loader
menu
© 2024 Eddyburg

IL PASTICCIO URBANISTICO NON E' PASSATO



Tristi questi tempi. Bisogna gioire del fatto che una legge, partita con l'ottima intenzione del legislatore di regalare al paese la riforma del regime degli immobili (o almeno del regime dei suoli) che aspettiamo da un quarto di secolo, sia restata impaniata nella precoce fine della legislatura. Ce ne dispiace per tutti quelli che, alla Camera e al Senato, con molta buona volontà e molto impegno, si sono adoperati per discuterla, correggerla, verificarla. Ce ne dispiace meno per quegli urbanisti che, fin quasi alle ultime battute, hanno lavorato perchè in qualche modo venisse approvata. Ma ne siamo lieti per le città e il territorio, e per il loro governo.

Quella legge (non abbiamo mai mancato di dirlo e di dimostrarlo) era un pasticcio. Era sbagliata fin dall'inizio, fin dall'originaria impostazione del sen. Cutrera. Ma era allora, quattro anni fa, un meccanismo correttamente basato su un principio perverso (quello della "spalmatura", dell'attribuzione a ogni proprietà fondiaria di un diritto di edificabilità), sebbene temperato dal riconoscimento della non edificabilità delle aree di oggettivo interesse paesaggistico. Via via era diventata un pasticcio che avrebbe seppellito ogni residua possibilità di governo del territorio mediante la pianificazione.

Nel numero scorso di questa rivista abbiamo pubblicato un ampio e documentatissimo dossier di Maurizio Coppo, i cui argomenti sono stati decisivi per indurre i parlamentari del Pds a "togliere la legislativa" (cioè a ritirare l'autorizzazione alla maggioranza a votare la legge direttamente in Commissione), e per sollecitare i deputati della Sinistra indipendente e della Lista verde a praticare in Aula un robusto filibustering l'ultimo giorno di validità parlamentare. Vogliamo ricordare un paio di dati di fatto illustrati nella ricerca di Coppo, perchè in essi sono le ragioni della nostra odierna soddisfazione per lo scampato pericolo.

I più gravi vizi sostanziali della proposta di legge erano in due aspetti: quello economico e quello urbanistico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è dimostrato innanzitutto che la variazione del rapporto tra valori dell'indennizzo e valori di mercato sarebbe elevatissima (dal 10 al 250 per cento). Ciò contraddirebbe pesantemente il principio di equità, cui la Corte costituzionale è particolarmente legata, e inoltre obbligherebbe i comuni ad esborsi elevatissimi nella situazioni sopravvalutate e a subire contenziosi infiniti in quelle sottovalutate.

In secondo luogo, nella maggior parte dei comuni gli introiti derivanti dai contributi di maggiore edificazione sarebbero stati tali da non compensare nemmeno gli indennizzi per l'acquisizione delle aree occorenti per gli standard urbanistici necessari per i nuovi insediati. Lungi dal risolvere positivamente i problemi della gestione urbanistica dei comuni, la legge li avrebbe addirittura aggravati.

Dall'analisi di Coppo appare evidente che nessuna correzione del sistema previsto dalla legge avrebbe potuto emendarne i vizi che danno luogo a risultati così scoraggianti. Ma ancor più evidente è il vizio di fondo della proposta se se ne esaminano gli aspetti urbanistici: le perverse ricadute sulla pianificazione urbana e territoriale.

"Data la diretta relazione tra indici fondiari, valori degli indennizzi e valori dei contributi per la maggiore utilizzazione fondiaria, le scelte urbanistiche determinerebbero, anche più che nella situazione attuale, pesantissime implicazioni d'ordine economico; tali implicazioni renderebbero da un lato la pianificazione urbanistica oltremodo complessa e dall'altro la sua gestione ancor più conflittuale di quella attuale".

Con buona pace per chi pensa (come noi pensiamo) che obiettivo di una riforma deve essere quello di tendere verso "l'indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani", per adoperare l'espressione di Aldo Moro all'epoca del primo governo di centro-sinistra.

Alla soddisfazione per lo scampato pericolo vogliamo aggiungere la speranza che il Parlamento che eleggeremo sia più maturodi quello appena sciolto, e meglio capace di affrontare, e finalmente risolvere, il problema sotteso al pasticcio urbanistico della X legislatura.



FINALMENTE

UNA BUONA SENTENZA

La prima sezione della Cassazione civile ha pronunciato una sentenza d'importanza capitale (21 ottobre 1991, n.11133). Ancora più importante oggi, dopo il definitivo arenarsi della legge sul regime dei suoli.

La Cassazione ha infatti decretato che, in caso di esproprio di un'area per la quale uno strumento urbanistico formato a norma di legge prevede un vincolo di inedificabilità, l'indennità espropriativa non deve essere riferita ai valori di mercato conseguenti dalla potenzialità edificatoria, perchè l'edificabilità di quell'area è stata legittimamente cancellata.

Il compenso dovuto dal proprietario può invece tener conto delle utilizzazioni legittime in atto o possibili quali, esemplifica la sentenza, quelle per parcheggio, oppure per l'installazione di chioschi o di altre strutture mobili. (La sentenza è pubblicata e commentata sul Corriere giuridico, n.1/1992, con un acuto commento di Antonio Catalano).

Il fatto più rilevante è che la sentenza non si riferisce ai vincoli cosiddetti "ricognitivi" (quelli cioè derivanti dalla "ricognizione", e dalla puntuale individuazione, di beni appartenenti a categorie vincolate da una legge, come ad esempio i beni culturali o le emergenze naturalistiche). Essa si riferisce,nella fattispecie, a un vincolo cemeteriale, con argomentazioni che sono immediatamente e quasi meccanicamente estensibili a tutti i vincoli derivanti da leggi, e più in generale sono riferibili a qualsiasi vincolo posto dallo strumento urbanistico.

Singolare è infine che il Consiglio di Stato abbia fatto riferimento a un criterio di valutazione dell'indennità (quello basato sul valore derivante dalla utilizzazione legittima in atto) che è esattamente quello previsto dalla proposta di legge di riforma del regime degli immobili Cervati-Scano che l'Inu elaborò tra 1l 1979 e il 1983.

UN NEONATO, UN ALBERO,

QUATTRO AUTOMOBILI

Lo stesso giorno, il 28 gennaio 1992, sono uscite sui giornali due notizie, che la stampa non ha collegato.

Gli onorevoli Rutelli e ... hanno presentato una proposta legislativa che prevede l'obbligo che in ogni comune si metta a dimora, per ogni nuovo nato, un nuovo albero. Una proposta sacrosanta. Nell'ultimo secolo abbiamo così pesantemente impoverito il potenziale biologico del nostro pianeta, ne abbiamo così radicalmente compromesso e indebolito la capacità di rigenerazione, che ogni iniziativa volta ad aumentare, sia pur di poco, sia pur solo quasi simbolicamente, la produzione di ossigeno, è la benvenuta: va sostenuta, difesa, attuata.

L'altra notizia, nei titoli dei giorali, è anch'essa riferita ai neonati. Non si tratta di una promessa, ma di una realtà. Anzi, di una statistica. A Roma, ogni giorno, per un bambino che nasce vengono immatricolate quasi quattro automobili (per la precisione, 3,8).

Un bambino, un albero, quattro automobili. Così non ce la faremo mai. Se la motorizzazione privata prosegue con i ritmi attuali si potrà anche aumentare il numero di alberi da piantare per ogni nuovo nato. Non si troverà più posto per piantarli. Così come già, da molto tempo, nelle città non si trova più posto per passeggiare, poichè le strade i marciapiedi le piazze i viali sono otturati dall'orrida lamiera.

IL NUOVO ANTIREGIONALISMO

Dio sa se siamo teneri con le Regioni. Non abbiamo mancato di criticarne le inerzie, le pigrizie, il burocratismo. Non abbiamo mancato di denunciare il boicottaggio che gran parte di esse hanno esercitato nei confronti di quelle poche leggi di riforma che il Parlamento ha prodotto: dalla "legge Galasso" (in quante regioni vigono piani efficienti ed efficaci formati "con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali"?) alla nuova legge sull'ordinamento degli enti locali (sul fallimento della speranza dell'istituzione delle città metropolitana occorrerebbe pronunciare un'invettiva, non scrivere un articolo). E abbiamo anche sostenuto che il "nuovo regionalismo", di cui tanti parlano e che sembra dover contrassegnare la fase politica che si aprirà dopo le elezioni, ha senso se ha la sua premessa in una seria autocritica del modo (inerte, pigro, burocratico) in cui le regioni hanno fino ad ora funzionato.

Ciò detto, e confermato, noi non siamo perchè si facciano surrettiziamente passi indietro rispetto ai traguardi raggiunti.

Noi non siamo perchè si stravolgano le regole che esistono senza neppure riconoscerlo, surrettiziamente. Noi non siamo perchè alle regioni, quali che siano gli errori in cui sono incorse, si sottraggano clandestinamente i poteri e le competenze che la Costituzione ha affidato loro (bene o male che le esercitino).

Eppure, è proprio questo che è stato fatto non solo dagli onorevoli Botta e Ferrarini, firmatari della legge sull'intervento pubblico nell'edilizia residenziale, ma anche dal Parlamento che, a larga maggioranza, l'ha recentemente approvata.

E' una legge che disciplina cose che al Parlamento nazionale non spettano più, da quando è diventato operativo quell'articolo della Costituzione che attribuisce alle regioni la competenza legislativa in materia di urbanistica: come quando inventa nome, contenuto, finalità e procedure di un un nuovo piano urbanistico "progetto integrato d'intervento"). Con buona pace, tra l'altro, di quanti predicano la semplificazione, delegificazione, snellimento ecc. E' una legge che contraddice perfino una recentissima legge, come dicono gli esperti, di "rango subcostituzionale", quale è la legge 142/1990, poichè sottrae ai comuni la facoltà di approvare la neonata figura pianificatoria.

Si può dire tutto degli onorevoli Botta (DC) e Ferrarini (PSI);non che siano inesperti della disciplina che regola il settore (il primo, del resto è stato fino a ieri presidente della Commissione Ambiente della Camera, e il secondo era sottosegretario ai Llpp), e neppure che siano degli eversori.

Nemmeno si può dire che quello appena dissolto sia stato un Parlamento antiregionalista. Se allora le cose sono andate così, vuol dire davvero che la nebbia che grava sulle istituzioni è fitta come mai non è stata.

IN LIQUIDAZIONE

IL MEGLIO DI UN SECOLO

Fu agli inizi del secolo, dalla tradizione laburista e socialdemocratica della solidarietà operaia, che nacquero in Italia gli Istituti delle case popolari. Fu allora che iniziò, e poi via via si sviluppò, la storia dell'intervento pubblico nell'edilizia volto a consentire l'esercizio del diritto a un tetto per le classi e i soggetti meno abbienti. Nel tempo, si comprese sempre meglio che la finalità dell'edilizia residenziale pubblica non era solo, e neppure prevalentemente, quella di assistere (più o meno temporaneamente) le categorie sociali deboli.

Il ruolo dell'edilizia residenziale pubblica non era solo assistenziale, era anche strategico. Era un ruolo di possibile orientamento del mercato privato: ne avrebbe potuto condizionare (solo che si fosse provveduto a riformare le attuali strutture, portando a conclusione le iniziative legislative da tempo avviate) le tipologie, i sistemi costruttivi, i prezzi. Era un ruolo di possibile guida dello sviluppo urbano e della riorganizzazione della città: ruolo decisivo oggi, che la riqualificazione è divenuta obiettivo centrale e il risanamento urbanistico dei complessi pubblici (spesso a cerniera tra le aree centrali e i quartieri delle nuove periferie) potrebbe diventare davvero determinante. Ed era poi, soprattutto negli ultimi anni, la garanzia almeno oggettiva della presenza di uno stock di alloggi da assegnare in affitto: strumento essenziale dunque, in una società moderna, per una sufficiente mobilità dei soggetti sul territorio.

Tutto questo l'improvvida miopia dei governanti e l'opaca distrazione dei legislatori ha voluto cancellare, con i provvedimenti per la liquidazione del patrimonio pubblico (sia quello residenziale che quello demaniale) approvati mentre nel Palazzo risuonavano, sterili e devastanti, le "picconate". Chissà se c'è qualcuno che si è reso conto che, con quei provvedimenti, si liquidava il meglio di un secolo di Stato sociale.

Venezia, 1 febbraio 1992

La citta' sostenibile

Relazione di Edoardo Salzano al convegno Ambiente urbano delle città d'Europa: La città sostenibile, organizzato da PDS - Direzione nazionale - Sezione Ambiente, EP. PE - Groupe pour la gauche unitaire européenne, ENE - Euronordest - Fondazione in Venezia ; Venezia, 4-5 ottobre 1991

Per città sostenibile intendiamo una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.

1. La tutela dell'ambiente: "precondizione per lo sviluppo

"Ogni lettura di un testo, di un documento - e soprattutto di un documento complesso quale é il Libro verde per l'ambiente urbano - é in qualche modo orientata, mirata. Ogni lettura, insomma, è una interpretazione: una traduzione di quel testo nel linguaggio più vicino alla sensibilità e agli interessi culturali del lettore, e alle concrete esigenze che lo spingono a leggerlo. Molti di quanti hanno lavorato a organizzare questo convegno conoscevano già il Libro verde. Hanno deciso di promuovere una iniziativa pubblica che da esso traesse lo spunto perchè hanno ritenuto che fosse particolarmente utile, in questa fase iniziale della vita del Pds, partire da quel documento, da quella formulazione di temi per molti di noi consueti, per tentar di costruire - in un confronto largo - alcuni elementi di una possibile piattaforma per la sinistra italiana. Nell'ambito di questa lettura, che è indubbiamente soggettiva ma che spero non sia troppo distante da quella autentica, è sembrato a noi di cogliere il centro ideale del documento in una consapevolezza che lo pervade. Nella consapevolezza, cioè, che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente (delle qualità del territorio) non c'é sviluppo della società e della città.

2. Una prassi da rovesciare

"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica": così afferma esplicitamente il Libro verde (p. 51). E non è chi non veda come questa impostazione costituisca un ribaltamento completo non solo della prassi finora (e ancora oggi, nel nostro paese) praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione nelle città, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento della qualità insediativa. Forse sentiremo esporre e argomentare una simile tesi nel corso stesso del nostro convegno. Ma sono certo che nelle comunicazioni e negli interventi che si riferiranno a concrete situazioni locali (penso alle città del Mezzogiorno, ma non solo a quelle) ascolteremo testimonianze dirette sulla pervasiva presenza di una simile, obsoleta concezione del rapporto tra sviluppo e qualità urbana. Sentiremo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in variante o in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o alla ricettività turistica, o a quei "centri direzionali" che da un paio di decenni sembravano abbandonati tra i ferrivecchi dell'urbanistica del boom edilizio.

3. Prima la qualità, poi lo sviluppo

Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità urbana. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente urbano è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico. Molte ragioni concorrono a formulare quest'affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamenteambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica. Rinvio per questo aspetto alla lettura delle chiarissime pagine che il Libro verde dedica all'argomento, e rinviosoprattutto alle comunicazioni presentate da autorevoli ambientalisti, che ascolteremo e leggeremo in queste due giornate. E consentitemi di rinviare, oltre che alla scienza, anche alla letteratura e alla poesia. Consentitemi allora di rinviare anche alla rilettura di alcune delle Città invisibili di Italo Calvino, nelle quali molti di noi hanno trovato l'espressione perfetta dei loro sogni, e dei loro incubi.

Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico" (p. 42).

4. La qualità urbana non è più un lusso

Le vicende di ciascuna delle nostre città (le grandi, le medie, le piccole) lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende produttive di beni o di servizi, è in proporzione diretta con la qualità urbana. E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale, un sito, piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di monumenti e luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti; un'attrezzatura urbana efficiente, che consenta al cittadino di accedere con facilità e comodità ai luoghi urbani e di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta. E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere in una gara in cui non é in gioco un premio simbolico o un primato di mero prestigio, non è in palio un Oscar o un Leone d'oro o una citazione nel Guinness dei primati, ma è in gioco una posta molto più concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza. Il governo del territorio - nel suo versante politico e amministrativo come in quello urbanistico - deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana. Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.

5. Qualità, sviluppo:parole ambigue da chiarire

Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato. Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell'organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere. E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità. Non ho la pretesa di aggiungere alcunchè al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che, sul terreno molto pratico che ci è proprio sia come urbanisti che come politici, se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti. Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sè un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sè un segno positivo del suo manifestarsi.

6. Dallo sviluppo sostenibile alla città sostenibile

In effetti, quando parliamo di sviluppo ci riferiamo a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" (1). Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente. Ma se vogliamo applicare quella definizione all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare - come in questo convegno proponiamo nel suo stesso titolo - di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perchè ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perchè la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua quelità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone %H6%(2)%H6%. Su alcuni rilevanti aspetti di questo trend, e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi che abbiamo proposto per questo incontro: temi ai quali si riferiranno, in modo più o meno diretto, le comunicazioni che saranno illustrate.

7. Il paradosso della mobilità: colpa del "modello funzionalista"?

La crisi della mobilità è forse l'aspetto più appariscente e drammatico, e certamente il più emblematico, della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressochè interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto. Il Libro verde attribuisce la scelta della motorizzazione individuale anche ai limiti della pianificazione urbanistica. Precisamente al fatto che "la separazione spaziale promossa dalla teoria funzionalista lascia poche alternative all'automobile privata". In altri termini, aver basato la pianificazione sul principio della rigida separazione, in zone collegate solo dalle infrastrutture del trasporto, delle varie funzioni urbane (le abitazioni, le industrie, gli uffici, i servizi ecc. ) ha contribuito ad aumentare sia la domanda globale di mobilità sia la necessità di uno strumento flessibile come l'automobile. E' un'osservazione indubbiamente giusta, ed essa coglie una delle ragioni per cui la cultura urbanistica ha da tempo criticato la rigidità della "zonizzazione monofunzionale". E tuttavia è un'osservazione che ha un valore pratico nelle regioni d'Europa dove le città si sono sviluppate secondo la pianificazione urbanistica. Mi sembra che nelle città italiane, e soprattutto in quelle dove la crisi del traffico è più drammatica (come Napoli e Roma, Palermo e Firenze) la causa urbanistica sia da attribuire molto più alla mancata pianificazione e alla conseguente anarchia degli interventi privati abusivi e di quelli pubblici in deroga, che alla severa applicazione dei canoni dell'"urbanistica funzionalista".

8. Occorre "rendere l'automobile un'opzione"

"Quale che sia comunque la miscela di cause che determinal'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti. Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade" (p. 44). Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità". Indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante.

9. Il patrimonio culturale. . .

Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti. Forse non ce n'è alcuna oppure, se c'è, è un'eccezione, ed è allora notevole almeno per questo. Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani (magari oggi criticabili e criticati nelle loro regole di fondo) diligentemente attuati; non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente; non abbiamo ricchezza di parchi e boschi nèefficienza di servizi collettivi; non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente. Non abbiamo, in Italia, ciò che tante altre città europee hanno conquistato. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela. E'allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti. Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione "senza opere" che è provocata dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere. (Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte).

10. . . . e la coda della lucertola

Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica, quando leggo le invettive di Argan o di Cacciari. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proposte di Paolo Costa o di Luigi Scano sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, di promuovere quello che Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione". Ma dispero quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiare ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettaremetropolitane nei centri storici, quando vedo i Fori imperiali di Roma o la Piazza San Marco di Venezia ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà, magari sponsorizzati (come il recente episodio veneziano) da autorevoli istituzioni culturali come la Biennale. Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie. E noi stiamo qui come la coda della lucertola, che si agita ancora quando la lucertola è già morta.

11. I confini della città

Puntare sulla qualità urbana significa indubbiamente guardare alla città con sguardo nuovo. Significa analizzare criticamente la "conurbazione senza confini", che gli anni infiniti del boom edilizio ci hanno regalato. Quella "conurbazione senza confini" che la bella mostra dell'Istituto regionale dei Beni storici e culturali dell'Emilia-Romagna ha qualche anno fa illustrato %H6%(3)%H6%, e la ricerca interuniversitaria condotta da Giovanni Astengo ha puntigliosamente documentato %H6%(4)%H6%. L'assenza di confini certi è ciò che connota la mancanza di identità, di chiarezza di appartenenza, di forma definita e riconoscibile. Ed è infatti ciò che primariamente connota la città insostenibile, costruita dallo spontaneismo e dalla miopia, alleati della speculazione, negli anni della crescita senza forma. Voler raggiungere un sufficiente livello di qualità urbana significa allora anche cercare i confini della città vera, della città umana, della città storica: quei confini tracciati nel centro urbano come nel territorio foraneo organizzato, da antiche culture, in funzione della vita della città. E significa poi intervenire nelle periferie senza forma e senza volto, ridisegnare lì i confini - e la struttura, e le forme - di una città di oggi e di domani nella quale tutti possano riconoscersi, tutti possano ritrovare una identità, una comune cittadinanza.

12. Il mercato ha vinto, ma non basta

I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato. Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa: ha vinto la sua storica tenzone con l'alternativa marx-leniniana. Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili (privi cioè di peculiari caratteristiche individuali e perciò sostituibili l'uno all'altro nell'ambito del medesimo genere), il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali. Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene). Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sè capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che dovevamo necessariamente porre all'inizio di questo convegno, anche se non è a questa relazione che tocca svilupparlo, ma alle comunicazioni che le fanno seguito.

13. La riforma del regime degli immobili: non si può farne a meno

A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile - o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili. Una questione che è tanto più importante trattare in quanto essa è totalmente assente dal Libro verde, di cui costituisce l'unica rilevante lacuna. Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.

Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finchè non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.

Su questa affermazione siamo, io credo, largamented'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinti che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi (e non incorrere una volta ancora in una di quelle dichiarazioni d'incostituzionalità che dal 1968 hanno frustrato i tentativi, o conati, di riforma) una riforma dell'attuale assetto del regime immobiliare debba avere alcuni precisi requisiti; alcuni punti fermi, prodotti e raffinati in una elaborazione collettiva che dura da qualche decennio almeno. Varrà la pena di ricordarli.

14. Le nuove regole per gli immobili

Le nuove regole del regime immobiliare dovrebbero, innanzitutto, riguardare, e regolare contemporaneamente tutti i beni immobili: cioé sia le aree sia gli edifici. Le concrete trasformazioni territoriali e urbane riguardano infatti sempre di più il già urbanizzato e il già costruito.

Naturalmente, una riforma adeguata dovrebbe definire la questione sia per quanto riguarda i valori che per quanto riguarda i poteri. Dovrebbe cioè risolvere, oltre alla questione delle indennità espropriative, anche quella dei cosiddetti vincoli urbanistici. Che è una questione molto semplice e molto concreta: si riduce alla questione del potere, da parte dell'autorità pubblica, di decidere le "destinazioni d'uso", o più precisamente di decidere le trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, che sono ammissibili in tutte le unità immobiliari, nonché i loro tempi e modi.

Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà, è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso leggittimo del bene. Tanto antico e consolidato è questo principio che essoera già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865. Ma non è solo questa la ragione per cui non sembra a me che esso debba essere abbandonato per assumere criteri (quale quello del plafond de densité) che sono stati abbandonati là dove sono stati inventati.

E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità diespropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.

Ma c'é un punto, un requisito, che voglio soprattutto sottolineare. Ciò che ai fini della possibilità tecnica di ottenere una sufficiente qualità urbana più interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.

15. Quale pianificazione per la città sostenibile: un obiettivo. . .

"Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale" (p. 11). E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti. Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata. Una pianificazione, come afferma il Libro verde, che vada al di là della rigidità razionalistica dello zoning, al di là dell'urbanistica di Le Corbusier e della Carta d'Atene. Ma anche una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell' espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro. Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.

16. . . . e alcuni indirizzi

Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità". E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, volta per volta e in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie che altrimenti non sarebbero soddisfacibili.

Se la definizione che prima ho proposto per qualità urbana è condiviso, allora dovremmo convenire che si devono considerare di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.

Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.

17. Il futuro e la politica

"Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde (p. 14). Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico-sociale, non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può appparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.

Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine" (p. 40). Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare alcuniquesiti, indubbiamente inquietanti. E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l'affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la nostra responsabilità, siamo davvero all'altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati - non senza ragioni - di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso il piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov'é sbagliato, o far correre una strada dove non serve, o rivestire d'un retino tecnico una sanatoria che non va concessa.

Per finire, un'ultima domanda. E' davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, nè elettoralmente nè socialmente, perchè ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Anche su questo dovremo insieme riflettere.

NOTE

(1) Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988. Preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinchè uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr. E. Goldsmith e N. Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano.

(2) ". . . quelle pompose Babilonie sono città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: CarloCattaneo, "La città come principio", a cura di M. Brusatin, Marsilio, 1972).

(3) Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, I confini perduti, Graphis, Bologna.

(4) IT. URB. 80, Rapporto sullo stato dell'urbanizzazione in Italia, "Quaderni di Urbanistica informazioni, n. 8, 1990.

Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.

Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai regnatori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini. E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.

E’ una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il ruolo che ogni volta svolge di nuovo, ombra sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. E’ stato facile allora, per Rosi, scegliere fare un attore da un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano

Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, investe il territorio italiano.

Trasformazioni che partono dalla città. Sprawl urbano, città “sguaiatamente sdraiata” sulla campagna, fu la prima denominazione del fenomeno quando si manifestò nel mondo anglosassone. Villettopoli, insediamento disperso, oppure città diffusa, città esplosa, viene denominata oggi in Italia, dai critici più severi o da quanti credono scorgervi i segni di una nuova civiltà urbana. In ogni caso, una marmellata di case e ville e villette e tuguri, mescolati a capannoni e capannoncini, arterie variamente intrecciate e piazzali, shopping centers e rutilanti outlet factories. Le nuove forme informi di quella “repellente crosta di cemento e asfalto” di cui s’indignava Antonio Cederna, che via via cancella la natura e la storia, le testimonianze impresse nel nostro territorio, nella sua forma, nel suo paesaggio.

E partono anche da fuori, dal territorio extraurbano, dove la natura lavora meno disturbata dall’azione superba (e spesso squallida) dell’uomo: si manifesta nelle distese coperte dalle selve e dai boschi, dalla macchia e dai pascoli, dalle campagne coltivate nelle pianure o sulle coste terrazzate o sulle ordinate colline. Là dove le trasformazioni non sono minori e non hanno minore incidenza sul futuro dell’uomo, sulla sua vita, sulla sua sicurezza: sui modi della sopravvivenza di quel vasto deposito di risorse naturali (la terra, l’acqua,la vegetazione e la fauna, la biodiversità, l’energia solare imprigionata dalle masse vegetali) e di memoria e bellezza (i mille paesaggi che compongono la variegata facies della nostra Penisola).

Pochi indagano, misurano, valutano queste trasformazioni, offrendo così informazioni attendibili e sicure a chi deve governare. E pochi dalle informazioni disponibili traggono valutazioni, propongono politiche, suggeriscono azioni. Tra i pochi, Antonio di Gennaro. Questo libretto è un ulteriore testimonianza del suo lavoro e della sua utilità. Lo ha scritto con Francesco Innamorato, con cui da anni esplora, impiegando metodi rigorosi e intuizioni audaci, tecnologie raffinate e appassionate escursioni, i territori rurali delle sue regioni. A cominciare dalla Campania. cui è dedicato questo volume.

Tra tutti gli studi che indagano sulle trasformazioni urbane e territoriali questo lavoro si segnala per due caratteristiche.

In primo luogo, assume come soggetto della sua indagine il territorio. Da mero supporto delle utilizzazioni urbane, delle nuove forme della città, del modo in cui gli uomini soddisfano le loro esigenze di abitazione, movimento, ricreazione, lavoro, oppure delle attività del settore agro-silvo-pastorale e della vita e consistenza delle aziende volte alla produzione, il territorio diventa il protagonista essenziale dell’indagine: la sua storia, la sua forma, la sua bellezza sono il valore implicito nell’analisi.

In secondo luogo, e di conseguenza, attribuisce grande rilievo allo strumento della cartografia: cioè della rappresentazione fedele del territorio. In altre occasioni di Gennaro ha polemizzato con quanti ritengano di poter studiare il territorio, i suoi usi, le sue trasformazioni facendo ricorso unicamente ai moduli descrittivi forniti dalla lettura storica, dalle fonti statistiche, dalla interpretazione economica. In questo, come in altri suoi lavori, conferma come l’uso corretto dello strumento cartografico sia essenziale per comprendere realmente che cosa sul territorio avviene, che cosa lo minaccia, che azioni possono salvarlo.

La Casa delle libertà sta lavorando a una legge urbanistica coerente con gli interessi del proprio blocco sociale. Per comprenderne la natura basta considerarne due elementi.

Il primo è l’abbandono del principio secondo il quale tutto il territorio nazionale deve essere governato mediante atti di pianificazione assunti dagli enti territoriali elettivi. Secondo la proposta le regioni possono invece individuare a loro piacimento sia “gli ambiti territoriali da pianificare”, sia “l’ente competente alla pianificazione”.

Ma la scelta più significativa è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati”. Nella concreta situazione italiana, ciò significa l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.

Questa impostazione è talmente distante da quella non solo della sinistra, ma anche di una corretta tradizione liberale europea, da risultare incomprensibile che, a sinistra e al centro, vi sia ancora chi si attarda in una logica di emendamenti e che addirittura si applauda al ribaltamento della gerarchia tra interesse pubblico e interesse privato (immobiliare). Come fa l’INU, che in un suo documento dichiara di condividere senz'altro che la funzione di governo del territorio “possa essere svolta anche con la partecipazione e il contributo diretto di soggetti privati”.

Intendiamoci. Negare l’impostazione del rapporto pubblico/privato sotteso all’impostazione della Casa delle libertà non significa affatto negare la “contrattazione” (quella esplicita, non quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). Essa fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.

Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno di avere l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e magari contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?

E’ un sistema, quello della pianificazione, che funziona bene? Certo che no. Da molti decenni si propongono le modifiche necessarie. Ma i risultati sono stati raggiunti solo in parte molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire la destra.

Sugli stessi argomenti:

Eddytoriale 36 del 21 gennaio 2004

Eddytoriale 38 del 2 marzo 2004

Eddytoriale 39 del 13 marzo 2004

Per affrontare le questioni poste da Gazzetta Ambiente occorre partire da lontano. Occorre innanzitutto definire l’oggetto attorno al quale ragioniamo: il paesaggio. A me preme allora ricordare che il paesaggio è il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura. Nel paesaggio, nella forma del territorio così come ci appare, natura e storia si integrano variamente nelle varie parti del pianeta. Essi formano così tipi diversi di paesaggio (naturale, agrario, urbano), ciascuno dei quali è caratterizzato da genesi, caratteri, significati, utilità, problemi diversi. È proprio la loro genesi, caratterizzata dalla sintesi tra evento e sito, che definisce quindi l’identità dei luoghi: elemento costitutivo della stessa identità delle comunità, nazionali e locali, che quei luoghi abitano. Prodotto della storia, e identità dei luoghi e delle comunità: questi sono gli attributi del paesaggio che soprattutto mi interessano.

Non sto proponendo qui una particolare interpretazione del paesaggio. Se l’accentuazione del ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi nella comprensione dei suoi valori) è propria di alcuni rilevanti scuole di pensiero (da Emilio Sereni a Piero Bevilacqua, per rimanere in Italia), nella vicenda culturale italiana ed europea il paesaggio è stato oggetto di interpretazioni diverse: da quella estetica a quella storicistiche, dall’”archeologia del territorio” alla “ecologia del paesaggio”. Non credo però che si debba scegliere tra l’una o l’altra interpretazione. Non si tratta dell’espressione di posizioni antitetiche, ciascuna delle quali si contrapponga alle altre, ma della messa in luce di differenti punti di vista, ciascuno dei quali sottolinea uno degli aspetti del paesaggio, rivelandone la ricchezza e la complessità. Il paesaggio, la storia, l’uomo

Sottolineare, come mi sembra giusto fare, il ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi del suo valore) significa porre l’accento sul ruolo dell’uomo. Occorre allora riconoscere che l’intervento dell’uomo sulla natura ha avuto ed ha segni diversi. A volte (in certe epoche, in certe società, in certi luoghi) un ruolo positivo: ha costruito paesaggi (urbani, agrari, naturali anche) ai quali riconosciamo oggi valore d’insegnamento e valore estetico: con la semplice manutenzione, oppure con la formazione di nuovi paesaggi agrari, oppure con la creazione di opere integrate nel paesaggio preesistente, l’uomo ha aggiunto insomma valore alla forma della Terra.

Ma altre volte (con l’incuria e l’abbandono, con l’eliminazione dei segni del passato in nome del profitto immediato, con l’artificializzazione dissennata) ha sottratto valore e distrutto il patrimonio culturale e storico costituito dal paesaggio, ha ridotto la ricchezza della civiltà umana. Una domanda inquietante dobbiamo allora proporci.

È in grado la società di oggi, la cultura che essa esprime, di porsi nei confronti della natura e della costruzione del paesaggio nello stesso modo nel quale si sono posti gli uomini il cui prodotto oggi ammiriamo, e nel quale riconosciamo una componente essenziale della nostra identità? I paesaggi urbani e periurbani la devastazione delle campagne, la distruzione di ambienti naturali, realizzati in Italia nell’ultimo mezzo secolo, non lasciano dubbi in proposito, e invitano alla massima attenzione di fronte alla tentazione di “abbassare la guardia” dell’azione di tutela.

Utilità del paesaggio

Per invertire la tendenza, per imparare di nuiovo a governare la natura senza negarla, occorre che la tutela del paesaggio diventi una priorità sociale. Perché ciò avvenga, è necessario rendere evidente a tutti quali sono le ragioni per cui è socialmente necessario tutelare e arricchire la qualità del paesaggio (dei paesaggi). Perché, insomma, il paesaggio serve?

In primo luogo, il paesaggio è memoria. Il paesaggio è un deposito di storia. In esso è rappresentato e testimoniato il nostro passato, il passato della nostra civiltà. Esso è dunque il fondamento della identità delle diverse comunità che abitano il pianeta (dalle nazionali alle locali). Esso serve (a noi, e alle generazioni future) perché è una insostituibile risorsa della civiltà, è la materia vitale che alimenta il futuro. Basterebbe questo a comprendere come una società che voglia esistere debba custodire il paesaggio come una propria risorsa primaria.

