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Una legge di sinistra? No, una legge liberale, quella che un gruppo di “amici di Eddyburg” ha presentato alla Sala delle colonne della Camera dei deputati.

Liberale come erano quegli uomini che, per promuovere la crescita del profitto e del suo reinvestimento nel processo produttivo, contrattavano il prezzo dell’indispensabile “merce” costituita dalla forza lavoro, ma colpivano senza risparmio la rendita, considerandola una componente meramente parassitaria dell’economia. Colpivano oppure, in Italia, predicavano la necessità di colpire, non avendo avuto compiutamente la forza di farlo. “Prediche inutili” intitolò un grande liberale, Luigi Einaudi, una collana di aurei libretti.

Liberale come erano quegli uomini che compresero molto presto che esistono questioni che il mercato, essenziale per misurare il valore di scambio delle merci, non solo non sa affrontare, ma anzi continuamente aggrava se lasciato libero a se stesso. Il metodo della pianificazione urbanistica, ossia della decisione a priori delle trasformazioni da promuovere o consentire nel territorio della città (del suo disegno) non fu inventata nei paesi del socialismo reale, ma in quelli del capitalismo avanzato. E ovunque vigesse un regime democratico la responsabilità ne fu affidata agli istituti che esprimevano la collettività: le comunità locali, lo stato,le “autorità” espressive del popolo.

L’Italia è un paese strano. La rendita (immobiliare e finanziaria) non è avvertita come un impiego alternativo di risorse rispetto alla crescita dell’accumulazione (quindi alla ricerca di innovazioni, al miglioramento della qualità del prodotto, all’aumento dei salari e quindi del potere d’acquisto dei consumatori), da contrastare e ridurre per aumentare il “tasso di capitalismo”, il peso e l’efficacia della produzione industriale, la concorrenza sul mercato globale. È considerata invece come un fattore di sviluppo. Certo che lo è, ma solo per le ricchezze personali dei suoi percettori, non per la ricchezza del paese.

Del tutto omogenea a questa impostazione italiota è la “legge Lupi” sulla pianificazione urbanistica, approvata dalla Camera (ma non dal Senato) nella passata legislatura. Una legge che smantellava il potere pubblico della pianificazione e attribuiva un ruolo centrale alla proprietà immobiliare, Una legge che, sull’onda delle fortune del neoliberismo e della diffusione di slogan come “meno stato e più mercato”, “privato e bello” e simili, ha incontrato qualche simpatia anche a sinistra, tanto che si è potuta chiamarla una legge bipartisan.

La legge degli “amici di Eddyburg” nasce per contrastare la legge Lupi e per dare una risposta positiva alla domanda di rilancio della pianificazione del territorio: un rilancio aggiornato, che risponda alle nuove domande e alle nuove attese. La legge si apre con un’affermazione forte: il territorio è un bene comune, e la responsabilità del suo governo appartiene ai poteri pubblici, che la esercitano impiegando il metodo e gli strumenti della pianificazione territoriale e urbana.

Oltre al ripristino dei principi cardine della pianificazione, due temi sono posti al centro della legge: il consumo di suolo e i diritti delle cittadine e dei cittadini all’uso della città.

Ridurre il consumo di suolo, contrastare la proliferazione delle urbanizzazioni e la sottrazione di terreno al ciclo naturale, eliminare gli sprechi (di tempo, soldi, energia, terra) dovuti alla disseminazione di funzioni urbane su vaste aree: sono tutte facce d’un fenomeno che moltissimi stati europei (e USA) stanno contrastando da molto tempo. In Italia, non c’è nemmeno una misura ufficiale dell’entità del fenomeno: si sa solo che è gigantesco e che distrugge qualità, funzionalità, risorse in misura crescente. La stessa pianificazione urbanistica corriva agli interessi immobiliari e a uno ”sviluppo” misurato in metri cubi edificabili, spesso lo promuove. La proposta di Eddyburg suggerisce alcune prescrizioni che, se adottate, permetterebbero finalmente di combatterlo.

Nella stagione delle riforme (quelle vere, negli anni 60 e 70), grazie alla sollecitazione del movimento delle donne e delle più avanzate esperienze amministrative, si era riconosciuto il diritto di ogni cittadino della Repubblica a godere di una determinata dotazione minima (standard) di aree da utilizzare per spazi e servizi pubblici. Questo diritto era stato “regionalizzato” e reso opzionale dalla legge Lupi. Il testo di Eddyburg lo conferma e lo ribadisce, e lo estende ad altri diritti sociali cui la pianificazione urbanistica deve dare il suo contributo: il diritto a un’abitazione decorosa a un prezzo compatibile con la capacitò di spesa, il diritto ad accedere alle diverse funzioni presenti sul territorio con un sistema di mobilità efficace e non costoso. Il che non significa solo mezzi di trasporto efficaci, ma in primo luogo corretta distribuzione degli insediamenti sul territorio.

Camminerà la proposta degli “amici di Eddyburg”? Lo vedremo, forse, già nei prossimi giorni.

Qui l'articolato e qui la relazione della proposta di legge di principi per la pianificazione del territorio

Se questo disegno di legge dovesse passare, professor Salzano, cosa cambierà nell´urbanistica?

«Il motore delle decisioni sul territorio diventa la proprietà immobiliare. Nella logica della proposta Lupi chi è ammesso al tavolo delle decisioni sono i privati "interessati". E nel nostro paese gli "interessati" alle trasformazioni urbanistiche non sono considerati i cittadini, ma la grande proprietà immobiliare. Fino a oggi chi decideva erano le amministrazioni pubbliche, cioè i rappresentanti eletti dai cittadini, difensori degli interessi generali. Adesso, si dà legittimità piena alle decisioni di chi ha un interesse personale».

Quindi questa legge è il prodotto di precisi interessi?

«Mi sembra evidente. Oggi, però, gli interessi immobiliari non sono più quelli dei grandi feudatari (come era, ad esempio, ai tempi del sacco di Roma denunciato dal Mondo e dall´Espresso negli anni Cinquanta e Sessanta) ma le banche, le industrie decotte, i grandi gruppi finanziari che si arricchiscono più con le operazioni finanziarie e immobiliari che con le attività imprenditoriali».

Fra i motivi che spingono i promotori della legge, c´è quello di modificare procedure che nel tempo si sarebbero invecchiate.

«È un alibi. Dove una "cultura della pianificazione" si è affermata, i tempi dei piani urbanistici si sono accorciati: in Emilia Romagna un piano si approva in pochi mesi. E poi la lunghezza dei tempi non dipende tanto dalle procedure, quanto dalle indecisioni dei politici. Certo, anche dalla procedure c´è molto da tagliare: ma da almeno dieci anni le regioni meglio amministrate hanno applicato leggi le quali, pur lasciando la pianificazione in mani pubbliche, hanno individuato il modo di abbreviare i tempi».

Quali sarebbero, secondo lei, i punti principali di una riforma della legge del ´42?

«Dal 1970 la legislazione urbanistica è di competenza delle regioni, nell´ambito dei principi stabiliti dalla legge statale. Il Parlamento nazionale dovrebbe limitarsi a poche decisioni. A garantire che il cittadino (e non il portatore d´interessi immobiliari) partecipi alle decisioni. A tutelare il patrimonio comune: penso al paesaggio rurale o alla regola di consentire nuove occupazioni di terreno solo dove ne sia dimostrata la necessità. A confermare quanto la Corte costituzionale ha più volte ribadito: che i vincoli paesaggistici e culturali non richiedono nessun indennizzo».

La presentazione di Francesco Erbani

L'intervento a favore, di Luigi Mazza

L’INU, dopo il Sessantotto

A Napoli, nel novembre 1968, la contestazione studentesca aveva travolto “l’istituto d’alta cultura eretto in ente morale”. Mentre Bruno Zevi e Mario Fiorentino, Giuseppe Samonà e Luigi Piccinato e gli altri dirigenti dell’INU aprivano il 12° Congresso nazionale, alla presenza delle consuete Autorità (Ministro e Sindaco, Vescovo e Prefetto), ecco che gli studenti delle facoltà di architettura rivestivano la sala di manifesti beffardi, invadevano il palco, e infine lo sommergevano con un lancio di rotoli di carta igienica adoperata a mo’ di stelle filanti. Qualche Autorità, prudentemente eclissatasi dalle quinte del Teatro della Mostra d’oltremare (dove si svolgeva la cerimonia), aveva allertato la polizia: la Celere irruppe dal fondo della sala, con elmetti e manganelli. Giuseppe Campos Venuti, già allora autorevole membro dell’INU, balzò sul palco, afferrò il microfono e scongiurò la polizia di non picchiare gli studenti, “questi nostri figli ed allievi”.

Si chiuse allora una fase della vita dell’INU. I rotoli di carta igienica della contestazione studentesca avevano seppellito (sembrava per sempre) l’INU legato da rapporti di collaborazione professionale e di consulenza critica ai ministri e ai ministeri. Del resto, ogni speranza di riforma urbanistica era scomparsa, e con essa il legame ideale che connetteva figure culturali e professionali diverse.

Una nuova fase

Ma una nuova fase si aprì. Un piccolo gruppo di soci (Edoardo Detti e Marco Romano, Sandro Tutino e Vincenzo Cabianca) riprese a tessere la tela di una proposta culturale e politica. L’interesse si spostò dai rapporti di collaborazione con le autorità, nel tentativo di convincerle ad impostare una politica urbanistica moderna, all’attenzione verso il variegato campo delle forze sociali che animavano la vita politica e culturale dell’Italia di quegli anni. Gli urbanisti ai quali ci si rivolgeva per coinvolgerli nella ricostruzione dell’istituto erano più i giovani e i tecnici delle amministrazioni pubbliche, che i professori e i professionisti. L’elaborazione si rivolgeva più alla definizione di piattaforme di interpretazione e proposta politico-culturale comprensibile ai nuovi interlocutori sociali (sindacati operai, amministrazioni locali, “forze di base”). Il tema che cominciava ad affiorare era quello dello “sfruttamento capitalistico del territorio”: della sua analisi e denuncia, dell’individuazione di alternative praticabili.

L’apertura ufficiale della nuova fase fu il convegno che si svolse a Bologna, nel 1970. Il tema era “Il controllo pubblico del territorioper una politica della casa e dei servizi”. Me ne raccontò Vezio De Lucia, giovane architetto del ministero dei lavori pubblici, con cui dividevo una stanza al Servizio studi e programmazione del Ministero dei lavori pubblici (facevamo parte entrambi, lui come funzionario io come contrattista, di una task force messa su da Marcello Vittorini, nel tentativo di imprimere una svolta riformatrice al ministero di Porta Pia). Vezio, sconosciuto ai membri dell’INU, aveva fatto a Bologna un intervento che era piaciuto molto: argomentava il valore e il significato del ruolo pubblico dell’urbanista. Era stato cooptato nel gruppo dirigente ed eletto membro del nuovo consiglio direttivo nazionale.

“Da che parte sta l’INU?”

Un giorno, reduce da una riunione del direttivo dell’INU, mi raccontò di un evento che aveva scandalizzato i suoi colleghi ma al quale non sapevano come reagire. La seziona campana dell’INU (una delle poche allora esistenti) aveva eletto suo presidente un professionista (l’avvocato D’Angelo) noto per aver difeso un gruppo di speculatori immobiliari contro il Comune di Napoli. “Perché non intervieni sull’ Unità?”, mi chiese (allora avevo facile accesso al quotidiano del PCI). Scrissi una nota, nella quale sottolineavo la contraddizione tra un INU che, a livello nazionale, si rinnovava nel segno di una maggiore radicalità nella critica e nella proposta, riferendosi a interlocutori nuovi rispetto all’ establishment governativo, e che invece, a livello locale, si presentava addirittura come portavoce di interessi economici totalmente agli antipodi sia di quelli tradizionali che – a maggior ragione – di quelli nuovi. “Da che parte sta l’INU?”, titolava la redazione dell’ Unità il mio pezzo, pubblicato con evidenza al piede della terza pagina.

Al gruppetto dirigente dell’INU la mia uscita piacque molto. Edoardo Detti, che allora e per molti anni ne fu l’amatissimo presidente. Incaricarono Vezio di chiedermi se ero disposto a fare l’”ufficio stampa” dell’INU (senza risorse, s’intende). Dopo un incontro con il Consiglio direttivo, preparai un documento nel quale proponevo una piccola iniziativa editoriale, semplice e anzi povera nella forma, ma costruita e gestita insieme a un ventaglio ampio d’interlocutori: quelle “forze di base” alle quali allora si rivolgeva l’attenzione dell’INU. Avrebbe dovuto essere una pubblicazione capace di informare, formare e mobilitare: attivare interessi, iniziative, relazioni soprattutto tra gli “utenti della città”. La proposta fu approvata, l’INU si impegnava senz’altro su quella strada (quanto alle risorse, poi si sarebbe visto).

Partiamo da soli

Cominciai un laborioso percorso di ricerca di consensi. I sindacati in primo luogo: erano loro che avevano ripreso lo scontro, a livello nazionale, sui temi della città e del territorio, con lo sciopero generale del 19 novembre 1969. La CGIL e la CISL si rivelarono subito interessati, ma guardinghi, soprattutto nei riguardi della collaborazione con altre strutture. Poi l’ARCI e l’UISP, due organizzazioni sociali dedicate ad iniziative associative sul terreno della ricreazione e dello sport, entrambe impegnate agli argomenti che erano al centro della nostra attenzione: come mobilitare gli utenti della città per migliorarne le condizioni. E l’Unione donne italiane, organizzazione che si era battuta con grande maturità sulle questioni della città e dei servizi, ed era stata tra le forze che avevano spinto perché si arrivasse al “decreto sugli standard” del 1968. Con le cooperative facemmo una scelta prudente: scegliemmo di assumere come interlocutore la cooperazione di consumo, non quella di produzione: ci sembrava più pertinente al nostro campo d’azione. Infine, le rappresentanze degli enti locali: l’ANCI era troppo “parlamentarizzata” per poter offrire spazi significativi alla nostra azione, preferimmo l’associazione delle amministrazioni della sinistra, la Lega per le autonomie e i poteri locali.

I colloqui furono positivi. L’interesse dei nostri interlocutori vivo. Ciò che era del tutto assente erano le risorse: non solo quelle finanziarie, perfino le persone fisiche con le quali incontrarci e preparare il progetto erano un problema. Eccetto Bruno Roscani, della CGIL, che seguì sempre in modo realmente fraterno il mio sforzo, gli altri erano tutti sopraffatti dai problemi e dai compiti delle rispettive organizzazioni (tutte poverissime e basate sul volontariato: lì non arrivavano soldi né da Mosca né da Tangentopoli).

Riferii al Consiglio direttivo. La risposta fu: partiamo da soli. Con qualche amico (soprattutto Vezio) preparai un progetto molto artigianale, una struttura articolata di argomenti e rubriche, un menabò e un progetto grafico, una rete di collaboratori. La proposta fu discussa, approvata. Partimmo. Si riuscì a racimolare una piccola somma per un incarico di collaborazione nel suolo di segreteria di redazione che fu svolta (insieme a Giulio Tamburini) da Laura Falcone Ferrari.

Gli obiettivi della nuova rivista

Nacque così Urbanistica informazioni. L’obiettivo primario e istituzionale era quello di dar voce all’INU. La rivista ufficiale, Urbanistica, era in crisi profonda. Giovanni Astengo, fondatore ed artefice (con il mecenate Adriano Olivetti) della prestigiosissima rivista italiana di urbanistica, non riusciva a risolvere la pesantissima situazione debitoria e a far uscire gli elaboratissimi fascicoli con una qualche continuità. La nuova pubblicazione non doveva in alcun modo contrapporsi alla maggiore: secondo l’espressione di Detti doveva essere “un bollettino”. Ma la strategia politico-culturale che l’Istituto aveva scelto richiedeva che si facesse qualcosa di più che informare i soci delle iniziative, dei documenti e delle posizioni dell’INU.

Le finalità erano espresse nell’editoriale del numero 1 (gennaio 1972). Esse erano al servizio della nuova linea culturale dell’Istituto, la quale

si caratterizza per alcune scelte fondamentali. In primo luogo, il rifiuto di un collegamento con le forze dirigenti del paese che si riduca alla ricerca di accordi ai vertici governativi e ministeriali, e l'impegno, invece, a porsi come strumento di stimolo e di servizio nei confronti delle classi lavoratrici, delle forze popolari, delle organizzazioni che le esprimono e le rappresentano, delle istanze sociali di base. In secondo luogo, il rifiuto di ogni collegamento - che non sia quello della critica e dello scontro aperto - con le forze, i gruppi e le persone che tendono a utilizzare il territorio come luogo sul quale operare, in forme vecchie o nuove, per lo sfruttamento sull'uomo, per l'appropriazione individualistica o aziendalistica, o per la dilapidazione, delle risorse della collettività. In terzo luogo, il superamento della tradizionale concezione « liberal-professíonitica » del ruolo dell'urbanista, e quindi la sollecitazione e il sostegno al formarsi di strutture tecniche pubbliche e democraticamente controllate per la gestione del territorio, a livello dei comuni, dei comprensori, delle regioni e degli organi centrali dello stato. In quarto luogo, infine, l'impegno all'approfondimento dell'analisi scientifica dei feno- meni che si manifestano sul territorio, delle forze che li determinano, delle alternative proponibili.

Nel quadro di questa linea, e degli strumenti necessari per costruirla, Urbanistica informazioni assumeva come suoi obiettivi essenziali quelli di

fornire ai suoi lettori un panorama, il più completo possibile, degli avvenimenti che più incidono sull’assetto territoriale e urbanistico del paese, di raccogliere e render note le prese di posizione degli organi dell'Istituto, di attivare il lavoro delle sezioni regionali, di facilitare il raccordo, attorno a queste, dei sociali e degli enti locali che operano nella nostra stessa direzione.

Priorità all’informazione

La strada che si scelse fu insomma quella di una informazione a tutto campo: ricca nel numero degli eventi riferiti, e perciò sintetica nell’esposizione; rivolta a informare su ciò che avveniva in tutti i luoghi, non solo sugli avvenimenti del Palazzo; non dedicata solo né primariamente agli aspetti tecnici e “disciplinari” ma soprattutto a ciò che modificava i poteri e i modi di vivere. Una informazione utilizzabile dagli urbanisti, ma anche da parte di tutti i soggetti impegnati nella concreta trasformazione delle condizioni d’uso della città.

La redazione era formata interamente da soci dell’INU, che lavoravano volontariamente. Alla redazione centrale era affidato il coordinamento e la redazione delle parti di carattere nazionale, ma in ogni regione venne individuato un redattore regionale, il cui compito era quello di sollecitare e predisporre informazioni sulle situazioni locali. Il ruolo dei redattori locali fu molto importante: essi infatti costituirono l’innesco del processo di regionalizzazione dell’INU, che allora si cominciava a perseguire (le sezioni regionali erano solo la lombarda e la campana, e praticamente non svolgevano attività).

I “pezzi” (non li chiamavamo articoli, per sottolineare il loro carattere meramente strumentale alla copertura dell’informazione) non erano firmati, ma recavano solo la sigla dell’autore. Anche con questo volevamo sottolineare il carattere collettivo del prodotto, l’attenzione per la (tendenziale) completezza del panorama fornito più che per l’espressione delle “idee” dell’autore. Del resto, gran parte del lavoro mio (e di quelli che più direttamente mi aiutavano) era quello di asciugare i pezzi che arrivavano: di eliminare il superfluo e di ridurne lo spazio a una dimensione coerente con l’importanza della notizia. Eravamo noi stessi che impaginavamo la rivista. Io avevo fatto il progetto grafico;con Vezio De Lucia costruivamo l'impaginazione incollando le bozze dei pezzi, che in grandissima parte scrivevamo noi stessi. Giulio Tamburini, Valeria Erba, Sandro Dal Piaz, Laura Falconi Ferrari, Felicia Bottino, Giusa Marcialis, Luigi Falco, Antonino Trupiano erano, nella fase iniziale, i collaboratori più assidui.

Molti mi dicono oggi che le annate di Urbanistica informazioni sono un archivio insostituibile per chi voglia conoscere gli avvenimenti che hanno inciso sul territorio, in quegli anni. Credo che questo dipenda proprio dallo sforzo che abbiamo fatto per rendere massima la quantità delle informazioni fornite, rinviando gli approfondimenti ad altre sedi e strumenti. Del resto, che informare fosse un compito particolarmente rilevante derivava anche dal fatto che – allora quasi come oggi – la grande stampa era di un’avarizia e una disattenzione estrema nell’informare sugli eventi dell’urbanistica.

Non solo informazione

Accanto alle informazioni, i commenti: quelli ufficiali dell’INU, cui era dedicata un’apposita rubrica, e quelli della rivista. Questi ultimi trovavano la loro espressione essenzialmente negli editoriali, che scriveva il direttore: li scrissi tutti, (fino a quello dell’ultimo numero da me diretto, il 125/126 del 1992) ad esclusione di due che, a differenza degli altri, vennero firmati dagli autori, Detti e De Lucia. Per molti anni, li sottoponevo all’attenzione del Consiglio direttivo, perché fossero espressione anche della linea dell’Istituto nel suo complesso[1].

Più avanti, introducemmo alcune rubriche che si ponevano compiti più ampi di documentazione e di formazione. Mi sembra ancor oggi una buona idea quella della Antologia, nella quale presentavamo testi molto diversi – come taglio, argomento, autore – tutti volti ad allargare il campo d’interesse dei lettori, soprattuitto i più giovani, e ad attirare la loro attenzione su autori, discipline o temi che andassero al di là dell’immediato: una rubrica sviluppata poi, con intelligenza e curiosità, da Franco Girardi. Buon successo ebbe anche la rubrica Dossier, dedicata ad approfondimenti tematici che richiedevano più ampia articolazione; anche qui ci sforzavamo di fornire materiali per la riflessione, con la massima dose possibile di oggettività, e di scoraggiare i “saggi” nei quali si esprimevano le opinioni, o le ricerche individuali, degli autori. I dossier si trasformarono poi, grazie alla sollecitazione e al lavoro di Filippo Ciccone, nei più ampi Quaderni di Urbanistica informazioni.

Fu a Ciccone che, quando mi trasferii a Venezia e il mio impegno principale divenne quello di assessore comunale, fu affidato (nel ruolo di redattore capo) l’impegno di gestione della rivista. Ma a questo punto siamo già lontani dai primissimi anni e dalla fase iniziale, al cui ricordo mi sono proposto di dedicare queste righe.

Edoardo Salzano

Venezia, 1 settembre 2001

[1] Nel n. 125/126 pubblicai anche, a integrazione dell’editoriale, un pezzo sui “Vent’anni di Urbanistica informazioni”, nei quali davo conto più ampiamente della sua storia. Il lettore che sia interessato può trovarlo nel mio sito, http://salzano.iuav.edu.

Avevamo scherzato nel numero scorso di questa rivista, inducendo il lettore ad attribuire al Presidente del Consiglio italiano (che, mentre scrivevamo, non era stato ancora designato dal Presidente della Repubblica), le frasi molto deci­se, a favore dell'urbanistica e della pianificazione che il prémier francese, Béré­govoy, aveva da poco pronunciato. La nostra ironia si é rivelata profetica. In­fatti il Presidente del Consiglio della nostra Repubblica, l'on. Giuliano Amato, ha inserito nelle sue dichiarazioni programmatiche una frase nella quale solen­nemente il Governo si impegna a riformare le norme che riguardano "regime giuridico dei suoli e indennità di esproprio". E' la prima volta che capita, dopo moltissimi anni: forse bisogna tornare con la memoria ai governi dei primi anni '60 per trovare l'urbanistica tra le questioni prioritarie che un governo dichiara di voler affrontare.

Poco importa che la frase pronunciata dall'on Amato sia ripresa testualmente dal documento che il leader del Pds, l'on. Occhetto, aveva illustrato a nome del suo partito al Presidente della Repubblica nel corso delle consultazioni per la formazione del Governo. Il fatto che il premiér abbia accolto, nel suo pro­gramma, un tema proposto da un leader dell'opposizione adoperando le sue stes­se parole rafforza semmai l'importanza politica della dichiarazione.

E poco importa rilevare che promettere adempimenti legislativi su un tema particolare (regime degli immobili) può sembrare riduttivo rispetto al più ampio impegno di Bérégovoy, il quale, come il lettore ricorderà, ha dichiarato a Mul­house di voler fare "della pianificazione territoriale una vera priorità nazionale". E in effetti nel nostro paese (ancor più nella vicina Repubblica) la questione del regime immobiliare é il vero nodo sul quale s'infrangono, o restano insabbiate, i tentativi della pianificazione.

Interessa invece sottolineare le ragioni per cui Amato si é sentito sollecitato ad assumere quell'impegno. Per Bérégovoy, l'interesse per gli attrezzi dell'ur­banistica nasce dalla consapevolezza che la pianificazione é uno strumento indi­spensabile alla Francia per reggere vittoriosamente alla concorrenza europea. Per il nostro prémier, risolvere la questione del regime immobiliare é necessa­rio, come egli stesso ha affermato, "per consentire alle amministrazioni locali di superare definitivamente la pratica dell'urbanistica contrattata". Per la Francia, insomma, il rilancio dell'urbanistica serve per guardare al futuro, per vincere, per andare avanti. Per l'Italia, il ritorno all'urbanistica serve per difendersi dalla melma della corruzione politica ed economica. Per la Francia, l'urbanistica é un treno per l'Europa; per l'Italia, una corda afferrata per tentar d'uscire dalla pa­lude di Tangentopoli.

Resta comunque il fatto, per noi rilevante, che si é ricominciato, ai massimi livelli di governo del paese, a parlar d'urbanistica. E resta il fatto che é la prima volta che il termine "urbanistica contrattata" entra nel linguaggio politico ai livelli più rappresentativi, e che la "pratica" che quel termine esprime viene additata come qualcosa da contrastare. Era necessario un trauma per giungere a tanto: il trauma determinato dal fatto che non solo faccendieri e palazzinari, ma anche costruttori seri, presidenti e amministratori delegati di prestigiose società, e soprattutto assessori, sindaci, dirigenti politici influenti, deputati, e perfino potenti ministri ed ex ministri, sono stati acchiappati, da un pugno di magistrati coraggiosi, nella rete del codice penale. Era necessario, insomma, che esplo­desse Tangentopoli.

I nostri lettori sanno bene che cos'è l'urbanistica contrattata. Molte volte in­fatti, su queste pagine, abbiamo documentato e denunciato sia singoli episodi, sia le più complessive politiche di cui l'urbanistica contrattata é l'espressione. Gioverà tuttavia tornare sulla questione, approfittando dell'impietoso fascio di luce che su di essa ha gettato lo scandalo di Tangentopoli per riaprire la rifles­sione.

L'urbanistica contrattata:come uscirne

In sintesi, l'"urbanistica contrattata" é la sostituzione, a un sistemadiregole valide ergaomnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazionediretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere: dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costitui­scono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi de­vono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.

L'urbanistica contrattata é allora in primo luogo il trionfo della discrezionali­tà. Ma perché una prassi discrezionale possa affermarsi, é necessario che il si­stema di regole cui essa si sostituisce venga preliminarmente screditato. Il tenta­tivo, largamente riuscito, di screditare la pianificazione urbanistica é infatti il filo rosso che percorre gli anni dell'urbanistica contrattata. Si é cominciato con il condono dell'abusivismo, varato nel 1984 a conclusione di un quinquennio ricco di tensioni e di colpi di scena.

Nella strada che conduce a Tangentopoli il condono dell'abusivismo é stato un momento decisivo proprio perché ha costituito la testa d'ariete per smantel­lare l'edificio della pianificazione. E infatti, per poter condonare così estesa­mente come allora si tentò (riuscendovi in larga misura) gli interventi posti in essere contro la pianificazione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella pianificazione. E' proprio questo ciò che av­venne, nel corso del primo quinquennio degli anni '80.

Molti lettori lo ricorderanno. In quegli anni si attribuiscono all'urbanistica le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". L'urbanistica é un in­sieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo é nato e si é sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". (Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione")..

Nel commentare a caldo, nella primavera del 1985, la conclusione della vi­cenda potevamo legittimamente osservare, sul n.80 di questa rivista, che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato" Una parte consistente dell'opinione pubblica era giunta ormai a considerare l'abusivismo come qualcosa che non é un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pagare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a saldarvisi, il tema della deregulation, con­solidando così la convinzione che l'origine dell'abusivismo risiede nell'imprati­cabilità della pianificazione urbanistica. "Sicché - scrivevamo - in definitiva l'abusivismo appariva come qualcosa di assimilabile a una disubbidienza civile nei confronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si propo­neva di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbani­stica".

Alla delegittimazione culturale, sociale e politica dell'urbanistica si é accom­pagnata (come su queste pagine abbiamo puntualmente registrato) la costruzione di un vero e proprio sistema di strumenti idonei a rimpiazzare le regole date del governo del territorio con procedure di supporto alle operazioni, d'interesse smaccatamente privatistico, che scacciavano la pianificazione, così come, se­condo gli economisti, "la moneta cattiva caccia la moneta buona". Si trattava delle deroghe e della sempre più ampia estensione della loro portata, delle infini­te e incontrollate varianti agli strumenti urbanistici frettolosamente forma­te ad hoc per ogni occasione (migliaia a Firenze, per una decina di milioni di metri cubi a Milano), dell'impiego sempre più esteso dello strumento della con­cessione (cioè della delega ad aziende private di poteri pubblici), della forma­zione di consorzi di aziende (in un sapiente mix di capitale publico, spesso ca­pofila, privato, e cooperativo rosso, bianco e rosa) come attrezzo utile per ga­rantire un ampio consenso.

E' attraverso questo sistema di strumenti che si é costruita Tangentopoli. E' solo ripristinando gli strumenti della pianificazione urbanistica (di una pianifi­cazione all'altezza dei problemi, delle esigenze e delle possibilità di oggi) che Tangentopoli potrà essere distrutta. Ma é un'azione allora che, prima ancora che sul piano della legislazione, dovrà essere condotta su quello della cultura politi­ca. Occorre insomma, in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del governo del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò nei terribili anni '80 é stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti

In altri termini, solo se la politica assumerà di nuovo piena consapevolezza dell'indispensabilità del metodo della pianificazione territoriale e urbane potran­no poi, da questa convinzione, scaturire leggi adeguate e (quello che più é man­cato anche nei periodi di sufficiente produzione legislativa) una loro coerente applicazione.

Nuove normeper gli espropri

All'inizio dell'XI legislatura, é stata presentata alla Camera, dai deputati En­rico Testa, Sauro Turroni ed altri, una proposta di legge volta a dare risposte, transitorie ma immediate, ai tre più gravi nodi che stanno ponendo ostacoli quasi insormontabili alla pratica di un corretto ed efficace governo del territorio. E cioè a quello della determinazione delle indennità di espropriazione, a quello dell'efficacia e della durata dei cosiddetti vincoliurbanistici, ed infine a quello dell'adeguamento automatico dei contributi afferenti le concessioni edificatorie. Un provvedimento redatto secondo le linee che erano emerse al convegno dell'Inu tenuto a Firenze nel ... scorso.

In sede di conversione in legge del decreto-legge n. 333/1992 ("Misure ur­genti per il risanamento della finanza pubblica") l'on. Botta ha un emendamento (accolto dal Governo ed approvato) mediante il quale si é stabilito che. "fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni", l'indennità di espropriazione per le aree edificabili è determinata a norma della legge di Napoli (n. 2892/1885), "sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del te­sto unico delle imposte sui redditi", e riducendo l'importo così determinato del 40 per cento. Torneremo nel prossimo numero su questo provvedimento, per illustrarlo esaurientemente e chiarirne non solo i limiti (anche al confronto con la proposta Testa-Turroni), ma anche gli errori. Qui vogliamo limitarci a osser­vare che un risultato, quanto meno, si é raggiunto. Si é infatti tolto ai fautori dell'urbanistica contrattata l'alibi che ne sorreggeva le argomentazioni. Quanto volte, infatti, si é detto che bisognava ricorrere all'accordo con i proprietari, condizionando a questo accordo preventivo le scelte della pianificazione, sol perché altrimenti non era possibile acquisire le aree necessarie per le esigenze collettive!

Adesso l'espropriazione per pubblica utilità é di nuovo possibile, e a prezzi contenuti. Non c'è più alcuna ragione, e neppure alcun alibi, per adoperare la prassi dell'urbanistica contrattata.

Le opere sono certo importanti per dar conto della vita di un uomo pubblico, quale Edoardo Detti indubbiamente fu, e per affidare a chi non lo conobbe qualcosa del significato della sua esistenza, del suo percorso su questa terra. Tanto più, poi, quando quest'uomo è un architetto e un urbanista: un uomo che ha assunto perciò, quale proprio compito e impegno, il rendere la città, la terra, più bella per gli uomini.

In questo sta la ragione primaria per la quale abbiamo deciso di dedicare questo primo Quaderno di Urbanistica informazioni alla illustrazione della figura e dell'opera di Edoardo Detti. E ci sembra giusto che sia sulle pagine di questa rivista che si inizi una riflessione su Detti, perché fu grazie a lui che Urbanistica informazioni vide la luce. Fu lui, nel 1972, che indusse a rompere gli indugi, non attardandosi nel tentativo di costruire più ambiziosi progetti per dare voce ed espressione a un Inu che in quegli anni avviava, in fatica e in povertà, il proprio rinnovamento. Fu lui che spinse a rischiare con coraggio, nei modi artigianali, volontaristici, dimessi, che erano i soli possibili ma che per lui erano anche uno stile nel quale si riconosceva.

Ci rendiamo ovviamente conto che si tratta di un primo contributo sistematico alla conoscenza di Detti, la cui opera merita una illustrazione più vasta, compiuta e ricca. La nostra speranza è, anzi, che il materiale raccolto in questo Quaderno (grazie soprattutto all'appassionata attenzione di Mariella Zoppi) possa costituire, a un tempo, lo stimolo e la base per una più dispiegata e documentata opera su Edoardo Detti.

Le opere, dunque, sono importanti. Ma sono tutt'altro che sufficienti a cogliere (per darne conto) la ricchezza dell'apporto che un uomo come Detti ha saputo fornire alla nostra civiltà. A chi lo ha conosciuto, a chi ha avuto il privilegio di frequentarlo, c'è un aspetto di lui che rimane impresso nella memoria, resistendo al logorio che su di essa esercita il tempo che trascorre, e che nella riflessione su di lui appare decisiva e centrale: è la profonda unità che legava tutte le espressioni, tutti i momenti, tutte le dimensioni del suo essere.

Non a caso abbiamo adoperato il termine unità anziché coerenza, che primo si era affacciato alla penna. Proprio perché il modo in cui i vari aspetti del suo essere e del suo agire si componevano era del tutto privo di quel tanto di rigido e di costretto, di predeterminato e quindi in qualche modo di esterno, che il termine coerenza evoca. Erano il portato, profondamente radicato, e divenuto naturale, di un modo di esistere.

Leggendo i testi di Astengo, De Lucia, Di Pietro, Zoppi, raccolte nel Quaderno e ciascuno dedicato a illustrare uno dei momenti della sua attività «esterna», già si comprende come questi momenti fossero legati da una forte unità. Si ha subito la consapevolezza del fatto che per Edoardo Detti progettare un edificio o un piano regolatore, insegnare all'Università o dirigere l'Inu, fornire una consulenza professionale o amministra re un comune, erano momenti solo tecnicamente, strumentalmente diversi d'un unico lavoro. E già questa esplicitazione dell'unitarietà della sua figura meriterebbe di essere additata come esempio, oggi: in un momento cioè nel quale non la dialettica (che è sempre feconda) ma la contraddizione (spesso lacerante) sembra aprirsi tra momenti distinti ma (come Detti appunto insegna) non necessariamente separati o addirittura contrapposti. Non è forse vero che, oggi, il ruolo dell'«architetto» e quello dell'urbanista, il momento del «piano» e quello del « progetto», gli interessi «accademici» e quelli « culturali», le attribuzioni «tecniche» e quelle « politiche», vengono così spesso vissute - nelle presone e nelle istituzioni - come antinomie, informe patologiche vicine alla schizofrenia?

Ma questa unità, sebbene decisiva, non esprime interamente la compiutezza della figura di Edoardo Detti. Ne spiega il rigore, la coerenza: ha la sua radice nella sua moralità. Non spiega ancora la sua naturalezza, il suo stile, se a questo termine vogliamo dare il significato di modo di essere.

Ciò che vogliamo dire (con tutta la difficoltà che sentiamo nel tentar di esprimere sensazioni, intuizioni, immagini, momenti che il ricordo di Detti ha sedimentato in noi) è che l'unità che riconosciamo nella figura di Detti componeva, in un'armonia profonda, tutti gli aspetti della sua vita: quelli pubblici ed esterni, professionali, culturali, con quelli più privati, più personali, più intrinseci.

Preferire, quale mezzo di locomozione, la bicicletta, era certamente scelta che derivava da un suo amore per l'esercizio fisico, dal modo quindi in cui gestiva il rapporto con il proprio corpo: ma non assumeva subito anche il significato (lo annota Di Pietro) di aderire più direttamente e immediatamente, di immergersi più organicamente, nella stessa quotidianità, a quelle forme del paesaggio di città e di campagna su cui la professione lo chiamava a intervenire? L'elegante semplicità del suo abbigliamento, e la stessa accattivante nobiltà del suo portamento, erano forse separabili rispetto alle qualità delle sue architetture, erano forse altra cosa rispetto a queste? E come può, a chi lo conobbe, sfuggire il fatto che le sue mille attenzioni nella vita quotidiana (le ricette e i «trucchi» per viaggiar leggeri e consumare poco, la sapida frugalità dei cibi che prediligeva, la curiosa e gioiosa ricerca d'ogni cosa, persona, i dea che gli apparisse insieme naturale e bella) esprimevano lo stesso atteggiamento di esplorazione della vera qualità delle cose, di adesione alla realtà nella quale interveniva, di ricerca del massimo di parsimonia nell'uso di risorse che vanno in primo luogo rispettate, che caratterizzava il suo modo di operare sul territorio come architetto o come urbanista o come docente o come organizzatore o come polemista?

Del resto, anche la scelta estrema della sua vita (la decisione che il suo corpo fosse cremato) apparve a chi lo accompagnò nell'ultimo tratto del suo viaggio come l'espressione della volontà di non contribuire, neppure con i pochi centimetri quadrati del suo corpo, a sprecare quel territorio, quell'ambiente, quel paesaggio che le sue opere e il suo insegnamento e la sua azione culturale e politica avevano incessantemente difeso.

Con le elezioni politiche di aprile sono caduti i progetti di riforma della legge urbanistica del 1942 che erano stati discussi, talvolta molto aspramente, nel corso della precedente legislatura. Spetta ora al nuovo parlamento il difficile compito di formulare una nuova proposta di legge. Il Giornale dell’Architettura ha chiesto ad alcuni urbanisti di primo piano di segnalare un punto (e uno solo) che il futuro legislatore non dovrà dimenticare. Apre la discussione Edoardo Salzano.

C’è un argomento sul quale l’Italia registra un enorme ritardo rispetto ad altri Stati europei; un argomento sul quale una legge che riguardi il governo del territorio (o una sua componente importante, la pianificazione urbanistica e territoriale) dovrebbe pronunciare regole chiare, tassative, non negoziabili: il consumo di suolo. In Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Olanda, come in diversi Stati e città degli Usa, i governi si sforzano di contrastare il consumo di suolo. In Italia, dove già dagli anni cinquanta ai settanta abbiamo devastato gran parte del territorio di pianura, di valle e di costa, non si sa neppure che cos’è. Se abbondano studi qualitativi sulla «città diffusa» e sulla «dispersione insediativa», non si sa quanto terreno venga occupato ogni anno da lottizzazioni ed espansioni urbane, ville e villette, capannoni e discariche, strade e piazzali, discoteche e factory outlets. Da noi nessuno sa, né si preoccupa di sapere, quanto terreno viene sottratto all’agricoltura, alla percolazione dell’acqua piovana, all’azione della clorofilla e del sole, al ciclo biologico. Così come del resto non si sa quanti elementi del patrimonio storico vengono cancellati nella distrazione generale.

La mancanza di dati sui quali basare appropriate politiche rivela un disinteresse profondo per la questione. Eppure, per chiunque è evidente che il consumo di suolo aumenta ogni anno, per effetto dell’«anarchia urbanistica», come l’ha definita Carlo Azeglio Ciampi. Un’anarchia che è certamente prodotta in parte consistente dall’abusivismo, e dalla miopia aziendalistica con la quale i vari corpi statali e parastatali hanno progettato e realizzato le infrastrutture e gli altri oggetti di competenza pubblica. Ma un’anarchia che è generata, sempre più spesso, anche da una pianificazione urbanistica più sensibile agli interessi immobiliari che alla tutela delle risorse comuni.

Voglio citare un raffronto significativo, che dà un’idea della dimensione del problema. In Germania il governo Kohl (che certamente «comunista» non era) pose nel 1998 l’obiettivo di non investire ogni giorno nell’urbanizzazione più di 30 ettari, e l’obiettivo è oggi largamente rispettato. Significa che per ogni cittadino tedesco si consumano 1,34 mq di nuovo suolo all’anno. Per l’Italia riferiamoci al Prg recente di una grande città, quello di Roma: 15.000 ettari di nuove aree sottratte alla natura, una previsione decennale di 6 mq all’anno per ogni cittadino. Più di 4 volte tanto. Non credo che un’analisi di altre città italiane, al Sud al Centro e al Nord, darebbe risultati troppo diversi: ma chi fa i conti dello spreco di territorio?

