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Ho intenzione di fare della pianificazione territoriale, nella pro­spettiva della realizzazione dell'Europa, una vera priorità naziona­le". Così ha affermato il nuovo Primo ministro della Repubblica. Ai deputati, sindaci, amministratori regionali e provinciali, urbanisti, geografi, storici riuniti per discutere "Le reti di città" era già sem­brato una grande e rincuorante novità il fatto che il nuovo Presiden­te del Consiglio avesse scelto quell'occasione, quel tema, quella platea per parlare per la prima volta in pubblico: tanto più che gli organizzatori non l'avevano previsto né richiesto.

Il fatto é che il Primo ministro aveva piena consapevolezza di ciò che comportava, per il paese che gli toccava governare, "l'ingresso in Europa": per tanti anni sperato e ora, che era giunto, anche temu­to. Come reggerà una realtà come la nostra alla concorrenza degli altri paesi? Ormai la concorrenza si vince o si perde a seconda di ciò che si riesce a mettere in campo sul terreno della qualità terri­toriale e urbana.

Se non abbiamo reti regionali e urbane dei trasporti collettivi che funzionano, se l'assistenza sanitaria e i servizi sociali sono così inadeguati, se la ricchezza di beni culturali è soffocata e negata dalle condizioni deplorevoli in cui li abbandoniamo, se la campagna è continuamente erosa dalla disseminazione delle case e casette, se la natura è devastata da ogni sorta di inquinamento, se le città si espandono a macchia d'olio e il turismo da rapina rovina le coste e i monti, se i fiumi sono ridotti a fognature civili e industriali, perché mai le aziende della produzione moderna e del terziario avanzato dovrebbero scegliere le nostre città per insediarsi? E perché i lavo­ratori europei e le loro famiglie dovrebbero frequentare i nostri lidi e i nostri monti, percorrere le nostre colline, nei sempre più fre­quenti periodi di tempo libero?

No, deve aver pensato il nuovo Primo ministro, così non può andare avanti. Corriamo un rischio grave, gravissimo: il rischio di diventare la periferia dell'Europa. Anzi, se si pensa a che cosa sono le periferie nelle lustre città di altre nazioni europee (la Germania, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna), dell'Europa rischiamo di diventare il Bronx.

E su che cosa mai si può far leva per ottenere un assetto territo­riale e urbano all'altezza di quello dei nostri concorrenti? Non sono un urbanista, si deve esser detto il Primo ministro, mi sono occupa­to più di finanza e di politica che di territorio, ma il mio buonsenso di statista mi dice che, per vincere, bisogna finalmente far decollare la pianificazione del territorio, a tutti i livelli. Su questo impegnerò tutte le energie del nuovo governo, lo prometto.

Lettore, stupisci? Non hai letto sui giornali di una dichiarazione così forte e così nuova come quella da cui siamo partiti? Forse ti sei sbagliato, non hai letto i giornali giusti. Quella dichiarazione non è stata pubblicata dai giornali italiani, ma da quelli francesi. Perché il Primo ministro che l'ha pronunciata non è il successore di Giulio Andreotti, ma quello della signora Cresson: é Pierre Bérégovoy, prémier della Repubblica di Francia. L'ha pronunciata a un conve­gno che si é tenuto a Mulhouse, in Alsazia, il 28 aprile scorso, or­ganizzato dalla Delegazione per la pianificazione territoriale e l'azione urbana del governo francese.

Eravamo lì, l'abbiamo sentito. Abbiamo pensato all'Italia. Que­sta volta, senza nostalgia.

Città senza automobili

E' andato nella tana del lupo Carlo Ripa di Meana, il ministro europeo per l'Ambiente.te. Ha scelto Torino, la città della Fiat, per presentare in Italia il più recen­te prodotto del suo dicastero il documento dall'ambizioso titolo "Città senza automobili".

L'avvocato Agnelli era lì presente, a fare gli onori di casa. Si è mostrato signorilmente interessato, non pregiudizialmente ostile. Eppure ciò che la Commissione europea per l'ambiente si propone (lo avevamo già letto nel "Libro verde per l'ambiente urbano") è qualcosa che deve stridere alle orecchie degli uomini che hanno co­struito le loro fortune, e la loro potenza, sull'assoluta, e quasi divi­nizzata, indispensabilità dell'automobile. Lo slogan di Ripa di Meana è infatti: "l'automobile deve diventare un'opzione". Basta pensare a ciò che è oggi, nelle città italiane, la mobilità per rendersi conto del carattere rivoluzionario di quest'affermazione.

L'avvocato Agnelli ha sollevato una questione, ed espresso una perplessità. Non dimentichiamo, ha detto, che l'automobile é anche "uno strumento di libertà". Ragioniamo pure sull'ipotesi di avere "città senza automobili", ha aggiunto, ma prima bisogna che mi spieghiate che cosa intendete per aree urbane.

Non sappiamo se qualcuno ha risposto all'autorevole industriale. Noi vogliamo provarci. A noi sembra che la risposta stia proprio in quello slogan "l'automobile deve diventare un'opzione". Le città potranno essere senza automobili in quelle loro parti in cui il si­stema delle convenienze nella scelta del mezzo di trasporto più op­portuno (in termini di velocità, comodità, prezzo) sarà reso tale da indura la grande maggioranza degli utenti a preferire l'opzione del trasporto collettivo. Le aree urbane quindi discendono da un proget­to: un progetto urbanistico, particolarmente preciso nella defini­zione del sistema della mobilità, ed accompagnato da adeguate e coerenti politiche finanziarie e tariffarie.

In questo quadro, interventi volti a rendere più costoso rispetto ai livelli attuali l'uso del mezzo individuale é altrettanto legittimo (dal punto di vista dell' "automobile come libertà") quanto gli interventi nel campo delle tariffe dei mezzi collettivi. Avranno un significato pienamente "liberale" se i loro proventi, oltre a scoraggiare l'im­piego dell'automobile, aiuteranno a realizzare un sistema di tra­sporto collettivo efficace.

Certo è, però, che rendere le "città senza automobili" richiede uno sforzo molto consistente per la realizzazione di servizi collettivi di trasporto efficienti. Uno sforzo, in primo luogo, di coordina­mento. Si può mai pensare, in un paese appena appena evoluto, che Ferrovie, metropolitane, autobus e parcheggi vadano ciascuno per conto suo? L'integrazione dei modi del trasporto é una necessità as­soluta.

E uno sforzo, in secondo luogo, finanziario. Dove attingere per gli investimenti (in conto capitale e in conto per le spese correnti) che sono necessari? Varie ipotesi sono state formulate. Ma a noi non sembra che si riesca a fare quanto è necessario se non si rinun­cia all'illusione di poter fare, contemporaneamente tutto: in partico­lare, per poter dare priorità, insieme, alla realizzazione di reti urba­ne e regionali efficienti e alla prestigiosa alta velocità. Governare è, in primo luogo, scegliere.

Attenti a Metropolis

Un patrimonio di 16mila-21mila mi­liardi, che "con gli opportuni investi­menti" può arrivare a valere 60mila miliardi di lire. Con queste ci­fre i giornali danno notizia della costituzione di Metropolis, la so­cietà cui l'Ente Ferrovie affiderà il compito di riqualificare e valo­rizzare il patrimonio ferroviario.

Ci si domanda se la costituzione di un'apposita struttura finaliz­zata alle operazioni immobiliari non renderà più aggressiva la ten­denza delle Ferrovie di partecipare in grande scala alla nuova specu­lazione sulla città. Su questa tendenza l'ente diretto da Lorenzo Necci si era già mosso con una certa grinta innovativa. Architetti prestigiosi hanno studiato i nodi ferroviari delle maggiori città ita­liane, e in più d'una sono state configurate operazioni di nuova edi­ficazione dei vastissimi piazzali ferroviari obsoleti e delle stazioni ferroviarie che sarebbe opportuno trasferire. Solo a Roma, si parla di una proposta dell'Ente Ferrovie (con il quale, evidentemente, il Comune è interessato ad avere un buon rapporto) per la costruzione di 8 milioni di metri cubi.

Saremo dei "vetero urbanisti", ma a noi piacerebbe che il destino di queste aree fosse determinato dagli interessi della città, e non da quello di un' azienda per quanto prestigiosa e utile nella sua attività primaria. E ci piacerebbe anche che l'Alta velocità (e gli altri pro­grammi di adeguamento della rete del ferro e del servizio collettivo del trasporto) non fosse finanziato da una più potente speculazione fondiaria.

LA "DAZIONE AMBIENTALE"



Non vo­gliamo assol­vere né i corruttori né, tanto meno, i concussori. Tuttavia ci sembra che la "dazione ambientale" (per usare il brutto ma efficace neolo­gismo del giudice Di Pietro) induca a guardare un pò al di là della morale e del codice. A guardare, appunto, all'"ambiente" in cui la "dazione", lo scambio dell'"obolo" contro la compiacenza amministrativa, ha potuto così ampiamente e perversamente allignare.

Scrivevamo su queste pagine, ancora nel 1986, rivolti in quell'occasione ai senatori che stavano discutendo le proposte in materia di riforma urbanistica: "Siamo convinti, e non da oggi, che l'attuale regime degli immobili sia una delle cause più gravi della pubblica corrizione. Se é da un atto discrezionale dell'amministrazione che discende il fatto che un immobile (...) vale 10 e il vicino vale 10mila, é facile comprendere che l'humus sul quale nasce la corruzione é fecondato dal più fertile dei conci­mi" (n.86). Sempre su queste pagine, commentando il bilancio di un trentennio di Corte costituzionale e denunciando l'affermarsi della prassi dell'"urbanistica contrattata", scrivevamo ancora: "Non ci stanchiamo di sottolineare il potenziale di corruzione che simili procedure contengono. La mancanza di riferimenti certi, chiari e costanti nella determinazione dei valori immobiliari é la matrice della discrezionalità più sfrenata, del soggettivismo più devastante, delle tentazioni più turpi" (n.87).

Dell'"urbanistica contrattata" Milano è stata la culla. Nel presentare il dossier che questa rivista ha dedicato all'urbanistica milanese Campos Venuti ha scritto che "il caso di Milano é quello più rappresentativo della deregulation urbanistica italiana" e che, nella metropoli lombarda "la deregulation urbanistica e l'urbanistica contrattata si sono manifestate più esplicite che altrove", al punto che "il non piano è stato apertamente teorizzato" (n.107). Nello stesso numero, ricordando che Milano non è sola (richiamavamo alla memoria dei lettori gli altri casi di Napoli e Trieste, Roma e Fi­renze), ribadivamo in queste Note le ragioni della nostra preoccu­pazione per il dilagare dell'"urbanistica contrattata". Tra queste, il fatto che essa "riduce fortemente la strasparenza del processo delle decisioni e aumenta la discrezionalità dei singoli amministratori e delle segreterie dei partiti a discapito del potere delle istituzioni".

Il giudice Di Pietro, e quanti con lui hanno collaborato, hanno insomma sollevato il coperchio d'una pentola di cui era facile av­vertire il tanfo. Benemerita é certo la loro azione, ma non è suffi­ciente. Basta a restituire fiducia nella prevalenza del codice penale sugli interessi personali, di cordata e di partito, e non è poco. Ma non basta, da sola, a sterilizzare l'ambiente della "dazione".

Occorrono anche altri interventi, altre iniziative tenacemente co­struite e gestite, altre strategie e altre incursioni, in campi che hanno a che fare con codici diversi da quelli impugnati dal corag­gioso magistrato: i codici della politica, dell'amministrazione, dell'urbanistica infine.

Occorre la capacità di trasferire la conclamata volontà di trasparenza in un sistema di regole non derogabili, non soggette a "variante". E oltre alle regole che riguardano (e che devono impedi­re) l'invadenza dei partiti negli organismi di gestione, oltre a quelle che riconducano la politica da una parte, l'amministrazione dall'al­tra, all'interno dei loro impegnativi campi di responsabilità, occorrono le nuove regole per il governo del territorio, per l'urba­nistica. Occorre insomma ripristinare la legittimità, e valorizzare il ruolo, della pianificazione territoriale e urbana.

Questa, la pianificazione, è stata accusata d'essere un insieme di "lacci e lacciuoli"; rispettarli, avrebbe forse evitato a qualcuno le manette.

La stagione è forse opportuna per riproporre il problema di quale debba essere il centro dell’azione e della riflessione dell’urbanistica: quel centro che, volta a volta, è stato visto nella razionalizzazione dei processi di uso del territorio o nella riforma del regime dei suoli, nelle conquiste ( e delusioni) sul terreno legislativo o nella pratica amministrativa e tecnica degli enti locali, nel ruolo delle regioni o nel nodo del “livello intermedio”.

In una fase in cui, per cambiare quel che c’è da cambiare, tutto è posto in discussione, è probabilmente opportuno partire da una base molto elementare, da una matrice indiscutibile: dall’affermare, cioè, che l’oggetto primordiale della nostra disciplina, al quale bisogna guardare con un’attenzione più marcata, e certo più incisiva e coerente, è il territorio, come realtà fisica nella quale è sedimentata e materializzata la storia della nostra civiltà e che costituisce non solo una primaria risorsa economica, ma la base stessa per la sopravvivenza, e per ogni possibile sviluppo, della nostra società.

A questa considerazione, molti eventi e molte esigenze, anche esterni, sollecitano. Le frane, gli smottamenti, le alluvioni, gli inquinamenti mortiferi (Severo) o morbosi (le metropoli, le fabbriche, i fiumi, i mari): i fatti, insomma, della vita e della cronaca quotidiana sono una prima indubbia sollecitazione in tal senso. Ma come non riconoscere e ricordare che l'impegno per la preservazione della base materiale della nostra esistenza è il portato della “tradizionale” cultura urbanistica italiana (quella dei Piccinato, dei Detti, degli Astengo)? Che gli effetti che oggi registriamo sono la derivazione immediata di cause lucidamente indicate, e combattute dai protagonisti della storia del nostro stesso istituto?

E c'è una seconda sollecitazione che spinge nella medesima direzione. Essa sta nel fatto che oggi, nel clima di diffusa sfiducia verso i temi e i modi più tradizionali dell'azione politica, una delle poche spinte sociali che esprimono una resistenza e una reazione nei confronti delle tendenze al riflusso verso il “privato” o al ripiegamento verso il “corporativo”, è quella che si manifesta nelle azioni e rivendicazioni e proteste e proposte sul tema dell'ambiente e della sua difesa: una spinta aggregante che va al di là delle pur rilevanti formazioni e organizzazioni ecologistiche. Le esigenze in tale direzione espresse, nelle quali è riconoscibile la vitale attenzioni di nuovi strati sociali verso il territorio, sono davvero distanti dalla nostra disciplina?

Ancora. È chiaro a tutti (fuorché ad alcuni “potenti”) che l'era dell'espansione è terminata. Ed è chiaro a noi che il tema determinante è oggi quello di «legare e cucire» (come scrive Bernardo Secchi); quello insomma di recuperare e riutilizzare e ricomporre case e infrastrutture, centri antichi e periferie moderne, tessuti degradati e tessuti sbrindellati. Ebbene, il recupero va limitato ad alcune “aree” o “zone”, è il contenuto di alcuni piani, o deve diventare il parametro essenziale dell'insieme della nostra azione? E non è allora il territorio in quanto tale, nella sua specificità fisica, storica, economica, sociale, nella sua unità strutturale e nelle differenze delle sue connotazioni e delle sue “densità”, a dover essere l'oggetto primario di ogni analisi e il punto di partenza di ogni progettazione della “città futura”?