Ma il paesaggio è anche risorsa economica. Sempre più, nell’economia moderna, tendono ad accrescere il loro peso (fino a diventare dominanti) i settori legati alla produzione di “beni immateriali”, tra i quali i comparti legati alla ricreazione e al benessere fisico, al turismo, alla conoscenza e al godimento estetico assumono crescente rilievo. In moltissime aree dell’Italia (e dell’Europa) il paesaggio di qualità è luogo e condizione per produzioni enogastronomiche “di nicchia”, caratterizzate dalla qualità e dall’identità, fondamentali sia lo sviluppo economico e sociale delle aree coinvolte che per la conservazione di valori universali.

A proposito del ruolo economico del paesaggio nei prossimi decenni non va trascurato il peso che può avere per lo sviluppo dell’occupazione in molte regioni italiane un’azione di manutenzione del suolo, di riduzione dei rischi e dei costi del degrado ambientale, di avvio di un’azione di presidio ambientale. Si tratta di ricostituire e manutenere ambienti naturali distrutti dall’incuria dell’uomo (e minacciosi per la sopravvivenza nelle aree a valle del degrado), oppure ambienti caratterizzati da un assiduo rapporto di costruzione del paesaggio agrario.

Alla qualità del paesaggio è legata anche la qualità della vita: La bellezza dei panorami, l’armonia dei luoghi nei quali si svolge la sua vita sono essenziali per il benessere della donna e dell’uomo, del bambino e dell’anziano. Nell’epoca della globalizzazione, la concorrenza tra le regioni e le città assume sempre di più la qualità dell’ambiente (come componente della qualità della vita) come un valore economico da mettere in gioco nel “marketing urbano”. Ciò pone, una volta ancora, l’esigenza economica di migliorare la qualità del paesaggio anche là dove (come nelle periferie urbane) non si è stati capaci di creare qualità nuove, ma solo di distruggere quelle preesistenti.

Indirizzi per la pianificazione

Obiettivo primario è quello di conferire piena efficacia alla protezione e al godimento dei beni paesaggistici (di quelli esistenti e di quelli da realizzare) da parte delle generazioni presenti e future. La pianificazione territoriale e urbanistica, come insieme di metodi e strumenti volti ad assicurare coerenza alle trasformazioni del territorio garantendo trasparenza e partecipazione al processo delle decisioni, è l’ambito entro il quale tale obiettivo può essere raggiunto.

A me sembra particolarmente significativo, da questo punto di vista, il modo in cui la legge 431/1985 (la cosiddetta Legge Galasso) ha posto le premesse per innovare il sistema di pianificazione. La legge è stata attuata solo parzialmente, e spesso la sua attuazione è stata una elusione delle sue finalità. Ma l’esperienza di attuazione di quella legge (là dove un’attuazione positiva vi è stata) induce ad sottolineare, e a proporre alcuni indirizzi particolarmente significativi. Li enuncerò in termini molto sintetici:

La “attenta considerazione delle valenze paesistiche e ambientali”, che la legge 431 chiede alla pianificazione ordinaria perché abbia efficacia, deve diventare una costante nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale.

Più precisamente, la prima fase della pianificazione deve essere costituita dall’assidua ricognizione delle qualità naturali e storiche del territorio, come si tentò di fare nell’esperienza della Regione Emilia Romagna del 1985-86 e come hanno prescritto, in modi più o meno chiari, le nuove leggi urbanistiche della Toscana e della Liguria.

La ricognizione delle qualità del territorio deve condurre precettivamente all’individuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili con le caratteristiche proprie di ogni unità di spazio, come condizionenon negoziabile per ogni decisione sulle trasformazione da promuovere o consentire;

La tutela attiva del paesaggio richiede che nel processo di pianificazione vengano integrati tutti gli strumenti disponibili: le politiche e le azioni di settore, gli incentivi finanziari, la partecipazione a programmi e progetti nazionali e sovranazionali, il ricorso all’imprenditoria privata. Questi strumenti non devono essere adoperati in contrasto alla pianificazione oppure come alternativa ad essa, ma - appunto - come suoi strumenti.

Sottolineare l’utilità della pianificazione (come mi sembra indispensabile) significa riconoscere la parzialità, e quindi l’insufficienza della protezione passiva costituita dai vincoli di tutela). Ma credo che il clima culturale e morale che stiamo attraversando (gli anni Ottanta non finiscono mai!) impongano al tempo stesso di ribadirne l’utilità. I vincoli, ancorché non sufficienti, sono utili sotto un duplice profilo. In primo luogo, il vincolo è necessario come difesa temporanea, in attesa che la pianificazione consenta di articolare le politiche, sia attive che passive, di tutela. In secondo luogo perché (come dimostra l’esperienza della legge 431/1985) il vincolo agisce strumentalmente come sollecitazione alla pianificazione, e quindi alla possibilità di una tutela più compiuta e di una fruizione dei beni paesaggistici che ne garantisca la conservazione.

Sussidiarietà e intesa

Un ultimo punto vorrei brevemente toccare. La tutela e valorizzazione del paesaggio esprime una pluralità d’interessi collettivi: da quelli nazionali a quelli locali. Occorre evitare sia il rischio del conflitto paralizzante sia quello della negazione di uno o l’altro degli interessi coinvolti.

Il principio di sussidiarietà è il criterio utilizzabile per individuare a chi spetta la responsabilità della scelta in relazione agli oggetti e aspetti su cui occorre decidere.. Lo è, beninteso, se è assunto nella sua accezione corretta, quella elaborata nella recente cultura europea. Non il principio di sussidiarietà inteso come “tutto il potere alla periferia”, ma come riconoscimento del fatto che per ogni decisione c’è un livello giusto al quale quella decisione può essere presa efficacemente. Ma valga il testo ufficiale:

Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità [1],

È davvero difficile pensare che il paesaggio, essendo elemento fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, non rientri pienamente nelle responsabilità (e delle competenze) dello Stato, essendo appunto questione che si pone a una scala nazionale.

Ma se gli organi centrali dello Stato hanno la responsabilità dell’azione di tutela, essi hanno anche quella di promuovere la concorrenza dei poteri nell’azione di tutela. Se la responsabilità primaria in materia di paesaggio spetta allo Stato, anche i livelli di governo regionale e locale sono legittimati (credo d’averlo argomentato a sufficienza) a concorrere con esso nella azione di individuazione, definizione, tutela.

Come può esercitarsi la concorrenza nel campo della pianificazione territoriale e della tutela del paesaggio? Anche qui vi è un principio, e un istituto già introdotto nel nostro ordinamento, che possono aiutare. È il principio secondo il quale gli strumenti di pianificazione, laddove disciplinino beni dello Stato in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possono diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato. Questo principio, del resto, stato introdotto recentemente nell'ordinamento, seppure limitatamente alla pianificazione provinciale, dall'articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, il quale stabilisce che:

la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale [...] assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.

Come propone l’associazione Polis, tale testo normativo può costituire, può essere esteso al di là del suo specifico contesto, e costituire un modello sulla cui base affrontare compiutamente la questione. È un modello, del resto, che è già stato più volte proposte e applicato in concrete esperienze di governo del territorio e può dar luogo, come è stato osservato, a utili semplificazioni e snellimenti delle procedure. Ciò che è nell’interesse di tutti.

[1] Trattato di Maastricht, art.3B.

LA TELENOVELA URBANISTICA

E' davvero un serial la vicenda del regime degli immobili: più lungo di Dinasty, più brutto di Beautiful, più angoscioso di Twin Peaks. Passerà ancora molto tempo, temiamo, prima che quella vicenda possa considerarsi conclusa ed esser raccontata come un vero, nobile romanzo. Passerà molto tempo (é questo che più conta) prima che vi possa essere certezza del diritto sui contenuti economici delle trasformazioni urbane, e chiarezza di poteri nel loro governo.

Mentre scriviamo, il farraginoso elaborato risultante dalla originaria proposta dell'on. Cutrera e dalle abbondanti superfetazioni prodotte dal sovrapporsi di infiniti intarsi emendativi (nei quali si é particolarmente distinto il relatore alla Camera dei Deputati, l'on. Guido D'Angelo) é in discussione nella Commissione Ambiente della Camera.

L'ultimo testo che conosciamo (il lettore lo troverà nel dossier di questo numero) ha una particolarità interessante: apre una finestra sul futuro, ci fa comprendere quale sarà, secondo la volontà della regia, il contenuto delle ultime puntate del serial. E' racchiuso nell'art.22, intitolato "Norme transitorie". (E' sempre in questi angolini nascosti delle leggi che bisogna guardare, per comprendere ciò che realmente avrà efficacia. Ricordate il famoso "anno di moratoria" della legge ponte del 1967, che riempì l'Italia di tanto cemento quanto non se ne era realizzato in un decennio?).

L'articolo 22 afferma, al primo comma, che "le disposizioni della presente legge relative alla determinazione dell'indennità di espropriazione per le aree edificabili nonché del contributo sulla maggiore utilizzazione edificatoria hanno applicazione dopo diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge".

Avete capito bene. Secondo il legislatore questa legge, che ha impegnato centinaia di migliaia di ore di lavoro di senatori e deputati, quando finalmente sarà stata approvata da entrambi i rami del Parlamento e, munita dela firma del Presidente della Repubblica, sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, non entrerà in vigore: resterà sospesa per un anno e mezzo. In questo periodo si ricorrerà per gli espropri, come stabilisce il medesimo articolo, alla legge di Napoli del 1885.

Perché un così lungo periodo di moratoria? Chi lo chiedesse ai parlamentari, si sentirebbe probabilmente rispondere che questo é il tempo occorrente per mettere a punto i meccanismi necessari perché la legge funzioni. Noi saremo certamente maliziosi e irrimediabilmente "dietristi", ma immaginiamo uno scenario diverso, meno europeo e più levantino.

La legge sarà approvata. Il sen.Cutrera, autore dell' originaria impostazione della nuova normativa (ahimé quanto degradata nel tempo!), uscirà formalmente vincitore dalla vicenda. Come Bucalossi, come Galasso, avrà anche lui la "sua" legge. Potrà adoperare l'esito della sua iniziativa per raccogliere i consensi (indubbiamente meritati per le qualità intrinseche del personaggio) nel corso della vicina campagna elettorale.

Nel frattempo, si applicherà per gli espropri una legge sperimentata (mai ricusata dalla Corte costituzionale), per un periodo transitorio. Alla scadenza, una provvidenziale leggina, approvata da un distratto Parlamento, ne prorogherà per la prima volta gli effetti. Di proroga in proroga, la norma transitoria diventerà di fatto permanente. Così, anche i democristiani, che le elaborate invenzioni del sen. Cutrera non hanno mai convinto, e che preferiscono la tranquillità del vecchio alle incertezza del nuovo, avranno vinto.

Una soluzione all'italiana. Una soluzione della quale, nel merito di entrambe le sue conseguenze, non avremmo da dolerci: perché il sen. Cutrera merita certamente la rielezione, e perché la legge di Napoli é certamente meglio di quel pasticciaccio che il Parlamento ha prodotto. Peccato, però, che la riforma del regime degli immobili si allontani ancora nel tempo, che la telenovela debba proseguire ancora per tanti, tanti anni. (75 righe)

IL PRG AUTODEROGANTE

Non solo nelle leggi: anche nei Prg bisogna guardare con attenzione negli angolini nascosti delle norme. Sotto il vestito magari accattivante delle tavole e dei disegni, dietro le intenzioni argomentate e convincenti delle relazioni, si nasconde spesso la peggiore deregulation urbanistica. Vogliamo pubblicarne un esempio. Non perché sia eccezionale, o eccezionalmente mistificatorio. No. Anzi, proprio perché, nella sua innocenza, é in qualche modo tipico.

Parliamo del Prg di Rimini, in corso d'adozione. Le sue norme contengono un comma che riproduciamo integralmente, dall'art.2.01. "Il Consiglio comunale (...), previa individuazione e perimetrazione delle aree, approva progetti speciali per servizi e attrezzature di generale interesse volti a sostenere e riqualificare l'ambiente nonché a promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano, su iniziativa di soggetti pubblici e/o privati, anche in variante alle previsioni di Prg secondo le speciali procedure semplificate previste dalle leggi".

Se abbiamo capito bene, il Consiglio comunale può accettare proposte in contrasto al Prg ("anche in variante alle previsioni"), anche di privati, che dichiarino di voler realizzare un "progetto speciale", purché esso sia atto a "promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano". Dove il Prg prevede servizi di quartiere, o un parco pubblico, o una zona agricola, il proprietario, o un qualsiasi altro soggetto d'accordo con lui, può quindi proporre un edificio, magari "intelligente", per uffici, o un centro congressuale, o un villaggio turistico, o una succursale di Disneyland?. Sembra di si.

Gli urbanisti si lamentano sempre delle deroghe ai piani introdotte dalle leggi. Era ora che qualcuno si decidesse a fare un piano capace di autoderogarsi. (32 righe)

S.D.O. O NO?

La previsione strutturalmente più significativa del Prg di Roma del 1962 era costituita da quello che, negli anni successivi, fu definito "Sistema direzionale orientale" (Sdo). Si trattava di un "asse attrezzato" (nel disegno di allora, una grande autostrada urbana), e da "centri" e "zone" direzionali. Collocato nelle aree libere a metà strada tra la cintura ferroviaria che stringe i quartieri centrali e il Grande raccordo autostradale, lo Sdo avrebbe dovuto costituire il "nuovo centro città", rompere l'espansione a macchia d'olio e svolgere una funzione strategica per la sua riorganizzazione.

Molti anni sono passati da allora. Lo Sdo non é stato realizzato. C'é chi dubita sulla validità attuale della proposta. C'é invece chi ritiene che, opportunamente ridimensionato in alcune sue previsioni (quelle infrastrutturali e quelle volumetriche) e riconvertito nelle sue funzioni, abbia ancora un'importanza strategica per risolvere tre problemi della città.

Tre problemi nodali per il suo futuro. Si tratta del problema della mobilità, se lo Sdo servirà a riorganizzare la rete della grande viabilità nel settore orientale abbandonando le ipotesi autostradali e, soprattutto, costruendo prioritariamente alcune nuove linee del trasporto collettivo su ferro. Si tratta del problema della riqualificazione dei giganteschi e slabbrati quartieri circostanti, poveri di qualsiasi attributo di civiltà. DE si tratta infine del problema del decongestionamento del centro storico, mediante il trasferimento dei ministeri e la sostituzione a questi di utilizzazioni "leggere".

Numerose ipotesi sono state avanzate per le modalità della realizzazione dello Sdo. Scartata, "naturalmente", quella di attrezzare gli uffici comunali, scartate per fortuna anche quelle basate sui criteri della lottizzazione convenzionata, si é approdati a una soluzione che, nonostante un'ambiguità di fondo nel rapporto tra pubblico e privato, non é priva di una sua convincente efficacia. Si é deciso cioé di affidare in concessione a un consorzio di imprese la progettazione urbanistica del sistema e di espropriare preliminarmente le aree. Il finanziamento per l'avvio dell'operazione é già stato stabilito dalla Legge speciale per Roma Capitale.

Nell'ottobre scorso sono state firmate le convenzioni che danno il via all'operazione. Nello stesso mese si sono avute tre notizie. La prima: il Comune avrebbe concesso al Ministero della Difesa di costruire un edificio militare (... mc circa) in una vastissima area dello Sdo, ponendo così una pesantissima ipoteca sulla sua fattibilità. La seconda: con una interpretazione lassista delle norme il Comune starebbe consentendo la realizzazione di numerosi fabbricati direzionali nelle zone industriali, favorendo in tal modo l'ulteriore espansione del "sistema direzionale diffuso" che già caratterizza la Capitale. La terza: sarebbe definitivamente confermato lo spoostamento del Ministero della Sanità sulle rive sud del Tevere, alla Magliana.

Sembra insomma che il Comune abbia deciso, senza dichiararlo esplicitamente ma lasciandolo intendere nei suoi atti concreti, di abbandonare lo Sdo. Ma e' mai possibile realizzare una simile opera contro la volontà del Comune? Non sembra proprio. Tanto più, se si considera che il nuovo significato che allo Sdo si vuole dare, la soluzione insomma di quelle tre questioni sopra ricordate, rendono indispensabile che il Comune, contestualmente alla progettazione dello Sdo, proceda nella formazione degli atti necessari per la pianificazione del centro storico e dei quartieri periferici, nonché nel completamento del sistema della mobilità.

C'é chi ritiene che, l'anno prossimo, la commemorazione del trentennale del Prg del 1962 debba avere, come suo piatto forte, la dichiarazione dell'abbandono dell' avventurosa proposta dello Sdo. E si comincerà allora a discutere se le aree ancora libere dovranno essere tutelate e destinate a parco, oppure se dovranno essere edificate in continuità con u quartieri limitrofi. Si troverà, comunque, un compromesso. Tornerà (é facile prevederlo) la proposta della lottizzazione convenzionata. I proprietari, piccoli e grandi, vecchi e nuovi, tireranno in ogni caso un sospiro di sollievo. I grandi problemi della funzionalità della Capitale d'Italia aspetteranno qualche decennio ancora.

E' PASSATO UN QUARTO DI SECOLO

Fu venticinque anni fa. Da Agrigento a Venezia, in pochi mesi l'Italia fu squassata da frane e alluvioni che rivelarono la fragilità della stessa base fisica della vita sociale e personale degli italiani.

E' passato un quarto di secolo. Molte parole, molte indagini, molte proposte, molte iniziative legislative. Ma nel concreto, pochissime cose sono avvenute che abbiano valso davvero a sanare le ferite allora aperte. E pochissime cose sono cambiate (qualcosa, forse, anche in peggio) negli atteggiamenti morali e culturali, e nel modo di di operare con gli strumenti della tecnica e dell'amministrazione. Non a caso, la stampa ha ricordato il novembre 1966 sotto il segno d'una sostanziale continuità.

Per conto nostro vogliamo ricordare il quarto di secolo che da allora é trascorso pubblicando stralci di un editoriale che Giovanni Astengo scrisse allora su Urbanistica (n.48). Ci sembra purtroppo che quelle parole valgano ancora.

Mi sembra che alcune cose avvenute nel nostro paese negli ultimi tempi, non soltanto offrano più d'una conferma alle tesi che abbiamo esposto nei documenti preparatori di questa Conferenza, ma soprattutto illuminino con una luce diversa, più cruda e più chiara, alcune delle affermazioni che abbiamo fatto, delle analisi che abbiamo avanzato, delle esigenze che abbiamo prospettato.

Voglio soffermarmi brevemente su due punti, tra loro stretta­mente collegati: le tendenze e le iniziative che si manifestano da parte delle grandi aziende capitalistiche, e il ruolo necessario e possi­bile del tessuto delle autonomie locali.

Già nell'autunno scorso avevamo individuato e denunciato, pra­ticamente in tutti i documenti preparatori di questa Conferenza, il senso che assumevano le iniziative delle grandi aziende monopoli­stiche, pubbliche e private, nel settore del' turismo e del tempo libero. A quelle iniziative noi attribuivamo un significato negativo non soltanto per gli effetti che producevano all'interno del settore, ma anche per il più grande disegno politico che ad esse vedevamo sotteso.

Quel disegno politico è diventato oggi del tutto esplicito e chiaro. Con il « programma di emergenza » di Rumor e Giolitti, con i « progetti speciali » predisposti su misura per la FIAT, la Monte­dison,l'Efim, l'IRI, l'ENI, con l'istituto della « concessione » pro­pagandato dai professorini del Ministero del Bilancio, noi abbiamo visto manifestarsi, in tutta la sua globalità e coerenza, una strategia di lungo periodo; una strategia che mira, con l'alibi di una presunta e non dimostrata « efficienza » e « modernità », a utilizzare strumen­talmente la grande domanda insoddisfatta d'investimenti sociali per sostituire, a una Repubblica fondata sugli istituti democratici e sul primato della politica, uno Stato fondato sugli interessi immediati delle grandi aziende monopolistiche e sul primato del profitto.

Questo è il senso che il nostro partito, con la grande maggio ranza delle Regioni e del movimento autonomistico, con il movimento sindacale, ha riconosciuto e contestato nelle proposte del « piano d'emergenza ». Ed è grazie all'opposizione che in tal modo è venuta a determinarsi, che l'ambizioso progetto dei Cefis, degli Agnelli e dei Fanfani sembra oggi ridimensionarsi e offuscarsi. Ma credo che commetteremmo un grave errore se ritenessimo d'aver già vinto, con il successo d'una battaglia, una guerra che è solo alle prime scara­mucce.

In realtà, nell'analizzare il ruolo delle grandi aziende monopo listiche nel settore del turismo e del tempo libero, noi non abbiamo affatto sottovalutato gli elementi che forniscono, alle proposte di

quelle aziende, una oggettiva forza di convinzione e una presa reale. Di fronte a una offerta turistica atomizzata, irrazionale, largamente dominata da elementi di speculazione, divoratrice delle risorse natu­rali e ambientali; di fronte all'incapacità di questo tipo di offerta di fornire una risposta adeguata alla domanda di massa del tempo libero, le grandi aziende monopolistiche hanno veramente buon gioco.

Occorre fornire - abbiamo detto - una risposta che sia alterna­tiva rispetto a quella del monopolio, ma che sappia misurarsi con la novità dei problemi e con la nuova qualità e quantità della domanda. Una risposta che sia basata su un ruolo nuovo dell'impresa privata piccola e media, non più intrisa di elementi di speculazione e di rapina; che sia basata su una rigorosa ed efficiente organizzazione della domanda, gestita dalle associazioni democratiche, dai sindacati, dagli enti locali, da una scuola profondamente rinnovata; che sia basata, soprattutto, su una capacità nuova dei Comuni e delle Regioni di amministrare il territorio e le sue trasformazioni e utilizzazioni, adoperando tutti i possibili strumenti per rendere concreto il prin­cipio, per noi irrinunciabile, che l'ambiente, la natura, il paesaggio, la cultura, rappresentano aspetti diversi di un patrimonio collettivo e sociale, che non può essere utilizzato a vantaggio di pochi privi­legiati.

Ora il punto che voglio sottolineare è che la nostra capacità di reagire vittoriosamente e di battere fino in fondo la strada delle grandi centrali capitalistiche è interamente affidata alla nostra capa­cità di realizzare nel concreto, e anche in tempi molto brevi, quella alternativa che proponiamo.

Non nascondiamocelo, compagni, poiché faremmo un errore che pagheremmo a caro prezzo: non solo l'alibi, ma la concreta occasione par passare, è fornita alle grandi aziende dallo stato profondo d'inefficienza, d'incapacità amministrativa, tecnica ed ecenomica, in cui 25 anni di gestione democristiana del potere hanno lasciato precipitare gran parte degli strumenti dell'azione pubblica, a livello degli organi centrali dello Stato come a livello delle Amministrazioni locali.

Non è un caso se le :grandi aziende capitalistiche hanno scelto come terreno di pascolo il Mezzogiorno e le zone montane. Non è un caso se quelle stesse aziende si presentano invece in punta di piedi

e col cappello in mano nelle regioni dove il tessuto dei poteri locali è forte, consolidato dalla tradizione e dall'esperienza politica, radicato nelle masse popolari, consapevole ed efficiente.

Per battere l'avversario di classe nelle forme in cui esso oggi è costretto a presentarsi, dobbiamo fare un salto di qualità. Un salto di qualità che non può manifestarsi soltanto con una nuova e diversa produzione legislativa, ma che si realizza soprattutto nella gestione e nell'amministrazione quotidiana, e che sa però trasfondere in questa la carica politica e ideale che sappiamo impiegare nelle grandi battaglie.

Dovremmo fare un'analisi seria, io credo, degli strumenti che abbiamo già conquistato nelle battaglie generali e nazionali, e che non riusciamo ad utilizzare; scopriremmo di avere un arsenale coperto spesso di polvere. Voglio fare un esempio solo. Nel 1971 abbiamo conquistato, con una lotta lunga e faticosa, una legge che ci con­sente - fra l'altro - di espropriare, praticamente senza limitazioni, tutte le. aree da destinare agli insediamenti turistici e al tempo libero. Con questa legge il Parlamento ha messo nelle mani dei comuni - abbiamo detto - « uno strumento che può essere deci­sivo non solo per abbattere la speculazione fondiaria vecchia e nuova ma anche per promuovere forme nuove e avanzate di turismo ».

Ebbene, oggi, in Italia, quanti Comuni sono in grado di uti­lizzare e gestire questo strumento? Quanti Comuni hanno la capacità tecnica ed amministrativa, oltre che politica, di sfruttare le possibilità che l'art. 27 della 865 loro offre? Quante Regioni hanno promosso una politica di incentivazioni finanziarie e procedurali per aiutare e sollecitare i Comuni in questa direzione? Quanto impegno politico si è speso, abbiamo speso, per aiutare i Comuni a rafforzare le pro­prie strutture tecniche, per persi concretamente in una dimensione comprensoriale, per rendersi capaci di utilizzare gli strumenti strap­pati dal movimento di lotta?

E' indubbio che possiamo registrare più di una iniziativa e più di un successo in questa direzione. Ma a parte il fatto che spesso adoperiamo più spazio; sui nostri giornali, per illustrare le mirabilia di un impianto di depurazione che per spiegare i contenuti e gli strumenti di esperienze avanzate nella politica del territorio, a parte questo, mi sembra che stentiamo ancora a porre in modo genera­lizzato il problema della rifondazione, del rafforzamento, del salto di qualità degli enti elettivi come un grande e centrale problema poli­tico e ideale.

Credo che sia necessario un deciso impegno del partito, di noi tutti, in questa direzione. Solo a questa condizione, solo alla condi­zíone di riuscire a costruire un tessuto di istituti elettivi democratici ed efficienti in tutto il Paese, e soprattutto là dove esso è oggi più stentato e precario, solo così potremo riuscire a far passare la linea alternativa che proponiamo per i problemi del turismo e del tempo libero.

Non è un caso, d'altra parte, se oggi registriamo un attacco con­centrico contro 1e autonomie locali, o più in generale, contro gli istituti rappresentativi. Se ci riflettete, noi siamo riusciti a porre al centro dell'attenzione del paese una serie di problemi, siamo riusciti a far emergere nelle masse lavoratrici e popolari una serie di esi­genze, siamo riusciti a far prevalere nell'opinione pubbblica intera una serie di proposte e indicazioni nostre, che realmente sono capaci di mutare il quadro complessivo della società italiana. Quando noi parliamo - nel caso specifico di cui qui ci occupiamo - di un turismo come diritto e come servizio sociale, noi realmente intro­duciamo una proposta rivoluzionaria, una proposta che tende a tra­sformare fin dalle radici il modo in cui fino a oggi è concepito il turismo e il tempo libero. E' una reale e integrale alternativa rispetto a un tempo libero dominato dall'individualismo, dal privatismo e dal privilegio, a un turismo come evasione e come fuga dall'alienazione del lavoro verso un'alienazione diversa e complementare

E questa nostra proposta è forte, ed è virtualmente vincente, non solo perché è l'unica pienamente omogenea al carattere sociale della classe operaia, ma anche e soprattutto perché offre una base e uno strumento serio alla politica delle alleanze della classe operaia: nei confronti dei ceti medi produttivi, che solo in una seria program­mazione possono trovare l'occasione per uno sviluppo senza crisi laceranti; nei confronti delle popolazioni residenti nei luoghi del turi­smo, che solo in un turismo strettamente integrato alle economie.

Pianificazione

Scritto per la rubrica “Glossario” de I frutti di Demetra, bollettino di storia e ambiente, n. 5/2005, marzo 2005. Tratta, molto sinteticamente, della pianificazione territoriale e urbanistica e della pianificazione strategica

La moderna pianificazione nasce sostanzialmente quando l’affermazione del sistema capitalistico di produzione, e il parallelo affermarsi della borghesia, si trovano a fare i conti con alcune contraddizioni nel funzionamento della città: contraddizioni che la spontaneità del mercato - rivelatasi decisiva per sviluppare la produzione - non solo non riusciva a risolvere ma anzi aggravava.

Oggi generalmente si intende per pianificazione territoriale ed urbanistica il metodo, e l’insieme degli strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni. Le trasformazioni territoriali oggetto della pianificazione sono quelle, sia fisiche che funzionali, suscettibili (singolarmente o nel loro insieme) di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma di parti significative del territorio, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

Gli obiettivi posti alla pianificazione variano in relazione al contesto storico. Tutti i possibili sistemi di obiettivi oggi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.

Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazione sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.

Uno dei compiti della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti. Questa è la ragione per cui in Italia la pianificazione è sempre stata (fino alle recentissime rotture costituzionali) competenza specifica ed essenziale degli istituti elettivi di primo grado, nei quali si esplica nel nostro paese la democrazia; e anche la ragione per cui, nell’ambito delle istituzioni elettive, le scelte di maggior respiro (quelle relativa agli strumenti di pianificazione generale, dai piani regolatori comunali a quelli territoriali provinciali e regionali) sono state di competenza degli organismi consiliari, nei quali sono rappresentate anche le minoranze (scelta contraddetta da recentissime, e improvvide, leggi regionali, come quella della Campania).

La pianificazione territoriale e urbanistica nei termini in cui l’ho ora sintetizzata è soggetta in Italia a tensioni, che si esprimono sia in tentativi di adeguamento alle nuove esigenze e ai nuovi strumenti che è possibile impiegare, sia a tentativi di radicale stravolgimento.

Tra i primi collocherei gli sforzi che molte regioni hanno fatto, soprattutto tra il 1995 e il 2000, per introdurre nella legislazione urbanistica procedure e strumenti volti a privilegiare la considerazione degli aspetti ambientali e culturali, ad aggiornare sistematicamente le scelte sul territorio sulla base del ruolo rilevante dei quadri conoscitivi e del monitoraggio degli effetti, a snellire le procedure conservando, e anzi rafforzando, il carattere democratico e la trasparenza del processo delle decisioni.

Tra i secondi porrei in grande evidenza i tentativi compiuti (e malauguratamente vicini a cogliere l’obiettivo, se passa la cosiddetta Legge Lupi) di sostituire all’urbanistica “autoritativa” o “regolativa”, cioè tradotta in regole d’azione sul territorio stabilite dai poteri pubblici espressi dalle istituzioni democratiche, l’urbanistica “negoziata” con i poteri economici dominanti nei differenti contesti territoriali; quindi, in Italia, soprattutto con la proprietà immobiliare e con gli interessi finanziari ad essa legati.

In una posizione intermedia porrei i tentativi, di introdurre, prevalentemente accanto o indipendentemente dalle procedure tradizionali di pianificazione, procedure e strumenti definiti di “pianificazione strategica”. Su questa vale la pena di soffermarsi.

In Italia spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deforma il significato, il contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Anche per questo è utilissima una rubrica, come “Glossario”, che si preoccupa di stabilire il senso delle parole. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jacques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche nella sinistra si sia adoperato quel termine per dire “privato è meglio” sconcerta. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo severo significato reale. Così vale per la parola “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.

Sappiamo che è un termine relativo all’arte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).

Nel campo del territorio e del suo governo la strategia ha allora a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro. E assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso: deve fare i conti con il sistema delle istituzioni, nelle quali il consenso oggi si esprime.

Ulteriore segno dell’italiana confusione dei significati, da noi per pianificazione strategica si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni

Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.

Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorre, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, nella pratica delle istituzioni e impadronendosi di esse e delle loro regole, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti della pianificazione, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.

Edoardo Salzano, 27 febbraio 2005

Ho due ragioni per essere contrario alla costruzione dell’auditorium a Ravello: 1) l’intervento è illegittimo, e battersi per ottenerlo significa avallare la pericolosissima teoria e prassi secondo cui se una legge ostacola ciò che voglio fare, beh, abroghiamola o scavalchiamola; 2) è sbagliato perché non ha senso modificare un paesaggio già perfetto di per sé, che non ha bisogno d’aggiunte.

La prima ragione mi sembra la più grave. Che l’intervento sia in contrasto con la legge regionale 35 (1987), che ha approvato il piano urbanistico territoriale della Costiera in attuazione alla legge Galasso, non è questione di cui si possa dubitare. Lo ha spiegato con molta chiarezza Alessandro Dal Piaz sul Corriere del Mezzogiorno del 14 gennaio 2004. E se qualcuno di quelli che hanno dato il parere favorevole avesse letto il testo della legge regionale e quello del Put non staremmo a questo punto. Del resto, già in una precedente occasione il Tar aveva rilevato che la previsione dell’auditorium è in contrasto con la legge: con l’ordinanza 1350 del 5 luglio 2000, «ritenuto che sussiste il contrasto con il Put» , il Tar sospese la delibera commissariale di adozione del Prg.

Salvatore Settis scriveva su la Repubblica del 23 gennaio: « Chi studierà la svalutazione delle istituzioni? » . E osservava che « l’Italia di questi anni è un eccellente laboratorio d’indagine per chi voglia cimentarsi col tema; specialmente per chi voglia studiare come possano essere le istituzioni a svalutare se stesse, e utilizzando meccanismi istituzionali » .

Questo di Ravello è proprio un caso tipico dell’anomalia italiana descritta da Settis: la Regione promuove un Accordo di programma per tentar di annullare, in un singolo caso, una legge che, viceversa, dovrebbe essere uguale per tutti.

Mi sembra molto grave, e mi dispiace molto che persone come Paolo Sylos Labini e Nicola Cacace, Massimo Cacciari e Franco Barbagallo, Giovanni Valentini e Giorgio Ruffolo — e tanti altri — non se ne siano accorti. So che il clima generale è questo, che la tendenza a privilegiare l’interesse specifico rispetto alla legge è forte, ma a maggior ragione mi preoccupa che nessuno — tra i difensori dell’auditorium — si sia reso conto che anche in questo caso la difesa della legalità deve essere la prima preoccupazione.

Ho parlato e parlo di auditorium, e non di progetto di Niemeyer, perché il progetto non è di Niemeyer. La questione non è di grande rilievo, ma ha avuto un peso strumentale. Non credo che 165 intellettuali si sarebbero spesi per un appello se si fosse trattato di difendere, che so, un progetto dell’architetto Rosa Zeccato. Eppure, stanno difendendo proprio il progetto di Rosa Zeccato, ispirato da uno schizzo di un architetto che, sia pure famoso ( e bravo a costruire nuove città nel deserto), a Ravello non ha mai messo piede. Ce lo dice candidamente il sindaco di Ravello, in un suo ampio intervento sul Corriere del Mezzogiorno del 15 gennaio.