A me sembra che una nuova legge nazionale sul territorio dovrebbe decretare, in primo luogo, che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali siano consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. Dovrebbe poi precisare che gli strumenti di pianificazione non possono consentire nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, né consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all’estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista.

Nella nuova proposta di legge per la pianificazione della città e del territorio che il sito Eddyburg.it ha proposto, questo tema viene ulteriormente sviluppato e precisato. Naturalmente, nel quadro della riaffermazione di principi di carattere generale in assenza dei quali il controllo del consumo di suolo resterebbe un’utopia: la titolarità pubblica della pianificazione, l’assunzione di quest’ultima come metodo generale per il governo del territorio, il diritto alla città e all’abitare, la partecipazione e la condivisione delle conoscenze.

Scarso rilievo hanno avuto, sulla stampa, le dichiarazioni programmatiche del nuovo Ministro per i lavori pubblici, Paolo Costa. Peccato. Il successore di Di Pietro sembra impegnato in una direzione profondamente innovativa, per più d’un aspetto. In particolare, per il modo in cui guarda a tre questioni nodali per la politica del territorio: il rapporto tra emergenza e prospettiva, il deficit dell’Italia nei confronti dell’Europa, un approccio responsabile nei confronti del federalismo.

La perenne rincorsa dell’emergenza è stata, in tutto il corso dell’ultimo mezzo secolo della nostra storia, la ragione principale della devastazione del territorio e della profonda inefficienza dell’organizzazione delle città e del territorio: quindi della distruzione di risorse e della crescita del disagio sociale. Organizzare con efficienza ed efficacia realtà complesse (come sono le nostre città e l’insieme del nostro territorio) richiede lungimiranza, sistematicità d’approccio, continuità di orientamenti. E richiede, prima ancora che strumenti, intelligenze politiche capaci di ragionare e decidere in questo modo. Altrimenti, succede quel che è successo in Italia: non occorre richiamare esempi ed episodi.

Secondo il neoministro l’azione condotta dal suo predecessore “non poteva non pagare un tributo alla situazione di emergenza ereditata”, ma oggi “è giunto il momento di affrontare alcuni nodi strutturali, con l’ambizione di trovare soluzioni normative-quadro anche di grande respiro”. Questa necessità è resa particolarmente urgente dall’impegno di “restare in Europa”, e quindi di “garantire al Paese condizioni reali di competitività europea in ogni settore, anche nella dotazione di infrastrutture e di capitale fisso sociale in senso lato”.

Le infrastrutture: ecco un termine che, riferito alla politica dei lavori pubblici, evoca scenari inquietanti, richiama risse mai sopite tra i fautori del “fare” e quelli del “tutelare”, ricorda innumerevoli episodi di scialo e devastazione da un lato, di inefficienza e carenza dall’altro. Ma il ministro precisa: oltre che a tenere conto del fatto che “l’investimento in infrastrutture produce effetti moltiplicativi sulla produzione”, oggi è decisivo sottolineare “il ruolo di infrastrutture, e quindi di servizi, efficienti nel ridurre i costi ‘fuori fabbrica’ dell’apparato produttivo e nell’elevare gli standard ‘fuori casa’ di qualità della vita”.

Efficienza del sistema e qualità della vita: questi sono dunque gli obiettivi che occorre proporsi. Ma allora bisogna chiarire che cosa si intende per infrastrutture. E il ministro lo precisa: “voglio esser chiaro, non intendo riferirmi solo a strade, autostrade o ferrovie, ma all’intera gamma delle componenti del capitale fisso sociale che va dagli interventi di regolazione idraulica alle scuole, dai metanodotti alle autostrade informatiche”.

Certo, neanche questo è sufficiente. Bisognerà vedere, per esempio, in che modo si faranno le “regolazioni idrauliche”: se canalizzando, cementificando, intubando le acque, e quindi accumulando materiali per le disastrose alluvioni e i progressivi impoverimenti delle risorse idriche, oppure mediante interventi di rinaturalizzazione. E bisognerà vedere se gli investimenti per le scuole e gli altri servizi collettivi serviranno solo ad aggiungere un po’ di volumi a quelli esistenti, o se saranno una componente di programmi di riqualificazione sociale e ambientale delle orrende periferie costruite, in mezzo secolo, dalla cultura dell’emergenza e della speculazione.

Sul piano della pratica di governo l’impegno nuovo più concreto, e più promettente, ci sembra l’intenzione espressa dal ministro di “recuperare un rapporto organico con il Ministero dei trasporti in modo che le grandi opere (diremmo noi, le opere di rilevanza nazionale - n.d.r.) come ad esempio la variante di valico appenninico e il complementare quadruplicamento ferroviario della Napoli-Milano, vengano realizzate in un contesto di decisioni intermodali, in una sorta di nuovo Piano generale dei trasporti e delle infrastrutture”. L’inefficienza e lo spreco che contrassegnano il nostro sistema dei trasporti e aggravano lo squilibrio con il resto dell’Europa sta infatti proprio nel fatto che strade, ferrovie, porti, aeroporti, trasporti di livello internazionale, nazionale, regionale e locale, sono tutti progettati, realizzati e gestiti in modo separato, spesso contraddittorio, sempre inefficace e sprecone: di risorse finanziarie e territoriali, e di tempo dell’utente.

Un proposito, quello del Ministro Costa, che spero i suoi partner di governo non lasceranno cadere. Ed è anzi sperabile che prosegua in almeno due direzioni, peraltro indicate nelle sue dichiarazioni programmatiche.

Da un lato, verso una regolazione a priori dei conflitti che inevitabilmente nascono quando si tenta di soddisfare le esigenze della trasformazione (nuove strade, nuove ferrovie, nuovi porti, e anche nuove scuole, nuovi parchi, nuove case) senza tener conto delle esigenze della tutela delle qualità dell’ambiente e della prevenzione dei rischi. Occorre insomma tener contro che non solo i trasporti costituiscono un sistema, ma è un sistema (e quindi va considerato e governato unitariamente) anche il territorio nel suo complesso: nell’insieme degli elementi naturali e storici, ambientali e insediativi, fisici e sociali che lo compongono.

Dall’altro lato, verso la traduzione di questa visione sistemica della realtà non solo in un insieme di atti e di intese di governo, necessariamente episodici, ma di un nuovo sistema di regole in materia di governo del territorio. Un sistema di regole basato su due principi, entrambi essenziali. Il principio della coerenza territoriale e della trasparenza istituzionale, per il quale le decisioni capaci di incidere sull’assetto del territorio, qualunque sia l’ente che ne sia responsabile, vengono assunte, verificate e rese pubbliche con il metodo della pianificazione territoriale e urbanistica (un metodo che Paolo Costa, dopo Giacomo Mancini, è il primo ministro a riproporre). E il principio di sussidiarietà, per il quale spettano a ogni livello di governo (nazionale, regionale, provinciale, comunale) tutte e sole le scelte che all’interno di quel livello è possibile governare in modo efficace: un principio già assunto dall’Unione europea, e che il è solo capace di raggiungere in modo equilibrato quel "federalismo solidale" che il ministro Paolo Costa assume come proprio.

Edoardo Salzano

Città e società

Immaginare la città nel Terzo millennio equivale a immaginare la società nel Terzo millennio. La città, infatti, non è una costruzione tecnologica, non è un oggetto fisico, non è un insieme di abitacoli e di collegamenti – non lo è più di quanto l’uomo sia un insieme di molecole, ordinate a formare tessuti, organi, legamenti e sostegni.

È anche quelle cose, ma non è solo quelle: ridurla a quelle significa non comprenderla. Come dico spesso ai miei allievi del corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale, la città non è un insieme di case, ma è la casa della società. Più precisamente, la città è il luogo che la civiltà umana ha inventato quando sono nati, e si sono sviluppati e consolidati, determinati valori, esigenze, funzioni, i quali richiedevano, per essere soddisfacibili e soddisfatti, il sorgere di una organizzazione fisica adeguata: la città, appunto.

Del resto, come spesso accade, l’etimologia aiuta a comprendere: urbs (la città come spazio fisico), civitas (la città come comunità sociale), polis (la città come società organizzata) non sono forse termini strettamente legati? Domandarsi che cosa sarà la città nel Terzo millennio equivale perciò a domandarsi che cosa sarà diventata, in quello stesso periodo, la società.

Una domanda preliminare: che cos’è il Terzo millennio?

Ma intanto, poniamoci una domanda preliminare: che cosa intendiamo dire quando parliamo di Terzo millennio? Come sappiamo dall’esperienza storica un millennio è un periodo molto lungo: il Primo e il Secondo hanno coperto civiltà, culture, costruzioni sociali diversissime: diverse nelle diverse fasi nelle quali i millenni si sono articolati, e nei diversi luoghi nei quali essi hanno dato luogo a storie. Possiamo trovare elementi di identità nella città ridente, gaia e colta dell’impero del Giappone nell’XI secolo di questa era, così come ce l’ha descritta, per esempio, Murasaki[1], e nella Stalingrado degli anni dell’URSS e delle estrema resistenza al nazismo? Possiamo trovare elementi di identità unificando nel ragionamento una città ricca di canali del XIII secolo, come la cinese Suzhou o la veneziana Venezia, e una città ipertrofica di autostrade come la statunitense Los Angeles del XX secolo?

Quando parliamo del Terzo millennio non intendiamo evidentemente proporci di identificare i “connotati medi” di questo sconosciuto arco di tempo: intendiamo semplicemente applicare un po’ di retorica a una domanda molto semplice, che sempre gli uomini si pongono, soprattutto nei momenti di soglia (o ritenuti tali): come diventerà la città (e la società) nel futuro, nel futuro così come oggi possiamo immaginarlo?

Omologazione o differenze?

Anche così semplificato, è un interrogativo irto d’incognite, di domande angosciose perché s’intrecciano con gli argomenti che oggi ci angosciano. Una prima domanda allora s’impone, sollecitata proprio dalla riflessione sulla diversità presente nella nostra storia. Vivremo, nel futuro, una realtà ricca di differenze come quella dei millenni che ci hanno preceduto, oppure una realtà resa omogenea in ogni parte dell’universo conosciuto? Perché una delle ipotesi probabili è appunto quella dell’unificazione e della omologazione. Il modello di città – anzi, la “città unica” – potrà diventare quella Trude che Italo Calvino ha descritto[2].

Trude

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d'essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l'albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire. - Puoi riprendere il volo quando vuoi, - mi dissero, - ma arriverai a un'altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un'unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all'aeroporto.

Italo Calvino

Le differenze spariranno? La ricchezza delle storie, delle culture, delle lingue, delle abitudini, dei sapori e dei colori, dei paesaggi e dei suoni scomparirà annullata dall’omologazione a un unico modello di vita, e di città?

Il caso di Venezia

Abito e lavoro a Venezia, la città che è la protagonista delle Città invisibili di Calvino: il vero modello di città, se ve n’è uno. Venezia è certo diversa dalla città contemporanea tipica dell’Occidente super-industrializzato e super-consumistico. La sua bellezza è nella sua diversità, e la sua forza è nell’insegnamento che propone: un luogo nel quale la città trasforma l’ambiente naturale rispettandone le regole e i ritmi, conservandolo per utilizzarlo.

Ebbene, anche a Venezia sta procedendo, nell’indifferenza generale, un processo di omologazione di questa città unica alla tipica città contemporanea. Sempre meno sono i luoghi dedicati all’artigianato locale, sempre più frequenti invece le botteghe internazionali del fast-food (tenacemente tenute lontane fino a dieci anni fa) e gli spacci delle merci generiche per turisti (quelle che gli anglosassoni chiamano junk, e che sono uguali a Hong Kong come a Manila, a San Marino come, appunto, a Venezia).

Ma c’è di peggio. In una città la cui modernità in materia di organizzazione del traffico era stata indicata come esempio da Le Corbusier (ne celebrava l’avvenuta separazione del traffico meccanizzato, nei canali acquei, e della mobilità pedonale, nelle calli e sui ponti), in una città nella quale tutti apprezzano la puntualità cronometrica dei mezzi di trasporto pubblici (i vaporetti), si propone l’introduzione di una “metropolitana sublagunare”, utile solo a scaraventare migliaia di turisti nelle calli del centro. È una proposta giustificata solo dal mito della riduzione dei tempi di percorso: come se, più dei tempi impiegati per andare da una parte all’altra della città, non si dovesse ricercare la qualità del tempo in essi impiegato: è più amico dell’uomo il minuto impiegato nella buia metropolitana urbana o nello scuotimento dell’autobus, o il minuto impiegato navigando tra i palazzi del Canal Grande o passeggiando negli spazi antichi e belli di una città amica?

Omologazione o ricchezza delle differenze? Riduzione dei tempi o valutazione della qualità del tempo di vita, nelle sue diverse componenti? Queste sono alcune delle alternative tra le quali si gioca il nostro futuro: le possibili configurazioni della città del Terzo millennio.

Una speranza, e tre requisiti

Più che prevedere i futuri possibili, e scegliere tra loro quello più probabile (operazione per la quale non mi sento per nulla attrezzato) è forse utile ragionare su quali siano le direzioni di marcia verso le quali indirizzare gli sforzi: in primo luogo (a questo sollecita la presenza quotidiana dell’immagine di Venezia) quale sia la speranza che occorre nutrire, per alimentare il lavoro cui ciascuno di noi deve concorrere.

Ebbene, la speranza che è necessario e possibile formulare è che la società comprenda, nell’avviarsi lungo l’ignoto itinerario del terzo millennio, che il modello di città costruito dalla civiltà occidentale del XX secolo non è quello giusto; che esso ha tradito alcuni insegnamenti fondamentali che la storia della città ci ha consegnato, e che da questi insegnamenti occorre partire per realizzare una città giusta.

Questi insegnamenti possono compendiarsi in tre parole, in tre requisiti che sono tutti, a mio parere, necessari perché una città possa dirsi umana: comunità, complessità, sostenibilità. Su queste tre parole vorrei adesso intrattenere i lettori di Universo.

Comunità

Lo dicevo all’inizio: la città è la casa della società: è il luogo inventato, strutturato e organizzato in funzione di interessi ed esigenze collettivi, sociali, comunitari. La città è il luogo della comunità. I suoi luoghi centrali, i suoi “fuochi”, sono i luoghi finalizzati al “consumo comune”, all’uso della comunità: la piazza, il mercato, la cattedrale, il palazzo civico. Senza l’esistenza di una comunità, di valori sociali condivisi, la città si dissolve nell’anarchia[3].

Gli ultimi tre secoli del Secondo millennio sono quelli che hanno visto la piena affermazione della città come luogo dell’insediamento umano. Le città si sono moltiplicate e ingrandite, il loro peso si è accresciuto a dismisura. Ma il punto cruciale è che, parallelamente alle gigantesche trasformazioni quantitative e all’esplosione della potenziale domanda urbana, c’è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventare quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell’individualismo.

Ristabilire, nel concreto, i valori della comunità è quindi il primo obiettivo che bisogna proporsi per avviarsi, nel Terzo millennio, lungo una strada che consenta di restituire all’insediamento dell’uomo la sua funzionalità e la sua bellezza. Lavorare in questa direzione significa affrontare problemi nodali della città di oggi: quello del traffico, in primo luogo. Si tratta infatti di affrontare quell’aspetto della crisi della città che definisco “il paradosso del traffico”.

Tutti si rendono conto (per quanto assuefatti dall’abitudine) che muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un’angosciosa perdita di tempo, un’assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d’inquinamento. Ma non tutti riflettono sul fatto che città è stata storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi.

Ricostruire una città umana significa allora, in primo luogo, affrontare il problema del traffico adottando tutte quelle misure che consentano di eliminare congestione, spreco di tempo e d’energia. Significa allora restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo dell’incontro, dello scambio d’esperienze e di messaggi, di comunicazione e di convivenza. Significa restituire ai marciapiedi la loro funzione di luogo dello spostamento piacevole, della passeggiata, della ricreazione. Significa rendere accessibili, e raggiungibili in condizioni di sicurezza per i deboli come per i forti, i luoghi della vita collettiva e quelli della vita privata.

Si lavorerà in questa direzione nei prossimi anni? Se sarà così, la città del Terzo millennio potrà essere, di nuovo, una città per gli uomini.

Complessità

La città è il luogo della complessità: è il luogo nel quale le differenti funzioni, le differenti “utilità”, le differenti occasioni di lavoro si sovrappongono e si mescolano. Il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, le differenti funzioni sociali, le differenti età, etnie, abitudini, culture si mescolano e scambiano i reciproci insegnamenti. In questo senso la città è stata (e continua a essere) il luogo della libertà e della crescita personale: delle molteplici possibilità per tutti.

Questo requisito (il requisito della complessità) è contraddetto e negato da due ordini di operazioni. Da un lato, l’artificiosa semplificazione della città in zone caratterizzate ciascuna da una sola funzione: l’abitazione, la produzione, la direzionalità, il commercio. Dall’altro lato, l’introduzione delle barriere della segregazione economica, sociale ed etnica.

Eliminare le cause di queste vere e proprie deformazioni della città non è semplice. Nei piani regolatori, e nelle concrete politiche urbane, si cerca di mescolare funzioni diverse, di evitare da un lato i “quartieri dormitorio”, dall’altro lato le aree destinate esclusivamente alle attività lavorative. E in alcune realtà si tenta, da parte delle amministrazioni comunali più avvedute, di condizionare le politiche immobiliari per garantire la compresenza di ceti sociali e gruppi culturali diversi, ottenendo a volte risultati convincenti.

Se si sarà capaci di lavorare in queste direzioni, la città del Terzo millennio potrà essere di nuovo la città di tutti gli uomini; altrimenti, i nostri eredi saranno condannati a vivere nel coacervo di mondi diversi, l’un verso l’altro barricato e armato.

Sostenibilità

Nell’ultimo mezzo secolo la natura è stata devastata come mai era successo. Per dare un’idea di ciò che è avvenuto, basta riflettere sul fatto che in Italia, in soli cinquant’anni, si è urbanizzata una superficie pari a nove volte la superficie che era stata urbanizzata nei millenni della nostra storia. La città ha divorato l’ambiente: ha portato vicino all’esaurimento risorse preziose per la vita, dissipando riserve che si credevano inesauribili. Per fortuna, prima che si arrivasse alla catastrofe definitiva, la saggezza di osservatori attenti ha illuminato la coscienza popolare. Un nuovo comandamento è stato foggiato: è necessario che lo sviluppo sia “sostenibile”, ed è necessario che anche la città sia “sostenibile”. Che cosa vuol dire?

L’espressione “sviluppo sostenibile” fu coniata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, presieduta da Gro Harlem Brundtland. Nel rapporto che è noto appunto con il nome della statista norvegese, si definisce sviluppo sostenibile “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" [4].Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente.

Ma applicare quella definizione all'ambiente urbano, e parlare di città sostenibile, significa introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Affermo questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non solo perché ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che la hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Anche perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.

L’impegno per restituire alla città quella “sostenibilità” che caratterizzava le città delle epoche più felici della storia è quindi un impegno essenziale per ottenere, nel Terzo millennio, una città per tutti gli uomini di oggi e di domani.

Il governo della città: la pianificazione

Come ottenere, però, che la città del Terzo millennio raggiunga davvero i requisiti necessari, e non si trasformi in un’immonda accozzaglia di oggetti sgradevoli e ostili? Come ottenere che il pianeta non si trasformi – per adoperare le parole di Antonio Cederna – in “una repellente crosta di cemento e asfalto”? Il metodo è noto, sperimentati ne sono gli strumenti: la pianificazione urbanistica. Essa – per adoperare ancora le parole di Cederna – “è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità”[5].

La moderna pianificazione urbanistica è nata, all’inizio del XIX secolo, quando ci si è resi conto che la maggiore complessità delle esigenze, la ricchezza delle possibilità, le contraddizioni implicite negli interessi in campo, rendevano necessario un intervento regolatore dell’autorità democratica, che definisse in che modo procedere in quell’incessante opera di successione delle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio in cui consiste il processo di urbanizzazione.

Il primo piano regolatore moderno può essere considerato quello che, nel 1811, i cittadini di New York pretesero dai loro governanti. È una storia emblematica, che ricordo spesso perché esprime con immediatezza la necessità della pianificazione urbanistica per un governo del territorio orientato al bene comune.

La metafora del Piano di New York

All’inizio del XIX secolo New York aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e magazzini. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.

Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo. (Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.)

L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento dello sviluppo.

Ma era un’economia basata su sul principio della più dispiegata libertà individuale nel dominio dell’economia e dell’organizzazione sociale: più l’iniziativa individuale era priva di freni, più sapeva tirare, tanto più si perseguiva, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. In alcuni campi però – questo cominciarono a comprendere i liberali del XIX secolo – la libera iniziativa conduceva all’anarchia: occorreva uno sguardo d’insieme, una capacità di padroneggiare dinamiche complesse, di portare a sintesi interessi contrastanti, che la spontaneità del mercato non poteva possedere. Occorreva un intervento regolatore. Nella città, occorreva un piano regolatore che decidesse dove e quando, secondo quali regole, con quali quantità e funzioni procedere in quella complessa serie di operazioni in cui consiste il processo di urbanizzazione.

Le esigenze di governo delle trasformazioni urbane non sono certo venute meno oggi, né è presumibile che lo diverranno nei prossimi decenni: anzi. L’aumento della complessità delle relazioni, la crescita del benessere e l’esaurirsi delle risorse naturali, l’accresciuta mobilità di tutte le grandezze in gioco, tutto ciò renderà ancora più necessaria la definizione, strategica e al tempo stesso programmatica e operativa, delle regole per la trasformazione del territorio: della pianificazione urbanistica. Di una pianificazione espressione di una volontà della cittadinanza che sia definita con il metodo e gli strumenti della democrazia; una pianificazione che sappia garantire che la molteplicità degli interventi e delle iniziative, la pluralità dei soggetti e degli interessi, agiscano e confluiscano in un unico disegno, finalizzato all’interesse di tutti: dei cittadini presenti, come di quelli che verranno.

[1] Murasaki , Storia diGenji il Principe splendente, Einaudi 1957.

[2] Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi; “Le città continue. 2:”

[3] Questi, e altri temi toccati in questo scritto sono trattati più ampiamente in: E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma.Bari, 1998.

[4] Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988.

[5] Antonio Cederna, I Vandali in casa, Etas Compton, Roma

Ho intenzione di fare della pianificazione territoriale, nella pro­spettiva della realizzazione dell'Europa, una vera priorità naziona­le". Così ha affermato il nuovo Primo ministro della Repubblica. Ai deputati, sindaci, amministratori regionali e provinciali, urbanisti, geografi, storici riuniti per discutere "Le reti di città" era già sem­brato una grande e rincuorante novità il fatto che il nuovo Presiden­te del Consiglio avesse scelto quell'occasione, quel tema, quella platea per parlare per la prima volta in pubblico: tanto più che gli organizzatori non l'avevano previsto né richiesto.

Il fatto é che il Primo ministro aveva piena consapevolezza di ciò che comportava, per il paese che gli toccava governare, "l'ingresso in Europa": per tanti anni sperato e ora, che era giunto, anche temu­to. Come reggerà una realtà come la nostra alla concorrenza degli altri paesi? Ormai la concorrenza si vince o si perde a seconda di ciò che si riesce a mettere in campo sul terreno della qualità terri­toriale e urbana.

Se non abbiamo reti regionali e urbane dei trasporti collettivi che funzionano, se l'assistenza sanitaria e i servizi sociali sono così inadeguati, se la ricchezza di beni culturali è soffocata e negata dalle condizioni deplorevoli in cui li abbandoniamo, se la campagna è continuamente erosa dalla disseminazione delle case e casette, se la natura è devastata da ogni sorta di inquinamento, se le città si espandono a macchia d'olio e il turismo da rapina rovina le coste e i monti, se i fiumi sono ridotti a fognature civili e industriali, perché mai le aziende della produzione moderna e del terziario avanzato dovrebbero scegliere le nostre città per insediarsi? E perché i lavo­ratori europei e le loro famiglie dovrebbero frequentare i nostri lidi e i nostri monti, percorrere le nostre colline, nei sempre più fre­quenti periodi di tempo libero?

No, deve aver pensato il nuovo Primo ministro, così non può andare avanti. Corriamo un rischio grave, gravissimo: il rischio di diventare la periferia dell'Europa. Anzi, se si pensa a che cosa sono le periferie nelle lustre città di altre nazioni europee (la Germania, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna), dell'Europa rischiamo di diventare il Bronx.

E su che cosa mai si può far leva per ottenere un assetto territo­riale e urbano all'altezza di quello dei nostri concorrenti? Non sono un urbanista, si deve esser detto il Primo ministro, mi sono occupa­to più di finanza e di politica che di territorio, ma il mio buonsenso di statista mi dice che, per vincere, bisogna finalmente far decollare la pianificazione del territorio, a tutti i livelli. Su questo impegnerò tutte le energie del nuovo governo, lo prometto.

Lettore, stupisci? Non hai letto sui giornali di una dichiarazione così forte e così nuova come quella da cui siamo partiti? Forse ti sei sbagliato, non hai letto i giornali giusti. Quella dichiarazione non è stata pubblicata dai giornali italiani, ma da quelli francesi. Perché il Primo ministro che l'ha pronunciata non è il successore di Giulio Andreotti, ma quello della signora Cresson: é Pierre Bérégovoy, prémier della Repubblica di Francia. L'ha pronunciata a un conve­gno che si é tenuto a Mulhouse, in Alsazia, il 28 aprile scorso, or­ganizzato dalla Delegazione per la pianificazione territoriale e l'azione urbana del governo francese.

Eravamo lì, l'abbiamo sentito. Abbiamo pensato all'Italia. Que­sta volta, senza nostalgia.

Città senza automobili

E' andato nella tana del lupo Carlo Ripa di Meana, il ministro europeo per l'Ambiente.te. Ha scelto Torino, la città della Fiat, per presentare in Italia il più recen­te prodotto del suo dicastero il documento dall'ambizioso titolo "Città senza automobili".

L'avvocato Agnelli era lì presente, a fare gli onori di casa. Si è mostrato signorilmente interessato, non pregiudizialmente ostile. Eppure ciò che la Commissione europea per l'ambiente si propone (lo avevamo già letto nel "Libro verde per l'ambiente urbano") è qualcosa che deve stridere alle orecchie degli uomini che hanno co­struito le loro fortune, e la loro potenza, sull'assoluta, e quasi divi­nizzata, indispensabilità dell'automobile. Lo slogan di Ripa di Meana è infatti: "l'automobile deve diventare un'opzione". Basta pensare a ciò che è oggi, nelle città italiane, la mobilità per rendersi conto del carattere rivoluzionario di quest'affermazione.

L'avvocato Agnelli ha sollevato una questione, ed espresso una perplessità. Non dimentichiamo, ha detto, che l'automobile é anche "uno strumento di libertà". Ragioniamo pure sull'ipotesi di avere "città senza automobili", ha aggiunto, ma prima bisogna che mi spieghiate che cosa intendete per aree urbane.

Non sappiamo se qualcuno ha risposto all'autorevole industriale. Noi vogliamo provarci. A noi sembra che la risposta stia proprio in quello slogan "l'automobile deve diventare un'opzione". Le città potranno essere senza automobili in quelle loro parti in cui il si­stema delle convenienze nella scelta del mezzo di trasporto più op­portuno (in termini di velocità, comodità, prezzo) sarà reso tale da indura la grande maggioranza degli utenti a preferire l'opzione del trasporto collettivo. Le aree urbane quindi discendono da un proget­to: un progetto urbanistico, particolarmente preciso nella defini­zione del sistema della mobilità, ed accompagnato da adeguate e coerenti politiche finanziarie e tariffarie.

In questo quadro, interventi volti a rendere più costoso rispetto ai livelli attuali l'uso del mezzo individuale é altrettanto legittimo (dal punto di vista dell' "automobile come libertà") quanto gli interventi nel campo delle tariffe dei mezzi collettivi. Avranno un significato pienamente "liberale" se i loro proventi, oltre a scoraggiare l'im­piego dell'automobile, aiuteranno a realizzare un sistema di tra­sporto collettivo efficace.

Certo è, però, che rendere le "città senza automobili" richiede uno sforzo molto consistente per la realizzazione di servizi collettivi di trasporto efficienti. Uno sforzo, in primo luogo, di coordina­mento. Si può mai pensare, in un paese appena appena evoluto, che Ferrovie, metropolitane, autobus e parcheggi vadano ciascuno per conto suo? L'integrazione dei modi del trasporto é una necessità as­soluta.

E uno sforzo, in secondo luogo, finanziario. Dove attingere per gli investimenti (in conto capitale e in conto per le spese correnti) che sono necessari? Varie ipotesi sono state formulate. Ma a noi non sembra che si riesca a fare quanto è necessario se non si rinun­cia all'illusione di poter fare, contemporaneamente tutto: in partico­lare, per poter dare priorità, insieme, alla realizzazione di reti urba­ne e regionali efficienti e alla prestigiosa alta velocità. Governare è, in primo luogo, scegliere.

Attenti a Metropolis

Un patrimonio di 16mila-21mila mi­liardi, che "con gli opportuni investi­menti" può arrivare a valere 60mila miliardi di lire. Con queste ci­fre i giornali danno notizia della costituzione di Metropolis, la so­cietà cui l'Ente Ferrovie affiderà il compito di riqualificare e valo­rizzare il patrimonio ferroviario.

Ci si domanda se la costituzione di un'apposita struttura finaliz­zata alle operazioni immobiliari non renderà più aggressiva la ten­denza delle Ferrovie di partecipare in grande scala alla nuova specu­lazione sulla città. Su questa tendenza l'ente diretto da Lorenzo Necci si era già mosso con una certa grinta innovativa. Architetti prestigiosi hanno studiato i nodi ferroviari delle maggiori città ita­liane, e in più d'una sono state configurate operazioni di nuova edi­ficazione dei vastissimi piazzali ferroviari obsoleti e delle stazioni ferroviarie che sarebbe opportuno trasferire. Solo a Roma, si parla di una proposta dell'Ente Ferrovie (con il quale, evidentemente, il Comune è interessato ad avere un buon rapporto) per la costruzione di 8 milioni di metri cubi.

Saremo dei "vetero urbanisti", ma a noi piacerebbe che il destino di queste aree fosse determinato dagli interessi della città, e non da quello di un' azienda per quanto prestigiosa e utile nella sua attività primaria. E ci piacerebbe anche che l'Alta velocità (e gli altri pro­grammi di adeguamento della rete del ferro e del servizio collettivo del trasporto) non fosse finanziato da una più potente speculazione fondiaria.

LA "DAZIONE AMBIENTALE"



Non vo­gliamo assol­vere né i corruttori né, tanto meno, i concussori. Tuttavia ci sembra che la "dazione ambientale" (per usare il brutto ma efficace neolo­gismo del giudice Di Pietro) induca a guardare un pò al di là della morale e del codice. A guardare, appunto, all'"ambiente" in cui la "dazione", lo scambio dell'"obolo" contro la compiacenza amministrativa, ha potuto così ampiamente e perversamente allignare.

Scrivevamo su queste pagine, ancora nel 1986, rivolti in quell'occasione ai senatori che stavano discutendo le proposte in materia di riforma urbanistica: "Siamo convinti, e non da oggi, che l'attuale regime degli immobili sia una delle cause più gravi della pubblica corrizione. Se é da un atto discrezionale dell'amministrazione che discende il fatto che un immobile (...) vale 10 e il vicino vale 10mila, é facile comprendere che l'humus sul quale nasce la corruzione é fecondato dal più fertile dei conci­mi" (n.86). Sempre su queste pagine, commentando il bilancio di un trentennio di Corte costituzionale e denunciando l'affermarsi della prassi dell'"urbanistica contrattata", scrivevamo ancora: "Non ci stanchiamo di sottolineare il potenziale di corruzione che simili procedure contengono. La mancanza di riferimenti certi, chiari e costanti nella determinazione dei valori immobiliari é la matrice della discrezionalità più sfrenata, del soggettivismo più devastante, delle tentazioni più turpi" (n.87).

Dell'"urbanistica contrattata" Milano è stata la culla. Nel presentare il dossier che questa rivista ha dedicato all'urbanistica milanese Campos Venuti ha scritto che "il caso di Milano é quello più rappresentativo della deregulation urbanistica italiana" e che, nella metropoli lombarda "la deregulation urbanistica e l'urbanistica contrattata si sono manifestate più esplicite che altrove", al punto che "il non piano è stato apertamente teorizzato" (n.107). Nello stesso numero, ricordando che Milano non è sola (richiamavamo alla memoria dei lettori gli altri casi di Napoli e Trieste, Roma e Fi­renze), ribadivamo in queste Note le ragioni della nostra preoccu­pazione per il dilagare dell'"urbanistica contrattata". Tra queste, il fatto che essa "riduce fortemente la strasparenza del processo delle decisioni e aumenta la discrezionalità dei singoli amministratori e delle segreterie dei partiti a discapito del potere delle istituzioni".

Il giudice Di Pietro, e quanti con lui hanno collaborato, hanno insomma sollevato il coperchio d'una pentola di cui era facile av­vertire il tanfo. Benemerita é certo la loro azione, ma non è suffi­ciente. Basta a restituire fiducia nella prevalenza del codice penale sugli interessi personali, di cordata e di partito, e non è poco. Ma non basta, da sola, a sterilizzare l'ambiente della "dazione".

Occorrono anche altri interventi, altre iniziative tenacemente co­struite e gestite, altre strategie e altre incursioni, in campi che hanno a che fare con codici diversi da quelli impugnati dal corag­gioso magistrato: i codici della politica, dell'amministrazione, dell'urbanistica infine.

Occorre la capacità di trasferire la conclamata volontà di trasparenza in un sistema di regole non derogabili, non soggette a "variante". E oltre alle regole che riguardano (e che devono impedi­re) l'invadenza dei partiti negli organismi di gestione, oltre a quelle che riconducano la politica da una parte, l'amministrazione dall'al­tra, all'interno dei loro impegnativi campi di responsabilità, occorrono le nuove regole per il governo del territorio, per l'urba­nistica. Occorre insomma ripristinare la legittimità, e valorizzare il ruolo, della pianificazione territoriale e urbana.

Questa, la pianificazione, è stata accusata d'essere un insieme di "lacci e lacciuoli"; rispettarli, avrebbe forse evitato a qualcuno le manette.

La stagione è forse opportuna per riproporre il problema di quale debba essere il centro dell’azione e della riflessione dell’urbanistica: quel centro che, volta a volta, è stato visto nella razionalizzazione dei processi di uso del territorio o nella riforma del regime dei suoli, nelle conquiste ( e delusioni) sul terreno legislativo o nella pratica amministrativa e tecnica degli enti locali, nel ruolo delle regioni o nel nodo del “livello intermedio”.

In una fase in cui, per cambiare quel che c’è da cambiare, tutto è posto in discussione, è probabilmente opportuno partire da una base molto elementare, da una matrice indiscutibile: dall’affermare, cioè, che l’oggetto primordiale della nostra disciplina, al quale bisogna guardare con un’attenzione più marcata, e certo più incisiva e coerente, è il territorio, come realtà fisica nella quale è sedimentata e materializzata la storia della nostra civiltà e che costituisce non solo una primaria risorsa economica, ma la base stessa per la sopravvivenza, e per ogni possibile sviluppo, della nostra società.

A questa considerazione, molti eventi e molte esigenze, anche esterni, sollecitano. Le frane, gli smottamenti, le alluvioni, gli inquinamenti mortiferi (Severo) o morbosi (le metropoli, le fabbriche, i fiumi, i mari): i fatti, insomma, della vita e della cronaca quotidiana sono una prima indubbia sollecitazione in tal senso. Ma come non riconoscere e ricordare che l'impegno per la preservazione della base materiale della nostra esistenza è il portato della “tradizionale” cultura urbanistica italiana (quella dei Piccinato, dei Detti, degli Astengo)? Che gli effetti che oggi registriamo sono la derivazione immediata di cause lucidamente indicate, e combattute dai protagonisti della storia del nostro stesso istituto?

E c'è una seconda sollecitazione che spinge nella medesima direzione. Essa sta nel fatto che oggi, nel clima di diffusa sfiducia verso i temi e i modi più tradizionali dell'azione politica, una delle poche spinte sociali che esprimono una resistenza e una reazione nei confronti delle tendenze al riflusso verso il “privato” o al ripiegamento verso il “corporativo”, è quella che si manifesta nelle azioni e rivendicazioni e proteste e proposte sul tema dell'ambiente e della sua difesa: una spinta aggregante che va al di là delle pur rilevanti formazioni e organizzazioni ecologistiche. Le esigenze in tale direzione espresse, nelle quali è riconoscibile la vitale attenzioni di nuovi strati sociali verso il territorio, sono davvero distanti dalla nostra disciplina?

Ancora. È chiaro a tutti (fuorché ad alcuni “potenti”) che l'era dell'espansione è terminata. Ed è chiaro a noi che il tema determinante è oggi quello di «legare e cucire» (come scrive Bernardo Secchi); quello insomma di recuperare e riutilizzare e ricomporre case e infrastrutture, centri antichi e periferie moderne, tessuti degradati e tessuti sbrindellati. Ebbene, il recupero va limitato ad alcune “aree” o “zone”, è il contenuto di alcuni piani, o deve diventare il parametro essenziale dell'insieme della nostra azione? E non è allora il territorio in quanto tale, nella sua specificità fisica, storica, economica, sociale, nella sua unità strutturale e nelle differenze delle sue connotazioni e delle sue “densità”, a dover essere l'oggetto primario di ogni analisi e il punto di partenza di ogni progettazione della “città futura”?

Un'ultima considerazione. È viva l'esigenza (ne parlerà il presidente dell'Inu nella relazione al congresso di Genova) di ribadire e rafforzare l'autonomia dell'istituto dai partiti (come dai sindacati, dalle accademie e dalle altre organizzazioni e dimensioni della società). Ed è ovvio che questa autonomia ha un senso, ed è feconda di risultati anche sulla politica e sui partiti, se essa è l'espressione di un punto di vista, di un approccio alla realtà, di una dimensione dei problemi che sia propria della nostra disciplina, e a cui questa sia in grado di offrire sbocchi di analisi e di proposte. Dove ha sede, però, la matrice della distinzione che non ci oppone, ma ci distingue dalla politica e ci colloca con essa in posizione dialettica?

Sta, forse, nel fatto che la politica, in democrazia, è fortemente condizionata dalla ricerca del consenso, ed è quindi prevalentemente tesa alla conquista del consenso, ed alla soddisfazione delle esigenze, che si manifestano qui e oggi. Mentre, viceversa, l'urbanistica, proprio perchè ha quale proprio centro ed oggetto la difesa e valorizzazione e trasformazione del territorio secondo modi che non lo neghino ma ne esaltino le qualità, impone ed esige di guardar lontano e avanti: pretende la lungimiranza di chi, per mestiere, sa che occorre salvaguardare oggi e prevedere oggi, per rendere possibili condizioni di vita domani, esigendo la vista su un domani anche lontano.

Con un po’ d'ambizione, e con molto schematismo potremmo dire che la politica si occupa soprattutto degli uomini di oggi, e l'urbanistica soprattutto degli uomini di domani; e ciò proprio perchè essa si occupa di quel particolare oggetto che è il territorio come sede della vita e dell'attività degli uomini del presente e del futuro. È allora il caso, anche per questo, di occuparsi in modo più attento dell'oggetto (vorrei dire del protagonista) della nostra disciplina. E non sarebbe male proporci l’impegno di redigere, pubblicare, divulgare (e tentare di rendere efficace) una carta dei diritti del territorio): che, alla fine, coinciderebbe con la carta dei diritti dell’uomo di domani.

Il suo obiettivo era rendere la città più bella e funzionale. Aveva colto due punti centrali della verità dei suoi e dei nostri tempi. Aveva colto due insegnamenti della storia che hanno permeato la cultura degli urbanisti e degli amministratori quando i valori e le esperienze dell’Europa democratica, dopo l’eclissi fascista, rientrarono nel nostro paese. Due insegnamenti che oggi molti sembrano aver smarrito.

Il primo. La città non è un ammasso di case, non è il mero risultato quantitativo dell’aggregazione di edifici e di persone, non è il cieco prodotto del mercato. È una creatura sociale, un prodotto del lavoro collettivo e storico, e in quanto tale ha un’individualità che trascende la somma delle individualità che la compongono. Ed è un prodotto destinato a durare, a rimanere nel tempo uguale a se stesso pur nel succedersi delle sue trasformazioni. È quindi un oggetto che deve essere progettato e riprogettato di continuo, con una regia che non può essere che pubblica.

Il secondo. La base necessaria per la bellezza e la funzionalità della città è la proprietà indivisa del suolo urbano: le sue parti, i suoi “lotti” e i suoi spazi, possono essere usati dai cittadini, dalle famiglie, dalle aziende, ma la collettività deve restare padrona della propria base. Tra gli effetti negativi di quella grande ventata liberatrice dell’ingegno e dell’attività umana che fu la rivoluzione borghese, il primo, nei paesi dell’Europa continentale, fu quello di liquidare questa necessità pratica. La sconfitta dell’ancien régime aveva provocato la privatizzazione del suolo urbano:

“Nella notte tra il quattro e il cinque agosto 1789, la nobiltà francese non aveva forse abbandonato i suoi privilegi e la sua proprietà fondiaria insieme a tutti i tributi e le prerogative? Il suolo era dunque divenuto libero. Non era più proprietà e titolo di diritto della nobiltà o del clero ma dei cittadini e dei contadini cui veniva venduto o assegnato. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune. In tutte le discussioni aveva sempre la meglio il sentimento di libertà e di indipendenza appena riconquistate. Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune[1].”