Un'ultima considerazione. È viva l'esigenza (ne parlerà il presidente dell'Inu nella relazione al congresso di Genova) di ribadire e rafforzare l'autonomia dell'istituto dai partiti (come dai sindacati, dalle accademie e dalle altre organizzazioni e dimensioni della società). Ed è ovvio che questa autonomia ha un senso, ed è feconda di risultati anche sulla politica e sui partiti, se essa è l'espressione di un punto di vista, di un approccio alla realtà, di una dimensione dei problemi che sia propria della nostra disciplina, e a cui questa sia in grado di offrire sbocchi di analisi e di proposte. Dove ha sede, però, la matrice della distinzione che non ci oppone, ma ci distingue dalla politica e ci colloca con essa in posizione dialettica?

Sta, forse, nel fatto che la politica, in democrazia, è fortemente condizionata dalla ricerca del consenso, ed è quindi prevalentemente tesa alla conquista del consenso, ed alla soddisfazione delle esigenze, che si manifestano qui e oggi. Mentre, viceversa, l'urbanistica, proprio perchè ha quale proprio centro ed oggetto la difesa e valorizzazione e trasformazione del territorio secondo modi che non lo neghino ma ne esaltino le qualità, impone ed esige di guardar lontano e avanti: pretende la lungimiranza di chi, per mestiere, sa che occorre salvaguardare oggi e prevedere oggi, per rendere possibili condizioni di vita domani, esigendo la vista su un domani anche lontano.

Con un po’ d'ambizione, e con molto schematismo potremmo dire che la politica si occupa soprattutto degli uomini di oggi, e l'urbanistica soprattutto degli uomini di domani; e ciò proprio perchè essa si occupa di quel particolare oggetto che è il territorio come sede della vita e dell'attività degli uomini del presente e del futuro. È allora il caso, anche per questo, di occuparsi in modo più attento dell'oggetto (vorrei dire del protagonista) della nostra disciplina. E non sarebbe male proporci l’impegno di redigere, pubblicare, divulgare (e tentare di rendere efficace) una carta dei diritti del territorio): che, alla fine, coinciderebbe con la carta dei diritti dell’uomo di domani.

Il suo obiettivo era rendere la città più bella e funzionale. Aveva colto due punti centrali della verità dei suoi e dei nostri tempi. Aveva colto due insegnamenti della storia che hanno permeato la cultura degli urbanisti e degli amministratori quando i valori e le esperienze dell’Europa democratica, dopo l’eclissi fascista, rientrarono nel nostro paese. Due insegnamenti che oggi molti sembrano aver smarrito.

Il primo. La città non è un ammasso di case, non è il mero risultato quantitativo dell’aggregazione di edifici e di persone, non è il cieco prodotto del mercato. È una creatura sociale, un prodotto del lavoro collettivo e storico, e in quanto tale ha un’individualità che trascende la somma delle individualità che la compongono. Ed è un prodotto destinato a durare, a rimanere nel tempo uguale a se stesso pur nel succedersi delle sue trasformazioni. È quindi un oggetto che deve essere progettato e riprogettato di continuo, con una regia che non può essere che pubblica.

Il secondo. La base necessaria per la bellezza e la funzionalità della città è la proprietà indivisa del suolo urbano: le sue parti, i suoi “lotti” e i suoi spazi, possono essere usati dai cittadini, dalle famiglie, dalle aziende, ma la collettività deve restare padrona della propria base. Tra gli effetti negativi di quella grande ventata liberatrice dell’ingegno e dell’attività umana che fu la rivoluzione borghese, il primo, nei paesi dell’Europa continentale, fu quello di liquidare questa necessità pratica. La sconfitta dell’ancien régime aveva provocato la privatizzazione del suolo urbano:

“Nella notte tra il quattro e il cinque agosto 1789, la nobiltà francese non aveva forse abbandonato i suoi privilegi e la sua proprietà fondiaria insieme a tutti i tributi e le prerogative? Il suolo era dunque divenuto libero. Non era più proprietà e titolo di diritto della nobiltà o del clero ma dei cittadini e dei contadini cui veniva venduto o assegnato. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune. In tutte le discussioni aveva sempre la meglio il sentimento di libertà e di indipendenza appena riconquistate. Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune[1].”

L’appropriazione privata del suolo urbano ha costituito, per la città e la società che la abita, una sciagura colossale. È nata la speculazione:

“Ognuno vendeva il proprio fondo al prezzo più alto possibile. Lo sfruttamento speculativo del terreno da parte delle società fondiarie fu condotto con metodo.[…] La rendita più alta si ottiene dal terreno maggiormente sfruttabile: un’area su cui sia consentito costruire edifici di cinque piani, frutta più di un’area dove, secondo la legge edilizia in vigore, si possono costruire edifici di due o tre piani al massimo. In egual modo un’area edificabile per i tre quarti della superficie frutta una rendita maggiore rispetto ad una edificabile solo per un quarto o un quinto. La rendita ed il prezzo di vendita del terreno saranno tanto più alti, quanto più alto sarà il numero di appartamenti e negozi edificabili su di una determinata superficie. Come la speculazione fondiaria aveva imposto il gran numero di lotti d’angolo, anche l’edilizia riuscì ad imporre i cinque piani [2].”

La bellezza è stata sostituita dall’arricchimento del proprietario, il progetto non è più «lavoro creativo, ma un semplice problema di calcolo». E se «nella loro impotenza molte città istituirono a fianco della vigilanza per gli aspetti tecnici dell'edilizia anche una vigilanza estetica», presto «le sentenze [di quest'ultima] furono sentite non a torto come un'inopportuna intromissione in faccende private». Se la città non è proprietaria del suolo sul quale nasce e si sviluppa, il suo potere diventa subalterno, l’iniziativa passa ad altre mani: «Non potendo rifiutare progetti edilizi insoddisfacenti, la città è costretta ad accontentarsi di proporre solo miglioramenti, ecco perché la mediocrità predomina sempre»[3].

Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però, comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero. Ora invece non è più così: ora accade che

“[...]quando la città progetta di costruire una struttura pubblica come un parco, uno stadio, una scuola, una caserma dei vigili del fuoco o un cimitero, per reperire il terreno deve rivolgersi ai proprietari privati. Questi si mettono a disposizione sorridendo, ma lasciano cortesemente intendere che potrebbe essere una faccenda piuttosto costosa. Si inizia a trattare, a tirare sul prezzo e quanto più il terreno risulterà adatto agli scopi previsti, tanto più alto sarà il prezzo fissato dal proprietario. Il rappresentante del comune deve spesso abbandonare il gioco stringendosi nelle spalle. Cercare l’area adatta diventa una via crucis per molti edifici pubblici, perché un teatro, un museo o un municipio non possono accontentarsi di appezzamenti casuali. […]Per questo le nostre città difettano di aree libere per gli adulti e di parchi giochi per i bimbi. Occorre pagare un alto prezzo per il terreno [4].”

Per restituire funzionalità all’organismo urbano, per correggere gli effetti della privatizzazione del suolo la società ha dovuto ricorrere a strumenti parziali: gli espropri là dove le strade dovevano essere realizzate e dove la città doveva essere risanata o ristrutturata, la zonizzazione là dove occorreva regolare in modo differenziato l’edilizia, le sue utilizzazioni, i suoi rapporti col suolo. E’ nata così la pianificazione urbanistica, come strumento inventato per risolvere problemi che il mercato era incapace di affrontare[5].

Gli strumenti regolativi e autoritativi che la borghesia ha via via inventato per tentar di condizionare la perdita della disponibilità del suolo si sono rivelati in effetti strumenti utili per correggere gli errori più macroscopici e soddisfare le esigenze più urgenti: ma ciò è avvenuto solo là dove il potere della città (la politica, l’amministrazione) ha saputo contrastare con decisione il potere della proprietà immobiliare, sconfiggendolo o piegandolo. Quegli strumenti non sono stati mai utili all’interesse collettivo quando il potere pubblico è sceso a patti con i “poteri forti” della città, né tanto meno quando – come nell’attuale clima politico – si è addirittura proposto di rovesciare secoli di storia ed esercitare la pianificazione del suolo urbano mediante «l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi»[6].

Nel pensiero di Bernoulli l’esigenza pratica (il suolo deve essere indiviso perché la città possa essere bella e funzionale) si salda con l’esigenza morale: non è giusto che un bene comune, la terra, sia occupato dal primo che se ne impossessa, o dal più avvantaggiato dalla ricchezza o dal potere. Notevole è in lui l’influenza del pensatore statunitense che l’aveva da poco preceduto, Henry George (1839-1897)[7].

Per George l’appropriazione privata della terra era, nel mondo contemporaneo, un’illogicità palese:

“ […] far derivare un diritto individuale esclusivo e pieno all’uso della terra dalla priorità di occupazione, gli è questa, se possibile, la più assurda base, su cui uno possa collocarsi per difendere la proprietà della terra. La priorità di occupazione dare un titolo esclusivo e perpetuo alla superficie di un globo, su cui, nell’ordine della natura, generazioni innumere si succedono! O che gli uomini dell’ultima generazione avevano forse maggior diritto all’uso di questo globo che noi della generazione attuale? O lo ebbero quelli di cento, di mille anni fa? […] O che il primo arrivato ad un banchetto avrà il diritto di capovolgere le sedie e di pretendere che nessuno degli altri invitati tocchi la mensa apprestata, se prima non sia venuto a patti con lui? E chi primo presenta un biglietto alla porta di un teatro ed entra, acquisterà per questa sua priorità il diritto di chiuder le porte e di avere la rappresentazione per sé solo? E il viaggiatore che primo sale in vagone avrà il diritto di occupare coi suoi bagagli tutti i posti e di costringere quelli che salgono dopo di lui a starsene in piedi?[8]

Invero ciò che spingeva George a criticare la proprietà fondiaria e a denunciarne l’illogicità non era solo una sollecitazione morale, ma una precisa esigenza economica. L’obiettivo di George (tipografo autodidatta, ma attento lettore di Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mills) era quello di abolire le tasse sul reddito, che deprimevano produzione e consumo, per instaurare un’imposta unica sulla proprietà della terra. L’obiettivo che proponeva era contrastare con l’imposizione fiscale il peso della rendita; eliminare così, o fortemente ridurre, la taglia che questa pone allo sviluppo delle forze produttive, per potere liberare queste (liberare il profitto e il salario) e consentire alla loro dialettica di proseguire lo sviluppo della produzione e, per questa via, eliminare la povertà.

È interessante ricordarlo oggi, in Italia. La destra italiana è da tempo abissalmente lontana da quella del liberalismo e del liberismo dei Croce e degli Einaudi , e la borghesia del nostro paese è sempre stata più abile a stimolare l’accrescimento dell’assistenzialismo e del parassitismo di Stato che a impiegare innovazione e competizione per lo sviluppo della produzione. Ciò nonostante, non molti decenni fa l’obiettivo della riduzione del peso della rendita immobiliare era condiviso da un arco ampio di forze politiche e sociali, che andava dal pci a parti consistenti della dc, dai sindacati dei lavoratori a esponenti di spicco del mondo imprenditoriale. Oggi quell’obiettivo è scomparso su quasi tutti i versanti dello schieramento politico.

Attivo nel dopoguerra in molte città europee come urbanista e conferenziere, Bernoulli propagandò le sue idee e le sue esperienze nel fervido terreno della ricostruzione posbellica. La sua fama giunse anche in Italia. Il libro per il quale è più noto, La città e il suolo urbano, fu tradotto da Luigi Dodi e pubblicato da Vallardi nel 1951. Ebbe un peso notevole sulla cultura urbanistica italiana di quegli anni: gli anni fecondi in cui, nelle esperienze dei paesi dell’Europa socialdemocratica, si cercarono soluzione adeguate a rendere migliori le nostre città. Le argomentazioni dell’urbanista elvetico alimentarono il dibattito che sfociò nelle proposte di “riforma urbanistica” degli anni Sessanta. Si aprì allora quel vasto e inconcluso “processo di riforma” che non giunse a sciogliere il nodo della disponibilità dei suoli urbani, e condusse invece, fino alla conclusione del decennio successivo, a risultati parziali ma significativi: le leggi per sottrarre la condizione abitativa all’arbitrio totale del mercato, quelle per rafforzare il potere pubblico e generalizzare la pratica della pianificazione, quelle infine (last but not least) per sottrarre quantità adeguate di aree agli usi privati e al primato della speculazione per destinarle ai servizi collettivi e al verde.[9]

In realtà il peso della rendita nel sistema economico-sociale (e nel sistema di potere) dell’Italia postunitaria era ben più grave di quanto non fosse negli altri paesi dell’Europa. Il modo stesso in cui si era giunti alla formazione dello Stato unitario (un compromesso, di portata storica, tra la borghesia imprenditoriale e agraria del Nord e la feudalità latifondista e parassitaria del Sud) aveva costituito nella rendita fondiaria, e nelle classe sociali che ne beneficiavano, una delle colonne del potere condiviso della nuova direzione politica dello Stato. La trasformazione della rendita fondiaria agraria in rendita urbana, sapientemente descritto da Bernoulli nelle sue caratteristiche generali, era divampata in Italia ed era proseguita ininterrottamente in tutte le fasi di trasformazione demografica e d’espansione delle città che si sono susseguite (fatte salve le pause belliche) dall’Unità alla ricostruzione del secondo dopoguerra.

Non è casuale il fatto che l’utilizzazione delle tesi di Bernoulli e il dibattito sulla “riforma urbanistica” siano avvenute in Italia proprio in quel decennio. Negli anni Cinquanta del secolo scorso si cominciava a modificare sensibilmente lo scenario, sul terreno dei fatti e su quello delle consapevolezze.

Si era conclusa la fase della ricostruzione della base materiale del paese. Case, strade, ferrovie (le fabbriche erano state salvate dalla distruzione grazie alla resistenza della classe operaia) erano state ricostruite, con un massiccio ricorso all’attività di imprese edilizie frettolosamente allestite. Era appena stata approvata, nel periodo bellico, una buona legge urbanistica nazionale[10]. Ma gli strumenti della pianificazione da essa previsti erano stati presto accantonati, nella convinzione che ciò avrebbe significato liberare l’attività edilizia da lacci e lacciuoli, accelerando così la ricostruzione. Ciò avvenne, ma rendendo invivibili le città e devastando il territorio in vaste aree del paese.

Nello stesso periodo l’Italia, abbandonando l’autarchia imposta dal regime fascista, era entrata nel mercato mondiale. Per stimolare la ripresa della produzione industriale in settori in cui si riteneva più facile vincere la competizione con le imprese straniere, si promosse l’espansione della domanda di beni di consumo durevoli: primo fra tutti l’automobile. Si costruirono autostrade e si sostennero le industrie dell’automobile e dei pneumatici, ma si rinunciò alla ricerca di modalità collettive per risolvere problemi di massa, quale quello della mobilità. La rapida trasformazione dell’economia da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale provocò l’abbandono delle campagne e delle aree del Meridione e l’espansione incontrollata delle città e delle aree industriali del Nord. Aumentò così la congestione urbana.

La crescita della democrazia e l’ingresso delle donne nel processo produttivo aumentarono la domanda di servizi sociali, di verde pubblico, di asili e scuole. Aumentava insomma la domanda di aree per le esigenze collettive: ma l’urbanizzazione era dominata dalla speculazione, ogni lotto era utilizzato per costruire abitazioni vendibili. La carenza dei servizi che man mano divenivano essenziali, la mancata disponibilità di alloggi a prezzi moderati, le condizioni del traffico urbano, tutto ciò incideva pesantemente sui costi della vita. La spinta salariale divenne irresistibile: attraverso il carovita la rendita urbana e le disfunzioni della città premevano sul profitto.

L’imprenditoria più avanzata, che aveva raggiunto livelli competitivi con l’industria estera, cominciava a sentire ormai la rendita (e i suoi effetti sull’organizzazione urbana) come un ostacolo. Nelle regioni del Nord e del Centro l’ambiente sociale e quello economico divenivano favorevoli alla ripresa delle pratiche razionalizzatici della pianificazione urbanistica; e questa, infatti, governò, o almeno controllò, le trasformazioni delle regioni a Nord della Capitale.