Che il progetto sia di Niemeyer o dell’architetto Zeccato ( che immagino bravissima) a me peraltro poco importa.

Sul merito del progetto per me il punto è un altro. Io sono convinto che non tutte le parti del territorio della nostra civilissima Italia abbiano bisogno di essere trasformate con l’aggiunta di nuovi oggetti. E a me sembra che Ravello abbia una qualità che non tollera né aggiunte né sottrazioni ( salvo forse quelle poche opere abusive che qui o là s’intravedono).

Vogliamo Niemeyer? Benissimo. Ha costruito a Segrate, chiamiamolo a fare un progetto a Scampìa o a Nola o a Soccavo, se la legge e i piani lo consentono. Ma lasciamo in pace Ravello, e per i concerti utilizziamo Villa Rufolo, Villa Cimbrone, e magari San Giovanni del Toro.

Ascoltati gli interventi di quanti sono intervenuti alla trasmissione della Rai Ambiente Italia ( ieri pomeriggio, ndr),

devo dire che le mie preoccupazioni sono aumentate. Non mi hanno convinto le difese della bellezza dell’oggetto, perché non è questo che conta: non stiamo parlando di un quadro attaccato a un muro. Né mi hanno convinto le teorizzazioni di chi sostiene ancora oggi ( come si sosteneva cinquant’anni fa a proposito dei centri storici) che dappertutto si può trasformare a condizione che la trasformazione sia « bella » . Mi ha preoccupato il fatto che il tentativo di scavalcare la legge ( perché è questo che si è fatto) sia stato ridotto dal rappresentante di Legambiente a una questione di « prob lemi legali » , come se si trattasse di un affare di condominio o di eredità. Mi ha preoccupato che si sia addirittura proposto al Consiglio regionale ( come ha fatto il direttore del Wwf) di fare una legge eccezionale per Niemeyer. Dopo il « Lodo Schifani » siamo al « Lodo Benedetto » ? Il paesaggio non si salva se si avalla la teoria secondo la quale la legalità è qualcosa che si può aggiustare, come certi giudici disonesti, pagati da certi avvocati malfattori, aggiustavano certi processi.

Edoardo Salzano

Ha vinto la ragione. La pressione dei cittadini veneziani e del Comune, l'appello dell'opinione pubblica internazionale e della cultura europea e mondiale, il solenne monito del Parlamento europeo, hanno infine prevalso. Il Parlamento della Repubblica è riuscito a far sentire la sua voce e il suo peso. E il Governo dopo aver dato l'impressione di non saper far altro che giocare allo scaricabarile, ha avuto un soprassalto di buon senso e di dignità: ha ritirato la candidatura di Venezia per l'Esposizione universale del 2000.

Ricordiamo tutti la vicenda. L'idea di fare a Venezia una Expo era stata lanciata da Gianni De Michelis nell'autunno 1984, alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative. Le reazioni di una parte consistente dell'opinione pubblica veneziana e italiana furono immediate, ma De Michelis avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell'Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell'industria, si assicurò l'appoggio di prestigiosi esponenti della cultura, costruì una solida piattaforma d'intesa con i dorotei veneti fingendo d'allargare l'impatto dell'Expo all'intero Veneto. Con procedure discutibili, una "prenotazione" ufficiale per l'Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), il quale svolse l'istruttoria preliminare.

Sembrava che i giochi fossero fatti. Mentre lavoravano i promotori dell'Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta sarebbe stata una rovina per Venezia. Si accumularono materiali di conoscenza e di analisi che consentirono di comprendere (e di far comprendere) in che modo l'Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle "pietre" della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l'assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi.

Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell'area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto. Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero.

UNA NUOVA FASE DI ESPANSIONE

La caduta del Muro di Berlino ha trascinato con sè una serie di eventi. Tra questi, una istantanea impennata dei flussi di persone tra Est e Ovest. Il dramma dei profughi albanesi ha costituito un segnale d'allarme evidente; la nuova dirompente fase della perestrojka, seguita al tentativo di golpe, ha portato ad aumentare ancora le dimensioni dell' esodo dall'Est rispetto a quelle gi` previste. E' la teoria dei vasi comunicanti che si manifesta; e di fronte aldivario tra l'abbondanza delle merci all'Ovest e la penuria all'Est, di fronte a una così grande differenza di potenziale tra l'uno e l'altro recipiente, non c'é politica di "difesa dei confini" che regga. Del resto, qualcuno ha osservato che chi ha applaudito alla caduta del Muro di Berlino non può a sua volta proporsi di erigere altri muri. Il "sistema della concorrenza" ha vinto.

Con esso ha vinto la società opulenta, che ora ammalia masse sterminate di consumatori potenziali, scarsamente solvibili finchh non potranno impiegare in modo efficiente la loro forza lavoro. D'altra parte, le aziende dell'Ovest chiedono mano d'opera disponibile a svolgere mansioni poco gradite agli indigeni. La soluzione giusta per affrontare il divario tra Est e Ovest é certamente quella di investire e trasformare la struttura economica all'origine dei flussi, aumentare lì, all'Est (come al Sud) i livelli di produttivit`, di reddito, di consumo. Ma occorrerà molto tempo perché un simile impegno, ancorchh perseguito, si traduca in una sensibile riduzione del dislivello tra i vasi divenuti ormai comunicanti. Sembra perciò che si debba dare per scontata una nuova immigrazione nel nostro Paese, dopo quella dall'Africa nera, dal Maghreb, dall'Asia.

Può riaprirsi allora, nelle città, una nuova fase dell'espansione, dopo quella di cui avevamo registrato l'esaurirsi. La popolazione insediata aumenterà di nuovo, a causa del saldo sociale positivo determinato dalla fine di un'epoca. Di conseguenza aumenteranno di nuovo i fabbisogni; gli standard urbanistici e gli altri elementi dell' armamentario quantitativo riacquisteranno il loro peso. Se così stanno le cose, non sarebbe male attrezzarsi per far fronte decentemente a questa nuova fase dell'espansione: per evitare di ripetere gli errori dei devastanti anni '50 e '60, e per evitar di contraddire nei fatti le proclamate necessità di una urbanistica della qualit` e dell'ambiente. Tre questioni appaiono allora le più urgenti, e chiedono un impegno sia della cultura urbanistica sia dei governi nazionale, regionali e locali.

La questione del regime degli immobili. C'é adesso una ragione in più perché si giunga finalmente al varo di una legge snella, facilmente e rapidamente praticabile, che almeno consenta di acquisire alla mano pubblica le aree da destinare all' edilizia, ai servizi, al verde: magari, con anticipo rispetto al manifestarsi delle concrete esigenze di utilizzazione, come si fa nei paesi civili.La questione delle localizzazioni. Una politica che voglia fare i conti con una immigrazione così particolare, e così "governabile" per le caratteristiche dei soggetti (la maggior parte dei quali ambisce a stabilirsi "in Occidente", ma non a Napoli piuttosto che a Ravenna o a Frosinone) deve essere una politica in grado di governare i flussi, le destinazioni, le localizzazioni degli interventi necessari: dev'essere una politica definita anche nelle sue proiezioni territoriali. Ciò ripropone allora l'esigenza di una definizione coerente della politica territoriale nazionale: ripropone il tema di una effettiva e completa pianificazione territoriale, estesa a tutto l'ambito nazionale.

La questione, infine, della "considerazione" dell'ambiente nella pianificazione. Occorre al più presto rendere cogenti alcune elementari regole per la pianificazione territoriale e urbana, che consentano di ottenere almeno un primo risultato di tutela dell'ambiente. Due regole ci sembrano essenziali. La prima: escludere ogni possibilità di trasformazione fisica e, dove occorra, funzionale delle aree le cui qualità, naturali o storiche, meritano tutela e valorizzazione. La seconda: ridurre al minimo la laterizzazione (ossia la trasformazione in una artificiale crosta impermeabile) di un territorio la cui permeabilità e naturalità si sono già ridotte in modo preoccupante.

Si tratta di obiettivi minimi. Non perseguirli con tenacia e rigore significherebbe condannare il Bel Paese a un orrore non diverso di quello che tutti abbiamo ripetutamente deprecato, a partire da trent'anni fa.

UN PONTE PER LA SICILIA O LA SICILIA COME PONTE?

Si ricomincia a parlare del ponte sullo Stretto di Messina. Già ne abbiamo scritto su queste pagine, molti anni fa ( La piramide sullo Stretto, n.84-85), per denunciare l'assurdità di quell'impresa: non tanto in sè, nella sua valenza di tecnica ingegneristica (non avremmo del resto le competenze necessarie per esprimerci) quanto per la finalità di mero e superficiale prestigio che le viene assegnata dagli italici entusiasmi, e soprattutto per la sua assoluta non priorità nel quadro del complessivo sistema dei trasporti italiano e dei suoi problemi.

Molti sostengono oggi che non vale la pena di preoccuparsi per il ponte sullo Stretto: le difficoltà sono tali e tante che se ne parlerà ricorrentemente, vi si imbastiranno sopra campagne propagandistiche, si approveranno magari altre leggi e leggine per finanziare studi e progetti, ma non si vedr` mai la realizzazione dell'opera.

Andrà così? Può essere. A noi sembra perr che già il solo parlare del Ponte sullo Stretto sia grave, sia per l'atteggiamento che esprime sia perche questa ingombrante presenza impedisce di affrontare in modo serio (e perciò diverso), i problemi dei trasporti e il ruolo in essi della Sicilia. Affidare la soluzione del problema dei collegamenti della Sicilia con il continente a una intrastruttura quale quella di cui si parla i coerente con una determinata strategia territoriale che i l'opposto di quella sensata. E' una strategia che affida le comunicazioni ai vettori su gomma e, subordinatamente, su ferro, trascurando il vettore più economico e meno inquinante, cioh l'acqua. E' una strategia che concepisce la Sicilia come il cul di sacco del sistema dei trasporti, relegando l'Isola al ruolo di estrema appendice di quell'appendice dell'Europa che é l'Italia. E' una strategia, insomma, che colpevolmente non solo non utilizza e valorizza, ma addirittura mortifica e nega due della più rilevanti risorse, storicamente consolidate, di cui l'Italia (se osservata con occhio non provinciale) palesemente dispone. In primo luogo, la sua posizione geografica, culturale e storica di possibile ponte (ma in senso metaforico) tra due continenti e molte civilt`. In secondo luogo, la presenza dell'imponente, potenziale "sistema autostradale acqueo" costituito dall'Adriatico, dal Tirreno e dalla "bretella" ionica.

Ciò che é singolare é che più di un gruppo politico sostiene l'opportunità di un dispiegato "ruolo mediterraneo" dell' Italia. Sono troppo pochi, perr, quanti riescono a comprendere le politiche hanno loro precise proiezioni territoriali, che impongono di dire "no" a certe soluzioni territoriali, per dire "si" ad altre.

L'EUROPA PER LE CITTA'

"La maturità politica di una società é dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine"; e pensare a lungo termine é indispensabile per poter affrontare vittoriosamente "le cause fondamentali del degrado urbano". Questa (e la fiducia nel ruolo che la città continuerà a svolgere nella civiltà europea, e la consapevolezza della profondità della sua crisi) é la convinzione che anima il Libro verde sull'ambiente urbano, predisposto dalla Commissione delle Comunità europee che sarà approvato in queste settimane dal Parlamento europeo. La Commissione ha affrontato la questione urbana sotto il solo angolo visuale delle politiche ambientali perché é a quest'ultimo aspetto che sono limitate le competenze del Governo europeo. Ma l'approccio ambientale consente agli estensori del documento di cogliere alcuni nodi centrali del dibattito odierno, fornendo indirizzi che potranno avere ricadute positive nella Repubblica italiana, oggi governata dalla miopia, dall'arroganza e dall'imprevidenza.

Il documento si apre con un'affermazione che é già di per sè significativa, e in Italia controcorrente: "Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento di ogni approccio settoriale". I diversi aspetti del degrado urbano sono esaminati tutti con la sinteticità necessaria a un documento politico, ma in modo corretto ed efficace. Unica assenza di rilievo, il regime imobiliare.

L'ufficialità del documento conferisce un particolare interesse alle posizioni espresse in relazione ad alcuni aspetti cruciali del degrado urbano. Oltre a quelle sui temi più strettamente ambientali, vogliamo segnalare quelle sulla mobilità (dove si coglie e si denincia la spirale perversa congestione/nuove strade/aumento del traffico/peggioramento della congestione e dell'inquinamento, e si afferma che "l'obiettivo deve invece consistere nel rendere l' automobile una opzione e non una necessità"), del turismo ("la crescita costante del turismo in determinate città caratterizzate da un patrimonio culturale particolarmente ricco può portare (...) a un deterioramento della qualità della vita degli abitanti"), delle periferie (che si individuano come problema centrale per il futuro delle città e di cui si denuncia l'assenza di qualità propriamente urbana).

Un'affermazione, tra le altre, ci sembra possa sintetizzare il Libro verde. Essa riguarda la vaexata questio del rapporto tra tutela e sviluppo. Il conflitto tra ambiente ed economia - si sostiene - é "un falso problema perché a lungo termine la protezione delle risorse ambientali sar` una precondizione di base per una sana crescita economica". Un'affermazione che sembra dedicata ai tanti "sviluppisti" nostrani, così golosi di frittate da essere incapaci di rinunciare a un uovo oggi per avere una gallina domani.

FIRENZE, UNA NUOVA EMERGENZA

Ancora una volta l'emergenza adoperata per evitare le "lungaggini" della pianificazione. Il Comune di Firenze ha approvato una variante che consente l'edificazione di 900 mila metri cubi nell'area "non dismessa" della Fiat a Novoli: un'area occupata dallo stabilimento fiorentino della Fiat ancora in funzione, che sarà trasferito ma non si sa ancora dove.

I lettori ricorderanno la vicenda Fiat-Fondiaria, di cui su queste pagine ci siamo più volte occupati. Si trattava di due aree, di caratteristiche molto diverse, accomunate solo da due fatti: sono entrambe nella piana nord-orientale della città, e per entrambe si proponeva una robusta "valorizzazione immobiliare". Il progetto (concepito per la Fondiaria, ma in cui subito la Fiat fu coinvolta) prevedeva l'approvazione, da parte del Comune, di una variante di Prg, con la quale il potere pubblico attribuiva alle aree un calibrato mix di funzioni e, soprattutto, una congrua quantità di volumi (se no, che valorizzazione é?).

L'ambizioso progetto era andato molto avanti, quando il segretario dell'allora Pci, Achille Occhetto, ne interruppe il cammino inducendo la componente maggioritaria della Giunta a dissociarsi. La maggioranza é cambiata. La "valorizzazione" dell'area della Fondiaria é sospesa, in attesa del varo del nuovo Prg. Per l'area Fiat, invece, si va avanti, benché il nuovo Prg sia in avanzata fase di elaborazione, e benchh la prossima entrata in funzione della Città metropolitana di Firenze renda ancor più necessaria che nel passato la prudenza nel definire funzioni e quantità di un'area che é strategica per l'intero assetto intercomunale.

Perché questa urgenza? Lo svela la relazione che accompagna la variante: questa non può attendere perché c'é "l'emergenza giustizia". Di nuovo la parola chiave, di nuovo il grimaldello che apre tutte le porte. Bisogna fare un nuovo palazzo di giustizia. Non ci sono alternative: può esser fatto lì e solo lì. E per realizzare i 200 mila mc degli uffici giudiziari, bisogna regalarne altri 700 mila alla società proprietà dell'area, alla Fiat. Les jeux sont fait. (Del resto, c'é un precedente illustre. Vent'anni fa, a Napoli, il Palazzo di giustizia fu il cavallo di Troia attraverso il quale passa la speculazione del Centro direzionale. Nulla di nuovo sotto il sole.)

Perché, quando, come fu prodotto il fotopiano? A queste domande voglio sinteticamente rispondere per far sì che il lettore, navigando all’ interno di questo meraviglioso prodotto della scienza e della tecnica moderne (lo strumento, il CD-rom) e della scienza e della tecnica storiche (l’ oggetto, Venezia), sappia un po’ del suo spessore.

Nel 1980, a Venezia, era stata rieletta la maggioranza di sinistra e ricostituita la giunta. Esaurito il tentativo di correggere e attuare i piani particolareggiati del 1974, mi posi l’obiettivo (ero di nuovo assessore all’urbanistica) di avviare una pianificazione del tutto rinnovata. Per farlo, strumento indispensabile era una cartografia di qualità adeguata. Per la città storica, la qualità del sito e il livello di dettaglio che volevamo dare al nuovo PRG erano tali da richiedere un prodotto d’eccezionale contenuto cognitivo. Da qui nacque la decisione di avere, tra gli strumenti, un fotopiano a colori in una scala di precisione topografica: quella del rapporto 1:500 ci parve adeguata.

Edgarda Feletti, allora dirigente dell’ufficio centro storico dell’ assessorato all’urbanistica e protagonista della costruzione e della gestione del fotopiano, gettò le basi del progetto. Insieme scegliemmo gli esperti che avrebbero dovuto aiutarci come collaudatori (Rosa Bonetta dell’IUAV e Corrado Mazzon del SIFET ), e per la messa a punto e l’attuazione del progetto (l’ impareggiabile Mario Fondelli, che ci guidò passaggio dalla concezione tradizionale a quella digitale del sistema cartografico, di cui il fotopiano costituiva il primo tassello).

Le gare (per il fotopiano, per le riprese aeree per la cartografia, per la restituzione cartografica) furono bandite nel 1981. La commissione giudicatrice scelse la Compagnia Generale Ripresearee del comandante Licinio Ferretti. Mai scelta si rivelò più oculata. Ferretti fece un lavoro splendido, e seppe rischiare. Prima ancora che il contratto con il Comune fosse stipulato e che fossero rilasciate le autorizzazioni, la CGR non seppe rinunciare ad approfittare di una giornata eccezionalmente limpida (il 25 maggio 1982) e volò: eseguì le riprese (78 strisciate, 1129 fotogrammi) in un solo giorno per il centro storico, in tre giorni successivi per il resto del territorio della Laguna e della Terraferma.

Un anno quasi impiegammo nel tentativo di rimuovere le richieste dell’ amministrazione militare di cancellazione degli “obiettivi strategici” ;. Ci aiutò Andrea Manzella, allora Capo di gabinetto del ministro della Difesa Spadolini. Ma raggiungemmo il successo solo quando, ottenuto un appuntamento con il comandante dell’IGM, gli portammo a Firenze i primi campioni del fotopiano. Il generale Zanetti comprese che non si poteva mutilare un’opera così eccezionale (per l’oggetto, e per la tecnica impiegata) mascherando con i mprobabili aiuole l’Arsenale o l’Ospedale civile: come era stato fatto, pochi anni prima, per il fotopiano alla scala 1:5.000 della Regione.

Secondo il contratto la CGR doveva consegnarci tre copie fotografiche delle 186 tavole a colori relative alla città storica: una per lavorarci, una per il pubblico, la terza da archiviare. Appena vedemmo il prodotto comprendemmo subito che non era possibile tenerlo per noi: chiunque, a Venezia e nel mondo, avrebbe voluto vederlo, goderne, utilizzarlo. Facemmo una gara ulteriore. Scrivemmo a 22 editori italiani chiedendo chi fosse interessato alla commercializzazione del prodotto. Ponemmo una sola condizione: il primo dei prodotti ricavati dal fotopiano doveva essere la sua riproduzione originale e integrale, in piena fedeltà del formato, dei colori, dei segni; la precisione doveva restare quella di una carta topografica alla stessa scala.

Solo la Marsilio Edizioni si dimostrò interessata, e chiese di vedere le tavole. Emanuela Bassetti, amministratore delegato, s’innamorò del prodotto. Lavorò intensamente per trovare sponsor che condividessero le ingenti spese d’impianto, e per risolvere i mille problemi tecnici che si ponevano. Nacque così l’edizione Venezia forma urbis , presentata all’opinione pubblica nel 1985, e poi i fortunati “sottoprodotti” ;. L’ Atlantedi Venezia (poi tradotto in edizioni inglesi e francesi, dalla Princeton Press e da Flammarion), e il diffusissimo poster miniaturizzato alla scala di 1:3.623.

Con questo CD-Rom il fotopiano acquista un’altra dimensione ancora. Si può navigarci dentro, percorrerlo in tutte le direzioni, scegliendo quale, dei mille luoghi di Venezia, ammirare da 1.000 metri d’altezza. Una sensazione altrettanto intensa quanto quella che dovettero avere i tecnici della flotta del comandante Ferretti quando, quel 25 maggio 1982, sorvolarono la città più bella del mondo per assicurarne a tutti la veduta dall’alto.

Una divaricazione crescente

Occorre evitare – scrive Michelangelo Savino – che “ si creino irreparabili fratture tra il dibattito disciplinare e la pratica di pianificazione condotta avanti dalle amministrazioni, rendendo la riflessione teorico-disciplinare sulle prospettive dell’innovazione della nostra disciplina, un esercizio retorico e slegato dalla realtà”. Attenzione sacrosanta. Chiunque riesca a stare con un piede nei dibattiti che si svolgono nell’accademia e con un altro nelle prassi delle decisioni nelle amministrazioni sperimenta una divaricazione crescente.

Da una parte, sul versante accademico, si tende sempre più a immergersi nelle rarefatte atmosfere delle teorie costruite sulla lettura di altre teorie che a loro volta nascono dalla digestione di altre teorie. Ciò non conduce più vicino alla verità del reale, ma spinge a sfuggirle dirigendosi verso territori sempre più irreali e fatui, dilapidando così un patrimonio di intelligenze di di risorse materiali spesso consistente. Ma dall’altro lato, sul versante delle pratiche, si è sempre più spinti ad abbandonare la riflessione critica su ciò che si è fatto e l’attenzione a ciò che altrove si sperimenta e si propone, per rifugiarsi nella quotidianità e nell’emergenza, nella stanca ripetizione del deja vu e deja fait. Ciò rende lo sguardo sempre più miope, sempre più inadatto a comprendere (e quindi a trasformare) quella realtà immanente alla quale pure ci si vorrebbe dedicare.

Questa divaricazione tra riflessione e prassi è oggi pericolosa come non mai. Essa infatti isterilisce risorse e disperde potenzialità proprio in una fase nella quale la massima utilizzazione delle risorse disponibili è conditio sine qua non per evitare il rischio d’una decadenza irreversibile della nostra civiltà, fino al limite della sua scomparsa. Come sfuggirle? In primo luogo, rendendosi conto che una simile divaricazione esiste, che essa allontana tra loro mondi l’uno all’altro indispensabili, che essa deve essere superata: pena, la sterilità della riflessione e l’inefficacia dell’azione. Mi sembra che il taglio che il curatore ha dato a questo volume indichi una chiara presa di coscienza del problema. Il lettore si renderà conto facilmente che i materiali raccolti consentono di compiere qualche passo rilevante nella direzione giusta. Può forse aiutare nella stessa direzione tentar di delineare qualche punto fermo, sul quale chi è più impegnato nella riflessione e chi è più ripiegato sulla prassi potrebbero verificare convergenze potenzialmente utili. Nel mio ragionamento mi riferirò soprattutto alla situazione del Mezzogiorno, ma credo che esso possa valere anche per il resto del paese.

Ambiente e sviluppo

Il ruolo che l’ambiente fisico ha avuto nel condizionare lo sviluppo dell’economia, della società e delle istituzioni è stato analizzato con intelligenza, soprattutto (negli ultimi decenni) da Piero Bevilacqua e dai suoi allievi. Leggere alcune delle monografie del suo libro Tra natura e storia [1] aiuta a comprendere qualcosa che non sfugge a un’analisi anche empirica (ma non viziata dagli idola dell’industrialismo). Il destino economico, sociale e istituzionale del Mezzogiorno è legato alla capacità dei gruppi dirigenti di comprendere che, lì più ancora che altrove, l’ambiente (la sua ricchezza, la sua storicità, la sua bellezza espressa e quella esprimibile) sono, insieme all’intelligenza umana, l’unica base materiale dello sviluppo. E di comprenderlo non in termini meramente accademici, per poi agire in modo opposto a ciò che una comprensione finalizzata all’agire comporterebbe.

A me sembra indubbio che la situazione attuale e le sue prospettive rendano imperativa l’attenzione all’ambiente fisico come base del possibile sviluppo. La produzione manifatturiera generica è in evidente declino, non solo per l’imperizia e la rapacità degli attori determinanti. L’agricoltura generica (quella che produce beni fungibili) non ha alcun futuro, come diventerà palese in modo dirompente con il venir meno dei sussidi europei. A che cos’altro dunque può essere affidata una speranza di sviluppo nelle regioni del Mezzogiorno se non a un’intelligente applicazione della cultura e del lavoro dell’uomo ai dati della natura, nel rispetto e nella sapiente utilizzazione di ciò che l’innesto tra queste due risorse ha prodotto nel passato?

Molti segni in direzione di uno sviluppo simile già si vedono. Essi tralucono però negli interstizi delle politiche ufficiali (della destra come della sinistra), la quale nel suo complesso appare mossa da ispirazioni di segno opposto, obsolete, perdenti e distruttive. L’utilizzazione rapace di ciò che lavoro e natura hanno prodotto nei millenni trascorsi, la sostituzione dei paesaggi di consolidata bellezza con panorami dominati dal cemento e dall’asfalto, la utilizzazione idiota di terreni resi fertili da eventi geologici milionari per la localizzazione di gigantesche aree industriali (destinate a restar deserte di uomini e di attività) o addirittura per impianti di smaltimento dei rifiuti: questi sono gli eventi che ancor oggi si registrano.

Un siffatto modo di procedere non è solo in contrasto con ogni elementare responsabilità civile e culturale nei confronti del mondo attuale e delle generazioni future, ma è insano anche da un punto di vista esclusivamente economico. È infatti evidente a tutti che il turismo ha nel Mezzogiorno una enorme potenzialità di sviluppo proprio grazie alla possibilità di utilizzare il vastissimo patrimonio di natura, paesaggio, storia, arte, costumi, prodotti, intimamente legati al territorio e alla suo millenario processo di formazione. È utilizzando in modo durevole questo patrimonio immenso (ma quindi, in primo luogo, tutelandolo attraverso la conoscenza e la salvaguardia) che il Mezzogiorno può trovare una ragione di sviluppo alternativa rispetto alle produzioni manifatturiere ormai obsolete, o alle produzioni agricole generiche ormai indifendibili in territori come i nostri, oppure rispetto a quelle di un “turismo di quantità” dissipatore della sua stessa materia prima.

Pubblico e privato

L’ubriacatura del “privato e bello”, l’apoteosi del “meno Stato e più mercato”, stanno passando di moda. I risultati che si volevano ottenere si sono rivelati illusori. Il mercato ha confermato la sua insufficienza a svolgere anche solo le funzioni regolatrici del valore di scambio senza una forte presenza pubblica, figuriamoci a tener conto della sempre più estesa domanda sociale di accrescere i valori d’uso.

Tuttavia il danno che la fortuna di quegli slogan ha provocato sono consistenti, soprattutto là dove – come nel Mezzogiorno – la debolezza dello Stato era diventata cronica ed era stata surrogata da un individualismo distruttore e da un familismo spesso criminoso. La questione alla quale generazioni di meridionalisti si erano dedicati (la costruzione nel Mezzogiorno di strumenti di una statualità moderna) mi sembra quindi oggi più centrale che mai. Il rafforzamento delle strutture pubbliche è quindi, oggi, problema prioritario. Senza un potere politico dotato di strumenti efficaci diventa impossibile guidare le forze dell’economia verso orizzonti coerenti con gli interessi generali; diventa impossibile scegliere tra impieghi produttivi e strategici delle risorse disponibili e impegni parassitari e miopi; diventa impossibile scegliere a quali risorse attribuire priorità, per quali loro utilizzazioni, in vista di quali interessi.

In questo quadro due questioni mi sembrano particolarmente rilevanti, entrambe sottese agli argomenti trattati in questo volume: la questione della legalità, la questione della pianificazione.

Perché un’amministrazione pubblica sia efficace, e perciò capace di incidere sulla realtà, essa deve essere rispettata. Può esserlo in due modi: può imporsi col ricatto del terrore (ed è il modo praticato dalla criminalità organizzata: da noi, mafia, camorra, ndrangheta); oppure può guadagnare il consenso dei cittadini. Quest’ultima strada richiede però alcune condizioni che l’amministrazione deve assicurare al cittadino (ricordando che questo temine è sostanzialmente diverso da quello di suddito).

La prima condizione è che al cittadino sia chiara la ragione di ciascuna delle regole che l’amministrazione lo impegna a rispettare. La seconda è che le regole siano rispettate da tutti, ugualmente rigorose per chi può violarle e per chi deve rispettarle. Perciò mi sembra che combattere il burocratismo (imperante in molta parte dell’amministrazione pubblica) sia un impegno civile, e che pratiche come la co-pianificazione e l’intesa interistituzionale siano da praticare largamente. Perciò, soprattutto, mi sembra che il rispetto della legalità sia nel Mezzogiorno un impegno d’onore ancor più necessario che in altre regioni d’Italia e d’Europa.

Ragioni confluenti, sebbene distinte, inducono a ritenere che la pianificazione sia uno metodo (più ancora che un insieme di strumenti) essenziale soprattutto nel Mezzogiorno. Non solo perchè la certezza delle procedure e la trasparenza delle decisioni (caratteristiche esenziali della buona pianificazione) sono connotati rilevanti di un’azione amministrativa tesa al ripristino della legalità. Ma anche perchè è evidente che essa potrebbe svolgere un ruolo decisivo come strumento di uno sviluppo basato – come non può non essere nelle regioni meridionali - su un’attenta considerazione delle risorse dell’ambiente. Sempre che essa sia, beninteso, una “buona pianificazione”.

Per meritare tale attributo essa dovrebbe essere il luogo nel quale tutte le scelte degli enti pubblici suscettibili di indurre trasformazioni territoriali (da quelle dello “sviluppo” a quelle della “tutela”) trovino la loro sintesi. Tanto per fare un esempio, i contenuti dei “piani operativi regionali” (POR), i programmi e i progetti di infrastrutture d’interesse regionale, le politiche regionali per l’abitazione, il turismo, l’agricoltura, dovrebbero trovare la loro coerenza – e la coerenza con le regole per il corretto impiego delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali e con i relativi vincoli – in un atto di pianificazione unitario, sottoposto al vaglio del confronto pubblico, impegnativo nei suoi esiti prima di dar luogo a decisioni operative. È così che succede nel Mezzogiorno? Non mi sembra.

Una “buona pianificazione”, perciò utile ad affrontare i problemi del Mezzogiorno in coerenza con le tesi ra sostenute, dovrebbe avere nella lettura attenta (e sistematicamente aggiornata) delle risorse territoriali la base conoscitiva d’ogni decisione. Da tale lettura dovrebbe discendere un sistema non di “vincoli”, ma di definizione delle opportunità e delle condizioni che l’esigenza di non dissipare o degradare il valore delle risorse territoriali, pongono a ogni ipotizzabile trasformazione. Quante e quali sono le banche di dati sistematicamente aggiornate disponibili nelle regioni, nelle province (e nei comuni) del Mezzogiorno? Quanti sono i sistemi informativi territoriali vivi (cioè sistematicamente aggiornati) che possano sorreggere le scelte di localizzazione sistematiche (della pianificazione) o episodiche (dell’emergenza)? Non mi sembra che ci sia da rallegrarsi del bilancio.

Regola e strategia

Anche nel Mezzogiorno ha preso piede l’impiego di “nuovi strumenti” mediante i quali determinare le trasformazioni territoriali. Non più strumenti di “governo”, ma di “governance”. Non più piani regolatori generali o piani territoriali di coordinamento, ma patti territoriali, programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione urbana, i programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio e così enumerando. E negli ultimi tempi, i piani strategici.

In termini generali, questi strumenti hanno un aspetto positivo e uno negativo. Il primo sta nel fatto che essi tendono a superare limiti oggettivi degli strumenti tradizionali, e in tal senso offrono possibilità aggiuntive. L’aspetto negativo sta nel fatto che invece tendono a essere utilizzati come alternativa alla pianificazione tradizionale. Questo è un errore gravissimo. Tutti quegli strumenti (con una sola eccezione) premiano le esigenze, le opportunità, le disponibilità del breve periodo, e offrono spazi consistenti agli interessi privati, in particolare a quelli più forti. Sono quindi utilmente impiegabili a due sole condizioni: che vi sia un rigoroso sistema di regole certe e forti sul territorio, mediante le quali siano garantite le prospettive di una utilizzazione durevole delle risorse disponibili, e quindi un efficace sistema di pianificazione; che il potere pubblico sia autorevole, qualificato, decisamente orientato a favorire la prevalenza degli interessi generali e la tutela degli interessi “deboli”.

Non mi sembra che queste due condizioni siano diffusamente presenti nel Mezzogiorno. Se è così (e dove è così, e finché è così), sostituire governance a government, affannarsi nella formazione di strumenti urbanistici “anomali” invece di quelli ordinari, altro non significa che premiare, una volta ancora, gli interessi forti e le opportunità di breve periodo rispetto a ogni altro interesse e opportunità. Nel concreto, nelle regioni del Mezzogiorno questo quindi significa privilegiare, una volta ancora, le utilizzazioni edilizie dei suoli e la valorizzazione della rendita fondiaria alle utilizzazioni coerenti con l’esigenza di uno sviluppo durevole e con l’opportunità di un pieno impiego delle risorse territoriali. Significa premiare e promuovere il consolidamento delle attività economiche parassitarie anziché lo sviluppo di quelle innovative e produttive nei settori dell’agricoltura di qualità e di sito, dei servizi alle persone e alle imprese, del turismo di conoscenza e di fruizione evoluta del territorio, delle produzioni avanzate ad alta intensità di intelligenza e a bassa intensità di consumo di territorio e di energia.

Diverso è il ragionamento per quanto riguarda la pianificazione strategica. Per la verità con questo termine si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica italiana) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni

Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “anomali” prodotti a go-go dalla fertile fantasia derogatoria degli anni 90, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.

Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorrere, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo quando si vota; ma soprattutto nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse è solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.