L’appropriazione privata del suolo urbano ha costituito, per la città e la società che la abita, una sciagura colossale. È nata la speculazione:

“Ognuno vendeva il proprio fondo al prezzo più alto possibile. Lo sfruttamento speculativo del terreno da parte delle società fondiarie fu condotto con metodo.[…] La rendita più alta si ottiene dal terreno maggiormente sfruttabile: un’area su cui sia consentito costruire edifici di cinque piani, frutta più di un’area dove, secondo la legge edilizia in vigore, si possono costruire edifici di due o tre piani al massimo. In egual modo un’area edificabile per i tre quarti della superficie frutta una rendita maggiore rispetto ad una edificabile solo per un quarto o un quinto. La rendita ed il prezzo di vendita del terreno saranno tanto più alti, quanto più alto sarà il numero di appartamenti e negozi edificabili su di una determinata superficie. Come la speculazione fondiaria aveva imposto il gran numero di lotti d’angolo, anche l’edilizia riuscì ad imporre i cinque piani [2].”

La bellezza è stata sostituita dall’arricchimento del proprietario, il progetto non è più «lavoro creativo, ma un semplice problema di calcolo». E se «nella loro impotenza molte città istituirono a fianco della vigilanza per gli aspetti tecnici dell'edilizia anche una vigilanza estetica», presto «le sentenze [di quest'ultima] furono sentite non a torto come un'inopportuna intromissione in faccende private». Se la città non è proprietaria del suolo sul quale nasce e si sviluppa, il suo potere diventa subalterno, l’iniziativa passa ad altre mani: «Non potendo rifiutare progetti edilizi insoddisfacenti, la città è costretta ad accontentarsi di proporre solo miglioramenti, ecco perché la mediocrità predomina sempre»[3].

Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però, comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero. Ora invece non è più così: ora accade che

“[...]quando la città progetta di costruire una struttura pubblica come un parco, uno stadio, una scuola, una caserma dei vigili del fuoco o un cimitero, per reperire il terreno deve rivolgersi ai proprietari privati. Questi si mettono a disposizione sorridendo, ma lasciano cortesemente intendere che potrebbe essere una faccenda piuttosto costosa. Si inizia a trattare, a tirare sul prezzo e quanto più il terreno risulterà adatto agli scopi previsti, tanto più alto sarà il prezzo fissato dal proprietario. Il rappresentante del comune deve spesso abbandonare il gioco stringendosi nelle spalle. Cercare l’area adatta diventa una via crucis per molti edifici pubblici, perché un teatro, un museo o un municipio non possono accontentarsi di appezzamenti casuali. […]Per questo le nostre città difettano di aree libere per gli adulti e di parchi giochi per i bimbi. Occorre pagare un alto prezzo per il terreno [4].”

Per restituire funzionalità all’organismo urbano, per correggere gli effetti della privatizzazione del suolo la società ha dovuto ricorrere a strumenti parziali: gli espropri là dove le strade dovevano essere realizzate e dove la città doveva essere risanata o ristrutturata, la zonizzazione là dove occorreva regolare in modo differenziato l’edilizia, le sue utilizzazioni, i suoi rapporti col suolo. E’ nata così la pianificazione urbanistica, come strumento inventato per risolvere problemi che il mercato era incapace di affrontare[5].

Gli strumenti regolativi e autoritativi che la borghesia ha via via inventato per tentar di condizionare la perdita della disponibilità del suolo si sono rivelati in effetti strumenti utili per correggere gli errori più macroscopici e soddisfare le esigenze più urgenti: ma ciò è avvenuto solo là dove il potere della città (la politica, l’amministrazione) ha saputo contrastare con decisione il potere della proprietà immobiliare, sconfiggendolo o piegandolo. Quegli strumenti non sono stati mai utili all’interesse collettivo quando il potere pubblico è sceso a patti con i “poteri forti” della città, né tanto meno quando – come nell’attuale clima politico – si è addirittura proposto di rovesciare secoli di storia ed esercitare la pianificazione del suolo urbano mediante «l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi»[6].

Nel pensiero di Bernoulli l’esigenza pratica (il suolo deve essere indiviso perché la città possa essere bella e funzionale) si salda con l’esigenza morale: non è giusto che un bene comune, la terra, sia occupato dal primo che se ne impossessa, o dal più avvantaggiato dalla ricchezza o dal potere. Notevole è in lui l’influenza del pensatore statunitense che l’aveva da poco preceduto, Henry George (1839-1897)[7].

Per George l’appropriazione privata della terra era, nel mondo contemporaneo, un’illogicità palese:

“ […] far derivare un diritto individuale esclusivo e pieno all’uso della terra dalla priorità di occupazione, gli è questa, se possibile, la più assurda base, su cui uno possa collocarsi per difendere la proprietà della terra. La priorità di occupazione dare un titolo esclusivo e perpetuo alla superficie di un globo, su cui, nell’ordine della natura, generazioni innumere si succedono! O che gli uomini dell’ultima generazione avevano forse maggior diritto all’uso di questo globo che noi della generazione attuale? O lo ebbero quelli di cento, di mille anni fa? […] O che il primo arrivato ad un banchetto avrà il diritto di capovolgere le sedie e di pretendere che nessuno degli altri invitati tocchi la mensa apprestata, se prima non sia venuto a patti con lui? E chi primo presenta un biglietto alla porta di un teatro ed entra, acquisterà per questa sua priorità il diritto di chiuder le porte e di avere la rappresentazione per sé solo? E il viaggiatore che primo sale in vagone avrà il diritto di occupare coi suoi bagagli tutti i posti e di costringere quelli che salgono dopo di lui a starsene in piedi?[8]

Invero ciò che spingeva George a criticare la proprietà fondiaria e a denunciarne l’illogicità non era solo una sollecitazione morale, ma una precisa esigenza economica. L’obiettivo di George (tipografo autodidatta, ma attento lettore di Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mills) era quello di abolire le tasse sul reddito, che deprimevano produzione e consumo, per instaurare un’imposta unica sulla proprietà della terra. L’obiettivo che proponeva era contrastare con l’imposizione fiscale il peso della rendita; eliminare così, o fortemente ridurre, la taglia che questa pone allo sviluppo delle forze produttive, per potere liberare queste (liberare il profitto e il salario) e consentire alla loro dialettica di proseguire lo sviluppo della produzione e, per questa via, eliminare la povertà.

È interessante ricordarlo oggi, in Italia. La destra italiana è da tempo abissalmente lontana da quella del liberalismo e del liberismo dei Croce e degli Einaudi , e la borghesia del nostro paese è sempre stata più abile a stimolare l’accrescimento dell’assistenzialismo e del parassitismo di Stato che a impiegare innovazione e competizione per lo sviluppo della produzione. Ciò nonostante, non molti decenni fa l’obiettivo della riduzione del peso della rendita immobiliare era condiviso da un arco ampio di forze politiche e sociali, che andava dal pci a parti consistenti della dc, dai sindacati dei lavoratori a esponenti di spicco del mondo imprenditoriale. Oggi quell’obiettivo è scomparso su quasi tutti i versanti dello schieramento politico.

Attivo nel dopoguerra in molte città europee come urbanista e conferenziere, Bernoulli propagandò le sue idee e le sue esperienze nel fervido terreno della ricostruzione posbellica. La sua fama giunse anche in Italia. Il libro per il quale è più noto, La città e il suolo urbano, fu tradotto da Luigi Dodi e pubblicato da Vallardi nel 1951. Ebbe un peso notevole sulla cultura urbanistica italiana di quegli anni: gli anni fecondi in cui, nelle esperienze dei paesi dell’Europa socialdemocratica, si cercarono soluzione adeguate a rendere migliori le nostre città. Le argomentazioni dell’urbanista elvetico alimentarono il dibattito che sfociò nelle proposte di “riforma urbanistica” degli anni Sessanta. Si aprì allora quel vasto e inconcluso “processo di riforma” che non giunse a sciogliere il nodo della disponibilità dei suoli urbani, e condusse invece, fino alla conclusione del decennio successivo, a risultati parziali ma significativi: le leggi per sottrarre la condizione abitativa all’arbitrio totale del mercato, quelle per rafforzare il potere pubblico e generalizzare la pratica della pianificazione, quelle infine (last but not least) per sottrarre quantità adeguate di aree agli usi privati e al primato della speculazione per destinarle ai servizi collettivi e al verde.[9]

In realtà il peso della rendita nel sistema economico-sociale (e nel sistema di potere) dell’Italia postunitaria era ben più grave di quanto non fosse negli altri paesi dell’Europa. Il modo stesso in cui si era giunti alla formazione dello Stato unitario (un compromesso, di portata storica, tra la borghesia imprenditoriale e agraria del Nord e la feudalità latifondista e parassitaria del Sud) aveva costituito nella rendita fondiaria, e nelle classe sociali che ne beneficiavano, una delle colonne del potere condiviso della nuova direzione politica dello Stato. La trasformazione della rendita fondiaria agraria in rendita urbana, sapientemente descritto da Bernoulli nelle sue caratteristiche generali, era divampata in Italia ed era proseguita ininterrottamente in tutte le fasi di trasformazione demografica e d’espansione delle città che si sono susseguite (fatte salve le pause belliche) dall’Unità alla ricostruzione del secondo dopoguerra.

Non è casuale il fatto che l’utilizzazione delle tesi di Bernoulli e il dibattito sulla “riforma urbanistica” siano avvenute in Italia proprio in quel decennio. Negli anni Cinquanta del secolo scorso si cominciava a modificare sensibilmente lo scenario, sul terreno dei fatti e su quello delle consapevolezze.

Si era conclusa la fase della ricostruzione della base materiale del paese. Case, strade, ferrovie (le fabbriche erano state salvate dalla distruzione grazie alla resistenza della classe operaia) erano state ricostruite, con un massiccio ricorso all’attività di imprese edilizie frettolosamente allestite. Era appena stata approvata, nel periodo bellico, una buona legge urbanistica nazionale[10]. Ma gli strumenti della pianificazione da essa previsti erano stati presto accantonati, nella convinzione che ciò avrebbe significato liberare l’attività edilizia da lacci e lacciuoli, accelerando così la ricostruzione. Ciò avvenne, ma rendendo invivibili le città e devastando il territorio in vaste aree del paese.

Nello stesso periodo l’Italia, abbandonando l’autarchia imposta dal regime fascista, era entrata nel mercato mondiale. Per stimolare la ripresa della produzione industriale in settori in cui si riteneva più facile vincere la competizione con le imprese straniere, si promosse l’espansione della domanda di beni di consumo durevoli: primo fra tutti l’automobile. Si costruirono autostrade e si sostennero le industrie dell’automobile e dei pneumatici, ma si rinunciò alla ricerca di modalità collettive per risolvere problemi di massa, quale quello della mobilità. La rapida trasformazione dell’economia da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale provocò l’abbandono delle campagne e delle aree del Meridione e l’espansione incontrollata delle città e delle aree industriali del Nord. Aumentò così la congestione urbana.

La crescita della democrazia e l’ingresso delle donne nel processo produttivo aumentarono la domanda di servizi sociali, di verde pubblico, di asili e scuole. Aumentava insomma la domanda di aree per le esigenze collettive: ma l’urbanizzazione era dominata dalla speculazione, ogni lotto era utilizzato per costruire abitazioni vendibili. La carenza dei servizi che man mano divenivano essenziali, la mancata disponibilità di alloggi a prezzi moderati, le condizioni del traffico urbano, tutto ciò incideva pesantemente sui costi della vita. La spinta salariale divenne irresistibile: attraverso il carovita la rendita urbana e le disfunzioni della città premevano sul profitto.

L’imprenditoria più avanzata, che aveva raggiunto livelli competitivi con l’industria estera, cominciava a sentire ormai la rendita (e i suoi effetti sull’organizzazione urbana) come un ostacolo. Nelle regioni del Nord e del Centro l’ambiente sociale e quello economico divenivano favorevoli alla ripresa delle pratiche razionalizzatici della pianificazione urbanistica; e questa, infatti, governò, o almeno controllò, le trasformazioni delle regioni a Nord della Capitale.

Il tentativo di applicare quasi alla lettera la proposta di Bernoulli (realizzare l’espansione della città su suolo preliminarmente reso pubblico e concedere agli operatori il solo diritto di utilizzazione) fu coraggiosamente esperito da un ministro democristiano, Fiorentino Sullo. Egli propose una legge di riforma urbanistica che prevedeva che l’espansione delle città avvenisse, in modo generalizzato, su aree acquisite al patrimonio pubblico dei comuni e assegnato agli utilizzatori non in proprietà ma in uso, per un numero determinato di anni (“diritto di superficie” per 99 anni rinnovabili). Ma il blocco di potere che nei decenni si era saldato attorno alla rendita e all’attività edilizia frustrò il tentativo. Alla vigilia delle elezioni del 1963 il ministro fu sconfessato dal suo partito, sostituito nel nuovo governo. La sua proposta di legge venne ripresentata per più legislature dal pci, senza fortuna. Il vento aveva girato[11].

Si può dire che, da allora, la lotta per la riappropriazione del suolo urbano da parte della collettività si è trasformata da guerra dichiarata a guerriglia, si è ridotta da battaglia campale a un disordinato insieme di isolati episodi di lotta corpo a corpo, combattuti da qualche comune più avveduto o da qualche comitato di cittadini più agguerrito.

L’industria avanzata, dopo aver fornito occasionale sostegno ai tentativi di liberare profitto e salario dalla rendita [12], aveva trovato più comodo accomodarsi al banchetto della spartizione della ricchezza del paese. Non aveva investito il profitto nell’accrescimento del capitale industriale, cioè nell’accumulazione e nell’innovazione, ma aveva puntato in misura sempre più larga sulla rendita immobiliare e finanziaria.

Il tentativo di condizionare la rendita, di contrastarla con politiche urbanistiche orientate ad adoperare gli strumenti delle “piccole riforme” per migliorare le condizioni della vivibilità urbana (casa, servizi, trasporti, verde), è rimasta nelle mani delle amministrazioni locali. E’ soprattutto grazie a queste se in molte parti del paese le città hanno un certo ordine, se il rapporto tra spazi pubblici e aree private, tra spazi aperti e lotti edificati non è troppo distante da quello che si vede in altri paesi europei, se la vita urbana si svolge in condizioni decenti. Mentre è certamente al peso della rendita immobiliare, alla debolezza delle amministrazioni pubbliche, alla mancanza di una rigorosa e avveduta politica nazionale del territorio che si deve se, in altre parti del paese, il territorio è devastato e le città invivibili.

Si può dire che fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, sebbene fosse stata accantonata la speranza di un nuovo regime proprietario dei suoli urbani, la rendita immobiliare era comunque rimasta un soggetto pericoloso che occorreva contenere. Era rimasto intatto il principio che la città è un bene comune (la prima delle intuizioni di Bernoulli) e che quindi il suo governo, attraverso la pianificazione urbanistica, era responsabilità piena del potere pubblico. Il segno cambiò tra la fine degli anno Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.

Il potere politico, nel governo nazionale e nelle amministrazioni locali, non era più esercitato in funzione di interessi generali. Era diventato fine a se stesso. Il “partito” contava più dell’istituzione: la parte contava più del tutto. Per rafforzare la parte era lecito eludere la legge, fornire decisioni pubbliche per favorire interessi privati ottenendo in cambio una “tangente”. Le decisioni urbanistiche (insieme a quelle sulla gestione amministrativa) erano un terreno particolarmente favorevole al proliferare di queste pratiche. Se favorisco, con una variante al piano regolatore, il proprietario di un terreno perchè lui possa costruire edilizia da vendere il suo terreno vale di più, ottiene una rendita più elevata, può tagliarne una parte e regalarla sottobanco a me amministratore, o al mio partito.

Perchè ciò possa avvenire è necessario che la pianificazione non sia più un insieme di regole valide per tutti, formate in modo trasparente: così come la legislazione urbanistica, bene o male, impone di fare. Occorre che le scelte sul territorio siano contrattate tra i promotori immobiliari e l’amministrazione (o la segreteria del partito). Nacque così la pratica che ha preso il nome di urbanistica contrattata. Questa fu quindi, da una parte, l’espressione più piena di quel fenomeno che fu definito Tangentopoli[13], ma dall’altra parte fu una delle manifestazioni dello smarrimento di alcuni valori di fondo che la civiltà europea aveva sedimentato negli ultimi due secoli, nel tentativo di correggere alcuni errori più gravi del sistema capitalistico borghese e dell’economia di mercato, se non di superarne i limiti. Mi riferisco in primo luogo all’attribuzione al potere pubblico della responsabilità di decidere, con procedure trasparenti e partecipate, il futuro della città a partire dal suo disegno e dalle utilizzazioni dei suoli, superando la miopia delle scelte dettate da interessi individualistici. E mi riferisco in secondo luogo all’invenzione di strumenti di decisione che consentano di affrontare l’insieme dei problemi connessi al funzionamento della città, superando l’ottica frammentata del mercato.

Quando slogan come “privato è bello”, “meno Stato e più mercato”, “basta lacci e lacciuoli” divennero dominanti nell’area della destra e popolari in quella della sinistra, fu facile comprendere che era iniziata “la notte dell’urbanistica”[14]. Il terreno nel quale Hans Bernoulli (e altri saggi scrutatori della realtà) aveva gettato il suo seme era divenuto arido.

Tra gli urbanisti italiani, la fase che si aprì con Tangentopoli fu definita “controriforma urbanistica”. Era infatti il rovesciamento secco e l’antitesi di quella stagione di vera tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta.

Il punto più basso di questo vero e proprio declino della civiltà del governo urbano è stato probabilmente raggiunto nella stagione alla quale stiamo volgendo le spalle: quella dei reiterati condoni dell’abusivismo urbanistico, dello smantellamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, dell’assunzione del mercato a misura di tutte le cose, della privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica che abbia come obiettivi l’uguaglianza, la fraternità, la libertà. Il fenomeno più significativo è forse l’arroganza della nuova espressione del mondo della rendita, dei cosiddetti “immobiliaristi”.

L’incremento della rendita immobiliare che è stato promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata nei due decenni trascorsi è stato così consistente da consentire a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico, come la Banca nazionale del lavoro e il Corriere della sera. E’ stata documentata dalla magistratura la complicità di eccellenti organi istituzionali, come il Governatore della Banca d’Italia, ed è stata testimoniata dalla stampa la simpatia per gli “immobiliaristi” di insospettabili esponenti di gruppi politici, come il segretario nazionale dei ds.

Il documento più espressivo del clima degli anni che ci auguriamo siano alle nostre spalle è probabilmente la cosidetta «Legge Lupi»: in essa si proclama, e lucidamente si persegue, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa”, cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività “negoziale”, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[15].

Ma appaiono ormai all’orizzonte i segni di una svolta. L’aggravamento delle condizioni di vita nelle città (l’abitazione, il traffico, l’inquinamento) accresce la consapevolezza che occorre una politica regolatrice pubblica. I disastri che devastano il territorio e cancellano vite umane rivelano l’insensatezza delle pratiche che hanno consentito la trasformazione in una «repellente crosta di cemento e asfalto», come ripeteva Antonio Cederna. Il declino dell’industria italiana spinge a ricercarne le cause e ad individuarne una certamente non marginale nelle occasioni d’investimento alternative fornite dalle rendite finanziaria e immobiliare. Comincia a farsi strada la convinzione che il paesaggio, il territorio aperto, i beni culturali siano la ricchezza essenziale cui il paese può affidare il suo sviluppo, abbandonando i traguardi della crescita quantitativa della produzione di merci per costruire le prospettive “innovative” della messa in valore delle qualità dei beni storici, artistici, culturali, naturali dei quali il nostro territorio è intriso.

È maturo il tempo per rileggere le pagine di Hans Bernoulli, in una traduzione fedele alla pulizia e allo stile del linguaggio lirico nel quale fu scritto (l’urbanista era anche letterato e poeta), non per compiacersene, ma per trarne le conseguenze culturali e politiche.

[1] Qui pag. 35-36.

[2] Qui pag. 37, 38.

[3] Qui pag. 39.

[4] Qui pag. 39.

[5]Il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, può essere considerato quello di New York del 1811. La città aveva raggiunto 60 mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e depositi. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori. Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città.

[6] Il riferimento è al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005. Si veda in proposito Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”, Alinea editrice, Firenze 2005.

[7] Nato a Filadelfia nel 1830, morto a New York nel 1897, Henry George fece molti mestieri: marinaio, minatore, tipografo: Girò il mondo, prima e dopo aver scritto l’opera per la quale è noto. Progresso e povertà ebbe una notevole diffusione, non solo nei paesi di lingua anglosassone. Autodidatta, studiò l’economia sui testi dei classici dell’epoca, ma soprattutto sulle condizioni reali del mondo del lavoro. La sua teoria trasse ispirazione da David Ricardo e da John Stuart Mill; influenzò particolarmente il pensiero del socialismo americano ed europeo della fine del xix secolo.

[8]Henry George, Progresso e Povertà. Indagine sulle cause delle crisi industriali e dell’aumento della povertà in mezzo all’aumento della ricchezza. Il Rimedio, Robert Schalkenbach Foundation, New York 1963 (ristampa dell’edizione italiana utet, trad. di Ludovico Eusebio, Torino 1888).

[9] Mi riferisco in particolare: alla legge 167/1962, che promosse la costruzione di quartieri integrati socialmente e urbanisticamente, finanziati con risorse pubbliche e private, su terreni preliminarmente espropriati dai comuni, dotati di tutti i servizi necessari; alla legge 765/1967 e al successivo decreto 1444/1968, che generalizzarono la pianificazione urbanistica, regolarono le lottizzazioni a scopo edificatorio e imposero la presenza, nei piani urbanistici, di una quota minima di aree per il verde e i servizi pubblici nei piani urbanistici; alla legge 865/1971, che instaurò un’efficace sistema di programmazione statale, regionale e comunale per il finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica; alla legge 10/1977, che introdusse (sia pure ambiguamente) il principio che la facoltà di costruire non è una diritto appartenente alla proprietà ma il risultato di una concessione pubblica; la legge 392/1978, che rese omogeneo e governabile (ma non fu governato) il controllo pubblico sui prezzi delle abitazioni private.

[10] Legge 14 agosto 1942 n. 1150, «Legge urbanistica».

[11]Lo scandalo edilizio è il dolorante racconto della vicenda da parte del suo maggiore protagonista, Fiorentino Sullo. Un’analisi rigorosa della realtà sociale che provocò la sconfitta di Sullo è costituita dal saggio di V. Parlato, Il blocco edilizio, pubblicato sulla rivista Il Manifesto, nel n. 3-4 del 1970; ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972. E’ disponibile online in eddyburg.it.

[12] In un’intervista rilasciata al settimanale l’Espresso, Gianni Agnelli, presidente della fiat e dopo poco presidente della Confindustria, si dichiarò convinto “che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impreSa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire”. Citato in P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] «L'urbanistica contrattata è la sostituzione, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti» (Della Seta, Salzano, L’Italia a sacco, p. 100).

[14] Fu il titolo di una grande manifestazione popolare, organizzata da Vezio De Lucia e Antonio Bassolino, sulla spiaggia di Bagnoli, in occasione dell’approvazione della legge Berlusconi-Radice sul condono edilizio, nell’estate del 1994.

[15] Mi riferisco al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» approvato dalla Camera dei deputati ma decaduto non avendo avuto l'approvazione del Senato prima dello scioglimento del parlamento. Il testo del disegno di legge e un’ampia rassegna delle critiche sollevate è contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”.

Il sito delle edizioni Corte del Fontego

Non ha suscitato grande attenzione la presentazione di alcune proposte di legge in materia di governo del territorio (dall’on. Lupi e altri per la “ Casa delle libertà” e dall’on. Mantini e altri per la Margherita). Siamo molto lontani dal clima degli storici dibattiti sulla “ riforma urbanistica”, che investivano l’intera società. Del resto, non di riforma si tratta, ma di piccoli aggiustamenti. Spesso su punti di un certo rilievo. Spesso con soluzioni pessime.

Cominciamo dalle definizioni. Non si tratta più di “ urbanistica”, ma di “governo del territorio”. Per la proposta Lupi il governo del territorio consiste nella disciplina degli usi del suolo e della mobilità, nel rispetto della tutela del suolo, dell'ambiente e dei beni culturali e ambientali” (art.1, c. 2). Per Mantini, il governo del territorio “disciplina la gestione, la tutela, l'uso e le trasformazioni più rilevanti del territorio nonché la valorizzazione del paesaggio” (art. 1, c.2). Un po’ meglio Mantini, che – almeno a livello di definizione – inserisce la “tutela” (solo delle “trasformazioni più rilevanti”) e il “paesaggio” (ma solo la “valorizzazione”) tra gli aspetti da disciplinare; per Lupi si tratta schiettamente di altre cose, da “rispettare”.

Vale la pena di ricordare la classica definizione di urbanistica, elaborata da Massimo Severo Giannini e inserita nel decreto presidenziale 616 del 1977. Allora (altri tempi, altra Repubblica, altra cultura) si definiva l’ urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente” (art. 80). Una definizione ben più comprensiva e ampia.

Ma entriamo nel merito. Cominciamo dalla proposta della “Casa delle libertà”. Quattro aspetti mi hanno soprattutto colpito.

Il primo. Secondo Lupi la pianificazione del territorio avviene “sentiti i soggetti interessati” (art. 3, c. 2). Si precisa che “le funzioni amministrative” (la pianificazione) “sono svolte in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati ai quali va riconosciuto comunque il diritto alla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti” (c. 3). Fino ad oggi il piano urbanistico esprimeva la volontà ; dell’amministrazione elettiva, e solo dopo veniva sottoposta al parere dei privati. Adesso il procedimento è invertito: il piano è redatto sulla base delle espressioni di volontà dei “soggetti interessati”. Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di “soggetti intere ssati” ci si riferisca alla cittadina e al cittadino? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare.

Il secondo. Per la proposta Lupi “Le regioni individuano gli ambiti territoriali da pianificare e l’ente competente alla pianificazione” (art. 4, c. 1). Fino a oggi l’ambito e l’ente competente erano quelli dei comuni, della cui competenza a pianificare nessuno aveva mai dubitato. In nome dell’efficienza ci si propone di affidare alle regioni la facoltà di annullare una delle fondamentali storiche competenze dei comuni. E’ lecito sollevare dubbi molto seri su questo modo (è costituzionalmente corretto) di modificare la corrispondenza tra assetto istituzionale e titolarità della pianificazione urbanistica.

Il terzo. L’attuazione del piano urbanistico (è il titolo dell’ ;articolo 7) configurata dalla proposta Lupi non può essere illustrata in poche righe. Mi limito a osservare che, assumendo in pieno le posizioni in proposito dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, la “Casa delle libertà” sollecita l’impiego di “strumenti e modalità di perequazione e di compensazione” (art. 7, c. 2), e propone di introdurre per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di “diritti edificatori” i quali vengono attribuiti dal piano urbanistico nei modi che dovranno essere regolamentati dalla regione. Ciò palesemente significa ribadire e rafforzare i poteri della proprietà immobiliare. Tutta la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel sostenere che nessun “diritto edificatorio” (termine comunque assolutamente improprio, dicono i giuristi, perché non di un diritto si tratta ma di facoltà) viene attribuito da una scelta del piano urbanistico, e che quindi perequazioni e compensazioni possono essere strumenti utili dal punto di vista pratico (e come tali furono già introdotti dalla legge 1150/1942 e dalla 765/1967). Stabilire oggi per legge che i piani attribuiscono quel diritto significa quindi conferire alla proprietà fondiaria un peso che il diritto non le aveva mai riconosciuto 1 . Ma questo, evidentemente, è coerente con quel poco di impostazione “culturale” comune che le variegate componenti della “Casa delle libertà” possiedono.

Il quarto. La proposta Lupi prevede che il proprietario di un’area destinata a servizi pubblici (un parco, una scuola, un ospedale) può chiedere al comune “la realizzazione diretta degli interventi d’ interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’ amministrazione per la gestione dei servizi” (art. 7, c. 5). La questione dell’attuazione delle previsioni relative alla realizzazione e gestione degli spazi pubblici è certamente questione complessa, nell’ambito della quale il concorso dei privati nella gestione (e magari nella realizzazione) di certi impianti e attrezzature può utilmente essere configurato. Affrontata in modo così grezzo e semplicistico la proposta ha un solo significato, sintetizzabile in una frase: prosegue la marcia verso la privatizzazione di tutto ciò che, dopo la rivoluzione borghese del 18° secolo, si era mano a mano affidato al pubblico ne l corso dei successivi due secoli, per correggere le storture di un sistema imperfetto. Così, del resto, si sta procedendo nel settore del patrimonio pubblico esistente e dei beni culturali 2.

Questi sono allora, in sintesi, le tendenze più rilevanti (e i rischi più gravi) che si manifestano nella proposta di legge della “Casa delle libertà”: indebolimento del potere pubblico nei confronti dei privati e, in particolare, della proprietà immobiliare; devoluzione particolarmente ampia del governo del territorio al livello regionale; scissione della forma di governo che si esprime con la tutela da quella che si esplicita con le trasformazioni.

Non sono molto diverse le critiche che si possono muovere alla legge presentata dai deputati della Margherita (primo firmatario l’on. Mantini), sebbene in essa non manchino spunti interessanti e una certa maggiore dignità.

Cominciamo dalla questione, davvero centrale, del rapporto tra pubblico e privato. La proposta Mantini afferma che “il governo del territorio è ispirato al rispetto degli interessi pubblici primari indicati dalla legge e al perseguimento dell'interesse pubblico concreto individuato attraverso il metodo del confronto comparato tra interessi pubblici e privati” (art. 5, c. 2). Leggiamo la relazione per comprendere meglio. A proposito del “confronto comparato tra interessi pubblici e privati” vi si afferma: “Si evidenziano, in tal modo, la natura inevitabilmente pubblicistica della funzione e, nel contempo, la flessibilità e l'articolazione dei mezzi e degli strumenti (urbanistica negoziale, programmazione partecipata, società di trasformazione urbana, eccetera) superando gli anacronistici caratteri di unilateralità e di autoritativa tipici degli atti urbanistici tradizionali”. Il punto è che gli strumenti cui si riferisce (urbanistica negoziale, programmazione partecipata) sono i veicoli attraverso i quali non interviene nelle scelte un generico “ ;privato” (cittadina o cittadino, associazione o comitato portatore di interessi diffusi), e neppure un generico “privato economico” (operatori finalizzati alla realizzazione di impianti produttivi di merci o di servizi), ma quello specifico “privato economico parassitario” che, in Italia, è l’unico storicamente presente nelle “ negoziazioni” e “partecipazioni” in materia di trasformazioni urbane e territoriali. Possibile che non sappiano questo, l’on. Mantini e i suoi colleghi co-firmatari della proposta di legge? Evidentemente non lo sanno, dato che insistono su questa linea.

Nell’articolo che si riferisce alla “partecipazione al procedimento di pianificazione” la proposta Mantini distingue due categorie di soggetti: le “associazioni economiche e sociali” da una parte, e dall’altra parte i “cittadini” e le “associazioni costituite per la tutela di interessi diffusi”. Ma mentre per le prime si prevede “il coinvolgimento […] in merito agli obiettivi strategici e di sviluppo da perseguire”, per le seconde ci si limita ad assicurare “le forme di pubblicità e di partecipazione […] in ordine ai contenuti degli strumenti” di pianificazione(art. 7, c. 1). Due pesi e due misure, insomma. La Confedilizia, ad esempio, sarà “coinvolta” nella definizione delle scelte strategiche sullo sviluppo, la povera Legambiente, invece, sarà informata dei “contenuti” del piano.

Ma non basta. Per garantire ulteriormente gli interessi economici tradizionali, si propone di prescrivere che “nell'ambito della formazione degli strumenti che incidono direttamente su situazioni giuridiche soggettive deve essere garantita la partecipazione dei soggetti interessati al procedimento, attraverso la più ampia pubblicità degli atti e dei documenti comunque concernenti la pianificazione, assicurando il tempestivo e adeguato esame delle osservazioni dei soggetti intervenuti e l'indicazione delle motivazioni in merito all'accoglimento o meno delle stesse”.

Chi sono i soggetti sulla cui “situazione giuridica soggettiva” il piano può incidere? I giuristi rispondono: i proprietari immobiliari. Per questi è definita, ope lex Mantini et alii, una corsia privilegiata. I loro interessi non sono tutelati solo, come oggi spesso avviene, dall’assessore compiacente o dal funzionario infedele, ma dalla stessa legge!

Un interessante risvolto è costruito dall’articolo che si riferisce agli “accordi con i privati”. Si afferma che “gli enti locali possono concludere accordi con i soggetti privati, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell'atto amministrativo e attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi, al fine di recepire negli atti di pianificazione proposte di interventi, in attuazione coerente degli obiettivi strategici contenuti negli atti di pianificazione e delle dotazioni minime di cui all'articolo 9, la cui localizzazione è di competenza pubblica” (art. 8, c. 1).

Questo dovrebbe significare che i proprietari immobiliari (ciascuno dei quali non è certo in condizioni di concorrenza, poiché è proprietario di un unico bene, ben individuato e definito) sono esclusi dagli “accordi”. Eccezione rispetto a una linea compiacente con gli interessi immobiliari? Errore?

Anche la proposta Mantini separa nettamente il governo delle trasformazioni da quello delle tutele. Si comincia dall’esercizio delle funzioni statali: precisamente, dal contenuto delle decisioni territoriali dello Stato attraverso “l’identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale” (DPR 616/1977).

Queste riguardano unicamente la “articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, dei principali interventi ambientali e di trasformazione mineraria” nonché la “promozione di programmi innovativi in ambito urbano che implicano un intervento coordinato da parte di diverse amministrazioni dello Stato e sono dichiarati di interesse nazionale” (art. 2, c. 1).

Del tutto “separate”, fin dal titolo dell’ articolo 3 che le concerne, le tutele. “Le competenze degli enti parco, delle autorità di bacino, delle sovrintendenze com petenti per i beni storico-artistici e ambientali nonché dei soggetti titolari di interessi pubblici incidenti nel governo del territorio sono definite dalla legislazione statale e regionale ed esercitate in raccordo con gli atti di pianificazione di cui alla presente legge, con l'obiettivo di coordinare, attraverso sedi di co-decisione e intese procedimentali, le tutele settoriali con gli atti di pianificazione urbanistica e territoriale”. Separate, e ovviamente “raccordate”: il che significa nulla (art. 3, c. 1).

Sviluppo da una parte, insomma, tutele dall’altro. Questa separazione è la negazione della pianificazione; è il contrario della sintesi necessaria per trasformare tenendo conto dell’insieme delle esigenze; è una delle cause dell’inefficacia delle scelte, paralizzate dai veti che nascono quando, ad esempio, un traforo per un’infrastruttura o il tracciato di un’altra minacciano una risorsa idrica o una foresta preziosa o un rilevante paesaggio rurale. I conflitti che nascono a posteriori sono evitabili unicamente da quella negoziazione a priori tra gli interessi collettivi in cui risiede la pianificazione territoriale (e la politica).

L’on. Mantini e i suoi colleghi si sono resi conto del problema, e hanno tentato di risolverlo in un successivo articolo; ma non ci sono riusciti. A proposito di “concertazione istituzionale” propongono infatti di stabilire che “ gli atti di pianificazione sono approvati da parte dell'ente competente previa certificazione e verifica di compatibilità con il sistema dei vincoli di natura ambientale e paesaggistica” (art. 6, c. 2). Come avviene però la verifica di compatibilità? “Le verifiche di compatibilità e di coerenza, ove comportino conflitto di previsioni, sono svolte attraverso una apposita conferenza di pianificazione, con la partecipazione degli enti pubblici competenti e dei soggetti concessionari dei servizi pubblici interessati”. Bene. Allora, se il titolare di un interesse ambientale e paesaggistico vuole opporsi a una decisione in contrasto con il bene protetto può farlo? No. Il medesimo comma prosegue e stabilisce che “le decisioni relative al mutamento degli assetti vigenti sono assunte, in difetto di unanimità, a maggioranza dei soggetti partecipanti” (art. 6, c. 3).

Una novità interessante che la proposta Mantini vuole introdurre riguarda le zone agricole. Mantini e i suoi co-firmatari propongono di prescrivere che “il territorio non urbanizzato è edificabile solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente” (art. 8, c. 1). Affermazione giustissima, ma timida. Le opere e le infrastrutture pubbliche sono tra le trasformazioni che più, e spesso più inutilmente, hanno devastato i paesaggi naturali e rurali nel nostro paese (non così in moltissime altre regioni d’Europa). Tra i “servizi per l’agriturismo” legislatori regionali distratti o compiacenti potrebbero includere tutto, e molto potrebbero lasciar passare tra “servizi all’agricoltura” accompagnati da leggi derogatorie sulle conversioni d’uso (quanti magazzi ni e depositi agricoli sono stati legittimamente convertiti in discoteche?). Forse è arrivato il momento di prescrivere che il paesaggio rurale deve avere lo stesso livello di protezione che, negli anni Sessanta, cultura e opinione pubblica riconobbero necessari per i centri storici.

Per concludere. Nonostante le indubbie differenze (tra queste merita d’ essere segnalata l’impostazione corretta che la proposta Mantini formula per la perequazione e le compensazioni), tra le due proposte si colgono numerosi elementi di omogeneità culturale, riconducibili in parte alle posizioni dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, in parte alla nevrosi federalista che da tempo colpisce la maggioranza del Parlamento italiano. Stupisce che nessuna delle formazioni politiche della sinistra (né il DS, né Rifondazione comunista, né i Comunisti italiani, né i Verdi) abbiano, se non anticipato, almeno reagito con una proposta alternativa.

La pianificazione d’area vasta, nel nostro paese, non nasce nel 1990. Non nasce con la legge 142, “Nuove norme sull’ordinamento degli enti locali”. Nasce molto prima, sia come esperienze concrete sia come esigenza, dibattito, sperimentazione e ricerca di soluzioni giuste: soluzioni, cioè, culturalmente fondate, amministrativamente valide, politicamente praticabili. Se si vuole comprendere lo stato attuale della pianificazione d’area vasta, i suoi problemi, le sue difficoltà e i suoi successi, è della sua storia che occorre avere consapevolezza.

Lo strano decennio

Della pianificazione d’area vasta si cominciò a parlare e a discutere, e a lavorare, in quello strano decennio del XX secolo (grosso modo dalla fine degli anni Venti all’inizio dei Quaranta) che separa tra loro la grande crisi esplosa a Wall Street e la Seconda guerra mondiale. E si cominciò a farlo non solo negli USA e in Gran Bretagna, ma anche in Italia.

Tra le esperienze italiane vorrei ricordare la bonifica delle Paludi pontine e la conseguente realizzazione di città e paesi, di canali, strade e ferrovie, di zone industriali e di parchi. Tra gli istituti amministrativamente validi (quegli istituti giuridicamente fondati che quasi sempre seguono le esperienze pratiche e tentano di generalizzarne gli esiti) vorrei ricordare due delle figure pianificatorie introdotte dalla legge 1150 del 1942: il piano intercomunale in primo luogo, che avrebbe dovuto consentire di governare le trasformazioni territoriali nelle aree più dense, e il piano territoriale di coordinamento, che avrebbe dovuto consentire il governo delle realtà più ampie: quelle che dalla dimensione dell’intercomunalità si allargano a quella, appunto della “area vasta”.

Decenni di silenzio

Perché per mezzo secolo la pianificazione d’area vasta non è stata praticata se non eccezionalmente? Le ragioni di fondo sono ormai acquisite alla storiografia urbanistica. Concluso, nel 1945, il periodo bellico, la necessità di ricostruire le infrastrutture, il patrimonio edilizio e gli apparati produttivi (questi ultimi, fortunatamente, in gran parte salvati dagli operai) non si utilizzò – come invece fecero altri paesi europei – il metodo e gli strumenti della pianificazione: si abbandonò invece quest’ultima, abbandonando la ricostruzione, e il successivo sviluppo, alla logica del più brutale spontaneismo.

E quando lo sviluppo di forze produttive moderne fece riemergere l’esigenza della razionalità dell’assetto urbano, l’unica pianificazione che venne rilanciata fu quella a livello locale. Del resto, l’unico adeguamento legislativo che era stato compiuto (oltre all’introduzione di provvedimenti che consentissero di derogare alla pianificazione) era stata la sostituzione dei termini del lessico fascista (Podestà, Camera dei fasci e delle Corporazioni, Casa del Fascio ecc.) con quelli del lessico democratico (Sindaco, Parlamento, servizi pubblici ecc.)

Alcuni generosi tentativi compiuti negli anni Cinquanta (il piano del canavese promosso da Adriano Olivetti, quello piemontese del gruppo coordinato da Giovanni Astengo, il manuale per la pianificazione regionale commissionato dal Ministero dei Llpp ad Astengo) restano isolati episodi. È solo nel corso degli anni Settanta che si tenta di riprendere, in modo generalizzato, la sperimentazione di una dimensione d’area vasta nella pianificazione.

