrente [9].

Per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianifica­zione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella piani­ficazione. E' proprio questo ciò che avvenne, nel corso del primo quinquennio degli anni '80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnarono la discussione della legge. In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". L'urbanistica é un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo é nato e si é sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [10] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti é nato e si é rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.

Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato" [11]. Una parte consistente dell'opinione pubbli­ca era giunta ormai a considerare l'abusivismo come qualcosa che non é un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pa­gare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a sal­darvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abu­sivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. "Sicché, in definitiva, l'abusivismo appariva come qualcosa di assimilabile a una disobbedienza civile nei con­fronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si proponeva di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica" [12].

Nuovi poteri per la lobby del mattone

Non sono soltanto i lottizzatori e costruttori abusivi i nuovi soggetti che intervengono attivamente nei processi di urbanizzazione degli anni '80. Alle imprese tradizionali, agli abusivi, agli enti pubblici tendono ad affiancarsi, sostituendo questi ultimi, le grandi impre­se. Già ai tempi della discussione delle leggi per la casa, negli anni tra il '70 e il '78, queste avevano tentato di presentarsi alla ribalta come soggetti, "di alto profilo organizzativo e di elevata capacità economica", capaci di sostituire lo Stato nella realizzazione, progettazione e gestione non di singole opere, ma di interi "sistemi urbani". Il pretesto, e l'alibi, erano costituiti dal divario tra le emergenti necessità sociali e le condizioni della pubblica ammi­nistrazione. Quest'ultima, si diceva, richiede per il suo adeguamento tempi non compatibili con l'urgenza di provvedere (alle case, alle autostrade, ai tribunali, alle poste ecc.ecc.). In attesa della sua riforma - dicevano allora i propugnatori dello "Stato in appalto" - , affi­diamo dunque alle grandi imprese i compiti di programmare, pianificare, progettare, co­struire, gestire.

Il nesso tra degrado della pubblica amministrazione (e in particolare dei suoi corpi tec­nici, a tutti i livelli) e delega di poteri pubblici alle grandi imprese meriterebbe una indagi­ne attenta. Certo é che, nella nostra storia recente, quel nesso si é rivelato un vero circolo vizioso: il degrado degli strumenti dell'azione pubblica costituiva l'alibi per la delega di competenze, quest'ultima deprimeva ulteriormente le strutture pubbliche accrescendo così la credibilità di nuove deleghe e così via, allontanando sempre più il funzionamento del si­stema dal modello costituzionale.

La linea dello "Stato in appalto" fu sconfitta negli anni '70, in Parlamento, da una pro­posta "istituzionalista", che correttamente attribuiva a una equilibrata composizione delle competenze dei diversi livelli istituzionali le funzioni di programmazione territoriale degli interventi nell'edilizia[13]. Ma le parziali riforme di quegli anni non furono accompagnate da un'azione politica coerente, né furono completate in alcuni aspetti essenziali del quadro ne­cessario per esercitare un efficace governo del territorio. E' anche per questo che, a metà degli anni'80, riemerge qualcosa che sembrava sepolto.

Nel marzo del 1987 che Luigi Lucchini, allora presidente della Confindustria, aprendo l'assemblea della sua organizzazione afferma che lo Stato deve rilanciare la spesa per opere pubbliche, smobilizzare "l'ingente patrimonio demaniale non più funzionale alle esigenze", agevolare l'afflusso del risparmio privato alle "grandi opere pubbliche" [14]. La stampa dell'epoca pone in relazione queste richieste del leader degli industriali con le iniziative che stavano avvenendo in quei mesi. Il processo di riorganizzazione delle grandi imprese non si limitava più alla formazione di episodici consorzi di imprese del settore. Si puntava più in alto: a organizzarsi per un poderoso rilancio degli investimenti pubblici, reso possibile dal risparmio conseguito con la crisi del petrolio, che avrebbe potuto compensare il venir me­no della spinta alle esportazioni.

Già al potente gruppo Italstat, ferreamente diretto da Ettore Barnabei (arrestato per lo scandalo dei "fondi neri" dell'Iri, e poi rilasciato per un'amnistia "confezionata apposta per lui" [15] ), si erano affiancati due poderosi consorzi: le Grandi opere (Rendo, Di Penta, Gam­bogi, Del Favero, Maltauro, Pizzarotti, Romagnoli, Segesta) e la Argo (Impresit, Astaldi, Cogefar, Girola, Federici, Recchi, Lodigiani, Vianini).

Accanto a questi, si costituisce l'Igi, l'Istituto per gli studi e la promozione delle grandi infrastrutture, presieduto da Giuseppe Guarino (poi più volte ministro). Nell'Igi ci si pro­pone di realizzare la saldatura organica tra le tre grandi componenti del mondo imprendi­toriale: le imprese private, quelle di capitale pubblico, quelle cooperative, rappresentate ciascuna da uno dei tre vicepresidenti. All'Istituto partecipano trentasei tra le maggiori imprese italiane. Interessante la dichiarata finalità sociale: "accelerare la realizzazione delle grandi infrastrutture, attuare un migliore e più attento uso del territorio, stimolare un in­tervento per il mezzogiorno, promuovere l'attuazione di un sistema delle concessioni che superi le attuali difficoltà delle procedure".

La stampa parla più volte di una nuova potente "lobby del mattone". Altri mettono in evidenza un aspetto preoccupante. Afferma la rivista dell'Istituto nazionale di urbanistica: "Una simile nuova potenza si pone direttamente al livello dei poteri centrali dello Stato: suoi interlocutori non sono le regioni e i comuni, ma direttamente il governo (e le segrete­rie dei partiti). Eppure esse si propongono di intervenire nelle scelte che determinano il futuro dell'assetto delle città e del territorio. E tra i suoi obiettivi non c'é solo la 'sparti­zione della torta', ma lo scavalcamento dei metodi e dei procedimenti della pianificazione e la sostituzione ad essi di un potere direttamente gestito dalle aziende" [16]

Il vento dell'emergenzanelle vele della deregulation

Già lo si era visto con i primi passi sulla via della "de-pianificazione": le vele dei distrut­tori dell'urbanistica si gonfiano col vento dell'emergenza. Negli anni '78-'82 era stata "l'emergenza casa", che aveva giustificato le prime deroghe delle leggi di quegli anni e aveva in qualche modo contribuito anche ad alimentare il più esasperato condonismo dell'abusivismo (lo slogan era: "che senso ha prevedere la distruzione di casette abusive se c'é una così forte carenza di case?"). Ma altre "emergenze" si susseguono, e quando non sono causate da calamità naturali e altri eventi imprevedibili, si inventano con italica fanta­sia. Terremoti, alluvioni, alghe, manifestazioni sportive, esposizioni, celebrazioni, esigenze di ordine pubblico: tutto fa brodo per gli sregolatori.

Tra le "emergenze inventate" va annoverata la calamità territoriale dei Mondiali di cal­cio. Dal maggio del 1984 si sapeva che la grande kermesse agonistica si sarebbe tenuta in Italia nel 1990, sei anni dopo. Tutto il tempo di provvedere, quindi: ma allora, non sarebbe stata un'emergenza! E infatti si dorme per tre anni. Ci si sveglia nel 1987, e si approva un decreto, dominato dall'urgenza [17]. Questo prevede, nella sostanza, due cose: soldi per opere d'ogni genere, e facoltà di derogare dalle procedure urbanistiche.

Lo strumento impiegato per derogare é la "conferenza". Una riunione di rappresentanti di tutti gli enti interessati, vuoi per competenza tecnica vuoi per obbligo di esprimere pa­reri o accertare conformità, esamina frettolosamente i progetti delle opere e li approva, an­che se sono in deroga agli strumenti urbanistici. Un rappresentante del comune presente a una riunione, in cui in mezza giornata si esaminano decine di progetti, col suo "si" o, molto più raramente, col suo "no", scavalca la discussione dl Consiglio comunale, la partecipa­zione dei quartieri, il parere della cittadinanza: senza alcuna pubblicità, decide per tutti su opere che, in molti casi, condizionano pesantemente il futuro delle città coinvolte [18].

Osserva Luigi Scano: "L'evento calcistico viene cupidamente visto come una nuova oc­casione per riproporre un vecchio e adusato gioco: prendere le mosse da una circostanza 'straordinaria' per attivare ingenti investimenti, totalmente o prevalentemente pubblici, es­senzialmente nel comparto delle opere edificatorie, assumendo l'urgenza e la ristrettezza dei tempi disponibili, l'assenza di coerenti e funzionali previsioni sedimentate negli stru­menti di pianificazione e di programmazione, e anche la farraginosità (presunta, e anche reale) delle ordinarie disposizioni di merito, le carenze dei sistemi decisionali politici e delle amministrazioni, come ragioni ('e che ragioni forti!', direbbe Leporello) per sospendere l'efficacia del maggior numero possibile di 'regole'" [19].

I Mondiali fanno rapidamente scuola. Le procedure derogatorie si allargano via via, con ogni legge o leggina che riguarda, direttamente o indirettamente, il governo del territorio. Tra gli esempi più significativi, la legge per le mucillaggini [20], i provvedimenti per le cele­brazioni di Cristoforo Colombo [21] e i nuovi provvedimenti speciali per la salvaguardia di Venezia. E' sulle vicende della città lagunare (uno dei bunker di Tangentopoli colpita dalla Magistratura) che é utile soffermarsi.

Una laguna di consorzi

Nel bene e nel male, Venezia é stata spesso un laboratorio di formule politiche e di istituzioni e procedimenti. Negli anni '70, con la legge scaturita dagli eventi calamitosi del 1966 [22], si cerca di sperimentare la pianificazione di "livello intermedio", il risanamento dell'edilizia storica senza espulsione di abitanti, lo "sportello unico" per l'approvazione dei progetti, l'alleanza programmatica tra Dc, Psi e Pci. Negli anni '80 si sperimentano due istituti, tra loro strettamente connessi nella recente esperienza italiana, tipici della nascente Tangentopoli: i consorzi di imprese e la concessione.

Il consorzio di imprese si é rivelato, in questi mesi di riflessioni giudiziarie, essere diven­tato lo strumento ideale per evitare gli "inconvenienti" (per le imprese) della concor­renza, per tenere con ciò stesso alti per la collettività i costi della realizzazione delle opere pubbliche, per aumentare infine (in virtù delle "sinergie", parola divenuta alla moda proprio in questi anni) la forza di pressione diretta a ottenere dallo Stato consistenti finanziamenti per i grandi progetti volta per volta decisi. La concessione, cui si é già accennato, é diven­tata lo strumento per la delega alle aziende private a capitale privato, cooperativo e pub­blico (la presenza delle tre componenti é stata sempre considerata necessaria per ottenere una copertura politica completa) della progettazione e realizzazione di grandi progetti di trasformazione territoriale. La connessione tra consorzi e concessione (realizzata mediante l'assegnazione ai consorzi della concessione di opere e/o di servizi) ha costituito infine lo strumento ideale per la simbiosi, in molti casi malavitosa, tra imprenditori, in molti casi corruttori, e politici, in molti casi concussori.

A Venezia le esperienze si sono snodate, in rapida successione, a partire dal 1984, ruo­tando attorno a tre personaggi di diverso (ma sempre notevole) spessore politico, tutti e tre inquisiti dalla Magistratura in relazione ai noti eventi: Gianni De Michelis, Carlo Ber­nini e Franco Cremonese. Leader indiscusso del Psi veneziano il primo e due volte mini­stro, prima alle Partecipazioni statali poi agli Esteri, attualmente vicesegretario del suo partito; leader della Dc veneta dopo Toni Bisaglia, presidente della Regione e poi ministro per i Trasporti il secondo; presidente della Regione dopo Bernini, infine, il terzo.

Tutto é cominciato, cronologicamente, con le modifiche alla legislazione speciale per Venezia apportate con una legge del 1984 [23]: nello stesso anno, quindi, del condono dell'abusivismo edilizio. La nuova legge affida a un consorzio di imprese, denominato Consorzio Venezia Nuova e costituito dal fior fiore delle imprese italiane di costruzioni e di ingegneria, gli studi, la progettazione e l'esecuzione delle opere di competenza dello Stato: opere altamente complesse, e altrettanto costose, che si ritengono necessarie per ripristinare la morfologia lagunare e regolare le maree [24].

Una successiva legge per Venezia [25] si pone l'obiettivo di affrontare in modo finalmente efficace il problema del disinquinamento della laguna, intervenendo organicamente sull'in­tero bacino scolante con le opere di competenza della Regione: naturalmente, affidando a un apposito consorzio i compiti di progettare ed eseguire le ingenti opere necessarie. Ma é, programmaticamente, un consorzio diverso dal primo, per la sola ragione che i patrons dorotei del Veneto non si fidano del colore politico prevalente attribuito, a ragione o a torto, al Consorzio Venezia Nuova. Il nuovo organismo viene costituito; senza troppa fantasia, viene denominato Consorzio Venezia Disinquinamento: un nome che entrerà, nella torrida estate del 1992, nelle cronache giudiziarie.

Due consorzi dunque, e due concessioni, in relazione alla stessa laguna: l'uno sul solo invaso lagunare, l'altro sull'intero bacino scolante. Come si può pensare però che disinqui­namento e riassetto morfologico della medesima laguna, affidati a due soggetti diversi, possano procedere senza un opportuno coordinamento? Ecco allora che, dopo lunghe e animate discussioni "politiche", interviene provvidenzialmente una ulteriore legge [26]. Que­sta dispone che, per coordinare tra loro i programmi e l'operato della longa manus del Ministero dei lavori pubblici (primo consorzio) con quella della Regione (secondo consor­zio). intervenga il Ministero dell'Ambiente. Con quale strumento? Lo spirito dei tempi lo impone. Naturalmente, lo strumento non può essere una struttura pubblica: dovrà essere anch'esso un consorzio, il terzo.