Edoardo Salzano

4 settembre 2004

[1] Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1966

La Laguna di Venezia è un bene prezioso dell’umanità. Pochi si rendono conto che quella di Venezia è l’unica laguna che è rimasta tale, sfuggendo al destino comune a tutte le lagune: trasformarsi in un pantano e poi in un campo, oppure diventare una baia marina. Questo destino è stato evitato alla Laguna di Venezia grazie al saggio impiego, per molti secoli, di tutte le risorse disponibili (politiche, amministrative, culturali, tecniche, finanziarie). Con l’Ottocento le cose sono cambiate. La tecnica non ha più assecondato e guidato la natura, l’ha contrastata e negata. La prospettiva temporale non è stata il lungo periodo, il domani, il futuro, ma l’oggi, l’immediato, il contingente. L’interesse dominante non è stato quello della comunità, ma quello dell’individuo (e naturalmente del più forte e più furbo).

Le stesse regole del governo del territorio (i piani urbanistici) hanno avuto il loro centro e il loro motore nella crescita dell’urbanizzato ed edificato, nella trasformazione della natura in cemento e asfalto, nell’espansione delle città. Solo da pochissimi decenni la pianificazione si è finalmente fatta carico anche delle esigenze della “altra parte” del nostro mondo: quella nella quale il lavoro dell’uomo si compone con la natura rispettandone le leggi e i ritmi. Sono nati così, accanto ai piani tradizionali (il PRG, il PTC) dei piani specialistici: orientati ad affrontare non l’insieme dei temi e degli obiettivi del governo del territorio, ma un particolare aspetto: i piani per la difesa delle acque e del suolo, i piani per la tutela del paesaggio, i piani per le aree protette. Questi piani non regolano tutti gli aspetti della vita dell’uomo sulla terra: solo quelli (e tutti quelli) che hanno a che fare con la loro specifica missione. Dettano legge solo per un aspetto, ma per quell’aspetto la loro legge non è appellabile, prevale su qualsiasi altra.

La costituzione del Parco della Laguna nord si pone in questa logica. Rispetto ad altri strumenti della pianificazione specialistica esso ha anche un’altra valenza: non è solo un Piano, è anche una Istituzione. Spesso l’urbanistica è fallita perché si è ridotta a documenti di carta, non tradotti in una gestione del reale. L’Istituzione garantisce che, per la Laguna, questo non avverrà. Essa garantisce che la tutela della Laguna diventi un fatto dinamico: un disegno che si traduce in azioni. In questa logica la prospettiva possibile è che il Parco della Laguna nord sia destinata a perdere il suo riferimento geografico: che diventi un modo nuovo (ma simile a quello del passato più lontano e sapiente) di governare l’insieme della Laguna.

Pomigliano d’Arco, provincia di Napoli. Era un grosso borgo agricolo nella fertile pianura nutrita dalle ceneri del Vesuvio. Lo sviluppo industriale iniziò negli anni Trenta, proseguì negli anni Settanta con L’Alfa Sud e l’Alenia: l’Area di sviluppo industriale è oggi la più grande del Mezzogiorno. Il borgo agricolo è cresciuto, più gonfiato dalla “decompressione” di Napoli che arricchito dall’indotto delle grandi industrie: oggi è una città di quasi 50 mila abitanti. Una città, con tutti i problemi delle città-periferie metropolitane, private dall’antica identità e incerte nella ricerca di una nuova. Una città in un territorio devastato dalle “grandi opere” della gestione dorotea e regionale del dopo-terremoto: giganteschi viadotti stradali e ferroviari, raccordi monumentali che si perdono nel nulla, ruderi di antichi casali e brandelli di ricchi paesaggi agrari devastati dall’intrico delle infrastrutture.

Una nuova amministrazione è subentrata da qualche anno a quelle disciolte per infiltrazioni camorristiche. Sta tentando, con tutte le risorse disponibili, di migliorare la qualità della vita urbana, di costruire una identità che proietti la storia nel futuro: con l’urgenza di chi vuole sottoporsi presto al giudizio dell’elettorato. Da questa volontà sono nate le prime realizzazioni: un grande parco urbano, il restauro di antichi palazzi, la ricostruzione di una piazza centrale: traguardi significativi ma modesti, parziali. In attesa e in vista del nuovo piano regolatore il Sindaco (il diessino Michele Caiazzo) ha sollecitato la cultura dei professionisti della città (gli architetti, gli ingegneri, gli urbanisti) a proporre idee per definire l’assetto fisico e funzionale di un’area strategica.

Si tratta di un’area occupata da qualche brandello di tessuto edilizio, a volte abusivo, da qualche industria abbandonata, da uno stadio e alcuni edifici testimonianze di un discreto razionalismo degli anni Trenta. Un’area davvero strategica per la posizione, e per il ruolo che il bando del Concorso d’idee, promosso dal Comune, le assegna. É collocata tra la Via Roma, tratto urbano dell’antica via che, attraverso Baiano, collegava Napoli alle Puglie, e la Via dell’Impero, matrice mussoliniana della zona delle industrie. E’ collocata quindi tra la città e l’area industriale: una potenziale cerniera tra l’una e l’altra. L’uno dei suoi margini è percorso dal monumentale viadotto della ferrovia Cicumvesuviana: l’ingombro dell’immane struttura determina, sul piano di campagna, un volume vuoto alto sette metri e largo oltre una decina, lungo quanto l’intera area del concorso. L’altro margine è attraversato dalla linea dismessa della ferrovia, che fiancheggia l’intera città giungendo fino al nuovo parco urbano.

Ventotto gruppi di professionisti, da ogni parte d’Italia (ma naturalmente in prevalenza della Campania) hanno partecipato al concorso. Il primo premio non è stato assegnato dalla Giuria[1], che ha diviso il monte premi tra tre ex equo e tre menzioni. Ho partecipato all’esame delle proposte, alla loro valutazione, alla scelta finale. Non scrivo per illustrare e commentare le scelte, ma per esprimere una vivissima preoccupazione, sulla quale mi piacerebbe che si discutesse.

Solo un’occasione perduta?

Nessuna proposta (questo è il mio giudizio) ha colto le potenzialità del tema proposto, la contraddittoria ricchezza dell’area, il suo ruolo strategico, le aspettative dell’amministrazione.

Nessuna proposta ha affrontato il grande tema del rapporto tra la città e la zona industriale. Nessuna proposta ha utilizzato la riprogettazione dell’area come momento e punto di partenza per una riqualificazione della città, e nemmeno (il che sarebbe stato comunque riduttivo) dei suoi bordi inclusi nell’ambito di studio. Che l’area non fosse sospesa nel vuoto lo si è compreso solo nei pochissimi progetti che hanno almeno disegnato la rete stradale urbana principale o hanno proteso deboli filamenti di verde verso il parco urbano.

La grande maggioranza delle proposte si è limitata a proporre scampoli di disegno urbano per le aree vuote comprese nell’ambito di studio: a seconda delle propensioni, c’è chi le ha adornate di variegati parchi, e chi le ha riempite di massicce costruzioni. Quasi nessuno ha disegnato un nuovo assetto dell’area (da raggiungere magari con gradualità d’interventi): le preesistenze edilizie sono state o ignorate, oppure rigorosamente perimetrate e congelate nella loro attuale ghettizzata consistenza. Sembrava che l’incarico formulare proposte fosse stato avanzato non da un’amministrazione civica, ma da un promotore immobiliare, di stampo tradizionale (metri cubi a volontà) o aggiornato (praticelli verdi e laghetti artificiali).

Del tutto trascurato è stato il grande tema dell’accesso alla città dalla stazione della ferrovia circumvesuviana, che drena ogni giorno decine di migliaia di cittadini. E nessuno è stato sfiorato dall’interesse per il tema della utilizzazione del grande vuoto costituito dal volume del viadotto ferroviario: eppure l’accattivante e civile stazione, costruita proprio nellain un segmento della cavità sotto la ferrovia, costituiva un evidente esempio.

La partecipazione è stata larga. La maggior parte dei partecipanti giovani. Le idee parziali numerose e utili (la giuria non ha faticato a trovare i sei gruppi da segnalare). Come mai, allora, questo sostanziale fallimento? Come mai una risposta così insufficiente da parte della cultura e della professione? Ho una ipotesi di risposta a questa domanda.

L’arco e le pietre

Nelle università (nella maggioranza delle università) e nelle riviste (nella maggioranza delle riviste) non si insegna più l’urbanistica. La progettazione urbana si è ridotta ad architettura.

Ricordiamo la metafora dell’arco e delle pietre nascosta nella descrizione del ponte, con cui il Marco Polo di Italo Calvino risponde alla curiosità del Kublai Kan:

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco.

Ecco. Temo che si debba dire che la funzione ordinatrice dell’arco (l’urbanistica) è scomparsa. La città si è frammentata ed esplosa nella singolarità delle sue pietre, degli oggetti, le ”parti”; il ponte è diventato un cumulo di macerie, di “frammenti urbani”. La contrapposizione del “progetto” al “piano”, che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e la sostituzione del primo al secondo, ha manifestato così i suoi frutti. Questi sono, è facile vederlo, la scomparsa dell’attenzione al contesto (al contesto fisico e funzionale, ma anche al contesto sociale e culturale); l’ignoranza delle relazioni tra le parti, e l’incapacità perfino di governare nel loro insieme oggetti di media complessità (quale è una parte di città).

Lungi dl ricordare, con Eugenio Montale, che “il tutto è più importante delle sue parti”, si è dissolto il tutto nelle sue parti, che così sono diventate inanimate e sterili. Da dove si può ripartire per far sì che gli architetti e gli ingegneri (quelli almeno che lo vogliano) ridiventino urbanisti, e cioè operatori capaci di contribuire ad affrontare i problemi della città, in questa difficile fase della sua esistenza?

Edoardo Salzano

[1] Composta dal Sindaco, da tre esperti (G.C. De Carlo, E. Salzano, M. Zambrini) e da tre rappresentanri degli o0rdini professionali (P. Pisciotta, M. Vinci e …).

La città.

Quando pensiamo la parola “città” ci vengono in mente cose molto diverse. A volte ci viene alla mente un insieme di edifici e di persone, variamente raggruppati attorno a spazi ed edifici pubblici, animato da flussi e arricchito da incontri, ben delimitato rispetto alla campagna, se non più da una cinta di rassicuranti mura, da una cerchia di ordinati sobborghi. A volte, invece, vediamo (con la mente, e anche con gli occhi) un ammasso disordinato di edifici di mille fogge e forme, spesso sgraziati e sempre male accostati, coacervo di attività confliggenti (dai bambini a passeggio alle automobili accatastate sui marciapiedi, da rumorose industrie a malati negli ospedali), una nube di esalazioni di diverso colore e spessore e veleno.

Se riflettiamo un attimo, ci rendiamo conto che la prima immagine è quella della città così come la storia l’ha consegnata alla civiltà contemporanea, la seconda è la città come la nostra civiltà l’ha resa. Tra le due immagini (e le due città) sono diverse le forme, i rumori, e anche i tempi e i rapporti. La città di ieri era il luogo degli incontri, quella di oggi è la città delle solitudini. La città di ieri era il luogo dell’integrazione tra ceti, abitudini, mestieri diversi, quella di oggi è il luogo delle segregazioni. La città di ieri viveva il tempo tranquillo del vicinato e del quartiere, quella di oggi vive il tempo frenetico dello spazio metropolitano e della motorizzazione individuale.

La città della storia non è recuperabile, se non dalla fantasia della memoria. Ma da un paio di secoli almeno gli uomini hanno cominciato a individuare i modi mediante i quali si potesse rendere la città contemporanea più amichevole, ordinata, vivibile, funzionale, imparando qualcosa dall’insegnamento della città della storia. In questo scritto cercherò di raccontare in che modo in Italia si è tentato, nell’ultimo mezzo secolo, di costruire degli attrezzi, giuridicamente fondati, per migliorare l’assetto delle città, e del territorio sul quale hanno via via esteso la loro rete di relazioni[1].

Perché nasce il Piano regolatore

Forse il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, è nato nel 1811, in quella città delle Americhe che da New Amsterdam era diventata New York. Aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e fabbrichette. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.

Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. E’ sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo.. (Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.)

L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento dello sviluppo.

Ma era un’economia basata su due principi. Il primo era la libertà individuale: più questa era priva di freni, più sapeva tirare, più si perseguiva, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. Il secondo era la riduzione d’ogni bene a merce, d’ogni valore a valore di scambio. Questi due principi costituivano anche due limiti pericolosissimi per quel sistema economico-sociale. Il secondo limite lo si scoprì molto più tardi: quando nacque la questione ambientale (e su questo torneremo più avanti). Il primo limite lo scoprì prestissimo: a New York, nel 1811.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pianificazione urbanistica divenne una procedura normale per regolare le trasformazioni e, soprattutto, l’espansione delle grandi città (nelle società industrializzate come nelle terre colonizzate dal capitalismo europeo). Poco più tardi leggi specifiche generalizzarono il metodo, le tecniche e le procedure della pianificazione a tutte le realtà territoriali nelle quali si manifestavano, o si prevedevano, trasformazioni significative dell’assetto fisico o dell’organizzazione funzionale. L’Italia arrivò con un certo ritardo. Dopo un dibattito durato un decennio, nel 1942 venne approvata la legge urbanistica ancora oggi in vigore.

La legge urbanistica del 1942

Una buona legge urbanistica, quella che fu approvata, nel pieno della seconda guerra mondiale. A rileggerla oggi così come allora fu approvata essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti. E’ questa legge che costituisce ancora oggi il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Ecco gli elementi essenziali della “legge madre” dell’urbanistica italiana.

Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.

Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio.

La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare, ”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica non fu adoperata.

Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi relativi ad ambiti più ampi del comune (“area vasta”). Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.

Perché la legge urbanisticanon ha funzionato?

Se era una buona legge, come mai non si sono visti i suoi effetti? Come mai le città appaiono oggi devastate e spesso invivibili? Allora l’urbanistica, la pianificazione, non servono? Non è così. Il fatto è che, negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione gli eventi bellici non permisero di applicarla, e poi nell’immediato dopoguerra, essa fu volutamente messa in archivio. E’ proprio negli anni del dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.

I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. Ma in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto. La logica dei PRG fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.

Più sostanzialmente, la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.

Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.

Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.

Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, richiede che non si pianifichi. Infatti, dal dopoguerra fino agli anni Sessanta, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o boicottata dagli organi più politicizzati del governo. Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.

Le trasformazioni territorialinegli anni del “grande esodo”

All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola (42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali). Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6%. Accanto a questa trasformazione, si registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Fra il 1955 e il 1971, nove milioni di italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali, e quasi altrettanti cambiano comune di residenza all’interno della stessa regione

Nel frattempo, lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica. Una vasta campagna di iniziativa e proposta culturale e politica, promossa dagli urbanisti “militanti” nell’INU e sostenuta dalle forse politiche di sinistra, pose l’esigenza di rinnovare integralmente gli strumenti della pianificazione.

I tentativi di ottenere una “riforma urbanistica” durarono decenni. Ancora oggi, non sono stati coronati da successo: la legge del 1942 è rimasta la struttura portante dell’attuale legislazione. Oggi, retrospettivamente, qualcuno comincia a domandarsi se all’inizio degli anni Sessanta non si sia fatto un errore, predicando la necessità di una “riforma urbanistica” senza aver prima provato ad applicare la legge del 1942.. È il parere, ad esempio, di una economista molto attenta alle vicende dell’urbanistica, Ada Becchi, la quale si domanda: perché gli urbanisti non si siano “battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era” , e perché “all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova” [2].

Domanda del tutto legittima. La risposta può forse essere cercata nella cultura politica prevalente in quegli anni tra gli urbanisti militanti, e in certo loro distacco dalla concretezza della situazione reale del paese. E forse anche in una carenza di analisi sulle relazioni tra il carattere devastante delle trasformazioni avvenute nel periodo della ricostruzione postbellica e le “carenze” della legge urbanistica del 1942.

Qualche strumento nuovo per intervenire sulla città

La domanda di modernità e razionalità che emergeva dalle stesse trasformazioni dell’assetto sociale ed economico dell’Italia (dai settori avanzati della produzione come dai ceti urbani i che conoscevano più benessere, più democrazia e più conoscenza) trovò altre strade per raggiungere una qualche soddisfazione: se la “riforma” si allontanava all’orizzonte, la legislazione urbanistica del 1942 si arricchiva di strumenti nuovi. Aiutava oggettivamente in questa direzione il verificarsi di effetti catastrofici del modo che si era adottato per affrontare il rapporto tra sviluppo e ambiente: un modo caratterizzato (per essere sintetici) dallo sfruttamento rapace, miope e progressivo di quella risorsa essenziale, scarsa e non riproducibile che è il territorio. Numerosi edifici crollavano a Napoli per effetto del sovraccarico edilizio su un suolo fragile e trascurato; ad Agrigento un intero quartiere franava a valle per lo stesso motivo, documentato da un’impareggiabile indagine ministeriale [3]. L’alluvione di Firenze e l’eccezionale alta marea nella laguna veneziana rivelavano le sciagure che conseguono dall’utilizzazione selvaggia, e dagli interventi meramente ingegneristici (e cementificatori) del territorio extraurbano: da quegli anni, le alluvioni e le loro conseguenze sui territori di fondo valle diventarono endemiche. Nelle città maggiori cominciava a manifestarsi la congestione del traffico, dovuta all’espansione irrazionale che era stata provocata alla produzione e al consumo di automobili.

La “riforma” si ridusse via via a uno sbiadito vessillo. Ma il tronco della legge urbanistica del 1942 si arricchì di nuovi strumenti, potenzialmente suscettibili di conferire razionalità e qualità funzionale all’assetto delle città. Nel 1967 la “legge ponte”, firmata da Giacomo Mancini (un grande ministro dei Lavori pubblici), oltre a stimolare i comuni a pianificare e a disciplinare lo lottizzazioni edilizie (che erano state lo strumento principale del dissesto del territorio) introdusse anche in Italia gli “standard urbanistici”. Si stabilì che in tutti i piani urbanistici, generali e attuativi, si doveva prevedere la presenza di adeguati spazi per le esigenze collettive: il verde e lo sport, le scuole, le attrezzature per la vita civile, la sanità, il commercio, il culto, i parchi urbani. I parcheggi. Almeno sul terreno quantitativo, i luoghi del consumo comune, che erano stati i fuochi ordinatori della forma e delle funzioni della città medioevale, assumevano di nuovo centralità.

Per effetto della legge ponte le città si dotarono di piani regolatori in modo diffuso. Nelle regioni del centro , soprattutto, del nord in modo più massiccio, ma anche altrove. La qualità era però ben differente da luogo a luogo. In alcuni comuni (soprattutto in Emilia Romagna, dove una “cultura della pianificazione” aveva preceduto, e in qualche misura stimolato e orientato la stessa legge ponte, ma anche in Lombardia, nel Veneto, in Piemonte) i piani erano basati su un accurato dimensionamento. Quest’ultimo consiste nel basare la quantità di aree urbanizzabili (e in generale le nuove superfici edilizie previste dai piani) su una ragionevole previsione della domanda dovuta alla crescita della popolazione e delle attività produttive, all’esigenza di migliorare la qualità delle abitazioni e così via. In altre aree del paese (e non solo nelle regioni meridionali) i fabbisogni di aree urbanizzabili era gonfiato a dismisura, oppure il dimensionamento veniva del tutto trascurato, oppure ancora ai calcoli esibiti nelle mendaci relazioni illustrative corrispondevano, nelle tavole del piano e nelle sue norme, quantità del tutto difformi (e sempre molto maggiori.

In realtà, lo strumento preteso a New York all’inizio del XIX secolo per razionalizzare l’espansione urbana, veniva impiegato per un altro dei suoi possibili effetti: valorizzare le aree attorno alle città. Come è abbastanza noto, il valore di un terreno che da agricolo diventa potenzialmente edificabile aumenta molte volte. E così aumenta il valore di un terreno nel quale, invece di un edificio di modeste dimensioni, se ne può costruire uno più grande, oppure adibibile a utilizzazioni più pregiate. Il paradosso è che questo aumento di valore è del tutto indipendente dal fatto che, su quel terreno edificabile, un nuovo edificio nasca davvero: è la virtualità edificatoria impressa dal piano con il colore o il retino che genera il valore.

Se in alcune parti d’Italia gli strumenti dell’urbanistica di quegli anni furono impiegati per rendere le città più efficienti e più belle (se il dimensionamento fu più rigoroso, le analisi sulla struttura del suolo più accurate, gli spazi per le utilità pubbliche e collettive dimensionati in modo più generoso e localizzati con maggiore attenzione), e se in altre parti invece ciò che soprattutto contava era la quantità delle aree per l’edificazione privata rese urbanizzabili ed edificabili, ciò fu causato dal peso che, nelle differenti realtà, avevano gli interessi della speculazione fondiaria e dell’investimento immobiliare. Peso oggettivo, rispetto ai comparti moderni della vita economica, e peso nelle decisioni politiche degli amministratori. Ma questo ci conduce a ragionare della rendita fondiaria, che era appunto il tema politico sotteso al dibattito per la riforma urbanistica.

La questione delregime dei suoli

Di chi è la terra su cui sorge la città? A che fine, e da chi, deve essere utilizzata? Questa è la grande questione. Il suolo urbano era (alcuni secoli fa, in moltissime città europee) di proprietà comune: della città, o del Signore, o del Vescovo, che ne cedevano l’uso per costruirvi le case e le botteghe. Con l’avvento della borghesia la proprietà del suolo fu frammentata e privatizzata. Il suo ruolo principale non fu più quello di costituire la base e, in qualche modo, la materia prima per la costruzione della città, ma divenne sempre più quello di consentire l’arricchimento, con poca fatica, di quanti via via ne venivano in possesso [4].

Da allora, la città è come percorsa da due armate che hanno obiettivi diversi, strumenti diversi, poteri volta a volta diversi. L’una è quella costituita da quanti hanno interesse alla funzionalità della città, alla sua bellezza, alla sua vivibilità: sono quanti usano la città per abitare, per lavorare (siano essi operai o industriali, impiegati o padroni), per conoscere e divertirsi. L’altra armata è costituita da quanti usano la città per arricchirsi mediante il gioco dei valori delle aree fabbricabili. Si tratta di armate a confini variabili: l’industriale è anche proprietario di terreni e di edifici, l’operaio è anche proprietario di una casetta il cui valore aumenterebbe a dismisura se fosse possibile costruirvi un grattacielo. Se non tutti, la grande parte dei soggetti che si muovono sullo scenario della città sono spinti a militare verso l’una e l’altra delle armate a seconda del peso che assegnano alla loro funzione di utenti della città, o di suoi sfruttatori. E purtroppo, mentre l’interesse venale appare con chiarezza ed evidenza, quello alla vivibilità urbana (e a come questa sia ridotta o minacciata o addirittura annullata dal gioco della speculazione) appare più difficilmente, e meno immediatamente comprensibile.

Così, la legge ponte che ridusse l’edificabilità ed estese la pianificazione urbanistica, il decreto sugli standard che ampliò le aree da utilizzare per il verde e le attrezzature collettive (e che perciò riduceva le prospettive di arricchimento dei proprietari) furono certamente vittorie di chi si sentiva in primo luogo utente della città. Ma furono vissute come dure sconfitte dagli altri. La Corte costituzionale intervenne, nel 1968, oggettivamente a vantaggio di questi ultimi: decretò l’illegittimità costituzionale delle norme delle leggi urbanistiche che consentivano di espropriare, a un valore sostanzialmente agricolo, le aree ad alcuni proprietari (quelli interessati da previsioni di spazi pubblici, strade e così via), mentre consentiva ad altri di arricchirsi.

Da allora a oggi, si sono susseguite proposte di riforma mai approvate dal Parlamento, leggine che tentavano di prorogare o tamponare gli effetti della sentenza costituzionale, e reiterate denunce di quest’ultima. Ma l’ingiustizia rilevata dalla Corte costituzionale rimane, i cambiamenti nelle utilizzazioni del suolo decise dai piani regolatori determinano aumenti o diminuzioni dei valori fondiari, e la mano degli interessi immobiliari continua a premere sulla matita con cui gli urbanisti e gli amministratori disegnano il futuro della città.

Dall’articolo 18alla legge 167 del 1962

La legge urbanistica del 1942 prevedeva, come ho ricordato, uno strumento che avrebbe potuto contenere gli effetti dell’appropriazione privata dei suoli urbani, almeno nelle aree di nuova urbanizzazione, impedendo che l’incremento di valore, derivante dalle decisioni della collettività, si traducesse in un aumento dei costi degli alloggi e delle urbanizzazioni. Si tratta di quell’articolo (il 18) che consentiva ai comuni di espropriare le aree nelle quali il piano prevedesse cospicue trasformazioni (come quelle nelle quali all’utilizzazione agricola il piano prevede di sostituire quella edilizia). Solo due comuni, in Italia, tentarono di applicare quello strumento, ma i tentativi di allargarne l’incidenza furono frustrati dai ricorsi dei privati e dall’appoggio che ad essi diede la magistratura amministrativa.

Il tentativo di costituire demani comunali di aree edificabili fu ripreso nel 1962. Quasi come un sottoprodotto del dibattito sulla riforma urbanistica (che in quegli anni divampava più acceso) il ministro democristiano Sullo fece approvare al Parlamento una legge la quale, per “favorire l’acquisizione di aree da destinare all’edilizia economica e popolare”, consentiva ai comuni di espropriare aree in misura consistente (si poteva giungere al 70% dell’intero fabbisogno di nuove aree edificabili),. Le aree così acquisite dal Comune vengono urbanizzate e cedute agli utilizzatori (con priorità a quanti realizzano edilizia destinata ai ceti meno abbienti).

La legge fu usata anch’essa (come quasi tutti gli strumenti positivi dell’urbanistica) in modo molto differenziato, nello spazio e nel tempo. In alcune parti del paese si trascurò del tutto la possibilità di utilizzarla come strumento di una politica di crescita razionale della città; in alcune fasi della nostra vita politica si indebolì la portata della legge, e addirittura la su utilizzò a vantaggio della proprietà fondiaria. Ma nei comuni in cui si era consolidata una “cultura della pianificazione” l’impiego congiunto delle potenzialità di questa legge e delle nuove regole prescritte in materia di standard urbanistici consentirono di realizzare parti di città dove è più gradevole vivere, le abitazioni costano meno, gli spazi verdi e le attrezzature pubbliche sono più abbondanti, meglio distribuiti, più facilmente utilizzabili dalle cittadine e i cittadini.

La questione del traffico

Accanto a quella sul regime dei suoli, un’altra grande questione si affacciò negli anni Sessanta e non è stata risolta (ma, semmai, si è progressivamente aggravata): la questione del traffico. Mentre in altri paesi europei, alla costruzione di una rete autostradale e all’espansione del parco automobili si accompagnavano intelligenti ed efficaci politiche di ampliamento della rete del ferro (ferrovie regionali, linee metropolitane, tramvie in sede propria o promiscua), di utilizzazione delle vie d’acqua per il trasporto delle merci, di promozione del trasporto meccanico leggero (biciclette), in Italia tutti gli sforzi erano indirizzati alla costruzione della rete autostradale e alla promozione, con ogni mezzo, del trasporto individuale. Gli anni Sessanta sono stati gli anni dell’automobile: questa è diventata la regina del trasporto e, contemporaneamente, la distruttrice della città.

Nell’orizzonte urbano si è manifestato insomma quello che definisco "il paradosso del traffico". Nelle grandi e medie città, nelle ore di punta (cioè nei momenti in cui i cittadini hanno più bisogno di spostarsi) le strade diventano ingorghi di dimensioni maggiori o minori. I marciapiedi sono sottratti alla loro originaria destinazione, e il pedone è ostacolato dalle automobili disordinatamente in sosta. Le piazze, i luoghi nati per l’incontro e la sosta degli abitanti, sono diventate immensi parcheggi. E muoversi, spostarsi è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

Dietro a questo disagio, dietro al “paradosso del traffico”, ci sono certamente ragioni di politica generale (e di miopia nazionale). Ma è giusto sottolineare che ci sono anche colpe ed errori degli urbanisti. L’urbanistica del Novecento ha indotto infatti a progettare le città applicando una “zonizzazione funzionale” rigidamente e ottusamente applicata: distinguendo cioè nettamente la parti della città destinate pressoché integralmente alla residenza, quelle adibite all’industria, all’artigianato, alle attività direzionali. In tal modo non solo si è contraddetto il carattere complesso della città, si è dimenticato che la sua ricchezza e la sua vitalità sono determinate dalla vicinanza di funzioni, ruoli, attività, ceti sociali diversi. Ciò ha provocato e provoca ancora, nelle ore di punta, giganteschi esodi delle automobili dalla zone residenziali a quelle dell’industria e delle altre attività lavorative, spesso localizzate sui lati opposti del centro storico.

Altri strumenti nuoviil Ppa, l’equo canone, il recupero

Fino alla fine degli anni Sessanta l’urbanistica italiana era indirizzata al tentativo (a volte riuscito, altre meno) di governare l’espansione della città. Le grandi trasformazioni territoriali, l’incremento della popolazione, l’ancor più accentuato incremento delle aree urbanizzate derivante dalle iniziative di valorizzazione economica dei terreni avevano fatto sì che le città fossero in continua espansione: si calcola che in negli anni successivi al dopoguerra le superfici urbanizzate siano aumentate del 1000 per 100 (mille per cento): in pochi decenni si è radicalmente trasformata (coprendola di strade, palazzi, piazzali, capannoni, ville e villette ecc.) una quantità di terreno pari a dieci volte quella che si è urbanizzata in alcuni millenni. Sulla base di un’analisi della realtà e delle tendenze si proclamò in quegli anni che “l’età dell’espansione è terminata”. Il problema al quale volgere l’attenzione diveniva sempre di più quello del risanamento, della riqualificazione, del recupero e riuso, della gestione e manutenzione dell’enorme stock di edifici e urbanizzazioni realizzato nei decenni precedenti. In questo quadro, alcuni problemi assunsero rilievo sociale e provocarono il formarsi di alcuni nuovi strumenti.

In primo luogo, il problema della casa. Non era più, se non marginalmente, un problema quantitativo. Si trattava di razionalizzare l’uso dello stock edilizio esistente, di avviare politiche di recupero, di ridurre le paradossali differenze che si erano sedimentate nei livelli degli affitti (dove si andava dai fitti “bloccati” ai valori dell’anteguerra, fino ai fitti “liberi” il cui livello era in molti casi diventato insopportabile per i redditi delle famiglie medie). Si comprese poi, più generalmente, che la politica urbanistica non era sufficiente a governare le trasformazioni urbane se non era integrata da politiche attive, in grado di condizionare o promuovere, anche con strumenti finanziari, i comportamenti degli operatori privati, e di vincolare alle scelte urbanistiche la politica di bilancio dei comuni.

Vennero così introdotti alcuni utili strumenti. L’ equo canone, tendente a stabilire una sorta di “prezzo amministrato” delle abitazioni, tale da compensare l’investimento e il risparmio ma da non incidere eccessivamente sui redditi familiari. La programmazione dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa, nel cui ambito trovava finalmente posto il recupero degli edifici inutilizzati o degradati, che avrebbe dovuto assumere importanza crescente. La programmazione dell’attuazione dei piani regolatori mediante il programma pluriennale d’attuazione, che avrebbe dovuto consentire (e in molte zone d’Italia effettivamente consentì) di far convergere le risorse pubbliche e private nel processo di costruzione e trasformazione della città governandole nel tempo anziché solo nello spazio, e consentendo così che le strade e le fogne, le scuole e il verde, venissero programmati, progettati e realizzati in modo coordinato. Si stabiliva che gli oneri dell’urbanizzazione (e cioè le spese necessarie per realizzare effettivamente le attrezzature e i servizi previsti dalla normativa sugli standard urbanistici) venissero poste a carico dei realizzatori delle iniziative edilizie.

L’ambiente entranella pianificazione

E’ nel corso degli anni Settanta che è esploso, in Italia, l’interesse e la preoccupazione per l’ambiente. Preoccupazioni di carattere planetario e consapevolezza della limitatezza e irriproducibilità delle risorse territoriali si sono legate alle esigenze di maggiore qualità, di difesa di quelle (naturali e storiche) presenti nel nostro paese e nei suoi differenziati siti. Poiché la pianificazione urbanistica ha a che fare con il territorio, e questo è una delle componenti essenziali dell’ambiente, lo sviluppo dell’ambientalismo doveva incontrare l’urbanistica. In realtà, ambientalismo e urbanistica sono apparsi per un certo periodo due dimensioni diverse, a volta in opposizione tra loro. E d’altra parte bisogna riconoscere che l’urbanistica moderna si è foggiata, e ha formato i propri strumenti, in relazione alle esigenze di razionalizzazione in una fase di espansione. Ha avuto qualche difficoltà a riconvertire la propria “ideologia”, e i propri attrezzi, in una fase in cui l’esigenza dominante non era più quella della crescita delle grandezze fisiche, ma quella della tutela dell’ambiente e della riqualificazione delle urbanizzazioni consolidate.

L’ambientalismo, per conto suo, ha oscillato tra due tensioni estreme: da un lato, l’aspirazione a disegnare un sistema di valori radicalmente diverso da quelli precedenti, a partire dalla interpretazione del rapporto tra uomo e natura (uomo e creazione del mondo), e dalla lettura dei destini del sistema planetario; dall’altro lato, la difesa della singola realtà naturalistica, o ecologica, o culturale, in questo o in quell’altro luogo. Il movimento ambientalistico ha coniato lo slogan “pensare globalmente, agire localmente” per tentare una sintesi tra queste due visioni - la planetaria e la localistica - delle proprie tensioni. Gli è spesso sfuggito che la pianificazione si pone oggettivamente come il terreno più propizio per compiere tale sintesi.

Un primo passo per introdurre nella pianificazione urbanistica l’obiettivo della tutela dell’ambiente è avvenuto con la cosiddetta “Legge Galasso”, la 431 del 1985. Con questa legge si sono introdotti due rilevanti principi, gravidi di portata pratica. In primo luogo si è stabilito che erano meritevoli di tutela non solo singoli paesaggi eccezionali, ma l’insieme degli elementi caratterizzanti la “forma del paese”: la grande orditura del paesaggio Italiano, costituita dai monti e dalle coste, dai corsi d’acqua e dai boschi, dai vulcani e dai ghiacciai. In secondo luogo si è stabilito che sia questi elementi (rilevanti a livello dell’intero paese), ma anche quelli più minuti e circoscritti e locali (individuabili ai livelli regionale e comunale) dovevano essere tutelati attraverso la pianificazione ordinaria: inserendo, cioè, nei piani d’ogni livello, a partire da quelli regionali una “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.