Il tentativo di applicare quasi alla lettera la proposta di Bernoulli (realizzare l’espansione della città su suolo preliminarmente reso pubblico e concedere agli operatori il solo diritto di utilizzazione) fu coraggiosamente esperito da un ministro democristiano, Fiorentino Sullo. Egli propose una legge di riforma urbanistica che prevedeva che l’espansione delle città avvenisse, in modo generalizzato, su aree acquisite al patrimonio pubblico dei comuni e assegnato agli utilizzatori non in proprietà ma in uso, per un numero determinato di anni (“diritto di superficie” per 99 anni rinnovabili). Ma il blocco di potere che nei decenni si era saldato attorno alla rendita e all’attività edilizia frustrò il tentativo. Alla vigilia delle elezioni del 1963 il ministro fu sconfessato dal suo partito, sostituito nel nuovo governo. La sua proposta di legge venne ripresentata per più legislature dal pci, senza fortuna. Il vento aveva girato[11].

Si può dire che, da allora, la lotta per la riappropriazione del suolo urbano da parte della collettività si è trasformata da guerra dichiarata a guerriglia, si è ridotta da battaglia campale a un disordinato insieme di isolati episodi di lotta corpo a corpo, combattuti da qualche comune più avveduto o da qualche comitato di cittadini più agguerrito.

L’industria avanzata, dopo aver fornito occasionale sostegno ai tentativi di liberare profitto e salario dalla rendita [12], aveva trovato più comodo accomodarsi al banchetto della spartizione della ricchezza del paese. Non aveva investito il profitto nell’accrescimento del capitale industriale, cioè nell’accumulazione e nell’innovazione, ma aveva puntato in misura sempre più larga sulla rendita immobiliare e finanziaria.

Il tentativo di condizionare la rendita, di contrastarla con politiche urbanistiche orientate ad adoperare gli strumenti delle “piccole riforme” per migliorare le condizioni della vivibilità urbana (casa, servizi, trasporti, verde), è rimasta nelle mani delle amministrazioni locali. E’ soprattutto grazie a queste se in molte parti del paese le città hanno un certo ordine, se il rapporto tra spazi pubblici e aree private, tra spazi aperti e lotti edificati non è troppo distante da quello che si vede in altri paesi europei, se la vita urbana si svolge in condizioni decenti. Mentre è certamente al peso della rendita immobiliare, alla debolezza delle amministrazioni pubbliche, alla mancanza di una rigorosa e avveduta politica nazionale del territorio che si deve se, in altre parti del paese, il territorio è devastato e le città invivibili.

Si può dire che fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, sebbene fosse stata accantonata la speranza di un nuovo regime proprietario dei suoli urbani, la rendita immobiliare era comunque rimasta un soggetto pericoloso che occorreva contenere. Era rimasto intatto il principio che la città è un bene comune (la prima delle intuizioni di Bernoulli) e che quindi il suo governo, attraverso la pianificazione urbanistica, era responsabilità piena del potere pubblico. Il segno cambiò tra la fine degli anno Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.

Il potere politico, nel governo nazionale e nelle amministrazioni locali, non era più esercitato in funzione di interessi generali. Era diventato fine a se stesso. Il “partito” contava più dell’istituzione: la parte contava più del tutto. Per rafforzare la parte era lecito eludere la legge, fornire decisioni pubbliche per favorire interessi privati ottenendo in cambio una “tangente”. Le decisioni urbanistiche (insieme a quelle sulla gestione amministrativa) erano un terreno particolarmente favorevole al proliferare di queste pratiche. Se favorisco, con una variante al piano regolatore, il proprietario di un terreno perchè lui possa costruire edilizia da vendere il suo terreno vale di più, ottiene una rendita più elevata, può tagliarne una parte e regalarla sottobanco a me amministratore, o al mio partito.

Perchè ciò possa avvenire è necessario che la pianificazione non sia più un insieme di regole valide per tutti, formate in modo trasparente: così come la legislazione urbanistica, bene o male, impone di fare. Occorre che le scelte sul territorio siano contrattate tra i promotori immobiliari e l’amministrazione (o la segreteria del partito). Nacque così la pratica che ha preso il nome di urbanistica contrattata. Questa fu quindi, da una parte, l’espressione più piena di quel fenomeno che fu definito Tangentopoli[13], ma dall’altra parte fu una delle manifestazioni dello smarrimento di alcuni valori di fondo che la civiltà europea aveva sedimentato negli ultimi due secoli, nel tentativo di correggere alcuni errori più gravi del sistema capitalistico borghese e dell’economia di mercato, se non di superarne i limiti. Mi riferisco in primo luogo all’attribuzione al potere pubblico della responsabilità di decidere, con procedure trasparenti e partecipate, il futuro della città a partire dal suo disegno e dalle utilizzazioni dei suoli, superando la miopia delle scelte dettate da interessi individualistici. E mi riferisco in secondo luogo all’invenzione di strumenti di decisione che consentano di affrontare l’insieme dei problemi connessi al funzionamento della città, superando l’ottica frammentata del mercato.

Quando slogan come “privato è bello”, “meno Stato e più mercato”, “basta lacci e lacciuoli” divennero dominanti nell’area della destra e popolari in quella della sinistra, fu facile comprendere che era iniziata “la notte dell’urbanistica”[14]. Il terreno nel quale Hans Bernoulli (e altri saggi scrutatori della realtà) aveva gettato il suo seme era divenuto arido.

Tra gli urbanisti italiani, la fase che si aprì con Tangentopoli fu definita “controriforma urbanistica”. Era infatti il rovesciamento secco e l’antitesi di quella stagione di vera tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta.

Il punto più basso di questo vero e proprio declino della civiltà del governo urbano è stato probabilmente raggiunto nella stagione alla quale stiamo volgendo le spalle: quella dei reiterati condoni dell’abusivismo urbanistico, dello smantellamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, dell’assunzione del mercato a misura di tutte le cose, della privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica che abbia come obiettivi l’uguaglianza, la fraternità, la libertà. Il fenomeno più significativo è forse l’arroganza della nuova espressione del mondo della rendita, dei cosiddetti “immobiliaristi”.

L’incremento della rendita immobiliare che è stato promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata nei due decenni trascorsi è stato così consistente da consentire a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico, come la Banca nazionale del lavoro e il Corriere della sera. E’ stata documentata dalla magistratura la complicità di eccellenti organi istituzionali, come il Governatore della Banca d’Italia, ed è stata testimoniata dalla stampa la simpatia per gli “immobiliaristi” di insospettabili esponenti di gruppi politici, come il segretario nazionale dei ds.

Il documento più espressivo del clima degli anni che ci auguriamo siano alle nostre spalle è probabilmente la cosidetta «Legge Lupi»: in essa si proclama, e lucidamente si persegue, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa”, cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività “negoziale”, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[15].

Ma appaiono ormai all’orizzonte i segni di una svolta. L’aggravamento delle condizioni di vita nelle città (l’abitazione, il traffico, l’inquinamento) accresce la consapevolezza che occorre una politica regolatrice pubblica. I disastri che devastano il territorio e cancellano vite umane rivelano l’insensatezza delle pratiche che hanno consentito la trasformazione in una «repellente crosta di cemento e asfalto», come ripeteva Antonio Cederna. Il declino dell’industria italiana spinge a ricercarne le cause e ad individuarne una certamente non marginale nelle occasioni d’investimento alternative fornite dalle rendite finanziaria e immobiliare. Comincia a farsi strada la convinzione che il paesaggio, il territorio aperto, i beni culturali siano la ricchezza essenziale cui il paese può affidare il suo sviluppo, abbandonando i traguardi della crescita quantitativa della produzione di merci per costruire le prospettive “innovative” della messa in valore delle qualità dei beni storici, artistici, culturali, naturali dei quali il nostro territorio è intriso.

È maturo il tempo per rileggere le pagine di Hans Bernoulli, in una traduzione fedele alla pulizia e allo stile del linguaggio lirico nel quale fu scritto (l’urbanista era anche letterato e poeta), non per compiacersene, ma per trarne le conseguenze culturali e politiche.

[1] Qui pag. 35-36.

[2] Qui pag. 37, 38.

[3] Qui pag. 39.

[4] Qui pag. 39.

[5]Il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, può essere considerato quello di New York del 1811. La città aveva raggiunto 60 mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e depositi. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori. Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città.

[6] Il riferimento è al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005. Si veda in proposito Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”, Alinea editrice, Firenze 2005.

[7] Nato a Filadelfia nel 1830, morto a New York nel 1897, Henry George fece molti mestieri: marinaio, minatore, tipografo: Girò il mondo, prima e dopo aver scritto l’opera per la quale è noto. Progresso e povertà ebbe una notevole diffusione, non solo nei paesi di lingua anglosassone. Autodidatta, studiò l’economia sui testi dei classici dell’epoca, ma soprattutto sulle condizioni reali del mondo del lavoro. La sua teoria trasse ispirazione da David Ricardo e da John Stuart Mill; influenzò particolarmente il pensiero del socialismo americano ed europeo della fine del xix secolo.

[8]Henry George, Progresso e Povertà. Indagine sulle cause delle crisi industriali e dell’aumento della povertà in mezzo all’aumento della ricchezza. Il Rimedio, Robert Schalkenbach Foundation, New York 1963 (ristampa dell’edizione italiana utet, trad. di Ludovico Eusebio, Torino 1888).

[9] Mi riferisco in particolare: alla legge 167/1962, che promosse la costruzione di quartieri integrati socialmente e urbanisticamente, finanziati con risorse pubbliche e private, su terreni preliminarmente espropriati dai comuni, dotati di tutti i servizi necessari; alla legge 765/1967 e al successivo decreto 1444/1968, che generalizzarono la pianificazione urbanistica, regolarono le lottizzazioni a scopo edificatorio e imposero la presenza, nei piani urbanistici, di una quota minima di aree per il verde e i servizi pubblici nei piani urbanistici; alla legge 865/1971, che instaurò un’efficace sistema di programmazione statale, regionale e comunale per il finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica; alla legge 10/1977, che introdusse (sia pure ambiguamente) il principio che la facoltà di costruire non è una diritto appartenente alla proprietà ma il risultato di una concessione pubblica; la legge 392/1978, che rese omogeneo e governabile (ma non fu governato) il controllo pubblico sui prezzi delle abitazioni private.

[10] Legge 14 agosto 1942 n. 1150, «Legge urbanistica».

[11]Lo scandalo edilizio è il dolorante racconto della vicenda da parte del suo maggiore protagonista, Fiorentino Sullo. Un’analisi rigorosa della realtà sociale che provocò la sconfitta di Sullo è costituita dal saggio di V. Parlato, Il blocco edilizio, pubblicato sulla rivista Il Manifesto, nel n. 3-4 del 1970; ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972. E’ disponibile online in eddyburg.it.

[12] In un’intervista rilasciata al settimanale l’Espresso, Gianni Agnelli, presidente della fiat e dopo poco presidente della Confindustria, si dichiarò convinto “che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impreSa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire”. Citato in P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] «L'urbanistica contrattata è la sostituzione, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti» (Della Seta, Salzano, L’Italia a sacco, p. 100).

[14] Fu il titolo di una grande manifestazione popolare, organizzata da Vezio De Lucia e Antonio Bassolino, sulla spiaggia di Bagnoli, in occasione dell’approvazione della legge Berlusconi-Radice sul condono edilizio, nell’estate del 1994.

[15] Mi riferisco al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» approvato dalla Camera dei deputati ma decaduto non avendo avuto l'approvazione del Senato prima dello scioglimento del parlamento. Il testo del disegno di legge e un’ampia rassegna delle critiche sollevate è contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”.

Il sito delle edizioni Corte del Fontego

Non ha suscitato grande attenzione la presentazione di alcune proposte di legge in materia di governo del territorio (dall’on. Lupi e altri per la “ Casa delle libertà” e dall’on. Mantini e altri per la Margherita). Siamo molto lontani dal clima degli storici dibattiti sulla “ riforma urbanistica”, che investivano l’intera società. Del resto, non di riforma si tratta, ma di piccoli aggiustamenti. Spesso su punti di un certo rilievo. Spesso con soluzioni pessime.

Cominciamo dalle definizioni. Non si tratta più di “ urbanistica”, ma di “governo del territorio”. Per la proposta Lupi il governo del territorio consiste nella disciplina degli usi del suolo e della mobilità, nel rispetto della tutela del suolo, dell'ambiente e dei beni culturali e ambientali” (art.1, c. 2). Per Mantini, il governo del territorio “disciplina la gestione, la tutela, l'uso e le trasformazioni più rilevanti del territorio nonché la valorizzazione del paesaggio” (art. 1, c.2). Un po’ meglio Mantini, che – almeno a livello di definizione – inserisce la “tutela” (solo delle “trasformazioni più rilevanti”) e il “paesaggio” (ma solo la “valorizzazione”) tra gli aspetti da disciplinare; per Lupi si tratta schiettamente di altre cose, da “rispettare”.

Vale la pena di ricordare la classica definizione di urbanistica, elaborata da Massimo Severo Giannini e inserita nel decreto presidenziale 616 del 1977. Allora (altri tempi, altra Repubblica, altra cultura) si definiva l’ urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente” (art. 80). Una definizione ben più comprensiva e ampia.

Ma entriamo nel merito. Cominciamo dalla proposta della “Casa delle libertà”. Quattro aspetti mi hanno soprattutto colpito.

Il primo. Secondo Lupi la pianificazione del territorio avviene “sentiti i soggetti interessati” (art. 3, c. 2). Si precisa che “le funzioni amministrative” (la pianificazione) “sono svolte in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati ai quali va riconosciuto comunque il diritto alla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti” (c. 3). Fino ad oggi il piano urbanistico esprimeva la volontà ; dell’amministrazione elettiva, e solo dopo veniva sottoposta al parere dei privati. Adesso il procedimento è invertito: il piano è redatto sulla base delle espressioni di volontà dei “soggetti interessati”. Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di “soggetti intere ssati” ci si riferisca alla cittadina e al cittadino? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare.

Il secondo. Per la proposta Lupi “Le regioni individuano gli ambiti territoriali da pianificare e l’ente competente alla pianificazione” (art. 4, c. 1). Fino a oggi l’ambito e l’ente competente erano quelli dei comuni, della cui competenza a pianificare nessuno aveva mai dubitato. In nome dell’efficienza ci si propone di affidare alle regioni la facoltà di annullare una delle fondamentali storiche competenze dei comuni. E’ lecito sollevare dubbi molto seri su questo modo (è costituzionalmente corretto) di modificare la corrispondenza tra assetto istituzionale e titolarità della pianificazione urbanistica.

Il terzo. L’attuazione del piano urbanistico (è il titolo dell’ ;articolo 7) configurata dalla proposta Lupi non può essere illustrata in poche righe. Mi limito a osservare che, assumendo in pieno le posizioni in proposito dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, la “Casa delle libertà” sollecita l’impiego di “strumenti e modalità di perequazione e di compensazione” (art. 7, c. 2), e propone di introdurre per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di “diritti edificatori” i quali vengono attribuiti dal piano urbanistico nei modi che dovranno essere regolamentati dalla regione. Ciò palesemente significa ribadire e rafforzare i poteri della proprietà immobiliare. Tutta la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel sostenere che nessun “diritto edificatorio” (termine comunque assolutamente improprio, dicono i giuristi, perché non di un diritto si tratta ma di facoltà) viene attribuito da una scelta del piano urbanistico, e che quindi perequazioni e compensazioni possono essere strumenti utili dal punto di vista pratico (e come tali furono già introdotti dalla legge 1150/1942 e dalla 765/1967). Stabilire oggi per legge che i piani attribuiscono quel diritto significa quindi conferire alla proprietà fondiaria un peso che il diritto non le aveva mai riconosciuto 1 . Ma questo, evidentemente, è coerente con quel poco di impostazione “culturale” comune che le variegate componenti della “Casa delle libertà” possiedono.