I giochi sembrerebbero finiti. Non é così. Tra le cose urgenti per Venezia c'é la neces­sità di riprendere il sistematico lavoro di manutenzione dei rii e canali interni, occlusi dal fango e dalle immondizie depositate sul fondo dopo un secolo d'incuria; contemporanea­mente, riprendendo anche qui un'antica tradizione abbandonata, si potranno risanare le murature di fondazione dei palazzi. La competenza é del Comune (i soldi, come sempre, sono del contribuente). Ma il Comune non compare alle spalle di nessuno dei tre consorzi fin qui costituiti. Ecco allora che ci si adopera per costituire un quarto consorzio, formato da un accorto dosaggio di partecipazioni incrociate dei componenti degli altri tre consorzi. Si formerebbe così un ideale quadrivio, nel quale far convergere sinergie, finanziamenti, appalti (e, se occorre, tangenti). Le iniziative della Magistratura hanno suggerito di so­spendere la formazione del terzo e del quarto soggetto.

Expo 2000: un esperimento?

Non sempre la costituzione di consorzi é promossa da una iniziativa legislativa, o co­munque da una (almeno apparente) promozione pubblica. A volte, la partenza é assoluta­mente privatistica, anche se, come vedremo, con singolari e discutibili intrecci tra pubblico e privato. A volte, sono le aziende che si organizzano, "inventano" un progetto su cui si propongono di attirare l'opinione pubblica e i "decisori" politici, per ottenere risorse da gestire. A volte, insomma, é l'offerta che si dà da fare per creare la domanda.

Anche qui, Venetia docet. Il caso più singolare é la vicenda della tentata (secondo altri, minacciata) Expo Del Terzo Millennio. Il sasso in piccionaia lo lanciò Gianni De Michelis, nel 1984, in un'intervista giornalistica. Sulla sua idea, e sulle prospettive che essa faceva balenare, si costituì un consorzio di imprese, autodefinitosi Venezia Expo. Lo componeva il solito pool di imprese, molte delle quali autorevoli, potenti, e alcune nella condizione del "privato vicino al pubblico" [27]. L'obiettivo era di sollecitare il Governo italiano a premere perché l'apposito Ufficio internazionale delle esposizioni (il Bie) decidesse di tenere a Ve­nezia la prestigiosa Esposizione universale nell'anno 2000: naturalmente candidandosi a gestire i consistenti flussi finanziari.

Il Governo, naturalmente, si impegnò, con le dichiarazioni e i conseguenti atti di due Presidenti del Consiglio, Craxi e Andreotti. La cosa sembrava fatta. Il gigantesco battage pubblicitario, e le sofisticate operazioni di cattura del consenso dell'opinione pubblica, sembravano essere lì lì per far assegnare all'Italia (e a Venezia) l'onere di organizzare la grande fiera e di realizzare, con una ingentissima spesa mai esattamente quantificata, le costose opere necessarie. La stampa di quei mesi informa che le ambasciate italiane, so­prattutto quelle nei paesi che ricevevano, o speravano di ricevere, assistenza dall'erario tramite la Farnesina, sono sollecitate ad adoperarsi per convincere i relativi governi a vota­re per la soluzione veneziana alla riunione del Bie che deve decidere tra le candidature concorrenti (Ministro per gli Affari esteri era all'epoca De Michelis).

Ma si era messa in moto, nel frattempo, la reazione di chi, temendo l'effetto perverso che una Expo a Venezia avrebbe provocato sul delicato tessuto fisico e sociale della città, contrastava l'iniziativa. Essa coinvolse la più qualificata opinione pubblica nazionale e in­ternazionale, e finì per determinare il pronunciamento sfavorevole del Parlamento europeo e di quello italiano. Il pallone si sgonfiò. Ma il Consorzio rimase in piedi, é ancora vivo in attesa di costruire nuove occasioni d'affari: quello dell'Expo é fallito solo per un soffio, non tanto da spegnere le speranze per il futuro. E comunque, la vicenda é servita per di­mostrare come le "sinergie" tra pubblico e privato, costruite spavaldamente fuori dalle re­gole dell'ufficialità (ma utilizzando senza pregiudizi le leve del potere) possono produrre, per le imprese, e per chi con esse si allea o strumentalmente le utilizza, interessanti pro­spettive di lavoro.

Le cautele della Cee

Concessioni, consorzi di imprese, delega di poteri, nuovi intrecci tra pubblico e privato che consentano di "sveltire", "snellire", "semplificare", "rendere più fluidi i percorsi", "realizzare fruttuose sinergie". Nella costruzione e nell'impiego dello strumentario dell'Ita­lia "moderna" ci sono indubbiamente motivazioni rispettabili (ancorché, nel merito, spesso mal poste e mal risolte). Ma c'é anche, e vorrei dire soprattutto, la formazione dell'am­biente più propizio all'intreccio malavitoso tra i pubblici poteri e le risorse collettive da una parte, e gli interessi privati di potenti soggetti economici e influenti soggetti politici dall'altra parte.

Del resto, per quanto riguarda i due attrezzi di cui ci siamo ora occupati (la concessione e i consorzi) la Comunità economica europea ha da tempo raccomandato di limitare e cir­condare di garanzie l'istituto della concessione, considerato suscettibile di provocare effetti perversi per l'interesse pubblico e per il corretto funzionamento del mercato. Puntare, da parte della pubblica amministrazione, sull'accordo preventivo tra imprese, tramite la for­mazione di consorzi che tendano a comprendere al loro interno tutti i potenziali concor­renti, indubbiamente consente di controllare meglio l'esito degli appalti. Non però nel senso di spuntare prezzi migliori, quali sarebbero quelli determinati da una "libera concor­renza", ma in quello di garantire meglio, ponendosi al riparo dalla concorrenza, che i prezzi siano tali da consentire il passaggio di mano di robuste tangenti.

Da questo punto di vista, la panoramica finora aperta su Tangentopoli ha rivelato dav­vero un inquietante intreccio di responsabilità, di colpe e di tradimenti. Da una parte, i concussori: i politici, in teoria (e nei rotondi discorsi pronunciati nelle cerimonie e sul vi­deo) gli esponenti dell'espressione democratica degli interessi generali, che tradiscono il loro mandato, e quindi la moralità del loro ruolo sociale, barattando l'interesse collettivo per una lucrosa sistemazione dei propri interessi economici e/o di potere. Dall'altro lato, i corruttori: gli imprenditori, in teoria (e nelle chiacchiere dei salotti come nei sussiegosi editoriali sui giornali a loto più vicini) i depositari e gli interpreti delle virtù del capitalismo (e occorre dire, in questi chiari di luna, della sua superiorità storica sul socialismo), che gettano via mercato e concorrenza per acquisire sicure rendite di posizione. A un bel con­nubio davvero era affidata la "modernizzazione" del paese!

Pubblico e privato

La distinzione dei ruoli tra pubblico e privato quale premessa per i rapporti economici tra i soggetti dell'una e dell'altra categoria, é indubbiamente una base indispensabile per il corretto funzionamento di una democrazia moderna. Più antica ancora é la consapevolezza della necessità della distinzione tra pubblico e privato nella gestione dell'urbanizzazione del territorio. Qui la subordinazione degli interessi economici privati agli interessi della città in quanto tale é riconosciuta, fin dai "secoli bui" del medioevo europeo, come la condizione perché la città cresca e si trasformi libera, bella e funzionale [28].

In un'epoca dominata dall'individualismo proprietario, quale é quella che caratterizza la lunga fase dell'egemonia capitalistico-borghese fino alle sue più recenti mutazioni ed espressioni, quella subordinazione ha avuto bisogno di specifici strumenti tecnici perché le regole dell'individualismo proprietario non prevalessero nella città: dunque, là dove ciò - se fosse avvenuto - avrebbe prodotto un insostenibile caos. Per imprimere, all'azione dei sin­goli proprietari e costruttori, una regola d'insieme volta agli interessi collettivi, si é inven­tato nella seconda metà del XIX secolo il piano regolatore; e nei primi decenni del XX se­colo si é compreso che era necessario accompagnare il piano con gli strumenti che rendano possibile una politica fondiaria non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria, e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare.

L'Italia é arrivata abbastanza tardi, rispetto agli altri paesi europei, a generalizzare la pianificazione urbanistica. Una buona legge fu quella approvata nel 1942, cinquant'anni fa, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni [29]. Essa però rimase inutilizzata per molti anni, finché gli scandali esplosi all'inizio degli anni '60, e le stesse esigenze di efficienza del si­stema produttivo, non indussero a generalizzarne l'applicazione [30]. Quando questo avven­ne, la Corte costituzionale, con una serie di sentenze pronunciate a partire dal 1968, fece emergere un nodo di fondo irrisolto: la contraddizione tra i "vincoli", e soprattutto quelli "di tipo espropriativo", necessariamente posti dalla pianificazione urbanistica alla utilizza­zione edilizia della proprietà privata, e i princìpi ordinatori del sistema giuridico italiano.

Sono passati quasi venticinque anni, e il nodo non é stato ancora sciolto [31]. La legittimi­tà dei vincoli urbanistici e delle indennità espropriative, e quindi della stessa pianificazione, sono messe in dubbio. E' chiaro che questo fornisce alibi consistenti a chi vuole "regolare" l'uso del territorio a partire non dagli interessi della collettività, ma da quelli dei proprie­tari.

Affrancare il profitto dalla rendita: una tendenza contraddetta

Nel corso degli anni '70 si era compiuto, in particolare a Roma, uno sforzo consistente per raggiungere un obiettivo di grandissimo interesse politico, economico, sociale: rompe­re la saldatura tra impresa edilizia e speculazione fondiaria, tra profitto e rendita. Ta­gliando faticosamente con una tradizione che vedeva, nel bilancio delle attività edilizie, prevalere massicciamente gli utili della speculazione su quelli dell'impresa produttiva con­sistenti gruppi di imprenditori avevano scelto di orientare la loro attività alla realizzazione di edifici sulle aree preventivamente espropriate dal Comune. Ciò era stato possibile utiliz­zando con intelligenza politica lo strumento costituito dalla legge 167/1962 e trovando una sinergia (questa volta virtuosa) tra la volontà dell'amministrazione di sinistra di realizzare alloggi senza pagare prezzi elevati alla rendita, e la disponibilità di alcune componenti dell'Associazione dei costruttori di ammodernare la categoria avviandola su una strada nettamente "imprenditoriale" [32].

A Roma, ma non soltanto a Roma: in tutte le zone del paese dove il governo del terri­torio adopera gli strumenti forniti dalle leggi urbanistiche degli anni '60 e '70 (la maggior parte dell'Italia centrale e settentrionale) si cominciano ad affermare realtà imprenditoriali "pulite", che operano (naturalmente senza rimetterci) nelle aree preventivamente espro­priate dai comuni, per interventi edilizi in cui i prezzi di vendita sono convenzionati con l'Amministrazione comunale: a carte scoperte.

La tendenza s'inverte nettamente nel decennio successivo. I piani della legge 167/1962 sono svuotati: prima c'era l'esproprio preventivo, adesso sono i proprietari i favoriti nell'edificazione. Avere il "vincolo" del piano 167 sul proprio terreno non é più una pena­lizzazione, é un premio. Sembrano frustrati i tentativi di affrancare il profitto dalla rendita: quest'ultima riprende il sopravvento. E le cronache urbanistiche degli anni '80 sono costel­late da progetti in cui l'iniziativa é assunta da grandi gruppi economici in cui il motore non é l'attività imprenditoriale, ma la "valorizzazione immobiliare".Ciò che interessa non é tanto realizzare, quanto "mettere in portafoglio" il valore di un'area che, da agricola, o in­dustriale (magari coperta da fabbriche obsolete) diventa edificabile per destinazioni ricche: prevale il terziario, privato e pubblico. E il Comune va a rimorchio, mette lo spolverino a decisioni già prese, copre e avalla affari altrui.

Succede dappertutto. Nelle città grandi e in quelle medie e piccole. Nei centri storici (come con la proposta Neo Napoli, sponsorizzata da Paolo Cirino Pomicino) e negli am­bienti naturali più delicati e pregevoli (come nella Baia di Sistiana, nel comune di Duino Aurisina). Nelle zone industriali dismesse (come il Lingotto a Torino, la Bicocca e l'Alfa-Portello a Milano, la Zanussi a Pordenone, l'Italsider a Napoli, la Fiat-Novoli a Firenze) e nelle zone esterne ai centri (come i numerosi tentativi nella periferia di Roma e in quella di Milano). Con le amministrazioni di destra, di centro, di centro sinistra, e anche con quelle di sinistra. Il caso tipico, quello che fa esplodere la questione dell'urbanistica contrattata per la dura reazione del nuovo segretario del Pci, é Firenze. Su di esso è opportuno ri­chiamare la memoria non tanto perché sia l'episodio più grave di urbanistica contrattata, ma per il significato emblematico che ha assunto, e per il possibile punto di svolta che ha rappresentato.

Il trauma di Firenze

A Firenze, nell'estate del 1984, vengono resi pubblici due progetti d'investimento im­mobiliare, l'uno della Fiat, nell'area di Novoli, l'altro della Fondiaria. La prima era già proprietaria dell'area, e voleva "valorizzarla". La Fondiaria aveva comprato in vista dell'operazione un vasto compendio di aree nella piana a nord-est della città, lungo una direttrice considerata strategica per la riorganizzazione dell'intera area metropolitana. L'insieme dei due progetti comportava la costruzione di 4,2 milioni di metri cubi, su 228 ettari, e un investimento valutato in 2 mila miliardi.