Di più, il legislatore non poté o non volle dire. Del resto, dal 1970 erano state istituite le regioni a statuto ordinario, previste dalla Costituzione e cui questa affida le competenze legislative in materia di urbanistica, nell’ambito dei principi fissati dalla legislazione nazionale. Era alle regioni, quindi, che spettava il compito di arricchire, implementare e tradurre nel sistema della pianificazione i principi stabiliti dalla legge Galasso. Come al solito, alcune lo fecero, altre no. Tra quelle che lo fecero alcune si comportarono correttamente (e introdussero, nei loro piani e nella loro legislazione, elementi di effettiva difesa e valorizzazione delle qualità dell’ambiente) altre meno. Salvo poche lodevoli eccezioni, lo Stato non intervenne per sostituire le regioni inadempienti, come pure avrebbe potuto.

Ugualmente lo Stato non è intervenuto per stimolare l’attuazione di un’atra legge rilevante approvata in quegli anni, dopo alcuni decenni di lavoro di commissioni di studio: la legge per la difesa del suolo, approvata nel 1989. Con quella legge si è finalmente operata una sintesi tra due aspetti della questione ambientale, tra loro strettamente legati ma fino allora visti in modo settoriale: la difesa dei suoli dalle acque, e la difesa delle acque, risorsa indispensabile la cui qualità tende a deteriorarsi. I “piani di bacino” dovrebbero definire sia le condizioni che l’esigenza di tutelare la terra e l’acqua pongono alle trasformazioni urbanistiche (e quindi sono un input decisivo per la pianificazione ordinaria delle regioni, le province e i comuni), sia gli specifici interventi e opere che è necessario attuare per porre riparo alle situazioni di rischio e di degrado. La redazione dei piani di bacino procede però con lentezza esasperante.

La questione del“livello intermedio”

Fin dall’Ottocento, e per tutto il Novecento, la città ha cominciato ad espandersi sul territorio, coinvolgendolo nella propria rete di comunicazioni e relazioni ed esportandovi ciò che diveniva ingombrante. Le strade e le ferrovie, i sistemi di trasporto delle persone e delle merci avvicinavano sempre più paesi e città una volta separate da ore di percorso. Prima le fabbriche, poi gli ospedali e le carceri, i grandi centri commerciali e quelli di ricreazione e divertimento, le discariche e i depuratori, tutto ciò è venuto via via a occupare territorio. L’espansione delle città e dei paesi è avvenuta lungo le strade che li collegavano, e si è via via infittita: spesso si è trasformata in una continuità edilizia ha travalicato i confini comunali in quei luoghi in cui la città si è trasformata in metropoli. Oggi, ciascun cittadino soddisfa le proprie esigenze (dalla scuola alla salute, dal tempo libero al lavoro) in. ambiti spaziali che non coincidono più con il paese o il quartiere. Dal concetto di città siamo passati a quello di territorio urbanizzato.

Questa trasformazione oggettiva del modo in cui la società vive il territorio ha provocato il nascere di esigenze nuove, e della necessità di nuovi strumenti, per la pianificazione. Si è aperto così, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, il dibattito sulla pianificazione di “area vasta”. Si trattava in primo luogo di istituire le regioni, ma anche di individuare ambiti territoriali più ampi di quelli comunali ai quali applicare la pianificazione: ambiti caratterizzati soprattutto dal fatto che al loro interno i cittadini, per le loro esigenze quotidiane di spostamento dalla casa al lavoro o ai servizi gravitassero sugli stessi poli. E si trattava anche di individuare la dimensione territoriale e la soglia di popolazione nell’ambito delle quali determinati servizi potessero essere convenientemente organizzati. Per esemplificare, non è possibile organizzare gli insediamenti, il servizio di trasporto pubblico e la gestione dei rifiuti a Milano o a Napoli senza governare un ambito molto più vasto di quello del comune capoluogo. Così come non è possibile localizzare adeguatamente una scuola media o un inceneritore in un territorio che comprende molti comuni piccolissimi senza un coordinamento delle politiche urbanistiche che vincoli tutti alle medesime scelte.

Numerosi furono i tentativi compiuti. Si arenarono tutti su di un conflitto: quello tra l’organismo sovracomunale di pianificazione e i singoli comuni che ne facevano parte. Si comprese che il primo non avrebbe avuto autorità sufficiente se i suoi rappresentanti non fossero stati eletti direttamente. Che fare, allora? Aggiungere un ulteriore livello elettivo a quelli già previsti dalla Costituzione? Si scelse un’altra strada. Con la legge 142 del 1990, che ha definito il nuovo ordinamento degli enti locali, si è attribuita la competenza della pianificazione subregionale (e sovracomunale) alle province, e si è stabilità inoltre che, nelle aree nelle quali i flussi pendolari siano più intensi, le connessioni tra i comuni più ricche, la continuità urbana più accentuata, le province assumessero particolari poteri di gestione urbana (sottraendoli ai comuni), costituendo, in luogo della Provincia, la Città metropolitana.

Le città metropolitane non sono state costituite. Il farlo avrebbe comportato lo spostamento di equilibri di potere che le forze politiche non si sono dimostrate disponibili a governare. Le province, invece, hanno avviato (dove più, dove meno) un’attività di pianificazione molto difforme da regione a regione (essa infatti deve essere disciplinata con leggi regionali). E’ troppo presto per stenderne un bilancio. Anche perché, proprio negli anni in cui si ridefiniva l’impalcatura del sistema della pianificazione, il concetto stesso di pianificazione della città e del territorio veniva messo in crisi.

Tangentopoli, l’urbanistica contrattata e la delegittimazione dell’urbanistica

Parallelamente al formarsi di nuovi strumenti positivamente utilizzabili, si è sviluppata (a partire dagli anni Settanta, ma con un’esplosione nel decennio successivo) una tendenza di segno esattamente opposto: una vera e propria controriforma urbanistica che culminò con Tangentopoli. La pianificazione urbanistica fu screditata. Trionfò l’abusivismo. Una visione premoderna più che liberista cominciò a indebolire il potere pubblico; al primato dell’interesse collettivo si venne sostituendo quello dell’interesse di gruppi e di individui. Alla visione complessiva e strategica della città (propria del piano regolatore) furono preferite le decisioni caso per caso, progetto per progetto, proprietario per proprietario. Alla trasparenza delle procedure previste dalla legislazione urbanistica si preferì l’accordo diretto, la contrattazione, il do ut des (humus fertile per la corruzione). Senza modificare il quadro legislativo vigente, vi si introdussero strumenti con esso contraddittori: gli accordi di programma, i progetti urbani integrati ecc., il cui scopo era quello di scavalcare le procedure normali.

Il conflitto tra interessi proprietari e interessi generali della cittadinanza (il conflitto centrale nel governo della città) fu affrontato in termini esattamente capovolti rispetto a quelli tradizionali. L’urbanistica non fu più considerata come un insieme di tecniche e procedure finalizzate a disegnare il miglior possibile assetto nell’interesse collettivo, a definire quindi le regole alle quali (appunto nell’interesse della collettività) gli interventi dei singoli operatori dovevano subordinarsi. Essa divenne il terreno di contrattazione dell’amministratore (e del politico) con gli interessi forti: quelli della rendita, più che quelli del profitto.

Nacque così quella che venne definita (non sempre con un’accentuazione critica) urbanistica contrattata. Essa in ultima analisi può essere definita come la sostituzione, a un sistema di regole valide nei confronti di tutti, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta (e si è manifestata e continua a manifestarsi numerosissime circostanze) ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune [5].

Il danno provocato dall’estendersi dell’urbanistica contrattata (e, più in generale, dalla ricerca di scorciatoie rispetto alle regole della pianificazione urbanistica) è enorme. Ma della sua portata potremo renderci conto solo quando i suoi effetti si saranno manifestati nella realtà: come si sa, i tempi che separano le decisioni sul territorio dal manifestarsi dei loro effetti sulle concrete condizioni di vita dei cittadini sono molto lunghi. Gli errori dei padri li pagano i figli e i nipoti.

Critiche alla pianificazione tradizionale

Prima ancora che i fautori di un’urbanistica contrattata con i poteri forti si adoperassero per esautorare la pianificazione, nell’ambito stesso della cultura urbanistica era avviato un processo di critica e di revisione degli strumenti dell’urbanistica. Le critiche alla pianificazione tradizionale (quella, cioè foggiata e praticata in Italia sul ceppo della legge del 1942) toccavano diversi profili della questione.

Sotto un primo profilo si criticava (e si critica) la pianificazione per la sua scarsa capacità di rappresentare, mobilitare, governare la società. La si trovava, a questo fine inefficiente e confusa, poco convincente e poco esplicita come rappresentazione degli interessi vincenti. Per le medesime ragioni la si trovava incapace di mobilitare gli interessi che vorrebbe promuovere, e assolutamente inefficiente al fine di governare la società, nel senso di tradursi effettivamente in una serie di azioni che conducano alla realizzazione dell'assetto desiderato e promesso.

Sotto un secondo profilo si chiedeva alla pianificazione efficienza e tempestività nel dare le risposte necessarie ai problemi che essa intenderebbe risolvere. La lunghezza dei tempi che intercorrono dal momento in cui l'esigenza viene posta a quello nel quale essa viene avviata a soluzione sono tali che fuoriescono da qualunque schema di ragionamento economico. Per di più, è altamente improbabile che le previsioni della pianificazione si realizzino effettivamente, oppure si realizzino nei modi e nei tempi promessi.

Sotto un terzo profilo si chiedeva alla pianificazione di essere uno strumento di tutela dell'ambiente naturale e storico. La circostanza che la pianificazione tradizionale abbia a volte promosso, spesso tollerato e consentito, devastazioni delle qualità ambientali ha generato una comprensibile sfiducia nella sua capacità di essere utile a una politica ambientalista. Del resto, la scarsa efficacia del piano lo rende uno strumento poco affidabile anche quando di per sé (nelle scelte delle sue "carte") risponde positivamente all'esigenza ambientalista.

Le critiche avevano certamente un loro fondamento. Non tutte, però, potevano postulare soluzioni all’interno della disciplina dell’urbanistica. Così, il crescente divario tra urbanistica e società (sotteso al primo dei profili critici cui mi sono riferito) non era che un aspetto della più generale crisi della politica. Politica e urbanistica sono due discipline strettamente legate: c’è chi arriva a dire, non senza ragione che “l’urbanistica è una parte della politica” [6], e c’è chi lucidamente definisce il piano urbanistico “una scelta politica tecnicamente assistita” [7]. E se la politica ha smesso di proporre progetti alternativi di società, prospettive concorrenti per il suo futuro, e si è ridotta al mero esercizio del potere, quale ruolo di rappresentanza della società può mai svolgere la pianificazione urbanistica?

Più vicini al dominio dell’urbanistica sono gli altri due profili critici. Di essi si è tenuto conto, negli ultimi lustri, proponendo e sperimentando innovazioni consistenti al modo di definire e adoperare gli strumenti della pianificazione. Due sono, a mio parere, le direzioni più innovative e promettenti.

Due innovazioni

La prima innovazione ha a che fare soprattutto con il rapporto tra il piano urbanistico e il tempo. Essa si propone di risolvere la questione della eccessiva rigidità degli strumenti urbanistici (che rende il sistema delle scelte pubbliche incapace di seguire con la necessaria adattabilità i cambiamenti delle esigenze sociali, delle disponibilità economiche, delle opportunità politiche), e dell’assoluto disordine provocato dal tentare di raggiungere un’adeguata flessibilità con l’impiego di strumenti episodici e casuali (le varianti, le deroghe e gli altri espedienti via via inventati nel corso degli anni di Tangentopoli). In termini molto sintetici si può dire che la soluzione è stata proposta (a partire dagli anni Ottanta), e introdotta in alcune legislazioni regionali, basandosi sul presupposto che la pianificazione è ormai un’attività costante e sistematica delle pubbliche amministrazioni. Non si tratta insomma di fare, una volta ogni dieci o vent’anni, un Piano, ma di governare le trasformazioni territoriali con una pianificazione caratterizzata da continuità e sistematicità.

In questa logica, è possibile distinguere due tipi di scelte: quelle che hanno un carattere permanente, o comunque devono essere considerate valide in relazione a periodi lunghi (per esempi, le scelte relative alla tutela degli elementi fragili del territorio, alla salvaguardia delle qualità naturali e storiche, alle grandi decisioni di carattere strategico), e scelte che, viceversa, devono essere assunte in relazione ad esigenze e opportunità che possono variare notevolmente nel tempo. Ed è possibile definire e modificare le previsioni di piano relative al secondo ordine di scelte con procedure molto più snelle di quelle attuali. La distinzione tra il “piano strategico” o “strutturale”, e il “piano operativo” o “piano del sindaco”, che si è diffusa nella pubblicistica recente e in alcune legislazioni regionali, è espressione appunto di questa innovazione.

Una seconda innovazione rilevante riguarda, in qualche modo, il rapporto tra la pianificazione e lo spazio fisico. Quest’ultimo è stato generalmente considerato, nella pianificazione tradizionale, come un supporto generico e sostanzialmente omogeneo per l’urbanizzazione. Al territorio non era riconosciuta (se non in alcune esperienze significative perché eccezionali) una personalità propria: non era considerato come un insieme di valori e di risorse, di opportunità differenziate e di dissimulati rischi, che occorreva valutare con attenzione prima di qualunque previsione di trasformazione.

L’emergere delle preoccupazioni e delle esigenze dell’ambientalismo e dell’ecologismo ha contribuito ad attirare l’attenzione degli urbanisti su questo versante. Un impulso notevole all’introduzione, all’interno stesso dei procedimenti della pianificazione, di una nuova attenzione all’ambiente naturale e storico è stato dato con la legge 431 del 1985 (la cosiddetta Legge Galasso). Questa ha sostanzialmente orientato la pianificazione regionale (e, attraverso essa, anche quella dei livelli sottordinati, il provinciale e il comunale) ad attribuire agli strumenti della pianificazione ordinaria “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Da allora, dove più e dove meno, a volte in modo rigoroso altre volte in modo fittizio, badando più al contenuto dei piani o più alle loro denominazioni, si sono sperimentate soluzioni diverse, ma generalmente confluenti, per ispirare la pianificazione delle città e del territorio a un nuovo principio: le qualità naturali e storiche del territorio sono una ricchezza per questa e per le future generazioni; il territorio è sede di risorse limitate e non riproducibili, essenziali per la vita dell’umanità; trascurare questi caratteri del territorio provoca non solo sprechi e impoverimento, ma anche rischi gravi per l’economia e per la stessa vita degli uomini. Questa consapevolezza deve essere alla base di quelle scelte le quali, come la pianificazione, hanno l’obiettivo di governare le trasformazioni del territorio e renderle funzionali al sistema di obiettivi che la collettività si è data [8].

Sul modo in cui queste innovazioni stanno effettivamente cambiando il quadro degli strumenti utilizzati dall’urbanistica, sulle modificazioni che in tal modo possono manifestarsi nel quadro fisico e funzionale della vita dell’uomo e della società (la città e il territorio), occorrerebbe aprire un nuovo capitolo, la cui ampiezza non sarebbe conciliabile né con gli spazi né con i tempi assegnati a questo contributo.

Edoardo Salzano

[1] Per un racconto più ampio di ciò che è successo in Italia nell’ultimo mezzo secolo suggerisco la lettura del libro: Vezio De Lucia, Se questa è una città. Editori Riuniti, Roma 1992.

[2] Ada Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998, p.52.

[3] Ministero dei lavori pubblici, Commissione d’indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministra, on. Giacomo Mancini, Roma, 1966

[4] Una splendida descrizione del processo di privatizzazione del suolo urbano è costituita da: Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Vallardi, Milano 1951

[5] Un’analisi anche urbanistica di Tangentopoli à contenuta nel libro: P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco: Come e perché, Editori Riuniti, Roma 1995 .

[6] Leonardo Benevolo, , Le origini dell’urbanistica moderna, Bari, Laterza 199111

[7] Francesco Indovina, La città diffusa, in Aa.vv, “La città diffusa”, Daest, Venezia 1990.

[8] Ho trattato più ampiamente questo argomento, e altri contenuti in questo scritto, in: Edoardo Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Giuseppe Laterza Editori, Bari-Roma 1998.

Da la Repubblica, 27 dicembre 2007

Il territorio cambia, e con esso cambia la vita degli uomini. Non tutti se ne rendono conto, ed è per questo che il suo governo (la pianificazione delle città e del territorio) è così trascurato. Quando poi impieghiamo ore nevrotiche nel traffico, o vediamo i paesaggi dell’infanzia scomparire, o non troviamo alloggio a prezzi ragionevoli là dove ci serve, o non troviamo vicino casa quello che nei paesi civili è la dotazione di ogni abitazione (il verde, la scuola, il negozio), allora di fatto lamentiamo, tardivamente, gli effetti di scelte compiute, nella distrazione di tutti, molti anni prima.

Benché nessuno se ne scandalizzi più che tanto, le decisioni attraverso le quali l’organizzazione e la forma del territorio (il suo “assetto”) vengono modificati non sono decisioni prese consapevolmente, da chi ha l’autorità morale per farle, nell’interesse degli utenti del territorio: sono (almeno nel nostro paese) il risultato di scelte conseguenti ad altri interessi. Interessi magari in se legittimi, ma orientati a obiettivi che non comprendono il maggiore benessere collettivo.

Così, quando si sono realizzate le ferrovie ci si è preoccupati di collegare il più velocemente ed economicamente possibile mercati tra loro connessi da ragioni commerciali, senza curarsi dei paesi tagliati in due (pensiamo a tante città italiane), delle spiagge allontanate dai suoi fruitori (pensiamo alla costa marchigiana e abruzzese), dei versanti dei monti tagliati e resi pericolanti e instabili. Quando si sono costruite le fabbriche ci si è preoccupati di avere il terreno a basso prezzo, la mano d’opera vicina, l’acqua a portata di mano: dell’inquinamento delle falde acquifere, degli effetti sul traffico nelle strade circostanti, dei rischi derivanti dalle specifiche produzioni industriali non ci si è preoccupati affatto.

E così, più recentemente, quando si sono aperti alle periferie delle città supermercati e ipermercati si è pensato alle quote di consumo che potevano essere accaparrate vendendo vasti assortimenti di merci a basso costo a un numero elevato di consumatori, non si pensato né alla congestione del traffico che ne derivava nella viabilità circostante né allo svuotamento dei centri antichi e dei quartieri urbani dalle attività ivi insediate. E’ stata, questa, una causa non piccola del degrado delle città, e in particolare delle parti più antiche. Ha incoraggiato la riduzione delle periferie in dormitori e dei quartieri antichi in luoghi fittiziamente animati solo dal turismo e dagli uffici.

Il commercio, lo scambio di beni e merci ha sempre avuto un ruolo particolare nella città. Alle origini, ne ha provocato la nascita e le fortune. La collocazione sul territorio dei nuclei originari delle nostre città è stata determinata, oltre e forse più ancora che dalle ragioni della difesa, da quelle dello scambio. Intrecciandosi con la vita civile e quella religiosa ha dato vita a una tipologia di luoghi che costituisce – insieme alla città – una delle invenzioni più rilevanti della creatività comune dell’umanità: le piazze, i luoghi dell’incontro, della socialità, dello scambio di beni, informazioni, esperienze, emozioni. Quando poi il commercio si è separato dalle altre funzioni urbane sono nate le periferie-dormitorio, la specializzazione funzionale delle diverse parti della città, la segregazione sociale – in una parole, una componente vistosa del disagio urbano.

Se questo è vero, se quindi la configurazione spaziale del commercio e la sua relazione con le altre funzioni urbane è essenziale per la città, e se questa è in una fase di veloce trasformazione, allora è evidente che il campo di ricerca di Fabrizio Bottini presentato in questo volume è importante non solo per gli studi urbanistici, ma per gli interessi degli abitanti delle città. Bottini indaga infatti sulle logiche interne che determinano l’attuale tendenza delle attività commerciali e delle loro connessioni con l’ambiente, sui modi in cui esse si esprimono e sulle mode che li alimentano, sugli effetti concreti che esse generano nei concreti territori della nostra vita.

Due sono gli spazi geografici privilegiati dall’analisi di Bottini: gli USA e quell’area pianeggiante, una volta irrorata dal Po e oggi da un rutilante sistema di comunicazioni, che l’attuale pubblicistica ha denominato Padania.

Evidente è la scelta del primo riferimento. Gli USA sono infatti l’ambito entro il quale è più facile osservare i risultati di uno sviluppo basato sulla netta prevalenza (sul dominio) delle ideologie liberiste e della concorrenza economica come motore esclusivo della macchina sociale. Una delle tendenze (delle ideologie) che attualmente si contendono il diritto di governare nel nostro paese: forse la più forte, certo la meno contrastata. Del resto, il pragmatismo americano è stato anche capace di comprendere per primo i limiti del mercato e di applicare alcuni empirici strumenti per non farli divenire catastrofici: non dimentichiamo che fu nell’America del nord (a New York, nel 1811) che si produsse il primo piano regolatore per disciplinare una città resa inutilizzabile dallo spontaneismo delle decisioni sul territorio, e che fu negli USA (col roosveltiano New Deal) che si applicò in grandi dimensioni la pianificazione territoriale per sanare gli effetti sulla società americana della crisi del capitalismo.

Studiare gli Stati uniti, comprendere e documentare come lì vanno le cose, le tendenze che si manifestano, i benefici e i danni che provocano, i soggetti tra cui si distribuiscono gli uni e gli altri, i modi in cui si cerca di governare e contenere gli effetti negativi è quindi molto utile non solo per acquisire consapevolezza di ciò che accade oltreoceano, ma per saper leggere e correggere in anticipo (prevenire) ciò che sta già avvenendo qui, da noi.

Qui da noi, e soprattutto nelle pianure del Nord evoluto e regressivo. Quel Nord padano lacerato tra l’antica propensione europea prima che europeista, e il più arcaico idiotismo delle valli chiuse e degli orizzonti ristretti, tra le consolidate tradizioni di saggezza amministrativa e di solidarismo sociale e le spinte individualistiche del guadagno rapido e certo. Quel Nord nel quale si sono sperimentati i più evoluti meccanismi di pianificazione e le più regressive pratiche di deregulation: per esemplificare, da Giovanni Astengo a Giovanni Verga. Qui, nelle sue terre che ancora gli suscitano commozioni, Bottini descrive e analizza, con il rigore dello scienziato, la passione dell’abitante, la penna del giornalista (e con un’ironia costante, che è insieme saggio distacco dalle cose e mitigazione di quanto in esse c’è di sgradevole e perverso) ciò che sta avvenendo, a prefigurazione di quanto potrebbe consolidarsi, ingigantirsi e propagarsi dappertutto.

Nel libro troverete dunque un’analisi appassionata di ciò che sta avvenendo in Italia, alla luce di ciò che è avvenuto negli Stati uniti: a partire dalla pompa di benzina (in cui Bottini vede il primissimo germe di quella connessione extraurbana, e intimamente antiurbana, tra commercio e autostrada) e dello shopping mall, passando per il factory outlet village, per giungere alla forma attuale del big box, la “grande scatola”, che in qualche modo sembra riassumere e concludere un percorso storico di nuova barbarie.

Intendiamoci: gli accenti perentori e indignati verso questa forma di distruzione della città sono miei, non dell'autore del libro. Bottini riesce infatti sempre ad avere un atteggiamento di comprensione nei confronti delle novità che si affacciano e delle esigenze cui rispondono. Sebbene metta sempre in evidenza i giudizi critici (gli è sempre presente lo slogan del sito Sprawlbusters!, “la qualità della vita vale più di un paio di mutande a poco prezzo”), lo spirito con il quale egli descrive e valuta è quello che emerge nelle conclusioni, dove precisa che il suo lavoro “non può e non vuole suggerire soluzioni, almeno non più di quanto implicitamente inteso nelle sequenze di casi e problemi esaminati”, e richiama “l’obiettivo di approfittare il più possibile delle opportunità offerte dai nuovi modi di uso dello spazio metropolitano e regionale, ferme restando le cautele di carattere sia ambientale che sociale su cui si è più volte tornati”.

Resta però, conclude Bottini, “la necessità di fare l’abitudine ad un rapporto fisiologicamente più conflittuale, a livello meno localistico, fra società e impresa commerciale; perché pare, e non da oggi, che solo dai conflitti nascano le innovazioni, in questo come in altri campi”.

Certo, il conflitto, la dialettica, è la molla che muove il mondo e lo fa progredire. Ma perché il percorso dialettico conduca alla sintesi, e non allo schiacciamento della tesi da parte dell’antitesi (o viceversa), occorre che vi sia un certo equilibrio tra le forze in campo. Non mi sembra che, sull’argomento specifico questo equilibro vi sia, almeno nel nostro paese e negli USA.

Sconfinato sembra infatti il potere di quella che Bottini definisce “impresa commerciale”: il mondo delle grandi holding, delle multinazionali dirette da un gruppo sempre più ristretto di soggetti, espressioni di una cultura dominatrice più che egemone. Un mondo il cui obiettivo è la maggiore ricchezza e il maggior potere acquisibili mediante l’impiego di tutti gli strumenti: il mercato e il monopolio, il liberismo e il protezionismo e l’assistenzialismo, la persuasione occulta e la guerra.

Esile invece, incerto sulla sua “missione”, affascinato dall’ideologia della “impresa commerciale” è dall’altro lato il mondo che del primo dovrebbe costituire l’antitesi onde costruire la superante sintesi: il mondo dell’amministrazione pubblica. Quel mondo il cui obiettivo istituzionale è difendere e promuovere gli interessi dell’intera società, e in particolare di gli strati e gli interessi dei quali il sistema dominante non si occupa se non residualmente.

Un simile squilibrio tra le forze in campo non stupisce negli USA, dove al potere pubblico è stato originariamente assegnato un ruolo di mero sostegno al mercato, e dove quindi il tentativo che si compie è quello di contrastare le iniziative della “impresa commerciale”, o più spesso di moderarne gli effetti più dannosi. Può stupire in Italia, parte di quell’Europa nella quale la relativa debolezza del sistema capitalistico-borghese ha storicamente condotto l’attore pubblico a svolgere un ruolo di guida e di supplenza al mercato e alle sue imperfezioni, e dove comunque gli interessi comuni, “cittadini”, hanno sempre costituito un potere strutturato, capace di confrontarsi in modo non subalterno con gli interessi dell’impresa.

Ma in Italia la capacità di governo del territorio si è manifestata unicamente a livello locale. Non a caso, in epoca contemporanea l’unico strumento di pianificazione adoperato è stato il piano regolatore comunale. Ora che i fenomeni (come Bottini limpidamente ed efficacemente illustra) sono diventati sovracomunali, si rivelano in tutta la loro gravità, da un lato, il ritardo con cui in Italia si è posto mano alla pianificazione territoriale (ai livelli provinciale, regionale e nazionale), e, dall’altro, lato la subalternità culturale della grande maggioranza delle forze politiche (e dello stesso mondo accademico) nei confronti dell’ideologia mercantilistica.

Non può considerarsi casuale il fatto che, mentre le strategie territoriali delle “imprese commerciali” si svelano nella loro lucida aggressività, la pianificazione territoriale delle regioni italiane si traduce nella predisposizione di testi ampiamente descrittivi, illustrativi e interpretativi delle situazioni di fatto, ma privi di qualsiasi operatività. Quest’ultima viene lasciata alle decisioni caso per caso, assunte giorno per giorno dal “governatore” o dal suo staff, aperte alla più scatenata discrezionalità. Ciò proprio mentre oltreoceano si ascoltano sempre più numerose le voci e le proposte che mirano a un’azione pubblica volta a contenere, regolamentare, controllare a priori le trasformazioni indotte dal sistema delle “imprese commerciali”.

L’invincibile provincialismo dei ceti che dirigono il Belpaese e ne determinano il futuro emerge ogni volta che, come nel libro di Fabrizio Bottini, vengono forniti onesti materiali di confronto. La speranza è che questi libri aiutino anche a superarlo.

Edoardo Salzano

Sorano, 31 ottobre 2004

La città è un’invenzione dell’uomo

Oggi consideriamo la città il luogo naturale della vita dell’uomo. In effetti, la stragrande maggioranza della popolazione vive nelle città. Oggi, in Italia la popolazione urbana è quasi il 70%, ma in Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito, si avvicina al 90%, in Germania, Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Corea, Giappone supera l’80%. [1]

Ma non è sempre stato così. L’uomo non ha sempre vissuto in città. La città è una invenzione dell’uomo. Per moltissimi secoli i nostri progenitori vivevano errando su territori sconfinati, seguendo gli animali delle cui carni si nutrivano e delle cui pelli si coprivano, raccogliendo frutti e radici, riparandosi in rifugi di fortuna quando le intemperie li colpivano o le belve li minacciavano. Erano associati in piccoli gruppi o in occasionali orde, quasi come i branchi di animali che inseguivano o con cui competevano. Non avevano regole comuni, se non quelle della sopravvivenza e del dominio del più forte.

Poi impararono alcune cose che gli altri esseri non conoscevano: ad adoperare il fuoco e a farlo vivere, a seminare i frutti degli alberi e delle piante e a far crescere e moltiplicare i prodotti della natura. Inventarono l’ agricoltura e l’ allevamento degli animali.

Ciò produsse una vera e propria rivoluzione nel loro rapporto con il territorio; non furono più “ nomadi” (errabondi sul territorio), divennero “ stanziali”: si fermarono in un sito, dove poter custodire il fuoco, coltivare piccoli appezzamenti di terreno, allevare gli animali addomesticati. Scelsero siti difesi dalle intemperie e dalle belve, terreni fertili, abbondanza di risorse (l’acqua, i prodotti del bosco, quelli del fiume e del mare). Vi costruirono gruppi di abitazioni, i villaggi: più stabili dove la loro attività principale era l’agricoltura, aggregazioni più mobili di capanne (ricordate i wigwam dei pellirosse?) dove praticavano l’allevamento

La stanzialità diede luogo a forme sociali un po’ più ricche del branco o dell’orda: si formarono tribù, famiglie ramificate o gruppi di famiglie. La convivenza stabile impose la necessità di regole: come governare i conflitti che insorgevano tra le persone, come ripartirsi gli incarichi utili a tutti, come proteggere i beni comuni.

Mano a mano che imparavano a migliorare le loro capacità di agricoltori, di allevatori o di pescatori gli uomini scoprirono che dalla natura potevano trarre più di quanto serviva loro per le esigenze elementari: più di quanto fosse necessario per nutrire se stessi e la prole, per coprirsi e ripararsi, per mettere da parte le sementi per la prossima annata e le scorte per i periodi di carestia. Una volta soddisfatte queste esigenze, restava un sovrappiù di beni. Che farne? Cominciarono a scambiarlo tra produttori dei villaggi vicini: chi aveva pelli le dava in cambio di grano, chi aveva pesci li scambiava con i prodotti del latte.

La necessità di scambiare i prodotti in eccesso rispetto alle esigenze di consumo condusse i villaggi ad accrescere le relazioni tra loro. Il territorio fino ad allora poteva immaginarsi costituito da una serie di villaggi da ciascuno dei quali si irraggiava una serie di percorsi, che solo casualmente si incontravano con quelli dei villaggi vicini. Da quel momento (da quando cominciò lo scambio del sovrappiù) si costituì via via una rete di tragitti che congiungevano villaggi diversi: una rete di sentieri, o di percorsi acquei, tracciati dai gruppi di uomini e donne che portavano i loro prodotti ai villaggi vicini, per scambiarli con i loro sovrappiù.

Man mano che le innovazioni introdotte nella loro attività aumentavano la loro produttività (la quantità di prodotto che erano in grado di formare ogni anno), aumentava il sovrappiù. L’esigenza di conservarlo, di difenderlo mentre si accumulava, di scambiarlo, fece nascere nuove necessità e nuove invenzioni, che modificarono l’organizzazione sociale e il rapporto con il territorio. Il villaggio si arricchì di nuove funzioni e nuove costruzioni. Si costruirono magazzini e difese per il sovrappiù, si attrezzarono luoghi dedicati allo scambio: nacque il mercato, là dove arrivavano le carovane che portavano i prodotti dagli altri villaggi, e gli abitanti che volevano scambiare i loro prodotti con quelli portati dai mercanti.

Con il mercante è nata una nuova funzione sociale. Accanto al produttore (agricoltore o allevatore o pescatore che fosse), è nato un soggetto la cui attività economica è quella di aiutare lo scambio: non è più il produttore che va al mercato del villaggio vicino a scambiare la sua produzione, ma è il mercante, che si fa dare il sovrappiù prodotto in un villaggio, lo porta in un altro villaggio, lo scambia. (Nel frattempo è nata la moneta: un equivalente universale di tutti i prodotti. Un prodotto si può scambiare con moneta, questa servirà a comprare un altro prodotto quando ciò sarà necessario o conveniente).

Aumenta il sovrappiù, aumenta lo scambio, si trasforma il territorio. Cresce l’importanza delle strade che collegano tra loro i villaggi (i mercati). Cresce importanza dei luoghi dove s’incrociano più percorsi: sono più facilmente raggiungibili da più punti, sono più accessibili. Il ruolo dei villaggi si diversifica: diventano più rilevanti, più dotati, più abitati i villaggi che si trovano accanto ai mercati dove affluiscono più mercanti. Dunque, quelli posti all’incrocio di itinerari di rilievo. (Avete mai osservatato quante città odierne, trasformazione di antichi villaggi divenuti via via più importanti, sono collocate in un punto dove un corso d’acqua e un percorso di terra si incrociavano, grazie a un guado o a un ponte? Oppure dove una strada di valle o di crinale raggiungevano un sito costiero dove l’approdo era facile?).

La città, casa della società

Là dove il sovrappiù prodotto dalla comunità non viene portato via da un padrone o da un brigante (ricordate il film “I Magnifici Sette”, o il suo bellissimo antenato “I Sette Samurai”?), là dove rimane nelle mani delle famiglie dei produttori, la società si arricchisce e diviene più complessa. Nascono nuove funzioni: al produttore e al mercante si è aggiunto l’artigiano (che dedica il proprio tempo e la propria intelligenza e fatica a riparare gli attrezzi). Alle funzioni propriamente economiche si aggiungono via via quelle sociali: l’amministrazione della giustizia, la difesa verso i nemici esterni, la celebrazione dei valori comuni, il governo degli interessi condivisi.