Il quarto. La proposta Lupi prevede che il proprietario di un’area destinata a servizi pubblici (un parco, una scuola, un ospedale) può chiedere al comune “la realizzazione diretta degli interventi d’ interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’ amministrazione per la gestione dei servizi” (art. 7, c. 5). La questione dell’attuazione delle previsioni relative alla realizzazione e gestione degli spazi pubblici è certamente questione complessa, nell’ambito della quale il concorso dei privati nella gestione (e magari nella realizzazione) di certi impianti e attrezzature può utilmente essere configurato. Affrontata in modo così grezzo e semplicistico la proposta ha un solo significato, sintetizzabile in una frase: prosegue la marcia verso la privatizzazione di tutto ciò che, dopo la rivoluzione borghese del 18° secolo, si era mano a mano affidato al pubblico ne l corso dei successivi due secoli, per correggere le storture di un sistema imperfetto. Così, del resto, si sta procedendo nel settore del patrimonio pubblico esistente e dei beni culturali 2.

Questi sono allora, in sintesi, le tendenze più rilevanti (e i rischi più gravi) che si manifestano nella proposta di legge della “Casa delle libertà”: indebolimento del potere pubblico nei confronti dei privati e, in particolare, della proprietà immobiliare; devoluzione particolarmente ampia del governo del territorio al livello regionale; scissione della forma di governo che si esprime con la tutela da quella che si esplicita con le trasformazioni.

Non sono molto diverse le critiche che si possono muovere alla legge presentata dai deputati della Margherita (primo firmatario l’on. Mantini), sebbene in essa non manchino spunti interessanti e una certa maggiore dignità.

Cominciamo dalla questione, davvero centrale, del rapporto tra pubblico e privato. La proposta Mantini afferma che “il governo del territorio è ispirato al rispetto degli interessi pubblici primari indicati dalla legge e al perseguimento dell'interesse pubblico concreto individuato attraverso il metodo del confronto comparato tra interessi pubblici e privati” (art. 5, c. 2). Leggiamo la relazione per comprendere meglio. A proposito del “confronto comparato tra interessi pubblici e privati” vi si afferma: “Si evidenziano, in tal modo, la natura inevitabilmente pubblicistica della funzione e, nel contempo, la flessibilità e l'articolazione dei mezzi e degli strumenti (urbanistica negoziale, programmazione partecipata, società di trasformazione urbana, eccetera) superando gli anacronistici caratteri di unilateralità e di autoritativa tipici degli atti urbanistici tradizionali”. Il punto è che gli strumenti cui si riferisce (urbanistica negoziale, programmazione partecipata) sono i veicoli attraverso i quali non interviene nelle scelte un generico “ ;privato” (cittadina o cittadino, associazione o comitato portatore di interessi diffusi), e neppure un generico “privato economico” (operatori finalizzati alla realizzazione di impianti produttivi di merci o di servizi), ma quello specifico “privato economico parassitario” che, in Italia, è l’unico storicamente presente nelle “ negoziazioni” e “partecipazioni” in materia di trasformazioni urbane e territoriali. Possibile che non sappiano questo, l’on. Mantini e i suoi colleghi co-firmatari della proposta di legge? Evidentemente non lo sanno, dato che insistono su questa linea.

Nell’articolo che si riferisce alla “partecipazione al procedimento di pianificazione” la proposta Mantini distingue due categorie di soggetti: le “associazioni economiche e sociali” da una parte, e dall’altra parte i “cittadini” e le “associazioni costituite per la tutela di interessi diffusi”. Ma mentre per le prime si prevede “il coinvolgimento […] in merito agli obiettivi strategici e di sviluppo da perseguire”, per le seconde ci si limita ad assicurare “le forme di pubblicità e di partecipazione […] in ordine ai contenuti degli strumenti” di pianificazione(art. 7, c. 1). Due pesi e due misure, insomma. La Confedilizia, ad esempio, sarà “coinvolta” nella definizione delle scelte strategiche sullo sviluppo, la povera Legambiente, invece, sarà informata dei “contenuti” del piano.

Ma non basta. Per garantire ulteriormente gli interessi economici tradizionali, si propone di prescrivere che “nell'ambito della formazione degli strumenti che incidono direttamente su situazioni giuridiche soggettive deve essere garantita la partecipazione dei soggetti interessati al procedimento, attraverso la più ampia pubblicità degli atti e dei documenti comunque concernenti la pianificazione, assicurando il tempestivo e adeguato esame delle osservazioni dei soggetti intervenuti e l'indicazione delle motivazioni in merito all'accoglimento o meno delle stesse”.

Chi sono i soggetti sulla cui “situazione giuridica soggettiva” il piano può incidere? I giuristi rispondono: i proprietari immobiliari. Per questi è definita, ope lex Mantini et alii, una corsia privilegiata. I loro interessi non sono tutelati solo, come oggi spesso avviene, dall’assessore compiacente o dal funzionario infedele, ma dalla stessa legge!

Un interessante risvolto è costruito dall’articolo che si riferisce agli “accordi con i privati”. Si afferma che “gli enti locali possono concludere accordi con i soggetti privati, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell'atto amministrativo e attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi, al fine di recepire negli atti di pianificazione proposte di interventi, in attuazione coerente degli obiettivi strategici contenuti negli atti di pianificazione e delle dotazioni minime di cui all'articolo 9, la cui localizzazione è di competenza pubblica” (art. 8, c. 1).

Questo dovrebbe significare che i proprietari immobiliari (ciascuno dei quali non è certo in condizioni di concorrenza, poiché è proprietario di un unico bene, ben individuato e definito) sono esclusi dagli “accordi”. Eccezione rispetto a una linea compiacente con gli interessi immobiliari? Errore?

Anche la proposta Mantini separa nettamente il governo delle trasformazioni da quello delle tutele. Si comincia dall’esercizio delle funzioni statali: precisamente, dal contenuto delle decisioni territoriali dello Stato attraverso “l’identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale” (DPR 616/1977).

Queste riguardano unicamente la “articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, dei principali interventi ambientali e di trasformazione mineraria” nonché la “promozione di programmi innovativi in ambito urbano che implicano un intervento coordinato da parte di diverse amministrazioni dello Stato e sono dichiarati di interesse nazionale” (art. 2, c. 1).

Del tutto “separate”, fin dal titolo dell’ articolo 3 che le concerne, le tutele. “Le competenze degli enti parco, delle autorità di bacino, delle sovrintendenze com petenti per i beni storico-artistici e ambientali nonché dei soggetti titolari di interessi pubblici incidenti nel governo del territorio sono definite dalla legislazione statale e regionale ed esercitate in raccordo con gli atti di pianificazione di cui alla presente legge, con l'obiettivo di coordinare, attraverso sedi di co-decisione e intese procedimentali, le tutele settoriali con gli atti di pianificazione urbanistica e territoriale”. Separate, e ovviamente “raccordate”: il che significa nulla (art. 3, c. 1).

Sviluppo da una parte, insomma, tutele dall’altro. Questa separazione è la negazione della pianificazione; è il contrario della sintesi necessaria per trasformare tenendo conto dell’insieme delle esigenze; è una delle cause dell’inefficacia delle scelte, paralizzate dai veti che nascono quando, ad esempio, un traforo per un’infrastruttura o il tracciato di un’altra minacciano una risorsa idrica o una foresta preziosa o un rilevante paesaggio rurale. I conflitti che nascono a posteriori sono evitabili unicamente da quella negoziazione a priori tra gli interessi collettivi in cui risiede la pianificazione territoriale (e la politica).

L’on. Mantini e i suoi colleghi si sono resi conto del problema, e hanno tentato di risolverlo in un successivo articolo; ma non ci sono riusciti. A proposito di “concertazione istituzionale” propongono infatti di stabilire che “ gli atti di pianificazione sono approvati da parte dell'ente competente previa certificazione e verifica di compatibilità con il sistema dei vincoli di natura ambientale e paesaggistica” (art. 6, c. 2). Come avviene però la verifica di compatibilità? “Le verifiche di compatibilità e di coerenza, ove comportino conflitto di previsioni, sono svolte attraverso una apposita conferenza di pianificazione, con la partecipazione degli enti pubblici competenti e dei soggetti concessionari dei servizi pubblici interessati”. Bene. Allora, se il titolare di un interesse ambientale e paesaggistico vuole opporsi a una decisione in contrasto con il bene protetto può farlo? No. Il medesimo comma prosegue e stabilisce che “le decisioni relative al mutamento degli assetti vigenti sono assunte, in difetto di unanimità, a maggioranza dei soggetti partecipanti” (art. 6, c. 3).

Una novità interessante che la proposta Mantini vuole introdurre riguarda le zone agricole. Mantini e i suoi co-firmatari propongono di prescrivere che “il territorio non urbanizzato è edificabile solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente” (art. 8, c. 1). Affermazione giustissima, ma timida. Le opere e le infrastrutture pubbliche sono tra le trasformazioni che più, e spesso più inutilmente, hanno devastato i paesaggi naturali e rurali nel nostro paese (non così in moltissime altre regioni d’Europa). Tra i “servizi per l’agriturismo” legislatori regionali distratti o compiacenti potrebbero includere tutto, e molto potrebbero lasciar passare tra “servizi all’agricoltura” accompagnati da leggi derogatorie sulle conversioni d’uso (quanti magazzi ni e depositi agricoli sono stati legittimamente convertiti in discoteche?). Forse è arrivato il momento di prescrivere che il paesaggio rurale deve avere lo stesso livello di protezione che, negli anni Sessanta, cultura e opinione pubblica riconobbero necessari per i centri storici.

Per concludere. Nonostante le indubbie differenze (tra queste merita d’ essere segnalata l’impostazione corretta che la proposta Mantini formula per la perequazione e le compensazioni), tra le due proposte si colgono numerosi elementi di omogeneità culturale, riconducibili in parte alle posizioni dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, in parte alla nevrosi federalista che da tempo colpisce la maggioranza del Parlamento italiano. Stupisce che nessuna delle formazioni politiche della sinistra (né il DS, né Rifondazione comunista, né i Comunisti italiani, né i Verdi) abbiano, se non anticipato, almeno reagito con una proposta alternativa.

La pianificazione d’area vasta, nel nostro paese, non nasce nel 1990. Non nasce con la legge 142, “Nuove norme sull’ordinamento degli enti locali”. Nasce molto prima, sia come esperienze concrete sia come esigenza, dibattito, sperimentazione e ricerca di soluzioni giuste: soluzioni, cioè, culturalmente fondate, amministrativamente valide, politicamente praticabili. Se si vuole comprendere lo stato attuale della pianificazione d’area vasta, i suoi problemi, le sue difficoltà e i suoi successi, è della sua storia che occorre avere consapevolezza.

Lo strano decennio

Della pianificazione d’area vasta si cominciò a parlare e a discutere, e a lavorare, in quello strano decennio del XX secolo (grosso modo dalla fine degli anni Venti all’inizio dei Quaranta) che separa tra loro la grande crisi esplosa a Wall Street e la Seconda guerra mondiale. E si cominciò a farlo non solo negli USA e in Gran Bretagna, ma anche in Italia.

Tra le esperienze italiane vorrei ricordare la bonifica delle Paludi pontine e la conseguente realizzazione di città e paesi, di canali, strade e ferrovie, di zone industriali e di parchi. Tra gli istituti amministrativamente validi (quegli istituti giuridicamente fondati che quasi sempre seguono le esperienze pratiche e tentano di generalizzarne gli esiti) vorrei ricordare due delle figure pianificatorie introdotte dalla legge 1150 del 1942: il piano intercomunale in primo luogo, che avrebbe dovuto consentire di governare le trasformazioni territoriali nelle aree più dense, e il piano territoriale di coordinamento, che avrebbe dovuto consentire il governo delle realtà più ampie: quelle che dalla dimensione dell’intercomunalità si allargano a quella, appunto della “area vasta”.

Decenni di silenzio

Perché per mezzo secolo la pianificazione d’area vasta non è stata praticata se non eccezionalmente? Le ragioni di fondo sono ormai acquisite alla storiografia urbanistica. Concluso, nel 1945, il periodo bellico, la necessità di ricostruire le infrastrutture, il patrimonio edilizio e gli apparati produttivi (questi ultimi, fortunatamente, in gran parte salvati dagli operai) non si utilizzò – come invece fecero altri paesi europei – il metodo e gli strumenti della pianificazione: si abbandonò invece quest’ultima, abbandonando la ricostruzione, e il successivo sviluppo, alla logica del più brutale spontaneismo.

E quando lo sviluppo di forze produttive moderne fece riemergere l’esigenza della razionalità dell’assetto urbano, l’unica pianificazione che venne rilanciata fu quella a livello locale. Del resto, l’unico adeguamento legislativo che era stato compiuto (oltre all’introduzione di provvedimenti che consentissero di derogare alla pianificazione) era stata la sostituzione dei termini del lessico fascista (Podestà, Camera dei fasci e delle Corporazioni, Casa del Fascio ecc.) con quelli del lessico democratico (Sindaco, Parlamento, servizi pubblici ecc.)

Alcuni generosi tentativi compiuti negli anni Cinquanta (il piano del canavese promosso da Adriano Olivetti, quello piemontese del gruppo coordinato da Giovanni Astengo, il manuale per la pianificazione regionale commissionato dal Ministero dei Llpp ad Astengo) restano isolati episodi. È solo nel corso degli anni Settanta che si tenta di riprendere, in modo generalizzato, la sperimentazione di una dimensione d’area vasta nella pianificazione.

Si ricomincia

Molte sono le soluzioni tentate. Superate le resistenze dei partiti di centro (e in particolare della DC), timorosi di un “potere rosso” nell’area centrale della Penisola, si sono finalmente istituite le regioni (istituto cui gli urbanisti hanno sempre dato notevole rilievo): è da esse che finalmente verrà, si spera, un quadro certo e razionale sull’assetto del territorio, una disciplina che darà coerenza d’insieme alle politiche urbanistiche e a quelle, infrastrutturali e localizzative, che spettano allo Stato: alcune regioni lavorano e producono i primi piani urbanistici regionali, o piani territoriali di coordinamento, o piani territoriali regionali (Governo e Parlamento si guardano bene dal coordinare alcunché), altre lavorano male, o non lavorano affatto: amministrano il giorno per giorno, distribuiscono a pioggia le risorse di cui dispongono.

Ci si rende conto subito che il livello regionale della pianificazione d’area vasta non è sufficiente: troppo ampia è la forbice tra le decisioni che la Regione può governare con efficacia, e quelle proprie del livello comunale. Occorre un “livello intermedio” della pianificazione. Si sperimentano varie strade: quelle che fu tentata più a lungo, è quella dei “comprensori”: enti elettivi di secondo grado (i membri dei consigli comprensoriali vengono eletti dai consiglieri comunali), oppure emanazione delle regioni, oppure – nei casi istituzionalmente più perversi – costituiti a mezzadria tra regione e comuni. Leggi regionali (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto), a volte coraggiose, precisano caratteristiche, poteri, competenze dei comprensori. Ma l’esperienza dura pochi anni. Né più a lungo dura quella del “comprensorio speciale” previsto dalla legge per Venezia.