Il Comune aveva avviato la redazione del nuovo piano regolatore. Attendere la forma­zione di questo (affidato a due consulenti di grande prestigio e affidabilità, Giovanni Astengo e Giuseppe Campos Venuti) avrebbe permesso di compiere le scelte sulle aree interessate dall'operazione nel quadro, ed in funzione, delle scelte più complessive sulla città, finalizzando gli interventi nell'area nord-est a un progetto di riqualificazione ambien­tale, all'esigenza di decongestionare il centro storico, all'obiettivo di una più corretta loca­lizzazione metropolitana delle attrezzature urbane. E' quello che suggerisce, ad esempio, l'Istituto nazionale di urbanistica.

Ma le esigenze di "valorizzazione immobiliare" non possono attendere. Gli investitori fremono. Acquisiscono le necessarie comprensioni politiche e amministrative, e ottengono dal comune l'approvazione di una variante ad hoc al piano regolatore vigente. Questa viene adottata dal Consiglio comunale (a maggioranza di centro sinistra) nel marzo 1985. La maggioranza (di sinistra), che subentra dopo le elezioni amministrative conferma le deci­sioni. La variante prosegue il suo iter, tra le polemiche più aspre e la crescente opposizione di un fronte composito e ampio, indebolito dalla posizione defilata, ma favorevole alla va­riante Fiat-Fondiaria, del Pci.

Prima che la variante giunga alla sua conclusione, un colpo di scena. Nel giugno del 1989 il Segretario del Pci, Achille Occhetto, intima l'altolà. In una riunione del Comitato federale di Firenze, piena di tensione, giungono una telefonata e due messi del Segretario: i comunisti non possono ulteriormente avallare le scelte della Fondiaria e della Fiat per l'area nord-est, il cui destino deve essere tracciato da un vero piano regolatore generale.

Il partito, a Firenze e non solo a Firenze, é diviso. Anche chi non era convinto dell'operazione Fiat-Fondiaria esprime preoccupazione per il fatto che sia stata necessaria la "telefonata di un segretario di partito" per correggere scelte sbagliate. Il punto é che non si trattava solo di correggere le decisioni di una federazione o di una giunta. Si trattava an­che e soprattutto di indicare, con un gesto forte e chiaro, che l'andazzo seguito per oltre un decennio non era compatibile con il nuovo corso del Pci. Un trauma quindi, certamente, ma un trauma necessario: poiché bisognava superare un vuoto che per troppi anni aveva caratterizzato la politica del Pci nei confronti dell'urbanistica: nei confronti dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio.

Il "rito ambrosiano" negli anni '80

Un trauma come quello di Firenze non ci fu, in quegli anni, a Milano. E fu un peccato, perché proprio nella "capitale morale d'Italia" la prassi dell'urbanistica contrattata aveva preso più piede, ed era stata anzi teorizzata: proprio negli anni delle giunte di sinistra [33].

A Milano la tradizione era antica. Fin dal dopoguerra si praticava il "rito ambrosiano": una prassi, inventata ai tempi della maggioranza di centro, sembra dall'assessore democri­stiano Filippo Hazon, che "superava" le norme del piano regolatore vigente concedendo concessioni edilizie (allora si chiamavano ancora "licenze di costruzione") là dove non si sarebbe potuto, con l'ipocrita formula della "licenza in precario". Ma é all'inizio degli anni '80 che il "rito ambrosiano" entra nelle sua fase propulsiva. Vengono approvate decine di varianti puntuali, con le quali si autorizzano oltre 12 milioni di metri cubi di nuove strut­ture edilizie per il terziario: come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, e come se fosse del tutto indifferente la loro collocazione nella città: per di più, in una città trasformatasi in una agglomerazione caotica, destrutturata, invivibile e inefficiente.

Ma il rito ambrosiano non si ferma alle varianti. Come descrivono Barbacetto e Veltri, "in mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finan­ziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io ammini­stratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)" [34]: contropartite garantite da lettere private, tenute ac­curatamente segrete. Difficile credere che ci sia stato qualcuno così ingenuo da non pensa­re che, tra le contropartite, potevano essercene altre oltre alle case popolari e ai parchi! Il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle suc­cessive azioni della magistratura.

Il libro di Barbacetto e Veltri é uscito pochi giorni prima dell'esplosione innescata dal giudice Di Pietro, ed ha un singolare carattere profetico. Ma ancor più profetica appare oggi una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio, riportata nel libro. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto:" Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca" [35]. Così era, a Milano (e non solo).

Sebbene a Milano non ci sia stata nessuna telefonata dalle Botteghe oscure, il Pci (nel frattempo era divenuto Pds) uscì comunque dal gioco, con uno scontro aspro che si aprì quando due consiglieri comunali della lista Pci-Pds, Franco Bassanini e Paolo Hutter, deci­sero di opporsi a un provvedimento fatto su misura per gli interessi fondiari dell'Italstat, provocando la caduta della giunta di sinistra. Si trattava di un piano che riguardava tre aree limitrofe: una di proprietà della Fiera, l'altra del Comune e la terza (pari a oltre la metà del complesso) dell'Alfa, poi passata in mano all'Iri, da questa all'Italstat e da questa alla Sistemi urbani. In totale, 22 ettari Le esigenze di razionalizzazione della Fiera (un ente di diritto pubblico) erano il grimaldello "d'interesse pubblico" che si voleva utilizzare per rendere edificabile, con 400 mila metri cubi di terziario conditi da alberghi e da un centro congressi (raggiungibile solo in automobile!), l'area della Sistemi urbani.

Il piano era stato approvato dalla precedente amministrazione. I due consiglieri del Pds, i Verdi, e un vasto fronte di associazioni ambientalistiche e culturali, chiedevano che il piano fosse ridimensionato e finalizzato solo alle esigenze pubbliche. Un aspro scontro nel Pds portò al prevalere di questa posizione. Il piano fu bocciato in Consiglio comunale. Su questo si aprì la crisi, e il Pds uscì dalla maggioranza e, anche a Milano, dal sistema dell'urbanistica contrattata. Almeno, si spera.

Uscire da Tangentopoli

Così vasta si é rivelata Tangentopoli che uscirne non sembra facile. La società si é manifestata in preda a un'infezione così ramificata e coinvolgente che non basta intervenire su di un solo aspetto.

Non bastano le cure più evidenti, quali le nuove norme per gli appalti delle quali da tempo le organizzazioni più direttamente coinvolte nel processo edilizio (dai sindacati dei lavoratori all'associazione padronale) suggeriscono la necessità. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combat­tere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta sforzarsi di ripristi­nare la concorrenzialità tra le imprese, come la Cee invita a fare e come sembra stia facen­do il ministro per i Lavori pubblici.

Occorre anche altro. Non si tratta infatti solo di un problema di corruzione diffusa: si tratta di una distorsione pesante e consolidata delle basi del sistema dei poteri. Occorre allora, in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del go­verno del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò nei terribili anni '80 é stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.

Da dove cominciare, però? Dov'é il capo del filo di Arianna che può aiutarci a uscire da Tangentopoli?

"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che analizzava Tangento­poli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si é tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprat­tutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbat­timento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse" Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legi­slazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e pro­getti organici sul regime degli immobili" [36].

Serve la pianificazione

La soluzione giusta di un problema é in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'am­biente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi é stato artificial­mente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianifi­cazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e spero che il lettore che mi ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora é evidente il che fare.

Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo ge­nerale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e me­tropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli in­terventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Basta con le deleghe a strutture pri­vatistiche di compiti che sono propri dei poteri elettivi, e basta con le deroghe, le varianti e variantine a vantaggio di Tizio e di Sempronio: basta insomma con l'armamentario dell'"urbanistica contrattata". E basta con la distrazione e con il disinteresse dei politici, come se la pianificazione non fosse il compito e lo strumento indispensabile di una politica moderna, e fosse invece soltanto una ubbia "culturale" o una mansione meramente "professionale" di una qualche corporazione.

Occorre, insomma, una pianificazione efficace ma trasparente, flessibile ma capace di imprimere sempre alle trasformazioni del territorio la coerenza necessaria al governo di mutamenti rapidi in una realtà complessa. Una pianificazione che sappia ripristinare un adeguato sistema di garanzie: garanzie per i diversi livelli istituzionali coinvolti, garanzie per gli interessi economici presenti, ma soprattutto garanzie per i fruitori della città: quelli di oggi, e quelli di domani.

Occorre poi, in secondo luogo, che vada affrontata in modo rigoroso, e finalmente ri­solta, la questione del regime degli immobili, soprattutto nei suoi due punti cardini: quello dei valori economici e quello dei poteri.

Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà immobiliare (aree ed edifici), è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma de­ve compensare solo l'uso legittimo del bene. Tanto antico è questo principio che esso era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865, anche se l'affermazione di principio non é stata mai tradotta in norme e comportamenti con essa conseguenti. E anco­ra a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello ri­conosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità di espropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fisca­le, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.

Dal punto di vista dei poteri, ciò che soprattutto interessa è che il meccanismo di de­terminazione dei valori sia tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste cen­sure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.

Soltanto se questi due obiettivi (la rinascita della pianificazione e la riforma del regime degli immobili) saranno raggiunti si saranno poste le condizioni di fondo perché anche gli altri provvedimenti necessari possano trovare una dispiegata efficacia, e perché possa esse­re così prosciugato il terreno melmoso del disordine e della corruzione su cui sorge Tan­gentopoli. Senza illudersi con ciò di aver realizzato la città ideale o costruito la società perfetta, ma con la certezza di essere almeno più vicini all'obiettivo di rendere l'Italia un paese moderno e civile, al livello degli altri che appartengono all'Europa.

Venezia, H aprile aa[1] - Mi riferisco alle dichiarazioni programmatiche pronunciate dall'on. Giuliano Amato al Senato della Repubblica il 30 giugno 1992 e al documento illustrato dall'on. Achille Occhetto, a nome del Pds, al Presidente della Repubblica nell'incontro del 17 giugno 1992.

[2] - Legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Con questa legge l'urbanistica, nei comuni, passò di fatto dalle competenze degli assessorati all'urbanistica a quelli ai lavori pubblici. Le decisioni, anche formali, sul territorio non avvenivano infatti più mediante i piani (e le lunghe e ampie discussioni che questi provocavano), ma con un comma marginale introdotto nelle delibere di approvazione dei progetti di opere pubbli­che, di competenza appunto degli assessori ai lavori pubblici. Non a caso, negli anni '60 e '70 i partiti si contendevano gli assessorati all'urbanistica, mentre negli anni '80 di­vennero invece più ambiti quelli ai lavori pubblici.

[3] - Legge n.25 del 15 febbraio 1980 e legge n.94 del 25 marzo 1982.

[4] - Legge n.80 del 17 febbraio 1987, .

[5] - Legge n.64 del 1 marzo 1986.

[6] - Alessandro Dal Piaz, "La questione urbana nel Mezzogiorno", in: La città sostenibile, a cura di Edoardo Salzano, Edizione delle autonomie, Roma 1992, p.187.

[7] - Ibidem.

[8] - Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività ur­banistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.

[9] - Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La di­mensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del periodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1989; cfr.p.199).

[10] - Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denomi­nato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci.

[11] - Si veda, ad esempio, l'editoriale del n.80, marzo-aprile 1985, della rivista Ur­banistica informazioni.

[12] - Ibidem.

[13] - Mi riferisco soprattutto alla legge per la casa, n.865 del 22 ottobre 1971 e alle leggi del periodo 1977-78.

[14] - Si veda, ad esempio, Urbanistica informazioni, n.92, marzo-aprile 1987, p.2.

[15] - Come dichiarava, ad esempio, Franco Bassanini; si veda Panorama, 25 settem­bre 1988, p.58.

[16] - Ibidem.

[17] - Decreto-legge n.2 del 3 gennaio 1987, convertito in legge e integrato con succes­sivi provvedimenti del 1987, del 1988 e del 1989.

[18] - Alcuni esempi: la ristrutturazione della stazione ferroviaria di Firenze e del piaz­zale di S.Maria Novella, la grande circonvallazione a Cagliari, la tangenziale a Verona, tronchi di autostrade un pò dovunque, e poi dappertutto alberghi, centri congressi e, na­turalmente, stadi e parcheggi. Grandissima parte delle opere finanziate e "facilitate" per i Mondiali sono state completate soltanto dopo il suo svolgimento.

[19] - LuigiScano, "Anni ottanta e mondiali. Chiuso il cerchio della deregulation", in Urbanisticainformazioni, n.119, gennaio-febbraio 1990.

[20] - Legge n.426 del 30 dicembre 1989, Misure di sostegno per le attività economi­che nelle aree interessate dagli eccezionali fenomeni di eutrofizzazione verificatisi nel­l'anno 1989 nel mare Adriatico. Per ovviare alla sovralimentazione delle alghe si sono riempite le coste di piscine, acquasplash, ampliamenti di alberghi e così via. .

[21] - Legge n.205 del 29 maggio 1989. Anche le Colombiane sono servite soprattutto a finanziare strade, non solo a Genova, sede delle celebrazioni. Tra i casi più straordi­nari si ricordano la Dogana di Segrate, la tangenziale Cremona-Brescia, la complanare di Lucca, la tangenziale di Piacenza, la Torino-Frejus. Parafrasando il noto detto fran­cese, si potrebbe dire che "la politica delle opere pubbliche ha le sue ragioni che la ra­gione non comprende".