Nascono e si arricchiscono i luoghi destinati alle funzioni comuni. Accanto al mercato, diventano più belli e più complessi i luoghi dove ci si riunisce per decidere insieme, o per assistere alle celebrazioni comuni, o semplicemente per incontrarsi (così nascono le piazze, che rendono belle le città dell’Europa). Sorgono, e diventano via via più ricchi e adorni, gli edifici destinati alla celebrazione del culto, all’amministrazione della giustizia, al governo della cosa pubblica.

Dal villaggio è nata così, a conclusione di un lungo percorso storico, la città. Se riflettiamo sulle vicende della sua nascita e del suo sviluppo, scopriamo subito qual’è la ragione di fondo della sua invenzione. La città è nata come luogo finalizzato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze che i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano risolvere da soli. La città, insomma, è nata per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali.

E i luoghi, gli spazi, gli edifici dedicati a queste esigenze e funzioni hanno caratterizzato le città, hanno dato a ciascuna di esse una particolare identità e riconoscibilità, sono state la ragione della sua particolare bellezza. Osservate i centri storici delle città italiane o francesi, tedesche od olandesi, spagnole o austriache: quali immagini evocano alla vostra memoria? Ricordate certamente alcuni grandi edifici, adorni e ricchi, più maestosi degli altri, collocati al margine o al centro di piazze, o sistemi di piazze, a loro volta abbellite da fontane e statue e da studiate pavimentazioni. E ricordate i disegni antichi e le antiche storie che vi raccontano come in questi luoghi, nella piazza della cattedrale o in quella del palazzo del governo o in quella del mercato, donne e uomini, vecchi e bambini si incontravano nelle ore del lavoro e in quelle dello svago, e come in quegli stessi luoghi i cittadini accorrevano a frotte, in ogni occasione gioiosa e festosa, o ad ogni allarme o pericolo.

Attorno a questi edifici e spazi, potete osservare ancora oggi il regolare allinearsi delle casette “normali”, dove abitano e lavorano i cittadini e le loro famiglie: case uguali nelle strutture (le altezze, le larghezze, la forma del tetto, il modello delle finestre, nelle regioni piovose il portico sulla strada principale). Come nel contrasto armonico tra il coro e la voce solista, l’uniformità regolare della “edilizia minore” sottolinea l’importanza, la centralità, il ruolo dominante dei grandi volumi e dei grandi spazi (la cattedrale, il mercato, il palazzo del governo, il tribunale): i grandi volumi e i grandi spazi nei quali si identifica e si celebra la città.

La città, insomma, non è un insieme di case: è la casa della società.

“L’aria della città rende liberi”

Nella città tutti avevano diritti. Diritti non uguali: c’era il ceto dei più ricchi e potenti, come i mercanti, i possidenti, più avanti nel tempo gli imprenditori capitalisti; c’erano gli artigiani dei molti mestieri, i padroni di bottega e i semplici lavoratori, i garzoni, i manovali, più tardi gli operai delle fabbriche. Tutti avevano però una base comune di diritti: erano cittadini, quindi, a differenza di quanto non fossero nei villaggi, asserviti a un padrone della terra, erano liberi. Un antico detto medioevale afferma che “l’aria della città rende liberi”.

La comune libertà, il comune diritto di cittadinanza, non impediva i conflitti tra i membri delle diverse classi sociali. Ma i conflitti urbani avevano un carattere diverso rispetto alle sanguinose ribellioni che percorrevano le campagne, opponendo le torme dei miseri servi alle guardie dei ricchi: erano lotte per costruire, per cambiare qualcuna delle regole che garantivano la convivenza civile.

Così fu, ad esempio, nella “rivolta dei Ciompi”, nella Firenze del XIV secolo. I Ciompi erano gli operai della lana, cui si unirono garzoni e operai degli altri mestieri. Rovesciarono con la forza il governo del “popolo grasso” (i mercanti e i padroni delle fabbriche), sostituendovi un governo più vicino al “popolo minuto”. Non saccheggiarono né distrussero la città (come fece più volte il popolo servile delle campagne con i castelli dei signori), ma la governarono con moderazione.

E così fu – per fare un altro esempio classico - nella lotta sindacale che oppose a Lione, la capitale francese della seta, i “ canuts” (gli operai setaioli che, a domicilio, tessevano per i padroni) ai capitalisti e ai mercanti. Un rincaro dei prezzi dei beni d’uso comune li aveva spinti a chiedere un prezzo più alto per il loro lavoro. I padroni lo negarono; i canuts si asserragliarono nel loro quartiere (la Croix Rousse) e resistettero per tre giorni all’assedio e al bombardamento della guardia nazionale. Si giunse a un accordo, grazie alla compattezza dei canuts e delle loro famiglie. La città non fu distrutta e l’economia fiorì più prospera.

L’aria della città non rende solo più liberi: rende anche più solidali i cittadini.

Crisi della città

Questa era la città, quando l’uomo la inventò e la rese la più bella e ricca delle sue costruzioni. Ma poi è cambiata. Oggi non è più così. La città, oggi, è in una crisi profonda. È difficile riconoscerla come la “casa della società”: è più facile definirla il luogo della lacerazione della società. Ricordiamo alcuni aspetti della sua crisi attuale: aspetti che sono presenti nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi.

Oggi moltissimi vivono il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell’uomo e della donna dei nostri tempi (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Oggi la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, per persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri: a causa del traffico e del rumore, del pericolo, del prezzo delle case, dello stesso disegno degli spazi pubblici. Oggi la nostra salute è minacciata dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, i rumori ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Oggi l'abnorme produzione di rifiuti minaccia di seppellirci..

E ricordiamo, soprattutto, quell'aspetto della crisi della città che è il traffico. Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico e paradossale. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

Le ragioni della crisi della città

Sarebbe lungo raccontare le ragioni della crisi della città. Ce n'è una che è centrale e nodale. La questione può essere sintetizzata nel modo seguente. All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati dal processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto in Europa, fin dalla fine del '700 un poderoso aumento della popolazione e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Più avanti nel tempo, per effetto dell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.

Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città dell'ordine di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. E sono città nelle quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini sono tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendono di essere soddisfatte. Nasce quindi una fortissima domanda di fruizione di funzioni urbane: di lavoro “libero” (affrancato dalla servitù), di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.

Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.

I valori della città

Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia.

Le città, intanto, sono ancora il luogo dell'homosocialis, dell'uomo sociale. Sono il luogo in cui l'uomo è inevitabilmente condotto a cercare l'incontrarsi, lo scambiarsi informazioni ed esperienze, gioie e paure, a cercare e trovare il comunicare, lo stare insieme. Sebbene dominata dall'individualismo, la città è ancora il serbatoio dei possibili valori comunitari, delle potenzialità collettive.

E le città poi, soprattutto nel nostro paese - ma nell’intera Europa - sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle nostre città si é consolidato e conservato qualcosa che é un valore in molti sensi: si è conservato e consolidato nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili.

È un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).

È di qui, è dalla tutela e dalla valorizzazione dei valori sociali e culturali che si può partire, che si deve partire per progettare una città nuova: una città capace di superare la crisi attuale.

Quando città e territorioerano realtà contrapposte

Abbiamo parlato della città. Ma per comprendere la città oggi, dobbiamo parlare di un altro protagonista: dobbiamo parlare del territorio.

Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città era il chiuso, il difeso, l'artificiale, il costruito, il denso, il dinamico, mentre il territorio era il luogo aperto, dove si poteva essere attaccati, dove dominava esclusiva la natura, dove la presenza dell’uomo era rada e discontinua, dove le trasformazioni erano lente come i ritmi della natura.

Nel corso del grandioso e drammatico processo di espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio è venuto via via a modificarsi. La città ha cominciato ad "esportare" parti scomode della sua struttura: le prime sono state le fabbriche, allontanate dal tessuto urbano a causa dell'inquinamento e collocate nelle nuove "zone industriali" in periferia. Si è enormemente accresciuta, fin dalla metà del secolo scorso, l'importanza dei trasporti, e il territorio ha cominciato a essere segnato da infrastrutture come le strade, le ferrovie, i canali navigabili.

Nella seconda metà di questo secolo la mobilità sul territorio è aumentata in misura parossistica: è aumentata la rete delle infrastrutture del trasporto, ed è aumentata la loro utilizzazione. E le infrastrutture hanno creato a loro volta nuove convenienze per l'insediamento di funzioni specializzate. Gli ospedali e le caserme, le carceri e le strutture commerciali, gli stadi e le discoteche, contenitori di funzioni che una volta animavano la vita urbana, sono stati localizzate sempre più frequentemente fuori dalle città, in prossimità dei caselli autostradali o delle superstrade.

Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere e usare il territorio. Oltre alle ragioni derivanti dal fatto che determinate funzioni (quelle di cui ho parlato or ora) sono state collocate fuori, oltre a quelle derivanti dal fatto che è più conveniente accedere a servizi localizzati in città diverse dalla nostra (per l’università, per l’ospedale specializzato, per l’approvvigionamento di merci rare, per il concerto o la mostra o lo spettacolo), nuove ragioni sono nate da nuove esigenze: esigenze di contatto con la natura, con ambiente incontaminati, esigenze di rigenerazione psicofisica, di sport attivo, di ricreazione all’aria aperta. La villeggiatura, le gite di fine settimana in collina o nel bosco o a mare, le settimane bianche sulla neve, lo sci e l’alpinismo e la vela: tutte queste pratiche della vita di ciascuno di noi, erano inesistenti o del tutto marginali fino a qualche decennio fa. Oggi, ci hanno condotto a usare il territorio in modo sempre più ampio e frequente.

Il “territorio urbanizzato”

Oggi possiamo dire, in definitiva, che il territorio non è più in opposizione alla città: non è l’altro, non è il fuori. Oggi, la città, o più precisamente la vita urbana, comprende il territorio. Oggi non è più il caso di parlare di città e territorio come di due realtà antitetiche. Oggi è più esatto parlare di territorio urbanizzato come una realtà che comprende insieme le città e il territorio.

Certo, il territorio urbanizzato è formato da realtà tra loro molto diverse. In alcune parti l’urbanizzazione è più densa, la presenza umana è più forte, i flussi di relazione che legano tra loro le diverse persone e attività sono più intensi, la presenza della natura è più debole. In altre parti invece succede il contrario: la presenza della natura è più marcata e più debole è invece la presenza dell’uomo, minore la densità dell’urbanizzazione, l’intensità dei flussi.

La città come “casa della società” si è insomma estesa al territorio, comprendendolo all’interno della rete delle sue esigenze e della sua organizzazione.

Questo fenomeno è avvenuto nel corso della seconda metà del secolo scorso e di questo secolo, con un’accelerazione progressiva. È avvenuto insomma nello stesso periodo di tempo, e per effetto delle stesse sollecitazioni, che hanno provocato la crisi della città. Quella crisi, la crisi della città, non poteva allora non riverberarsi sul territorio. E infatti nell’organizzazione del territorio vediamo rispecchiarsi allargati quegli stessi fenomeni di degrado che abbiamo visto nella città. Proviamo a comprendere che cosa è successo al territorio per effetto dell’estendersi su di esso della presa della città.

Quando anche il selvaticoera sociale

Com’era il territorio, fuori dal recinto della città, trecento o duecento o cent'anni fa? Non era un luogo selvaggio e aspro. Il territorio extraurbano era tutto curato, amministrato, gestito. Non solo quello agricolo, che occupava un'area più estesa di quella odierna, ma anche quello utilizzato per la pastorizia e la silvicoltura, e perfino quello del tutto "selvatico". Perfino i boschi selvaggi, quelli dove le bestie addomesticate non potevano pascolare e che non venivano curati dai boscaioli, erano soggetti a quel minimo di cura che consiste nel togliere via i rami e i tronchi secchi per arderli nei focolari (impedendo così che il corso delle acque nei torrenti tracimasse dagli alvei naturali e rovinasse a valle)

Tutta la natura, insomma, anche quella più selvatica, entrava nel ciclo economico della società. Tutta la natura era "casa dell'uomo", anzi, della comunità. E basta studiare gli usi civici[2], la loro minuziosa regolamentazione comunitaria volta in larghissima misura all'appropriazione dei prodotti dell'incolto, per comprendere quanto la società, nelle sue forme arcaiche ma non più elementari, fosse presente sull'insieme del territorio.

È chiaro che un territorio sottoposto a simili regole, finalizzate a simili stringenti necessità (riscaldarsi, ripararsi, nutrirsi), era anche un territorio custodito. Era un territorio sul quale si esercitava un controllo sociale. Era un territorio che veniva sentito e vissuto dall'uomo come un patrimonio, perché immediatamente ne traeva elementari ma indispensabili benefici.

Nell'ultimo secolo, e in modo particolarissimo negli ultimi cinquant'anni, la città si è estesa a macchia d'olio, e ancora più vaste sono proliferate le sue propaggini "rururbane": lo "svillettamento" delle campagne di pianura e dei colli, le lottizzazioni a nastro lungo le coste e le vie di comunicazione, la formazione di ampie “città diffuse” o “città spalmate” o “città esplose” (i francesi parlano appunto di ville étalée e di ville éclateé) nelle regioni attorno alle città più grandi. Se andate da Treviso a Padova, o da Milano a Cantù, o da Macerata a Civitanova, o da Napoli a Nocera, vedete un paesaggio formato da case, ville e villette, capannoni e discariche, depositi e parcheggi, tra i quali pochi brandelli di campagna vi ricordano l’antico paesaggio agrario.

La campagna coltivata si è enormemente ridotta, abbandonando tutti i terreni acclivi e gran parte delle zone interne dello nostra Italia. La pastorizia si è ridotta ad attività marginale e di risulta. Dalle montagne e dalle colline l'insediamento è "franato", la popolazione ha abbandonato i paesini ad alta quota e si è trasferita verso le grandi città, i fondi valle, le coste.

Non è stato solo uno spostamento di residenze e una trasformazione della produzione. Non è stato neppure solo un fenomeno quantitativo. Il possente salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall'economia e dalla società. L'extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d'attesa per l'ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell'urbano, luogo delle discariche, dell'esportazione "fuori" degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti serrati nella loro scatola di latta.

La pianificazione urbanisticae la pianificazione territoriale

Per domandarci come si può, oggi, progettare una città e un territorio adeguati alle esigenze di oggi, e capaci di superare la crisi in atto, dobbiamo innanzitutto domandarci quali siano gli strumenti di cui disponiamo. Quello che conosco meglio, e che mi sembra si possa adoperare con una qualche efficacia, è la pianificazione territoriale e urbanistica, come componente e metodo guida di un’azione pubblica democratica di governo del territorio. Domandiamoci allora che cos’è questa cosa, la pianificazione.

La pianificazione nasce, nei tempi moderni, come tentativo di dare una risposta positiva alla crisi della città dell’Ottocento. Il prevalere dell’individualismo nell’organizzazione della città aveva dato luogo ad anarchia, disagio, inefficienza. Occorreva regolare lo sviluppo urbano con uno strumento che riuscisse a dare coerenza a cose che erano diventate incoerenti e contraddittorie. La pianificazione nasce così come insieme di regole, dettate dall’autorità pubblica, miranti a dare ordine alle trasformazioni della città e a fornire una cornice all’interno della quale potessero esplicarsi le attività di costruzione e utilizzazione poste in opera da operatori privati.

Il primo “Piano regolatore”: New York, 1811

Forse il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, è nato nel 1811, in quella città delle Americhe che da New Amsterdam (come l’aveva battezzata il primo nucleo d’emigranti arrivati dall’Olanda) era diventata New York. Aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e fabbrichette. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.

Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo. Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di un’area corrispondente a circa centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.

L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento provocato dallo sviluppo.

Ma era un’economia basata su due principi. Il primo era la libertà individuale: più questa era priva di freni, più sapeva perseguire, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. Il secondo principio era la riduzione d’ogni bene a merce, d’ogni valore a valore di scambio. Una cosa non aveva valore di per sé, per l’uso che se ne poteva fare, per l’utilità o per il piacere che se ne poteva trarre, ma per il fatto di essere scambiata con altre merci: in particolare, con la merce che le vale tutte, la moneta. (Come conseguenza di ciò i beni che non possono essere ridotti a merce, come l’acqua, l’aria, la bellezza, sono scomparsi dall’attenzione dell’economia e della società: non valgono nulla, quindi possono essere sprecati, distrutti).

Questi due principi costituivano anche due limiti pericolosissimi per quel sistema economico-sociale. Il primo limite lo si scoprì prestissimo: appunto a New York, nel 1811. Il secondo limite lo si scoprì molto più tardi, quando nacque la questione ambientale; su questo torneremo più avanti.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pianificazione urbanistica divenne una procedura normale per regolare le trasformazioni e, soprattutto, l’espansione delle grandi città (nelle società industrializzate come nelle terre colonizzate dal capitalismo europeo). Poco più tardi leggi specifiche generalizzarono il metodo, le tecniche e le procedure della pianificazione a tutte le realtà territoriali nelle quali si manifestavano, o si prevedevano, trasformazioni significative dell’assetto fisico o dell’organizzazione funzionale. L’Italia arrivò con un certo ritardo. Dopo un dibattito durato oltre un decennio, solo nel 1942 venne approvata la legge urbanistica ancora oggi in vigore. Ma già prima, negli anni immediatamente successivi all’a costituzione dello stato unitario, le grandi città avevano deciso di adottare un piano urbanistico: a Torino nel 1864, Firenze (prima capitale del Regno d’Italia dopo Torino) nel 1865, Roma nel 1873, Milano nel 1885.

Nuove esigenze, nuovi obiettivi

La struttura della città e dell’urbanizzazione è molto mutata da allora; soprattutto, in Italia, nei trent’anni del secondo dopoguerra. Abbiamo visto alcuni rilevanti aspetti del cambiamento: in particolare, l’estensione del processo di urbanizzazione all’intero territorio. Se è successo quello che è successo, se la città si è “impadronita” dell’intero territorio, allora oggi non basta più imprimere, attraverso la pianificazione, regole alle trasformazioni della città. Bisogna estendere la pianificazione all’intero territorio. Nasce così, come estensione e proiezione della pianificazione urbanistica, la pianificazione territoriale.

E cambiano gli obiettivi specifici della pianificazione territoriale e urbana. Fino a qualche decennio fa l’esigenza primaria era l’espansione: la pianificazione era lo strumento per governare la crescita. Si espandevano le città, e nuove aree dovevano essere sottratte alla natura e impegnate dalle costruzioni. Cresceva a dismisura la motorizzazione individuale, e occorreva costruire nuove strade, superstrade, autostrade.

Oggi si è preso atto che l’espansione non è più il problema centrale: la popolazione non aumenta, e c’è addirittura un eccesso di costruzioni sulle necessità della popolazione e delle attività. Il problema centrale è diventato quello della riqualificazione delle immense periferie costruite negli anni ’50, ‘60 e ’70 del secolo scorso. L’obiettivo è di renderle umane, civili, abitabili per tutte le donne e gli uomini, i bambini e i ragazzi, gli anziani e gli infermi.

E si è preso atto che l’espansione della motorizzazione individuale e su gomma pone più problemi di quanti ne risolva. Non occorre incentivarla con la costruzione di nuove strade, superstrade e autostrade. Occorre invece dirottare quote consistenti della domanda di mobilità urbana e interurbana delle persone dall’automobile alla metropolitana, al tram, al filobus, e quote rilevanti della domanda di trasporto delle merci dal camion al treno e alla nave. Occorre insomma allargare l’impiego di mezzi di trasporto meno costosi, meno inquinanti, meno consumatori di spazio e di energia di quelli oggi prevalenti.

Infine, è nata l’esigenza di porre al centro della pianificazione l’esigenza della tutela e della valorizzazione dell’ambiente naturale e storico. Come garanzia di un futuro possibile (una progrediente degradazione dell’ambiente minaccia di distruggere le stesse possibilità di vita delle generazioni future) e come risorsa per lo sviluppo economico (sappiamo che la qualità dell’ambiente diviene sempre più una delle carte vincenti nella concorrenza internazionale tra le città e le regioni).

Sviluppo, qualità, ambiente

Quest'ultima considerazione ci conduce a un tema che oggi mi sembra centrale: quello del rapporto tra questione urbana e questione ambientale. Progettare oggi una città e un territorio adeguati significa affrontare in modo soddisfacente entrambe le questioni. Significa avviare la costruzione di una città e un territorio nei quali sia superata l'antinomia tra sviluppo e tutela dell'ambiente: in cui anzi la tutela delle qualità dell'ambiente sia vissuta come la premessa, l'occasione e la materia stessa d'un nuovo sviluppo economico e sociale.

Mi ricollego qui a una concezione del rapporto tra ambiente e sviluppo che è ancora controcorrente, nel nostro paese. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento dell'ambiente. Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, per molti, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. Questa affermazione oggi è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che, come afferma la Commissione europea[3], la qualità dell'ambiente è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico.

Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Tutti gli studiosi concordano nel sostenere che la qualità della città é riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale, e che perciò l'ambiente e la qualità della vita devono diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico.

È insomma la maggiore o minore qualità urbana che consente alle città d'Europa di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.

Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. È allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.

Tentare di raggiungere questi obiettivi non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il superfluo: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.

Se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti.

La "città sostenibile"

In effetti, quanto parlo di sviluppo mi riferisco a una categoria che la Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'ONU ha definito "sviluppo sostenibile". Per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" [4].

Bisogna provare ad applicare la definizione della Commissione dell'O.N.U. alla città, con una sola correzione: sostituendo cioè la parole "senza compromettere" con la parola "migliorare". Questa correzione mi sembra importante per due ragioni. In primo luogo perché ognuna delle civiltà del passato ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. In secondo luogo perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in assoluta controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.

L'obiettivo che dobbiamo proporci è allora quello di costruire una città (e un territorio) sostenibili, tali cioè da soddisfare i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni futura di soddisfare i propri.

Per fare questo occorre riconoscere che il territorio (la superficie del pianeta Terra che ci ospita) non è un semplice “contenitore” di ogni possibile trasformazione e manufatto, non è una pagina bianca sulla quale possiamo tracciare i disegni o gli scarabocchi che vogliamo. Esso è un soggetto, ha una sua individualità, è una risorsa vivente. Il territorio deve essere in primo luogo conosciuto e rispettato: nei beni naturali (l’acqua, la terra, la vegetazione, la flora e la fauna) che contiene, e in quelli storici (le antiche città, i casali e le masserie, i filari e i percorsi storici, i conventi e i castelli, i paesaggi agrari).

Il territorio, insomma, è un patrimonio per l’umanità. Un insieme di beni che vanno preservati, e migliorati nelle loro qualità, perché ne possano godere anche le generazioni future.

Alcuni temi più urgenti:la questione della mobilità…

Quali sono, oggi, alcune cose concrete che si possono fare, nella progettazione della città e del territorio, per avvicinarsi all'obiettivo della città sostenibile? Vorrei proporne due.

Sulla prima mi sono già soffermato: si tratta della questione della mobilità[5]: È una questione che è indispensabile affrontare, se vogliamo restituire alla città un po’ di quelle qualità che hanno condotto l’umanità ad inventarla e a costruirla: la possibilità d’incontrarsi, di spostarsi agevolmente, di passeggiare in luoghi ameni e piacevoli, di evitare i rischi alla salute derivanti dalla congestione del traffico

Non è un’impresa impossibile, se si individuano bene le origini del problema. La congestione del traffico dipende da una serie di cause. La prima, è l’errata distribuzione delle funzioni nella città. Se, per esempio, i luoghi dove i cittadini vanno a lavorare sono tutti da una parte (le zone industriali, i centri direzionali), e i luoghi dove i cittadini abitano sono da un’altra parte (le zone residenziali), e se magari tra le une e le altre c’è la strada statale, la ferrovia, il centro storico[6], le relazioni si allungano e si concentrano lungo pochi assi che inevitabilmente diventano congestionati.

La seconda è nella coincidenza degli orari di apertura e chiusura delle fabbriche e dei servizi: tutti escono da casa, e vi rientrano, alle stesse ore (tra le 7 e le 8, le 12 e le 13, le 14 e le 15, le 18 e le 19), questo provoca le infernali “ore di punta”, che non ci sarebbero se gli orari fossero articolati diversamente. La terza ragione è che, nonostante i meritori sforzi di un certo numero di amministrazioni comunali, la grande maggioranza degli spostamenti avviene ancor oggi, in Italia, mediante il mezzo di trasporto più costoso, ingombrante e inquinante che sia stato inventato: l’automobile.

Ecco allora che cosa è necessario. In primo luogo, una buona politica urbanistica, che restituisca alle varie parti della città quell’intreccio e vicinanza di funzioni che le ha caratterizzate nei momenti più felici della loro storia. Poi una intelligente politica dei tempi della città che distribuisca maggiormente i viaggi nel corso della giornata. Infine (ma è un aspetto decisivo) una nuova organizzazione del sistema dei trasporti che consenta di spostare quote importanti dal trasporto individuale su gomma (automobile) ai modi collettivi (autobus, e soprattutto tram, metropolitana e ferrovia) ed a quelli in assoluto più sostenibili: i piedi e la bicicletta.

Tuttavia, così radicate sono le abitudini, così forti gli interessi, che non è facile sostituire alla prevalenza del trasporto individuale una efficace ed efficiente rete di trasporti collettivi. Ma è una strada che è indispensabile percorrere, se non si vuole che le città arrivino alla paralisi.

…e il “sistema delle qualità”

La seconda questione urgente e concretamente affrontabile oggi, è quella che definisco come la costruzione, nella città e nel territorio, di un "sistema delle qualità". Spiego subito che cosa intendo. Ciò che propongo è di rovesciare il modo di considerare la città. Propongo di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi dedicati alla ricreazione e alla ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al consumo comune (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).

Propongo di costruire un "sistema" costituito dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali (le aree e gli elementi a prevalente connotazione naturalistica, il centro antico e le altre testimonianze ed emergenze storiche, le attrezzature e gli altri luoghi destinati alla fruizione sociale), collegandole fra loro sia - dove possibile - attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale alberato protetto) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.

La partecipazione: urbanistica e democrazia

Abbiamo detto che “la città è la casa della società”. Ma in che modo la società partecipa alla costruzione della sua casa? In che modo, insomma, i cittadini esprimono la loro volontà sulle esigenze, la priorità dei problemi, le soluzioni definite nei piano urbanistici? La questione è indubbiamente centrale e, a tutt’oggi, non risolta. Oggi, infatti, la legge prevede soltanto che il cittadino abbia la possibilità di esprimere il suo parere sul piano con una “osservazione”, nella quale può proporre soluzioni alternative su singole scelte del piano già “adottato” (cioè già fatto proprio dal consiglio comunale, sebbene non ancora definitivamente approvato). I limiti di questa impostazione fanno sì che generalmente le uniche osservazioni presentate sono quelle di proprietari che vogliono valorizzare il proprio terreno o il proprio edificio. Si fanno avanti, cioè quasi soltanto gli interessi individuali delle categorie più forti (i proprietari di terreni, appunto).

Varie strade sono state seguite per ottenere una “partecipazione dal basso”, e un intervento della cittadinanza già dalle fasi iniziali della formazione delle scelte. Ma, generalmente, con scarso successo. Il problema non è affatto semplice. Per comprenderne la portata, riflettiamo ancora sul significato di alcune parole.

In primo luogo, sulla parola “urbanistica”. L’urbanistica, in definitiva, è quella pratica di governo (quell’insieme di regole, strumenti e procedimenti) mediante la quale una comunità insediata in una parte del territorio regola le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio. Rientra quindi in quel complesso di compiti che costituisce il governo della società. Detto in altre parole, l’urbanistica è una parte della politica[7].

E che cos’è la “politica”? La politica è l’arte, la scienza, la tecnica del governo di una comunità. In un regime democratico parlamentare (quale quello nel quale fortunatamente viviamo) la politica è espressione dei cittadini, i quali, attraverso le elezioni, scelgono i loro rappresentanti e li delegano a governare per loro conto.

Chiediamoci allora il significato di una terza parola: “partecipazione”. Mi sembra che per “partecipazione” possiamo intendere “il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata”[8].

Chiarito così il significato di alcuni termini, è allora facile comprendere che le difficoltà della partecipazione nel campo dell’urbanistica sono il simmetrico (o forse il riflesso) delle difficoltà della partecipazione nel campo della politica. Non c’è allora da meravigliarsi se è così difficile coinvolgere ampiamente i cittadini di un quartiere o un comune o una provincia a discutere, fin dal principio della sua formazione, su un piano urbanistico o territoriale che riguardi il territorio nel quale vivono. Non c’è da meravigliarsi se le uniche voci che si fanno sentire sono quelle dei grossi proprietari di aree o edifici, oppure quelle della protesta di chi ha qualche ragione (giusta o sbagliata che sia) per opporsi a questa o quell’altra scelta del piano. Non c’è da meravigliarsi se spesso la partecipazione, quand’anche si manifesti, si riduce alla pratica della comunicazione “dall’alto” (da chi fa il piano), volta a conquistare un consenso abbastanza passivo.

Non c’è da meravigliarsi, ma c’è da lavorare, e molto, per sollecitare e aiutare le cittadine e i cittadini, gli abitanti della città, a partecipare alla progettazione del futuro del luogo dove vivono. Non limitandosi ad ascoltare passivamente il racconto del piano, pronunciato dai suoi autori, ma intervenendo attivamente fin dalle fasi iniziali: quella dell’individuazione degli obiettivi, dei problemi, della scelta tra le diverse soluzioni possibili. E proseguendo poi - con la consapevolezza, costanza e pazienza necessarie - fino alle fasi conclusive della traduzione in opere delle scelte definite, e della verifica degli effetti che esse comportano, sulla città e sulla comunità che vi ha stabilito la sua casa.

Edoardo Salzano

4 maggio 2002

PICCOLO GLOSSARIO

Distinguere, separare (una premessa))

Cerco qui di spiegare alcune parole che, nel testo che precede, vengono adoperate in modo non sempre conforme all’uso corrente. Spesso si tratta di termini che normalmente vengono impiegati come equivalenti (sinonimi), ma che invece, nel contesto, hanno significati diversi, che vanno perciò distinti.

A questo proposito è opportuno chiarire subito la differenza che c’è tra i termini distinguere e separare. Spiego facilmente ai miei studenti questa importante differenza facendoli riflettere sul fatto che per distinguere la testa dal corpo basta l’osservazione, o magari un manuale di anatomia, mentre per separarla è necessaria la ghigliottina.

Non inserisco i termini che nel testo ho cercato di spiegare in modo sufficiente, come ad esempio “urbanistica”, “pianificazione”, “piano regolatore”, “sviluppo”, “crescita”, “sostenibile”.

Ambiente, territorio, paesaggio

Ambiente, territorio, paesaggio sono termini usati spesso come se fossero equivalenti. È utile invece distinguerli, poiché si riferiscono ad aspetti differenti della medesima realtà.

In ecologia l’ ambiente è, secondo Di Fidio, “l’insieme dei fattori abiotici (fisici e chimici) e biotici (animali e vegetali) in cui vivono i diversi organismi ed in particolare l’uomo. Ma con riferimento specifico alla società umana l’ambiente ha assunto un significato più ampio: esso è tutto ciò che riguarda l’uomo, lo può influenzare e, viceversa, può esserne influenzato”. Nel testo ho attribuito al termine ambiente un significato più restrittivo, che comprenda tutte le entità naturali ed artificiali che circondano l’uomo, ma non le relazioni sociali ed economiche.

Per territorio si intende invece una porzione di ambiente delimitata da un confine. Sovente si tratta di un confine amministrativo a cui corrisponde, in genere, un ente definito, appunto, territoriale. Secondo P. Bevilacqua il territorio è la “natura degli storici: vale a dire l’ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso”.

Il termine paesaggio esprime la forma del territorio, il suo aspetto esterno, fisico . Esso è stato definito e interpretato a partire da considerazioni prevalentemente estetiche, oppure di tipo geografico, riferite ad una serie di variabili più estesa di quelle percepibili visivamente, come il clima, la morfologia, l’idrologia e la vegetazione, per arrivare ad abbracciare nuovamente il rapporto fra l’ambiente naturale e l’azione dell’uomo. Così, ad esempio, per E.Sereni è “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale”.

Beni, merci

Beni e merci sono termini che si riferiscono ai medesimi oggetti. Si tratta di punti di vista diversi. Se considero, ad esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne ritraggo, allora quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto parlarne come merce. Il bene è destinato a essere usato, la merce ad essere scambiata. In relazione a questa distinzione gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti come beni o come merci.

Naturalmente, ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, sono certamente beni, ma non sono merci.

Centro storico, centri storici

In Occidente lo sviluppo delle città (e delle strutture elementari che la costituiscono: le case) non ha conosciuto grandissime trasformazioni fino all’epoca dello sviluppo dell’industria e del sistema capitalistico-borghese. Nel periodo compreso tra il XVIII e il XIX secolo (con differenze legate alle differenti regioni e aree) vi è stata invece una trasformazione radicale, che il testo sinteticamente illustra. Si chiama generalmente centro storico la parte della città precedente a tali trasformazioni: quella, cioè, dove sono ancora oggi riconoscibili le regole che sono rimaste pressoché immutate per secoli: regole espresse dalle dimensioni delle strade, dalla regolarità degli allineamenti stradali e delle strutture degli edifici normali, dalla presenza di spazi destinati agli incontri e alle funzioni comuni (le piazze), dalla maestosa centralità degli edifici rappresentativi della comunità.

Comune, individuale; pubblico, privato

Nel linguaggio corrente si tende a confondere privato con individuale , e comune (o collettivo) con pubblico. In realtà sono termini tra i quali è bene distinguere. Parlo di comune e individuale quando mi riferisco all’uso, parlo invece di privato e pubblico quando mi riferisco alla proprietà e alla gestione,

Così, per esempio, un servizio di trasporti collettivi, autobus o treni, può essere organizzato o gestito da un soggetto pubblico (il comune, o la provincia, o un’azienda appartenente a enti pubblici), ma può anche esserlo da un soggetto privato. E un mezzo di trasporto individuale, come ad esempio la bicicletta, può essere messo a disposizione dei cittadini da un soggetto pubblico, come avviene in molte città europee.

Controllo sociale

Ognuno di noi ha dei vicini, delle persone che incontra con maggior frequenza: parenti e amici, ma anche persone con le quali magari non scambi una parola, ma che sai chi sono (come loro sanno di te), perché gli incontri spesso al bar, e al mercato, e in piazza, e a scuola. Ci sono luoghi (il villaggio, il quartiere, la piccola città) dove questi rapporti di conoscenza sono molto intensi: dove moltissime sono, tra le persone che incontri, quelle di cui sai vita e miracoli. E ci sono invece posti (i grandi e affollati quartieri delle metropoli) dove, per il gran numero di persone, la scarsità dei luoghi e delle occasioni d’incontro, la frequenza dei cambiamenti di casa, ognuno è sconosciuto agli altri.