Il fallimento dei comprensorie la nascita della pianificazione provinciale

Perché il fallimento? Una ragione sostanziale fu individuata nel fatto che i comprensori non avevano poteri propri. I soggetti che componevano gli rogani decisionali non erano investiti direttamente dall’elettorato, ma rappresentavano in primo luogo il comune, o la regione, che li aveva eletti come “suoi” rappresentanti nei governi comprensoriali. Poiché gli interessi dei diversi livelli possono essere, e spesso sono, in contraddizione tra loro (con buona pace dei fautori della concertazione ad ogni costo), i contrasti interni provocavano la paralisi di ogni decisione. Fu negli anni Settanta che emerse la posizione più ragionevole: a ogni livello di pianificazione deve corrispondere un livello di governo autorevole, e perciò eletto direttamente dai cittadini.

Fu così che matura, negli anni successivi, la proposta di attribuire potere di pianificazione del “livello intermedio” alle province. Nate sulla scia dell’ordinamento statuale napoleonico come emanazione dei poteri del governo nazionale, trasformate in organi elettivi e articolazioni dell’ordinamento repubblicano con la Costituzione del 1948, le province avevano però poteri debolissimi: caccia e pesca, assistenza psichiatrica, scuole superiori, strade di livello intermedio, e pochissimo altro. Dopo un lungo dibattito, è nel 1990 che, con la legge 142, si assegna alle province il ruolo e le competenze in merito alla pianificazione d’area vasta.

Poiché in Italia, dal 1948, la competenza in materia urbanistica è attribuita alle regioni, è a questa che la legge 142/1990 ha affidato il compito di definire obiettivi, contenuti, procedure, risorse per la formazione della pianificazione provinciale. Alcune regioni hanno legiferato, altre no. Tra le regioni renitenti è allineata anche la Campania.

La pianificazionenella Provincia di Salerno

Ma la pianificazione del territorio non è un ornamento, né l’adempimento di una prescrizione legislativa: la pianificazione del territorio, in una realtà moderna, è una necessità. Soprattutto là dove vi sono risorse ambientali e culturali ingenti, potenziale fonti di sviluppo ma soggette a rischi di degrado, dove l’organizzazione del territorio pone problemi complessi che i singoli comuni non possono risolvere da soli, dove la contraddizione tra aree a sviluppo intensivo e aree caratterizzate da fragilità economica e sociale minaccia di accentuarsi. Per questa ragione, nelle more di un provvedimento regionale, i reggitori della Provincia di Salerno decidono di partire da soli. Nel 1995 il processo si avvia, con un documento d’indirizzo della Giunta provinciale approvato dall’intero Consiglio.

Il documento definisce la pianificazione come “un processo sistematico e continuo di programmazione e gestione del territorio”, volto a “indirizzare le politiche comunali e coordinarle per creare le condizioni di una migliore organizzazione e assetto del territorio che, partendo dalla tutela e valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, consente di far interagire tra loro le diverse componenti che concorrono allo sviluppo socio-economico sostenibile dell’area”.

L’iter di formazione del Piano territoriale è visto come “un processo unitario nel quale i diversi soggetti intervengono per determinare, nell’ambito delle loro competenze, un unico sistema di scelte”. Ove la collaborazione tra tali soggetti non consentisse, su determinati punti, di giungere “ad una convergenza d’intenti”, si assumeranno comunque le decisioni necessarie “la cui responsabilità ricadrà sull’ente al quale la legge affida competenze superiori”[1].

Tra Stato e comuni

Quest’ultima affermazione tocca un punto di grande rilievo. La pianificazione d’area vasta interviene, nel nostro paese, quando si è già consolidata (dove più, dove meno) una prassi di pianificazione come prerogativa dei comuni, e una prassi di decisioni sul territorio (le grandi infrastrutture, i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, l’approvazione dei piani) affidata allo Stato (e, negli ultimi decenni, in parte alle regioni). È tra questi due livelli, quello statuale (e regionale) e quello comunale, che deve inserirsi la pianificazione d’area vasta provinciale. Essa deve perciò guadagnarsi sul campo i galloni: dimostrarsi utile ai comuni, dimostrarsi efficace e autorevole alla regione e allo stato.

Sul fronte “a monte” la situazione non è certo brillante. Se il Parlamento nazionale ha legiferato sin dal 1990, quello regionale della Campania ha brillato per la sua inerzia. Non solo non esiste una legge urbanistica che attribuisca contenuti, poteri e procedure alla pianificazione provinciale, ma addirittura si è stabilito che alla Provincia è sottratto perfino il potere di approvare i piani comunali della grande maggioranza dei comuni[2]. Vedremo nei prossimi mesi, benché l’alba della nuova Giunta non sembri molto felice[3]

Sul fronte “a valle” la Provincia di Salerno sta conquistando il suo ruolo con una serie di azioni le quali, se a volte corrono il rischio di un eccessivo empirismo, concorrono comunque efficacemente ad affermare il ruolo pratico della Provincia nell’affrontare, e condurre a proposte convincenti e condivise, situazioni territoriali o di settore che i comuni non possono affrontare da soli, e la cui soluzione contribuisce invece a risolvere conflitti nell’uso delle risorse e a migliorare il livello di servizio di ampie zone del territorio provinciale.

Ma dietro queste pratiche si cela una questione più complessa, alla quale la frase citata del documento della Giunta provinciale direttamente si riferisce: Quali sono le “competenze superiori” che la legge affida alla pianificazione provinciale; o meglio, in assenza di una legge chiara, sulla base di quale principio può individuare il discrimine tra competenze provinciali e comunali nella pianificazione?

Il principio di sussidiarietà

Il principio al quale ci si po’ riferire è quello “di sussidiarietà”. Poiché se ne parla spesso a sproposito, vediamolo nella sua interpretazione più autorevole. Esso è stato definito compiutamente nell’articolo 3b degli Accordi di Mastricht (che regolano i rapporti tra l’Unione europea e gli stati membri): “Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.

Sulla base di questo principio, sono allora di competenza della pianificazione provinciale quegli interventi, e quelle azioni, che “a causa della loro scala o dei loro effetti” possono essere compresi e governati meglio al livello territoriale della Provincia che a quello del singolo comune.

È chiaro quindi che “appartengono” alla pianificazione d’area vasta provinciale due grandi campi di decisione. Da un lato, quelli che attengono ai sistemi ambientali: alla tutela e all’uso delle risorse naturali e culturali, al paesaggio, alla tutela del suolo e dell’acqua e agli interventi volti alla prevenzione dei rischi. Dall’altro lato, quelli che riguardano la grande attrezzatura del territorio visto come sistema insediativo: come insieme di infrastrutture, attrezzature, servizi, centri i quali sono funzionali non alla vita di questa o quella unità di vicinato, di questo o quel comune, ma del sistema insediativo provinciale nel suo complesso.

Una interpretazione di “pianificazione”e alcune sue conseguenze

È tenendo conto del contesto e dei criteri indicati nelle righe che precedono che si è operato per giungere alla bozza di Piano territoriale di coordinamento provinciale, che la scheda qui accanto illustra nel suo procedimento di formazione e nella sintesi dei suoi contenuti. Poiché peraltro al termine di “pianificazione territoriale” si danno spesso significati molto diversi,opportuno precisare, nel concludere queste note, l’idea di pianificazione cui si è fatto riferimento nel costruire il PTC salernitano.

Intendo per “pianificazione” un’azione, continua e sistematica, condotta dall’ente elettivo rappresentativo della volontà generale dei cittadini, volta a conferire coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio, in vista di un determinato sistema di obiettivi socialmente condivisi. Ciascuno dei termini che ho adoperato meriterebbe di essere discusso. Dall’analisi di ciascuno di essi si potrebbero trarre indicazioni operative. Alcuni rinviano a questioni ancora aperte: penso all’interesse generale, e penso alla condivisione sociale: due questioni sulle quali una contaminazione della nostra disciplina con le scienze politiche, e della nostra tradizione pianificatoria nazionale con le esperienze e tradizioni europee ed americane potrebbe risultare feconda.

E preferisco parlare di “pianificazione” anziché di “piano” perché ritengo che ciò che serve per governare il territorio non è un documento elaborato una volta per tutte, singolare, magari accattivante come un bell’oggetto (e come tale pubblicato su patinate riviste), e neppure una serie o una congerie di piani, ma una pianificazione: un’attività continua, costante e sistematica, che esprima nel tempo la capacità di governare le “scelte politiche tecnicamente assistite” in cui (come afferma Francesco Indovina) si esprime la pianificazione territoriale e urbana, a tutte le scale e i livelli.

Vorrei concludere sottolineando che puntare alla “pianificazione” anziché al “fare un piano” significa anche assegnare un’importanza particolare alla costituzione di una struttura capace di assistere tecnicamente la politica nel governo del territorio: un Ufficio del piano, adeguatamente attrezzato, efficace, autorevole, e di un apparato tecnico capace di costruire, aggiornare e gestire il crescente patrimonio informativo necessario per un avveduto governo del territorio – un Sistema informativo territoriale. Il difficile percorso della formazione di questi due strumenti è perciò parte costitutiva della costruzione della pianificazione territoriale nella provincia di Salerno.

[1] Il documento di indirizzi individua i principali obiettivi cui la pianificazione territoriale è chiamata a fornire idonee soluzioni. Ci si limita in questa sede a sintetizzare i più rilevanti:

1.il ruolo della questione ambientale, individuato nel porre le risorse ambientali “non come vincolo allo sviluppo ma come parametro implicito di qualificazione”;

2.“valorizzazione del sistema dei beni e delle risorse storiche e paesistiche-ambientali per il loro valore intrinseco e per la loro stessa potenzialità economica”, da considerare come “condizione primaria” per gli altri sistemi;

3.il ruolo della pianificazione territoriale “nella determinazione dei criteri di organizzazione degli insediamenti urbani, la localizzazione dei servizi e delle attrezzature di livello sovracomunale, la funzionalità del sistema della mobilità” deve essere finalizzato al miglioramento della qualità del sistema insediativo;

4.assunzione dell’obbiettivo del superamento della “attuale distinzione tra aree forti e aree marginali”, puntanto sd un “modello insediativo pluricentrico sul territorio che miri a correggere la spontanea aggregazione di funzioni ed insediamenti attorno al capoluogo e ai centri maggiori”;

5.riqualificazione e articolazione dell’offerta turistica basata sull’esaltazione della differenza dei siti e assunzione di nuove strategie per il rafforzamento, la razionalizzazione e la riconversione ecologica delle funzioni industriali, commerciali, turistiche e industriali;

6.soluzione del problema della mobilità attraverso una visione integrata delle diverse reti e modalità, e affrontando anche la questione della localizzazione sul territorio delle funzioni generatrici di domanda di traffico;

7.definizione di norme, indirizzi e direttive per la riqualificazione delle aree già urbanizzate e abitate, aumentandola dotazione di verde e di servizi, stmolando il recupero della permeabilità dei suoli, aumentando il grado di ossigenazione, utilizzando i corsi d’acqua previo disinquinamento e rinaturalizzazione ecc..

[2]Infatti i PRG dei capoluoghi di provincia sono approvati dalla regione, quelli dei comuni compresi nelle Comunità montane da queste ultime.

[3] Si veda in proposito l’articolo di Luigi Scano, su questo stesso numero.

Mentre si apre la nuova legislatura, è forse utile mettere in fila alcuni avvenimenti che si sono susseguiti sul finire di quella consegnata agli archivi. Avvenimenti che non hanno trovato una eco adeguata non solo perché coperti dal clamore della campagna elettorale e degli eventi che l'hanno preceduta e accompagnata (le picconate, le guerre di mafia, gli scandali, le censure), ma anche perché, da qualche tempo, le norma che riguardano il governo della città e del territorio sono sempre più spesso dissimulate nelle pieghe di provvedimenti che riguardano tutt'altra materia.

Da qualche tempo ogni legge, che formalmente riguardi l'edilizia sovvenzionata o il potenziamento delle forze di polizia, la gestione economica del patrimonio pubblico o la proroga di termini amministrativi, introduce qualche nuova rottura nell'ordinamento urbanistico. Così, copertamente ed opacamente,

con buona pace della "trasparenza" di cui tutti predicano l'assoluta indispensabilità, si stanno cambiando radicalmente le regole del gioco e si stanno travolgendo, fuori d'ogni esplicito e dichiarato disegno, il sistema di garanzie e l'equilibrio dei poteri costituzionali.

Sforziamoci allora, correndo il rischio d'esser definiti "dietrologi", di comprendere meglio qual'é il disegno che l'ultima fase della X legislatura ha espresso e che, per qualche segno,

l'XI minaccia di proseguire e consolidare. E partiamo da una legge di cui ci siamo già in queste note occupati, la Botta-Ferrarini: la n.50 del 1992, concernente le "norme per l'edilizia residenziale pubblica".

Programmi integrati d'intervento...

Questa legge introduce, come è noto, un nuovo e ambiguo strumento urbanistico: il "Programma integrato di intervento". Uno strumento di cui non è definito il contenuto tecnico (per esempio, la scala in cui è disegnato, seppure vi siano dei disegni), ma che ha l'efficacia di una concessione edilizia. Uno strumento che innesca operazioni di grande trasformazione urbana (è caratterizzato "da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana"), ma è preferibilmente d'iniziativa privata. Uno strumento che è svincolato alla subordinazione al programma pluriennale d'attuazione, come se fosse una qualsiasi istrutturazione edilizia, e può essere in variante al Prg, ma è ammesso con priorità ai finanziamenti regionali ed è assistito dal contributo dello Stato.

I Programmi integrati d'intervento, se sono in variante al Prg, devono essere approvati dal Consiglio comunale e dalla Regione (ma per quest'ultima vale il silenzio-assenso). Ma se, insieme alla Botta-Ferrarini, leggiamo il decreto concernente "trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali e alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica", scopriamo un risvolto che per taluni e' certamente interessante.

...e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico

Il decreto sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, convertito in legge nelle ultime settimane di vita del Parlamento, dispone che i "programmi di alienazione, gestione e valorizzazione dei beni immobili" che il demanio statale intende dismettere, oppure valorizzare economicamente, sono approvati con una "conferenza a cui partecipano tutti i rappresentanti delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici comunque tenuti ad adottare atti d'intesa, nonché a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta previsti da leggi statali e regionali".

A chi è affidata l'individuazione dei beni in tal modo "suscettibili di gestione economica"? Forse ad un'attenta ricognizione svolta dall'Amministrazione del demanio e dagli enti locali interessati? No: a "consorzi di banche ed altri operatori economici o società, specializzati nel settore". E l'approvazione di siffatti programmi da parte della "conferenza" comporta "variazione anche integrativa agli strumenti urbanistici ed ai piani territoriali": la presenza del Sindaco alla Conferenza decisionista sostituisce l' istruttoria tecnica, il dibattito nel consiglio comunale, i pareri di merito, la decisione della Regione e cosi'via.

Non c'è bisogno della palla di vetro per sapere che i maggiori immobiliaristi stanno preparando programmi e progetti per utilizzare la grande occasione fornita dal "congiunto disposto" dei due provvedimenti cui ci siamo riferiti. E' facile valutare l'appetibilità, ad esempio, di un Programma integrato d'intervento ex lege Botta-Ferrarini applicato alle aree delle ex Caserme di Prati a Roma, o all'Arsenale di Venezia, o alle numerosissime caserme dismesse o dismettibili collocate nelle aree strategiche (non più in termini militari!) delle cento città italiane. Oltre ai vantaggi e agli snellimenti della legge suddetta, gli immobiliaristi promotori di una tale operazione potrebbe beneficiare anche della deroga a ogni previsione degli strumenti di pianificazione, e alla stesse approvazione da parte degli organi consiliari dei comuni.

Intervengono anche le forze di polizia?