[22] - Legge n.171 del 16 aprile 1973.

[23] - Legge n.798 del 29 novembre 1984.

[24]

Ludovico Ariosto, nel presentare l'Ippogrifo (la mitica creatura con corpo di cavallo e ali d'uccello), così lo definisce:

"Volando, talor s'alza nelle stelle,

così quasi talor la terra rade".

Abbiamo cominciato questo convegno volando alto; con Toraldo di Francia ci siamo alzati nelle stelle. Abbiamo continuato a volare con Tiezzi e con Rullani. Adesso, nell'Ippogrifo costituiti dalla dialettica comunità dei relatori, tocca a me, tocca a un urbanista, portarvi giù: "così quasi talor la terra rade".

Ma usciamo dalla metafora, ed entriamo nell'urbanistica.

- L'urbanistica è una disciplina, e una prassi, che hanno sempre avuto a che fare con l'ambiente. Essa si occupa, quasi per definizione, dei rapporti della società con lo spazio, con il territorio: con l'ambiente dunque.

Non direi però che, in Italia, l'urbanistica abbia sempre considerato l'ambiente in modo corretto. Abbiamo esempi che testimoniano come gli urbanisti siano stati tra i primi nella concreta difesa delle qualità naturali e storiche del territorio: Giovanni Astengo e il piano di Assisi, Edoardo Detti e le colline di Firenze, Luigi Piccinato e le mura e gli orti di Siena, Armando Sarti e le colline di Bologna.

Ma abbiamo anche molti esempi di piani che hanno concorso allo sfascio del territorio. Abbiamo molti esempi di urbanisti che hanno attaccato il carro dove voleva il padrone, e hanno fornito strumenti alla speculazione che il loro statuto disciplinare avrebbe dovuto invece contrastare.

Ciò che più conta però è che gli stessi esempi positivi e d'avanguardia rivelano un'attenzione limitata ad alcuni aspetti soltanto dell'ambiente, e ad alcuni luoghi più ricchi di valenze culturali o estetiche. Talché, da qualche anno, la cultura urbanistica più avanzata ritiene che il modo in cui la pianificazione deve tener conto delle qualità dell'ambiente(e più in generale, delle esigenze sociali dell'ambientalismo e degli apporti culturali dell'ecologia) sia il punto cruciale da affrontare per rendere l'urbanistica adeguata a contribuire alla soluzione dei problemi odierni dell'assetto del territorio.

Sono state compiute, in questi ultimi anni, esperienze innovative e positive. Soprattutto quelle in attuazione della cosiddetta Legge Galasso: una legge che per la prima volta ha tentato di introdurre e generalizzare, nel nostro paese, la prassi di una "specifica considerazione", da parte degli strumenti di pianificazione, "dei valori paesaggistici e ambientali".

Le esperienze della pianificazione paesistica sono state positive sotto il profilo culturale e tecnico, molto meno sotto il profilo della convinzione politica e dell'efficacia amministrativa. Così. se la Regione Emilia-Romagna ha adempiuto con tempestività, e con una risposta di altissimo livello culturale, alla legge nazionale, e se con essa hanno marciato le Marche, la Liguria, l'Abruzzo, le altre sono quasi tutte ancora in cammino e qualcuna - come la stessa Regione Friuli-Venezia Giulia - si era addirittura chiamata fuori dall'obbligo di adempiere alla legge nazionale, finché la Corte Costituzionale non l'ha severamente richiamata alle sue responsabilità.

Si tratta, peraltro, di esperienze (come si dice nel nostro gergo) di "area vasta". Riguardano cioè intere regioni o ambiti provinciali e interprovinciali. Territori comunque costituiti prevalentemente da campagna. Territori in cui il bilancio tra "dare" e "avere" inquinamento vede prevalere le "entrate" sulle "uscite". Territori, insomma, più inquinati che inquinanti.

Se l'urbanistica vuole, come deve, fare davvero i conti con la questione ambientale, essa deve innanzitutto affrontare, in modo necessariamente nuovo, i problemi dell'ambiente urbano: i problemi delle aree dove si concentra il massimo di popolazione, di attività economiche, di relazioni, di produzione e di consumo di merci - e anche di produzione d'inquinamento e di entropia positiva. E' perciò sull'ambiente urbano che vorrei, nella mia relazione, richiamare la vostra attenzione.

2. - Abbiamo recentemente discusso, in un convegno nazionale del Pds a Venezia, un importante documento della CEE: il Libro verde per l'ambiente urbano . Vorrei partire proprio da quel documento: più precisamente, da una sua interpretazione che mi sembra legittima.

Il centro ideale del documento sta in una consapevolezza che lo pervade: nella consapevolezza che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente non c'é sviluppo della società e della città.

"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica", afferma esplicitamente il Libro verde. Questa impostazione costituisce un ribaltamento completo non solo della prassi finora praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale.Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento dell'ambiente.

Fa parte della nostra esperienza quotidiana. Tutti abbiamo sentito e sentiamo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o ai centri direzionali o commerciali, o alla ricettività turistica. "Consentite alla Finsepol di costruire mezzo milione di metri cubi di alberghi e di seconde case nella Baia di Sistiana - si predica da anni sui giornali triestini - e il buon padrone abbellirà l'ambiente piantando centinaia di alberi nuovi"

3. - Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico.

Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamente ambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica: e se non c'è vita, non può evidentemente esistere sviluppo!

Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico".

Le vicende di ciascuna delle nostre città lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende, è in proporzione diretta con la qualità urbana.

E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti: la possibilità di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta.

E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di più consentirà) alle città d'Europa di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.

Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.

Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.

4. - Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato.

Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell' organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere.

E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità.

Non ho la pretesa di aggiungere alcunché al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita".

Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti.

Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sé un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sé un segno positivo del suo manifestarsi.

5. - In effetti, quanto parlano di sviluppo molti di noi si riferiscono a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" ( Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1989).

Per conto mio, preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinché uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr.E.Goldsmith e N.Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano. Quale che sia comunque l'accezione sotto la quale si voglia adoperare l'espressione di "sviluppo sostenibile", un fatto mi sembra certo. Lo "sviluppo sostenibile" è l'opposto dello sviluppo attuale, il quale avviene consumando risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente.

Ma se vogliamo applicare la definizione del Rapporto Brundtland all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle.

Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perché ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.

Per evitare che la città di oggi diventi, per dirla con Carlo Cattaneo, una di "quelle pompose Babilonie", "città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità". Quelle città che sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: Carlo Cattaneo, "La città come principio", a cura di M.Brusatin, Marsilio, 1972).

Su alcuni rilevanti aspetti del trend di "babilonizzazione", e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi centrali per un'urbanistica che voglia rinnovarsi facendo compiutamente i conti con la questione ambientale.

6. - La crisi della mobilità è forse l'aspetto più drammatico della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento.

Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressoché interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto.

Ma l'abnorme espansione della motorizzazione individuale ha tra le sue cause anche quella di un cattivo governo del territorio. La disseminazione delle abitazione e dei luoghi di lavoro, la mancata programmazione delle espansioni urbane, la rigida zonizzazione delle funzioni, la mancanza di controllo sui cambiamenti di destinazione d'uso, sono tutte scelte che aumentano parossisticamente la "domanda di mobilità", e in particolare di quella mobilità che è più facilmente soddisfacibile con uno strumento costoso ma flessibile come l'automobile.

Quale che sia comunque la miscela di cause che determina l'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti, che dominano nel nostro paese ma che sono evidentemente presenti anche altrove.

Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade".

Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità".

"Rendere l'automobile un'opzione e non una necessità": indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante. Non credo di aver bisogno di commentarla!

7. - Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti.

Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani e diligentemente attuati. Non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente. Non abbiamo ricchezza di parchi e boschi né efficienza di servizi collettivi. Non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente.

Non abbiamo, in Italia, tutto questo. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela.

E' allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti.

Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione provocate dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere.

Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte.

Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica. Sono indotto a sperarlo, quando sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, promuovendo quello che Luigi Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione".

Ma dispero, francamente, quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiate ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettare metropolitane nel centro storico di Venezia, quando vedo i Fori imperiali o la Piazza San Marco ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà.

Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie.

8. - I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato.

Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato - come luogo ideale nel quale si determina il prezzo delle merci - nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa.

Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili, il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali.

Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene).

Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sé capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che sta dispiegatamente aperto davanti a tutti noi, e sul quale non ho la pretesa di soffermarmi.

9. - A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile, o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili.

Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.

Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finché non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.

Su questa affermazione tutti si dicono d'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinto che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi una riforma seria del regime degli immobili debba poggiare sulla premessa che la facoltà di edificare (e, più propriamente, di operare trasformazioni urbanisticamente rilevanti) non è un attributo della proprietà ma appartiene all'ente pubblico elettivo, il quale ne concede l'esercizio sulla base delle regole certe e chiare costituite dagli strumenti della pianificazione urbanistica.

Sul principio opposto a questo è invece fondata la proposta di legge che sciaguratamente la Camera sta per approvare, attraverso la Commissione cui è stato affidato il potere legislativo.

10. - "Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale". E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti.

Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata.

Una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell'espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro.

Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.

Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità.

Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità".

E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie altrimenti non soddisfacibili

Ma sono certamente di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali.

Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.

Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.

11. - "Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde. Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro.

Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale e della crescente entropia urbana non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato anche alla capacità di guardare al futuro: di sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo.

Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può apparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.

Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine". Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare un quesito, che continua a inquietarmi.

E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze), della produzione di leggi riformatrici e rinnovatrici che nessuno attua (come la 431 nel 1985, come la 142 nel 1990)?

E ancora: é davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, né elettoralmente né socialmente, perché ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno?

Consentitemi di chiudere così, affidandovi una domanda per la quale, personalmente, non ho risposte, ma solo speranze.

Per città sostenibile intendiamo una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.

1. La tutela dell'ambiente:"precondizione per lo sviluppo

Ogni lettura di un testo, di un documento - e soprattutto di un documento complesso quale é il Libro verde per l'ambiente urbano - é in qualche modo orientata, mirata. Ogni lettura, insomma, è una interpretazione: una traduzione di quel testo nel linguaggio più vicino alla sensibilità e agli interessi culturali del lettore, e alle concrete esigenze che lo spingono a leggerlo. Molti di quanti hanno lavorato a organizzare questo convegno conoscevano già il Libro verde. Hanno deciso di promuovere una iniziativa pubblica che da esso traesse lo spunto perchè hanno ritenuto che fosse particolarmente utile, in questa fase iniziale della vita del Pds, partire da quel documento, da quella formulazione di temi per molti di noi consueti, per tentar di costruire - in un confronto largo - alcuni elementi di una possibile piattaforma per la sinistra italiana. Nell'ambito di questa lettura, che è indubbiamente soggettiva ma che spero non sia troppo distante da quella autentica, è sembrato a noi di cogliere il centro ideale del documento in una consapevolezza che lo pervade. Nella consapevolezza, cioè, che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente (delle qualità del territorio) non c'é sviluppo della società e della città.

2. Una prassi da rovesciare

"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica": così afferma esplicitamente il Libro verde (p. 51). E non è chi non veda come questa impostazione costituisca un ribaltamento completo non solo della prassi finora (e ancora oggi, nel nostro paese) praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione nelle città, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento della qualità insediativa. Forse sentiremo esporre e argomentare una simile tesi nel corso stesso del nostro convegno. Ma sono certo che nelle comunicazioni e negli interventi che si riferiranno a concrete situazioni locali (penso alle città del Mezzogiorno, ma non solo a quelle) ascolteremo testimonianze dirette sulla pervasiva presenza di una simile, obsoleta concezione del rapporto tra sviluppo e qualità urbana. Sentiremo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in variante o in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o alla ricettività turistica, o a quei "centri direzionali" che da un paio di decenni sembravano abbandonati tra i ferrivecchi dell'urbanistica del boom edilizio.

3. Prima la qualità, poi lo sviluppo

Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità urbana. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente urbano è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico. Molte ragioni concorrono a formulare quest'affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamenteambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica. Rinvio per questo aspetto alla lettura delle chiarissime pagine che il Libro verde dedica all'argomento, e rinviosoprattutto alle comunicazioni presentate da autorevoli ambientalisti, che ascolteremo e leggeremo in queste due giornate. E consentitemi di rinviare, oltre che alla scienza, anche alla letteratura e alla poesia. Consentitemi allora di rinviare anche alla rilettura di alcune delle Città invisibili di Italo Calvino, nelle quali molti di noi hanno trovato l'espressione perfetta dei loro sogni, e dei loro incubi.

Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico" (p. 42).

4. La qualità urbana non è più un lusso

Le vicende di ciascuna delle nostre città (le grandi, le medie, le piccole) lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende produttive di beni o di servizi, è in proporzione diretta con la qualità urbana. E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale, un sito, piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di monumenti e luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti; un'attrezzatura urbana efficiente, che consenta al cittadino di accedere con facilità e comodità ai luoghi urbani e di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta. E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere in una gara in cui non é in gioco un premio simbolico o un primato di mero prestigio, non è in palio un Oscar o un Leone d'oro o una citazione nel Guinness dei primati, ma è in gioco una posta molto più concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza. Il governo del territorio - nel suo versante politico e amministrativo come in quello urbanistico - deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana. Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.

5. Qualità, sviluppo:parole ambigue da chiarire

Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato. Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell'organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere. E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità. Non ho la pretesa di aggiungere alcunchè al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che, sul terreno molto pratico che ci è proprio sia come urbanisti che come politici, se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti. Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sè un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sè un segno positivo del suo manifestarsi.