Si ricomincia

Molte sono le soluzioni tentate. Superate le resistenze dei partiti di centro (e in particolare della DC), timorosi di un “potere rosso” nell’area centrale della Penisola, si sono finalmente istituite le regioni (istituto cui gli urbanisti hanno sempre dato notevole rilievo): è da esse che finalmente verrà, si spera, un quadro certo e razionale sull’assetto del territorio, una disciplina che darà coerenza d’insieme alle politiche urbanistiche e a quelle, infrastrutturali e localizzative, che spettano allo Stato: alcune regioni lavorano e producono i primi piani urbanistici regionali, o piani territoriali di coordinamento, o piani territoriali regionali (Governo e Parlamento si guardano bene dal coordinare alcunché), altre lavorano male, o non lavorano affatto: amministrano il giorno per giorno, distribuiscono a pioggia le risorse di cui dispongono.

Ci si rende conto subito che il livello regionale della pianificazione d’area vasta non è sufficiente: troppo ampia è la forbice tra le decisioni che la Regione può governare con efficacia, e quelle proprie del livello comunale. Occorre un “livello intermedio” della pianificazione. Si sperimentano varie strade: quelle che fu tentata più a lungo, è quella dei “comprensori”: enti elettivi di secondo grado (i membri dei consigli comprensoriali vengono eletti dai consiglieri comunali), oppure emanazione delle regioni, oppure – nei casi istituzionalmente più perversi – costituiti a mezzadria tra regione e comuni. Leggi regionali (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto), a volte coraggiose, precisano caratteristiche, poteri, competenze dei comprensori. Ma l’esperienza dura pochi anni. Né più a lungo dura quella del “comprensorio speciale” previsto dalla legge per Venezia.

Il fallimento dei comprensorie la nascita della pianificazione provinciale

Perché il fallimento? Una ragione sostanziale fu individuata nel fatto che i comprensori non avevano poteri propri. I soggetti che componevano gli rogani decisionali non erano investiti direttamente dall’elettorato, ma rappresentavano in primo luogo il comune, o la regione, che li aveva eletti come “suoi” rappresentanti nei governi comprensoriali. Poiché gli interessi dei diversi livelli possono essere, e spesso sono, in contraddizione tra loro (con buona pace dei fautori della concertazione ad ogni costo), i contrasti interni provocavano la paralisi di ogni decisione. Fu negli anni Settanta che emerse la posizione più ragionevole: a ogni livello di pianificazione deve corrispondere un livello di governo autorevole, e perciò eletto direttamente dai cittadini.

Fu così che matura, negli anni successivi, la proposta di attribuire potere di pianificazione del “livello intermedio” alle province. Nate sulla scia dell’ordinamento statuale napoleonico come emanazione dei poteri del governo nazionale, trasformate in organi elettivi e articolazioni dell’ordinamento repubblicano con la Costituzione del 1948, le province avevano però poteri debolissimi: caccia e pesca, assistenza psichiatrica, scuole superiori, strade di livello intermedio, e pochissimo altro. Dopo un lungo dibattito, è nel 1990 che, con la legge 142, si assegna alle province il ruolo e le competenze in merito alla pianificazione d’area vasta.

Poiché in Italia, dal 1948, la competenza in materia urbanistica è attribuita alle regioni, è a questa che la legge 142/1990 ha affidato il compito di definire obiettivi, contenuti, procedure, risorse per la formazione della pianificazione provinciale. Alcune regioni hanno legiferato, altre no. Tra le regioni renitenti è allineata anche la Campania.

La pianificazionenella Provincia di Salerno

Ma la pianificazione del territorio non è un ornamento, né l’adempimento di una prescrizione legislativa: la pianificazione del territorio, in una realtà moderna, è una necessità. Soprattutto là dove vi sono risorse ambientali e culturali ingenti, potenziale fonti di sviluppo ma soggette a rischi di degrado, dove l’organizzazione del territorio pone problemi complessi che i singoli comuni non possono risolvere da soli, dove la contraddizione tra aree a sviluppo intensivo e aree caratterizzate da fragilità economica e sociale minaccia di accentuarsi. Per questa ragione, nelle more di un provvedimento regionale, i reggitori della Provincia di Salerno decidono di partire da soli. Nel 1995 il processo si avvia, con un documento d’indirizzo della Giunta provinciale approvato dall’intero Consiglio.

Il documento definisce la pianificazione come “un processo sistematico e continuo di programmazione e gestione del territorio”, volto a “indirizzare le politiche comunali e coordinarle per creare le condizioni di una migliore organizzazione e assetto del territorio che, partendo dalla tutela e valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, consente di far interagire tra loro le diverse componenti che concorrono allo sviluppo socio-economico sostenibile dell’area”.

L’iter di formazione del Piano territoriale è visto come “un processo unitario nel quale i diversi soggetti intervengono per determinare, nell’ambito delle loro competenze, un unico sistema di scelte”. Ove la collaborazione tra tali soggetti non consentisse, su determinati punti, di giungere “ad una convergenza d’intenti”, si assumeranno comunque le decisioni necessarie “la cui responsabilità ricadrà sull’ente al quale la legge affida competenze superiori”[1].

Tra Stato e comuni

Quest’ultima affermazione tocca un punto di grande rilievo. La pianificazione d’area vasta interviene, nel nostro paese, quando si è già consolidata (dove più, dove meno) una prassi di pianificazione come prerogativa dei comuni, e una prassi di decisioni sul territorio (le grandi infrastrutture, i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, l’approvazione dei piani) affidata allo Stato (e, negli ultimi decenni, in parte alle regioni). È tra questi due livelli, quello statuale (e regionale) e quello comunale, che deve inserirsi la pianificazione d’area vasta provinciale. Essa deve perciò guadagnarsi sul campo i galloni: dimostrarsi utile ai comuni, dimostrarsi efficace e autorevole alla regione e allo stato.

Sul fronte “a monte” la situazione non è certo brillante. Se il Parlamento nazionale ha legiferato sin dal 1990, quello regionale della Campania ha brillato per la sua inerzia. Non solo non esiste una legge urbanistica che attribuisca contenuti, poteri e procedure alla pianificazione provinciale, ma addirittura si è stabilito che alla Provincia è sottratto perfino il potere di approvare i piani comunali della grande maggioranza dei comuni[2]. Vedremo nei prossimi mesi, benché l’alba della nuova Giunta non sembri molto felice[3]

Sul fronte “a valle” la Provincia di Salerno sta conquistando il suo ruolo con una serie di azioni le quali, se a volte corrono il rischio di un eccessivo empirismo, concorrono comunque efficacemente ad affermare il ruolo pratico della Provincia nell’affrontare, e condurre a proposte convincenti e condivise, situazioni territoriali o di settore che i comuni non possono affrontare da soli, e la cui soluzione contribuisce invece a risolvere conflitti nell’uso delle risorse e a migliorare il livello di servizio di ampie zone del territorio provinciale.

Ma dietro queste pratiche si cela una questione più complessa, alla quale la frase citata del documento della Giunta provinciale direttamente si riferisce: Quali sono le “competenze superiori” che la legge affida alla pianificazione provinciale; o meglio, in assenza di una legge chiara, sulla base di quale principio può individuare il discrimine tra competenze provinciali e comunali nella pianificazione?

Il principio di sussidiarietà

Il principio al quale ci si po’ riferire è quello “di sussidiarietà”. Poiché se ne parla spesso a sproposito, vediamolo nella sua interpretazione più autorevole. Esso è stato definito compiutamente nell’articolo 3b degli Accordi di Mastricht (che regolano i rapporti tra l’Unione europea e gli stati membri): “Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.

Sulla base di questo principio, sono allora di competenza della pianificazione provinciale quegli interventi, e quelle azioni, che “a causa della loro scala o dei loro effetti” possono essere compresi e governati meglio al livello territoriale della Provincia che a quello del singolo comune.

È chiaro quindi che “appartengono” alla pianificazione d’area vasta provinciale due grandi campi di decisione. Da un lato, quelli che attengono ai sistemi ambientali: alla tutela e all’uso delle risorse naturali e culturali, al paesaggio, alla tutela del suolo e dell’acqua e agli interventi volti alla prevenzione dei rischi. Dall’altro lato, quelli che riguardano la grande attrezzatura del territorio visto come sistema insediativo: come insieme di infrastrutture, attrezzature, servizi, centri i quali sono funzionali non alla vita di questa o quella unità di vicinato, di questo o quel comune, ma del sistema insediativo provinciale nel suo complesso.

Una interpretazione di “pianificazione”e alcune sue conseguenze

È tenendo conto del contesto e dei criteri indicati nelle righe che precedono che si è operato per giungere alla bozza di Piano territoriale di coordinamento provinciale, che la scheda qui accanto illustra nel suo procedimento di formazione e nella sintesi dei suoi contenuti. Poiché peraltro al termine di “pianificazione territoriale” si danno spesso significati molto diversi,opportuno precisare, nel concludere queste note, l’idea di pianificazione cui si è fatto riferimento nel costruire il PTC salernitano.

Intendo per “pianificazione” un’azione, continua e sistematica, condotta dall’ente elettivo rappresentativo della volontà generale dei cittadini, volta a conferire coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio, in vista di un determinato sistema di obiettivi socialmente condivisi. Ciascuno dei termini che ho adoperato meriterebbe di essere discusso. Dall’analisi di ciascuno di essi si potrebbero trarre indicazioni operative. Alcuni rinviano a questioni ancora aperte: penso all’interesse generale, e penso alla condivisione sociale: due questioni sulle quali una contaminazione della nostra disciplina con le scienze politiche, e della nostra tradizione pianificatoria nazionale con le esperienze e tradizioni europee ed americane potrebbe risultare feconda.

E preferisco parlare di “pianificazione” anziché di “piano” perché ritengo che ciò che serve per governare il territorio non è un documento elaborato una volta per tutte, singolare, magari accattivante come un bell’oggetto (e come tale pubblicato su patinate riviste), e neppure una serie o una congerie di piani, ma una pianificazione: un’attività continua, costante e sistematica, che esprima nel tempo la capacità di governare le “scelte politiche tecnicamente assistite” in cui (come afferma Francesco Indovina) si esprime la pianificazione territoriale e urbana, a tutte le scale e i livelli.

Vorrei concludere sottolineando che puntare alla “pianificazione” anziché al “fare un piano” significa anche assegnare un’importanza particolare alla costituzione di una struttura capace di assistere tecnicamente la politica nel governo del territorio: un Ufficio del piano, adeguatamente attrezzato, efficace, autorevole, e di un apparato tecnico capace di costruire, aggiornare e gestire il crescente patrimonio informativo necessario per un avveduto governo del territorio – un Sistema informativo territoriale. Il difficile percorso della formazione di questi due strumenti è perciò parte costitutiva della costruzione della pianificazione territoriale nella provincia di Salerno.

[1] Il documento di indirizzi individua i principali obiettivi cui la pianificazione territoriale è chiamata a fornire idonee soluzioni. Ci si limita in questa sede a sintetizzare i più rilevanti:

1.il ruolo della questione ambientale, individuato nel porre le risorse ambientali “non come vincolo allo sviluppo ma come parametro implicito di qualificazione”;

2.“valorizzazione del sistema dei beni e delle risorse storiche e paesistiche-ambientali per il loro valore intrinseco e per la loro stessa potenzialità economica”, da considerare come “condizione primaria” per gli altri sistemi;

3.il ruolo della pianificazione territoriale “nella determinazione dei criteri di organizzazione degli insediamenti urbani, la localizzazione dei servizi e delle attrezzature di livello sovracomunale, la funzionalità del sistema della mobilità” deve essere finalizzato al miglioramento della qualità del sistema insediativo;

4.assunzione dell’obbiettivo del superamento della “attuale distinzione tra aree forti e aree marginali”, puntanto sd un “modello insediativo pluricentrico sul territorio che miri a correggere la spontanea aggregazione di funzioni ed insediamenti attorno al capoluogo e ai centri maggiori”;

5.riqualificazione e articolazione dell’offerta turistica basata sull’esaltazione della differenza dei siti e assunzione di nuove strategie per il rafforzamento, la razionalizzazione e la riconversione ecologica delle funzioni industriali, commerciali, turistiche e industriali;

6.soluzione del problema della mobilità attraverso una visione integrata delle diverse reti e modalità, e affrontando anche la questione della localizzazione sul territorio delle funzioni generatrici di domanda di traffico;

7.definizione di norme, indirizzi e direttive per la riqualificazione delle aree già urbanizzate e abitate, aumentandola dotazione di verde e di servizi, stmolando il recupero della permeabilità dei suoli, aumentando il grado di ossigenazione, utilizzando i corsi d’acqua previo disinquinamento e rinaturalizzazione ecc..

[2]Infatti i PRG dei capoluoghi di provincia sono approvati dalla regione, quelli dei comuni compresi nelle Comunità montane da queste ultime.

[3] Si veda in proposito l’articolo di Luigi Scano, su questo stesso numero.

Mentre si apre la nuova legislatura, è forse utile mettere in fila alcuni avvenimenti che si sono susseguiti sul finire di quella consegnata agli archivi. Avvenimenti che non hanno trovato una eco adeguata non solo perché coperti dal clamore della campagna elettorale e degli eventi che l'hanno preceduta e accompagnata (le picconate, le guerre di mafia, gli scandali, le censure), ma anche perché, da qualche tempo, le norma che riguardano il governo della città e del territorio sono sempre più spesso dissimulate nelle pieghe di provvedimenti che riguardano tutt'altra materia.

Da qualche tempo ogni legge, che formalmente riguardi l'edilizia sovvenzionata o il potenziamento delle forze di polizia, la gestione economica del patrimonio pubblico o la proroga di termini amministrativi, introduce qualche nuova rottura nell'ordinamento urbanistico. Così, copertamente ed opacamente,

con buona pace della "trasparenza" di cui tutti predicano l'assoluta indispensabilità, si stanno cambiando radicalmente le regole del gioco e si stanno travolgendo, fuori d'ogni esplicito e dichiarato disegno, il sistema di garanzie e l'equilibrio dei poteri costituzionali.

Sforziamoci allora, correndo il rischio d'esser definiti "dietrologi", di comprendere meglio qual'é il disegno che l'ultima fase della X legislatura ha espresso e che, per qualche segno,

l'XI minaccia di proseguire e consolidare. E partiamo da una legge di cui ci siamo già in queste note occupati, la Botta-Ferrarini: la n.50 del 1992, concernente le "norme per l'edilizia residenziale pubblica".

Programmi integrati d'intervento...

Questa legge introduce, come è noto, un nuovo e ambiguo strumento urbanistico: il "Programma integrato di intervento". Uno strumento di cui non è definito il contenuto tecnico (per esempio, la scala in cui è disegnato, seppure vi siano dei disegni), ma che ha l'efficacia di una concessione edilizia. Uno strumento che innesca operazioni di grande trasformazione urbana (è caratterizzato "da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana"), ma è preferibilmente d'iniziativa privata. Uno strumento che è svincolato alla subordinazione al programma pluriennale d'attuazione, come se fosse una qualsiasi istrutturazione edilizia, e può essere in variante al Prg, ma è ammesso con priorità ai finanziamenti regionali ed è assistito dal contributo dello Stato.

I Programmi integrati d'intervento, se sono in variante al Prg, devono essere approvati dal Consiglio comunale e dalla Regione (ma per quest'ultima vale il silenzio-assenso). Ma se, insieme alla Botta-Ferrarini, leggiamo il decreto concernente "trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali e alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica", scopriamo un risvolto che per taluni e' certamente interessante.

...e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico

Il decreto sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, convertito in legge nelle ultime settimane di vita del Parlamento, dispone che i "programmi di alienazione, gestione e valorizzazione dei beni immobili" che il demanio statale intende dismettere, oppure valorizzare economicamente, sono approvati con una "conferenza a cui partecipano tutti i rappresentanti delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici comunque tenuti ad adottare atti d'intesa, nonché a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta previsti da leggi statali e regionali".

A chi è affidata l'individuazione dei beni in tal modo "suscettibili di gestione economica"? Forse ad un'attenta ricognizione svolta dall'Amministrazione del demanio e dagli enti locali interessati? No: a "consorzi di banche ed altri operatori economici o società, specializzati nel settore". E l'approvazione di siffatti programmi da parte della "conferenza" comporta "variazione anche integrativa agli strumenti urbanistici ed ai piani territoriali": la presenza del Sindaco alla Conferenza decisionista sostituisce l' istruttoria tecnica, il dibattito nel consiglio comunale, i pareri di merito, la decisione della Regione e cosi'via.

Non c'è bisogno della palla di vetro per sapere che i maggiori immobiliaristi stanno preparando programmi e progetti per utilizzare la grande occasione fornita dal "congiunto disposto" dei due provvedimenti cui ci siamo riferiti. E' facile valutare l'appetibilità, ad esempio, di un Programma integrato d'intervento ex lege Botta-Ferrarini applicato alle aree delle ex Caserme di Prati a Roma, o all'Arsenale di Venezia, o alle numerosissime caserme dismesse o dismettibili collocate nelle aree strategiche (non più in termini militari!) delle cento città italiane. Oltre ai vantaggi e agli snellimenti della legge suddetta, gli immobiliaristi promotori di una tale operazione potrebbe beneficiare anche della deroga a ogni previsione degli strumenti di pianificazione, e alla stesse approvazione da parte degli organi consiliari dei comuni.

Intervengono anche le forze di polizia?

Lette nel quadro delineato dai due provvedimenti suddetti, suscita inquietanti perplessità anche un'altra norma che con l'urbanistica sembrerebbe aver poco a che fare: ci riferiamo al decreto, anch'esso convertito in legge al tramonto della X legislatura, recante "disposizioni urgenti per il potenziamento delle forze di polizia". Si tratta di un decreto-legge (n.9 del 1992) che apparentemente finanzia e disciplina interventi di adeguamento e potenziamento delle infrastrutture necessarie per lo svolgimento dei compiti istituzionali della polizia.

La dilagante criminalità rende indubbiamente necessario rafforzare i dispositivi di sicurezza e di vigilanza sul territorio: caserme e casermette, centrali d'ascolto, banche dati protette e così via.

Ma se questo è l'obiettivo che ci si propone di perseguire con urgenza, non si comprende allora perché la legge destini il 30 % del finanziamento a interventi, da operare da parte dei cosiddetti "investitori istituzionali" (enti e società previdenziali, assicurativi ecc.), per l'acquisto di fabbricati e di aree edificabili destinati a essere in un primo momento ceduti in locazione alle forze di polizia, e poi ad essere venduti, presumibilmente al migliore offerente, salvo il diritto di prelazione da parte dell'amministrazione pubblica.

Se si tratta di costruire bunker e caserme, non si comprende l'interesse di eventuali acquirenti. Se invece, come è più probabile, l'intenzione è quella di costruire alloggi, magari in parte destinati alle famiglie dei carabinieri, poliziotti, finanzieri e vigili del fuoco, non si comprende perché i relativi programmi siano svincolati da ogni controllo di comuni e regioni come "opere destinate alla difesa dello Stato". A meno che non si tratti di adoperare anche l'emergenza criminale per agevolare operazioni immobiliaristiche, che con quell'emergenza hanno poco a che fare.

"Picconate" anche le regioni

Non solo per i Programmi integrati d'intervento della Botta-Ferrarini vale, in caso di ritardo della Regione, la regola del silenzio-assenso. Con una norma surrettiziamente introdotta in un provvedimento dall'anodino titolo "Differimento di termini previsti da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti" (decreto legge 1 marzo 1992, n.195) si dà un deciso colpo di piccone alla competenza costituzionale delle regioni in materia urbanistica.

Quella norma prescrive infatti che, se entro 180 giorni (non si sa a partire da quale termine) la regione non ha approvato un piano regolatore generale, questo si intende perentoriamente approvato. Se si pensa che il tempo medio di approvazione di uno strumento urbanistico è di 7 anni nel Lazio ed è divenuto di 180 giorni in Emilia-Romagna (dove la cultura e la prassi della pianificazione sono radicate da decenni, e l'efficienza dell'amministrazione pubblica non è un mito) solo negli ultimissimi anni, ci si rende conto che questa norma, se potrebbe forse produrre effetti negativi modesti nelle regioni più evolute (dove il territorio è già garantito) produrrebbe invece effetti devastanti proprio là dove il territorio, e quindi le prospettive di uno sviluppo civile, sono già più compromessi.

E chi può pensare, del resto, che il piano regolatore di città come Roma o Milano, Torino e Firenze, Palermo o Napoli, Genova o Venezia, possa essere esaminato e valutato in modo ragionevolmente approfondito nel giro di sei mesi? Oppure che non vi sia una esigenza di coerenza nell'assetto territoriale regionale, per cui "non importa" che la verifica regionale avvenga?

Che la cultura urbanistica, che la consapevolezza delle esigenze del territorio e dell'ambiente, siano ospiti poco accetti nella aule del Parlamento, si poteva pensarlo da qualche tempo. Che la Costituzione venga calpestata come se fosse una logora moquette è invece il frutto velenoso degli anni più recenti.

Quando la sinistra rincorre la destra

La trasformazione delle aree strategiche, e la gestione "economica" del patrimonio immobiliare dello Stato, sono sempre più sottratti alla verifica di coerenza complessiva (alla pianificazione territoriale e urbana) e sempre più affidati alle centrali del capitale finanziario. Ma che cosa succede sul versante del patrimonio abitativo pubblico consolidato.

Con la legge 412 del 1991 il governo, e la maggioranza parlamentare, hanno decretato la svendita degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai loro inquilini. Un atto di vera "modernità", e coerente con le fervide dichiarazioni di europeismo!

E' noto infatti che in Italia il patrimonio residenziale pubblico non tocca il 5 % del totale, e rappresenta meno di un quinto del patrimonio in locazione, mentre nel resto dell'Europa (o dovremo dire, più semplicemente, in Europa?) lo stock pubblico supera sempre il 15 % del totale, ed è tra metà e i tre quarti del patrimonio in locazione. E' noto che in Italia la percentuale di case in proprietà è la più alta d'Europa, che il divario tra offerta e domanda di abitazioni in locazione è tale da penalizzare soprattutto le categorie più dinamiche (in primo luogo i giovani). Ed è noto che tutti i lavoratori hanno pagato e continuano a pagare la possibilità, per alcune migliaia di "fortunati", di fruire degli alloggi pubblici.

Nonostante tutto questo, e nonostante le proteste che da ogni parte sono state sollevate contro la smobilitazione del patrimonio residenziale pubblico, governo e maggioranza sono andati avanti: la legge, come si è detto, è stata approvata. Come abbiamo scritto in un editoriale dello scorso numero, "l'im provvida miopia dei governanti e l'opaca distrazione dei legislatori" hanno posto in liquidazione il meglio del secolo della mutua solidarietà sociale.

Ma non è finita qui. Si poteva pensare che la sinistra si preparasse, nel nuovo Parlamento, a dare battaglia perché si facesse marcia indietro rispetto alle tendenze e tentazioni francamente reazionarie che quella legge manifestava. Invece no. Due autorevolissimi esponenti del Pds hanno presentato, nel pieno della campagna elettorale, un disegno di legge che, anziché contrastare la svendita del patrimonio pubblico, tende ad agevolarlo introducendo sconti consistenti a favore degli inquilini. Questi, tanto per fare un esempio, potrebbero pagare un alloggio di 100 mq, in una città di medie dimensioni, 66-98 milioni, invece degli attuali 100-150. E alla fine dei conti, per ogni quattro alloggi venduti se ne potrebbe realizzare uno scarso.

Un bel terno al lotto per quei fortunati che hanno acquistato il biglietto vincente. Una ulteriore beffa per quei lavoratori che continuano a versare i contributi. E una ulteriore, pesante mortificazione per chiunque ritenga che le attuali condizioni della società italiana rendono necessario un rilancio della presenza pubblica nel mercato dell'edilizia residenziale.

Il quadro europeo e i primi passi della ricerca

Verso la “società dell’informazione”

Assumere le conoscenze come la base per uno sviluppo più dinamico e competitivo dell’economia europea: questo l’obiettivo strategico dell’Unione europea per il primo decennio del secolo, stabilito dal Consiglio d’Europa, nel marzo del 2000, a Lisbona. Nei mesi successivi la Commissione europea diramava il «Progetto di direttiva del Consiglio»: un programma pluriennale che traduceva quell’obiettivo in iniziative volte a promuovere lo sviluppo e l’utilizzo dei contenuti digitali europei nelle reti globali e di promozione della diversità linguistica nella società dell’informazione.

Il documento fu considerato un rilevante impegno nella direzione di una strategia volta a ridurre il crescente squilibrio tra l’Europa e gli USA in materia di utilizzazione (culturale ed economica) del patrimonio costituito dalle informazioni a disposizione della pubblica amministrazione, a utilizzare a tal fine la rete internet e gli strumenti delle tecniche digitali, a tutelare e a sviluppare la ricchezza (fortemente a rischio in una fase di globalizzazione) della molteplicità di lingue e di culture. A Lisbona e negli atti successivi il Consiglio europeo ha infatti evidenziato in modo particolare l’importanza dell’ industria dei contenuti, come con singolare metafora si è voluto denominare la messa in rete e la distribuzione del patrimonio di conoscenze. Questa nuova industria, si è detto, può determinare una crescita del valore aggiunto mettendo a frutto la diversità culturale europea e veicolandola in rete: rendendola cioè disponibile a tutti i potenziali utilizzatori. La Commissione europea, per raggiungere gli obiettivi indicati, proponeva in particolare un’azione in tre settori ritenuti decisivi; di questi i primi due sono orientati al favorire lo sfruttamento delle informazioni del settore pubblico e a migliorare l’adattamento dei contenuti alle specificità linguistiche e culturali.

Il Governo italiano di quegli anni applicava tempestivamente le direttive elaborate a livello europeo e attraverso il Piano d’azione per la società dell’informazione, presentato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nel giugno 2000, definiva il quadro generale delle azioni da intraprendere per sviluppare l’impiego delle tecnologie digitali nella formazione e nella valorizzazione del patrimonio di conoscenze della pubblica amministrazione. In quegli stessi mesi stava per concludersi la ricerca per la Costruzione di una Rete Informativa per la Documentazione in Architettura, Urbanistica e Pianificazione (CriDaup), cofinanziata dal Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST) e dagli atenei di Milano Politecnico, Roma La Sapienza, Torino Politecnico e Venezia IUAV, cui questo fascicolo è dedicato.

L’ispirazione che ha mosso questa ricerca, che ha aggregato attorno a un comune obiettivo ricercatori di numerosi enti universitari e non universitari, è in particolare sintonia con quella che stimolava i governanti europei all’alba del millennio. Possediamo (nell’insieme dell’universo europeo e, nel nostro piccolo, negli archivi degli enti locali e nelle biblioteche delle università) un grande patrimonio di informazioni. Esso può essere utile a tutti: agli amministratori pubblici e ai cittadini, alle imprese e agli investitori. Per tradurre la potenzialità in effettualità occorre però tradurre gli elementi di quel patrimonio in oggetti suscettibili di essere comunicati, compresi, condivisi, e occorre costruire la rete (logica, lessicale, materiale) che consenta di disporne ovunque. La disponibilità delle nuove tecnologie è enorme, e consente oggi di raggiugere risutati fino a ieri neppure ipotizzabili. Occorre allora incrociare i saperi e le conoscenze per costruire i sistemi suscettibili di raggiungere l’obiettivo, in ciascuno dei campi in cui si articolano il patrimonio conoscitivo e le azioni nella società.

Nei paragrafi successivi mi propongo di delineare il percorso e i risultati della ricerca CriDaup, a partire dal più remoto antefatto.

Un inizio: Ark_Amb parte per la tangente

Giovambattista Vico diceva che “natura di cose altro non è che nascimento di esse”. In altre parole, il divenire di un evento è già scritto nel suo inizio. Molto spesso è vero; nel caso di CriDaup non è stato così.

Nel 1995 avevo chiesto, e ottenuto, un piccolo finanziamento dal Dipartimento di urbanistica dell’IUAV per un ricerca finalizzata a verificare in che modo alcuni piani urbanistici e territoriali recenti si facessero carico dell’esigenza di tutelare le risorse ambientali; il titolo era “Metodi, strumenti e procedure per una pianificazione territoriale e urbanistica ambientalmente orientata”. Con alcuni giovani ricercatori (Laura Fregolent, Mauro Baioni) cominciammo a cercare i piani da analizzare. Per partire, tentammo di individuare un luogo nel quale vi fosse, a proposito degli atti di pianificazione, se non un organizzato archivio, almeno qualcosa di simile a ciò che per gli ordinari testi cartacei è uno schedario bibliografico. Non lo trovammo. Senza sorprenderci troppo, per il vero: sapevamo che nel nostro campo, guidato dall’empiria e dall’improvvisazione, la tradizione del rigore archivistico e classificatorio è ancora debole.

Ma non trovammo neppure un modello di scheda utile a descrivere sinteticamente questi oggetti, complessi ma non incommensurabili, che sono i piani. Ci domandammo allora se aveva senso avviare una di quelle numerose ricerche che si concludono in se stesse, producendo - al più – un saggio o un volume, da depositare in uno scaffale e citare nei curriculum vitae. Ci proponemmo invece di indirizzare i nostri sforzi a produrre una scheda di sintesi degli atti di pianificazione, che fosse condivisibile da tutti gli interessati.

Il lavoro si rivelò molto più complesso del previsto. A parte le difficoltà derivanti dalla complessità e varietà degli atti e delle loro mutevoli denominazioni, c’erano quelle conseguenti alla necessità di inserire nella “scheda” elementi grafici non semplicissimi. Per documentare un piano, è infatti indispensabile illustrare il modo in cui le regole (in cui il piano, in ultima analisi, consiste) si riferiscono al territorio (cioè alla realtà che il piano vuole contribuire a governare): quindi, è necessario inserire campioni fedeli almeno delle tavole con valore normativo, nonché le relative legende.

D’altra parte, benché la nostra schedatura si proponesse il massimo di oggettività (appunto per poter essere utilizzata da una molteplicità di ricercatori), ci sembrava utile aprire le schede alla possibilità di confronti e opinioni diverse, magari in colloquio diretto tra loro. La scheda, perciò, doveva consentire di essere gestita dinamicamente, almeno in alcune sue parti, per ospitare discussioni, recensioni, collegamenti e inserimenti.

Insomma, partimmo per la tangente. L’impegno a elaborare la scheda ci distrasse dalla ricerca sulla “pianificazione ambientalmente orientata”. Fummo aiutati dall’esperienza e dalla collaborazione di ricercatori che avevano dato vita ad eccellenti strumenti e metodi di documentazione all’IUAV (Pierre Piccotti, dei Servizi Bibliotecari e Documentali, e Anna Tonicello, che dirigeva l’Archivio Progetti), producendo brevetti per l’informazione documentale che cominciavano ad avere successo in Italia e all’estero. Arrivammo a un primo prodotto, la scheda Ark_Amb, che ci sembrò una tappa importante.

[La scheda Ark_Amb è illustrata in appendice]

Incontri, e un primo tentativo di coordinamento: CAPUeT

Un seminario di presentazione delle intenzioni e dei primi risultati della ricerca (Venezia, 25-27 maggio 1996) ci mise in contatto con ricercatori che s’erano già posti, o si stavano ponendo, problemi analoghi ai nostri: Fabrizio Bottini, Giulio Ernesti, Chiara Mazzoleni, che lavoravano alla Rete degli Archivi di Piani Urbanistici (RAPU), promossa dalla Triennale di Milano, che avevano elaborato e cominciato a utilizzare una scheda per l’archiviazione dei piani urbanistici “storici”; Piero Cavalcoli, che stava avviando la formazione dell’Osservazione dei Piani d’Area Vasta (OPAV) dell’INU; Laura Anselmi, che aveva organizzato i servizi di documentazione architettonica e urbanistica del Politecnico di Milano; Marisa Scarso, che dirigeva il Centro Interdipartimentale di Ricerca Cartografia ed Elaborazione dell’IUAV (CIRCE). L’analogia dei problemi e degli interessi ci spinse a promuovere un primo tentativo, volontario, di coordinamento; gli attribuimmo l’acrostico CAPUeT (Coordinamento degli Archivi di Piani Urbanistici e Territoriali).

Gli obiettivi e i punti fermi del lavoro di CAPUeT, furono definiti a un incontro presso la Provincia di Bologna (11 novembre 1997). Essi erano i seguenti:

1) gli oggetti da catalogare, individuati nei “piani” di qualunque scala, tipo o località, intendendo per “piano” (o, meglio, per “atto di pianificazione”, uno strumento normativo riferito a una determinata area geografica”;

2) gli standard per la definizione delle fonti delle informazioni, l’organizzazione delle informazioni in un comune catalogo e la definizione univoca dei concetti di base;

3) la struttura del catalogo, in riferimento alla definizione della struttura multilivello e al sistema di collegamenti agli authority files e, dove possibile, ai Thesauri (geografico, tematico)

4) la comune piattaforma informatica, cioè l’impiego dello stesso interfaccia utente, e l’omogeneità delle strategie di ricerca dei dati e i formati di output, per consentire l’interrogazione simultanea degli archivi.

A partire dalla scheda Ark_Amb, il lavoro di CAPUeT consentì di mettere a punto, soprattutto per quanto riguarda gli standard di comunicazione e condivisione individuati negli obiettivi, tre tipi di file di catalogazione (schede), concernenti tre tipi di documenti differenti ma tra loro connessi:

1) atti di pianificazione (piani regolatori generali comunali, piani territoriale di coordinamento, altri piani di livello comunale e regionale, piani attuativi ecc.);

2) altri atti normativi (leggi, regolamenti ecc.);

3) atti non normativi ( libri, saggi, articoli e altri testi).

[La scheda CAPUeT è illustrata in appendice].

CriDaup: Quattro università per costruireuna rete informativa

Il coordinamento volontario tra strutture dell'IUAV, dei Politecnici di Milano e Torino, la Triennale di Milano e l'Osservatorio d'area vasta dell'INU aveva fatto fare alcuni passi avanti nella ricerca di possibilità e strumenti per "mettere in rete" l'informazione urbanistica. Poiché il volontarismo non porta molto lontano, si cercò di dare maggiore struttura e continuità alla collaborazione presentando un progetto di ricerca al MURST, in occasione dell'attribuzione, nel 1998, di finanziamenti alle università per gli anni 1999 e 2000.

Il progetto di ricerca fu presentato dall'IUAV, dai Politecnici di Milano e Torino, e dall'Università degli studi La Sapienza di Roma. Esso fu accettato e approvato come ricerca d'interesse nazionale, sebbene con qualche decurtazione del finanziamento rispetto al preventivo formulato. Fu costituito l’acrostico CriDaup, che sintetizza l’obiettivo della ricerca:Costruzione di una Rete Informativa per la Documentazione in materia di Architettura, Urbanistica, Pianificazione.

Obiettivi e fasi del progetto di ricerca

Secondo il programma approvato dal MURST la ricerca CriDaup si poneva l’obiettivo di costruire un sistema di connessioni scientifiche, logiche e informative riguardanti la ricerca e la documentazione in materia di architettura, urbanistica, pianificazione, capaci di collegare in rete le molte attività già esistenti, all’interno delle sedi universitarie, individuando le carenze e i modi per riempirle. In termini più specifici, il lavoro di ricerca si proponeva di individuare i vuoti informativi esistenti ed elaborare un modello di integrazione delle informazioni aggiuntive alla struttura documentaria già costituita.

Ricollegandosi al lavoro di CAPUeT, si dovevano innanzitutto definire i criteri comuni di catalogazione di piani urbanistici, atti di pianificazione e progetti, tra tutte le iniziative, promotrici e aderenti, individuando come standard generale di riferimento lo International Standard of Bibliographical Description (Isbd).

Ognuno degli archivi coinvolti nel progetto doveva costruire il proprio filone specifico di ricerca, il cui prodotto doveva essere poi condiviso, all’interno del progetto complessivo. A questo proposito, si voleva procede alla costruzione dell’inventario degli archivi, realizzati o in corso di formazione in Italia (e tendenzialmente all’estero), relativi alla storia, progettazione e gestione del territorio, della città, delle costruzioni, e delle relative caratteristiche, restituendo la mappa delle diverse sedi operanti su temi analoghi, e che potessero in futuro interagire con il prodotto di ricerca.

La seconda fase del lavoro era diretta all’elaborazione e costruzione della struttura di catalogo, principalmente per quanto riguarda la definizione del sistema di legami con gli Authority File di supporto e dei Thesauri (geografici, tematici, ecc.); operazioni necessarie per dare forma e operatività alla struttura. L’obiettivo di giungere a un sistema condiviso e comune a più strutture, rendeva necessaria l’utilizzazione del medesimo Opac (software di gestione dell’interfaccia con l’utente), per rendere omogenei strategie di ricerca e formati di uscita dei dati e per rendere possibile l’interrogazione simultanea delle basi di dati delle unità di ricerca e degli eventuali centri aderenti alla rete, indipendentemente dai software di catalogazione e di gestione adottati da ciascun centro.

Tema importante sul quale la ricerca intendeva soffermarsi era lo studio di criteri, metodi e modelli per l’unificazione dei formati e dei lessici, da impiegarsi nella costruzione degli archivi, e indispensabili per la loro utilizzazione. L’utente, aiutato dalla definizione dei criteri comuni di catalogazione, e dalle possibilità e potenzialità fornite dalla comparazione dei lessici, avrebbe potuto accedere ai materiali raccolti e schedati dai diversi archivi, anche in forma comparata.

Una volta completate le diverse fasi sopra descritte, si doveva passare alla sperimentazione dell’interfaccia finale di ricerca per l’utente, in grado di restituire le informazioni e i documenti nella complessità dei legami logici presenti nei diversi fondi documentali censiti, e di consentire una visualizzazione integrata fra informazioni e immagini del documento. Gli esiti di quest’ultima fase di lavoro, hanno consentito di verificare e correggere il modello di catalogazione comune.

Dal punto di vista dell’utente, ci si poneva l’obiettivo di offrirgli un accesso a fonti e dati appartenenti a archivi diversi, selezionati e relazionati con i criteri e i metodi sopra descritti ma anche la possibilità di consultare tali documenti nella lettura data dalle singole unità. Sarebbe così divenuto possibile mettere in relazione i dati raccolti, schedati, e archiviati, potenzialmente utili alle diverse esperienze di ricerca.

Le strutture coinvolte

Nella programma CriDaup erano ufficialmente coinvolte, e hanno partecipato, sette unità di ricerca afferenti a quattro diversi atenei. Per lo IUAV, il Centro Interdipartimentale Archivio Progetti (AP), il Centro Interdipartimentale di Ricerca, Cartografia ed Elaborazione (CIRCE), il Dipartimento di Urbanistica (DP) rappresentato dalla struttura ormai consolidata dell’Archivio Piani Urbanistici e dalla ricerca dipartimentale Archivio Ambiente, l’Area Servizi Bibliografici e Documentali; per l’Università La Sapienza di Roma, il progetto Archivi multimediali per la progettazione, gestione e monitoraggio dei piani; per il Politecnico di Milano, il Sistema Informativo Bibliotecario, il Centro Documentazione di Architettura; per il Politecnico di Torino, il Sistema Informativo Architettura Contemporanea Torinese.

Le unità di ricerca (che costituiscono i partner ufficiali del programma cofinanziato), tenendo conto delle specifiche situazioni di ogni ateneo, si sono a loro volta articolate in “unità operative”: queste sono state le effettive strutture nelle quali si è espresso il lavoro proprio di ciascuna sede.

Oltre alle unità di ricerca e alle unità operative, costituite ciascuna da una struttura di ricerca o di documentazione dei quattro atenei coinvolti, sono state impegnate sugli stessi temi altre strutture esterne, con le quali esistevano già rapporti di collaborazione, che sono: l’associazione Archinet, socio italiano dell’associazione europea Urbandata, il Coordinamento Archivi Piani Urbanistici e Territoriali (Capuet), l’Osservatorio Piani Area Vasta dell’Inu - Provincia di Bologna e la società Nexus di Firenze.

Lo svolgimento della ricerca

I materiali contenuti in questo fascicolo illustrano i risultati della ricerca CriDaup da diversi angoli visuali, e la raccontano in numerosi dei suoi aspetti. Un bilancio complessivo deve perciò essere costruito tenendo conto dell’insieme dei fili che la costituiscono, nonché degli interessi del lettore: esso sarà formulato da ciascuno al termine della sua personale lettura dei materiali. Qui si vogliono avanzare solo alcune considerazioni che riguardano l’insieme della ricerca, e possono forse aiutare a coglierne le diverse facce, e a comprenderne la sostanziale unitarietà.

Uno sterminato arcipelago

Fin dall’avvio della ricerca è apparso evidente che il vero nodo non è tanto l’assenza di archivi o il loro “riempimento” con informazioni e dati utili e aggiornati, quanto piuttosto la dispersione delle informazioni, la loro frammentarietà, la difficoltà di reperimento. Uno sterminato arcipelago di informazioni, privo di un sistema di riferimento geografico che consentisse di valutare le reciproche posizioni, e senza un alfabeto comune che consentisse di nominarne ciascuna in modo equivoco.

Di conseguenza, il tema e l’obiettivo centrale della ricerca sono stati costituiti dalla costruzione di un set di criteri e strumenti standard per la condivisione dei dati e la loro connessione. Ciò rendeva, allora, necessario offrire soluzioni all’assenza di omogeneità dei criteri di interrogazione, e quindi all’accesso al complesso di informazioni contenute in numerosi archivi specializzati, in un momento in cui si riflette – e non solo tra utenti dotati di particolare expertise e know-how – sui caratteri di “democratizzazione” del patrimonio culturale in rete, di “condivisione” del patrimonio di conoscenze, di avvio (in Europa) della “industria dei contenuti”.