Il controllo sociale esprime la situazione nella quale la conoscenza reciproca è maggiore, ed è quindi, in qualche modo, il contrario dell’anonimato. Ma nel controllo sociale non c’è solo l’aspetto della conoscenza e della potenziale solidarietà, dell’aiuto reciproco, c’è anche quello del pettegolezzo e del conformismo. Come molti altri, è un concetto complesso, dove il bianco e il nero si mescolano.

Crisi

Crisi significa, letteralmente, “rottura” (dal greco). Il termine esprime quindi un momento nel quale le cose cambiano, i valori, le abitudini, i rapporti che fino allora erano (o sembravano) stabili e consolidati, non contano più. Un momento drammatico, perciò, aperto all’incertezza. Ma è anche il momento nel quale, dalla rottura del vecchio, si prepara il nuovo: è il rinnovamento, ancora incerto nei suoi lineamenti. Nella storia (del mondo e delle persone) è nella crisi che la libertà di scelta è massima, e il futuro dipende da noi.

Legge urbanistica

Si chiama generalmente legge urbanistica una legge che definisca i principi e le regole secondo le quali si governano le trasformazioni urbane. È la legge urbanistica che stabilisce quali sono i diritti dei proprietari e quelli della collettività, come e dove si edifica, come si pianifica e si programma, con quali soggetti, procedimenti, opere. Nei paesi europei le leggi urbanistiche sono state emanate nei primi decenni del secolo scorso. In Italia, la prima legge urbanistica generale è del 1942. Oggi, dal 1970, il potere di fare leggi urbanistiche è delle regioni, nell’ambito dei principi fissati dalla Repubblica.

Pianificazione generale e attuativa, ordinaria e specialistica

La pianificazione della città e del territorio si articola in un gran numero di strumenti (piani) che, in Italia, hanno denominazioni diverse da regione a regione. Essi si distinguono di solito secondo il livello territoriale e amministrativo (cioè in riferimento all’ambito territoriale e all’ente pubblico elettivo che è il protagonista della sua formazione): si hanno così piani comunali, provinciali, regionali.

Altre distinzioni rilevanti riguardano il carattere più o meno operativo del piano e il suo specifico contenuto. Per il primo aspetto si distingue la pianificazione generale, che concerne l’insieme del territorio del comune (o della provincia, o della regione), e imprime una disciplina di carattere generale, e la pianificazione attuativa, che riguarda in genere limitate zone nelle quali, a causa delle profonde trasformazioni previste, è necessaria una disciplina più di dettaglio. Per il secondo aspetto si distingue la pianificazione ordinaria (che è quella di cui si parla nel testo) e la pianificazione specialistica, che concerne solo alcuni aspetti particolari del territorio e del suo governo (la difesa del suolo, il paesaggio, il traffico ecc.)

Produzione, consumo; consumo, fruizione

Nell’attività economica si distinguono due momenti principali: la produzione (che è l’attività di formazione di beni nuovi mediante l’impiego di beni esistenti, ivi compresi il lavoro e la cultura del produttore) e il consumo (che è l’impiego dei beni prodotti, o di altri beni esistenti in natura, da parte del produttore o del processo produttivo. Il produttore consuma abiti, cibo, aria e acqua, cultura e altri beni materiali o immateriali, il processo produttivo consuma materie prime naturali, o a loro volta prodotte da un altro processo produttivo, e lavoro.

È opportuno distinguere il consumo, che è destinato al proseguimento del processo produttivo, dalla fruizione, che è invece finalizzata alle esigenze dell’uomo. Riferendoci a una distinzione che abbiamo già esaminato, possiamo dire che si tratta della medesima attività, ma quando parliamo di consumo la riferiamo alla merce (e al valore di scambio), quando parliamo di fruizione ci riferiamo al bene (e al valor d’uso)

Res nullius

Il termine latino res nullius (letteralmente, cosa che non appartiene a nessuno) esprime, nel linguaggio giuridico, la condizione di quei beni che, appunto, non appartengono a nessuno e che, per questa loro condizione, possono essere usati da chiunque senza alcuna preoccupazione.

Sistema

Si definisce sistema qualcosa che è composto da varie parti, ma nel quale le parti sono organicamente collegate tra loro, anche nel senso che la mancanza di una o più parti rende quel qualcosa incompleto o mal funzionante. Un mucchio di grano non costituisce sistema, una spiga di grano invece si.

Sovrappiù, accunulazione

Nel linguaggio economico si definisce sovrappiù ciò che resta alla fine del processo produttivo, quando l’insieme dei beni prodotti supera la quantità di beni impiegati, o che è necessario impiegare, per il consumo e per le scorte necessarie per proseguire il processo produttivo. Il sovrappiù può essere destinato a vari usi: può essere consumato, oppure può essere reinvestito nel processo produttivo: in questo caso si parla di accumulazione: questa è dunque (a differenza che nel linguaggio corrente) l’investimento del sovrappiù nel processo produttivo, di cui comporta perciò l’allargamento.

Traffico, mobilità

Quando parliamo di traffico ci riferiamo ai mezzi (automobili, vagoni, biciclette, navi, fluidi) che percorrono linee (strade, canali, binari, fiumi, condotti). Quando parliamo di mobilità ci riferiamo invece all’esigenza (spostarsi o spostare, accedere) che provoca il traffico.

Distinguere traffico e mobilità è quindi molto importante non solo concettualmente, ma anche ai fini pratici. Se parliamo di traffico i problemi che ci poniamo è di renderlo più veloce, o più sicuro, o più scorrevole (questi obiettivi sono spesso contrastanti tra loro). Se parliamo di mobilità ci viene subito in mente che, per risolvere i problemi dell’eccessivo traffico, uno degli strumenti impiegabili è la riduzione della mobilità (con una corrette collocazione delle funzioni sul territorio), o comunque il suo governo (per esempio, con una programmazione dei tempi: orari degli uffici, delle scuole, dell’apertura dei negozi ecc.).

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

Un manuale

Gli argomenti che ho trattato nel testo, e molti altri ad essi connessi, sono stati sviluppati in modo più ampio in: Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica

La maggior parte di noi vive in città. Il più delle volte in modo passivo: come fosse una prigione dalla quale, una volta all’anno, in occasione delle ferie, si evade. Eppure è il luogo in cui viviamo la maggior parte della nostra vita. Come sarà la città del futuro? La città del futuro come metterà d’accordo l’esigenza di spazi verdi e di sempre più sofisticati sistemi di comunicazione?

Dal punto di vista dell’organizzazione dello spazio, queste esigenze non mi sembrano alternative. Un cavo può tranquillamente passare sotto un campo sportivo o il sagrato di una chiesa senza dare fastidio a nessuno. Un commento va fatto sull’impiego del tempo da parte degli uomini, anche se, da questo punto di vista, l’urbanista può fare ben poco, se non cercare di organizzare la città in modo che determinati problemi che gli uomini e le donne cercano di affrontare utilizzando gli strumenti dell’informatica siano risolti in modo più completo. Penso ad esempio al fatto che una parte del tempo che viene dedicato all’informatica è un rifugio rispetto all’assenza di luoghi di incontro e di comunicazione. Ma penso anche alle grandi possibilità che la Rete può offrire: attraverso la Rete posso consultare la biblioteca del Congresso, fare una ricerca bibliografica, sapere quali sono tutti i prodotti di una marca che mi interessa, scambiare messaggi in tempo reale con persone che stanno molto lontane. Tutte queste cose fanno guadagnare tempo e risorse, riducono le distanze e il tempo per cose che altrimenti richiederebbero molto più impegno. Una parte consistente del tempo che molti spendono davanti allo schermo del computer è dovuta al fatto che quello è diventato anche un luogo di incontro proprio perché la città non offre più spazi dove incontrarsi. Una delle mostruosità accadute nella storia recente delle nostre città, e di cui noi non ci siamo accorti, è che le piazze sono diventate parcheggi; come dire che l’accetta o la zappa sono diventate armi di criminali invece che strumenti per soddisfare un’esigenza fondamentale della gente. La piazza, nata come luogo di incontro tra le persone, è diventata un parcheggio, è pavimentata in funzione di questo, è arredata per questo, è resa accessibile pensando alle auto e non più alla sua funzione originaria. Nei nuovi quartieri ci si occupa del traffico, dei parcheggi, non ci si occupa degli spazi dove la gente può incontrarsi, parlare, mischiarsi tra generazioni diverse, imparare l’uno dall’altro.

La solitudine e l’individualismo non sono un rischio anche per la città tecnologica o, come si dice oggi, cablata? Si è partiti dalla piazza luogo di incontro, si è arrivati al parcheggio: la Rete informatica apre nuovi orizzonti e, al tempo stesso, ci isola in casa.

Non esattamente. I bambini e gli anziani sono stati cacciati dalle piazze mentre la Rete non caccia nessuno, tuttavia è difficile accedervi. È molto più facile andare a imbucare una lettera o a comprare il giornale o le sigarette o a prendere un caffè e così incontrare persone, di quanto non sia accendere il computer, collegarsi, cercare di mettersi in Rete. Soprattutto è più piacevole vedere le facce direttamente o sentire il profumo del sigaro.

Io non penso agli spazi verdi, ma alle piazze, che sono un’altra cosa. Penso a luoghi contenuti, pavimentati, arredati per gli incontri: non interessa che ci siano panchine, anche i bancali di pietra dei vecchi palazzi o i basamenti dei monumenti, o i tavolini dei caffè sono altrettanto utilizzabili, meglio delle panchine. Penso a luoghi nei quali c’è un controllo sociale, perché ci sono le case che ci si affacciano sopra, ci sono i commercianti che vendono. Anche gli spazi verdi sono necessari. Penso a parchi frequentati dalla gente, penso a impianti sportivi affollati da quelli che fanno lo sport. Penso a luoghi facilmente accessibili non con l’automobile ma con itinerari pedonali protetti in modo che le carrozzine non corrano il rischio di essere investite.

Questa può essere una visione dello sviluppo della città; cerchiamo di chiarire qual è la definizione di sviluppo e di progresso, in rapporto anche al “consumismo” che ogni tanto viene confuso con questi.

Fin qui ho parlato di progresso, non di sviluppo. Bisogna ragionare su tre termini: “sviluppo”, “progresso” e “crescita”. Io credo che sia possibile uno sviluppo senza crescita. Sviluppo significa che l’uomo ha raggiunto il soddisfacimento di determinate esigenze e quindi se ne pone di nuove, e si industria per trovare il modo per soddisfarle. L’importante è che le esigenze nuove nascano da un reale bisogno di sviluppo e non siano indotte dall’esterno: comprare un’automobile più veloce o comprare un detersivo che sbianca più del bianco non è un’esigenza endogena dell’uomo, non nasce da un bisogno, nasce semplicemente dal bisogno di un’industria di vendere di più e di sconfiggere la concorrenza, di sopravanzare qualcuno per diventare più grande. Questo non è sviluppo; non è lo sviluppo che aiuta l’uomo a progredire, non è né sviluppo né progresso. Quello a cui dobbiamo incominciare a pensare è che le cose possono crescere in modi diversi; le cose possono crescere come le piante, utilizzando l’energia del sole e la funzione clorofilliana, oppure possono crescere a detrimento delle altre. Io credo che, in una visione corretta di sviluppo che sia progresso, noi dobbiamo far crescere le cose che non vanno a detrimento di altre. Per estremizzare ed esemplificare, la crescita di un bosco mi interessa, mentre la crescita della rete stradale non mi interessa. Certo, se noi pensiamo alla “crescita della città” oggi in genere non la associamo a sviluppo e progresso. Non si deve neppure fare demagogia: se la popolazione in una città aumenta, se la condizione abitativa è tale da non poter soddisfare quantità crescenti di popolazione con un miglioramento delle abitazioni esistenti, e sono necessarie nuove aree per costruire, questa crescita non è di per sé negativa. A condizione che vi sia reale necessità e che le aree utilizzate siano poco utilizzabili per usi alternativi.

Non è facile distinguere sviluppo e crescita perché le mode condizionano pesantemente sia l’uno che l’altro. Nel discorso della piazza diventata parcheggio è fondamentale lo status symbol “automobile”, che è stato portato all’eccesso al punto che ogni singola persona sente la necessità di possedere una vettura che non sa poi dove parcheggiare.

Ripartiamo dall’automobile. Siamo passati in pochi anni da 10 a 23 milioni di automobili mentre siamo calati come popolazione. L’automobile è uno status symbol, ma ci hanno costretto ad assumerla anche come una necessità. Mi spiego. La scelta è stata fatta negli anni immediatamente successivi alla guerra, quando si è affidata la ricostruzione del Paese all’evoluzione spontanea dei centri imprenditoriali disponibili. Allora si è assegnata la prevalenza all’edilizia, ai lavori pubblici e quindi alle strade, all’automobile perché era l’impresa più forte in Italia e soprattutto si è lasciata la massima mano libera poiché sembrava la scelta più giusta per accelerare la ripresa economica, grazie allo spontaneismo e all’individualismo. C’è stata una fortissima spinta in questa direzione. Mentre gli altri Paesi hanno utilizzato la ricostruzione post bellica per rafforzare gli strumenti dell’intervento pubblico, da noi si è scelta una strada liberista; non a caso Einaudi è stato l’uomo della ricostruzione economica del Paese. Questo ha provocato un enorme sviluppo dell’edilizia - la più brada, la più sciatta, la più speculativa – mentre la legge urbanistica italiana (una buona legge) approvata nel 1942 quando, subito dopo la guerra, era il momento per utilizzarla, è stata accantonata. La pianificazione, secondo regole corrette, è stata ripresa nella seconda metà degli anni 60, quando il più era fatto, quando le vacche erano scappate. Abbiamo avuto uno sviluppo enorme, abbiamo investito in strade e autostrade, abbiamo sovvenzionato la FIAT fino all’inverosimile, e non abbiamo costruito tram, né tanto meno metropolitane, non abbiamo costruito ferrovie efficienti. Mentre per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi abbiamo un’eredità storica, in cui ritroviamo le piazze e i centri storici, l’esigenza di organizzare collettivamente il trasporto di massa è una novità, è un campo in cui non abbiamo eredità storica alla quale riferirci e da cui imparare. Avremmo dovuto inventare noi il modo di soddisfare questa nuova esigenza di massa, ma non vivevamo più in una società nella quale i valori collettivi avessero il primato. Vivevamo in una società in cui avevano il primato i valori individuali, il “fai da te”, “l’arrangiati”, così l’individualismo ha portato a soluzioni individualistiche per risolvere un’esigenza di massa: abbiamo perduto il treno e abbiamo preso l’automobile. Questo è il nostro dramma e per questo dico che il problema del traffico è il problema più angoscioso e la contraddizione è la più forte che vediamo nella città vista come il luogo della preminenza dei valori collettivi. Se in questa costruzione in cui prevalgono i valori comunitari sovrapponiamo l’organizzazione di una esigenza fortissima che è quella della mobilità, dell’accessibilità, risolvendola con metodi individualistici di massa, questo contenitore si rompe e dire che la città scoppia dal traffico è un’osservazione assolutamente calzante. I marciapiedi sono fatti per i pedoni ma nelle grandi città sono diventati parcheggi, le piazze pure.

Siamo partiti dalla piazza, poi con l’automobile siamo arrivati alle reti delle strade risalendo verso orizzonti più ampi del comune o della regione. In una visione sempre più vasta è possibile parlare di qualcosa che possa definirsi “urbanistica del mondo” con enormi periferie e un centro ricco?

Non diamo troppa importanza all’urbanistica. Nel rapporto tra il nostro mondo industrializzato e il resto del mondo, io vedo un grande rischio. Il rischio che il nostro modello venga esportato, provocando un ulteriore indebolimento del resto del mondo. Per quanto importino il nostro modello non potranno mai utilizzarlo come abbiamo fatto noi, saranno sempre su un piano diverso non avendo vissuto la nostra storia; il nostro modello non avrebbe nessun legame reale e, senza radici, sarebbe una nuova forma di colonialismo. Mi ha colpito molto un’osservazione che ha fatto Piero Bevilacqua nel suo ultimo bellissimo libro “Utilità della storia” quando osserva che questi ragazzi senegalesi che vendono i poster con Charlie Chaplin o Marilyn Monroe, sono schiavi due volte. La prima volta perché fanno quel mestiere senza nessuna garanzia, la seconda perché sono distributori di cose che nel loro linguaggio non significano assolutamente niente. È una doppia alienazione. Esportare il nostro modello significa questo. Un lavoro estremamente difficile, che è in primo luogo culturale, è quello di capire le altre culture e comprendere in che modo possiamo mettere i nostri saperi a loro disposizione senza corromperle; il secondo aspetto del problema è che poiché inevitabilmente, almeno per ora, il nostro modello è quello che si impone - pensiamo a quello che sta succedendo in Cina – occorre come minimo insegnare a non ripetere i nostri stessi errori. Aiutiamoli almeno a fare in modo che non passino dall’avere 600 milioni di biciclette a 600 milioni di automobili, insegniamogli a fare fabbriche che non inquinano. Invece, purtroppo, vendiamo loro i nostri prodotti obsoleti e le cose che a noi puzzano.

L’unica volta che sono andato in Cina, diversi anni fa, ho chiesto come mai le loro biciclette non avevano i catarifrangenti. Mi hanno detto: si rende conto cosa significa costruire catarifrangenti per tutti i milioni di biciclette che abbiamo? dovremmo realizzare una serie di fabbriche, molte fabbriche ma non abbiamo le risorse per farlo. Quindi si erano posti il problema e l’avevano già risolto.

All’aprirsi del mercato cinese, qualche imprenditore italiano ha fatto sogni di gloria pensando di dare una lavatrice a tutte le famiglie cinesi, mentre c’è stato chi si è chiesto se esiste tanto acciaio nel mondo per fare una cosa del genere…

Potremmo approfittare proprio di questo per spiegar loro che il progresso significa fare scelte diverse. A New York, dove abita mia figlia, in un grosso palazzo universitario con alcune centinaia di persone, nel seminterrato ci sono tre lavatrici e tre essiccatori a gettone: sono comodissimi, non hai manutenzione, costano poco e sono velocissimi. Il messaggio potrebbe essere questo. Insegniamo loro quello che l’esperienza ci dice: evitare il consumismo perché il consumismo è spreco di risorse, è spreco di tempo, è spreco di energie. E tanti auguri.

Il dibattito è andato molto al di là dell'episodio fiorentino della Fiat-Fondiaria. Aveva ragione chi sosteneva che il gesto compiuto a Firenze dalla segreteria nazionale del Pci voleva essere un segnale così forte e chiaro da poter essere compreso ovunque. La critica del Pci era rivolta a un modo distorto, fuorviante e rischioso di concepire e praticare il rapporto tra pubblico e privato nelle trasformazioni del territorio. Un modo, però, che era ed è ancora molto diffuso. E' per questo che, a partire dall'episodio di Firenze ma andando molto al di là di esso, si sta di nuovo discutendo di urbanistica in molte città italiane, e innanzitutto nel Pci. L'argomento delle discussione è l'urbanistica contrattata: una pratica che il nuovo corso del Pci non ritiene corretta.

Ma che cos'è l'urbanistica contrattata? Quando un termine proprio del gergo d'una disciplina specialistica viene adoperato nel linguaggio politico, è facile che nell'uso si incorra in equivoci, errori, incomprensioni. Non è perciò ozioso domandarsi che cosa sia realmente l'urbanistica` contrattata e perché il Pci non sia d'accordo nell'utilizzarla.

L'urbanistica contrattata si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma Ÿper la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune.

E poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle decisioni comunali, devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.

L'urbanistica contrattata é una prassi che nasce in anni lontani. Basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60, entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dagli "Amici dell'Espresso" e in dagato da Italo Insolera e Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.

Da quegli anni, però, molte cose sono cambiate. Oggi non siamo di fronte a speculazioni selvagge, a rozze colate di cemento. Oggi i promotori delle operazioni di urbanistica contrattata avanzano proposte non prive di apparente dignità. Presentano prodotti accattivanti per la qualità formale degli oggetti (disegni e plastici) in cui si manifestano e per gli autori che li firmano. I loro collaboratori non sono anonimi geometri, ma architetti di fama e cattedratici di prestigio. Questo induce a esprimere giudizi positivi quanti dimenticano una verità non discutibile: che, cioè,la qualità della città non è la somma delle qualità delle sue architetture. E' qualcos'altro.

La qualità urbana è qualità d'insieme. Non si può quindi ambire di raggiungerla se non si tenta di governare insieme lediverse parti che compongono la città e ai suoi diversi aspetti: da quelli formali a quelli funzionali. E' per questo che la qualità é raggiungibile solo mediante quella tecnica che si chiama pianificazione urbanistica: una tecnica, un metodo, una procedura che considerano la città (il territorio urbanizzato) come un sistema, e che ne vogliono governare le trasformazioni valutando gli effetti che ogni intervento esercita sull'insieme. L'urbanistica contrattata non va bene perché è la fuga dalla pianificazione, la sua elusione. E la qualità delle architetture proposte (dei disegni esibiti) è solo l'orpello che nasconde la distruzione della possibile qualità urbanistica.

Anche sull'altro versante della contrattazione, quello degli amministratori, le cose sono cambiate dagli anni dei Lauro e dei Cioccetti. Allora, gli amministratori pubblici delle città guastate dalla speculazione erano strutturalmente subordinati agli interessi economici. Più che contrattare, i sindaci corrotti prendevano ordini dai veri padroni delle città.

Oggi i legami sono più complessi. Oggi, se gli amministratori cercano la scorciatoia dell'intesa sottobanco con la proprietà, è spesso perché non hanno fiducia nelle vigenti regole del governo del territorio, e neppure nella possibilità di sostituirle con regole nuove e più efficaci. Ed é anche perché l'impegno severo e costante, necessario per costruire

una politica della pianificazione, paga meno, e meno rapidamente, dell'accordo raggiunto con un potentato economico per realizzare un'opera vistosa. Si tratta comunque di un atteggiamento che non solo rende gli amministratori esposti al sospetto, e al rischio, della corruzione, ma è anche rinunciatario rispetto ai reali interessi collettivi di qualità e funzionalità urbana.

Non aiuterebbe però a comprendere, e quindi ad agire nella direzione giusta, limitarsi a denunciare un simile atteggiamento ogni volta che si manifesta. Occorre invece riflettere sulle sue cause. E allora appare evidente che esso è in primo luogo l'effetto di quella decennale campagna per la deregulation urbanistica, promossa dallo schieramento moderato ma tollerata dalla sinistra, che ha contrassegnato il decennio trascorso: una campagna che ha distrutto certezze senza costruire alternative, ha screditato strumenti invecchiati ma sperimentati senza ad essi sostituire strumenti nuovi, e ha perfino lasciato spegnere la tensione per una riforma legislativa.

E' un atteggiamento che, oggi, può essere superato solo con un forte impegno politico e culturale che sappia intrecciare la ripresa dell'iniziativa legislativa con le concrete ver- tenze ed esperienze locali. Sul primo terreno d'impegno, la forza del Pci pò essere determinante per sbloccare finalmente l'angosciosa vicenda degli espropri e dei vincoli urbanistici, e per dare all'Italiauna moderna legge sul regime degli immobili (aree od edifici). Ma è anche sul terreno delle mille realtà locali che si misurerà la capacità dei comunisti di fornire risposte adeguate alla crisi delle città: una crisi che è il prodotto di errori culturali e politici, di pigre miopie e di fughe impazienti dalla reale corposità dei problemi, e non di una perversa fatalità determinata da ingovernabili eventi.

Edoardo Salzano

Una premessa:

Quale strategia per il territorio?

La pianificazione è uno strumento, non un fine. Domandarsi in che modo la pianificazione possa aiutare il Mezzogiorno a valorizzare le proprie risorse richiede preliminarmente comprendere quale sia l’uso che si ritiene di fare del territorio, quale sia il rapporto desiderabile tra la società e il territorio nel quale essa vive: quel territorio la cui forma costituisce il paesaggio, espressione e testimonianza del modo in cui la storia ha operato con la natura, guidandola e assecondandola, oppure violentandola. Solo dopo aver fornito una risposta attendibile a questa domanda avrà senso interrogarsi sulle caratteristiche, sui contenuti, sulle modalità di una pianificazione idonea a raggiungere gli obiettivi definiti.

Il territorio

Del territorio si possono dare, e si sono date, interpretazioni diverse. Gli studiosi e gli operatori oscillano tra due differenti immagini, l’una tradizionale, l’altra emersa e divenuta egemone in tempi più recenti.

La prima interpretazione vede il territorio come una realtà omogenea e isotropa, priva di caratteristiche proprie, oppure dotata, in talune sue parti, di irregolarità che lo rendono ostile, o poco utilizzabile, e che quindi meritano rilevanza solo in quanto ostacoli che devono essere rimossi o aggirati. È la concezione del territorio molto diffusa nell’ambito delle scienze economiche e di quelle sociali, come nelle elaborazioni dell’economia territoriale e nelle pratiche dello Spatial Planning. Ed è l’impostazione sottesa a quella lunga stagione dell’urbanistica che ha visto, e ancora talvolta vede, il territorio come una tabula rasa utile unicamente a disporre, in modo più o meno ordinato, funzionale ed estetico, i mille prodotti delle trasformazioni desiderate dall’uomo: le residenze, le infrastrutture, le industrie, i servizi pubblici e privati, i depositi e così enumerando. Un territorio servile, insomma, la cui qualità maggiore sarebbe la propensione a divenire altro da sé.

Una seconda interpretazione è quella che si è sviluppata nei decenni più vicini a noi, sebbene abbia certamente anticipazioni in tempi e culture più distanti nel tempo. Per essa il territorio è una realtà viva, dotata di qualità e valori che la rendono caratterizzato da un’individualità espressa dalla stessa fisicità della sua struttura (sebbene sia il prodotto di una profonda interazione tra società e natura). È un’interpretazione alternativa rispetto a quella tradizionale, sebbene non la neghi ma la completi, considerando il territorio non solo un insieme di qualità (e di potenziali rischi), ma anche una gamma di potenzialità di trasformazione.

Questa seconda, e più evoluta, idea di territorio si è consolidata per effetto di due movimenti convergenti, entrambi orientati a riconoscere nel territorio (quello fatto di suolo stabile o soggetto a dinamismi, di vegetazione e di fauna allevata e brada e selvatica, di centri e manufatti e percorsi storici, di morfologie differenziate e di identità culturali diverse, di acque superficiali e profonde, correnti e ferme e stagnanti, e soprattutto di intricati intrecci tra queste diverse componenti dello spazio reale) un soggetto di diritti[1]. Da una parte, infatti, si è compreso che le dimensioni delle trasformazioni provocate dai benefici dello sviluppo capitalistico incontravano un limite non valicabile nella scarsità e nella irriproducibilità di talune risorse naturali, costitutive del territorio. Dall’altro lato, si è generalizzata (almeno in una parte del mondo) la consapevolezza del fatto che la forma del territorio (ciò che può essere sintetizzato nel termine “paesaggio”) esprime qualità e valori che costituiscono una risorsa di cui non si può fare a meno.

Consumare o conservare?

La questione centrale da porre (se si vuole parlare di fini prima che di strumenti) è allora questa: si vuole considerare il territorio come qualcosa da consumare in funzione della crescita di determinate qualità e attività, oppure come qualcosa da conservare perché costituisce un insieme di risorse, di valori, già presenti perché depositati dal lavoro congiunto della cultura e dal lavoro dell’uomo in feconda collaborazione con la natura?

A me sembra che la prima scelta è quella che di fatto si è compiuta e si continua a compiere, nel Mezzogiorno, o almeno in gran parte di esso. Non è necessario evocare particolari siti o coste o pianure per ricordare la distruzione che si è compiuta. Ciò che forse è utile ricordare è il particolare carattere che ha contrassegnato il consumo di territorio nel Mezzogiorno rispetto a ciò che è avvenuto in altre parti d’Italia.

Mentre altrove il territorio è stato occupato in gran parte da strutture fisiche in qualche modo collegate all’attività produttiva, e quindi si può dire che il consumo di suolo sia il prezzo che si è pagato per una crescita del benessere economico e un rafforzamento della base industriale del paese, nel Mezzogiorno il medesimo fenomeno è servito quasi esclusivamente ad alimentare la rendita immobiliare. E mentre altrove la “diffusione urbana” è stata in grandissima parte controllata dalle regole della pianificazione (adoperate con minore o maggiore intelligenza), nel Mezzogiorno essa è avvenuta in grande maggioranza per effetto di pratiche abusive, e si è perciò strettamente correlata all’espansione dell’illegalità e al suo rafforzamento. In sostanza, nel Mezzogiorno il consumo di territorio ha alimentato quele che probabilmente sono due delle principali cause del degrado sociale ed economico di sue rilevanti porzioni: il forte squilibrio che nell’economia meridionale ha la rendita rispetto al profitto (e quindi le attività sperperatrici di risorse rispetto a quelle proprie di un economia capitalistica), e la patologica presenza di un’illegalità diffusa, a sua volta portatrice di sottosviluppo.

Mi sembra perciò evidente che la conservazione dei valori già presenti nel territorio sia nel Mezzogiorno un obiettivo ancora più rilevante che altrove, poiché non ha neppure quegli alibi (divenuti ormai del tutto falsi) che può avere altrove: la crescita, lo sviluppo, il benessere economico. Ma conviene precisare adesso che cosa sia la pianificazione territoriale e urbana.

La pianificazione:

una pratica obsoleta?

Oggi la pianificazione territoriale e urbana è in disgrazia. Questo dimostra, paradossalmente, la verità del titolo, e dell’ispirazione, del bellissimo libro di Piero Bevilacqua, sulla utilità della storia[2]. Se la memoria non si fosse smarrita tutti (o almeno chi è scelto per governare il paese e i suoi paesi) ricorderebbe che la pianificazione è nata per risolvere quei problemi che, come si comprese fin dagli albori del XIX secolo, il mercato non era in grado di risolvere: quei problemi –come la localizzazione sul territorio delle diverse attività, la connessione tra loro, la tutela dei beni comuni – che la somma delle convenienze dei singoli centri di decisione del sistema economico non riusciva a risolvere[3]. Se i nostri contemporanei avessero cognizione e memoria di ciò che è avvenuto, della ragione che ha prodotto molte delle cose di cui ci gioviamo (tecniche, metodi, utensili, istituti) la pianificazione non sarebbe stata gettata alle ortiche, slogan come “privato è bello”, “meno Stato e più mercato”, “via i lacci e laccioli che frenano la libera iniziativa”, non sarebbero stati pronunciati, o avrebbero avuto enfasi e modulazioni ben differenti da quelle che hanno avuto nella pubblicistica e nelle dichiarazioni politiche dell’ultimo ventennio.

Una logica di pianificazione

Che cos’è dunque la pianificazione? Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

Per completare questa definizione, devo precisare ancora il suo oggetto. C’è un consenso abbastanza ampio nel ritenere che sono oggetto della pianificazione territoriale ed urbanistica le trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono[4].

Obiettivi, coerenza nello spazio e nel tempo, flessibilità, trasparenza: sono tutti termini sui quali si dovrebbe ragionare e argomentare, chiarire e definire. Vorrei limitarmi in questa sede ad affrontare un solo tema, che è peraltro uno di quelli sui quali c’è oggi maggiore discussione e si registrano più devastanti differenze: chi è il soggetto della pianificazione.

Il soggetto della pianificazione e

la questione della democrazia

Per quanti ritengono che obiettivo della pianificazione non è l’arricchimento di una determinata categoria di proprietari, esso non può consistere che nell’assicurare, in una prospettiva di medio e lungo termine, le migliori condizioni di vita agli abitanti residenti o frequentanti una determinata area, le più efficienti condizioni di esercizio delle attività insediate nonché il più ragionevole e parsimonioso impiego delle risorse territoriali disponibili. Se è così, allora trova un fondamento l’espressione corrente secondo la quale il piano urbanistico costituisce il disegno della città futura (e del futuro assetto del territorio).

Ma allora è del tutto evidente che il soggetto della pianificazione si identifica col soggetto cui le regole costitutive di quella determinata società attribuiscono il potere. In un sistema democratico rappresentativo, quale quello nel quale per ora viviamo, gli elettori e gli uomini e i gruppi che essi scelgono secondo le istituzioni che hanno definito.

È aperta da tempo una discussione sui limiti e sulle insufficienze di tale sistema. Le critiche ne mettono in luce: la scarsa rappresentatività effettiva dei gruppi al potere, grazie alle pesanti differenze che la maggiore o minore possibilità di mezzi stabilisce tra i diversi concorrenti all’esercizio del governo; la modesta propensione a farsi carico di esigenze e interessi che non diano tangibili risultati di consenso a breve termine, quali quelli dei gruppi sociali minoritari e quelli delle “generazioni future”[5] . In attesa che la ricerca e la sperimentazione (e l’inesauribile creatività della storia) rivelino nuove superiori forme di governo, ci si accontenta dell’aforisma di Winston Churchill, il quale affermava che, certo, la democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tra tutti i sistemi che gli uomini hanno inventato è quello che ne possiede di meno.

Quali istituzioni?

Il “principio di pianificazione”

In Italia, il soggetto principale del sistema democratico rappresentativo, ed il primo livello di rappresentanza generale del cittadino, è il Comune, e in effetti storicamente la prima forma di pianificazione che si è manifestata è quella comunale.

Per molti anni, raggiunta l’unità statuale della nazione italiana, i piani regolavano l’espansione e il risanamento delle città. Ci si cominciò ad occupare del territorio extraurbano quando anche questo divenne oggetto di trasformazioni consistenti, estranee ai ritmi dominati dalla natura. In Italia, il primo episodio che richiese una pianificazione territoriale (alla scala di “area vasta”) fu la bonifica e l’urbanizzazione delle Paludi Pontine, nella seconda metà degli anni Trenta[6]. E la legge urbanistica inserì il “piano territoriale di coordinamento” nella scarna panoplia dei documenti di pianificazione[7].