6. Dallo sviluppo sostenibilealla città sostenibile

In effetti, quando parliamo di sviluppo ci riferiamo a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" (1). Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente. Ma se vogliamo applicare quella definizione all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare - come in questo convegno proponiamo nel suo stesso titolo - di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perchè ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perchè la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua quelità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone %H6%(2)%H6%. Su alcuni rilevanti aspetti di questo trend, e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi che abbiamo proposto per questo incontro: temi ai quali si riferiranno, in modo più o meno diretto, le comunicazioni che saranno illustrate.

7. Il paradosso della mobilità:colpa del "modello funzionalista"?

La crisi della mobilità è forse l'aspetto più appariscente e drammatico, e certamente il più emblematico, della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressochè interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto. Il Libro verde attribuisce la scelta della motorizzazione individuale anche ai limiti della pianificazione urbanistica. Precisamente al fatto che "la separazione spaziale promossa dalla teoria funzionalista lascia poche alternative all'automobile privata". In altri termini, aver basato la pianificazione sul principio della rigida separazione, in zone collegate solo dalle infrastrutture del trasporto, delle varie funzioni urbane (le abitazioni, le industrie, gli uffici, i servizi ecc. ) ha contribuito ad aumentare sia la domanda globale di mobilità sia la necessità di uno strumento flessibile come l'automobile. E' un'osservazione indubbiamente giusta, ed essa coglie una delle ragioni per cui la cultura urbanistica ha da tempo criticato la rigidità della "zonizzazione monofunzionale". E tuttavia è un'osservazione che ha un valore pratico nelle regioni d'Europa dove le città si sono sviluppate secondo la pianificazione urbanistica. Mi sembra che nelle città italiane, e soprattutto in quelle dove la crisi del traffico è più drammatica (come Napoli e Roma, Palermo e Firenze) la causa urbanistica sia da attribuire molto più alla mancata pianificazione e alla conseguente anarchia degli interventi privati abusivi e di quelli pubblici in deroga, che alla severa applicazione dei canoni dell'"urbanistica funzionalista".

8. Occorre "rendere l'automobile un'opzione"

"Quale che sia comunque la miscela di cause che determinal'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti. Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade" (p. 44). Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità". Indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante.

9. Il patrimonio culturale. . .

Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti. Forse non ce n'è alcuna oppure, se c'è, è un'eccezione, ed è allora notevole almeno per questo. Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani (magari oggi criticabili e criticati nelle loro regole di fondo) diligentemente attuati; non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente; non abbiamo ricchezza di parchi e boschi nèefficienza di servizi collettivi; non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente. Non abbiamo, in Italia, ciò che tante altre città europee hanno conquistato. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela. E'allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti. Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione "senza opere" che è provocata dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere. (Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte).

10. . . . e la coda della lucertola

Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica, quando leggo le invettive di Argan o di Cacciari. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proposte di Paolo Costa o di Luigi Scano sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, di promuovere quello che Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione". Ma dispero quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiare ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettaremetropolitane nei centri storici, quando vedo i Fori imperiali di Roma o la Piazza San Marco di Venezia ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà, magari sponsorizzati (come il recente episodio veneziano) da autorevoli istituzioni culturali come la Biennale. Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie. E noi stiamo qui come la coda della lucertola, che si agita ancora quando la lucertola è già morta.

11. I confini della città

Puntare sulla qualità urbana significa indubbiamente guardare alla città con sguardo nuovo. Significa analizzare criticamente la "conurbazione senza confini", che gli anni infiniti del boom edilizio ci hanno regalato. Quella "conurbazione senza confini" che la bella mostra dell'Istituto regionale dei Beni storici e culturali dell'Emilia-Romagna ha qualche anno fa illustrato %H6%(3)%H6%, e la ricerca interuniversitaria condotta da Giovanni Astengo ha puntigliosamente documentato %H6%(4)%H6%. L'assenza di confini certi è ciò che connota la mancanza di identità, di chiarezza di appartenenza, di forma definita e riconoscibile. Ed è infatti ciò che primariamente connota la città insostenibile, costruita dallo spontaneismo e dalla miopia, alleati della speculazione, negli anni della crescita senza forma. Voler raggiungere un sufficiente livello di qualità urbana significa allora anche cercare i confini della città vera, della città umana, della città storica: quei confini tracciati nel centro urbano come nel territorio foraneo organizzato, da antiche culture, in funzione della vita della città. E significa poi intervenire nelle periferie senza forma e senza volto, ridisegnare lì i confini - e la struttura, e le forme - di una città di oggi e di domani nella quale tutti possano riconoscersi, tutti possano ritrovare una identità, una comune cittadinanza.

12. Il mercato ha vinto, ma non basta

I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato. Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa: ha vinto la sua storica tenzone con l'alternativa marx-leniniana. Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili (privi cioè di peculiari caratteristiche individuali e perciò sostituibili l'uno all'altro nell'ambito del medesimo genere), il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali. Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene). Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sè capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che dovevamo necessariamente porre all'inizio di questo convegno, anche se non è a questa relazione che tocca svilupparlo, ma alle comunicazioni che le fanno seguito.

13. La riforma del regime degli immobili: non si può farne a meno

A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile - o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili. Una questione che è tanto più importante trattare in quanto essa è totalmente assente dal Libro verde, di cui costituisce l'unica rilevante lacuna. Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.

Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finchè non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.

Su questa affermazione siamo, io credo, largamented'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinti che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi (e non incorrere una volta ancora in una di quelle dichiarazioni d'incostituzionalità che dal 1968 hanno frustrato i tentativi, o conati, di riforma) una riforma dell'attuale assetto del regime immobiliare debba avere alcuni precisi requisiti; alcuni punti fermi, prodotti e raffinati in una elaborazione collettiva che dura da qualche decennio almeno. Varrà la pena di ricordarli.

14. Le nuove regole per gli immobili

Le nuove regole del regime immobiliare dovrebbero, innanzitutto, riguardare, e regolare contemporaneamente tutti i beni immobili: cioé sia le aree sia gli edifici. Le concrete trasformazioni territoriali e urbane riguardano infatti sempre di più il già urbanizzato e il già costruito.

Naturalmente, una riforma adeguata dovrebbe definire la questione sia per quanto riguarda i valori che per quanto riguarda i poteri. Dovrebbe cioè risolvere, oltre alla questione delle indennità espropriative, anche quella dei cosiddetti vincoli urbanistici. Che è una questione molto semplice e molto concreta: si riduce alla questione del potere, da parte dell'autorità pubblica, di decidere le "destinazioni d'uso", o più precisamente di decidere le trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, che sono ammissibili in tutte le unità immobiliari, nonché i loro tempi e modi.

Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà, è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso leggittimo del bene. Tanto antico e consolidato è questo principio che essoera già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865. Ma non è solo questa la ragione per cui non sembra a me che esso debba essere abbandonato per assumere criteri (quale quello del plafond de densité) che sono stati abbandonati là dove sono stati inventati.

E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità diespropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.

Ma c'é un punto, un requisito, che voglio soprattutto sottolineare. Ciò che ai fini della possibilità tecnica di ottenere una sufficiente qualità urbana più interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.

15. Quale pianificazione per la città sostenibile: un obiettivo. . .

"Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale" (p. 11). E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti. Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata. Una pianificazione, come afferma il Libro verde, che vada al di là della rigidità razionalistica dello zoning, al di là dell'urbanistica di Le Corbusier e della Carta d'Atene. Ma anche una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell' espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro. Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.

16. . . . e alcuni indirizzi

Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità". E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, volta per volta e in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie che altrimenti non sarebbero soddisfacibili.

Se la definizione che prima ho proposto per qualità urbana è condiviso, allora dovremmo convenire che si devono considerare di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.

Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.

17. Il futuro e la politica

"Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde (p. 14). Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico-sociale, non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può appparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.

Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine" (p. 40). Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare alcuniquesiti, indubbiamente inquietanti. E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l'affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la nostra responsabilità, siamo davvero all'altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati - non senza ragioni - di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso il piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov'é sbagliato, o far correre una strada dove non serve, o rivestire d'un retino tecnico una sanatoria che non va concessa.

Per finire, un'ultima domanda. E' davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, nè elettoralmente nè socialmente, perchè ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Anche su questo dovremo insieme riflettere.

Edoardo Salzano

NOTE%H6%

(1)%H6% Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988. Preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinchè uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr. E. Goldsmith e N. Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano.

(2)%H6% ". . . quelle pompose Babilonie sono città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: CarloCattaneo, "La città come principio", a cura di M. Brusatin, Marsilio, 1972).

(3)%H6% Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, I confini perduti, Graphis, Bologna.

(4)%H6% IT. URB. 80, Rapporto sullo stato dell'urbanizzazione in Italia, "Quaderni di Urbanistica informazioni, n. 8, 1990.

1. Abbiamo la fortuna di parlare di un territorio le cui caratteristiche sono ben note a tutti. Del resto, già dagli interventi che hanno preceduto il mio sono emerse con chiarezza le ragioni per le quali le Dolomiti sono, per noi, "una risorsa da conservare e promuovere". Sono emerse con chiarezza le qualità di questa risorsa, la ricchezza eccezionale del patrimonio che essa costituisce. Voglio sottolineare questi due termini (qualità, patrimonio), e voglio soffermarmi un poco su di essi, perché essi in qualche modo definiscono le coordinate della "stella polare" che deve guidarci nel ragionare su come operare una "sintesi tra conservazione e sviluppo".

Qualità. Questo termine esprime valori che non sono riconducibili a numerario, che perciò trovano con difficoltà spazi adeguati nelle valutazioni ed operazioni economiche. Ma esprime valori che oggi riconosciamo essenziali per la vita della nostra civiltà, e ai quali non siamo più disposti a rinunziare, quali che siano le difficoltà che dobbiamo superare per ottenerne la promozione.

E quando riferiamo il termine "qualità" al territorio, all'ambiente, non ci sfugge che esso esprime una realtà che è sempre il risultato di un sapiente intreccio tra un originario dato naturale, e l'applicazione a questo dato del lavoro e della cultura dell'uomo. Un intreccio tra natura e lavoro nel quale certamente qui, nelle Dolomiti, appare prevalere l'elemento naturale, mentre in altre situazioni - penso ad esempio alla città storica di Venezia - appare prevalere l'elemento storico del lavoro e della cultura; ma che dovunque, là dove raggiunge il requisito della qualità, è caratterizzato da un equilibrio tra l'uno e l'altro elemento.

Come ritrovare, oggi, questo equilibrio tra lavoro e natura?

Rispondere a questa domanda equivale ad affrontare in pieno il tema di questa sessione del convegno. Equivale a domandarsi come sia possibile, oggi, trovare una sintesi tra l'esigenza della conservazione e promozione della risorsa ambientale costituita dalle Dolomiti, e l'esigenza di uno sviluppo economico, sociale e civile di quella società che nelle Dolomiti vive e opera.

Può aiutarci ad andare avanti nel ragionamento riflettere al secondo termine al quale prima mi riferivo: patrimonio. Quando parliamo di una risorsa come di un patrimonio noi intendiamo evidentemente riferirci a qualcosa che non va "sfruttato", che non va trattato come una miniera, o una cava, o un giacimento, dal quale estrarre pezzi per trasformarli, venderli, consumarli, ma va trattato come un qualcosa che può generare ricchezza non effimera solo se viene conservato, adoperato con parsimonia, accresciuto perché generi maggiore ricchezza.

Perciò - tornando ancora al tema di questa sessione - trovare la sintesi tra conservazione e sviluppo equivale per noi a cercare un tipo di sviluppo, nuovo rispetto a quelli che abbiamo conosciuti, il quale non solo non confligga con l'esigenza di tutelare le qualità ambientali, ma anzi assuma la tutela e la crescita di quelle qualità come il motore e - insieme - l'obiettivo dello sviluppo.

Uno sviluppo nuovo. Sappiamo bene, infatti, che lo sviluppo che è stato perseguito fino ad oggi è uno sviluppo fondato su una concezione distorta del rapporto tra uomo e ambiente. È fondato su una concezione dell'ambiente come resnullius, come qualcosa di cui ciascuno può appropriarsi, che tutti possono consumare senza preoccuparsi della ricostituzione, su cui tutti possono scaricare i rifiuti prodotti.

E sappiamo anche che questo sviluppo ha già prodotto, e sta ulteriormente producendo, danno gravissimi: danni via via più ampi, poiché l'allargamento dei diritti democratici, l'aumento del reddito medio e del tempo libero, l'accentuata e facilitata mobilità hanno trasformato la fruizione delle qualità territoriali e ambientali (di quelle prevalentemente naturali come di quelle prevalentemente storiche) da fenomeno di élite a fenomeno di massa.

Con la privatizzazione e recinzione degli accessi alle coste e ai boschi, con la proliferazione delle seconde e delle terze case, con l'ipertrofica infrastrutturazione del territorio, con la sovrapproduzione di rifiuti e la loro disseminazione, questo sviluppo sta provocando la distruzione del patrimonio ambientale con ritmi rapidissimi. E se ciò costituisce un danno per tutto il genere umano, costituisce un danno particolarmente preoccupante ed emergente là dove la fonte prevalente del reddito non è costituita dall'attività industriale manifatturiera o dall'agricoltura intensiva o dal terziario produttivo, ma dall'utilizzazione - saggia o dissennata che sia - del patrimonio ambientale: come qui, come nelle Dolomiti.