Lette nel quadro delineato dai due provvedimenti suddetti, suscita inquietanti perplessità anche un'altra norma che con l'urbanistica sembrerebbe aver poco a che fare: ci riferiamo al decreto, anch'esso convertito in legge al tramonto della X legislatura, recante "disposizioni urgenti per il potenziamento delle forze di polizia". Si tratta di un decreto-legge (n.9 del 1992) che apparentemente finanzia e disciplina interventi di adeguamento e potenziamento delle infrastrutture necessarie per lo svolgimento dei compiti istituzionali della polizia.

La dilagante criminalità rende indubbiamente necessario rafforzare i dispositivi di sicurezza e di vigilanza sul territorio: caserme e casermette, centrali d'ascolto, banche dati protette e così via.

Ma se questo è l'obiettivo che ci si propone di perseguire con urgenza, non si comprende allora perché la legge destini il 30 % del finanziamento a interventi, da operare da parte dei cosiddetti "investitori istituzionali" (enti e società previdenziali, assicurativi ecc.), per l'acquisto di fabbricati e di aree edificabili destinati a essere in un primo momento ceduti in locazione alle forze di polizia, e poi ad essere venduti, presumibilmente al migliore offerente, salvo il diritto di prelazione da parte dell'amministrazione pubblica.

Se si tratta di costruire bunker e caserme, non si comprende l'interesse di eventuali acquirenti. Se invece, come è più probabile, l'intenzione è quella di costruire alloggi, magari in parte destinati alle famiglie dei carabinieri, poliziotti, finanzieri e vigili del fuoco, non si comprende perché i relativi programmi siano svincolati da ogni controllo di comuni e regioni come "opere destinate alla difesa dello Stato". A meno che non si tratti di adoperare anche l'emergenza criminale per agevolare operazioni immobiliaristiche, che con quell'emergenza hanno poco a che fare.

"Picconate" anche le regioni

Non solo per i Programmi integrati d'intervento della Botta-Ferrarini vale, in caso di ritardo della Regione, la regola del silenzio-assenso. Con una norma surrettiziamente introdotta in un provvedimento dall'anodino titolo "Differimento di termini previsti da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti" (decreto legge 1 marzo 1992, n.195) si dà un deciso colpo di piccone alla competenza costituzionale delle regioni in materia urbanistica.

Quella norma prescrive infatti che, se entro 180 giorni (non si sa a partire da quale termine) la regione non ha approvato un piano regolatore generale, questo si intende perentoriamente approvato. Se si pensa che il tempo medio di approvazione di uno strumento urbanistico è di 7 anni nel Lazio ed è divenuto di 180 giorni in Emilia-Romagna (dove la cultura e la prassi della pianificazione sono radicate da decenni, e l'efficienza dell'amministrazione pubblica non è un mito) solo negli ultimissimi anni, ci si rende conto che questa norma, se potrebbe forse produrre effetti negativi modesti nelle regioni più evolute (dove il territorio è già garantito) produrrebbe invece effetti devastanti proprio là dove il territorio, e quindi le prospettive di uno sviluppo civile, sono già più compromessi.

E chi può pensare, del resto, che il piano regolatore di città come Roma o Milano, Torino e Firenze, Palermo o Napoli, Genova o Venezia, possa essere esaminato e valutato in modo ragionevolmente approfondito nel giro di sei mesi? Oppure che non vi sia una esigenza di coerenza nell'assetto territoriale regionale, per cui "non importa" che la verifica regionale avvenga?

Che la cultura urbanistica, che la consapevolezza delle esigenze del territorio e dell'ambiente, siano ospiti poco accetti nella aule del Parlamento, si poteva pensarlo da qualche tempo. Che la Costituzione venga calpestata come se fosse una logora moquette è invece il frutto velenoso degli anni più recenti.

Quando la sinistra rincorre la destra

La trasformazione delle aree strategiche, e la gestione "economica" del patrimonio immobiliare dello Stato, sono sempre più sottratti alla verifica di coerenza complessiva (alla pianificazione territoriale e urbana) e sempre più affidati alle centrali del capitale finanziario. Ma che cosa succede sul versante del patrimonio abitativo pubblico consolidato.

Con la legge 412 del 1991 il governo, e la maggioranza parlamentare, hanno decretato la svendita degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai loro inquilini. Un atto di vera "modernità", e coerente con le fervide dichiarazioni di europeismo!

E' noto infatti che in Italia il patrimonio residenziale pubblico non tocca il 5 % del totale, e rappresenta meno di un quinto del patrimonio in locazione, mentre nel resto dell'Europa (o dovremo dire, più semplicemente, in Europa?) lo stock pubblico supera sempre il 15 % del totale, ed è tra metà e i tre quarti del patrimonio in locazione. E' noto che in Italia la percentuale di case in proprietà è la più alta d'Europa, che il divario tra offerta e domanda di abitazioni in locazione è tale da penalizzare soprattutto le categorie più dinamiche (in primo luogo i giovani). Ed è noto che tutti i lavoratori hanno pagato e continuano a pagare la possibilità, per alcune migliaia di "fortunati", di fruire degli alloggi pubblici.

Nonostante tutto questo, e nonostante le proteste che da ogni parte sono state sollevate contro la smobilitazione del patrimonio residenziale pubblico, governo e maggioranza sono andati avanti: la legge, come si è detto, è stata approvata. Come abbiamo scritto in un editoriale dello scorso numero, "l'im provvida miopia dei governanti e l'opaca distrazione dei legislatori" hanno posto in liquidazione il meglio del secolo della mutua solidarietà sociale.

Ma non è finita qui. Si poteva pensare che la sinistra si preparasse, nel nuovo Parlamento, a dare battaglia perché si facesse marcia indietro rispetto alle tendenze e tentazioni francamente reazionarie che quella legge manifestava. Invece no. Due autorevolissimi esponenti del Pds hanno presentato, nel pieno della campagna elettorale, un disegno di legge che, anziché contrastare la svendita del patrimonio pubblico, tende ad agevolarlo introducendo sconti consistenti a favore degli inquilini. Questi, tanto per fare un esempio, potrebbero pagare un alloggio di 100 mq, in una città di medie dimensioni, 66-98 milioni, invece degli attuali 100-150. E alla fine dei conti, per ogni quattro alloggi venduti se ne potrebbe realizzare uno scarso.

Un bel terno al lotto per quei fortunati che hanno acquistato il biglietto vincente. Una ulteriore beffa per quei lavoratori che continuano a versare i contributi. E una ulteriore, pesante mortificazione per chiunque ritenga che le attuali condizioni della società italiana rendono necessario un rilancio della presenza pubblica nel mercato dell'edilizia residenziale.

Il quadro europeo e i primi passi della ricerca

Verso la “società dell’informazione”

Assumere le conoscenze come la base per uno sviluppo più dinamico e competitivo dell’economia europea: questo l’obiettivo strategico dell’Unione europea per il primo decennio del secolo, stabilito dal Consiglio d’Europa, nel marzo del 2000, a Lisbona. Nei mesi successivi la Commissione europea diramava il «Progetto di direttiva del Consiglio»: un programma pluriennale che traduceva quell’obiettivo in iniziative volte a promuovere lo sviluppo e l’utilizzo dei contenuti digitali europei nelle reti globali e di promozione della diversità linguistica nella società dell’informazione.

Il documento fu considerato un rilevante impegno nella direzione di una strategia volta a ridurre il crescente squilibrio tra l’Europa e gli USA in materia di utilizzazione (culturale ed economica) del patrimonio costituito dalle informazioni a disposizione della pubblica amministrazione, a utilizzare a tal fine la rete internet e gli strumenti delle tecniche digitali, a tutelare e a sviluppare la ricchezza (fortemente a rischio in una fase di globalizzazione) della molteplicità di lingue e di culture. A Lisbona e negli atti successivi il Consiglio europeo ha infatti evidenziato in modo particolare l’importanza dell’ industria dei contenuti, come con singolare metafora si è voluto denominare la messa in rete e la distribuzione del patrimonio di conoscenze. Questa nuova industria, si è detto, può determinare una crescita del valore aggiunto mettendo a frutto la diversità culturale europea e veicolandola in rete: rendendola cioè disponibile a tutti i potenziali utilizzatori. La Commissione europea, per raggiungere gli obiettivi indicati, proponeva in particolare un’azione in tre settori ritenuti decisivi; di questi i primi due sono orientati al favorire lo sfruttamento delle informazioni del settore pubblico e a migliorare l’adattamento dei contenuti alle specificità linguistiche e culturali.

Il Governo italiano di quegli anni applicava tempestivamente le direttive elaborate a livello europeo e attraverso il Piano d’azione per la società dell’informazione, presentato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nel giugno 2000, definiva il quadro generale delle azioni da intraprendere per sviluppare l’impiego delle tecnologie digitali nella formazione e nella valorizzazione del patrimonio di conoscenze della pubblica amministrazione. In quegli stessi mesi stava per concludersi la ricerca per la Costruzione di una Rete Informativa per la Documentazione in Architettura, Urbanistica e Pianificazione (CriDaup), cofinanziata dal Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST) e dagli atenei di Milano Politecnico, Roma La Sapienza, Torino Politecnico e Venezia IUAV, cui questo fascicolo è dedicato.

L’ispirazione che ha mosso questa ricerca, che ha aggregato attorno a un comune obiettivo ricercatori di numerosi enti universitari e non universitari, è in particolare sintonia con quella che stimolava i governanti europei all’alba del millennio. Possediamo (nell’insieme dell’universo europeo e, nel nostro piccolo, negli archivi degli enti locali e nelle biblioteche delle università) un grande patrimonio di informazioni. Esso può essere utile a tutti: agli amministratori pubblici e ai cittadini, alle imprese e agli investitori. Per tradurre la potenzialità in effettualità occorre però tradurre gli elementi di quel patrimonio in oggetti suscettibili di essere comunicati, compresi, condivisi, e occorre costruire la rete (logica, lessicale, materiale) che consenta di disporne ovunque. La disponibilità delle nuove tecnologie è enorme, e consente oggi di raggiugere risutati fino a ieri neppure ipotizzabili. Occorre allora incrociare i saperi e le conoscenze per costruire i sistemi suscettibili di raggiungere l’obiettivo, in ciascuno dei campi in cui si articolano il patrimonio conoscitivo e le azioni nella società.

Nei paragrafi successivi mi propongo di delineare il percorso e i risultati della ricerca CriDaup, a partire dal più remoto antefatto.

Un inizio: Ark_Amb parte per la tangente

Giovambattista Vico diceva che “natura di cose altro non è che nascimento di esse”. In altre parole, il divenire di un evento è già scritto nel suo inizio. Molto spesso è vero; nel caso di CriDaup non è stato così.

Nel 1995 avevo chiesto, e ottenuto, un piccolo finanziamento dal Dipartimento di urbanistica dell’IUAV per un ricerca finalizzata a verificare in che modo alcuni piani urbanistici e territoriali recenti si facessero carico dell’esigenza di tutelare le risorse ambientali; il titolo era “Metodi, strumenti e procedure per una pianificazione territoriale e urbanistica ambientalmente orientata”. Con alcuni giovani ricercatori (Laura Fregolent, Mauro Baioni) cominciammo a cercare i piani da analizzare. Per partire, tentammo di individuare un luogo nel quale vi fosse, a proposito degli atti di pianificazione, se non un organizzato archivio, almeno qualcosa di simile a ciò che per gli ordinari testi cartacei è uno schedario bibliografico. Non lo trovammo. Senza sorprenderci troppo, per il vero: sapevamo che nel nostro campo, guidato dall’empiria e dall’improvvisazione, la tradizione del rigore archivistico e classificatorio è ancora debole.

Ma non trovammo neppure un modello di scheda utile a descrivere sinteticamente questi oggetti, complessi ma non incommensurabili, che sono i piani. Ci domandammo allora se aveva senso avviare una di quelle numerose ricerche che si concludono in se stesse, producendo - al più – un saggio o un volume, da depositare in uno scaffale e citare nei curriculum vitae. Ci proponemmo invece di indirizzare i nostri sforzi a produrre una scheda di sintesi degli atti di pianificazione, che fosse condivisibile da tutti gli interessati.

Il lavoro si rivelò molto più complesso del previsto. A parte le difficoltà derivanti dalla complessità e varietà degli atti e delle loro mutevoli denominazioni, c’erano quelle conseguenti alla necessità di inserire nella “scheda” elementi grafici non semplicissimi. Per documentare un piano, è infatti indispensabile illustrare il modo in cui le regole (in cui il piano, in ultima analisi, consiste) si riferiscono al territorio (cioè alla realtà che il piano vuole contribuire a governare): quindi, è necessario inserire campioni fedeli almeno delle tavole con valore normativo, nonché le relative legende.

D’altra parte, benché la nostra schedatura si proponesse il massimo di oggettività (appunto per poter essere utilizzata da una molteplicità di ricercatori), ci sembrava utile aprire le schede alla possibilità di confronti e opinioni diverse, magari in colloquio diretto tra loro. La scheda, perciò, doveva consentire di essere gestita dinamicamente, almeno in alcune sue parti, per ospitare discussioni, recensioni, collegamenti e inserimenti.

Insomma, partimmo per la tangente. L’impegno a elaborare la scheda ci distrasse dalla ricerca sulla “pianificazione ambientalmente orientata”. Fummo aiutati dall’esperienza e dalla collaborazione di ricercatori che avevano dato vita ad eccellenti strumenti e metodi di documentazione all’IUAV (Pierre Piccotti, dei Servizi Bibliotecari e Documentali, e Anna Tonicello, che dirigeva l’Archivio Progetti), producendo brevetti per l’informazione documentale che cominciavano ad avere successo in Italia e all’estero. Arrivammo a un primo prodotto, la scheda Ark_Amb, che ci sembrò una tappa importante.

[La scheda Ark_Amb è illustrata in appendice]

Incontri, e un primo tentativo di coordinamento: CAPUeT

Un seminario di presentazione delle intenzioni e dei primi risultati della ricerca (Venezia, 25-27 maggio 1996) ci mise in contatto con ricercatori che s’erano già posti, o si stavano ponendo, problemi analoghi ai nostri: Fabrizio Bottini, Giulio Ernesti, Chiara Mazzoleni, che lavoravano alla Rete degli Archivi di Piani Urbanistici (RAPU), promossa dalla Triennale di Milano, che avevano elaborato e cominciato a utilizzare una scheda per l’archiviazione dei piani urbanistici “storici”; Piero Cavalcoli, che stava avviando la formazione dell’Osservazione dei Piani d’Area Vasta (OPAV) dell’INU; Laura Anselmi, che aveva organizzato i servizi di documentazione architettonica e urbanistica del Politecnico di Milano; Marisa Scarso, che dirigeva il Centro Interdipartimentale di Ricerca Cartografia ed Elaborazione dell’IUAV (CIRCE). L’analogia dei problemi e degli interessi ci spinse a promuovere un primo tentativo, volontario, di coordinamento; gli attribuimmo l’acrostico CAPUeT (Coordinamento degli Archivi di Piani Urbanistici e Territoriali).

Gli obiettivi e i punti fermi del lavoro di CAPUeT, furono definiti a un incontro presso la Provincia di Bologna (11 novembre 1997). Essi erano i seguenti:

1) gli oggetti da catalogare, individuati nei “piani” di qualunque scala, tipo o località, intendendo per “piano” (o, meglio, per “atto di pianificazione”, uno strumento normativo riferito a una determinata area geografica”;

2) gli standard per la definizione delle fonti delle informazioni, l’organizzazione delle informazioni in un comune catalogo e la definizione univoca dei concetti di base;

3) la struttura del catalogo, in riferimento alla definizione della struttura multilivello e al sistema di collegamenti agli authority files e, dove possibile, ai Thesauri (geografico, tematico)

4) la comune piattaforma informatica, cioè l’impiego dello stesso interfaccia utente, e l’omogeneità delle strategie di ricerca dei dati e i formati di output, per consentire l’interrogazione simultanea degli archivi.