Nell’immediato dopoguerra la legge urbanistica fu, di fatto, lasciata inoperosa: “lacci e laccioli” non dovevano disturbare una ricostruzione affidata alla spontaneità delle forze selvagge del mercato, e in gran parte al settore dell’edilizia. Il raggiungimento della concorrenzialità con i paesi dell’Occidente fu ottenuto pagando il prezzo di devastazioni dell’ambiente e di degradazione degli insediamenti che, oltre a distruggere parte consistente del patrimonio comune, ancora pesano sulla vita della società italiana e ne impoveriscono il futuro. Negli anni Sessanta i guasti cominciarono a pesare, e si cercarono strade diverse. Si riprese l’utilizzazione della legge urbanistica, introducendovi modifiche di portata più modesta di quelle richieste dalle componenti riformatrici della politica e della cultura[8]. A partire dal decennio successivo si costituirono le regioni e si mise a punto un sistema di pianificazione nel quale, accanto al Comune, assunsero il ruolo di soggetti della pianificazione la Regione e la Provincia[9].

Da allora la situazione si è ulteriormente complicata. La potestà legislativa in materia di urbanistica era attribuita dall’articolo 117 della costituzione (prima delle recenti modifiche) alle regioni. Queste però, mentre in una prima fase si sono limitate a chiosare e arricchire la legge del 1942, a partire dalla metà degli anni Novanta hanno lavorato con maggiore ampiezza sul sistema di pianificazione: senza mai sconvolgerlo nella sua struttura (così come questa si era venuta a definire sulla base della legge del 1942), ma attribuendo pesi, contenuti ed efficacia diversi ai tre livelli su statuali del comune, della provincia e della regione[10].

Quando il Parlamento, nel corso della XIII legislatura, provò a ragionare seriamente sull’argomento, si coniò una formula che sintetizzava un punto di arrivo della riflessione su questo tema, costituiva comunque un principio di approccio razionale al governo del territorio e apriva la strada a una corretta definizione dei poteri dei diversi livelli di governo ne campo della pianificazione. Si tratta del “principio di pianificazione”, il quale potrebbe essere enunciato così: ogni ente territoriale elettivo di primo grado, responsabile di scelte sul territorio, assume le decisioni sulla base di un “piano”, ossia di un documento riferito al territorio, nel quale sia possibile verificare la coerenza tra le scelte relative ai diversi aspetti, formato con procedure che garantiscano la trasparenza[11].

Ogni ente, insomma, esprime le sue scelte sul territorio mediante un piano. Ma come si fa a distinguere di ciò che è competenza di un piano anziché di un altro?

Il principio di sussidiarietà

Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino ai decreti di trasferimento delle competenze alle regioni, nel 1977. Oggi si è affermato un nuovo principio: quello di sussidiarietà. Esso ha però declinazioni molto diverse tra loro. A un estremo vi è quella assunta dalla Lega del nord, e in qualche modo subita nella “legge Bassanini” del 1997 e nelle modifiche al Titolo V della Costituzione fortunosamente varate dal governo D’Alema nel 2001. Esso consiste nel dire che tutto deve essere tendenzialmente devoluto al livello di governo più vicino al popolo, salvo quello che a quel livello non è proprio possibile governare, e nel prevedere l’affidamento di funzioni amministrative a privati[12].

Una formulazione più seria, che non stabilisce gerarchie, è quella adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Esso è formalizzato nel Trattato dell’Unione Europea, sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992. L’articolo 3b afferma:

"La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità".[13]

Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

La pratica della concertazione

tra gli interessi generali

Accanto al principio della sussidiarietà, gli orientamenti legislativi recenti concordano nell’introduzione di qualcosa che difficilmente potrebbe definirsi un principio, ma certo trae le sue ragioni dai principi che governano la buona amministrazione: quello, ad esempio, della necessaria collaborazione tra istituti che aspirano tutti al raggiungimento di obiettivi nell’interesse generale. Mi riferisco alla pratica della concertazione. Si tratta, per la verità, di una pratica presente da decenni nella tradizione delle amministrazioni centrali dello Stato.

Le leggi regionali nuove (o, almeno, la maggior parte di esse) definisce questa pratica inventando un nuovo istituto (prevalentemente denominato “Conferenza di pianificazione”), e attribuendogli un ruolo di consultazione obbligatoria del corso del procedimento formativo degli atti di pianificazione. È interessante osservare che le regioni tendono, giustamente, a distinguere il ruolo degli enti pubblici da quello dei privati, riservando le conferenze di pianificazione (o simili) ai rappresentanti dei primi. Alcune, poi, distinguono il ruolo di partecipazione consultiva dei privati privilegiando (o riservando la partecipazione) alle associazioni che esprimono interessi diffusi.

Altrettanto rilevante è che le leggi regionali tendano a chiudere i troppi varchi che la legislazione statale ha aperto, con i numerosissimi “strumenti urbanistici anomali”, alla deroga generalizzata al sistema di garanzie che le procedure della formazione dei piani vuole assicurare. Anche nel caso di “accordi di programma” o di altre intese potenzialmente derogatorie, la maggior parte delle leggi regionali ribadiscono la necessità dell’approvazione esplicita da parte degli organi collegiali delle amministrazioni elettive interessate, e quella della sostanziale conformità alle regole, oltre che alle finalità, degli strumenti urbanistici ordinari.

Questi strumenti nuovi (o “innovativi”, come li definiscono i loro laudatori) hanno avuto una fortuna discreta ne mondo accademico e in una parte del mondo amministrativo. Corrono il rischio di far breccia nel Mezzogiorno, dove sono stati rari i tentativi di utilizzare l’intervento “straordinario” per dare gambe e fiato al governo ordinario del territorio. Conviene perciò farne cenno.

Gli “strumenti innovativi”

Nel periodo del governo di Craxi si era cominciato a coinvolgere pesantemente gli interessi immobiliari nelle scelte sulla città, contrattando con essi le modifiche agli strumenti urbanistici e cogliendo ogni occasione[14] per introdurre deroghe ai piani. Nel periodo successivo si introdussero ope legis una serie di “strumenti urbanistici anomali”[15], nei quali si saldavano tre elementi: il sostegno del finanziamento pubblico, il coinvolgimento degli interessi immobiliari, la deroga alla strumentazione urbanistica ordinaria.

Si cominciò con i Programmi integrati (1992), i Programmi di recupero urbano (1993), i Programmi di riqualificazione urbana (1994); tutti dispositivi analoghi ai piani particolareggiati della legge del 1942, ma caratterizzati dal fatto di utilizzare finanziamenti pubblici per stimolare interventi immobiliari privati e, a questo fine, di consentire di derogare alle prescrizioni della disciplina urbanistica con procedure snelle (e poco garantiste dell’interesse pubblico). Altri strumenti successivi, come i Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio (PRUSST, 1997) non prevedevano esplicitamente la possibilità di modificare le prescrizioni urbanistiche, ma si appoggiavano – per farlo – agli Accordi di programma, introdotti nel 1990 nell’ambito della legge 142/1980. Questi ultimi, richiamati anche da altri successivi strumenti di negoziazione, come i Patti territoriali (1995) e i Contratti d’area (1997), consentono di derogare sia alla logica che alla procedura della pianificazione ordinaria, ma seguendo iter che garantiscono almeno la formalità dell’approvazione degli enti istituzionali.

Non risulta che questi strumenti “innovativi” abbiano mobilitato rilevanti risorse, né che abbiano provocato, come ci si proponeva, accelerazione nelle realizzazioni. E’ invece dimostrato[16] che essi hanno comportato peggioramenti ai progetti delle città, sottraendo aree destinate a spazi pubblici (o addirittura già utilizzate a questo fine) e realizzando pezzi di città ancora più sgraziati dei precedenti.

Chiuso il rubinetto dei finanziamenti pubblici gli strumenti “innovativi” sono spariti dalla scena. E’ restata però la loro logica: ancora spesso gli amministratori si affidano, per definire il progetto della città, non a un disegno generale costruito a partire dagli interessi dei cittadini, ma alla mobilitazione degli interessi immobiliari e alla maggiore o minore prontezza degli appetiti dei proprietari delle aree[17].

Mezzogiorno: superare la pianificazione?

Si sente dire spesso che la pianificazione è un metodo, e comporta l’impiego di una serie di strumenti, troppo complicati e “distanti” dal Mezzogiorno per essere adoperata nelle sue regioni. E’ un ragionamento che ho sentito fare molte volte[18].

Sono invece convinto che sia vero il contrario, e che anzi proprio le particolari condizioni del Mezzogiorno costituiscano una ragione in più per praticare la pianificazione. In primo luogo, quel particolare rapporto che lega, nel Mezzogiorno, le prospettive di sviluppo e l’ambiente, sul quale mi sono già soffermato all’inizio di questo scritto e sul quale vorrei adesso conclusivamente ritornare.

Ambiente e sviluppo

Il ruolo che l’ambiente fisico ha avuto nel condizionare lo sviluppo dell’economia, della società e delle istituzioni è stato analizzato con intelligenza, soprattutto (negli ultimi decenni) da Piero Bevilacqua e dai suoi allievi. Leggere alcune delle monografie del suo libro Tra natura e storia[19] aiuta a comprendere qualcosa, che del resto non sfugge a un’analisi anche empirica, ma non viziata dagli idola dell’industrialismo. Il destino economico, sociale e istituzionale del Mezzogiorno è legato alla capacità dei gruppi dirigenti di comprendere che, lì più ancora che altrove, l’ambiente (la sua ricchezza, la sua storicità, la sua bellezza espressa e quella esprimibile) sono, insieme all’intelligenza umana, l’unica base materiale dello sviluppo. E di comprenderlo non in termini meramente accademici, per poi agire in modo opposto a ciò che una comprensione finalizzata all’agire comporterebbe.

A me sembra indubbio che la situazione attuale e le sue prospettive rendano imperativa (ovunque, ma in particolare nel Mezzogiorno) l’attenzione all’ambiente fisico come base del possibile sviluppo. La produzione manifatturiera generica è in evidente declino, non solo per l’imperizia e la rapacità degli attori determinanti ma per ragioni più di fondo, ad alcune delle quali ho provato a riferirmi nella prima parte di questo scritto. L’agricoltura generica (quella che produce beni fungibili) non ha alcun futuro, come comincia a diventar palese in modo dirompente con il venir meno dei sussidi europei. A che cos’altro dunque può essere affidata una speranza di sviluppo nelle regioni del Mezzogiorno se non a un’intelligente applicazione della cultura e del lavoro dell’uomo ai dati della natura, nel rispetto e nella sapiente utilizzazione di ciò che l’innesto tra queste due risorse ha prodotto nel passato?

Molti segni in direzione di uno sviluppo simile già si vedono. Essi tralucono però negli interstizi delle politiche ufficiali (della destra come della sinistra), le quali, nel loro complesso, appaiono mosse da ispirazioni di segno opposto, obsolete, perdenti e distruttive. L’utilizzazione rapace di ciò che lavoro e natura hanno prodotto nei millenni trascorsi, la sostituzione dei paesaggi di consolidata bellezza con panorami dominati dal cemento e dall’asfalto, la utilizzazione idiota di terreni resi fertili da eventi geologici milionari per la localizzazione di gigantesche aree industriali (destinate a restar deserte di uomini e di attività) o addirittura per impianti di smaltimento dei rifiuti: questi sono gli eventi che ancor oggi si registrano.

Un siffatto modo di procedere non è solo in contrasto con ogni elementare responsabilità civile e culturale nei confronti del mondo attuale e delle generazioni future, ma è insano anche da un punto di vista esclusivamente economico. È infatti evidente a tutti che le attività legare alla visita, all’impiego intelligente e sano del tempo libero, al godimento della natura e dei beni culturali, tutto ciò (che sarebbe riduttivo racchiudere nella categoria del “turismo”) ha nel Mezzogiorno una enorme potenzialità di sviluppo proprio grazie alla possibilità di utilizzare il vastissimo patrimonio di natura, paesaggio, storia, arte, costumi, prodotti, intimamente legati al territorio e alla suo millenario processo di formazione.

È utilizzando in modo durevole questo patrimonio immenso (ma quindi, in primo luogo, tutelandolo attraverso la conoscenza e la salvaguardia) che il Mezzogiorno può trovare una ragione di sviluppo alternativa rispetto alle produzioni manifatturiere ormai obsolete, o alle produzioni agricole generiche ormai indifendibili in territori come i nostri, oppure rispetto a quelle di un “turismo di quantità” dissipatore della sua stessa materia prima.

Rendere “industria” l’insieme del territorio

In una recente discussione sul rapporto tra industrializzazione e ambiente nel Mezzogiorno[20] ho rilevato che l’eredità lasciata dai tentativi di industrializzazione nel Mezzogiorno hanno lasciato più problemi che benefici, e ho sostenuto che comunque non era sufficiente proporsi gli obiettivi, certamente urgenti, di riorganizzare in modo più decente i siti degradati, di diversificare e legare al territorio le aree per quella quota di produzione manifatturiera che è necessaria in relazione alle specifiche potenzialità dei siti, alle produzioni “di eccellenza” o “di nicchia” legate alle risorse locali, di adeguare l’infrastruttura del territorio, i “sistemi territoriali”, alle esigenze di una industria moderna.

Tutto questo è certamente necessario, ma – come ho appena argomentato - non garantisce uno sviluppo, soprattutto nella prospettiva. Credo che si debba invece preparare un futuro diverso applicando l’intelligenza, la creatività, l’innovazione, l’interesse – che nei secoli trascorsi di è applicato alla produzione industriale di merci – a una realtà diversa. Con una frase forse ardita, si tratta, insomma, di rendere “industria” l’insieme del territorio: di utilizzare gli elementi, fisici e sociali, ai quali è attribuibile valore e qualità, in esso disseminati, organizzandoli nel loro insieme, rendendoli fruibili mediante la conoscenza e l’uso, attivando le attività necessarie per valorizzarli[21] , per curarne la manutenzione e il miglioramento, per implementarne la qualità.

Se si pensa alla quantità di valori presenti nei nostri territori – in particolare nel Mezzogiorno –sembra addirittura stravagante che nessuno sforzo serio sia stato compiuto in passato in questa direzione. Ciò dipende forse da due circostanze.

La prima, che le stesse attività economiche legate a questo tipo di risorsa (il paesaggio, i beni culturali, la natura) hanno risentito delle logiche quantitative prevalenti nell’ideologia corrente. Si è sviluppato quindi un “turismo di quantità”, che ha provocato danni analoghi a quelli prodotti dall’industria. Che questo sia l’unico tipo di turismo possibile è un errore di immaginazione che spesso viene compiuto.

La seconda circostanza è che una “domanda” di quel tipo di bene di una certa consistenza si sta manifestando ora, ma nel passato era del tutto marginale. Ciò induce a pensare quanto potrebbe aumentare quella domanda di beni territoriali se una vertenza per la promozione della “industria del territorio”, nei termini in cui l’ho proposta, si legasse a una vertenza per una riduzione del tempo di lavoro, che le immani quantità della produzione di merci e la rivoluzione informatica avrebbero da tempo consentito.

Ora, in che modo si può pensare di affrontare un percorso che conduca alla formazione di un’evoluta “industria del territorio”, a un’organizzazione di quest’ultimo che recuperi, tuteli e valorizzi le qualità in esso disseminate, che le metta in rete con le risorse insediative (le città e i paesi, le infrastrutture, le attrezzature sociali ed economiche), che promuova la restituzione di bellezza e funzionalità ai luoghi deturpati dallo sviluppo selvaggio, se non ricorrendo alla logica e agli strumenti della pianificazione? La domanda è, palesemente, retorica.

Pubblica amministrazione e legalità

Il ricorso alla pianificazione è ostacolato da molte cose, presenti nel Mezzogiorno in modo forse più marcato che altrove., In primo luogo, il rapporto distorto tra pubblico e privato che si è manifestato tra i decisori (e anche nella cultura corrente) negli ultimi decenni: più precisamente, dall’epoca del governo di Craxi.

Per la verità, oggi in Italia l’ubriacatura del “privato e bello”, l’apoteosi del “meno Stato e più mercato”, sembra stiano passando di moda. I risultati che si volevano ottenere si sono rivelati illusori. Il mercato ha confermato la sua insufficienza a svolgere anche solo le funzioni regolatrici del valore di scambio senza una forte presenza pubblica, figuriamoci se poteva tener conto della sempre più estesa domanda sociale di accrescere i valori d’uso. Tuttavia il danno che la fortuna di quegli slogan ha provocato sono consistenti, soprattutto là dove – come nel Mezzogiorno – la debolezza dello Stato era diventata cronica ed era stata surrogata da un individualismo distruttore e da un familismo spesso criminoso.

La questione alla quale generazioni di meridionalisti si erano dedicati (la costruzione nel Mezzogiorno di strumenti di una statualità moderna) è quindi oggi più centrale che mai. Il rafforzamento delle strutture pubbliche è quindi, oggi, problema prioritario. Senza un potere politico dotato di strumenti efficaci diventa impossibile guidare le forze dell’economia verso orizzonti coerenti con gli interessi generali; diventa impossibile scegliere tra impieghi produttivi e strategici delle risorse disponibili e impegni parassitari e miopi; diventa impossibile scegliere a quali risorse attribuire priorità, per quali loro utilizzazioni, in vista di quali interessi.

In questo quadro mi sembra particolarmente rilevante la questione della legalità, sempre all’ordine del giorno in molte parti del Mezzogiorno. E’ una questione direttamente legata al modo di funzionare della pubblica amministrazione.

Perché un’amministrazione pubblica sia efficace, e perciò capace di incidere sulla realtà, essa deve essere rispettata. Può esserlo in due modi: può imporsi col ricatto del terrore (ed è il modo praticato dalla criminalità organizzata: da noi, mafia, camorra, ndrangheta); oppure può guadagnare il consenso dei cittadini. Quest’ultima strada richiede però alcune condizioni che l’amministrazione deve assicurare al cittadino.

La prima condizione è che al cittadino sia chiara la ragione di ciascuna delle regole che l’amministrazione lo impegna a rispettare. La seconda è che le regole siano rispettate da tutti, ugualmente rigorose per chi può violarle e per chi deve rispettarle. Perciò mi sembra che combattere il burocratismo (imperante in molta parte dell’amministrazione pubblica) sia un impegno civile, e che pratiche come la co-pianificazione e l’intesa interistituzionale siano da praticare largamente. Perciò, soprattutto, mi sembra che il rispetto della legalità sia nel Mezzogiorno un impegno d’onore ancor più necessario che in altre regioni d’Italia e d’Europa. Perciò mi preoccupano le lesioni alla legalità che vengono compiute, anche se per nobili motivi, di chi ha le maggiori responsabilità pubbliche[22].

La “buona pianificazione”

Questa considerazioni sono una conferma della tesi che ho iniziato ad argomentare: che cioè la pianificazione sia uno metodo (più ancora che un insieme di strumenti) essenziale soprattutto nel Mezzogiorno. Non solo perché, come ho sostenuto, essa potrebbe svolgere un ruolo decisivo come strumento di uno sviluppo basato – come non può non essere nelle regioni meridionali - su un’attenta considerazione delle risorse dell’ambiente. Ma anche perché la certezza delle procedure e la trasparenza delle decisioni (caratteristiche esenziali della buona pianificazione) sono connotati rilevanti di un’azione amministrativa tesa al ripristino della legalità.

Per meritare l’attributo di “buona pianificazione”, essa dovrebbe essere il luogo nel quale tutte le scelte degli enti pubblici suscettibili di indurre trasformazioni territoriali (da quelle dello “sviluppo” a quelle della “tutela”) trovino la loro sintesi. Tanto per fare un esempio, i contenuti dei “piani operativi regionali” (POR), i programmi e i progetti di infrastrutture d’interesse regionale, le politiche regionali per l’abitazione, il turismo, l’agricoltura, quelle per la riduzione e lo smaltimento dei rifiuti, dovrebbero tutte trovare la loro coerenza – e la coerenza con le regole per il corretto impiego delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali e con i relativi vincoli – in un atto di pianificazione unitario, sottoposto al vaglio del confronto pubblico, impegnativo nei suoi esiti prima di dar luogo a decisioni operative. È così che succede nel Mezzogiorno? Non mi sembra.

Una “buona pianificazione”, perciò utile ad affrontare i problemi del Mezzogiorno in coerenza con le tesi ora sostenute, dovrebbe avere nella lettura attenta (e sistematicamente aggiornata) delle risorse territoriali la base conoscitiva d’ogni decisione. Da tale lettura dovrebbe discendere un sistema non di “vincoli”, ma di definizione delle opportunità e delle condizioni che l’esigenza di non dissipare o degradare il valore delle risorse territoriali, pongono a ogni ipotizzabile trasformazione. Quante e quali sono le banche di dati sistematicamente aggiornate disponibili nelle regioni, nelle province (e nei comuni) del Mezzogiorno? Quanti sono i sistemi informativi territoriali vivi (cioè sistematicamente aggiornati) che possano sorreggere le scelte di localizzazione sistematiche (della pianificazione) o episodiche (dell’emergenza)? Non mi sembra che ci sia da rallegrarsi del bilancio.

Pianificazione e strategia

Anche nel Mezzogiorno ha preso piede l’impiego di quei nuovi “strumenti innovativi” cui mi sono riferito. Non più piani regolatori generali o piani territoriali di coordinamento, ma patti territoriali, programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione urbana, i programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio e così enumerando. E negli ultimi tempi, i piani strategici. Non più strumenti di “governo”, ma di “governance”[23].

Tutti quegli strumenti (con una sola eccezione) premiano le esigenze, le opportunità, le disponibilità del breve periodo, e offrono spazi consistenti agli interessi privati, in particolare a quelli più forti. Sono quindi utilmente impiegabili a due sole condizioni: che vi sia un rigoroso sistema di regole certe e forti sul territorio, mediante le quali siano garantite le prospettive di una utilizzazione durevole delle risorse disponibili, e quindi un efficace sistema di pianificazione; che il potere pubblico sia autorevole, qualificato, decisamente orientato a favorire la prevalenza degli interessi generali e la tutela degli interessi “deboli”.

Queste due condizioni non sono certo diffusamente presenti nel Mezzogiorno. Se è così (e dove è così, e finché è così), sostituire governance a government, come del resto affannarsi nella formazione di strumenti urbanistici “innovativi” invece di quelli tradizionali, significa premiare, una volta ancora, gli interessi forti e le opportunità di breve periodo rispetto a ogni altro interesse e opportunità. Nel concreto, nelle regioni del Mezzogiorno questo quindi significa privilegiare, una volta ancora, le utilizzazioni edilizie dei suoli e la valorizzazione della rendita fondiaria rispetto alle utilizzazioni coerenti con l’esigenza di uno sviluppo durevole e con l’opportunità di un pieno impiego delle risorse territoriali. Significa premiare e promuovere il consolidamento delle attività economiche parassitarie anziché lo sviluppo di quelle innovative e produttive nei settori dell’agricoltura di qualità e di sito, dei servizi alle persone e alle imprese, del turismo di conoscenza e di fruizione evoluta del territorio, delle produzioni avanzate ad alta intensità di intelligenza e a bassa intensità di consumo di territorio e di energia.

La pianificazione strategica

Diverso è il ragionamento per quanto riguarda la pianificazione strategica. Per la verità con questo termine si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica italiana) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni

Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.

Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorrere, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.

[1] Molti anni fa intitolai un editoriale di Urbanistica informazioni (n. 67, gennaio-febbraio 1983), che allora dirigevo, “I diritti del territorio”.

[2] P. Bevilacqua, Utilità della storia, Donzelli, Roma 19..

[3]Il primo piano regolatore moderno è considerato quello che New York si diede nel 1811. Esso fu imposto dagli operatori economici e dalla popolazione per risolvere problemi che il mercato, di per sé, non riusciva a risolvere: la promiscuità tra fabbriche e abitazioni, la congestione del traffico, l’instabilità dei valori immobiliari. Senza un intervento pubblico di regolazione il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili.

[4] Ho sviluppato alquanto questo argomento nel libro Fondamenti di urbanistica – La storia e la norma, Laterza Editori, Bari-Roma 20045.

[5] Se considerassimo la democrazia rappresentativa (o meglio, l’attuale sistema politico) come un dato permanente ci sfuggirebbe il rischio immanente della sua degenerazione verso forme innovative di dominio. Cfr. L. Canfora, La democrazia, storia d’una ideologia, Laterza Editori, Roma-Bari 2004.

[6] Tra il 1926 e la fine degli anni Trenta si sviluppa in Italia la grande impresa della bonifica della Pianura Pontina. 60 mila ettari di terreno paludoso sono bonificati e messi a coltura, mediante un razionale sistema di appoderamento, la realizzazione di 2 mila km di canali e 900 km di strade, e la costruzione di numerose città. Nello stesso periodo in USA si sviluppa la gigantesca impresa della Tennassee Valley Authority e delle altre misure keynesiane anticrisi promosse da Roosvelt.

[7]Legge 17 agosto 1942, n. 1150, “Legge urbanistica”.

[8] Allora le riforme per le quali ci si batteva non erano, come in questi anni, quelle del sistema istituzionale e dell’asservimento della giustizia al potere politico, ma quelle della struttura economica, quindi dell’energia elettrica, dell’agricoltura, del regime dei suoli urbani. Le forze che si battevano per questi obiettivi si chiamavano “riformatrici”, non “riformiste”.

[9]Legge 8 Giugno 1990, n. 142, “Ordinamento delle province e dei comuni”, modificata con legge 3 agosto 1999 n. 265.

[10] Anche nomenclature diverse. Sicché, mentre in Europa si tende ad avvicinare i linguaggi delle varie nazioni, in Italia si tende a differenziare quelle delle sue varie regioni. Del resto Arlecchino è una maschera tipicamente italiana.

[11] Proposta di legge d’iniziativa Mussi, Zagatti, Bandoli e altri, Legge quadro per il governo del territorio, XIII Legislatura, Atti parlamentari Camera dei Deputati, n. 3206.

[12]La sussidiarietà è definita come “l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997, n. 59, "Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa".

[13] Il testo dell’articolo è stato confermato nel Trattato di Amsterdam il 2 ottobre 1997, ed è divenuto l’articolo 5 del Trattato istitutivo della Unione europea.

[14] Iniziò la serie delle leggi derogatorie la legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Seguirono leggi nel 1980 (legge Andreatta, Legge n 25 del 15 febbraio 1980), 1982 (legge Nicolazzi, n. 94 del 23 gennaio 1982), e poi le leggi per le “emergenze” dei campionati di calcio, per le mucillagini in Adriatico, per i poliziotti, per i terremoti. Si veda anche P. Della Seta-E. Salzano, L’Italia a sacco, Editori riuniti, Roma 1993; anche in http://eddyburg.it

[15]Imma Apreda, Analisi degli strumenti anomali, rispetto alla strumentazione tradizionale, che sono stati introdotti nel recente passato, sia attraverso la legislazione che per iniziativa amministrativa, in: «Nuove forme di governo del territorio», a cura di M. Savino, Franco Angeli, Milano 2003.

[16] Compagnia dei Celestini, Dal Piano RegOlatore al Piano RegAlatore, Bologna 2002. Anche in http://www.celestini.it

[17] Per esempio a Bologna sia la giunta Vitali (odg 70 dell’aprile 1997) che la giunta Guazzaloca (odg 136 del gennaio 2001) emanarono bandi nei quali chiedevano ai proprietari immobiliari di presentare proposte di interventi anche in variante al PRG.

[18] Ho il ricordo vivido di una riunione nazionale convocata dalla direzione del PCI in una sala di Palermo, nel tentativo di risolvere il forte dissidio tra chi, in quel partito, sosteneva che l’abusivismo doveva essere oggetto di una sanatoria e chi, viceversa, difendeva la legalità e la pianificazione (e il territorio). Ebbene, allora i “condonisti” sostenevano che la legge urbanistica del 1942 era una legge “nordica”, e che nel Sud erano necessari strumenti diversi.

[19]Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1966.

[20] Convegno sul tema "Manfredonia e il Gargano: economia e ambiente", organizzato dall’Università di Foggia, 24-26 settembre 2004.

[21] Intendo per “valorizzazione” l’esaltazione del valor d’uso, non del valore di scambio: degli oggetti in quanto beni, non in quanto merci. In un’economia che ha dimenticato i valori d’uso e ha ridotto ogni bene a merce, una simile affermazione equivale a dire che la valorizzazione deve essere misurata secondo parametri non economici.

[22] Per questa ragione mi è sembrata una scelta scandalosamente sbagliata quella dei governanti della Regione Campania, della Provincia di Salerno, del Comune di Ravello e della Sovrintendenza ai beni architettonici, culturali, paesistici e ambientali di promuovere una pesante forzatura della legge per poter realizzare il cosiddetto Auditorium di Niemeyer, a Ravello. L’illeggittimità è stata rilevata dai due tribunali amministrativi che si sono pronunciati nel merito mentre l’ultima sentenza (quella del Consiglio di Stato) ha eluso il merito arrestandosi a un ... errore d’indirizzo nella notifica!

[23] Un equilibrato concorso della governance (ricerca del consenso negoziale) con il government (esercizio del principio di autorità) è a mio parere molto utile se si tiene sempre presente che gli interessi in gioco non sono tutti uguali, e non hanno tutti il diritto di partecipare in ugual modo alle scelte di governo. Altro è il consenso tra le istituzioni (a condizione che sia chiaro chi, in ultima istanza, ha la responsabilità di decidere), altro è quello con i cittadini, i lavoratori e le loro associazioni, altro ancora quello con i portatori di interessi industriali o comunque legati alla produzione, altro infine (last and least) quello con i portatori di interessi immobiliari.

Prefazione alla nuova edizione (2003)

Copertina "Fondamenti di Urbanistica"

Nel giugno del 2003 ho aggiornato il libro con la presente quinta edizione. Non ho modificato i primi nove capitoli della precedente edizione. Ho sviluppato invece l’ultima parte. I tre ultimi capitoli di questa edizione ampliano considerevolmente il contenuto delle precedenti, integrandolo soprattutto con informazioni e valutazioni a proposito della legislazione urbanistica delle regioni, e con qualche riflessione su argomenti all’ordine del giorno del dibattito urbanistico (come la governance e, più in generale, i rapporti tra pubblico e privato), oppure riproposti nelle pratiche di pianificazione degli ultimi anni (come la questione dei “vincoli urbanistici”). Infine, qualche ulteriore riflessione sulla figura e il ruolo dell’urbanista è stata provocata da ricerche che ho avuto modo di seguire nell’ambito della facoltà di Pianificazione del territorio e del dipartimento di Pianificazione dell’IUAV.

Per non aumentare il costo dell’edizione (e quindi non costringere l’Editore ad aumentare il prezzo) non ho modificato i primi capitoli. Ciò non mi ha consentito di seguire i consigli, peraltro sensati, di ampliare alcuni momenti del percorso storico o introdurvi altri argomenti.

Mauro Baioni, Ada Becchi, Fabrizio Bottini, Alessandro Dal Piaz, Vezio De Lucia, Marco Guerzoni, Luigi Scano hanno avuto la pazienza di leggere e correggere la nuova edizione e la bontà di darmi utili consigli per le novità introdotte. Li ringrazio (assumendo naturalmente l’intera responsabilità del testo), come ringrazio i colleghi che hanno ritenuto utile questo libro per la didattica universitaria.

Sommario degli ultimi tre capitoli

X. Un nuovo contesto

La pianificazione all'inizio del nuovo secolo, p. 239

Cambiamenti della società, trasformazioni del territorio, p. 239 - La città: la scimmiotto e la svuoto, p. 240 - La risposta delle istituzioni, p. 242 - Liquidata la politica della casa, p. 244 - Italia S.p.A., p. 245 - Serve ancora la pianificazione?, p. 246

Valori e obiettivi per la pianificazione, p. 248

I valori della collettività, p. 248 –L’uovo o la gallina, p. 249 - La democrazía è sostenibile?, p. 251 - La storia e la natura, p. 252 - Pianificare la conservazione, p. 253 - Il «sistema delle qualità», p. 254

I limiti della pianificazione tradizionale, p. 256

Il piano criticato, p. 256 - Tre versanti critici, p. 256 - Il modello mila­nese, p. 257 - Un'altra «terza via», p. 260

XI. Una nuova pianificazione: dai principi alle leggi regionali

Dal «piano» alla pianificazione, p. 265

Una definizione della pianificazione, p. 265 - Gli obiettivi della pianificazione, p. 266 - La coerenza nello spazio e nel tempo, p. 267 - Una sintesi tra flessibilità e coerenza, p. 267

Un nuovo meccanismo di pianificazione, p. 268

Scelte strutturali e scelte programmatiche, p. 268 - Un nuovo rapporto tra «piano» e tempo, p. 269 - Due condizioni irrinunciabili, p. 270 - Il nuovo meccanismo nelle legislazioni regionali, p. 270

I livelli della pianificazione, p. 274

Il «principio di pianificazione», p. 274 - Il principio di sussidiarietà, p. 275 - Dall'approvazione alla verifica di conformità, p. 277

Pianificazione ordinaria e pianificazione specialistica, p. 278

Troppi piani?, p. 278 - Piani diversi, per esigenze diverse, p. 278 - I pia­ni per il paesaggio, la difesa del suolo, le aree protette, p. 279

L'ambiente nella pianificazione: qualche passo avanti, p. 281

Le condizioni alle trasformazioni, p. 281 - L'ambiente nelle legislazioni regionali, p. 282 - Le azioni per la tutela e la valorizzazione, p. 285

«Governance»: significato e limiti d'un termine nuovo, p. 286

La «governance», come nasce, p. 286 - Non è vero che tutti gli attori sono uguali, p. 287 - Gli interessi privati, p. 288 - Governare la «governance», p. 289 - E la partecipazione?, p. 290

XII. Requiem per la «riforma urbanistica»?

Tentativi a Roma, nuove leggi altrove, p. 293

Le proposte ci sono, p. 293 - La 1150 era una buona legge, p. 294 - La «mannaia» della Corte costituzionale, p. 295

La questione dei «vincoli urbanistici», p. 296

Una distinzione preliminare, p. 296 - Le sentenze costituzionali, p. 297 - Chi pone i vincoli ricognitivi?, p. 299 - I vincoli «urbanistici»: è incostituzionale non indennizzarli se sono «espropriativi», p. 301 - Ma non è sempre illegittimo reiterare i vincoli urbanistici, p. 301 - Può il prg eliminare senza danni l'edificabilità di un'area?, p. 303 - Il diritto non richiede di «compensare» o «perequare», p. 305

Per concludere, p. 306

Pianificare si può, p. 306 - La questione del consenso, p. 307 - La politica, p. 307 - Gli urbanisti, p. 309 - La stella polare, p. 310

© 2024 Eddyburg