2. Uno sviluppo capace di considerare, e governare, la risorsa territorio come un patrimonio deve evidentemente disporre di strumenti adeguati: adeguati perché idonei allo scopo cui devono servire, e - oggi - adeguati perché capaci di operare controtendenza rispetto ai processi in atto, quindi perché forti.

Oggi, l'attenzione delle politiche territoriali riguardante l'ambiente tende a polarizzarsi, e a rivolgere quasi esclusivamente lo sguardo sul settore del disinquinamento.

Impegno e risorse affluiscono, e sono pretesi in misura via via più consistente, per depurare, raccogliere, ridurre la tossicità e la nocività, rendere insomma meno dannosi o meno fastidiosi i rifiuti solidi, liquidi e gassosi che la nostra società produce in così gran quantità. È un settore nel quale certamente giusto impegnarsi, e sacrosante sono le critiche e le proteste per quelle autorità - come la Giunta regionale del Veneto - che producono moltissimo materiale di propaganda e pochissimo disinquinamento. Ma un settore che inevitabilmente, quasi per definizione, è in ritardo sulle cose, sui processi reali: interviene a valle dei processi, può al massimo - e con dispendio crescente di risorse - ridurre la negatività degli effetti.

Le politiche territoriali basate sul disinquinamento non sono di per sé uno strumento adeguato per un governo della risorsa territorio capace di raggiungere la sintesi tra conservazione e sviluppo: il disinquinamento è necessario, ma non sufficiente.

Uno strumento idoneo (ma oggi non forte, e perciò non ancorapienamente adeguato) è costituito dalla pianificazione territoriale e urbanistica. L'importanza di questo strumento sta in ciò, che esso - allo stato degli atti - è l'unico che riesce a governare una realtà, qual'è il territorio, che è un sistema complesso di elementi fisicamente definiti suscettibili di usi diversi. È l'unico strumento capace di garantire non una mera giustapposizione delle varie scelte di settore (i trasporti, i

parchi, l'energia, la produzione, la residenza e così via), ma un assetto fisico e funzionale nel quale le varie utilizzazioni, le varie funzioni, i vari regimi, cui sono sottoposte o sottoponibili le diverse parti del territorio, trovino una loro complessiva coerenza: coerenza interna, e coerenza tra l'assetto del territorio e il sistema di obiettivi culturali, sociali, politici, economici che la collettività assume.

3. La pianificazione territoriale e urbanistica, vista come strumento idoneo a raggiungere un rapporto corretto tra conservazione e sviluppo, tra ambiente e lavoro, tra qualità del patrimonio ambientale e sua adeguata fruizione, ha conosciuto stagioni molto diverse, e conosce ancor oggi indirizzi molto diversi nelle tre regioni che gravitano sull'area dolomitica. Ai due estremi della diversità si pongono, secondo me, il Veneto da una parte, l'Alto Adige dall'altra, mentre mi sembra che, per più di un sostanziale aspetto, in una posizione intermedia si pone la Provincia di Trento

Un modo significativo per comprendere e valutare le politiche territoriali delle regioni dal punto di vista del patrimonio ambientale è indubbiamente costituito dall'impatto che su di esse

ha avuto la legge 431 del 1985: quella legge che è comunemente nota come "Legge Galasso", ma che ben più propriamente bisognerebbe chiamare "Legge Alborghetti, Bassanini, Galasso".

Con la legge 431, come tutti sanno, il Parlamento ha sollecitato le Regioni a procedere nella tutela delle caratteristiche essenziali del paesaggio italiano mediante gli strumenti di una pianificazione territoriale e urbanistica contrassegnata dalla "specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali".

E lo ha fatto con due ordini di stimoli: da un lato, con la prescrizione di redigere piani siffatti e adottarli entro una determinata data (il 31 dicembre 1986); dall'altro lato, con lo stimolo indiretto della apposizione di vincoli di non trasformabilità su determinate aree, vincoli che potevano essere superati solo, appunto, con l'adozione dei piani.

Vorrei annotare, tra parentesi, che la 431 è stata la prima manifestazione, seppure in forme improprie, di quell'attività di indirizzo e coordinamento in materia di assetto del territorio ed ecologia che il Dpr 616 del 1977 attribuisce agli organi centrali dello Stato. E vorrei annotare ancora che, sebbene l'attuazione

della legge sia stata molto deludente rispetto alle aspettative e alle stesse potenzialità, essa ha comunque posto in moto un processo di pianificazione praticamente in tutte le regioni italiane.

Per il Veneto la legge 431 è stata una benefica scossa. È solo grazie alla legge che la Giunta regionale ha frettolosamente ripreso gli studi per la formazione del Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), che da oltre un decennio era

solo un'intenzione e una prescrizione inevasa della legislazione regionale, e ha individuato e in qualche modo vincolato, sul medesimo Ptrc, le 66 aree da destinare alla istituzione di parchi e riserve naturali, che da anni erano oggetto di un elenco mai portato all'approvazione del Consiglio regionale.

Per le due Province del Trentino Alto-Adige, invece, come per il Friuli-Venezia Giulia (e come per l'Umbria, l'unica altra regione italiana ad aver consolidato, prima della legge 431, un'attività di pianificazione d'area vasta), la legge ha provocato quasi solo un adempimento di verifica tecnica della maggiore o minore

validità, rispetto ai nuovi indirizzi del Parlamento, di una politica di pianificazione e di tutela dell'ambiente in corso ormai da molti anni.

4. Particolarmente significativa, mi sembra l'esperienza della Provincia autonoma di Bolzano, della Regione altoatesina (o sud-tirolese): significativa sia per l'insegnamento positivo che per taluni aspetti ne deriva, sia per taluni suoi limiti.

I rappresentanti della Provincia autonoma di Bolzano, siano essi amministratori o tecnici direttamente responsabili, o siano essi semplici operatori culturali e professionali, sono orgogliosi quando possono esporre alcuni numeri significativi[1]. Più dell'85 % del territorio altoatesino è tutelato. E la parte più consistente di questa quota molto rispettabile è costituita dalla superficie vincolata dai piani paesaggistici comunali o intercomunali (46,5 %).

Una superficie tutelata attraverso strumenti di pianificazione atipici (sostanzialmente di solo vincolo che operano in "negativo" rispetto ai piani urbanistici comunali), applicati in modo molto esteso a un territorio che già da molti anni è interamente coperto da piani urbanistici comunali. E a un territorio - questo il secondo dato significativo - che è in larghissima misura antropizzato. Benché il 64 % del territorio altoatesino sia a quota superiore a 1.500 metri, il 73 % è adoperato per le attività primarie. Come ha osservato Silvano Bassetti, "pur in condizioni spesso ai limiti della sopravvivenza, l'antropizzazione del territorio risulta ancora oggi diffusa e capillare secondo modelli prevalenti di agricoltura alpina, conservatisi anche per la stabilità di forme giuridiche di indivisibilità dei fondi rustici ("maso chiuso") e di modelli socio-politici fondati sulla radicata diffusione della popolazione sul territorio"[2].

La politica di tutela ambientale altoatesina non nasce oggi, e le sue ragioni sono certo complesse. È già a partire dagli anni '60 che il territorio è stato soggetto a pianificazione comunale, la quale copre dal 1976 la totalità dei comuni. E nel quadro e col supporto di questa politica, si è sancita e si applica molto rigorosamente - con un sistema di decisioni tecniche ed amministrative fortemente centralizzato - la totale inedificabilità dei boschi e degli alpeggi e il contenimento dell'espansione edilizia ottenuta anche combattendo con decisione sia l'edificazione diffusa sia la costruzione di seconde case per non residenti.

È una politica territoriale, quella altoatesina, nella quale la tutela dell'ambiente e del paesaggio trovano le loro ragioni in un duplice ordine di motivazioni. Da un lato la consapevolezza che i redditi e la loro costanza nel tempo sono legati alla

preservazione del patrimonio che li genera: il paesaggio, insomma, come risorsa economica da far durare per sempre.

Dall'altro lato, e forse ancor più profondamente, la convinzione che quel paesaggio, quell'ambiente, quei modi di produrre e di vivere nel territorio, sono parte fondamentale dell'identità culturale di due minoranze etniche: quella austro-tedesca, minoranza nello Stato e nella stessa Regione, e quella ladina, minoranza nella minoranza.

Una tutela, quindi, nella quale i moventi difensivi sembrano determinanti. E questi stessi moventi difensivi hanno fatto sì che si conservasse nel tempo, al di là e - per così esprimermi - al di sotto delle politiche territoriali, quel modo di gestire i rapporti produttivi e i rapporti patrimoniali che ha largamente resistito alle forme tipiche del sistema capitalistico-borghese italiano. Una tutela, quindi, non priva di elementi di fragilità, da cui derivano i suoi stessi limiti.

Così, a proposito di Dolomiti, c'è da registrare che il territorio urbanizzato si è enormemente accresciuto - in termini relativi - negli ultimi trent'anni passando dai 3.000 ettari al 1950 ai 12.000 ettari odierni. Ciò sembra avvenuto soprattutto nella seconda metà degli anni 70, quando la pianificazione urbanistica comunale ha prevalso sulla pianificazione paesistica.

Sono gli anni in cui ci sono state le maggiori espansioni nei fondo valle, e in cui si è - in alcuni punti significativi - consolidato il sistema degli impianti di risalita.

Oggi, i giochi sembrano potersi riaprire. Mentre nelle valli meno toccate dallo sviluppo turistico ci si rifiuta di adottare il modello consolidato di un turismo affidato agli impianti di risalita, alla concentrazione delle presenze, alla infrastrutturazione del territorio, e si vuole cogliere fino in fondo l'occasione di uno sviluppo basato sul binomio qualità dell'ambiente e qualità del servizio ricettivo, al livello della Provincia sembra riaprirsi un dibattito sull'esigenza, e sull'opportunità, di superare i limiti localistici della dimensione comunale della pianificazione, per introdurre forme di pianificazione, o quanto meno di incisivo coordinamento, al livello di area vasta.

5. Anche nella Provincia autonoma di Trento la tutela dell'ambiente è presente da alcuni decenni all'interno del processo di pianificazione. Un processo di pianificazione, quello trentino, più "classico" di quello altoatesino. Non atipici piani paesistici comunali, ma un vero e proprio piano di area vasta: il Piano urbanistico provinciale, formato per la prima volta nel corso degli anni '60, (fu adottato nel 1964 e approvato nel 1967) al quale fa seguito una legge organica di tutela del paesaggio che, già nel 1971, anticipa alcuni contenuti della legge nazionale 431 del 1985.

Tra i caratteri essenziali dell'impostazione maturata nel Trentino in quegli anni vorrei ricordare soprattutto:

- l'estensione dell'oggetto della tutela, che si esplica (art. 1) nel passaggio dalle "bellezze naturali" singole e d'insieme della legge del '39, a "territori naturali o trasformati dall'opera dell'uomo", superando l'ottica estetizzante strettamente figurativa e adottando una concezione naturale-culturale;

- "la graduale connessione tra tutela paesaggistica e pianificazione urbanistica conferendo ai piani subordinati al Pup (comprensoriali e comunali) valenza paesaggistica, capace di assorbire la tutela stessa nella disciplina territoriale, e alla Giunta provinciale la facoltà transitoria, fino alla formazione dei piani subordinati, di emanare specifiche norme e prescrizioni cartografiche relative ai territori tutelati"[3].

Come nell'Alto-Adige, anche nel Trentino ad una partenza nettamente anticipata rispetto a quasi tutte le altre regioni italiane, corrisponde una fase di appannamento grave nella seconda metà degli anni '70: probabile effetto, e anzi anticipazione - questa volta in negativo - di quel più generale appannamento dell'attenzione politica sui temi della pianificazione, e dell'affacciarsi delle posizioni della deregulation, che negli anni successivi prevalsero a livello nazionale. Fatto sta che, con una legge del 1974, si statuisce la prevalenza della

pianificazione comunale volta all'edificazione sulla pianificazione paesistica. Si restaurano "i diritti derivanti dagli strumenti urbanistici vigenti (senza prescriverne la verifica dal punto di vista paesaggistico), conseguendo principalmente due esiti: togliere di fatto il diritto di veto - e quindi il ruolo preminente - alla tutela, ed in secondo luogo privare di fatto tutta la pianificazione dei contenuti di natura paesaggistica, considerata sempre più come "sovrastrutturale"[4].

Prima ancora della legge 431, fu il disastro di Stava a provocare nel Trentino, nel 1985, una svolta nella politica del territorio. La nuova Giunta provinciale diede una spinta vigorosa a un processo di pianificazione che si era insabbiato. La revisione del Pup, avviata dal 1977 e da allora ferma, fu ripresa e il nuovo Pup veniva approvato nel 1987. Ma fin da subito si approvò una legge di salvaguardia, applicata alle previsioni del piano prima ancora dell'adozione. E contemporaneamente si rilanciò la legislazione per l'istituzione dei parchi naturali, giungendo all'istituzione dei parchi naturali del Brenta-Adamello e Paneveggio - Pale di S. Martino.

Il Pup del 1987 ha suscitato qualche fondata critica, soprattutto per quanto riguarda gli impianti sciistici. La scelta è quella di giungere ad una stabilizzazione degli impianti, intendendo con questo consentire la costruzione di nuovi impianti di risalita là dove la capacità delle piste supera quella degli impianti, e la costruzione di nuove piste là dove invece la situazione è invertita. È un criterio non privo di razionalità "aziendale", ma il rischio che viene denunciato è quello di provocare di fatto, con la realizzazione di nuovi impianti, un aumento del carico urbanistico complessivo.