A partire dalla scheda Ark_Amb, il lavoro di CAPUeT consentì di mettere a punto, soprattutto per quanto riguarda gli standard di comunicazione e condivisione individuati negli obiettivi, tre tipi di file di catalogazione (schede), concernenti tre tipi di documenti differenti ma tra loro connessi:

1) atti di pianificazione (piani regolatori generali comunali, piani territoriale di coordinamento, altri piani di livello comunale e regionale, piani attuativi ecc.);

2) altri atti normativi (leggi, regolamenti ecc.);

3) atti non normativi ( libri, saggi, articoli e altri testi).

[La scheda CAPUeT è illustrata in appendice].

CriDaup: Quattro università per costruireuna rete informativa

Il coordinamento volontario tra strutture dell'IUAV, dei Politecnici di Milano e Torino, la Triennale di Milano e l'Osservatorio d'area vasta dell'INU aveva fatto fare alcuni passi avanti nella ricerca di possibilità e strumenti per "mettere in rete" l'informazione urbanistica. Poiché il volontarismo non porta molto lontano, si cercò di dare maggiore struttura e continuità alla collaborazione presentando un progetto di ricerca al MURST, in occasione dell'attribuzione, nel 1998, di finanziamenti alle università per gli anni 1999 e 2000.

Il progetto di ricerca fu presentato dall'IUAV, dai Politecnici di Milano e Torino, e dall'Università degli studi La Sapienza di Roma. Esso fu accettato e approvato come ricerca d'interesse nazionale, sebbene con qualche decurtazione del finanziamento rispetto al preventivo formulato. Fu costituito l’acrostico CriDaup, che sintetizza l’obiettivo della ricerca:Costruzione di una Rete Informativa per la Documentazione in materia di Architettura, Urbanistica, Pianificazione.

Obiettivi e fasi del progetto di ricerca

Secondo il programma approvato dal MURST la ricerca CriDaup si poneva l’obiettivo di costruire un sistema di connessioni scientifiche, logiche e informative riguardanti la ricerca e la documentazione in materia di architettura, urbanistica, pianificazione, capaci di collegare in rete le molte attività già esistenti, all’interno delle sedi universitarie, individuando le carenze e i modi per riempirle. In termini più specifici, il lavoro di ricerca si proponeva di individuare i vuoti informativi esistenti ed elaborare un modello di integrazione delle informazioni aggiuntive alla struttura documentaria già costituita.

Ricollegandosi al lavoro di CAPUeT, si dovevano innanzitutto definire i criteri comuni di catalogazione di piani urbanistici, atti di pianificazione e progetti, tra tutte le iniziative, promotrici e aderenti, individuando come standard generale di riferimento lo International Standard of Bibliographical Description (Isbd).

Ognuno degli archivi coinvolti nel progetto doveva costruire il proprio filone specifico di ricerca, il cui prodotto doveva essere poi condiviso, all’interno del progetto complessivo. A questo proposito, si voleva procede alla costruzione dell’inventario degli archivi, realizzati o in corso di formazione in Italia (e tendenzialmente all’estero), relativi alla storia, progettazione e gestione del territorio, della città, delle costruzioni, e delle relative caratteristiche, restituendo la mappa delle diverse sedi operanti su temi analoghi, e che potessero in futuro interagire con il prodotto di ricerca.

La seconda fase del lavoro era diretta all’elaborazione e costruzione della struttura di catalogo, principalmente per quanto riguarda la definizione del sistema di legami con gli Authority File di supporto e dei Thesauri (geografici, tematici, ecc.); operazioni necessarie per dare forma e operatività alla struttura. L’obiettivo di giungere a un sistema condiviso e comune a più strutture, rendeva necessaria l’utilizzazione del medesimo Opac (software di gestione dell’interfaccia con l’utente), per rendere omogenei strategie di ricerca e formati di uscita dei dati e per rendere possibile l’interrogazione simultanea delle basi di dati delle unità di ricerca e degli eventuali centri aderenti alla rete, indipendentemente dai software di catalogazione e di gestione adottati da ciascun centro.

Tema importante sul quale la ricerca intendeva soffermarsi era lo studio di criteri, metodi e modelli per l’unificazione dei formati e dei lessici, da impiegarsi nella costruzione degli archivi, e indispensabili per la loro utilizzazione. L’utente, aiutato dalla definizione dei criteri comuni di catalogazione, e dalle possibilità e potenzialità fornite dalla comparazione dei lessici, avrebbe potuto accedere ai materiali raccolti e schedati dai diversi archivi, anche in forma comparata.

Una volta completate le diverse fasi sopra descritte, si doveva passare alla sperimentazione dell’interfaccia finale di ricerca per l’utente, in grado di restituire le informazioni e i documenti nella complessità dei legami logici presenti nei diversi fondi documentali censiti, e di consentire una visualizzazione integrata fra informazioni e immagini del documento. Gli esiti di quest’ultima fase di lavoro, hanno consentito di verificare e correggere il modello di catalogazione comune.

Dal punto di vista dell’utente, ci si poneva l’obiettivo di offrirgli un accesso a fonti e dati appartenenti a archivi diversi, selezionati e relazionati con i criteri e i metodi sopra descritti ma anche la possibilità di consultare tali documenti nella lettura data dalle singole unità. Sarebbe così divenuto possibile mettere in relazione i dati raccolti, schedati, e archiviati, potenzialmente utili alle diverse esperienze di ricerca.

Le strutture coinvolte

Nella programma CriDaup erano ufficialmente coinvolte, e hanno partecipato, sette unità di ricerca afferenti a quattro diversi atenei. Per lo IUAV, il Centro Interdipartimentale Archivio Progetti (AP), il Centro Interdipartimentale di Ricerca, Cartografia ed Elaborazione (CIRCE), il Dipartimento di Urbanistica (DP) rappresentato dalla struttura ormai consolidata dell’Archivio Piani Urbanistici e dalla ricerca dipartimentale Archivio Ambiente, l’Area Servizi Bibliografici e Documentali; per l’Università La Sapienza di Roma, il progetto Archivi multimediali per la progettazione, gestione e monitoraggio dei piani; per il Politecnico di Milano, il Sistema Informativo Bibliotecario, il Centro Documentazione di Architettura; per il Politecnico di Torino, il Sistema Informativo Architettura Contemporanea Torinese.

Le unità di ricerca (che costituiscono i partner ufficiali del programma cofinanziato), tenendo conto delle specifiche situazioni di ogni ateneo, si sono a loro volta articolate in “unità operative”: queste sono state le effettive strutture nelle quali si è espresso il lavoro proprio di ciascuna sede.

Oltre alle unità di ricerca e alle unità operative, costituite ciascuna da una struttura di ricerca o di documentazione dei quattro atenei coinvolti, sono state impegnate sugli stessi temi altre strutture esterne, con le quali esistevano già rapporti di collaborazione, che sono: l’associazione Archinet, socio italiano dell’associazione europea Urbandata, il Coordinamento Archivi Piani Urbanistici e Territoriali (Capuet), l’Osservatorio Piani Area Vasta dell’Inu - Provincia di Bologna e la società Nexus di Firenze.

Lo svolgimento della ricerca

I materiali contenuti in questo fascicolo illustrano i risultati della ricerca CriDaup da diversi angoli visuali, e la raccontano in numerosi dei suoi aspetti. Un bilancio complessivo deve perciò essere costruito tenendo conto dell’insieme dei fili che la costituiscono, nonché degli interessi del lettore: esso sarà formulato da ciascuno al termine della sua personale lettura dei materiali. Qui si vogliono avanzare solo alcune considerazioni che riguardano l’insieme della ricerca, e possono forse aiutare a coglierne le diverse facce, e a comprenderne la sostanziale unitarietà.

Uno sterminato arcipelago

Fin dall’avvio della ricerca è apparso evidente che il vero nodo non è tanto l’assenza di archivi o il loro “riempimento” con informazioni e dati utili e aggiornati, quanto piuttosto la dispersione delle informazioni, la loro frammentarietà, la difficoltà di reperimento. Uno sterminato arcipelago di informazioni, privo di un sistema di riferimento geografico che consentisse di valutare le reciproche posizioni, e senza un alfabeto comune che consentisse di nominarne ciascuna in modo equivoco.

Di conseguenza, il tema e l’obiettivo centrale della ricerca sono stati costituiti dalla costruzione di un set di criteri e strumenti standard per la condivisione dei dati e la loro connessione. Ciò rendeva, allora, necessario offrire soluzioni all’assenza di omogeneità dei criteri di interrogazione, e quindi all’accesso al complesso di informazioni contenute in numerosi archivi specializzati, in un momento in cui si riflette – e non solo tra utenti dotati di particolare expertise e know-how – sui caratteri di “democratizzazione” del patrimonio culturale in rete, di “condivisione” del patrimonio di conoscenze, di avvio (in Europa) della “industria dei contenuti”.

Queste premesse, e i conseguenti obiettivi, sono stati condivisi da tutte le strutture afferentio al progetto. Esse infatti, proprio perché quasi tutte dotate di un proprio archivio informativo o in fase di costruzione, erano ben consapevoli dei limiti dei sistemi di archiviazione, tra i quali l’autoreferenzialità.

La necessità di aprirsi al confronto verso l’esterno è anche all’origine di un vincolo che i partecipanti alla ricerca hanno voluto porsi nella progettazione: quello cioè di porre in essere le condizioni perché il sistema potesse in futuro essere condiviso anche da altri soggetti che trovano nel prodotti elaborato lo strumento adeguato alle proprie esigenze: di reperimento di informazioni, di catalogazione e archiviazione ma anche (ed è l’aspetto di “democratizzazione” più importante) di diffusione e pubblicizzazione delle informazioni raccolte ed elaborate.

Sei gruppi di lavoro per sette unità di ricerca

La costruzione di un sistema aperto, flessibile, condivisibile ha indotto a definire una particolare organizzazione. Individuati i temi specifici della ricerca, corrispondenti all’articolazione del suo obiettivo, si sono costituiti altrettanti gruppi di lavoro, trasversali rispetto alle unità di ricerca. In questo modo, non solo si è favorita una maggiore integrazione delle diverse unità operative, ma si è soprattutto consentito che alcuni temi di ricerca più rilevanti potessero maturare parallelamente alle specifiche attività previste dalle singole unità di ricerca e unità operative, con cui i diversi gruppi di lavoro potessero confrontarsi sui risultati parziali ottenuti, e quindi procedere sempre in sintonia con gli altri gruppi ed in coerenza con i principali obiettivi della ricerca, e perché, inoltre, i risultati acquisissero carattere più operativo nella definizione degli strumenti necessari alla costruzione della “rete”.

I temi (articolazioni dell’obiettivo generale) in relazione ai quali sono stati costituiti i gruppi di lavoro sono stati:

1) lo standard di catalogazione dei materiali;

2) la formazione di un elenco di enti, istituti, università, centri di ricerca, che si sono occupati e si occupano di archiviazione di materiali di architettura, cartografia e urbanistica;

3) la formazione di un glossario di termini di urbanistica, architettura e cartografia, finalizzato allo spoglio dei piani e degli altri documenti;

4) la progettazione del sistema informativo comune alle unità di ricerca;

5) la definizione dei criteri di costruzione del thesaurus geografico;

6) la definizione dei criteri di costruzione degli authority file.

I gruppi di lavoro così articolati, hanno elaborato altrettanti prodotti, che sono serviti a costruire e strutturare il prodotto finale cioè il metadatabase, che attraverso la maschera di interrogazione, comune a tutte le unità di ricerca, mette in relazione i diversi archivi informatizzati e consente una ricerca incrociata dei diversi materiali schedati e catalogati.

I prodotti dei gruppi di lavoro

In questo paragrafo descriveremo in termini molto sintetici i risultati e i prodotti dei gruppi di lavoro, più ampiamente illustrati nei diversi saggi e note contenuti nella Parte Seconda di questo fascicolo.

Il “coordinamento” come elemento che valorizza le specificità

Il gruppo dello Standard, coordinato da Marisa Scarso, è partito dalle considerazioni e dalle elaborazioni prodotte dal gruppo di coordinamento volontario (CAPUeT) costituitosi prima della presentazione del progetto di ricerca al Murst. Nel gruppo standard sono state analizzate le procedure operative generali, gli standard descrittivi e le loro modalità di applicazione nelle agenzie catalografiche rappresentate nel gruppo di lavoro, per arrivare a definire uno standard comune. Questo è stato individuato nei seguenti campi: titolo, responsabilità, data, luogo. Va precisato che ogni agenzia catalografica segue proprie regole per il recupero delle informazioni, richieste dal tipo di materiale che raccoglie e cataloga. La differenziazione delle metodologie di utilizzo dei campi comuni non è però un elemento di ostacolo al coordinamento dei sistemi informativi, anzi offre utili indicazioni alla sua messa a punto; essa dipende infatti dalla diversità degli “oggetti” raccolti e descritti (materiale edito, bibliografico o cartografico, documenti in genere, disegni, lettere, plastici, edifici, piani urbanistici).

La ragione del coordinamento dei diversi sistemi informativi dovrebbe essere da un lato quella di dare all’utente la possibilità di recuperare, con un’unica ricerca, «tutto l’esistente» su un determinato argomento o oggetto, dall’altro quella di mettere in relazione i diversi sistemi, consentendo percorsi di ricerca ordinati e sistematici da un percorso principale, verso altri sistemi coordinati. Data la specificità dei singoli sistemi informativi, e le specificità di raccolta dei materiali selezionati (alcune unità di ricerca raccolgono solo cartografia, altre solo atti di pianificazione, altre principalmente progetti di architettura), non ha molto senso pensare a un unico sistema che li riunisca tutti in un unico prodotto, ciò che annullerebbe le singole specificità e le singole ricchezze, né tanto meno stabilire una gerarchia dei punti di accesso.

Il sistema che si profila, e che fa salva l’esigenza di mantenere l’individualità e la caratterizzazione specifica di ogni catalogo, nasce da un coordinamento nel quale ciascun sistema informativo può essere utilizzato come ingresso principale a seconda delle necessità del ricercatore, che dal percorso principale ha la possibilità di aprire percorsi di ricerca diversi attraverso l’accesso ad altri cataloghi, attivando quindi altre logiche di ricerca.

Un censimento per l’individuazione di nuovi percorsi e nuovi progetti

Il secondo gruppo, che si è occupato di Archivi esistenti e i vuoti informativi, ha costruito l’inventario degli archivi esistenti in Italia, e in parte in Europa, formati o in corso di formazione, che si occupano di questioni relative alla cartografia e alla pianificazione territoriale e urbanistica, ai progetti di architettura e all’architettura contemporanea costruita. L’individuazione dei vuoti informativi con riferimento alle strategie documentali e alle necessità informative, di carattere accessorio o complementare, di ciascun produttore di informazioni nell’ambito della ricerca, si è tradotto, per un verso, nella ricostruzione dello “stato dell’arte” e nella formazione di un quadro generale di riferimento che permetta a quanti si sono impegnati nella raccolta, catalogazione e ordinamento di questo tipo di informazioni una certa forma di orientamento, per l’altro conoscere in modo veloce il patrimonio culturale già raccolto e organizzato, possibili fonti per lavori di maggior dettaglio e peculiarità.

Il lavoro svolto è stato quindi quello di individuare gli archivi esistenti siano essi on-line o su CD-Rom, raggruppati in base ai seguenti argomenti e chiavi di lettura: «Cartografia territoriale»; «Pianificazione territoriale e urbanistica»; «Progetti di architettura e archivi di architetti e urbanisti»; «Architettura moderna costruita».