Queste premesse, e i conseguenti obiettivi, sono stati condivisi da tutte le strutture afferentio al progetto. Esse infatti, proprio perché quasi tutte dotate di un proprio archivio informativo o in fase di costruzione, erano ben consapevoli dei limiti dei sistemi di archiviazione, tra i quali l’autoreferenzialità.

La necessità di aprirsi al confronto verso l’esterno è anche all’origine di un vincolo che i partecipanti alla ricerca hanno voluto porsi nella progettazione: quello cioè di porre in essere le condizioni perché il sistema potesse in futuro essere condiviso anche da altri soggetti che trovano nel prodotti elaborato lo strumento adeguato alle proprie esigenze: di reperimento di informazioni, di catalogazione e archiviazione ma anche (ed è l’aspetto di “democratizzazione” più importante) di diffusione e pubblicizzazione delle informazioni raccolte ed elaborate.

Sei gruppi di lavoro per sette unità di ricerca

La costruzione di un sistema aperto, flessibile, condivisibile ha indotto a definire una particolare organizzazione. Individuati i temi specifici della ricerca, corrispondenti all’articolazione del suo obiettivo, si sono costituiti altrettanti gruppi di lavoro, trasversali rispetto alle unità di ricerca. In questo modo, non solo si è favorita una maggiore integrazione delle diverse unità operative, ma si è soprattutto consentito che alcuni temi di ricerca più rilevanti potessero maturare parallelamente alle specifiche attività previste dalle singole unità di ricerca e unità operative, con cui i diversi gruppi di lavoro potessero confrontarsi sui risultati parziali ottenuti, e quindi procedere sempre in sintonia con gli altri gruppi ed in coerenza con i principali obiettivi della ricerca, e perché, inoltre, i risultati acquisissero carattere più operativo nella definizione degli strumenti necessari alla costruzione della “rete”.

I temi (articolazioni dell’obiettivo generale) in relazione ai quali sono stati costituiti i gruppi di lavoro sono stati:

1) lo standard di catalogazione dei materiali;

2) la formazione di un elenco di enti, istituti, università, centri di ricerca, che si sono occupati e si occupano di archiviazione di materiali di architettura, cartografia e urbanistica;

3) la formazione di un glossario di termini di urbanistica, architettura e cartografia, finalizzato allo spoglio dei piani e degli altri documenti;

4) la progettazione del sistema informativo comune alle unità di ricerca;

5) la definizione dei criteri di costruzione del thesaurus geografico;

6) la definizione dei criteri di costruzione degli authority file.

I gruppi di lavoro così articolati, hanno elaborato altrettanti prodotti, che sono serviti a costruire e strutturare il prodotto finale cioè il metadatabase, che attraverso la maschera di interrogazione, comune a tutte le unità di ricerca, mette in relazione i diversi archivi informatizzati e consente una ricerca incrociata dei diversi materiali schedati e catalogati.

I prodotti dei gruppi di lavoro

In questo paragrafo descriveremo in termini molto sintetici i risultati e i prodotti dei gruppi di lavoro, più ampiamente illustrati nei diversi saggi e note contenuti nella Parte Seconda di questo fascicolo.

Il “coordinamento” come elemento che valorizza le specificità

Il gruppo dello Standard, coordinato da Marisa Scarso, è partito dalle considerazioni e dalle elaborazioni prodotte dal gruppo di coordinamento volontario (CAPUeT) costituitosi prima della presentazione del progetto di ricerca al Murst. Nel gruppo standard sono state analizzate le procedure operative generali, gli standard descrittivi e le loro modalità di applicazione nelle agenzie catalografiche rappresentate nel gruppo di lavoro, per arrivare a definire uno standard comune. Questo è stato individuato nei seguenti campi: titolo, responsabilità, data, luogo. Va precisato che ogni agenzia catalografica segue proprie regole per il recupero delle informazioni, richieste dal tipo di materiale che raccoglie e cataloga. La differenziazione delle metodologie di utilizzo dei campi comuni non è però un elemento di ostacolo al coordinamento dei sistemi informativi, anzi offre utili indicazioni alla sua messa a punto; essa dipende infatti dalla diversità degli “oggetti” raccolti e descritti (materiale edito, bibliografico o cartografico, documenti in genere, disegni, lettere, plastici, edifici, piani urbanistici).

La ragione del coordinamento dei diversi sistemi informativi dovrebbe essere da un lato quella di dare all’utente la possibilità di recuperare, con un’unica ricerca, «tutto l’esistente» su un determinato argomento o oggetto, dall’altro quella di mettere in relazione i diversi sistemi, consentendo percorsi di ricerca ordinati e sistematici da un percorso principale, verso altri sistemi coordinati. Data la specificità dei singoli sistemi informativi, e le specificità di raccolta dei materiali selezionati (alcune unità di ricerca raccolgono solo cartografia, altre solo atti di pianificazione, altre principalmente progetti di architettura), non ha molto senso pensare a un unico sistema che li riunisca tutti in un unico prodotto, ciò che annullerebbe le singole specificità e le singole ricchezze, né tanto meno stabilire una gerarchia dei punti di accesso.

Il sistema che si profila, e che fa salva l’esigenza di mantenere l’individualità e la caratterizzazione specifica di ogni catalogo, nasce da un coordinamento nel quale ciascun sistema informativo può essere utilizzato come ingresso principale a seconda delle necessità del ricercatore, che dal percorso principale ha la possibilità di aprire percorsi di ricerca diversi attraverso l’accesso ad altri cataloghi, attivando quindi altre logiche di ricerca.

Un censimento per l’individuazione di nuovi percorsi e nuovi progetti

Il secondo gruppo, che si è occupato di Archivi esistenti e i vuoti informativi, ha costruito l’inventario degli archivi esistenti in Italia, e in parte in Europa, formati o in corso di formazione, che si occupano di questioni relative alla cartografia e alla pianificazione territoriale e urbanistica, ai progetti di architettura e all’architettura contemporanea costruita. L’individuazione dei vuoti informativi con riferimento alle strategie documentali e alle necessità informative, di carattere accessorio o complementare, di ciascun produttore di informazioni nell’ambito della ricerca, si è tradotto, per un verso, nella ricostruzione dello “stato dell’arte” e nella formazione di un quadro generale di riferimento che permetta a quanti si sono impegnati nella raccolta, catalogazione e ordinamento di questo tipo di informazioni una certa forma di orientamento, per l’altro conoscere in modo veloce il patrimonio culturale già raccolto e organizzato, possibili fonti per lavori di maggior dettaglio e peculiarità.

Il lavoro svolto è stato quindi quello di individuare gli archivi esistenti siano essi on-line o su CD-Rom, raggruppati in base ai seguenti argomenti e chiavi di lettura: «Cartografia territoriale»; «Pianificazione territoriale e urbanistica»; «Progetti di architettura e archivi di architetti e urbanisti»; «Architettura moderna costruita».

Il lavoro svolto e i risultati raggiunti sono descritti nel rapporto finale del gruppo, coordinato da Anna Tonicello, nel quale si evidenzia la presenza piuttosto limitata di banche dati disponibili on-line, sia liberamente accessibili, sia con accessi controllati e una certa difficoltà a coprire il panorama di banche dati informatizzate, esistenti o in formazione, su cd/rom o su sistemi locali non accessibili on-line. La presenza, inoltre, di numerosi progetti di informatizzazione e di costruzione di archivi informatizzati o di conversione su supporto digitale di banche dati, prefigura una prospettiva di disponibilità informativa più articolata in alcuni ambiti disciplinari anche se come rileva il rapporto redatto dal gruppo di lavoro, tali progetti, raramente, corrispondono a un piano sistematico teso ad esaurire l’informazione in un determinato settore geografico o argomento. In alcuni casi, sembra invece che più progetti si vogliano sovrapporre a scapito dell’integrazione di informazioni che hanno carattere di complementarietà. Quando la ricerca è stata avviata, l’interesse nei confronti dei processi di informatizzazione degli archivi cartacei era in notevole crescita, anche se le esperienze consolidate non erano molte. In questo panorama di fermento e di novità spiccava, senza dubbio, l’esperienza dell’Archivio Progetti dello IUAV che tuttora continua ad essere punto di riferimento sull’argomento.

Per un’efficiente interazione: la condivisione del “linguaggio”

Il terzo gruppo, coordinato da Fabrizio Bottini, si è occupato di Glossario e Lessico cercando di definire un approccio condiviso alla terminologia culturale e tecnica per i tre ambiti tematici architettura, cartografia e urbanistica. Molti sono coloro che si sono occupati o tuttora hanno in corso lavori di ricerca su glossari e lessici, sulla metodologia, sul riuscire a rispondere in maniera corretta alle esigenze di codifica da un lato e di esaustività dall’altro, di decodifica e di ricostruzione fedele della storia normativa, culturale, ecc. del termine (pensiamo ad esempio a come è cambiato il significato di Piano paesistico dalla legge del 1939 alla legge del 1985, la cosiddetta “legge Galasso”).

Il glossario, articolato su quei tre ambiti tematici, è stato costruito per definizioni brevi, di rapida lettura: finalizzato essenzialmente a fornire semplici e chiare definizioni a quanti, nelle varie agenzie, implementano gli archivi e producono schede. Il tentativo è stato quello di comporre un elenco alfabetico di termini condivisi fra discipline convergenti ma distinte, al fine di cominciare a definire un linguaggio interpretativo comune pur tra approcci distinti.

Le fonti bibliografiche, dalle quali il gruppo di lavoro è partito per la costruzione del glossario, sono state selezionate rispondendo ai tre filoni di interrogazione e cioè l’urbanistica, l’architettura e la cartografia. In alcuni casi ci si è avvalsi abbondantemente di opere a carattere enciclopedico generale, mentre in altri l’arricchimento delle proposte è stato rinviato alla successiva fase delle articolazioni e degli “allegati” grafici o testuali, che costituiranno il primo sviluppo del prodotto, e una occasione di confronto interattivo con una più vasta utenza.

Le “regole” definite per la costruzione del glossario sono state così individuate e sintetizzate:

Numero dei termini di cui fornire una definizione. Sono stati limitati a 150 circa il numero degli termini da proporre al “primo livello” di lettura; essi hanno poi articolazioni al secondo livello e definizioni al terzo livello. Ad esempio, nella traccia per i termini di urbanistica sono stati inserite al primo livello, le articolazioni di “legge” (urbanistica, di risanamento, paesisitica ecc.) e “piano” (regolatore, di bacino ecc.).

Dimensione dei testi. Non più di 2-3 parole per termine; non più di un breve paragrafo per la definizione. Questa scelta, come del resto la prima, non esclude necessariamente la possibilità di informazioni più approfondite, ma mette in primo piano una “scheda” sintetica, che ricorda alcuni termini fondamentali della definizione, ma rinvia per una informazione esaustiva: a) ad eventuali legami “orizzontali” con altri termini e definizioni; b) a un eventuale approfondimento sullo stesso soggetto, ad un altro livello. Per esempio, alla parola piano corrispondono alcune articolazioni (Piano regolatore, Piano territoriale di coordinamento), ognuna con una sua breve definizione, che a sua volta può rinviare: a) in “orizzontale” per esempio alle legge istitutiva di quel tipo di piano; b) in “approfondimento” a una definizione più lunga e dettagliata dei contenuti di quel piano.

Il metodo di compilazione è stato quello di individuare in primo luogo una “traccia logica” lungo la quale disporre termini e definizioni, e solo in un secondo momento mirare alla loro esaustività. Ciò si deve in parte al carattere di lavoro “aperto” che i glossari devono avere, sia in fase di prima compilazione e pubblicizzazione, sia nel loro percorso di interazione con eventuali contributi esterni, evoluzioni culturali e istituzionali.

Interessante rispetto al lavoro sul glossario, la collaborazione e la condivisione del lavoro con la ricerca Muleta, svolta dell’associazione europea Urbandata e finanziata dalla Commissione europea, che ha progettato il prototipo di un glossario multilingue, di cui si riferirà più avanti. Questa iniziativa testimonia come sia largamente sentito non solo il problema di “comprendersi”, ma anche quello di intendersi sul “senso” dei termini comunemente utilizzate: soprattutto nelle discipline dell’urbanistica e della progettazione esiste un apparente accordo su temi ricorrenti, che assume, in realtà, significati culturali, tecnici e ancor più politici molto differenti: Parole come «piano», «progetti», «programmi» solo apparentemente si equivalgono, se solo si faccia riferimento alla loro natura istituzionale, ai loro caratteri formali, all’ambito di interesse, alla specifica fase decisionale di cui essi risultano espressione, alla natura del promotore. Ed assume una valenza semantica ancor diversificata se oltre ai suoi contenuti, facciamo riferimento al contesto amministrativo in cui essi si collocano.

Da questo punto di vista il “glossario” non appare una semplice raccolta e catalogazione di termini, ma anche il primo nucleo di uno strumento interpretativo e di riflessione sui caratteri salienti delle discipline in questione. Anche per questo i lavori sul glossario sono stati aperti ad un gruppo di “esterni”, un gruppo di valutatori (docenti universitari, dirigenti presso enti territoriali, esperti dei diversi argomenti individuati), che hanno potuto valutare, criticare (e quindi favorire una “ricalibratura” del lavoro), ma anche offrire un contributo diretto sui temi.

Fattibilità tecnica della condivisione: dall’interrogazione alla confrontabilità

Il gruppo Sistema informativo, coordinato da Pierre Piccotti, si è preoccupato di definire il progetto “Sistema informativo”[1] di Cri_Daup e di condurre un’analisi di massima sulle soluzioni possibili da adottare.

Rispetto ai cinque campi individuati dal gruppo di lavoro dello standard, che costituiscono le chiavi di ricerca nelle diverse basi dati, è stato costruito un sistema di connessioni logiche e di interrogazione.

Le peculiarità, le diversità, le ricchezze intrinseche dei formati, pongono però la necessità di permettere all’utilizzatore dell’Opac, sia di conoscere quali sono i formati originali, sia di accedere direttamente alle basi dati originali, per poter usufruire dei legami esistenti nei record informativi delle diverse basi dati.

Praticamente l’utilizzatore interrogherà a partire dal sito CriDaup il metadatabase; una volta identificata la notizia, “cliccando” sull’indirizzo informatico (Url) di ogni singolo record lancerà una query sul sistema remoto possessore dell’informazione. Potrà quindi proseguire navigando attraverso i link eventualmente esistenti sul sistema remoto. Si sono poste così le basi di un sistema che potrà consentire (ove adeguatamente sviluppato) di utilizzare un servizio informativo analogo a quello che il gruppo di Napster ha reso agli amanti della musica: poter accedere liberamente alla documentazione prodotta dalle diverse agenzie e scaricarla sul proprio computer. In questa direzione, ovviamente, il lavoro di CriDaup è solo l’inizio di un percorso possibile.

La costruzione degli Authority Files

Il gruppo di lavoro sugli Authority Files, coordinato da Riccardo Domenichini, si è proposto di adeguare le diverse agenzie (biblioteche, centri di documentazione e cartografia, archivi di progetti di architettura) in relazione ai diversi tipi di materiali (progetti di architettura, piani urbanistici, materiali bibliografici, cartografie e manufatti architettonici) agli standard Rica (Regole italiane di catalogazione per autore) e Isbd (International Standard Bibliographical Description). Il seguire le norme prescritte dagli standard, che definiscono la forma e la scelta dell’intestazione, insieme all’utilizzo di un unico database per la catalogazione degli autori, consente di evitare ai catalogatori facili duplicazioni o errori e soprattutto facilita agli utenti il reperimento delle informazioni.

Un esempio di condivisione: lo strumento di indicizzazione dei luoghi

Il gruppo del Thesaurus geografico, coordinato da Laura Casagrande, ha lavorato congiuntamente al gruppo di lavoro degli authority files, ed ha puntato alla composizione di un elenco alfabetico di termini condivisi fra discipline convergenti ma distinte.

Partendo dalle conclusioni del gruppo di lavoro sullo standard, il gruppo di lavoro del thesaurus ha proposto alcune modalità operative per il trattamento dell’elemento descrittivo luogo, nella prospettiva di utilizzare un unico strumento di indicizzazione, quale il thesaurus geografico di EasyCat.

L’esigenza di disporre di appositi strumenti di indicizzazione per i luoghi è particolarmente sentita negli ambiti documentali dell’architettura e dell’urbanistica; non a caso il più conosciuto e completo thesaurus geografico per l’arte e l’architettura è stato realizzato dal Getty Research Institute; per quanto riguarda l’urbanistica e la pianificazione, l’esperienza più consolidata è quella francese di Urbamet che vanta uno strumento analogo, anche se di dimensioni più ridotte. A questo proposito vanno citati anche gli strumenti di indicizzazione geografica di cui dispone lo IUAV e cioè il thesaurus geografico di Bibliodata, creato in EasyCat a partire dalle descrizioni degli analitici di periodico, e il thesaurus geografico del Circe, creato in EasyCat a partire dalla descrizioni dei diversi materiali cartografici, prevalentemente provenienti da TinLib.

Lo sviluppo della ricerca CriDaupnel quadro europeo ed italiano

Se una ricerca è vitale, giunta a conclusione non può spegnersi: deve dar luogo ad altre iniziative, che ne prolunghino nel tempo l’ispirazione e l’utilità. In parte, la continuità della ricerca è garantita dal fatto che dei suoi risultati si avvalgono le diverse strutture che l’hanno costituita. Sono strutture che ora si “conoscono” meglio: sono tra loro in rete. Limitarsi a questo significherebbe però ridurre l’orizzonte rispetto a quello possibile: che è più ampio di quello costituito dall’insieme delle strutture direttamente coinvolte.

Come si è detto all’inizio, i temi della ricerca si collocano in coerenza a numerosi aspetti del dibattito nazionale ed internazionale sulla produzione di informazioni, sulla loro organizzazione, sull’arricchimento e miglioramento delle potenzialità degli archivi, ma anche sulla diffusione delle informazioni e l’allargamento dell’accessibilità di queste fonti, ormai imprescindibili per le attività di ricerca. E la ricerca si ritrova, anche, in linea con le nuove esigenze manifestate dalla Comunità Europea per lo sviluppo e l’utilizzo dei contenuti digitali europei nelle reti globali, e di promozione della diversità linguistica nella società dell’informazione.

E’ in questo quadro, quindi, che occorre collocarsi a riflettere e operare per lo sviluppo di CriDaup, oltre i suoi confini. Ricercando, in primo luogo, i possibili punti di forza da cui partire per costruire una rete europea.

L’associazione europea URBANDATA

Un primo punto di forza è l’associazione europea Urbandata, di cui l’IUAV è tra i partner rilevanti. URBANDATA è un consorzio fra produttori di informazioni sull'"abitare" nella Comunità Europea. Mira a favorire lo scambio internazionale e la diffusione delle informazioni sulle novità urbane, nonché a sviluppare nuovi prodotti e servizi che aiutino questi processi. Essa è stata costituita come associazione di diritto francese. I suoi membri sono: per la Spagna, il Centro de Información y Documentación Cientifica; per la Germania, il Deutsches Institut für Urbanistik, per la Gran Bretagna, la Greater London Authority, Research Library; per la Francia, l’Association Urbamet, che a sua volta raggruppa il Centre de Documentation sur l’Urbanisme della Direction Générale de l’Amenagement, l’Habitation et la Construction, l’Institut d’Amenagement et d’Urbanisme de la Région Ile-de-France ed alcune associazioni professionali; per l’ Italia, Archinet associazione per l'informazione di settore che a sua volta comprende l’IUAV il Coordinamento Nazionale delle Biblioteche i Architettura, il cetro di documentazione Quasco della Regione Emilia Romagna; per l’ Ungheria, il VATI Magyar regionális Fejlesztési és Urbanisztikai Közhasznú Társaság / Hungarian Public Nonprofit Company for Regional Development and Town Planning.

URBANDATA pubblica il CD-Rom Urbadisc, a periodicità semestrale, che contiene oltre 700.000 referenze bibliografiche sulla ricerca, la politica e la pratica urbana e sociale negli stati dei suoi membri e più in generare a livello internazionale. Altri progetti programmati concernono un migliore accesso ai documenti originali, scambi e cooperazioni sulla ricerca. Tra questi merita particolare cenno il progetto MULETA.

Il progetto Muleta

Muleta (MUltilingual and multimedia LExicon on Town planning and Architecture) è un prodotto, proposto da Urbandata (e per l’associazione definito da Alessandra Carini dell’OIKOS), sostenuto finanziariamente dalla Commissione europea nell’ambito del programma INFO 2000 MLIS. Esso ha dato luogo alla costruzione del prototipo di un lessico riguardante la pianificazione territoriale e urbana, la progettazione, l’architettura e la costruzione. Le cinque lingue inizialmente scelte sono il francese, l'inglese, il tedesco, l'italiano e lo spagnolo; tutte le lingue europee saranno inserite man mano nuovi partners nazionali si aggiungeranno.

Muleta è un attrezzo che fornisce, per ciascuno dei lemmi inseriti, la traduzione letterale nelle altre lingue, il termine equivalente, una immagine quando necessaria a comprendere meglio, e la pronuncia corretta in ciascuna lingua. Alla costruzione di Muleta hanno conribuito, oltre ai membri di Urbandata, anche il Centre d’Etude technique de l’Equipement di Bordeaux (CETE) e la società EUROGONE, anch’essa di Bordeaux.

Conclusa, con molta soddisfazione del committente, la fase di costruzione del prototipo finanziata dalla Commissione europea, ora è in corso l’implementazione dei lemmi, ad opera volontaria di alcune delle associazioni componenti Urbandata. Il sito è consultabile in internet.

Un tentativo: UrPlaNet

In connessione con i programmi europei che hanno per obiettivo la ricerca, lo sviluppo tecnologico e la comunicazione si sono definite, dopo la conclusione della ricerca CriDaup, le linee guida di un possibile progetto europeo, denominato provvisoriamente UrPlaNet (Urbanistic Plans Network). Mentre la validità del progetto è apparsa via via confermata, il suo carattere “ad ampio spettro” non ne ha reso immediata la traduzione negli specifici modelli recentemente assunti dai programmi europei a gestione comunitaria. Si è reso perciò necessario – mantenendone integre finalità e contenuti – pensare a una sua articolazione, tenendo conto delle fonti di finanziamento utilizzabili, sia in sede comunitaria che nel quadro della utilizzazione dei fondi strutturali.

Il progetto dovrebbe consistere:

- nel definire un modello europeo di scheda catalografica dei uiani urbanistici (UrPlanCard) finalizzato alla costituzione di un catalogo europeo distribuito dei piani urbanistici, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto CriDaup;

- nell'utilizzare per UrPlaNet il prodotto di Muleta per associare un thesaurus multilingue (UrPlanThes) finalizzato alla ricerca delle schede catalografiche dei vari piani urbanistici;

- nel costituire un server OPAC sperimentale di indicizzazione delle schede catalografiche (UrPlanIndex) da usare sia come "user query interface", che come "query router" verso i singoli cataloghi, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto CriDaup;

- nel coinvolgere alcuni Enti pubblici territoriali (o loro strutture tecniche) non solo allo scopo di popolare il catalogo con le informazioni di loro competenza, ma anche in qualità di beneficiari del progetto per sperimentare il modello di OPAC, anche rivolto a un’utenza allargata. .

Si tratterebbe, insomma, di allargare la portata dei progetti già finanziati ampliando a livello europeo la rete delle unità di ricerca coinvolte, ottenendo così un allargamento degli standard (catalografici, lessicali, informativi) individuati a livello nazionale, favorendo altresì una loro verifica sul campo, e inoltre la formulazione di un linguaggio comune a una pluralità intranazionale di addetti, sia nella direzione del coinvolgimento di molti paesi europei, sia in quella di favorire il passaggio dell'utilizzo dello strumento dall’utenza accademica (studioso e studente) ad una più generica di “addetti ai lavori” (utente tecnico e professionista), fino al cittadino.

Alcune direzioni di lavoro

Tenendo conto delle iniziative già avviate, dei risultati ottenuti dai progetti già finanziati, delle necessità del loro completamento e delle opportunità della loro proiezione, il proseguimento dell’attività di ricerca potrebbe orientarsi secondo alcuni filoni già in parte indicati nei precedenti paragrafi e cioè:

A. Consolidare la rete di relazioni già stabilite con i diversi partners italiani ed europei, e soprattutto confermare la volontà di una fattiva e concreta collaborazione che porti a consolidare il processo di omogeneizzazione dei criteri di interrogazione e interazione degli archivi;

B. Progettare un avanzamento ed uno sviluppo del progetto di rete CriDaup, articolandolo secondo diverse direttrici tattiche d’azione, ciascuna delle quali avvia collaborazioni con partner diversi.

Le articolazioni del programma di lavoro possono essere così sintetizzate:

·Costruzione di un archivio nazionale dei piani urbanistici, sviluppando il collegamento con l’Osservatorio Piani d’Area Vasta dell’Inu, nonché con alcune ricerche di analogo tenore recentemente messe a punto da istituti universitari e di ricerca.

·Costruzione di un archivio di materiali utili alla conoscenza del territorio elaborati in occasione della redazione degli strumenti urbanistici, o in connessione ad essi. È noto che in Italia non esiste alcun archivio di “letteratura grigia” (documenti ufficiali e ufficiosi, non pubblicati a stampa o disponibili in tirature limitate), mentre in altri paesi europei si tratta di patrimoni informativi esplorati e diffusi

·Sviluppo e proiezione a livello europeo del “glossario”, in connessione al progetto Muleta e alla partecipazione a un suo sviluppo e trasformazione, da semplice strumento di lavoro per la compilazione di schede, a indice di un sistema antologico di definizione dei termini.

·Costruzione sperimentale di una o più reti provinciali di Comuni, per la formazione e la gestione dei piani urbanistici, in collaborazione con una o più amministrazioni provinciali. Si tratta di verificare la possibilità di raggiungere l’obiettivo di condividere in corso d’opera informazioni relative alla pianificazione, tra Provincia e Comuni, consentendone l’accesso sia ai diversi uffici, sia ai cittadini.

·Sviluppo del sistema di condivisione delle informazioni che, superando gli scogli su cui si è arenato il progetto Napster, consenta a qualunque utente di percorrere una rete informativa europea (e universale) di archivi nei settori dell’urbanistica, dell’architettura, delle costruzioni ecc., di conoscere i documenti depositati negli archivi delle varie agenzie collegate, di ottenerli direttamente scaricandoli dagli archivi, risolvendo direttamente con le agenzie i problemi dei diritti d’autore.

[1]. Per sistema informativo Cri_Daup si intende: (i) possibilità di interrogare congiuntamente le basi dati documentali dei partner del progetto almeno per quanto riguarda i campi comuni individuati, d’ora innanzi definito, (ii) applicativi specifici che permettano la gestione in tutti i suoi aspetti dei documenti digitali, d’ora innanzi definito, (iii) applicativi specifici che permetteranno la catalogazione dei documenti, (iv) accessibilità condivisa agli authority file, thesaurus geografico e glossario.

Anch’io, come Pierluigi Cervellati, sono molto deluso di ciò che sta avvenendo a Venezia, e in particolare nella città storica. Ma le ragioni della mia delusione sono diverse da quelle di Cervellati. Non rimpiango cioè il cosiddetto Piano Benevolo, ma la distruzione che con tale piano, e con la politica urbanistica di cui è l’espressione, si è fatta del precedente piano per la città storica. Distruzione e politica della quale è stato massimo artefice l’assessore Roberto D’Agostino, con cui hanno collaborato come consulenti Leonardo Benevolo e Pierluigi Cervellati.

Condivido pienamente la denuncia di Cervellati. Anch’io critico che si sia abbandonata “la pianificazione per il marketing”. Anch’io condanno la “proliferazione delle camere a ore, locande Bed&Breakfast, snack bar, paninerie e pizzerie” e quel che segue. E però…

Però, come risulta limpidamente da numerosi scritti di Luigi Scano (oggi ospitati in un’apposita cartella nel sito eddyburg.it, da tutti consultabile) una parte consistente dei danni al patrimonio storico della città, che oggi tutti lamentano, è stato causato proprio dall’operazione compiuta con il cosiddetto Piano Benevolo: cioè, con variante di PRG per la città antica, adottato dal comune nel 1996. La base materiale e formale di quel piano è stata costituita dal lavoro impostato e iniziato nel 1982 dalla giunta di sinistra (sindaco Mario Rigo, assessore Edoardo Salzano), interrotto nel 1985 (sindaci Nereo Laroni e poi Costante Degan), ripreso nel 1987 (sindaco Antonio Casellati, assessore Stefano Boato), concluso e reso pubblico nel 1990, e adottato nel 1992 (sindaco Ugo Bergamo, assessore Vittorio Salvagno).

Ho seguito il piano come diretto responsabile nella prima fase, poi come collaboratore esterno negli anni in cui, assessori Boato prima e Salvagno poi, gli uffici diretti da Edgarda Feletti, con la costante collaborazione di Scano, lo conclusero e portarono all’adozione. Come cittadino veneziano, partecipe delle vicende della sua città e direttore di eddyburg.it ho continuato a seguirne le vicende anche negli anni successivi: quello della sua utilizzazione e demolizione, di cui Scano ha puntualmente documentato e raccontato i passaggi.

La Giunta eletta nel 1993 (sindaco Massimo Cacciari), vittima della ventata di neoliberismo che in quegli anni soffiava impetuoso dalle Alpi al Lilibeo, iniziò subito a criticare (vorrei dire a demonizzare, perché nessuna argomentazione razionale fu proposta) il piano del 1992. Colpa del piano era quella di “imbalsamare la città”: la città “non è un monumento”, bisogna sciogliere i “lacci e laccioli che ostacolano l’attività economica”. Mai si è riusciti a dimostrare in che cosa quel piano ostacolasse le attività economiche coerenti con le caratteristiche strutturali e con la storia della città: dalle attività artigianali e quelle negate alla nautica, dalla ricerca e dalle produzioni immateriali alle attività legate al restauro e alla messa in valore dell’enorme patrimonio storico e culturale. Così, per deregolamentare e lasciare le mani libere a qualunque possibile affare sulla città, a qualunque possibile sfruttamento della sua capacità di richiamo nei confronti di qualsiasi operatore economico, le tavole originali del piano costruito nel decennio precedente furono riciclate sostituendone le bandelle e correggendone le legende, le norme furono emendate.

La direzione lungo la quale ci si mosse per adattare il piano alla nuova ideologia (laissez faire, laissez aller) fu perciò una soltanto: eliminare tutte quelle norme che avrebbero consentito di controllare, con un rigore commisurato alla forza delle pressioni sul mercato immobiliare, le destinazioni d’uso, tutelando in particolare la permanenza della “residenza ordinaria” in tutte le numerosissime unità edilizia la cui tipologia le destinava a questa utilizzazione, e promuovendo le attività economiche coerenti con la città. Ed è utile forse ricordare che tra i primi atti della Giunta che distrusse il piano del 1992 ci fu la revoca della deliberazione con la quale la Giunta precedente aveva recepito la Legge Mammì sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici. E che da quella medesima Giunta nacque la proposta di una metropolitana sublagunare da Tessera a Murano e all’Arsenale, utile solo ad aumentare l’afflusso del turismo “mordi e fuggi”: una proposta ancora oggi sul tappeto, contro la quale mi piacerebbe che Pierluigi Cervellati si schierasse con determinazione.

Qui l'articolo di Pierluigi Cervellati

ROMA Le ecodomeniche vanno bene come «spot a fini educativi, ma nella sostanza servono a poco», afferma l'urbanista Edoardo Salzano. Ritornare alla pianificazione delle città, ripensare il trasporto collettivo, rottamare i vecchi bus. Investire risorse, economiche, ma soprattutto politiche. Sono queste le vie da battere per dare soluzione ai problemi del traffico e dell'inquinamento. «D'Alema deve scendere in campo, non può lasciare la partita a Willer Bordon o a Edo Ronchi», cioè al Lavori pubblici o all'Ambiente. «Quanto ha investito, politicamente, l'ex premier Prodi nella rottamazione delle auto? Moltissimo. Ora tocca ai trasporti pubblici, è tempo di iniziare».

Tutti a piedi entusiasticamente. I cittadini manifestano in massa le attese per città più vivibili. Ritiene che queste iniziative servano?

«Vanno bene dal punto di vista strettamente propagandistico, educativo. Sono spot a fin di bene, pubblicità progresso per far capire che il problema c'è e va risolto con modi drastici. Però nella sostanza servono a poco».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Intanto le città dovrebbero essere pianificate, bisognerebbe ripristinare la vecchia sana pianificazione urbanistica per cui si decide dove mettere le cose, dove dislocare le funzioni che attirano traffico, come mescolare tra loro le diverse funzioni della città e non separarle, e come organizzare un sistema efficiente di trasporti collettivi, pubblici e privati che siano. Ecco credo che si dovrebbe cominciare da qui. A Roma, per esempio, si era capito mezzo secolo fa, con lo Sdo (Sistema direzionale orientale) che aveva proprio questo significato, spostare i ministeri, i grandi attrattori di traffico in una zona dove traffico può essere ancora organizzato come un sistema della mobilità - strada più metropolitana - quindi liberare il centro storico. Ma lo Sdo è stato abbandonato, hanno vinto le lobby».

Sta dicendo che non sipianifica più?

«Da vent'anni nella maggior parte delle città e da parte della maggioranza delle forze politiche la pianificazione urbanistica è stata dimenticata. Sono stati privilegiati gli accordi con gli attori più potenti, la contrattazione caso per caso, i condoni, la deroga alla pianificazione invece che il suo rigoroso rispetto».

È un’analisi severa…

«Sì, sono severo. Si deve riprendere a pianificare seriamente, non con le chiacchiere, non promettendo cure del ferro e poi facendo gli accordi con le Ferrovie dello Stato per intasare ulteriormente la prima periferia come si è fatto a Roma. E questa è una vignetta .... ».

Ilministro all'Ambiente Ronchi afferma che ormai le ecodomeniche sono nel Dna di cittadini e rilancia: bisogna estendere le aree pedonalizzate. Può essere questa una valida misura per l'immediato visto che la pianificazione ha tempilunghi?

«A Napoli per esempio si è dimostrato che se si pedonalizza i problemi dei traffico si risolvono, non si aggravano, e non solo nelle zone pedonalizzate. Lì si è intervenuti in piazza Plebiscito che è il luogo di più intenso passaggio del traffico e adesso hanno pedonalizzato anche via Toledo. Certo, bisogna avere la capacità di resistere alle proteste dei commercianti che sono miopi: in Germania i commercianti lottano per avere le aree pedonali, in Italia lottano per non averle. È un indicatore del nostro grave ritardo, perciò c'è bisogno si un'azione di educazione».

Il suo appello a fare di più ha un destinatario preciso?

«D'Alema, sicuramente, la presidenza del Consiglio dei ministri. Mi dispiace dargli un'altra responsabilità, ma è sua, non può affidarla a Willer Bordon (titolare dei Lavori pubblici, ndr) o a Edo Ronchi o a qualche altro rninistro. Si devono investire risorse, in primo luogo risorse politiche. Bisogna far capire che si sta facendo sul serio. E bisogna cominciare la rottamazione dei trasporti pubblici, dare soldi ai Comuni perché buttino via i vecchi sistemi di trasporto e ne facciano di efficienti. Quanto ha investito, politicamente, nella rottamazione delle auto l'ex premier Prodi? Moltissimo, è servito all’economia italiana, è servito alla Fiat ecc. Ora tocca a questo altro fronte. Guai a lasciarlo a Edo Ronchi».

Venezia è l'unica città d'Italia dove i mezzi di trasporto collettivi (qui si chiamano vaporetti) arrivano puntuali, al minuto. Dipende dal fatto che nei canali non ci sono gli ingorghi che caratterizzano le altre città. Venezia è l'unica città del mondo in cui tutto il centro è pedonale. E' l'unica "città senza automobili": realizza cioè l'obiettivo che un recentissimo rapporto della CEE propone a tutte le città europee.

L'antichissima Venezia, la città storica meglio conservata del mondo (nonostante i mille tentativi di renderla uguale alle altre città distrutte dal Novecento), è dunque una città modernissima: è anzi l'emblema, il modello, l'annuncio di un futuro possibile. L'aveva capito il grande architetto Le Corbusier, quando ha detto che a Venezia si era attuata da secoli la grande innovazione che bisognava sforzarsi d'introdurre, con l'urbanistica moderna, in tutte le città del futuro: la separazione del traffico pedonale (nelle calli) dal traffico meccanico (nei canali).

Venezia ha mille problemi. Aver trascurato per decenni la manutenzione della laguna, averne sottratto un terzo al libero flusso delle maree, aver scavato profonde autostrade marine per far approdare le petroliere oceaniche ha reso più grave e rischioso il fenomeno antico delle "acque alte". Il richiamo esercitato dalla città in tutto il mondo, la dimensione di massa assunta dal consumo, l'incapacità di sconfiggere il modello "mordi e fuggi" di un turismo sempre più vorace, distratto e devastatore, tutto ciò ha già prodotto una paurosa mutazione della struttura sociale della città, e un pesante logoramento delle sue stesse strutture fisiche.

Tra i mali di Venezia, non ultimo è quello di avere una classe dirigente, e una rappresentanza istituzionale, divenute sempre più provinciali e grette. Sempre più inconsapevoli della modernità implicita nel modello urbano storico di Venezia (un passato miracolosamente conservato che suggerisce un futuro possibile per tutto il mondo), e sempre più desiderose di adeguare la città agli stereotipi di una modernità orecchiata e fasulla: vuoi per miope interesse affaristico, vuoi per subordinazione culturale. La proposta di tenere a Venezia l'Expo del 2000 è stata la penultima espressione di questo clima. L'ultima, di cui in questi giorni si discute, è quella di realizzare a Venezia una "metropolitana sublagunare".

Secondo il progetto presentato dal sindaco (il d.c. Bergamo, sostenuto da una giunta quadripartita) la metropolitana dovrebbe, dall'area ferroviaria, immergersi nella laguna. Seguendo il percorso dei canali, dovrebbe toccare la Giudecca, le Zattere, l'isola di S,Giorgio, San Marco e la Riva degli Schiavoni, l'Arsenale, il Lido. In una fase successiva, attraversando il Ponte della Libertà, dovrebbe collegare Venezia a Mestre e alle altre città della Terraferma.

A chi dovrebbe servire questa mirabilia tecnologica? E a che cosa? Forse a rendere più rapide le comunicazioni con Mestre dei 10 mila abitanti del Lido? O a risparmiare qualche manciata di minuti nelle comunicazioni tra il quartiere residenziale di S.Elena e gli uffici attorno a Rialto? E' difficile immaginare che per raggiungere questi obiettivi qualcuno pensi di spendere i 768 miliardi oggi previsti (e generosamente promessi dal ministro dei trasporti uscente, il veneto Bernini).

Una cosa è certa, e l'hanno affermata con molta chiarezza sia Cesare De Piccoli, eurodeputato e consigliere comunale del Pds, sia Gianfranco Bettin, esponente dei Verdi e autore d'un bellissimo libro su Venezia. La proposta della metropolitana è un ulteriore tentativo di omologare Venezia ai canoni di un modernismo ormai in crisi in tutto il mondo. E' il colpo di coda dei fautori di quella stessa concezione, distruttrice della irripetibile singolarità di Venezia, che aveva issato la bandiera dell'Expo.

Come per l'Expo, così per la metropolitana ci si propone di "modernizzare" e "vitalizzare" Venezia adoperando strumenti idonei ad aggravare i mali di cui soffre. E infatti, perché sono state inventate le metropolitane, e dove funzionano? Sono state inventate per fornire una risposta di massa a una domanda di massa di spostamenti, e funzionano nelle aree dove una simile domanda esiste. Ebbene, per Venezia (come per altri centri storici) non gareggiamo tutti a lamentare, deprecare, denunciare i danni provocati dal turismo di massa?.Non è per questo che, in tutto il mondo, c'è stata una sollevazione che, in extremis, ha impedito l'Expo?

Prima ancora di analizzare, verificare, valutare tecnicamente i modi, le tecnologie, le condizioni, della metropolitana a Venezia, occorre giudicarla per quello che è. Ed essa è certamente una proposta volta a indurre nella città una poderosa espansione di quei flussi di visita generici, non programmati né programmabili (insomma, il turismo "mordi e fuggi") che sono l'esatto opposto dell'intelligente amore, della consapevole conoscenza, dell'attento e rispettoso godimento di un ambiente ricco di valori e d'insegnamenti che dovrebbero caratterizzare un turismo degno di Venezia.

E' una proposta omogenea al turismo così com'è oggi. Ed è allora anche contraddittoria con uno sviluppo economico "sostenibile": capace cioè di rinunciare a divorare il capitale del futuro per guadagnare oggi un pugno di lire. Un simile sviluppo richiederebbe che si sapesse interrompere oggi il proliferare del turismo di massa come condizione per poter attrarre attività economiche "avanzate". E richiederebbe che si fosse capaci di investire (intelligenza, ricerca, lavoro, capitali) per sperimentare modi di trasporto modernamente capaci di utilizzare le infinite vie d'acqua, che di Venezia sono una ricchezza.

Si vincerà a Venezia, questa volta, la battaglia per salvare Venezia? Oppure bisognerà ancora una volta mobilitare uno schieramento nazionale e internazionale? La città sta discutendo. La decisione dovrà essere presa il 21 maggio, data entro la quale si dovrà trasmettere a Roma la domanda di finanziamento.