Per le "seconde case" (l'altra grande causa di degrado del paesaggio e dell'ambiente) l'atteggiamento trentino è simile a quello altoatesino, anche se meno pronunciato. Sostanzialmente, il blocco all'espansione delle "seconde case" è intervenuto quando, alla metà degli anni '70, scoppiò lo scandalo e si elevò la protesta per una grande lottizzazione di ville, villette, alberghi a Fassa Laurina.

E anche la ragione di fondo che determina gli attuali orientamenti politici prevalenti in Trentino mi sembra simile a una delle componenti della posizione altoatesina. Anche nel Trentino sembrano pensare: se non tuteliamo l'ambiente e il paesaggio dall'infrastrutturazione e dal consumo fondiario, se non controlliamo il carico urbanistico nelle zone più pregiate, se non freniamo i processi in atto, la materia prima dell'attività turistica si degrada fino al deperimento, e con essa gli stessi redditi che di essa si giovano.

6. Delle tre regioni dolomitiche italiane, il Veneto indubbiamente quella che regge il fanalino di coda. Grandi dichiarazioni, grande propaganda, grandi programmi, ma ancora nessun segnale concreto di una politica del territorio aperta alla effettiva salvaguardia e valorizzazione dell'ambiente.

Eppure, negli stessi documenti prodotti dalla Giunta regionale le analisi anche acute, e le denuncie anche ferme, non mancano. È l'ultimo documento programmatico approvato dalla maggioranza consiliare, il Programma regionale di sviluppo, quello che adopera forse le parole più forti per denunciare il rapporto

perverso tra sviluppo e ambiente che ha caratterizzato il governo del territorio veneto nell'ultimo ventennio. In esso si afferma, ad esempio, che va sottolineato con forza che lo sviluppo demografico e la redistribuzione territoriale della popolazione da un lato, la crescita della produzione nonchè le modalità tecnologiche con cui tutto ciò si è verificato dall'altro hanno avuto conseguenze pesantemente negative sull'ambiente. La rarefazione della presenza umana nelle zone di collina e di montagna, il trasferimento sull'ambiente di tanti costi interni alle imprese, l'anteporre i risultati concreti dello sviluppo alla tutela e alla valorizzazione dei beni naturali, storici e culturali emergono come alcuni dei tratti salienti del recente processo di crescita socio-economica del Veneto e sono responsabili dei gravi fenomeni di dissesto idrogeologico, di degrado e di inquinamento dell'ambiente e del paesaggio a tutti ormai evidenti.

E ancora:

l'uso indiscriminato dell'aria, dell'acqua e del suolo e la valutazione, del tutto errata, che fosse possibile utilizzare l'ambiente esterno alla casa, alla fabbrica, alla città, agli allevamenti, alle attività agricole, ai consumi turistici, alla mobilità come un ricettore inesauribile hanno portato ad una sempre più grave compromissione delle risorse stesse (...). Infine, i sistemi ambientali di interesse naturalistico - sia montani che fluviali come pure le "zone umide" costiere - risultano particolarmente danneggiati da interventi di trasformazione agricola, dal consumo turistico non controllato, da un'eccessiva attività venatoria e dall'inquinamento [5]

Molto interessanti, e condivisibili, mi sembrano anche le considerazioni che nel Prs si svolgono a proposito del turismo. Dopo aver segnalato che da tempo si registrano "segni di disagio quali il deterioramento ambientale, la caduta di qualità del prodotto offerto e il conseguente scoraggiamento della domanda", si afferma:

La situazione, che può apparire paradossale, si spiega per la particolare composizione del "prodotto turistico", che è fatto prima di tutto di servizi forniti da beni pubblici sostanzialmente non riproducibili (si tratti di beni naturali quali l'aria, l'acqua, il sole o il paesaggio delle spiagge dei monti o dei laghi, oppure di beni storico-artistici quali interi centri storici, singoli monumenti, opere d'arte) ceduti ai turisti a prezzo zero.(...) È intuibile che in questa situazione, di fronte ad una crescita molto rapida della domanda di turismo, la risposta, in termini di adeguamento dell'offerta di servizi e beni turistici privati, risolve il problema solo fintantoché non si creano situazioni di concorrenza nell'uso di beni turistici pubblici non riproducibili (si pensi all'eccesso di alberghi su di una spiaggia o vicino ad una pista da sci, o al miglioramento dell'accessibilità verso un centro storico)[6]

Tornerò più tardi sulla questione del turismo, degli effetti che esso produce sulla risorsa ambiente, e soprattutto sugli indirizzi che, a mio parere, devono affermarsi per ottenere una effettiva sintesi tra sviluppo e conservazione. Per ora vorrei restare nel Veneto, per dire che le analisi sono corrette, ma le cose non sembrano affatto cambiare sul terreno delle concrete politiche territoriali poste in atto.

Non parliamo degli interventi "a valle", delle opere e delle politiche finalizzate al disinquinamento, che pure sono quelle verso le quali più ampiamente sono rivolte l'attenzione e l'impegno: non c'è il piano per i rifiuti tossici e nocivi, non c'è un credibile piano per il risanamento delle acque, non c'è un'iniziativa seria per il risanamento delle aree più calde dal punto di vista dell'inquinamento. Non parliamo dei parchi naturali, neppure uno dei quali è stato istituito. Parliamo del prodotto culturalmente più evoluto della politica territoriale del Veneto, il Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), adottato, dalla Giunta per effetto della Legge 431, il 31 dicembre 1986, ma non ancora approdato nella sede del Consiglio Regionale.

7. L'efficacia è un requisito indispensabile di un atto di governo del territorio, che non voglia porsi solo come contributo accademico. Da questo punto di vista il Ptrc del Veneto è senza dubbio carente. Esso infatti si limita a prescrivere norme

immediatamente efficaci per le sole aree destinate all'istituzione di parchi e riserve naturali e archeologiche.

L'efficacia delle norme relative a tali aree, e la stessa perimetrazione di queste, sollecita a più di un rilievo critico.

Ma più critico ancora il giudizio su alcune conseguenze pratiche e soprattutto sulla concezione culturale che sembra sottesa da una simile scelta.

Da un punto di vista pratico è ad esempio preoccupante che non via sia alcuna prescrizione immediatamente efficace per la protezione delle falde acquifere nella fascia a monte della linea delle risorgive. Dal punto di vista culturale, preoccupa invece il fatto che, tutelando con una certa efficacia solo quelle determinate aree di cui si detto, si convalida la tesi - che sembrava ormai superata - secondo la quale sono meritevoli di protezione solo le aree dove la natura è più selvaggia ed aspra, mentre dove l'ambiente è più fortemente antropizzato e foggiato dal lavoro umano esso può continuare ad essere soggetto alle devastazioni: provocate, nel Veneto, più da strumenti urbanistici corrivi che dall'abusivismo.

Altro punto rilevante dell'inadeguatezza del Ptrc sta nel fatto che esso non stabilisce, come invece sarebbe indispensabile, la prevalenza delle scelte derivanti dall'esigenza della tutela dell'ambiente rispetto a qualsiasi piano, programma od intervento settoriali, da chiunque formati. Le trasformazioni del territorio non avvengono unicamente mediante le politiche urbanistiche comunali.

Queste sono certamente rilevanti, soprattutto - dal punto di vista proprio del livello regionale - per i loro effetti cumulativi.

Ma almeno altrettanto agiscono sul territorio gli interventi decisi da autorità che (per il loro potere proprio, o per la manipolazione del consenso che possono esercitare, o più spesso per l'uno e per l'altro insieme) sono sottratte alle decisioni dei piani urbanistici comunali: è del tutto ovvio, oltre che a tutti noto, che l'assetto del territorio determinato in modo consistente dagli investimenti e dagli interventi

dell'Anas, delle società per le autostrade, delle aziende ferroviarie, delle autorità portuali e aeroportuali, delle società per le idrovie, e ancora dalle politiche in campo abitativo, agricolo, commerciale, turistico, industriale, e infine dai progetti Fio, dai programmi di settore, per lo smaltimento dei rifiuti, per le attività estrattive, per le bonifiche, per le acque e così enumerando.

Ora, un piano territoriale deve e può ricondurre a coerenza le diverse iniziative di settore; deve quindi, in primo luogo, verificare a priori la coerenza di tali iniziative con l'esigenza della tutela ambientale. Da questo punto di vista, il PTRC è così lontano dal raggiungere questi obiettivi da apparire addirittura schizofrenico.

Tipico il caso del "sistema relazionale". Nella relazione giustamente si afferma che "dovrà essere riguardato, con la massima attenzione, il rapporto tra sistema infrastrutturale e sistema dell'ambiente", e si rileva criticamente "come - anche nel più recente passato - sia stata posta poca attenzione al corretto inserimento di tracciati viari e relativi manufatti". Ma, nel concreto, il Ptrc si pone come l'assemblaggio acritico di tutti i tracciati e gli interventi che volta per volta sono stati proposti, senza compiere nessuna selezione né delle opere da realizzare nè delle loro priorità.

In un simile atteggiamento subalterno, il Ptrc arriva al punto di configurarsi anzi come il primo atto di politica territoriale che fornisca una legittimità alle più devastanti, e spesso inutili, scelte infrastrutturali che sono state proposte nel corso

dell'ultimo ventennio: dall'autostrada di Alemagna a quella di Valdastico, dalla Treviso-Ostiglia alle complanari di Mestre, dall'idrovia del Sile a quella litoranea a quella tra Venezia e Padova.

8. Credo di avere argomentato a sufficienza - almeno per quanto serve a questo dibattito - che effettivamente esistono differenze consistenti nelle politiche territoriali delle tre regioni dolomitiche. In estrema sintesi, mentre in Alto Adige e nel Trentino, per ragioni di vario ordine (ma per la comune preoccupazione di non deprezzare il "capitale" costituito dal patrimonio ambientale) si rafforzano le politiche tese alla tutela dell'ambiente e al contenimento - più accentuato in Alto-Adige, più blando nel Trentino - dei carichi urbanistici legati al turismo, nel Veneto ci si limita a denunciare ciò che è avvenuto, ma non si riesce o non si vuole riuscire ad impedire che lo stesso avvenga nel futuro. È solo nell'ambito della discussione delle singole leggi istitutive dei parchi, ad esempio, che si riesce ad introdurre qualche contenimento alla realizzazione di nuovi impianti di risalita (e non a caso neppure un solo parco stato finora istituito). E mentre il piano urbanistico provinciale di Trento ha eliminato la previsione dell'autostrada di Valdastico (la famigerata Pi-Ru-Bi), il piano territoriale di coordinamento del Veneto la ripropone.

Il rischio che vedo, a questo punto, è che il relativo ritardo delle dolomiti venete nell'attrezzarsi per il turismo conduca a seguire moduli di intervento che altrove sono superati: a puntare insomma, per una malintesa concorrenza, alla realizzazione di impianti di risalita e caroselli, ad un indiscriminato aumento della ricettività, al conseguente aumento dei carichi urbanistici indotti. Ed a giungere allora, su questa strada, al deperimento della risorsa fondamentale dell'attività turistica.

Non voglio rubare spazio alla relazione che Diego Cason terrà domattina, ma credo che qualche considerazione sul turismo sia a questo punto utile.

9. Il "turismo di massa" sta diventando, in tutto il paese, da un lato una grande occasione di incremento del reddito, dall'altro lato un grande fattore di degradazione dell'ambiente. Le aree più minacciate sono proprio quelle nelle quali, per essere le qualità ambientali (naturali e storiche) più accentuate e più famose, la pressione del consumo turistico è più forte. Da questo punto di vista io credo che il possibile destino, e quindi anche le possibili misure da assumere per indirizzarlo da una parte o dall'altra, siano molto simili in una prestigiosa vallata alpina e in un rinomato centro storico.

Molti esperti del settore ritengono che nei centro storici (e in modo secondo me del tutto equivalente nelle aree a maggior pregio "naturalistico") si debbano svolgere azioni rivolte contemporaneamente in due direzioni.

Da un alto, a qualificare l'offerta turistica: a premiare la qualità sulla quantità, e quindi a migliorare il livello dei servizi, a rendere più direttamente percepibili e fruibili le qualità (naturali o storiche) che caratterizzano i singoli siti, ad allargare i periodi di visita e a ridurre drasticamente le punte, a diversificare l'offerta, e così via.

Dall'altro lato a promuovere quello che Luigi Scano ha recentemente definito "razionamento programmato"[7].

È necessario, cioè definire per ogni bene potenzialmente oggetto di fruizione turistica, qual'è il massimo carico urbanistico che esso può sopportare nei diversi archi di tempo considerati, senza che subentrino elementi di degrado. Ma è poi necessario porre in atto politiche di pianificazione territoriale e urbanistica, di dimensionamento o ridimensionamento dell'offerta, di gestione della domanda (prenotazioni, assegnazioni di turni ecc. ), che consentano di assicurare che, nella realtà, questi determinati carichi non vengano superati.

Così, ad esempio, una volta determinato che in una vallata (o in un complesso monumentale, o in un centro storico) la presenza massima di turisti sopportabile senza degradare l'ambiente e ridurre la stessa qualità della sua fruizione è di tot unità, si tratta di dimensionare gli accessi, la ricettività, i servizi e così via, in modo che essi non consentano il formarsi di un carico maggiore; e si tratta contemporaneamente di organizzare e gestire un servizio di informazioni per l'accesso e la prenotazione, e un servizio di monitoraggio, che consenta di indirizzare i fruitori in relazione all'offerta disponibile.

10. Più in generale, mi sembra certo che una politica del territorio volta a trovare una sintesi, non solo teorica ma operativa, tra salvaguardia e sviluppo, tra l'esigenza di preservare e accrescere il patrimonio ambientale e quella di fare della sua fruizione una occasione di crescita civile, sociale ed economica, cosa che richiede una visione unitaria e una applicazione estesa e rigorosa del metodo della pianificazione territoriale e urbanistica e della programmazione di settore.

E quando si tratta di una realtà unitaria per struttura, vocazione, usi potenziali, problemi, qual'è indubbiamente quella delle Dolomiti, allora mi sembra che sia anche necessario superare i limiti amministrativi, per impedire che essi frantumino la coerenza dell'azione necessaria.

Sarebbe assai utile, a questo proposito, che le tre regioni dolomitiche - il Veneto, il Trentino, l'Alto-Adige - cominciassero a coordinare le loro politiche territoriali: in materia di parchi, i quali spesso interessano ecosistemi che

superano i confini (una volta una foresta era un limite, oggi un possibile elemento di unione); come in materia di indirizzi della pianificazione territoriale; come in materia di infrastrutture; e anche in materia di indirizzi da assumere, e di parametri organizzativi da promuovere, per la gestione di quella realtà per sua natura ostile ai confini che è il turismo.

Ed io credo, per concludere che gli stessi organi centrali dello Stato - il Governo e il Parlamento - non possano restare insensibili rispetto ai problemi che le Dolomiti pongono. Lo Stato di fatto influisce sull'assetto del territorio dolomitico:

con le sue politiche infrastrutturali (pensiamo alle ferrovie, all'Anas, alle concessioni autostradali), con i parchi e le riserve naturali nazionali, con le politiche energetiche e così via.

Anche allo Stato bisogna chiedere di dare coerenza ai propri interventi sul territorio, e di definirli in una intesa con le regioni che non sia a foglia di carciofo, ma si manifesti con il confronto di quadri di coerenza.

Allo Stato, del resto, è affidato il compito di esercitare - come ricordavo - l'indirizzo e il coordinamento anche attraverso la definizione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio. La necessità di affrontare unitariamente, coordinando una pluralità di regioni, i problemi della tutela ambientale e dello sviluppo economico e sociale in un'area così significativa com'è quella dolomitica - questo segmento omogeneo e rilevante dell'intero arco alpino - potrebbe richiedere uno sforzo congiunto di questa portata, che coinvolga Stato e Regioni non come possessori di competenze conflittuali, ma come tessitori di un migliore destino per le Dolomiti.

[1] Vedi, ad es., gli scritti raccolti in: INU, Annuario 1988 Jahrbuch, pubblicazione della sezione Trentino-Alto-Adige dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, Comitato Provinciale dell'Alto-Adige.

[2] "La pianificazione paesaggistica nella provincia autonoma di Bolzano - scheda critica", ibidem.

[3] Vedi la monografia regionale "Provincia di Trento" in: INU, Rapporto sullo stato di attuazione della Legge 431/1985, Quaderni di urbanistica informazioni, n. 4, Roma 1988. Il quaderno contiene i risultati di una ricerca svolta dall'INU per i gruppi parlamentari comunisti.

[4]Ibidem

[5] Regione Veneto, Programma regionale di sviluppo 1988-1990, cap.4.2.

[6]

Ibidem, cap. 9.10. .

[7] Mi riferisco a una relazione tenuta a un seminario sul tema: "Centri storici: tra uso, abuso e abbandono", organizzato dal Pri Roma, 4 aprile 1989, atti in corso di stampa

Tra le ragioni che hanno indotto a pubblicare il Catasto napoleonico ce n'è anche una squisitamente conservativa. Da qualche anno i pochissimi esemplari disponibili (all'Archivio di Stato dei Frari e al Comune di Venezia) sono oggetto di così frequente consultazione da far temere, nonostante l'attenzione e la cura con cui sono custoditi, in un loro rapido deperimento. Da qualche anno, infatti, si affollano a leggere le informazioni territoriali fornite dal Catasto napoleonico, oltre agli studiosi di sempre, numerosissimi studenti, architetti, urbanisti, proprietari e operatori immobiliari.

Perché, centottant'anni dopo, un cosi intenso e rinverdito interesse per questo prodotto - forse il più raffinato e moderno - della dominazione francese? È una domanda cui può essere utile cercar di rispondere, anche per comprendere meglio in quale odierno contesto - ideale, culturale e pratico - questo oggetto, tracciato in punta di penna e tenuemente colorato, si collochi.

Il Catasto napoleonico è indubbiamente, al di là della sua originaria finalità censuaria, una rappresentazione geometricamente esatta, e attendibile, della forma della città qual era agli inizi del 1800. Insieme alle altre cartografie storiche, ma con ovvia maggior precisione rispetto a quelle che i reggitori della Serenissima formarono a partire dal xv secolo, esso documenta la forma e la scansione dei lotti, i limiti e la posizione degli edifici, le utilizzazioni dei terreni, e quelle che oggi chiameremmo opere di urbanizzazione (cani, campi, canali, ponti, rive), così come questi fondamentali elementi dell'assetto fisico urbano erano alla data del rilevamento.

Insieme alle altre mappe storiche, il Catasto napoleonico consente perciò di leggere e interpretare l'evoluzione fisica della città. t un ausilio prezioso per individuare le parti del tessuto urbano dove le modificazioni intervenute nel tempo hanno conservato, o proseguito, la trama costituita dalle dimensioni e dalla forma dei lotti e degli edifici, dai loro reciproci rapporti e dalle loro posizioni rispetto alle vie e agli spazi comuni. Per comprendere, insomma, dove le nuove esigenze che via via maturavano hanno condotto a estendere l'edificato o a trasformare le unità edilizie nel rispetto delle non scritte regole formative della morfologia urbana, e dove invece gli eventi successivi (togliendo o aggiungendo terra e volumi, accorpando o suddividendo lotti, riempiendo o scavando rii e canali) hanno violato quelle regole, con maggiore o minore brutalità.

Oggi, l'individuazione e il rispetto delle regole formative della morfologia urbana è l'obiettivo (uno dei principali) cui è volta ogni ben orientata azione di pianificazione urbanistica del territorio conformato dalla storia: in primo luogo quindi, sebbene non esclusivamente, delle città storiche. Ecco quindi l'interesse, e l'utilità, di documenti quale il Catasto napoleonico per chiunque, per ragioni operative o per ragioni di studio e d'esercitazione, debba o voglia cimentarsi nella delicata e complessa impresa di programmare le trasformazioni urbane, o di valutare la conformità dei singoli interventi, da operare su questo o su quest'altro immobile, con l'imperativo della tutela dell'eredità e della qualità del passato. Ed ecco, anche, l'utilità di quei documenti per il proprietario, o per l'operatore immobiliare, che vogliano comprendere i limiti e le condizioni cui è soggetto il loro intervento.

Ma tra tutte le cartografie storiche geometricamente esatte, e attendibili, il Catasto napoleonico veneziano riveste un'importanza che ne fa un documento in qualche modo unico, e ancor più prezioso e utile degli altri.

Il Napoleonico rappresenta e misura Venezia in un momento assolutamente singolare della sua storia. Esso ci mostra Venezia raffigurata com'era quando, dopo dieci secoli di vita, era caduta definitivamente la Repubblica serenissima: quel sistema di reggimento della cosa pubblica (e di garanzia dell'espansione delle fortune private) tra i più raffinati e compiuti, in ispecie per la politica territoriale e urbanistica, che l'occidente abbia conosciuto. Il Catasto napoleonico è quindi come l'estremo lascito, e insieme l'immagine, della. compiutezza statuale della Venezia sovrana.

Quella Venezia, la Venezia della fine del xviii secolo, era anche la città che aveva raggiunto il massimo della sua compiutezzaformale, del suo equilibrio. Fino ad allora, le trasformazioni che si erano succedute avevano sostanzialmente rispettato quelle regole formative della città di cui si diceva. Le continue mutazioni, che caratterizzano ogni organismo vivo, erano avvenute all'interno di un sistema di norme, di principi, di codici scritti e non scritti, di tecniche costruttive e di repertori (all'interno di una cultura) certo non fissi, non immuni da progressi e da cadute, ma che la civiltà veneziana era stata capace di modificare, di arricchire, di perfezionare senza lacerazioni né traumi.

Dopo di allora si apre quella fase ottocentesca - sul cui abbrivio lo sviluppo è poi proseguito quasi fino ai nostri anni - inducendo nella forma urbis deformanti, seppure fortunatamente parziali, stravolgimento. Quella fase nella quale si manifesta la contraddizione - non ancora compiutamente risolta - espressa nel giudizio di E.R. Trincanato: «sventramenti, colmate di canali e sistemazioni edilizie [che] mostrano tutta l'impotenza pretenziosa e nulla della civiltà borghese che ci ha preceduti [ma] nello stesso tempo ci danno un'idea abbastanza precisa della pressione esercitata dalle nuove esigenze della vita moderna in una struttura edilizia incapace di contenerla» (cfr. in G.D. Romanelli, Venezia Ottocento, Venezia 1988).

In realtà determinate trasformazioni, sebbene radicali nella loro sostanza, non avvengono istantaneamente, non sono interamente riconducibili a un episodio e a una data, e si sviluppano invece nel corso di processi che interessa- no archi di tempo non brevi. Così, la sostituzione alle precedenti delle regole e delle tecnologie proprie della cultura degli sventramenti, del cemento armato, dell'indifferenza al sito e anzi della violenza su di esso, non è stata né repentina né totale. Tanto che ancor oggi, quando ormai quella cultura sembra ormai superata e si è agli albori della cultura del recupero, del restauro urbano, della conservazione intelligente, ancora permangono residui delle regole e delle tecnologie preottocentesche, sopravvissute alla bufera dell'età dello sviluppo senza limiti né remore.

E tuttavia se, nonostante questa consapevolezza del perenne intreccio tra vecchio e nuovo, una data si vuole assumere come discrimine tra il processo culturale e storico di formazione di Venezia e la rottura provocata dalla «cultura del cemento armato», è con piena legittimità, e con significato non meramente simbolico, che può essere assunta quella della caduta della Serenissima. E se poi un'immagine può rappresentare più compiutamente di altre la forma urbis maturata prima di quella rottura (e quindi, in qualche modo, all'apogeo di quel processo storico) essa è quella disegnata dai diligenti geometri che composero il Catasto napoleonico.

Ragionare sui motivi specifici dell'attenzione che oggi il Catasto napoleonico richiama induce a una riflessione più generale. Poiché, al di là dei motivi pratici e di quelli culturali, c'è forse una ragione di fondo che sta alla base dell'interesse per il Napoleonico e lo accomuna a quello suscitato in questi anni, in Italia e non solo in Italia, per tutte le testimonianze materiali della nostra storia.

t un interesse non solo scientifico e culturale, ma vitale. Non riguarda solo alcune élite, ma porzioni vastissime, e crescenti, dell'opinione pubblica colta e meno colta. Non coinvolge solo né tanto quanti, per età, sono quasi fisiologicamente inclini a volgere lo sguardo al passato, ma soprattutto i giovani.

t un interesse che si manifesta in mille episodi e situazioni, apparentemente disparati. Dalle fortune della letteratura storica, all'afflusso di visitatori che affollano i musei e le mostre che indagano i più remoti passati o ne esibiscono gli oggetti, alle innumerevoli vicende (in ogni città e quartiere e paese e villaggio) di riconoscimento e difesa delle residue tracce lasciate dalla storia nel territorio urbanizzato e in quello rurale.

È come se la memoria storica fosse diventata un bisogno dell'uomo contemporaneo. Non tanto quella memoria che trova il suo alimento nei grandi accadimenti dell'umanità, nell'avventura dei popoli e delle civiltà, nel succedersi e concatenarsi delle stirpi, dei reami, delle classi. Non tanto, insomma, la Storia maiuscola, quella «generale», ma soprattutto il frantumarsi e riflettersi di questa nella miriade di avvenimenti precisamente localizzati, legati al sito in cui ciascuno di noi vive: la storia riconoscibile nel quotidiano di oggi, presente - con le sue materiali testimonianze di edifici e ruderi e vie e paesaggi e attrezzi - nel breve cerchio dell'esperienza d'ogni giorno.

Il fatto è che, oggi come sempre, per un popolo non esiste civiltà senza consapevolezza delle proprie radici, senza memoria della propria storia. Oggi, però, qualcosa è cambiato rispetto ai millenni che ci hanno preceduto.

È come se, per effetto di quel particolare sviluppo che abbiamo conosciuto nei secoli più recenti della nostra storia, si fosse rotto (non solo a Venezia, ma in tutto il mondo toccato dalla rivoluzione capitalistico-borghese) quell'elemento di continuità nell'evoluzione delle tecniche, dei modi di abitare e di vivere, di costruire e di comunicare, che per secoli e secoli ha consentito all'uomo, per così dire, di vivere la propria storia nella ripetizione di gesti quotidiani omogenei a quelli compiuti dieci o cento generazioni prima.

t come se oggi, allora, la memoria storica, non più godibile in modo direttamente esistenziale, fosse raggiungibile solo mediatamente, culturalmente: con l'intelligenza del comprendere e dell'analizzare più che con la sensibilità del vivere.

Anche il Catasto napoleonico, come tanti altri segni dai quali è testimoniato lo spessore della civiltà di cui siamo parte, è perciò - oltre che un insegnamento, un ausilio tecnico, uno strumento per operare - un modo per trovare il sentimento della storia: un pegno del passato, e perciò stesso un talismano per il nostro futuro.


Dalla Tavola 24 del Catasto napoleonico

Si veda anche, cliccando qui, la Presentazione dell’opera, scritta da Maria Francesca Tiepolo, allora eccezionale Direttore dell’Archivio di Stato di Venezia.

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