Le cause della corruzione politica sono molte. Alcune affondano nella natura dell'uomo, altre nella storia dei nostri anni. E' a queste ultime che deve rivolgersi la riflessione politi­ca, perché é su di esse che possiamo agire per rimuoverle ed eliminare così, o almeno sen­sibilmente ridurre, l'arbitrio, l'ingiustizia, lo spreco, la distruzione di valori essenziali per la convivenza civile che la corruzione politica determina.

Una causa rilevante l'ha individuata Giuliano Amato, nel suo programma di governo, là dove ha testualmente ripreso una frase della proposta politica presentata da Achille Oc­chetto al Presidente della Repubblica [1]. Il Primo ministro (e il Segretario del Pds) hanno detto che é necessario un impegno del Governo per la riforma delle norme che riguardano "regime giuridico dei suoli e indennità di esproprio, per consentire alle amministrazioni lo­cali di superare definitivamente la pratica dell'urbanistica contrattata".

E' la prima volta, dopo decenni, che il capo del Governo, su sollecitazione del leader del maggior partito d'opposizione, s'impegna ad assegnare priorità alla riforma delle norme per il governo del territorio. Ed é la prima volta che il termine "urbanistica contrattata" entra nel linguaggio politico ai livelli più rappresentativi, e che la "pratica" che quel termine esprime viene additata come qualcosa da contrastare, o almeno "superare".Era necessario un trauma per giungere a tanto: il trauma determinato dal fatto che non solo faccendieri e palazzinari, ma anche costruttori seri, presidenti e amministratori delegati di prestigiose società, e soprattutto assessori, sindaci, dirigenti politici influenti, deputati, e perfino po­tenti ministri ed ex ministri, sono stati acchiappati, da un pugno di magistrati coraggiosi, nella rete del codice penale.

Era necessario, insomma, che esplodesse "Tangentopoli". Ma che c'entra con Tangen­topoli l'"urbanistica contrattata"? Domandiamoci innanzitutto che cosa questa espressione significa.

Che cos'è l'urbanistica contrattata

L'"urbanistica contrattata" é la sostituzione, a un sistemadiregole valide ergaomnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazionediretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al siste­ma di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità.

Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del terri­torio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando in­somma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vo­gliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.

Ci fu, nella storia della Repubblica italiana, un altro periodo in cui la subordinazione delle scelte urbanistiche agli interessi privati apparve come uno scandalo. Fu negli anni in cui le scelte di politica economica e sociale compiute per la ricostruzione postbellica (lasciare le briglie sciolte sul collo dell'edilizia privata) provocarono lo sfrenato divampare della speculazione fondiaria ed edilizia. Per ricordare quei tempi, basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60 entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo memorabile film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dall' Espresso e dagli "Amici del Mondo" e indagato da Antonio Cederna, da Italo Insolera e da Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.

Non é forse allora l'urbanistica contrattata qualcosa di simile a quello che caratterizzò quegli anni? A prima vista, potrebbe sembrare. L'urbanistica contrattata può insomma ap­parire come una forma semplicemente ammodernata della vecchia, tradizionale specula­zione fondiaria. (Così come, del resto, l'intreccio tra politica e affari affiorato a partire dalle iniziative del giudice Di Pietro sembra ad alcuni solo l'ennesima manifestazione della millenaria vicenda degli amministratori pubblici che si lasciano corrompere). Ciò che vorrei sostenere invece é che l'urbanistica contrattata é qualcosa non solo di nuovo e diverso ri­spetto alla vecchia e nota speculazione, ma é qualcosa di infinitamente più grave, perché più penetranti e pervasivi sono i suoi effetti e le distorsioni che induce (che ha indotto) sull'intero ordinamento delle istituzioni e della società.

Per convincersene, basta pensare sulla differenza tra le reazioni sociali all'una e all'altra forma (quella di ieri e quella di oggi) della subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. Trenta e quarant'anni fa la speculazione fondiaria ed edilizia appariva immediata­mente come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Oggi, l'urbanistica contrattata é invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei compor­tamenti: c'é da credere che il termine, se non fosse esplosa Tangentopoli, sarebbe compar­so nelle prossime edizioni dei manuali di tecnica urbanistica o di diritto amministrativo. Ie­ri, insomma, si trattava di violazioni del sistema di regole dato; oggi, della sostituzione, al sistema di regole date, di un nuovo e perverso controsistema di regole. Ieri, erano infra­zioni e violazioni puntuali al'organizzazione istituzionale dei poteri; oggi, é la costruzione di un contropotere.

Ma la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno esser compresi meglio ragionando sui suoi meccanismi: sugli "strumenti urbani­stici" di Tangentopoli.

Dalle regole alle regolette

L'urbanistica contrattata é in primo luogo trionfo della discrezionalità. Perché una prassi discrezionale possa affermarsi, é necessario che il sistema di regole cui essa si sostituisce venga preliminarmente screditato; il tentativo (ahinoi largamente riuscito) di screditare la pianificazione urbanistica e, più in generale, le regole del governo del territorio, é infatti il filo rosso che percorre gli anni dell'urbanistica contrattata.

Ma poiché la pubblica amministrazione non può rinunciare a ogni regola, non può ridursi a mera discrezionalità, ecco che, accanto alla demolizione delle regole preesistenti, é poi necessario foggiarsi qualche nuova regoletta: qualche istituto o norma che possa coprire la discrezionalità, darle forma e apparenza giuridica. Le regolette della deroga per pubblica utilità, e dell'estensione oltre ogni limite della concessione di opere, sono stati gli strumenti che hanno accompagnato l'urbanistica contrattata, e con essa hanno costruito il percorso che ha condotto a Tangentopoli.

Si cominciò con una legge del 1978, approvata tra Capodanno e la Befana, quando i parlamentari erano ancora impegnati nella digestione delle feste. Una leggina transitoria (doveva durare solo tre anni, ma fu prorogata silenziosamente di triennio in triennio fino al 1987, e poi resa permanente) consentì che le opere pubbliche fossero eseguite anche se in contrasto con gli strumenti urbanistici. Per poter derogare al piano regolatore e costruire là dove esso non lo consentiva, o realizzare, per esempio, un parcheggio o un ospedale là dove erano invece previsti un parco pubblico o una scuola, bastava che il relativo progetto fosse approvato dal Consiglio comunale [2].

Pochi anni dopo, nel 1980 e nel 1982, due leggi finalizzate alla realizzazione di edilizia abitativa pubblica cominciarono a introdurre la concessione in un senso che aveva poco a che fare con l'originario significato di questo istituto [3]. Fino ad allora, la concessione era stata utilizzata per la realizzazione di opere che costituivano un vero e proprio servizio pubblico o di pubblico interesse, del quale era necessaria una gestione tecnica (per farle funzionare e mantenerle in efficienza) ed economica (per rientrare nelle spese che era co­stata la loro realizzazione). Ferrovie e autostrade sono stati gli esempi classici della con­cessione in Italia. Nell'uno e nell'altro caso, affidarle in concessione a imprese private do­veva significare mobilitare, per la loro realizzazione, risorse del mercato finanziario priva­to, significava consentire alle imprese realizzatrici di rientrare nelle spese sostenute inca­merando le entrate connesse alla gestione del servizio (i biglietti dei treni e i pedaggi au­tostradali), e significava infine garantire alla pubblica amministrazione che la realizzazione tecnica delle opere fosse corretta, poiché era alle stesse imprese realizzatrici che spettava l'onere della manutenzione. Del resto, era nelle mani del pubblico che rimanevano le deci­sioni relative all'impostazione (politica, tecnica, amministrativa) dell'opera, poiché era ad esso che restavano affidate le scelte d'impostazione, fino alla redazione del progetto di massima delle opere.

E' evidente che utilizzare l'istituto della concessione, come con le leggi ora citate si é iniziato a fare, per la realizzazione di alloggi di proprietà pubblica, gestiti dai comuni o dagli Istituti per le case popolari o dagli altri soggetti previsti dalla legislazione in materia ha costituito l'inizio di una distorsione di uno strumento di per sé non perverso. La distor­sione si é accresciuta poi quando si é esteso (come é avvenuto nel 1987 [4]) l'impiego della concessione a ogni opera comunque di competenza pubblica, quando si sono affidati e ai concessionari anche le competenze di redazione degli studi preliminari e della progetta­zione di massima (e cioè la determinazione della qualità del prodotto), e quando infine si sono affidate al concessionario le competenze della direzione dei lavori.

Il massimo della perversione si é peraltro raggiunto là dove ai concessionari si é di fatto assegnato addirittura il compito di procacciare i finanziamenti per la realizzazione delle opere. E' quello che succede, senza sollevare scandalo eccessivo, nel Mezzogiorno, pro­prio ad opera dell'azione statale.

Con la legge di riordino dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno [5] si apre infatti la strada "all'iniziativa progettuale e programmatoria di tecnostrutture aziendali e professio­nali che si sostituiscono, di fatto, alle istituzioni elettive, nel quadro di una interpretazione lottizzatoria dei rapporti tra le forze politiche e la distribuzione ed utilizzazione delle risor­se finanziarie" [6]. In definitiva, "sono così le aziende a redigere i progetti sui quali cerche­ranno esse stesse i 'canali' giusti per ottenere il finanziamento, in cambio dell'affidamento dell'esecuzione e, talvolta, della gestione dell'opera"[7]. E assai più della qualità delle opere, della loro utilità sociale, della loro priorità, contano le "entrature e le "relazioni.

Ma a quel punto, l'unico ruolo che rimane al potere politico, delegati tutti gli altri al potere economico, é quello di "rappresentare il popolo", cingendo magari la fascia trico­lore. Sicché in definitiva la tangente si configura come il compenso per il servizio (di rap­presentanza e copertura) reso: uno stipendio.

Condono dell'abusoe delegittimazione del piano

E' sempre agli inizi degli anni '80 che si colloca il più dispiegato contributo alla delegit­timazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico. Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formula­zioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una con­trollata sanatoria dell'abusivismo pregresso. Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Go­verno decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perse­guito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [8]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, co­me una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzio­nalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di si­nistra, aperta anche al futuro. Un incentivo all'abusivismo, insomma, anziché un deterrente [9].

Per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianifica­zione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella piani­ficazione. E' proprio questo ciò che avvenne, nel corso del primo quinquennio degli anni '80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnarono la discussione della legge. In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". L'urbanistica é un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo é nato e si é sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [10] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti é nato e si é rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.

Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato" [11]. Una parte consistente dell'opinione pubbli­ca era giunta ormai a considerare l'abusivismo come qualcosa che non é un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pa­gare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a sal­darvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abu­sivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. "Sicché, in definitiva, l'abusivismo appariva come qualcosa di assimilabile a una disobbedienza civile nei con­fronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si proponeva di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica" [12].

Nuovi poteri per la lobby del mattone

Non sono soltanto i lottizzatori e costruttori abusivi i nuovi soggetti che intervengono attivamente nei processi di urbanizzazione degli anni '80. Alle imprese tradizionali, agli abusivi, agli enti pubblici tendono ad affiancarsi, sostituendo questi ultimi, le grandi impre­se. Già ai tempi della discussione delle leggi per la casa, negli anni tra il '70 e il '78, queste avevano tentato di presentarsi alla ribalta come soggetti, "di alto profilo organizzativo e di elevata capacità economica", capaci di sostituire lo Stato nella realizzazione, progettazione e gestione non di singole opere, ma di interi "sistemi urbani". Il pretesto, e l'alibi, erano costituiti dal divario tra le emergenti necessità sociali e le condizioni della pubblica ammi­nistrazione. Quest'ultima, si diceva, richiede per il suo adeguamento tempi non compatibili con l'urgenza di provvedere (alle case, alle autostrade, ai tribunali, alle poste ecc.ecc.). In attesa della sua riforma - dicevano allora i propugnatori dello "Stato in appalto" - , affi­diamo dunque alle grandi imprese i compiti di programmare, pianificare, progettare, co­struire, gestire.

Il nesso tra degrado della pubblica amministrazione (e in particolare dei suoi corpi tec­nici, a tutti i livelli) e delega di poteri pubblici alle grandi imprese meriterebbe una indagi­ne attenta. Certo é che, nella nostra storia recente, quel nesso si é rivelato un vero circolo vizioso: il degrado degli strumenti dell'azione pubblica costituiva l'alibi per la delega di competenze, quest'ultima deprimeva ulteriormente le strutture pubbliche accrescendo così la credibilità di nuove deleghe e così via, allontanando sempre più il funzionamento del si­stema dal modello costituzionale.

La linea dello "Stato in appalto" fu sconfitta negli anni '70, in Parlamento, da una pro­posta "istituzionalista", che correttamente attribuiva a una equilibrata composizione delle competenze dei diversi livelli istituzionali le funzioni di programmazione territoriale degli interventi nell'edilizia[13]. Ma le parziali riforme di quegli anni non furono accompagnate da un'azione politica coerente, né furono completate in alcuni aspetti essenziali del quadro ne­cessario per esercitare un efficace governo del territorio. E' anche per questo che, a metà degli anni'80, riemerge qualcosa che sembrava sepolto.

Nel marzo del 1987 che Luigi Lucchini, allora presidente della Confindustria, aprendo l'assemblea della sua organizzazione afferma che lo Stato deve rilanciare la spesa per opere pubbliche, smobilizzare "l'ingente patrimonio demaniale non più funzionale alle esigenze", agevolare l'afflusso del risparmio privato alle "grandi opere pubbliche" [14]. La stampa dell'epoca pone in relazione queste richieste del leader degli industriali con le iniziative che stavano avvenendo in quei mesi. Il processo di riorganizzazione delle grandi imprese non si limitava più alla formazione di episodici consorzi di imprese del settore. Si puntava più in alto: a organizzarsi per un poderoso rilancio degli investimenti pubblici, reso possibile dal risparmio conseguito con la crisi del petrolio, che avrebbe potuto compensare il venir me­no della spinta alle esportazioni.

Già al potente gruppo Italstat, ferreamente diretto da Ettore Barnabei (arrestato per lo scandalo dei "fondi neri" dell'Iri, e poi rilasciato per un'amnistia "confezionata apposta per lui" [15] ), si erano affiancati due poderosi consorzi: le Grandi opere (Rendo, Di Penta, Gam­bogi, Del Favero, Maltauro, Pizzarotti, Romagnoli, Segesta) e la Argo (Impresit, Astaldi, Cogefar, Girola, Federici, Recchi, Lodigiani, Vianini).

Accanto a questi, si costituisce l'Igi, l'Istituto per gli studi e la promozione delle grandi infrastrutture, presieduto da Giuseppe Guarino (poi più volte ministro). Nell'Igi ci si pro­pone di realizzare la saldatura organica tra le tre grandi componenti del mondo imprendi­toriale: le imprese private, quelle di capitale pubblico, quelle cooperative, rappresentate ciascuna da uno dei tre vicepresidenti. All'Istituto partecipano trentasei tra le maggiori imprese italiane. Interessante la dichiarata finalità sociale: "accelerare la realizzazione delle grandi infrastrutture, attuare un migliore e più attento uso del territorio, stimolare un in­tervento per il mezzogiorno, promuovere l'attuazione di un sistema delle concessioni che superi le attuali difficoltà delle procedure".

La stampa parla più volte di una nuova potente "lobby del mattone". Altri mettono in evidenza un aspetto preoccupante. Afferma la rivista dell'Istituto nazionale di urbanistica: "Una simile nuova potenza si pone direttamente al livello dei poteri centrali dello Stato: suoi interlocutori non sono le regioni e i comuni, ma direttamente il governo (e le segrete­rie dei partiti). Eppure esse si propongono di intervenire nelle scelte che determinano il futuro dell'assetto delle città e del territorio. E tra i suoi obiettivi non c'é solo la 'sparti­zione della torta', ma lo scavalcamento dei metodi e dei procedimenti della pianificazione e la sostituzione ad essi di un potere direttamente gestito dalle aziende" [16]

Il vento dell'emergenzanelle vele della deregulation

Già lo si era visto con i primi passi sulla via della "de-pianificazione": le vele dei distrut­tori dell'urbanistica si gonfiano col vento dell'emergenza. Negli anni '78-'82 era stata "l'emergenza casa", che aveva giustificato le prime deroghe delle leggi di quegli anni e aveva in qualche modo contribuito anche ad alimentare il più esasperato condonismo dell'abusivismo (lo slogan era: "che senso ha prevedere la distruzione di casette abusive se c'é una così forte carenza di case?"). Ma altre "emergenze" si susseguono, e quando non sono causate da calamità naturali e altri eventi imprevedibili, si inventano con italica fanta­sia. Terremoti, alluvioni, alghe, manifestazioni sportive, esposizioni, celebrazioni, esigenze di ordine pubblico: tutto fa brodo per gli sregolatori.

Tra le "emergenze inventate" va annoverata la calamità territoriale dei Mondiali di cal­cio. Dal maggio del 1984 si sapeva che la grande kermesse agonistica si sarebbe tenuta in Italia nel 1990, sei anni dopo. Tutto il tempo di provvedere, quindi: ma allora, non sarebbe stata un'emergenza! E infatti si dorme per tre anni. Ci si sveglia nel 1987, e si approva un decreto, dominato dall'urgenza [17]. Questo prevede, nella sostanza, due cose: soldi per opere d'ogni genere, e facoltà di derogare dalle procedure urbanistiche.

Lo strumento impiegato per derogare é la "conferenza". Una riunione di rappresentanti di tutti gli enti interessati, vuoi per competenza tecnica vuoi per obbligo di esprimere pa­reri o accertare conformità, esamina frettolosamente i progetti delle opere e li approva, an­che se sono in deroga agli strumenti urbanistici. Un rappresentante del comune presente a una riunione, in cui in mezza giornata si esaminano decine di progetti, col suo "si" o, molto più raramente, col suo "no", scavalca la discussione dl Consiglio comunale, la partecipa­zione dei quartieri, il parere della cittadinanza: senza alcuna pubblicità, decide per tutti su opere che, in molti casi, condizionano pesantemente il futuro delle città coinvolte [18].

Osserva Luigi Scano: "L'evento calcistico viene cupidamente visto come una nuova oc­casione per riproporre un vecchio e adusato gioco: prendere le mosse da una circostanza 'straordinaria' per attivare ingenti investimenti, totalmente o prevalentemente pubblici, es­senzialmente nel comparto delle opere edificatorie, assumendo l'urgenza e la ristrettezza dei tempi disponibili, l'assenza di coerenti e funzionali previsioni sedimentate negli stru­menti di pianificazione e di programmazione, e anche la farraginosità (presunta, e anche reale) delle ordinarie disposizioni di merito, le carenze dei sistemi decisionali politici e delle amministrazioni, come ragioni ('e che ragioni forti!', direbbe Leporello) per sospendere l'efficacia del maggior numero possibile di 'regole'" [19].

I Mondiali fanno rapidamente scuola. Le procedure derogatorie si allargano via via, con ogni legge o leggina che riguarda, direttamente o indirettamente, il governo del territorio. Tra gli esempi più significativi, la legge per le mucillaggini [20], i provvedimenti per le cele­brazioni di Cristoforo Colombo [21] e i nuovi provvedimenti speciali per la salvaguardia di Venezia. E' sulle vicende della città lagunare (uno dei bunker di Tangentopoli colpita dalla Magistratura) che é utile soffermarsi.

Una laguna di consorzi

Nel bene e nel male, Venezia é stata spesso un laboratorio di formule politiche e di istituzioni e procedimenti. Negli anni '70, con la legge scaturita dagli eventi calamitosi del 1966 [22], si cerca di sperimentare la pianificazione di "livello intermedio", il risanamento dell'edilizia storica senza espulsione di abitanti, lo "sportello unico" per l'approvazione dei progetti, l'alleanza programmatica tra Dc, Psi e Pci. Negli anni '80 si sperimentano due istituti, tra loro strettamente connessi nella recente esperienza italiana, tipici della nascente Tangentopoli: i consorzi di imprese e la concessione.

Il consorzio di imprese si é rivelato, in questi mesi di riflessioni giudiziarie, essere diven­tato lo strumento ideale per evitare gli "inconvenienti" (per le imprese) della concor­renza, per tenere con ciò stesso alti per la collettività i costi della realizzazione delle opere pubbliche, per aumentare infine (in virtù delle "sinergie", parola divenuta alla moda proprio in questi anni) la forza di pressione diretta a ottenere dallo Stato consistenti finanziamenti per i grandi progetti volta per volta decisi. La concessione, cui si é già accennato, é diven­tata lo strumento per la delega alle aziende private a capitale privato, cooperativo e pub­blico (la presenza delle tre componenti é stata sempre considerata necessaria per ottenere una copertura politica completa) della progettazione e realizzazione di grandi progetti di trasformazione territoriale. La connessione tra consorzi e concessione (realizzata mediante l'assegnazione ai consorzi della concessione di opere e/o di servizi) ha costituito infine lo strumento ideale per la simbiosi, in molti casi malavitosa, tra imprenditori, in molti casi corruttori, e politici, in molti casi concussori.

A Venezia le esperienze si sono snodate, in rapida successione, a partire dal 1984, ruo­tando attorno a tre personaggi di diverso (ma sempre notevole) spessore politico, tutti e tre inquisiti dalla Magistratura in relazione ai noti eventi: Gianni De Michelis, Carlo Ber­nini e Franco Cremonese. Leader indiscusso del Psi veneziano il primo e due volte mini­stro, prima alle Partecipazioni statali poi agli Esteri, attualmente vicesegretario del suo partito; leader della Dc veneta dopo Toni Bisaglia, presidente della Regione e poi ministro per i Trasporti il secondo; presidente della Regione dopo Bernini, infine, il terzo.

Tutto é cominciato, cronologicamente, con le modifiche alla legislazione speciale per Venezia apportate con una legge del 1984 [23]: nello stesso anno, quindi, del condono dell'abusivismo edilizio. La nuova legge affida a un consorzio di imprese, denominato Consorzio Venezia Nuova e costituito dal fior fiore delle imprese italiane di costruzioni e di ingegneria, gli studi, la progettazione e l'esecuzione delle opere di competenza dello Stato: opere altamente complesse, e altrettanto costose, che si ritengono necessarie per ripristinare la morfologia lagunare e regolare le maree [24].

Una successiva legge per Venezia [25] si pone l'obiettivo di affrontare in modo finalmente efficace il problema del disinquinamento della laguna, intervenendo organicamente sull'in­tero bacino scolante con le opere di competenza della Regione: naturalmente, affidando a un apposito consorzio i compiti di progettare ed eseguire le ingenti opere necessarie. Ma é, programmaticamente, un consorzio diverso dal primo, per la sola ragione che i patrons dorotei del Veneto non si fidano del colore politico prevalente attribuito, a ragione o a torto, al Consorzio Venezia Nuova. Il nuovo organismo viene costituito; senza troppa fantasia, viene denominato Consorzio Venezia Disinquinamento: un nome che entrerà, nella torrida estate del 1992, nelle cronache giudiziarie.

Due consorzi dunque, e due concessioni, in relazione alla stessa laguna: l'uno sul solo invaso lagunare, l'altro sull'intero bacino scolante. Come si può pensare però che disinqui­namento e riassetto morfologico della medesima laguna, affidati a due soggetti diversi, possano procedere senza un opportuno coordinamento? Ecco allora che, dopo lunghe e animate discussioni "politiche", interviene provvidenzialmente una ulteriore legge [26]. Que­sta dispone che, per coordinare tra loro i programmi e l'operato della longa manus del Ministero dei lavori pubblici (primo consorzio) con quella della Regione (secondo consor­zio). intervenga il Ministero dell'Ambiente. Con quale strumento? Lo spirito dei tempi lo impone. Naturalmente, lo strumento non può essere una struttura pubblica: dovrà essere anch'esso un consorzio, il terzo.

I giochi sembrerebbero finiti. Non é così. Tra le cose urgenti per Venezia c'é la neces­sità di riprendere il sistematico lavoro di manutenzione dei rii e canali interni, occlusi dal fango e dalle immondizie depositate sul fondo dopo un secolo d'incuria; contemporanea­mente, riprendendo anche qui un'antica tradizione abbandonata, si potranno risanare le murature di fondazione dei palazzi. La competenza é del Comune (i soldi, come sempre, sono del contribuente). Ma il Comune non compare alle spalle di nessuno dei tre consorzi fin qui costituiti. Ecco allora che ci si adopera per costituire un quarto consorzio, formato da un accorto dosaggio di partecipazioni incrociate dei componenti degli altri tre consorzi. Si formerebbe così un ideale quadrivio, nel quale far convergere sinergie, finanziamenti, appalti (e, se occorre, tangenti). Le iniziative della Magistratura hanno suggerito di so­spendere la formazione del terzo e del quarto soggetto.

Expo 2000: un esperimento?

Non sempre la costituzione di consorzi é promossa da una iniziativa legislativa, o co­munque da una (almeno apparente) promozione pubblica. A volte, la partenza é assoluta­mente privatistica, anche se, come vedremo, con singolari e discutibili intrecci tra pubblico e privato. A volte, sono le aziende che si organizzano, "inventano" un progetto su cui si propongono di attirare l'opinione pubblica e i "decisori" politici, per ottenere risorse da gestire. A volte, insomma, é l'offerta che si dà da fare per creare la domanda.

Anche qui, Venetia docet. Il caso più singolare é la vicenda della tentata (secondo altri, minacciata) Expo Del Terzo Millennio. Il sasso in piccionaia lo lanciò Gianni De Michelis, nel 1984, in un'intervista giornalistica. Sulla sua idea, e sulle prospettive che essa faceva balenare, si costituì un consorzio di imprese, autodefinitosi Venezia Expo. Lo componeva il solito pool di imprese, molte delle quali autorevoli, potenti, e alcune nella condizione del "privato vicino al pubblico" [27]. L'obiettivo era di sollecitare il Governo italiano a premere perché l'apposito Ufficio internazionale delle esposizioni (il Bie) decidesse di tenere a Ve­nezia la prestigiosa Esposizione universale nell'anno 2000: naturalmente candidandosi a gestire i consistenti flussi finanziari.

Il Governo, naturalmente, si impegnò, con le dichiarazioni e i conseguenti atti di due Presidenti del Consiglio, Craxi e Andreotti. La cosa sembrava fatta. Il gigantesco battage pubblicitario, e le sofisticate operazioni di cattura del consenso dell'opinione pubblica, sembravano essere lì lì per far assegnare all'Italia (e a Venezia) l'onere di organizzare la grande fiera e di realizzare, con una ingentissima spesa mai esattamente quantificata, le costose opere necessarie. La stampa di quei mesi informa che le ambasciate italiane, so­prattutto quelle nei paesi che ricevevano, o speravano di ricevere, assistenza dall'erario tramite la Farnesina, sono sollecitate ad adoperarsi per convincere i relativi governi a vota­re per la soluzione veneziana alla riunione del Bie che deve decidere tra le candidature concorrenti (Ministro per gli Affari esteri era all'epoca De Michelis).

Ma si era messa in moto, nel frattempo, la reazione di chi, temendo l'effetto perverso che una Expo a Venezia avrebbe provocato sul delicato tessuto fisico e sociale della città, contrastava l'iniziativa. Essa coinvolse la più qualificata opinione pubblica nazionale e in­ternazionale, e finì per determinare il pronunciamento sfavorevole del Parlamento europeo e di quello italiano. Il pallone si sgonfiò. Ma il Consorzio rimase in piedi, é ancora vivo in attesa di costruire nuove occasioni d'affari: quello dell'Expo é fallito solo per un soffio, non tanto da spegnere le speranze per il futuro. E comunque, la vicenda é servita per di­mostrare come le "sinergie" tra pubblico e privato, costruite spavaldamente fuori dalle re­gole dell'ufficialità (ma utilizzando senza pregiudizi le leve del potere) possono produrre, per le imprese, e per chi con esse si allea o strumentalmente le utilizza, interessanti pro­spettive di lavoro.

Le cautele della Cee

Concessioni, consorzi di imprese, delega di poteri, nuovi intrecci tra pubblico e privato che consentano di "sveltire", "snellire", "semplificare", "rendere più fluidi i percorsi", "realizzare fruttuose sinergie". Nella costruzione e nell'impiego dello strumentario dell'Ita­lia "moderna" ci sono indubbiamente motivazioni rispettabili (ancorché, nel merito, spesso mal poste e mal risolte). Ma c'é anche, e vorrei dire soprattutto, la formazione dell'am­biente più propizio all'intreccio malavitoso tra i pubblici poteri e le risorse collettive da una parte, e gli interessi privati di potenti soggetti economici e influenti soggetti politici dall'altra parte.

Del resto, per quanto riguarda i due attrezzi di cui ci siamo ora occupati (la concessione e i consorzi) la Comunità economica europea ha da tempo raccomandato di limitare e cir­condare di garanzie l'istituto della concessione, considerato suscettibile di provocare effetti perversi per l'interesse pubblico e per il corretto funzionamento del mercato. Puntare, da parte della pubblica amministrazione, sull'accordo preventivo tra imprese, tramite la for­mazione di consorzi che tendano a comprendere al loro interno tutti i potenziali concor­renti, indubbiamente consente di controllare meglio l'esito degli appalti. Non però nel senso di spuntare prezzi migliori, quali sarebbero quelli determinati da una "libera concor­renza", ma in quello di garantire meglio, ponendosi al riparo dalla concorrenza, che i prezzi siano tali da consentire il passaggio di mano di robuste tangenti.

Da questo punto di vista, la panoramica finora aperta su Tangentopoli ha rivelato dav­vero un inquietante intreccio di responsabilità, di colpe e di tradimenti. Da una parte, i concussori: i politici, in teoria (e nei rotondi discorsi pronunciati nelle cerimonie e sul vi­deo) gli esponenti dell'espressione democratica degli interessi generali, che tradiscono il loro mandato, e quindi la moralità del loro ruolo sociale, barattando l'interesse collettivo per una lucrosa sistemazione dei propri interessi economici e/o di potere. Dall'altro lato, i corruttori: gli imprenditori, in teoria (e nelle chiacchiere dei salotti come nei sussiegosi editoriali sui giornali a loto più vicini) i depositari e gli interpreti delle virtù del capitalismo (e occorre dire, in questi chiari di luna, della sua superiorità storica sul socialismo), che gettano via mercato e concorrenza per acquisire sicure rendite di posizione. A un bel con­nubio davvero era affidata la "modernizzazione" del paese!

Pubblico e privato

La distinzione dei ruoli tra pubblico e privato quale premessa per i rapporti economici tra i soggetti dell'una e dell'altra categoria, é indubbiamente una base indispensabile per il corretto funzionamento di una democrazia moderna. Più antica ancora é la consapevolezza della necessità della distinzione tra pubblico e privato nella gestione dell'urbanizzazione del territorio. Qui la subordinazione degli interessi economici privati agli interessi della città in quanto tale é riconosciuta, fin dai "secoli bui" del medioevo europeo, come la condizione perché la città cresca e si trasformi libera, bella e funzionale [28].

In un'epoca dominata dall'individualismo proprietario, quale é quella che caratterizza la lunga fase dell'egemonia capitalistico-borghese fino alle sue più recenti mutazioni ed espressioni, quella subordinazione ha avuto bisogno di specifici strumenti tecnici perché le regole dell'individualismo proprietario non prevalessero nella città: dunque, là dove ciò - se fosse avvenuto - avrebbe prodotto un insostenibile caos. Per imprimere, all'azione dei sin­goli proprietari e costruttori, una regola d'insieme volta agli interessi collettivi, si é inven­tato nella seconda metà del XIX secolo il piano regolatore; e nei primi decenni del XX se­colo si é compreso che era necessario accompagnare il piano con gli strumenti che rendano possibile una politica fondiaria non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria, e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare.

L'Italia é arrivata abbastanza tardi, rispetto agli altri paesi europei, a generalizzare la pianificazione urbanistica. Una buona legge fu quella approvata nel 1942, cinquant'anni fa, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni [29]. Essa però rimase inutilizzata per molti anni, finché gli scandali esplosi all'inizio degli anni '60, e le stesse esigenze di efficienza del si­stema produttivo, non indussero a generalizzarne l'applicazione [30]. Quando questo avven­ne, la Corte costituzionale, con una serie di sentenze pronunciate a partire dal 1968, fece emergere un nodo di fondo irrisolto: la contraddizione tra i "vincoli", e soprattutto quelli "di tipo espropriativo", necessariamente posti dalla pianificazione urbanistica alla utilizza­zione edilizia della proprietà privata, e i princìpi ordinatori del sistema giuridico italiano.

Sono passati quasi venticinque anni, e il nodo non é stato ancora sciolto [31]. La legittimi­tà dei vincoli urbanistici e delle indennità espropriative, e quindi della stessa pianificazione, sono messe in dubbio. E' chiaro che questo fornisce alibi consistenti a chi vuole "regolare" l'uso del territorio a partire non dagli interessi della collettività, ma da quelli dei proprie­tari.

Affrancare il profitto dalla rendita: una tendenza contraddetta

Nel corso degli anni '70 si era compiuto, in particolare a Roma, uno sforzo consistente per raggiungere un obiettivo di grandissimo interesse politico, economico, sociale: rompe­re la saldatura tra impresa edilizia e speculazione fondiaria, tra profitto e rendita. Ta­gliando faticosamente con una tradizione che vedeva, nel bilancio delle attività edilizie, prevalere massicciamente gli utili della speculazione su quelli dell'impresa produttiva con­sistenti gruppi di imprenditori avevano scelto di orientare la loro attività alla realizzazione di edifici sulle aree preventivamente espropriate dal Comune. Ciò era stato possibile utiliz­zando con intelligenza politica lo strumento costituito dalla legge 167/1962 e trovando una sinergia (questa volta virtuosa) tra la volontà dell'amministrazione di sinistra di realizzare alloggi senza pagare prezzi elevati alla rendita, e la disponibilità di alcune componenti dell'Associazione dei costruttori di ammodernare la categoria avviandola su una strada nettamente "imprenditoriale" [32].

A Roma, ma non soltanto a Roma: in tutte le zone del paese dove il governo del terri­torio adopera gli strumenti forniti dalle leggi urbanistiche degli anni '60 e '70 (la maggior parte dell'Italia centrale e settentrionale) si cominciano ad affermare realtà imprenditoriali "pulite", che operano (naturalmente senza rimetterci) nelle aree preventivamente espro­priate dai comuni, per interventi edilizi in cui i prezzi di vendita sono convenzionati con l'Amministrazione comunale: a carte scoperte.

La tendenza s'inverte nettamente nel decennio successivo. I piani della legge 167/1962 sono svuotati: prima c'era l'esproprio preventivo, adesso sono i proprietari i favoriti nell'edificazione. Avere il "vincolo" del piano 167 sul proprio terreno non é più una pena­lizzazione, é un premio. Sembrano frustrati i tentativi di affrancare il profitto dalla rendita: quest'ultima riprende il sopravvento. E le cronache urbanistiche degli anni '80 sono costel­late da progetti in cui l'iniziativa é assunta da grandi gruppi economici in cui il motore non é l'attività imprenditoriale, ma la "valorizzazione immobiliare".Ciò che interessa non é tanto realizzare, quanto "mettere in portafoglio" il valore di un'area che, da agricola, o in­dustriale (magari coperta da fabbriche obsolete) diventa edificabile per destinazioni ricche: prevale il terziario, privato e pubblico. E il Comune va a rimorchio, mette lo spolverino a decisioni già prese, copre e avalla affari altrui.

Succede dappertutto. Nelle città grandi e in quelle medie e piccole. Nei centri storici (come con la proposta Neo Napoli, sponsorizzata da Paolo Cirino Pomicino) e negli am­bienti naturali più delicati e pregevoli (come nella Baia di Sistiana, nel comune di Duino Aurisina). Nelle zone industriali dismesse (come il Lingotto a Torino, la Bicocca e l'Alfa-Portello a Milano, la Zanussi a Pordenone, l'Italsider a Napoli, la Fiat-Novoli a Firenze) e nelle zone esterne ai centri (come i numerosi tentativi nella periferia di Roma e in quella di Milano). Con le amministrazioni di destra, di centro, di centro sinistra, e anche con quelle di sinistra. Il caso tipico, quello che fa esplodere la questione dell'urbanistica contrattata per la dura reazione del nuovo segretario del Pci, é Firenze. Su di esso è opportuno ri­chiamare la memoria non tanto perché sia l'episodio più grave di urbanistica contrattata, ma per il significato emblematico che ha assunto, e per il possibile punto di svolta che ha rappresentato.

Il trauma di Firenze

A Firenze, nell'estate del 1984, vengono resi pubblici due progetti d'investimento im­mobiliare, l'uno della Fiat, nell'area di Novoli, l'altro della Fondiaria. La prima era già proprietaria dell'area, e voleva "valorizzarla". La Fondiaria aveva comprato in vista dell'operazione un vasto compendio di aree nella piana a nord-est della città, lungo una direttrice considerata strategica per la riorganizzazione dell'intera area metropolitana. L'insieme dei due progetti comportava la costruzione di 4,2 milioni di metri cubi, su 228 ettari, e un investimento valutato in 2 mila miliardi.

Il Comune aveva avviato la redazione del nuovo piano regolatore. Attendere la forma­zione di questo (affidato a due consulenti di grande prestigio e affidabilità, Giovanni Astengo e Giuseppe Campos Venuti) avrebbe permesso di compiere le scelte sulle aree interessate dall'operazione nel quadro, ed in funzione, delle scelte più complessive sulla città, finalizzando gli interventi nell'area nord-est a un progetto di riqualificazione ambien­tale, all'esigenza di decongestionare il centro storico, all'obiettivo di una più corretta loca­lizzazione metropolitana delle attrezzature urbane. E' quello che suggerisce, ad esempio, l'Istituto nazionale di urbanistica.

Ma le esigenze di "valorizzazione immobiliare" non possono attendere. Gli investitori fremono. Acquisiscono le necessarie comprensioni politiche e amministrative, e ottengono dal comune l'approvazione di una variante ad hoc al piano regolatore vigente. Questa viene adottata dal Consiglio comunale (a maggioranza di centro sinistra) nel marzo 1985. La maggioranza (di sinistra), che subentra dopo le elezioni amministrative conferma le deci­sioni. La variante prosegue il suo iter, tra le polemiche più aspre e la crescente opposizione di un fronte composito e ampio, indebolito dalla posizione defilata, ma favorevole alla va­riante Fiat-Fondiaria, del Pci.

Prima che la variante giunga alla sua conclusione, un colpo di scena. Nel giugno del 1989 il Segretario del Pci, Achille Occhetto, intima l'altolà. In una riunione del Comitato federale di Firenze, piena di tensione, giungono una telefonata e due messi del Segretario: i comunisti non possono ulteriormente avallare le scelte della Fondiaria e della Fiat per l'area nord-est, il cui destino deve essere tracciato da un vero piano regolatore generale.

Il partito, a Firenze e non solo a Firenze, é diviso. Anche chi non era convinto dell'operazione Fiat-Fondiaria esprime preoccupazione per il fatto che sia stata necessaria la "telefonata di un segretario di partito" per correggere scelte sbagliate. Il punto é che non si trattava solo di correggere le decisioni di una federazione o di una giunta. Si trattava an­che e soprattutto di indicare, con un gesto forte e chiaro, che l'andazzo seguito per oltre un decennio non era compatibile con il nuovo corso del Pci. Un trauma quindi, certamente, ma un trauma necessario: poiché bisognava superare un vuoto che per troppi anni aveva caratterizzato la politica del Pci nei confronti dell'urbanistica: nei confronti dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio.

Il "rito ambrosiano" negli anni '80

Un trauma come quello di Firenze non ci fu, in quegli anni, a Milano. E fu un peccato, perché proprio nella "capitale morale d'Italia" la prassi dell'urbanistica contrattata aveva preso più piede, ed era stata anzi teorizzata: proprio negli anni delle giunte di sinistra [33].

A Milano la tradizione era antica. Fin dal dopoguerra si praticava il "rito ambrosiano": una prassi, inventata ai tempi della maggioranza di centro, sembra dall'assessore democri­stiano Filippo Hazon, che "superava" le norme del piano regolatore vigente concedendo concessioni edilizie (allora si chiamavano ancora "licenze di costruzione") là dove non si sarebbe potuto, con l'ipocrita formula della "licenza in precario". Ma é all'inizio degli anni '80 che il "rito ambrosiano" entra nelle sua fase propulsiva. Vengono approvate decine di varianti puntuali, con le quali si autorizzano oltre 12 milioni di metri cubi di nuove strut­ture edilizie per il terziario: come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, e come se fosse del tutto indifferente la loro collocazione nella città: per di più, in una città trasformatasi in una agglomerazione caotica, destrutturata, invivibile e inefficiente.

Ma il rito ambrosiano non si ferma alle varianti. Come descrivono Barbacetto e Veltri, "in mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finan­ziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io ammini­stratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)" [34]: contropartite garantite da lettere private, tenute ac­curatamente segrete. Difficile credere che ci sia stato qualcuno così ingenuo da non pensa­re che, tra le contropartite, potevano essercene altre oltre alle case popolari e ai parchi! Il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle suc­cessive azioni della magistratura.

Il libro di Barbacetto e Veltri é uscito pochi giorni prima dell'esplosione innescata dal giudice Di Pietro, ed ha un singolare carattere profetico. Ma ancor più profetica appare oggi una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio, riportata nel libro. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto:" Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca" [35]. Così era, a Milano (e non solo).

Sebbene a Milano non ci sia stata nessuna telefonata dalle Botteghe oscure, il Pci (nel frattempo era divenuto Pds) uscì comunque dal gioco, con uno scontro aspro che si aprì quando due consiglieri comunali della lista Pci-Pds, Franco Bassanini e Paolo Hutter, deci­sero di opporsi a un provvedimento fatto su misura per gli interessi fondiari dell'Italstat, provocando la caduta della giunta di sinistra. Si trattava di un piano che riguardava tre aree limitrofe: una di proprietà della Fiera, l'altra del Comune e la terza (pari a oltre la metà del complesso) dell'Alfa, poi passata in mano all'Iri, da questa all'Italstat e da questa alla Sistemi urbani. In totale, 22 ettari Le esigenze di razionalizzazione della Fiera (un ente di diritto pubblico) erano il grimaldello "d'interesse pubblico" che si voleva utilizzare per rendere edificabile, con 400 mila metri cubi di terziario conditi da alberghi e da un centro congressi (raggiungibile solo in automobile!), l'area della Sistemi urbani.

Il piano era stato approvato dalla precedente amministrazione. I due consiglieri del Pds, i Verdi, e un vasto fronte di associazioni ambientalistiche e culturali, chiedevano che il piano fosse ridimensionato e finalizzato solo alle esigenze pubbliche. Un aspro scontro nel Pds portò al prevalere di questa posizione. Il piano fu bocciato in Consiglio comunale. Su questo si aprì la crisi, e il Pds uscì dalla maggioranza e, anche a Milano, dal sistema dell'urbanistica contrattata. Almeno, si spera.

Uscire da Tangentopoli

Così vasta si é rivelata Tangentopoli che uscirne non sembra facile. La società si é manifestata in preda a un'infezione così ramificata e coinvolgente che non basta intervenire su di un solo aspetto.

Non bastano le cure più evidenti, quali le nuove norme per gli appalti delle quali da tempo le organizzazioni più direttamente coinvolte nel processo edilizio (dai sindacati dei lavoratori all'associazione padronale) suggeriscono la necessità. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combat­tere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta sforzarsi di ripristi­nare la concorrenzialità tra le imprese, come la Cee invita a fare e come sembra stia facen­do il ministro per i Lavori pubblici.

Occorre anche altro. Non si tratta infatti solo di un problema di corruzione diffusa: si tratta di una distorsione pesante e consolidata delle basi del sistema dei poteri. Occorre allora, in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del go­verno del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò nei terribili anni '80 é stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.

Da dove cominciare, però? Dov'é il capo del filo di Arianna che può aiutarci a uscire da Tangentopoli?

"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che analizzava Tangento­poli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si é tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprat­tutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbat­timento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse" Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legi­slazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e pro­getti organici sul regime degli immobili" [36].

Serve la pianificazione

La soluzione giusta di un problema é in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'am­biente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi é stato artificial­mente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianifi­cazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e spero che il lettore che mi ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora é evidente il che fare.

Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo ge­nerale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e me­tropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli in­terventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Basta con le deleghe a strutture pri­vatistiche di compiti che sono propri dei poteri elettivi, e basta con le deroghe, le varianti e variantine a vantaggio di Tizio e di Sempronio: basta insomma con l'armamentario dell'"urbanistica contrattata". E basta con la distrazione e con il disinteresse dei politici, come se la pianificazione non fosse il compito e lo strumento indispensabile di una politica moderna, e fosse invece soltanto una ubbia "culturale" o una mansione meramente "professionale" di una qualche corporazione.

Occorre, insomma, una pianificazione efficace ma trasparente, flessibile ma capace di imprimere sempre alle trasformazioni del territorio la coerenza necessaria al governo di mutamenti rapidi in una realtà complessa. Una pianificazione che sappia ripristinare un adeguato sistema di garanzie: garanzie per i diversi livelli istituzionali coinvolti, garanzie per gli interessi economici presenti, ma soprattutto garanzie per i fruitori della città: quelli di oggi, e quelli di domani.

Occorre poi, in secondo luogo, che vada affrontata in modo rigoroso, e finalmente ri­solta, la questione del regime degli immobili, soprattutto nei suoi due punti cardini: quello dei valori economici e quello dei poteri.

Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà immobiliare (aree ed edifici), è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma de­ve compensare solo l'uso legittimo del bene. Tanto antico è questo principio che esso era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865, anche se l'affermazione di principio non é stata mai tradotta in norme e comportamenti con essa conseguenti. E anco­ra a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello ri­conosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità di espropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fisca­le, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.

Dal punto di vista dei poteri, ciò che soprattutto interessa è che il meccanismo di de­terminazione dei valori sia tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste cen­sure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.

Soltanto se questi due obiettivi (la rinascita della pianificazione e la riforma del regime degli immobili) saranno raggiunti si saranno poste le condizioni di fondo perché anche gli altri provvedimenti necessari possano trovare una dispiegata efficacia, e perché possa esse­re così prosciugato il terreno melmoso del disordine e della corruzione su cui sorge Tan­gentopoli. Senza illudersi con ciò di aver realizzato la città ideale o costruito la società perfetta, ma con la certezza di essere almeno più vicini all'obiettivo di rendere l'Italia un paese moderno e civile, al livello degli altri che appartengono all'Europa.

Venezia, H aprile aa[1] - Mi riferisco alle dichiarazioni programmatiche pronunciate dall'on. Giuliano Amato al Senato della Repubblica il 30 giugno 1992 e al documento illustrato dall'on. Achille Occhetto, a nome del Pds, al Presidente della Repubblica nell'incontro del 17 giugno 1992.

[2] - Legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Con questa legge l'urbanistica, nei comuni, passò di fatto dalle competenze degli assessorati all'urbanistica a quelli ai lavori pubblici. Le decisioni, anche formali, sul territorio non avvenivano infatti più mediante i piani (e le lunghe e ampie discussioni che questi provocavano), ma con un comma marginale introdotto nelle delibere di approvazione dei progetti di opere pubbli­che, di competenza appunto degli assessori ai lavori pubblici. Non a caso, negli anni '60 e '70 i partiti si contendevano gli assessorati all'urbanistica, mentre negli anni '80 di­vennero invece più ambiti quelli ai lavori pubblici.

[3] - Legge n.25 del 15 febbraio 1980 e legge n.94 del 25 marzo 1982.

[4] - Legge n.80 del 17 febbraio 1987, .

[5] - Legge n.64 del 1 marzo 1986.

[6] - Alessandro Dal Piaz, "La questione urbana nel Mezzogiorno", in: La città sostenibile, a cura di Edoardo Salzano, Edizione delle autonomie, Roma 1992, p.187.

[7] - Ibidem.

[8] - Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività ur­banistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.

[9] - Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La di­mensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del periodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1989; cfr.p.199).

[10] - Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denomi­nato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci.

[11] - Si veda, ad esempio, l'editoriale del n.80, marzo-aprile 1985, della rivista Ur­banistica informazioni.

[12] - Ibidem.

[13] - Mi riferisco soprattutto alla legge per la casa, n.865 del 22 ottobre 1971 e alle leggi del periodo 1977-78.

[14] - Si veda, ad esempio, Urbanistica informazioni, n.92, marzo-aprile 1987, p.2.

[15] - Come dichiarava, ad esempio, Franco Bassanini; si veda Panorama, 25 settem­bre 1988, p.58.

[16] - Ibidem.

[17] - Decreto-legge n.2 del 3 gennaio 1987, convertito in legge e integrato con succes­sivi provvedimenti del 1987, del 1988 e del 1989.

[18] - Alcuni esempi: la ristrutturazione della stazione ferroviaria di Firenze e del piaz­zale di S.Maria Novella, la grande circonvallazione a Cagliari, la tangenziale a Verona, tronchi di autostrade un pò dovunque, e poi dappertutto alberghi, centri congressi e, na­turalmente, stadi e parcheggi. Grandissima parte delle opere finanziate e "facilitate" per i Mondiali sono state completate soltanto dopo il suo svolgimento.

[19] - LuigiScano, "Anni ottanta e mondiali. Chiuso il cerchio della deregulation", in Urbanisticainformazioni, n.119, gennaio-febbraio 1990.

[20] - Legge n.426 del 30 dicembre 1989, Misure di sostegno per le attività economi­che nelle aree interessate dagli eccezionali fenomeni di eutrofizzazione verificatisi nel­l'anno 1989 nel mare Adriatico. Per ovviare alla sovralimentazione delle alghe si sono riempite le coste di piscine, acquasplash, ampliamenti di alberghi e così via. .

[21] - Legge n.205 del 29 maggio 1989. Anche le Colombiane sono servite soprattutto a finanziare strade, non solo a Genova, sede delle celebrazioni. Tra i casi più straordi­nari si ricordano la Dogana di Segrate, la tangenziale Cremona-Brescia, la complanare di Lucca, la tangenziale di Piacenza, la Torino-Frejus. Parafrasando il noto detto fran­cese, si potrebbe dire che "la politica delle opere pubbliche ha le sue ragioni che la ra­gione non comprende".

[22] - Legge n.171 del 16 aprile 1973.

[23] - Legge n.798 del 29 novembre 1984.

[24]

Ludovico Ariosto, nel presentare l'Ippogrifo (la mitica creatura con corpo di cavallo e ali d'uccello), così lo definisce:

"Volando, talor s'alza nelle stelle,

così quasi talor la terra rade".

Abbiamo cominciato questo convegno volando alto; con Toraldo di Francia ci siamo alzati nelle stelle. Abbiamo continuato a volare con Tiezzi e con Rullani. Adesso, nell'Ippogrifo costituiti dalla dialettica comunità dei relatori, tocca a me, tocca a un urbanista, portarvi giù: "così quasi talor la terra rade".

Ma usciamo dalla metafora, ed entriamo nell'urbanistica.

- L'urbanistica è una disciplina, e una prassi, che hanno sempre avuto a che fare con l'ambiente. Essa si occupa, quasi per definizione, dei rapporti della società con lo spazio, con il territorio: con l'ambiente dunque.

Non direi però che, in Italia, l'urbanistica abbia sempre considerato l'ambiente in modo corretto. Abbiamo esempi che testimoniano come gli urbanisti siano stati tra i primi nella concreta difesa delle qualità naturali e storiche del territorio: Giovanni Astengo e il piano di Assisi, Edoardo Detti e le colline di Firenze, Luigi Piccinato e le mura e gli orti di Siena, Armando Sarti e le colline di Bologna.

Ma abbiamo anche molti esempi di piani che hanno concorso allo sfascio del territorio. Abbiamo molti esempi di urbanisti che hanno attaccato il carro dove voleva il padrone, e hanno fornito strumenti alla speculazione che il loro statuto disciplinare avrebbe dovuto invece contrastare.

Ciò che più conta però è che gli stessi esempi positivi e d'avanguardia rivelano un'attenzione limitata ad alcuni aspetti soltanto dell'ambiente, e ad alcuni luoghi più ricchi di valenze culturali o estetiche. Talché, da qualche anno, la cultura urbanistica più avanzata ritiene che il modo in cui la pianificazione deve tener conto delle qualità dell'ambiente(e più in generale, delle esigenze sociali dell'ambientalismo e degli apporti culturali dell'ecologia) sia il punto cruciale da affrontare per rendere l'urbanistica adeguata a contribuire alla soluzione dei problemi odierni dell'assetto del territorio.

Sono state compiute, in questi ultimi anni, esperienze innovative e positive. Soprattutto quelle in attuazione della cosiddetta Legge Galasso: una legge che per la prima volta ha tentato di introdurre e generalizzare, nel nostro paese, la prassi di una "specifica considerazione", da parte degli strumenti di pianificazione, "dei valori paesaggistici e ambientali".

Le esperienze della pianificazione paesistica sono state positive sotto il profilo culturale e tecnico, molto meno sotto il profilo della convinzione politica e dell'efficacia amministrativa. Così. se la Regione Emilia-Romagna ha adempiuto con tempestività, e con una risposta di altissimo livello culturale, alla legge nazionale, e se con essa hanno marciato le Marche, la Liguria, l'Abruzzo, le altre sono quasi tutte ancora in cammino e qualcuna - come la stessa Regione Friuli-Venezia Giulia - si era addirittura chiamata fuori dall'obbligo di adempiere alla legge nazionale, finché la Corte Costituzionale non l'ha severamente richiamata alle sue responsabilità.

Si tratta, peraltro, di esperienze (come si dice nel nostro gergo) di "area vasta". Riguardano cioè intere regioni o ambiti provinciali e interprovinciali. Territori comunque costituiti prevalentemente da campagna. Territori in cui il bilancio tra "dare" e "avere" inquinamento vede prevalere le "entrate" sulle "uscite". Territori, insomma, più inquinati che inquinanti.

Se l'urbanistica vuole, come deve, fare davvero i conti con la questione ambientale, essa deve innanzitutto affrontare, in modo necessariamente nuovo, i problemi dell'ambiente urbano: i problemi delle aree dove si concentra il massimo di popolazione, di attività economiche, di relazioni, di produzione e di consumo di merci - e anche di produzione d'inquinamento e di entropia positiva. E' perciò sull'ambiente urbano che vorrei, nella mia relazione, richiamare la vostra attenzione.

2. - Abbiamo recentemente discusso, in un convegno nazionale del Pds a Venezia, un importante documento della CEE: il Libro verde per l'ambiente urbano . Vorrei partire proprio da quel documento: più precisamente, da una sua interpretazione che mi sembra legittima.

Il centro ideale del documento sta in una consapevolezza che lo pervade: nella consapevolezza che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente non c'é sviluppo della società e della città.

"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica", afferma esplicitamente il Libro verde. Questa impostazione costituisce un ribaltamento completo non solo della prassi finora praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale.Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento dell'ambiente.

Fa parte della nostra esperienza quotidiana. Tutti abbiamo sentito e sentiamo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o ai centri direzionali o commerciali, o alla ricettività turistica. "Consentite alla Finsepol di costruire mezzo milione di metri cubi di alberghi e di seconde case nella Baia di Sistiana - si predica da anni sui giornali triestini - e il buon padrone abbellirà l'ambiente piantando centinaia di alberi nuovi"

3. - Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico.

Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamente ambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica: e se non c'è vita, non può evidentemente esistere sviluppo!

Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico".

Le vicende di ciascuna delle nostre città lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende, è in proporzione diretta con la qualità urbana.

E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti: la possibilità di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta.

E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di più consentirà) alle città d'Europa di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.

Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.

Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.

4. - Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato.

Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell' organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere.

E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità.

Non ho la pretesa di aggiungere alcunché al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita".

Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti.

Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sé un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sé un segno positivo del suo manifestarsi.

5. - In effetti, quanto parlano di sviluppo molti di noi si riferiscono a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" ( Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1989).

Per conto mio, preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinché uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr.E.Goldsmith e N.Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano. Quale che sia comunque l'accezione sotto la quale si voglia adoperare l'espressione di "sviluppo sostenibile", un fatto mi sembra certo. Lo "sviluppo sostenibile" è l'opposto dello sviluppo attuale, il quale avviene consumando risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente.

Ma se vogliamo applicare la definizione del Rapporto Brundtland all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle.

Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perché ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.

Per evitare che la città di oggi diventi, per dirla con Carlo Cattaneo, una di "quelle pompose Babilonie", "città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità". Quelle città che sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: Carlo Cattaneo, "La città come principio", a cura di M.Brusatin, Marsilio, 1972).

Su alcuni rilevanti aspetti del trend di "babilonizzazione", e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi centrali per un'urbanistica che voglia rinnovarsi facendo compiutamente i conti con la questione ambientale.

6. - La crisi della mobilità è forse l'aspetto più drammatico della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento.

Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressoché interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto.

Ma l'abnorme espansione della motorizzazione individuale ha tra le sue cause anche quella di un cattivo governo del territorio. La disseminazione delle abitazione e dei luoghi di lavoro, la mancata programmazione delle espansioni urbane, la rigida zonizzazione delle funzioni, la mancanza di controllo sui cambiamenti di destinazione d'uso, sono tutte scelte che aumentano parossisticamente la "domanda di mobilità", e in particolare di quella mobilità che è più facilmente soddisfacibile con uno strumento costoso ma flessibile come l'automobile.

Quale che sia comunque la miscela di cause che determina l'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti, che dominano nel nostro paese ma che sono evidentemente presenti anche altrove.

Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade".

Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità".

"Rendere l'automobile un'opzione e non una necessità": indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante. Non credo di aver bisogno di commentarla!

7. - Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti.

Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani e diligentemente attuati. Non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente. Non abbiamo ricchezza di parchi e boschi né efficienza di servizi collettivi. Non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente.

Non abbiamo, in Italia, tutto questo. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela.

E' allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti.

Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione provocate dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere.

Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte.

Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica. Sono indotto a sperarlo, quando sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, promuovendo quello che Luigi Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione".

Ma dispero, francamente, quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiate ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettare metropolitane nel centro storico di Venezia, quando vedo i Fori imperiali o la Piazza San Marco ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà.

Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie.

8. - I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato.

Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato - come luogo ideale nel quale si determina il prezzo delle merci - nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa.

Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili, il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali.

Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene).

Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sé capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che sta dispiegatamente aperto davanti a tutti noi, e sul quale non ho la pretesa di soffermarmi.

9. - A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile, o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili.

Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.

Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finché non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.

Su questa affermazione tutti si dicono d'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinto che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi una riforma seria del regime degli immobili debba poggiare sulla premessa che la facoltà di edificare (e, più propriamente, di operare trasformazioni urbanisticamente rilevanti) non è un attributo della proprietà ma appartiene all'ente pubblico elettivo, il quale ne concede l'esercizio sulla base delle regole certe e chiare costituite dagli strumenti della pianificazione urbanistica.

Sul principio opposto a questo è invece fondata la proposta di legge che sciaguratamente la Camera sta per approvare, attraverso la Commissione cui è stato affidato il potere legislativo.

10. - "Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale". E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti.

Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata.

Una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell'espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro.

Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.

Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità.

Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità".

E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie altrimenti non soddisfacibili

Ma sono certamente di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali.

Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.

Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.

11. - "Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde. Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro.

Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale e della crescente entropia urbana non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato anche alla capacità di guardare al futuro: di sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo.

Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può apparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.

Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine". Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare un quesito, che continua a inquietarmi.

E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze), della produzione di leggi riformatrici e rinnovatrici che nessuno attua (come la 431 nel 1985, come la 142 nel 1990)?

E ancora: é davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, né elettoralmente né socialmente, perché ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno?

Consentitemi di chiudere così, affidandovi una domanda per la quale, personalmente, non ho risposte, ma solo speranze.

Per città sostenibile intendiamo una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.

1. La tutela dell'ambiente:"precondizione per lo sviluppo

Ogni lettura di un testo, di un documento - e soprattutto di un documento complesso quale é il Libro verde per l'ambiente urbano - é in qualche modo orientata, mirata. Ogni lettura, insomma, è una interpretazione: una traduzione di quel testo nel linguaggio più vicino alla sensibilità e agli interessi culturali del lettore, e alle concrete esigenze che lo spingono a leggerlo. Molti di quanti hanno lavorato a organizzare questo convegno conoscevano già il Libro verde. Hanno deciso di promuovere una iniziativa pubblica che da esso traesse lo spunto perchè hanno ritenuto che fosse particolarmente utile, in questa fase iniziale della vita del Pds, partire da quel documento, da quella formulazione di temi per molti di noi consueti, per tentar di costruire - in un confronto largo - alcuni elementi di una possibile piattaforma per la sinistra italiana. Nell'ambito di questa lettura, che è indubbiamente soggettiva ma che spero non sia troppo distante da quella autentica, è sembrato a noi di cogliere il centro ideale del documento in una consapevolezza che lo pervade. Nella consapevolezza, cioè, che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente (delle qualità del territorio) non c'é sviluppo della società e della città.

2. Una prassi da rovesciare

"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica": così afferma esplicitamente il Libro verde (p. 51). E non è chi non veda come questa impostazione costituisca un ribaltamento completo non solo della prassi finora (e ancora oggi, nel nostro paese) praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione nelle città, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento della qualità insediativa. Forse sentiremo esporre e argomentare una simile tesi nel corso stesso del nostro convegno. Ma sono certo che nelle comunicazioni e negli interventi che si riferiranno a concrete situazioni locali (penso alle città del Mezzogiorno, ma non solo a quelle) ascolteremo testimonianze dirette sulla pervasiva presenza di una simile, obsoleta concezione del rapporto tra sviluppo e qualità urbana. Sentiremo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in variante o in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o alla ricettività turistica, o a quei "centri direzionali" che da un paio di decenni sembravano abbandonati tra i ferrivecchi dell'urbanistica del boom edilizio.

3. Prima la qualità, poi lo sviluppo

Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità urbana. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente urbano è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico. Molte ragioni concorrono a formulare quest'affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamenteambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica. Rinvio per questo aspetto alla lettura delle chiarissime pagine che il Libro verde dedica all'argomento, e rinviosoprattutto alle comunicazioni presentate da autorevoli ambientalisti, che ascolteremo e leggeremo in queste due giornate. E consentitemi di rinviare, oltre che alla scienza, anche alla letteratura e alla poesia. Consentitemi allora di rinviare anche alla rilettura di alcune delle Città invisibili di Italo Calvino, nelle quali molti di noi hanno trovato l'espressione perfetta dei loro sogni, e dei loro incubi.

Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico" (p. 42).

4. La qualità urbana non è più un lusso

Le vicende di ciascuna delle nostre città (le grandi, le medie, le piccole) lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende produttive di beni o di servizi, è in proporzione diretta con la qualità urbana. E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale, un sito, piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di monumenti e luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti; un'attrezzatura urbana efficiente, che consenta al cittadino di accedere con facilità e comodità ai luoghi urbani e di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta. E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere in una gara in cui non é in gioco un premio simbolico o un primato di mero prestigio, non è in palio un Oscar o un Leone d'oro o una citazione nel Guinness dei primati, ma è in gioco una posta molto più concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza. Il governo del territorio - nel suo versante politico e amministrativo come in quello urbanistico - deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana. Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.

5. Qualità, sviluppo:parole ambigue da chiarire

Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato. Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell'organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere. E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità. Non ho la pretesa di aggiungere alcunchè al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che, sul terreno molto pratico che ci è proprio sia come urbanisti che come politici, se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti. Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sè un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sè un segno positivo del suo manifestarsi.

6. Dallo sviluppo sostenibilealla città sostenibile

In effetti, quando parliamo di sviluppo ci riferiamo a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" (1). Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente. Ma se vogliamo applicare quella definizione all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare - come in questo convegno proponiamo nel suo stesso titolo - di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perchè ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perchè la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua quelità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone %H6%(2)%H6%. Su alcuni rilevanti aspetti di questo trend, e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi che abbiamo proposto per questo incontro: temi ai quali si riferiranno, in modo più o meno diretto, le comunicazioni che saranno illustrate.

7. Il paradosso della mobilità:colpa del "modello funzionalista"?

La crisi della mobilità è forse l'aspetto più appariscente e drammatico, e certamente il più emblematico, della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressochè interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto. Il Libro verde attribuisce la scelta della motorizzazione individuale anche ai limiti della pianificazione urbanistica. Precisamente al fatto che "la separazione spaziale promossa dalla teoria funzionalista lascia poche alternative all'automobile privata". In altri termini, aver basato la pianificazione sul principio della rigida separazione, in zone collegate solo dalle infrastrutture del trasporto, delle varie funzioni urbane (le abitazioni, le industrie, gli uffici, i servizi ecc. ) ha contribuito ad aumentare sia la domanda globale di mobilità sia la necessità di uno strumento flessibile come l'automobile. E' un'osservazione indubbiamente giusta, ed essa coglie una delle ragioni per cui la cultura urbanistica ha da tempo criticato la rigidità della "zonizzazione monofunzionale". E tuttavia è un'osservazione che ha un valore pratico nelle regioni d'Europa dove le città si sono sviluppate secondo la pianificazione urbanistica. Mi sembra che nelle città italiane, e soprattutto in quelle dove la crisi del traffico è più drammatica (come Napoli e Roma, Palermo e Firenze) la causa urbanistica sia da attribuire molto più alla mancata pianificazione e alla conseguente anarchia degli interventi privati abusivi e di quelli pubblici in deroga, che alla severa applicazione dei canoni dell'"urbanistica funzionalista".

8. Occorre "rendere l'automobile un'opzione"

"Quale che sia comunque la miscela di cause che determinal'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti. Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade" (p. 44). Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità". Indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante.

9. Il patrimonio culturale. . .

Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti. Forse non ce n'è alcuna oppure, se c'è, è un'eccezione, ed è allora notevole almeno per questo. Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani (magari oggi criticabili e criticati nelle loro regole di fondo) diligentemente attuati; non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente; non abbiamo ricchezza di parchi e boschi nèefficienza di servizi collettivi; non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente. Non abbiamo, in Italia, ciò che tante altre città europee hanno conquistato. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela. E'allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti. Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione "senza opere" che è provocata dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere. (Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte).

10. . . . e la coda della lucertola

Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica, quando leggo le invettive di Argan o di Cacciari. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proposte di Paolo Costa o di Luigi Scano sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, di promuovere quello che Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione". Ma dispero quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiare ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettaremetropolitane nei centri storici, quando vedo i Fori imperiali di Roma o la Piazza San Marco di Venezia ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà, magari sponsorizzati (come il recente episodio veneziano) da autorevoli istituzioni culturali come la Biennale. Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie. E noi stiamo qui come la coda della lucertola, che si agita ancora quando la lucertola è già morta.

11. I confini della città

Puntare sulla qualità urbana significa indubbiamente guardare alla città con sguardo nuovo. Significa analizzare criticamente la "conurbazione senza confini", che gli anni infiniti del boom edilizio ci hanno regalato. Quella "conurbazione senza confini" che la bella mostra dell'Istituto regionale dei Beni storici e culturali dell'Emilia-Romagna ha qualche anno fa illustrato %H6%(3)%H6%, e la ricerca interuniversitaria condotta da Giovanni Astengo ha puntigliosamente documentato %H6%(4)%H6%. L'assenza di confini certi è ciò che connota la mancanza di identità, di chiarezza di appartenenza, di forma definita e riconoscibile. Ed è infatti ciò che primariamente connota la città insostenibile, costruita dallo spontaneismo e dalla miopia, alleati della speculazione, negli anni della crescita senza forma. Voler raggiungere un sufficiente livello di qualità urbana significa allora anche cercare i confini della città vera, della città umana, della città storica: quei confini tracciati nel centro urbano come nel territorio foraneo organizzato, da antiche culture, in funzione della vita della città. E significa poi intervenire nelle periferie senza forma e senza volto, ridisegnare lì i confini - e la struttura, e le forme - di una città di oggi e di domani nella quale tutti possano riconoscersi, tutti possano ritrovare una identità, una comune cittadinanza.

12. Il mercato ha vinto, ma non basta

I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato. Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa: ha vinto la sua storica tenzone con l'alternativa marx-leniniana. Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili (privi cioè di peculiari caratteristiche individuali e perciò sostituibili l'uno all'altro nell'ambito del medesimo genere), il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali. Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene). Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sè capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che dovevamo necessariamente porre all'inizio di questo convegno, anche se non è a questa relazione che tocca svilupparlo, ma alle comunicazioni che le fanno seguito.

13. La riforma del regime degli immobili: non si può farne a meno

A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile - o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili. Una questione che è tanto più importante trattare in quanto essa è totalmente assente dal Libro verde, di cui costituisce l'unica rilevante lacuna. Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.

Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finchè non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.

Su questa affermazione siamo, io credo, largamented'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinti che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi (e non incorrere una volta ancora in una di quelle dichiarazioni d'incostituzionalità che dal 1968 hanno frustrato i tentativi, o conati, di riforma) una riforma dell'attuale assetto del regime immobiliare debba avere alcuni precisi requisiti; alcuni punti fermi, prodotti e raffinati in una elaborazione collettiva che dura da qualche decennio almeno. Varrà la pena di ricordarli.

14. Le nuove regole per gli immobili

Le nuove regole del regime immobiliare dovrebbero, innanzitutto, riguardare, e regolare contemporaneamente tutti i beni immobili: cioé sia le aree sia gli edifici. Le concrete trasformazioni territoriali e urbane riguardano infatti sempre di più il già urbanizzato e il già costruito.

Naturalmente, una riforma adeguata dovrebbe definire la questione sia per quanto riguarda i valori che per quanto riguarda i poteri. Dovrebbe cioè risolvere, oltre alla questione delle indennità espropriative, anche quella dei cosiddetti vincoli urbanistici. Che è una questione molto semplice e molto concreta: si riduce alla questione del potere, da parte dell'autorità pubblica, di decidere le "destinazioni d'uso", o più precisamente di decidere le trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, che sono ammissibili in tutte le unità immobiliari, nonché i loro tempi e modi.

Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà, è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso leggittimo del bene. Tanto antico e consolidato è questo principio che essoera già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865. Ma non è solo questa la ragione per cui non sembra a me che esso debba essere abbandonato per assumere criteri (quale quello del plafond de densité) che sono stati abbandonati là dove sono stati inventati.

E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità diespropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.

Ma c'é un punto, un requisito, che voglio soprattutto sottolineare. Ciò che ai fini della possibilità tecnica di ottenere una sufficiente qualità urbana più interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.

15. Quale pianificazione per la città sostenibile: un obiettivo. . .

"Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale" (p. 11). E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti. Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata. Una pianificazione, come afferma il Libro verde, che vada al di là della rigidità razionalistica dello zoning, al di là dell'urbanistica di Le Corbusier e della Carta d'Atene. Ma anche una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell' espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro. Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.

16. . . . e alcuni indirizzi

Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità". E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, volta per volta e in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie che altrimenti non sarebbero soddisfacibili.

Se la definizione che prima ho proposto per qualità urbana è condiviso, allora dovremmo convenire che si devono considerare di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.

Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.

17. Il futuro e la politica

"Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde (p. 14). Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico-sociale, non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può appparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.

Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine" (p. 40). Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare alcuniquesiti, indubbiamente inquietanti. E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l'affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la nostra responsabilità, siamo davvero all'altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati - non senza ragioni - di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso il piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov'é sbagliato, o far correre una strada dove non serve, o rivestire d'un retino tecnico una sanatoria che non va concessa.

Per finire, un'ultima domanda. E' davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, nè elettoralmente nè socialmente, perchè ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Anche su questo dovremo insieme riflettere.

Edoardo Salzano

NOTE%H6%

(1)%H6% Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988. Preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinchè uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr. E. Goldsmith e N. Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano.

(2)%H6% ". . . quelle pompose Babilonie sono città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: CarloCattaneo, "La città come principio", a cura di M. Brusatin, Marsilio, 1972).

(3)%H6% Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, I confini perduti, Graphis, Bologna.

(4)%H6% IT. URB. 80, Rapporto sullo stato dell'urbanizzazione in Italia, "Quaderni di Urbanistica informazioni, n. 8, 1990.

1. Abbiamo la fortuna di parlare di un territorio le cui caratteristiche sono ben note a tutti. Del resto, già dagli interventi che hanno preceduto il mio sono emerse con chiarezza le ragioni per le quali le Dolomiti sono, per noi, "una risorsa da conservare e promuovere". Sono emerse con chiarezza le qualità di questa risorsa, la ricchezza eccezionale del patrimonio che essa costituisce. Voglio sottolineare questi due termini (qualità, patrimonio), e voglio soffermarmi un poco su di essi, perché essi in qualche modo definiscono le coordinate della "stella polare" che deve guidarci nel ragionare su come operare una "sintesi tra conservazione e sviluppo".

Qualità. Questo termine esprime valori che non sono riconducibili a numerario, che perciò trovano con difficoltà spazi adeguati nelle valutazioni ed operazioni economiche. Ma esprime valori che oggi riconosciamo essenziali per la vita della nostra civiltà, e ai quali non siamo più disposti a rinunziare, quali che siano le difficoltà che dobbiamo superare per ottenerne la promozione.

E quando riferiamo il termine "qualità" al territorio, all'ambiente, non ci sfugge che esso esprime una realtà che è sempre il risultato di un sapiente intreccio tra un originario dato naturale, e l'applicazione a questo dato del lavoro e della cultura dell'uomo. Un intreccio tra natura e lavoro nel quale certamente qui, nelle Dolomiti, appare prevalere l'elemento naturale, mentre in altre situazioni - penso ad esempio alla città storica di Venezia - appare prevalere l'elemento storico del lavoro e della cultura; ma che dovunque, là dove raggiunge il requisito della qualità, è caratterizzato da un equilibrio tra l'uno e l'altro elemento.

Come ritrovare, oggi, questo equilibrio tra lavoro e natura?

Rispondere a questa domanda equivale ad affrontare in pieno il tema di questa sessione del convegno. Equivale a domandarsi come sia possibile, oggi, trovare una sintesi tra l'esigenza della conservazione e promozione della risorsa ambientale costituita dalle Dolomiti, e l'esigenza di uno sviluppo economico, sociale e civile di quella società che nelle Dolomiti vive e opera.

Può aiutarci ad andare avanti nel ragionamento riflettere al secondo termine al quale prima mi riferivo: patrimonio. Quando parliamo di una risorsa come di un patrimonio noi intendiamo evidentemente riferirci a qualcosa che non va "sfruttato", che non va trattato come una miniera, o una cava, o un giacimento, dal quale estrarre pezzi per trasformarli, venderli, consumarli, ma va trattato come un qualcosa che può generare ricchezza non effimera solo se viene conservato, adoperato con parsimonia, accresciuto perché generi maggiore ricchezza.

Perciò - tornando ancora al tema di questa sessione - trovare la sintesi tra conservazione e sviluppo equivale per noi a cercare un tipo di sviluppo, nuovo rispetto a quelli che abbiamo conosciuti, il quale non solo non confligga con l'esigenza di tutelare le qualità ambientali, ma anzi assuma la tutela e la crescita di quelle qualità come il motore e - insieme - l'obiettivo dello sviluppo.

Uno sviluppo nuovo. Sappiamo bene, infatti, che lo sviluppo che è stato perseguito fino ad oggi è uno sviluppo fondato su una concezione distorta del rapporto tra uomo e ambiente. È fondato su una concezione dell'ambiente come resnullius, come qualcosa di cui ciascuno può appropriarsi, che tutti possono consumare senza preoccuparsi della ricostituzione, su cui tutti possono scaricare i rifiuti prodotti.

E sappiamo anche che questo sviluppo ha già prodotto, e sta ulteriormente producendo, danno gravissimi: danni via via più ampi, poiché l'allargamento dei diritti democratici, l'aumento del reddito medio e del tempo libero, l'accentuata e facilitata mobilità hanno trasformato la fruizione delle qualità territoriali e ambientali (di quelle prevalentemente naturali come di quelle prevalentemente storiche) da fenomeno di élite a fenomeno di massa.

Con la privatizzazione e recinzione degli accessi alle coste e ai boschi, con la proliferazione delle seconde e delle terze case, con l'ipertrofica infrastrutturazione del territorio, con la sovrapproduzione di rifiuti e la loro disseminazione, questo sviluppo sta provocando la distruzione del patrimonio ambientale con ritmi rapidissimi. E se ciò costituisce un danno per tutto il genere umano, costituisce un danno particolarmente preoccupante ed emergente là dove la fonte prevalente del reddito non è costituita dall'attività industriale manifatturiera o dall'agricoltura intensiva o dal terziario produttivo, ma dall'utilizzazione - saggia o dissennata che sia - del patrimonio ambientale: come qui, come nelle Dolomiti.

2. Uno sviluppo capace di considerare, e governare, la risorsa territorio come un patrimonio deve evidentemente disporre di strumenti adeguati: adeguati perché idonei allo scopo cui devono servire, e - oggi - adeguati perché capaci di operare controtendenza rispetto ai processi in atto, quindi perché forti.

Oggi, l'attenzione delle politiche territoriali riguardante l'ambiente tende a polarizzarsi, e a rivolgere quasi esclusivamente lo sguardo sul settore del disinquinamento.

Impegno e risorse affluiscono, e sono pretesi in misura via via più consistente, per depurare, raccogliere, ridurre la tossicità e la nocività, rendere insomma meno dannosi o meno fastidiosi i rifiuti solidi, liquidi e gassosi che la nostra società produce in così gran quantità. È un settore nel quale certamente giusto impegnarsi, e sacrosante sono le critiche e le proteste per quelle autorità - come la Giunta regionale del Veneto - che producono moltissimo materiale di propaganda e pochissimo disinquinamento. Ma un settore che inevitabilmente, quasi per definizione, è in ritardo sulle cose, sui processi reali: interviene a valle dei processi, può al massimo - e con dispendio crescente di risorse - ridurre la negatività degli effetti.

Le politiche territoriali basate sul disinquinamento non sono di per sé uno strumento adeguato per un governo della risorsa territorio capace di raggiungere la sintesi tra conservazione e sviluppo: il disinquinamento è necessario, ma non sufficiente.

Uno strumento idoneo (ma oggi non forte, e perciò non ancorapienamente adeguato) è costituito dalla pianificazione territoriale e urbanistica. L'importanza di questo strumento sta in ciò, che esso - allo stato degli atti - è l'unico che riesce a governare una realtà, qual'è il territorio, che è un sistema complesso di elementi fisicamente definiti suscettibili di usi diversi. È l'unico strumento capace di garantire non una mera giustapposizione delle varie scelte di settore (i trasporti, i

parchi, l'energia, la produzione, la residenza e così via), ma un assetto fisico e funzionale nel quale le varie utilizzazioni, le varie funzioni, i vari regimi, cui sono sottoposte o sottoponibili le diverse parti del territorio, trovino una loro complessiva coerenza: coerenza interna, e coerenza tra l'assetto del territorio e il sistema di obiettivi culturali, sociali, politici, economici che la collettività assume.

3. La pianificazione territoriale e urbanistica, vista come strumento idoneo a raggiungere un rapporto corretto tra conservazione e sviluppo, tra ambiente e lavoro, tra qualità del patrimonio ambientale e sua adeguata fruizione, ha conosciuto stagioni molto diverse, e conosce ancor oggi indirizzi molto diversi nelle tre regioni che gravitano sull'area dolomitica. Ai due estremi della diversità si pongono, secondo me, il Veneto da una parte, l'Alto Adige dall'altra, mentre mi sembra che, per più di un sostanziale aspetto, in una posizione intermedia si pone la Provincia di Trento

Un modo significativo per comprendere e valutare le politiche territoriali delle regioni dal punto di vista del patrimonio ambientale è indubbiamente costituito dall'impatto che su di esse

ha avuto la legge 431 del 1985: quella legge che è comunemente nota come "Legge Galasso", ma che ben più propriamente bisognerebbe chiamare "Legge Alborghetti, Bassanini, Galasso".

Con la legge 431, come tutti sanno, il Parlamento ha sollecitato le Regioni a procedere nella tutela delle caratteristiche essenziali del paesaggio italiano mediante gli strumenti di una pianificazione territoriale e urbanistica contrassegnata dalla "specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali".

E lo ha fatto con due ordini di stimoli: da un lato, con la prescrizione di redigere piani siffatti e adottarli entro una determinata data (il 31 dicembre 1986); dall'altro lato, con lo stimolo indiretto della apposizione di vincoli di non trasformabilità su determinate aree, vincoli che potevano essere superati solo, appunto, con l'adozione dei piani.

Vorrei annotare, tra parentesi, che la 431 è stata la prima manifestazione, seppure in forme improprie, di quell'attività di indirizzo e coordinamento in materia di assetto del territorio ed ecologia che il Dpr 616 del 1977 attribuisce agli organi centrali dello Stato. E vorrei annotare ancora che, sebbene l'attuazione

della legge sia stata molto deludente rispetto alle aspettative e alle stesse potenzialità, essa ha comunque posto in moto un processo di pianificazione praticamente in tutte le regioni italiane.

Per il Veneto la legge 431 è stata una benefica scossa. È solo grazie alla legge che la Giunta regionale ha frettolosamente ripreso gli studi per la formazione del Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), che da oltre un decennio era

solo un'intenzione e una prescrizione inevasa della legislazione regionale, e ha individuato e in qualche modo vincolato, sul medesimo Ptrc, le 66 aree da destinare alla istituzione di parchi e riserve naturali, che da anni erano oggetto di un elenco mai portato all'approvazione del Consiglio regionale.

Per le due Province del Trentino Alto-Adige, invece, come per il Friuli-Venezia Giulia (e come per l'Umbria, l'unica altra regione italiana ad aver consolidato, prima della legge 431, un'attività di pianificazione d'area vasta), la legge ha provocato quasi solo un adempimento di verifica tecnica della maggiore o minore

validità, rispetto ai nuovi indirizzi del Parlamento, di una politica di pianificazione e di tutela dell'ambiente in corso ormai da molti anni.

4. Particolarmente significativa, mi sembra l'esperienza della Provincia autonoma di Bolzano, della Regione altoatesina (o sud-tirolese): significativa sia per l'insegnamento positivo che per taluni aspetti ne deriva, sia per taluni suoi limiti.

I rappresentanti della Provincia autonoma di Bolzano, siano essi amministratori o tecnici direttamente responsabili, o siano essi semplici operatori culturali e professionali, sono orgogliosi quando possono esporre alcuni numeri significativi[1]. Più dell'85 % del territorio altoatesino è tutelato. E la parte più consistente di questa quota molto rispettabile è costituita dalla superficie vincolata dai piani paesaggistici comunali o intercomunali (46,5 %).

Una superficie tutelata attraverso strumenti di pianificazione atipici (sostanzialmente di solo vincolo che operano in "negativo" rispetto ai piani urbanistici comunali), applicati in modo molto esteso a un territorio che già da molti anni è interamente coperto da piani urbanistici comunali. E a un territorio - questo il secondo dato significativo - che è in larghissima misura antropizzato. Benché il 64 % del territorio altoatesino sia a quota superiore a 1.500 metri, il 73 % è adoperato per le attività primarie. Come ha osservato Silvano Bassetti, "pur in condizioni spesso ai limiti della sopravvivenza, l'antropizzazione del territorio risulta ancora oggi diffusa e capillare secondo modelli prevalenti di agricoltura alpina, conservatisi anche per la stabilità di forme giuridiche di indivisibilità dei fondi rustici ("maso chiuso") e di modelli socio-politici fondati sulla radicata diffusione della popolazione sul territorio"[2].

La politica di tutela ambientale altoatesina non nasce oggi, e le sue ragioni sono certo complesse. È già a partire dagli anni '60 che il territorio è stato soggetto a pianificazione comunale, la quale copre dal 1976 la totalità dei comuni. E nel quadro e col supporto di questa politica, si è sancita e si applica molto rigorosamente - con un sistema di decisioni tecniche ed amministrative fortemente centralizzato - la totale inedificabilità dei boschi e degli alpeggi e il contenimento dell'espansione edilizia ottenuta anche combattendo con decisione sia l'edificazione diffusa sia la costruzione di seconde case per non residenti.

È una politica territoriale, quella altoatesina, nella quale la tutela dell'ambiente e del paesaggio trovano le loro ragioni in un duplice ordine di motivazioni. Da un lato la consapevolezza che i redditi e la loro costanza nel tempo sono legati alla

preservazione del patrimonio che li genera: il paesaggio, insomma, come risorsa economica da far durare per sempre.

Dall'altro lato, e forse ancor più profondamente, la convinzione che quel paesaggio, quell'ambiente, quei modi di produrre e di vivere nel territorio, sono parte fondamentale dell'identità culturale di due minoranze etniche: quella austro-tedesca, minoranza nello Stato e nella stessa Regione, e quella ladina, minoranza nella minoranza.

Una tutela, quindi, nella quale i moventi difensivi sembrano determinanti. E questi stessi moventi difensivi hanno fatto sì che si conservasse nel tempo, al di là e - per così esprimermi - al di sotto delle politiche territoriali, quel modo di gestire i rapporti produttivi e i rapporti patrimoniali che ha largamente resistito alle forme tipiche del sistema capitalistico-borghese italiano. Una tutela, quindi, non priva di elementi di fragilità, da cui derivano i suoi stessi limiti.

Così, a proposito di Dolomiti, c'è da registrare che il territorio urbanizzato si è enormemente accresciuto - in termini relativi - negli ultimi trent'anni passando dai 3.000 ettari al 1950 ai 12.000 ettari odierni. Ciò sembra avvenuto soprattutto nella seconda metà degli anni 70, quando la pianificazione urbanistica comunale ha prevalso sulla pianificazione paesistica.

Sono gli anni in cui ci sono state le maggiori espansioni nei fondo valle, e in cui si è - in alcuni punti significativi - consolidato il sistema degli impianti di risalita.

Oggi, i giochi sembrano potersi riaprire. Mentre nelle valli meno toccate dallo sviluppo turistico ci si rifiuta di adottare il modello consolidato di un turismo affidato agli impianti di risalita, alla concentrazione delle presenze, alla infrastrutturazione del territorio, e si vuole cogliere fino in fondo l'occasione di uno sviluppo basato sul binomio qualità dell'ambiente e qualità del servizio ricettivo, al livello della Provincia sembra riaprirsi un dibattito sull'esigenza, e sull'opportunità, di superare i limiti localistici della dimensione comunale della pianificazione, per introdurre forme di pianificazione, o quanto meno di incisivo coordinamento, al livello di area vasta.

5. Anche nella Provincia autonoma di Trento la tutela dell'ambiente è presente da alcuni decenni all'interno del processo di pianificazione. Un processo di pianificazione, quello trentino, più "classico" di quello altoatesino. Non atipici piani paesistici comunali, ma un vero e proprio piano di area vasta: il Piano urbanistico provinciale, formato per la prima volta nel corso degli anni '60, (fu adottato nel 1964 e approvato nel 1967) al quale fa seguito una legge organica di tutela del paesaggio che, già nel 1971, anticipa alcuni contenuti della legge nazionale 431 del 1985.

Tra i caratteri essenziali dell'impostazione maturata nel Trentino in quegli anni vorrei ricordare soprattutto:

- l'estensione dell'oggetto della tutela, che si esplica (art. 1) nel passaggio dalle "bellezze naturali" singole e d'insieme della legge del '39, a "territori naturali o trasformati dall'opera dell'uomo", superando l'ottica estetizzante strettamente figurativa e adottando una concezione naturale-culturale;

- "la graduale connessione tra tutela paesaggistica e pianificazione urbanistica conferendo ai piani subordinati al Pup (comprensoriali e comunali) valenza paesaggistica, capace di assorbire la tutela stessa nella disciplina territoriale, e alla Giunta provinciale la facoltà transitoria, fino alla formazione dei piani subordinati, di emanare specifiche norme e prescrizioni cartografiche relative ai territori tutelati"[3].

Come nell'Alto-Adige, anche nel Trentino ad una partenza nettamente anticipata rispetto a quasi tutte le altre regioni italiane, corrisponde una fase di appannamento grave nella seconda metà degli anni '70: probabile effetto, e anzi anticipazione - questa volta in negativo - di quel più generale appannamento dell'attenzione politica sui temi della pianificazione, e dell'affacciarsi delle posizioni della deregulation, che negli anni successivi prevalsero a livello nazionale. Fatto sta che, con una legge del 1974, si statuisce la prevalenza della

pianificazione comunale volta all'edificazione sulla pianificazione paesistica. Si restaurano "i diritti derivanti dagli strumenti urbanistici vigenti (senza prescriverne la verifica dal punto di vista paesaggistico), conseguendo principalmente due esiti: togliere di fatto il diritto di veto - e quindi il ruolo preminente - alla tutela, ed in secondo luogo privare di fatto tutta la pianificazione dei contenuti di natura paesaggistica, considerata sempre più come "sovrastrutturale"[4].

Prima ancora della legge 431, fu il disastro di Stava a provocare nel Trentino, nel 1985, una svolta nella politica del territorio. La nuova Giunta provinciale diede una spinta vigorosa a un processo di pianificazione che si era insabbiato. La revisione del Pup, avviata dal 1977 e da allora ferma, fu ripresa e il nuovo Pup veniva approvato nel 1987. Ma fin da subito si approvò una legge di salvaguardia, applicata alle previsioni del piano prima ancora dell'adozione. E contemporaneamente si rilanciò la legislazione per l'istituzione dei parchi naturali, giungendo all'istituzione dei parchi naturali del Brenta-Adamello e Paneveggio - Pale di S. Martino.

Il Pup del 1987 ha suscitato qualche fondata critica, soprattutto per quanto riguarda gli impianti sciistici. La scelta è quella di giungere ad una stabilizzazione degli impianti, intendendo con questo consentire la costruzione di nuovi impianti di risalita là dove la capacità delle piste supera quella degli impianti, e la costruzione di nuove piste là dove invece la situazione è invertita. È un criterio non privo di razionalità "aziendale", ma il rischio che viene denunciato è quello di provocare di fatto, con la realizzazione di nuovi impianti, un aumento del carico urbanistico complessivo.

Per le "seconde case" (l'altra grande causa di degrado del paesaggio e dell'ambiente) l'atteggiamento trentino è simile a quello altoatesino, anche se meno pronunciato. Sostanzialmente, il blocco all'espansione delle "seconde case" è intervenuto quando, alla metà degli anni '70, scoppiò lo scandalo e si elevò la protesta per una grande lottizzazione di ville, villette, alberghi a Fassa Laurina.

E anche la ragione di fondo che determina gli attuali orientamenti politici prevalenti in Trentino mi sembra simile a una delle componenti della posizione altoatesina. Anche nel Trentino sembrano pensare: se non tuteliamo l'ambiente e il paesaggio dall'infrastrutturazione e dal consumo fondiario, se non controlliamo il carico urbanistico nelle zone più pregiate, se non freniamo i processi in atto, la materia prima dell'attività turistica si degrada fino al deperimento, e con essa gli stessi redditi che di essa si giovano.

6. Delle tre regioni dolomitiche italiane, il Veneto indubbiamente quella che regge il fanalino di coda. Grandi dichiarazioni, grande propaganda, grandi programmi, ma ancora nessun segnale concreto di una politica del territorio aperta alla effettiva salvaguardia e valorizzazione dell'ambiente.

Eppure, negli stessi documenti prodotti dalla Giunta regionale le analisi anche acute, e le denuncie anche ferme, non mancano. È l'ultimo documento programmatico approvato dalla maggioranza consiliare, il Programma regionale di sviluppo, quello che adopera forse le parole più forti per denunciare il rapporto

perverso tra sviluppo e ambiente che ha caratterizzato il governo del territorio veneto nell'ultimo ventennio. In esso si afferma, ad esempio, che va sottolineato con forza che lo sviluppo demografico e la redistribuzione territoriale della popolazione da un lato, la crescita della produzione nonchè le modalità tecnologiche con cui tutto ciò si è verificato dall'altro hanno avuto conseguenze pesantemente negative sull'ambiente. La rarefazione della presenza umana nelle zone di collina e di montagna, il trasferimento sull'ambiente di tanti costi interni alle imprese, l'anteporre i risultati concreti dello sviluppo alla tutela e alla valorizzazione dei beni naturali, storici e culturali emergono come alcuni dei tratti salienti del recente processo di crescita socio-economica del Veneto e sono responsabili dei gravi fenomeni di dissesto idrogeologico, di degrado e di inquinamento dell'ambiente e del paesaggio a tutti ormai evidenti.

E ancora:

l'uso indiscriminato dell'aria, dell'acqua e del suolo e la valutazione, del tutto errata, che fosse possibile utilizzare l'ambiente esterno alla casa, alla fabbrica, alla città, agli allevamenti, alle attività agricole, ai consumi turistici, alla mobilità come un ricettore inesauribile hanno portato ad una sempre più grave compromissione delle risorse stesse (...). Infine, i sistemi ambientali di interesse naturalistico - sia montani che fluviali come pure le "zone umide" costiere - risultano particolarmente danneggiati da interventi di trasformazione agricola, dal consumo turistico non controllato, da un'eccessiva attività venatoria e dall'inquinamento [5]

Molto interessanti, e condivisibili, mi sembrano anche le considerazioni che nel Prs si svolgono a proposito del turismo. Dopo aver segnalato che da tempo si registrano "segni di disagio quali il deterioramento ambientale, la caduta di qualità del prodotto offerto e il conseguente scoraggiamento della domanda", si afferma:

La situazione, che può apparire paradossale, si spiega per la particolare composizione del "prodotto turistico", che è fatto prima di tutto di servizi forniti da beni pubblici sostanzialmente non riproducibili (si tratti di beni naturali quali l'aria, l'acqua, il sole o il paesaggio delle spiagge dei monti o dei laghi, oppure di beni storico-artistici quali interi centri storici, singoli monumenti, opere d'arte) ceduti ai turisti a prezzo zero.(...) È intuibile che in questa situazione, di fronte ad una crescita molto rapida della domanda di turismo, la risposta, in termini di adeguamento dell'offerta di servizi e beni turistici privati, risolve il problema solo fintantoché non si creano situazioni di concorrenza nell'uso di beni turistici pubblici non riproducibili (si pensi all'eccesso di alberghi su di una spiaggia o vicino ad una pista da sci, o al miglioramento dell'accessibilità verso un centro storico)[6]

Tornerò più tardi sulla questione del turismo, degli effetti che esso produce sulla risorsa ambiente, e soprattutto sugli indirizzi che, a mio parere, devono affermarsi per ottenere una effettiva sintesi tra sviluppo e conservazione. Per ora vorrei restare nel Veneto, per dire che le analisi sono corrette, ma le cose non sembrano affatto cambiare sul terreno delle concrete politiche territoriali poste in atto.

Non parliamo degli interventi "a valle", delle opere e delle politiche finalizzate al disinquinamento, che pure sono quelle verso le quali più ampiamente sono rivolte l'attenzione e l'impegno: non c'è il piano per i rifiuti tossici e nocivi, non c'è un credibile piano per il risanamento delle acque, non c'è un'iniziativa seria per il risanamento delle aree più calde dal punto di vista dell'inquinamento. Non parliamo dei parchi naturali, neppure uno dei quali è stato istituito. Parliamo del prodotto culturalmente più evoluto della politica territoriale del Veneto, il Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), adottato, dalla Giunta per effetto della Legge 431, il 31 dicembre 1986, ma non ancora approdato nella sede del Consiglio Regionale.

7. L'efficacia è un requisito indispensabile di un atto di governo del territorio, che non voglia porsi solo come contributo accademico. Da questo punto di vista il Ptrc del Veneto è senza dubbio carente. Esso infatti si limita a prescrivere norme

immediatamente efficaci per le sole aree destinate all'istituzione di parchi e riserve naturali e archeologiche.

L'efficacia delle norme relative a tali aree, e la stessa perimetrazione di queste, sollecita a più di un rilievo critico.

Ma più critico ancora il giudizio su alcune conseguenze pratiche e soprattutto sulla concezione culturale che sembra sottesa da una simile scelta.

Da un punto di vista pratico è ad esempio preoccupante che non via sia alcuna prescrizione immediatamente efficace per la protezione delle falde acquifere nella fascia a monte della linea delle risorgive. Dal punto di vista culturale, preoccupa invece il fatto che, tutelando con una certa efficacia solo quelle determinate aree di cui si detto, si convalida la tesi - che sembrava ormai superata - secondo la quale sono meritevoli di protezione solo le aree dove la natura è più selvaggia ed aspra, mentre dove l'ambiente è più fortemente antropizzato e foggiato dal lavoro umano esso può continuare ad essere soggetto alle devastazioni: provocate, nel Veneto, più da strumenti urbanistici corrivi che dall'abusivismo.

Altro punto rilevante dell'inadeguatezza del Ptrc sta nel fatto che esso non stabilisce, come invece sarebbe indispensabile, la prevalenza delle scelte derivanti dall'esigenza della tutela dell'ambiente rispetto a qualsiasi piano, programma od intervento settoriali, da chiunque formati. Le trasformazioni del territorio non avvengono unicamente mediante le politiche urbanistiche comunali.

Queste sono certamente rilevanti, soprattutto - dal punto di vista proprio del livello regionale - per i loro effetti cumulativi.

Ma almeno altrettanto agiscono sul territorio gli interventi decisi da autorità che (per il loro potere proprio, o per la manipolazione del consenso che possono esercitare, o più spesso per l'uno e per l'altro insieme) sono sottratte alle decisioni dei piani urbanistici comunali: è del tutto ovvio, oltre che a tutti noto, che l'assetto del territorio determinato in modo consistente dagli investimenti e dagli interventi

dell'Anas, delle società per le autostrade, delle aziende ferroviarie, delle autorità portuali e aeroportuali, delle società per le idrovie, e ancora dalle politiche in campo abitativo, agricolo, commerciale, turistico, industriale, e infine dai progetti Fio, dai programmi di settore, per lo smaltimento dei rifiuti, per le attività estrattive, per le bonifiche, per le acque e così enumerando.

Ora, un piano territoriale deve e può ricondurre a coerenza le diverse iniziative di settore; deve quindi, in primo luogo, verificare a priori la coerenza di tali iniziative con l'esigenza della tutela ambientale. Da questo punto di vista, il PTRC è così lontano dal raggiungere questi obiettivi da apparire addirittura schizofrenico.

Tipico il caso del "sistema relazionale". Nella relazione giustamente si afferma che "dovrà essere riguardato, con la massima attenzione, il rapporto tra sistema infrastrutturale e sistema dell'ambiente", e si rileva criticamente "come - anche nel più recente passato - sia stata posta poca attenzione al corretto inserimento di tracciati viari e relativi manufatti". Ma, nel concreto, il Ptrc si pone come l'assemblaggio acritico di tutti i tracciati e gli interventi che volta per volta sono stati proposti, senza compiere nessuna selezione né delle opere da realizzare nè delle loro priorità.

In un simile atteggiamento subalterno, il Ptrc arriva al punto di configurarsi anzi come il primo atto di politica territoriale che fornisca una legittimità alle più devastanti, e spesso inutili, scelte infrastrutturali che sono state proposte nel corso

dell'ultimo ventennio: dall'autostrada di Alemagna a quella di Valdastico, dalla Treviso-Ostiglia alle complanari di Mestre, dall'idrovia del Sile a quella litoranea a quella tra Venezia e Padova.

8. Credo di avere argomentato a sufficienza - almeno per quanto serve a questo dibattito - che effettivamente esistono differenze consistenti nelle politiche territoriali delle tre regioni dolomitiche. In estrema sintesi, mentre in Alto Adige e nel Trentino, per ragioni di vario ordine (ma per la comune preoccupazione di non deprezzare il "capitale" costituito dal patrimonio ambientale) si rafforzano le politiche tese alla tutela dell'ambiente e al contenimento - più accentuato in Alto-Adige, più blando nel Trentino - dei carichi urbanistici legati al turismo, nel Veneto ci si limita a denunciare ciò che è avvenuto, ma non si riesce o non si vuole riuscire ad impedire che lo stesso avvenga nel futuro. È solo nell'ambito della discussione delle singole leggi istitutive dei parchi, ad esempio, che si riesce ad introdurre qualche contenimento alla realizzazione di nuovi impianti di risalita (e non a caso neppure un solo parco stato finora istituito). E mentre il piano urbanistico provinciale di Trento ha eliminato la previsione dell'autostrada di Valdastico (la famigerata Pi-Ru-Bi), il piano territoriale di coordinamento del Veneto la ripropone.

Il rischio che vedo, a questo punto, è che il relativo ritardo delle dolomiti venete nell'attrezzarsi per il turismo conduca a seguire moduli di intervento che altrove sono superati: a puntare insomma, per una malintesa concorrenza, alla realizzazione di impianti di risalita e caroselli, ad un indiscriminato aumento della ricettività, al conseguente aumento dei carichi urbanistici indotti. Ed a giungere allora, su questa strada, al deperimento della risorsa fondamentale dell'attività turistica.

Non voglio rubare spazio alla relazione che Diego Cason terrà domattina, ma credo che qualche considerazione sul turismo sia a questo punto utile.

9. Il "turismo di massa" sta diventando, in tutto il paese, da un lato una grande occasione di incremento del reddito, dall'altro lato un grande fattore di degradazione dell'ambiente. Le aree più minacciate sono proprio quelle nelle quali, per essere le qualità ambientali (naturali e storiche) più accentuate e più famose, la pressione del consumo turistico è più forte. Da questo punto di vista io credo che il possibile destino, e quindi anche le possibili misure da assumere per indirizzarlo da una parte o dall'altra, siano molto simili in una prestigiosa vallata alpina e in un rinomato centro storico.

Molti esperti del settore ritengono che nei centro storici (e in modo secondo me del tutto equivalente nelle aree a maggior pregio "naturalistico") si debbano svolgere azioni rivolte contemporaneamente in due direzioni.

Da un alto, a qualificare l'offerta turistica: a premiare la qualità sulla quantità, e quindi a migliorare il livello dei servizi, a rendere più direttamente percepibili e fruibili le qualità (naturali o storiche) che caratterizzano i singoli siti, ad allargare i periodi di visita e a ridurre drasticamente le punte, a diversificare l'offerta, e così via.

Dall'altro lato a promuovere quello che Luigi Scano ha recentemente definito "razionamento programmato"[7].

È necessario, cioè definire per ogni bene potenzialmente oggetto di fruizione turistica, qual'è il massimo carico urbanistico che esso può sopportare nei diversi archi di tempo considerati, senza che subentrino elementi di degrado. Ma è poi necessario porre in atto politiche di pianificazione territoriale e urbanistica, di dimensionamento o ridimensionamento dell'offerta, di gestione della domanda (prenotazioni, assegnazioni di turni ecc. ), che consentano di assicurare che, nella realtà, questi determinati carichi non vengano superati.

Così, ad esempio, una volta determinato che in una vallata (o in un complesso monumentale, o in un centro storico) la presenza massima di turisti sopportabile senza degradare l'ambiente e ridurre la stessa qualità della sua fruizione è di tot unità, si tratta di dimensionare gli accessi, la ricettività, i servizi e così via, in modo che essi non consentano il formarsi di un carico maggiore; e si tratta contemporaneamente di organizzare e gestire un servizio di informazioni per l'accesso e la prenotazione, e un servizio di monitoraggio, che consenta di indirizzare i fruitori in relazione all'offerta disponibile.

10. Più in generale, mi sembra certo che una politica del territorio volta a trovare una sintesi, non solo teorica ma operativa, tra salvaguardia e sviluppo, tra l'esigenza di preservare e accrescere il patrimonio ambientale e quella di fare della sua fruizione una occasione di crescita civile, sociale ed economica, cosa che richiede una visione unitaria e una applicazione estesa e rigorosa del metodo della pianificazione territoriale e urbanistica e della programmazione di settore.

E quando si tratta di una realtà unitaria per struttura, vocazione, usi potenziali, problemi, qual'è indubbiamente quella delle Dolomiti, allora mi sembra che sia anche necessario superare i limiti amministrativi, per impedire che essi frantumino la coerenza dell'azione necessaria.

Sarebbe assai utile, a questo proposito, che le tre regioni dolomitiche - il Veneto, il Trentino, l'Alto-Adige - cominciassero a coordinare le loro politiche territoriali: in materia di parchi, i quali spesso interessano ecosistemi che

superano i confini (una volta una foresta era un limite, oggi un possibile elemento di unione); come in materia di indirizzi della pianificazione territoriale; come in materia di infrastrutture; e anche in materia di indirizzi da assumere, e di parametri organizzativi da promuovere, per la gestione di quella realtà per sua natura ostile ai confini che è il turismo.

Ed io credo, per concludere che gli stessi organi centrali dello Stato - il Governo e il Parlamento - non possano restare insensibili rispetto ai problemi che le Dolomiti pongono. Lo Stato di fatto influisce sull'assetto del territorio dolomitico:

con le sue politiche infrastrutturali (pensiamo alle ferrovie, all'Anas, alle concessioni autostradali), con i parchi e le riserve naturali nazionali, con le politiche energetiche e così via.

Anche allo Stato bisogna chiedere di dare coerenza ai propri interventi sul territorio, e di definirli in una intesa con le regioni che non sia a foglia di carciofo, ma si manifesti con il confronto di quadri di coerenza.

Allo Stato, del resto, è affidato il compito di esercitare - come ricordavo - l'indirizzo e il coordinamento anche attraverso la definizione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio. La necessità di affrontare unitariamente, coordinando una pluralità di regioni, i problemi della tutela ambientale e dello sviluppo economico e sociale in un'area così significativa com'è quella dolomitica - questo segmento omogeneo e rilevante dell'intero arco alpino - potrebbe richiedere uno sforzo congiunto di questa portata, che coinvolga Stato e Regioni non come possessori di competenze conflittuali, ma come tessitori di un migliore destino per le Dolomiti.

[1] Vedi, ad es., gli scritti raccolti in: INU, Annuario 1988 Jahrbuch, pubblicazione della sezione Trentino-Alto-Adige dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, Comitato Provinciale dell'Alto-Adige.

[2] "La pianificazione paesaggistica nella provincia autonoma di Bolzano - scheda critica", ibidem.

[3] Vedi la monografia regionale "Provincia di Trento" in: INU, Rapporto sullo stato di attuazione della Legge 431/1985, Quaderni di urbanistica informazioni, n. 4, Roma 1988. Il quaderno contiene i risultati di una ricerca svolta dall'INU per i gruppi parlamentari comunisti.

[4]Ibidem

[5] Regione Veneto, Programma regionale di sviluppo 1988-1990, cap.4.2.

[6]

Ibidem, cap. 9.10. .

[7] Mi riferisco a una relazione tenuta a un seminario sul tema: "Centri storici: tra uso, abuso e abbandono", organizzato dal Pri Roma, 4 aprile 1989, atti in corso di stampa

Tra le ragioni che hanno indotto a pubblicare il Catasto napoleonico ce n'è anche una squisitamente conservativa. Da qualche anno i pochissimi esemplari disponibili (all'Archivio di Stato dei Frari e al Comune di Venezia) sono oggetto di così frequente consultazione da far temere, nonostante l'attenzione e la cura con cui sono custoditi, in un loro rapido deperimento. Da qualche anno, infatti, si affollano a leggere le informazioni territoriali fornite dal Catasto napoleonico, oltre agli studiosi di sempre, numerosissimi studenti, architetti, urbanisti, proprietari e operatori immobiliari.

Perché, centottant'anni dopo, un cosi intenso e rinverdito interesse per questo prodotto - forse il più raffinato e moderno - della dominazione francese? È una domanda cui può essere utile cercar di rispondere, anche per comprendere meglio in quale odierno contesto - ideale, culturale e pratico - questo oggetto, tracciato in punta di penna e tenuemente colorato, si collochi.

Il Catasto napoleonico è indubbiamente, al di là della sua originaria finalità censuaria, una rappresentazione geometricamente esatta, e attendibile, della forma della città qual era agli inizi del 1800. Insieme alle altre cartografie storiche, ma con ovvia maggior precisione rispetto a quelle che i reggitori della Serenissima formarono a partire dal xv secolo, esso documenta la forma e la scansione dei lotti, i limiti e la posizione degli edifici, le utilizzazioni dei terreni, e quelle che oggi chiameremmo opere di urbanizzazione (cani, campi, canali, ponti, rive), così come questi fondamentali elementi dell'assetto fisico urbano erano alla data del rilevamento.

Insieme alle altre mappe storiche, il Catasto napoleonico consente perciò di leggere e interpretare l'evoluzione fisica della città. t un ausilio prezioso per individuare le parti del tessuto urbano dove le modificazioni intervenute nel tempo hanno conservato, o proseguito, la trama costituita dalle dimensioni e dalla forma dei lotti e degli edifici, dai loro reciproci rapporti e dalle loro posizioni rispetto alle vie e agli spazi comuni. Per comprendere, insomma, dove le nuove esigenze che via via maturavano hanno condotto a estendere l'edificato o a trasformare le unità edilizie nel rispetto delle non scritte regole formative della morfologia urbana, e dove invece gli eventi successivi (togliendo o aggiungendo terra e volumi, accorpando o suddividendo lotti, riempiendo o scavando rii e canali) hanno violato quelle regole, con maggiore o minore brutalità.

Oggi, l'individuazione e il rispetto delle regole formative della morfologia urbana è l'obiettivo (uno dei principali) cui è volta ogni ben orientata azione di pianificazione urbanistica del territorio conformato dalla storia: in primo luogo quindi, sebbene non esclusivamente, delle città storiche. Ecco quindi l'interesse, e l'utilità, di documenti quale il Catasto napoleonico per chiunque, per ragioni operative o per ragioni di studio e d'esercitazione, debba o voglia cimentarsi nella delicata e complessa impresa di programmare le trasformazioni urbane, o di valutare la conformità dei singoli interventi, da operare su questo o su quest'altro immobile, con l'imperativo della tutela dell'eredità e della qualità del passato. Ed ecco, anche, l'utilità di quei documenti per il proprietario, o per l'operatore immobiliare, che vogliano comprendere i limiti e le condizioni cui è soggetto il loro intervento.

Ma tra tutte le cartografie storiche geometricamente esatte, e attendibili, il Catasto napoleonico veneziano riveste un'importanza che ne fa un documento in qualche modo unico, e ancor più prezioso e utile degli altri.

Il Napoleonico rappresenta e misura Venezia in un momento assolutamente singolare della sua storia. Esso ci mostra Venezia raffigurata com'era quando, dopo dieci secoli di vita, era caduta definitivamente la Repubblica serenissima: quel sistema di reggimento della cosa pubblica (e di garanzia dell'espansione delle fortune private) tra i più raffinati e compiuti, in ispecie per la politica territoriale e urbanistica, che l'occidente abbia conosciuto. Il Catasto napoleonico è quindi come l'estremo lascito, e insieme l'immagine, della. compiutezza statuale della Venezia sovrana.

Quella Venezia, la Venezia della fine del xviii secolo, era anche la città che aveva raggiunto il massimo della sua compiutezzaformale, del suo equilibrio. Fino ad allora, le trasformazioni che si erano succedute avevano sostanzialmente rispettato quelle regole formative della città di cui si diceva. Le continue mutazioni, che caratterizzano ogni organismo vivo, erano avvenute all'interno di un sistema di norme, di principi, di codici scritti e non scritti, di tecniche costruttive e di repertori (all'interno di una cultura) certo non fissi, non immuni da progressi e da cadute, ma che la civiltà veneziana era stata capace di modificare, di arricchire, di perfezionare senza lacerazioni né traumi.

Dopo di allora si apre quella fase ottocentesca - sul cui abbrivio lo sviluppo è poi proseguito quasi fino ai nostri anni - inducendo nella forma urbis deformanti, seppure fortunatamente parziali, stravolgimento. Quella fase nella quale si manifesta la contraddizione - non ancora compiutamente risolta - espressa nel giudizio di E.R. Trincanato: «sventramenti, colmate di canali e sistemazioni edilizie [che] mostrano tutta l'impotenza pretenziosa e nulla della civiltà borghese che ci ha preceduti [ma] nello stesso tempo ci danno un'idea abbastanza precisa della pressione esercitata dalle nuove esigenze della vita moderna in una struttura edilizia incapace di contenerla» (cfr. in G.D. Romanelli, Venezia Ottocento, Venezia 1988).

In realtà determinate trasformazioni, sebbene radicali nella loro sostanza, non avvengono istantaneamente, non sono interamente riconducibili a un episodio e a una data, e si sviluppano invece nel corso di processi che interessa- no archi di tempo non brevi. Così, la sostituzione alle precedenti delle regole e delle tecnologie proprie della cultura degli sventramenti, del cemento armato, dell'indifferenza al sito e anzi della violenza su di esso, non è stata né repentina né totale. Tanto che ancor oggi, quando ormai quella cultura sembra ormai superata e si è agli albori della cultura del recupero, del restauro urbano, della conservazione intelligente, ancora permangono residui delle regole e delle tecnologie preottocentesche, sopravvissute alla bufera dell'età dello sviluppo senza limiti né remore.

E tuttavia se, nonostante questa consapevolezza del perenne intreccio tra vecchio e nuovo, una data si vuole assumere come discrimine tra il processo culturale e storico di formazione di Venezia e la rottura provocata dalla «cultura del cemento armato», è con piena legittimità, e con significato non meramente simbolico, che può essere assunta quella della caduta della Serenissima. E se poi un'immagine può rappresentare più compiutamente di altre la forma urbis maturata prima di quella rottura (e quindi, in qualche modo, all'apogeo di quel processo storico) essa è quella disegnata dai diligenti geometri che composero il Catasto napoleonico.

Ragionare sui motivi specifici dell'attenzione che oggi il Catasto napoleonico richiama induce a una riflessione più generale. Poiché, al di là dei motivi pratici e di quelli culturali, c'è forse una ragione di fondo che sta alla base dell'interesse per il Napoleonico e lo accomuna a quello suscitato in questi anni, in Italia e non solo in Italia, per tutte le testimonianze materiali della nostra storia.

t un interesse non solo scientifico e culturale, ma vitale. Non riguarda solo alcune élite, ma porzioni vastissime, e crescenti, dell'opinione pubblica colta e meno colta. Non coinvolge solo né tanto quanti, per età, sono quasi fisiologicamente inclini a volgere lo sguardo al passato, ma soprattutto i giovani.

t un interesse che si manifesta in mille episodi e situazioni, apparentemente disparati. Dalle fortune della letteratura storica, all'afflusso di visitatori che affollano i musei e le mostre che indagano i più remoti passati o ne esibiscono gli oggetti, alle innumerevoli vicende (in ogni città e quartiere e paese e villaggio) di riconoscimento e difesa delle residue tracce lasciate dalla storia nel territorio urbanizzato e in quello rurale.

È come se la memoria storica fosse diventata un bisogno dell'uomo contemporaneo. Non tanto quella memoria che trova il suo alimento nei grandi accadimenti dell'umanità, nell'avventura dei popoli e delle civiltà, nel succedersi e concatenarsi delle stirpi, dei reami, delle classi. Non tanto, insomma, la Storia maiuscola, quella «generale», ma soprattutto il frantumarsi e riflettersi di questa nella miriade di avvenimenti precisamente localizzati, legati al sito in cui ciascuno di noi vive: la storia riconoscibile nel quotidiano di oggi, presente - con le sue materiali testimonianze di edifici e ruderi e vie e paesaggi e attrezzi - nel breve cerchio dell'esperienza d'ogni giorno.

Il fatto è che, oggi come sempre, per un popolo non esiste civiltà senza consapevolezza delle proprie radici, senza memoria della propria storia. Oggi, però, qualcosa è cambiato rispetto ai millenni che ci hanno preceduto.

È come se, per effetto di quel particolare sviluppo che abbiamo conosciuto nei secoli più recenti della nostra storia, si fosse rotto (non solo a Venezia, ma in tutto il mondo toccato dalla rivoluzione capitalistico-borghese) quell'elemento di continuità nell'evoluzione delle tecniche, dei modi di abitare e di vivere, di costruire e di comunicare, che per secoli e secoli ha consentito all'uomo, per così dire, di vivere la propria storia nella ripetizione di gesti quotidiani omogenei a quelli compiuti dieci o cento generazioni prima.

t come se oggi, allora, la memoria storica, non più godibile in modo direttamente esistenziale, fosse raggiungibile solo mediatamente, culturalmente: con l'intelligenza del comprendere e dell'analizzare più che con la sensibilità del vivere.

Anche il Catasto napoleonico, come tanti altri segni dai quali è testimoniato lo spessore della civiltà di cui siamo parte, è perciò - oltre che un insegnamento, un ausilio tecnico, uno strumento per operare - un modo per trovare il sentimento della storia: un pegno del passato, e perciò stesso un talismano per il nostro futuro.


Dalla Tavola 24 del Catasto napoleonico

Si veda anche, cliccando qui, la Presentazione dell’opera, scritta da Maria Francesca Tiepolo, allora eccezionale Direttore dell’Archivio di Stato di Venezia.

«Quando si deve decidere qualcosa circa le città e i castelli e le province che, per grazia di Dio, sono sottoposti al nostro governo, non c'è nessuno nella nostra amministrazione che sappia dare informazioni precise sui siti nei quali essi si trovano, sulla loro latitudine e longitudine, sui confini e sui domini limitrofi e così via; e se a qualcuno si chiedono informazioni queste sono spesso diverse a seconda dell'interlocutore, perché ciascuno risponde come crede. Si provveda perciò perché nella nostra Cancelleria e nella sede del nostro Consiglio dei Dieci vi sia, veridicamente disegnata, l'immagine di tutte le nostre città, terre, castelli, provincie e luoghi, talché chiunque voglia decidere e provvedere in merito ad essi ne abbia davanti agli occhi reale e precisa cognizione, e non debba affidarsi all'opinione di chicchessia» (versione dal testo latino pubblicato in G.B. Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1868).

Così, mezzo millennio fa (e precisamente il 27 febbraio 1460), Pietro Mocenigo, Bernardo Giustiniano e Marco Donato, i tre capi del Consiglio dei Dieci della Repubblica Serenissima di Venezia, deliberavano di formare la prima cartografia esplicitamente finalizzata al governo del territorio. Già allora quindi, trentadue anni prima del viaggio che portò Crístoforo Colombo ad aprire le strade delle Americhe e la storia a varcare le soglie dell'età moderna, le carte non erano solo un bell'oggetto, l'opera grafica di segno raffinato, la gratificante rappresentazione d'una porzione del mondo: erano soprattutto strumento d'una conoscenza volta al governo, all'azione politica e amministrativa. Già allora, un reggitore della respublica, per essere efficace e corretto nello svolgimento del suo compito, per non essere soggetto alle multiformi e variate opinioni dei suoi interlocutori, doveva disporre d'una cartografia «veridicamente disegnata», tenerla «davanti agli occhi» là dove e quando decideva.

Come delle carte antiche anche del fotopiano a colori del centro storico di Venezia, della moderna forma urbis di questa città preziosa, ciò che in primo luogo e a prima vista colpisce è la bellezza dell'oggetto. Non è un aspetto da trascurare, non foss'altro per il fatto che rende evidente in modo particolare la qualità, la delicatezza (la perfezione, si vorrebbe dire) di quella concreta realtà - fatta di edifici che sono anche valori economici e patrimoni, di acque che sono anche minaccia di allagamentí, di persone che sono anche bisogno di lavoro e di casa: fatta quindi di oggetti e di problemi - che è necessario governare e amministrare per la quale è perciò ogni giorno necessario compiere scelte. Scelte che quella qualità possono salvare e valorizzare oppure, e viceversa, guastare e compromettere.

Anche la bellezza dell'irnmagine, poiché è l'espressione, mediata dalle tecniche più sofisticate oggi esistenti, della bellezza dell'oggetto su cui si esercita l'azione degli amministratori - e di quanti operano, in un modo o nell'altro, nella città e per la città - è un invito ad agire, a scegliere, a decidere perché la ricchezza di quel patrimonio sia conservata e accresciuta: è un invito e una sollecitazione al «buon governo».

Ma se l'amministrazione comunale di Venezia ha deciso d'impegnare una quantità non irrilevante di risorse, e di lavoro, per la costruzione di un nuovo sistema informativo, di cui il fotopiano è il primo elemento, non è certo per una motivazione estetica, né per richiamare se stessa (e gli altri) alle proprie responsabilità. È stato invece per la convinzione che oggi più che mai la conoscenza è il presupposto ineliminabile delle scelte nelle quali consiste l'azione amministrativa e politica.

Quanto più le scelte vogliono essere calzanti con la realtà su cui intervengono, tanto più la conoscenza deve essere precisa, completa, attendibile. Quanto più le scelte vogliono potersi adeguare, con tempestività, ai mutamenti della realtà, tanto più la conoscenza deve essere aggiornabile, in modo altrettanto tempestivo, e sistematico. Perciò si è deciso di procedere, avvalendosi di esperti tra i più qualificati nel settore, all'individuazione delle imprese cui affidare la realizzazione dei sistema cartografico e informativo secondo metodi che garantissero di scegliere le imprese più qualificate a fornire il prodotto più rigoroso. E perciò si è deciso di utilizzare, per la formazione di quel sistema di cui il fotopiano è la componente più ricca di qualità formali immediatamente percepibili, soluzioni tecniche basate sull'impiego delle più sofisticate possibilità dell'informatica.

Una conoscenza quindi, quella di cui il sistema informativo è l'essenziale strumento, che ha una finalizzazione ben più ampia, ricca, complessa di quanto non fosse necessario alla metà del xv secolo. Esso infatti è finalizzato a un modo di governare le trasformazioni nella città che si propone di superare, e radicalmente, i limiti e gli errori che hanno contrassegnato nel recente passato i modi in cui le città si sono modificate. Si sa che - laceratasi con l'età moderna l'unità profonda tra cultura e prassi da cui è stata prodotta la qualità delle città storiche, e la loro capacità di modificarsi di continuo nel rispetto delle regole non scritte che ne determinavano la forma - ai guasti delle trasformazioni operate sotto la sola spinta degli interessi economici privati si è tentato, nei paesi europei, di porre riparo con la pianificazione urbanistica. Ma i modi in cui la pianificazione urbanistica è stata applicata in Italia (e non solo in Italia) sono in questi anni soggetti a una critica di fondo: per il rinvio generalizzato, dai piani generali, a scelte di pianificazione via via più dettagliate; per la rigidità di scelte sull'uso dei territorio compiute una volta per tutte; per il carattere meramente vincolistico delle normative; per l'insufficiente attenzione ai problemi (e all'obiettivo) della qualità urbana; per la separazione tra il momento della pianificazione e quelli della programmazione e della gestione.

Superare questo modo di pianificare esige certo molte cose: intelligenza e capacità di amministratori e di operatori tecnici; adeguamento di leggi; disponibilità di risorse; volontà di innovazione culturale. Tra le altre cose necessarie, non irrilevante è - appunto - la disponibilità di un sistema informativo costruito su misura per un nuovo modo di governare le trasformazioni urbane, ad esso finalizzato: che sia, quindi, così preciso da consentire di evitare il rinvio a successivi strumenti e livelli di piano, così completo da contenere tutte le informazioni necessarie per decidere in relazione agli obiettivi, così aggiornabile da potersi adeguare alle modificazioni via via indotte nella realtà, così flessibile da poter essere impiegato in tutte le fasi del processo di intervento nella città.

Non è certo sfuggito, agli amministratori della città, che realizzare un sistema informativo quale quello del quale qui si sono esposte le ragioni, significa fondare le scelte politiche su un quadro di conoscenze organizzato in modo tale da ridurre fortemente la discrezionalità delle scelte medesime: per meglio dire, da obbligare a rendere misurabili e valutabili gli effetti delle decisioni operate, e da consentire precisi riscontri tra l'enunciazione degli obiettivi e la coerenza con cui da essi derivano concrete conseguenze. Si può allora concludere che il nuovo sistema cartografico veneziano non è solo una innovazione sul piano delle tecniche adoperate e dei metodi di pianificazione cui è finalizzato. Esso è anche (può essere) strumento e sollecitazione a una innovazione sul piano della cultura politica e amministrativa. Ed è significati- vo che una spinta così complessiva, così multiforme, all'innovazione e al progressi venga da una città così antica, e che ha in modo così completo conservato la propria forma urbis: come le tavole qui raccolte limpidamente testimoniano.

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