Il lavoro svolto e i risultati raggiunti sono descritti nel rapporto finale del gruppo, coordinato da Anna Tonicello, nel quale si evidenzia la presenza piuttosto limitata di banche dati disponibili on-line, sia liberamente accessibili, sia con accessi controllati e una certa difficoltà a coprire il panorama di banche dati informatizzate, esistenti o in formazione, su cd/rom o su sistemi locali non accessibili on-line. La presenza, inoltre, di numerosi progetti di informatizzazione e di costruzione di archivi informatizzati o di conversione su supporto digitale di banche dati, prefigura una prospettiva di disponibilità informativa più articolata in alcuni ambiti disciplinari anche se come rileva il rapporto redatto dal gruppo di lavoro, tali progetti, raramente, corrispondono a un piano sistematico teso ad esaurire l’informazione in un determinato settore geografico o argomento. In alcuni casi, sembra invece che più progetti si vogliano sovrapporre a scapito dell’integrazione di informazioni che hanno carattere di complementarietà. Quando la ricerca è stata avviata, l’interesse nei confronti dei processi di informatizzazione degli archivi cartacei era in notevole crescita, anche se le esperienze consolidate non erano molte. In questo panorama di fermento e di novità spiccava, senza dubbio, l’esperienza dell’Archivio Progetti dello IUAV che tuttora continua ad essere punto di riferimento sull’argomento.

Per un’efficiente interazione: la condivisione del “linguaggio”

Il terzo gruppo, coordinato da Fabrizio Bottini, si è occupato di Glossario e Lessico cercando di definire un approccio condiviso alla terminologia culturale e tecnica per i tre ambiti tematici architettura, cartografia e urbanistica. Molti sono coloro che si sono occupati o tuttora hanno in corso lavori di ricerca su glossari e lessici, sulla metodologia, sul riuscire a rispondere in maniera corretta alle esigenze di codifica da un lato e di esaustività dall’altro, di decodifica e di ricostruzione fedele della storia normativa, culturale, ecc. del termine (pensiamo ad esempio a come è cambiato il significato di Piano paesistico dalla legge del 1939 alla legge del 1985, la cosiddetta “legge Galasso”).

Il glossario, articolato su quei tre ambiti tematici, è stato costruito per definizioni brevi, di rapida lettura: finalizzato essenzialmente a fornire semplici e chiare definizioni a quanti, nelle varie agenzie, implementano gli archivi e producono schede. Il tentativo è stato quello di comporre un elenco alfabetico di termini condivisi fra discipline convergenti ma distinte, al fine di cominciare a definire un linguaggio interpretativo comune pur tra approcci distinti.

Le fonti bibliografiche, dalle quali il gruppo di lavoro è partito per la costruzione del glossario, sono state selezionate rispondendo ai tre filoni di interrogazione e cioè l’urbanistica, l’architettura e la cartografia. In alcuni casi ci si è avvalsi abbondantemente di opere a carattere enciclopedico generale, mentre in altri l’arricchimento delle proposte è stato rinviato alla successiva fase delle articolazioni e degli “allegati” grafici o testuali, che costituiranno il primo sviluppo del prodotto, e una occasione di confronto interattivo con una più vasta utenza.

Le “regole” definite per la costruzione del glossario sono state così individuate e sintetizzate:

Numero dei termini di cui fornire una definizione. Sono stati limitati a 150 circa il numero degli termini da proporre al “primo livello” di lettura; essi hanno poi articolazioni al secondo livello e definizioni al terzo livello. Ad esempio, nella traccia per i termini di urbanistica sono stati inserite al primo livello, le articolazioni di “legge” (urbanistica, di risanamento, paesisitica ecc.) e “piano” (regolatore, di bacino ecc.).

Dimensione dei testi. Non più di 2-3 parole per termine; non più di un breve paragrafo per la definizione. Questa scelta, come del resto la prima, non esclude necessariamente la possibilità di informazioni più approfondite, ma mette in primo piano una “scheda” sintetica, che ricorda alcuni termini fondamentali della definizione, ma rinvia per una informazione esaustiva: a) ad eventuali legami “orizzontali” con altri termini e definizioni; b) a un eventuale approfondimento sullo stesso soggetto, ad un altro livello. Per esempio, alla parola piano corrispondono alcune articolazioni (Piano regolatore, Piano territoriale di coordinamento), ognuna con una sua breve definizione, che a sua volta può rinviare: a) in “orizzontale” per esempio alle legge istitutiva di quel tipo di piano; b) in “approfondimento” a una definizione più lunga e dettagliata dei contenuti di quel piano.

Il metodo di compilazione è stato quello di individuare in primo luogo una “traccia logica” lungo la quale disporre termini e definizioni, e solo in un secondo momento mirare alla loro esaustività. Ciò si deve in parte al carattere di lavoro “aperto” che i glossari devono avere, sia in fase di prima compilazione e pubblicizzazione, sia nel loro percorso di interazione con eventuali contributi esterni, evoluzioni culturali e istituzionali.

Interessante rispetto al lavoro sul glossario, la collaborazione e la condivisione del lavoro con la ricerca Muleta, svolta dell’associazione europea Urbandata e finanziata dalla Commissione europea, che ha progettato il prototipo di un glossario multilingue, di cui si riferirà più avanti. Questa iniziativa testimonia come sia largamente sentito non solo il problema di “comprendersi”, ma anche quello di intendersi sul “senso” dei termini comunemente utilizzate: soprattutto nelle discipline dell’urbanistica e della progettazione esiste un apparente accordo su temi ricorrenti, che assume, in realtà, significati culturali, tecnici e ancor più politici molto differenti: Parole come «piano», «progetti», «programmi» solo apparentemente si equivalgono, se solo si faccia riferimento alla loro natura istituzionale, ai loro caratteri formali, all’ambito di interesse, alla specifica fase decisionale di cui essi risultano espressione, alla natura del promotore. Ed assume una valenza semantica ancor diversificata se oltre ai suoi contenuti, facciamo riferimento al contesto amministrativo in cui essi si collocano.

Da questo punto di vista il “glossario” non appare una semplice raccolta e catalogazione di termini, ma anche il primo nucleo di uno strumento interpretativo e di riflessione sui caratteri salienti delle discipline in questione. Anche per questo i lavori sul glossario sono stati aperti ad un gruppo di “esterni”, un gruppo di valutatori (docenti universitari, dirigenti presso enti territoriali, esperti dei diversi argomenti individuati), che hanno potuto valutare, criticare (e quindi favorire una “ricalibratura” del lavoro), ma anche offrire un contributo diretto sui temi.

Fattibilità tecnica della condivisione: dall’interrogazione alla confrontabilità

Il gruppo Sistema informativo, coordinato da Pierre Piccotti, si è preoccupato di definire il progetto “Sistema informativo”[1] di Cri_Daup e di condurre un’analisi di massima sulle soluzioni possibili da adottare.

Rispetto ai cinque campi individuati dal gruppo di lavoro dello standard, che costituiscono le chiavi di ricerca nelle diverse basi dati, è stato costruito un sistema di connessioni logiche e di interrogazione.

Le peculiarità, le diversità, le ricchezze intrinseche dei formati, pongono però la necessità di permettere all’utilizzatore dell’Opac, sia di conoscere quali sono i formati originali, sia di accedere direttamente alle basi dati originali, per poter usufruire dei legami esistenti nei record informativi delle diverse basi dati.

Praticamente l’utilizzatore interrogherà a partire dal sito CriDaup il metadatabase; una volta identificata la notizia, “cliccando” sull’indirizzo informatico (Url) di ogni singolo record lancerà una query sul sistema remoto possessore dell’informazione. Potrà quindi proseguire navigando attraverso i link eventualmente esistenti sul sistema remoto. Si sono poste così le basi di un sistema che potrà consentire (ove adeguatamente sviluppato) di utilizzare un servizio informativo analogo a quello che il gruppo di Napster ha reso agli amanti della musica: poter accedere liberamente alla documentazione prodotta dalle diverse agenzie e scaricarla sul proprio computer. In questa direzione, ovviamente, il lavoro di CriDaup è solo l’inizio di un percorso possibile.

La costruzione degli Authority Files

Il gruppo di lavoro sugli Authority Files, coordinato da Riccardo Domenichini, si è proposto di adeguare le diverse agenzie (biblioteche, centri di documentazione e cartografia, archivi di progetti di architettura) in relazione ai diversi tipi di materiali (progetti di architettura, piani urbanistici, materiali bibliografici, cartografie e manufatti architettonici) agli standard Rica (Regole italiane di catalogazione per autore) e Isbd (International Standard Bibliographical Description). Il seguire le norme prescritte dagli standard, che definiscono la forma e la scelta dell’intestazione, insieme all’utilizzo di un unico database per la catalogazione degli autori, consente di evitare ai catalogatori facili duplicazioni o errori e soprattutto facilita agli utenti il reperimento delle informazioni.

Un esempio di condivisione: lo strumento di indicizzazione dei luoghi

Il gruppo del Thesaurus geografico, coordinato da Laura Casagrande, ha lavorato congiuntamente al gruppo di lavoro degli authority files, ed ha puntato alla composizione di un elenco alfabetico di termini condivisi fra discipline convergenti ma distinte.

Partendo dalle conclusioni del gruppo di lavoro sullo standard, il gruppo di lavoro del thesaurus ha proposto alcune modalità operative per il trattamento dell’elemento descrittivo luogo, nella prospettiva di utilizzare un unico strumento di indicizzazione, quale il thesaurus geografico di EasyCat.

L’esigenza di disporre di appositi strumenti di indicizzazione per i luoghi è particolarmente sentita negli ambiti documentali dell’architettura e dell’urbanistica; non a caso il più conosciuto e completo thesaurus geografico per l’arte e l’architettura è stato realizzato dal Getty Research Institute; per quanto riguarda l’urbanistica e la pianificazione, l’esperienza più consolidata è quella francese di Urbamet che vanta uno strumento analogo, anche se di dimensioni più ridotte. A questo proposito vanno citati anche gli strumenti di indicizzazione geografica di cui dispone lo IUAV e cioè il thesaurus geografico di Bibliodata, creato in EasyCat a partire dalle descrizioni degli analitici di periodico, e il thesaurus geografico del Circe, creato in EasyCat a partire dalla descrizioni dei diversi materiali cartografici, prevalentemente provenienti da TinLib.

Lo sviluppo della ricerca CriDaupnel quadro europeo ed italiano

Se una ricerca è vitale, giunta a conclusione non può spegnersi: deve dar luogo ad altre iniziative, che ne prolunghino nel tempo l’ispirazione e l’utilità. In parte, la continuità della ricerca è garantita dal fatto che dei suoi risultati si avvalgono le diverse strutture che l’hanno costituita. Sono strutture che ora si “conoscono” meglio: sono tra loro in rete. Limitarsi a questo significherebbe però ridurre l’orizzonte rispetto a quello possibile: che è più ampio di quello costituito dall’insieme delle strutture direttamente coinvolte.

Come si è detto all’inizio, i temi della ricerca si collocano in coerenza a numerosi aspetti del dibattito nazionale ed internazionale sulla produzione di informazioni, sulla loro organizzazione, sull’arricchimento e miglioramento delle potenzialità degli archivi, ma anche sulla diffusione delle informazioni e l’allargamento dell’accessibilità di queste fonti, ormai imprescindibili per le attività di ricerca. E la ricerca si ritrova, anche, in linea con le nuove esigenze manifestate dalla Comunità Europea per lo sviluppo e l’utilizzo dei contenuti digitali europei nelle reti globali, e di promozione della diversità linguistica nella società dell’informazione.

E’ in questo quadro, quindi, che occorre collocarsi a riflettere e operare per lo sviluppo di CriDaup, oltre i suoi confini. Ricercando, in primo luogo, i possibili punti di forza da cui partire per costruire una rete europea.

L’associazione europea URBANDATA

Un primo punto di forza è l’associazione europea Urbandata, di cui l’IUAV è tra i partner rilevanti. URBANDATA è un consorzio fra produttori di informazioni sull'"abitare" nella Comunità Europea. Mira a favorire lo scambio internazionale e la diffusione delle informazioni sulle novità urbane, nonché a sviluppare nuovi prodotti e servizi che aiutino questi processi. Essa è stata costituita come associazione di diritto francese. I suoi membri sono: per la Spagna, il Centro de Información y Documentación Cientifica; per la Germania, il Deutsches Institut für Urbanistik, per la Gran Bretagna, la Greater London Authority, Research Library; per la Francia, l’Association Urbamet, che a sua volta raggruppa il Centre de Documentation sur l’Urbanisme della Direction Générale de l’Amenagement, l’Habitation et la Construction, l’Institut d’Amenagement et d’Urbanisme de la Région Ile-de-France ed alcune associazioni professionali; per l’ Italia, Archinet associazione per l'informazione di settore che a sua volta comprende l’IUAV il Coordinamento Nazionale delle Biblioteche i Architettura, il cetro di documentazione Quasco della Regione Emilia Romagna; per l’ Ungheria, il VATI Magyar regionális Fejlesztési és Urbanisztikai Közhasznú Társaság / Hungarian Public Nonprofit Company for Regional Development and Town Planning.

URBANDATA pubblica il CD-Rom Urbadisc, a periodicità semestrale, che contiene oltre 700.000 referenze bibliografiche sulla ricerca, la politica e la pratica urbana e sociale negli stati dei suoi membri e più in generare a livello internazionale. Altri progetti programmati concernono un migliore accesso ai documenti originali, scambi e cooperazioni sulla ricerca. Tra questi merita particolare cenno il progetto MULETA.

Il progetto Muleta

Muleta (MUltilingual and multimedia LExicon on Town planning and Architecture) è un prodotto, proposto da Urbandata (e per l’associazione definito da Alessandra Carini dell’OIKOS), sostenuto finanziariamente dalla Commissione europea nell’ambito del programma INFO 2000 MLIS. Esso ha dato luogo alla costruzione del prototipo di un lessico riguardante la pianificazione territoriale e urbana, la progettazione, l’architettura e la costruzione. Le cinque lingue inizialmente scelte sono il francese, l'inglese, il tedesco, l'italiano e lo spagnolo; tutte le lingue europee saranno inserite man mano nuovi partners nazionali si aggiungeranno.

Muleta è un attrezzo che fornisce, per ciascuno dei lemmi inseriti, la traduzione letterale nelle altre lingue, il termine equivalente, una immagine quando necessaria a comprendere meglio, e la pronuncia corretta in ciascuna lingua. Alla costruzione di Muleta hanno conribuito, oltre ai membri di Urbandata, anche il Centre d’Etude technique de l’Equipement di Bordeaux (CETE) e la società EUROGONE, anch’essa di Bordeaux.

Conclusa, con molta soddisfazione del committente, la fase di costruzione del prototipo finanziata dalla Commissione europea, ora è in corso l’implementazione dei lemmi, ad opera volontaria di alcune delle associazioni componenti Urbandata. Il sito è consultabile in internet.

Un tentativo: UrPlaNet

In connessione con i programmi europei che hanno per obiettivo la ricerca, lo sviluppo tecnologico e la comunicazione si sono definite, dopo la conclusione della ricerca CriDaup, le linee guida di un possibile progetto europeo, denominato provvisoriamente UrPlaNet (Urbanistic Plans Network). Mentre la validità del progetto è apparsa via via confermata, il suo carattere “ad ampio spettro” non ne ha reso immediata la traduzione negli specifici modelli recentemente assunti dai programmi europei a gestione comunitaria. Si è reso perciò necessario – mantenendone integre finalità e contenuti – pensare a una sua articolazione, tenendo conto delle fonti di finanziamento utilizzabili, sia in sede comunitaria che nel quadro della utilizzazione dei fondi strutturali.

Il progetto dovrebbe consistere:

- nel definire un modello europeo di scheda catalografica dei uiani urbanistici (UrPlanCard) finalizzato alla costituzione di un catalogo europeo distribuito dei piani urbanistici, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto CriDaup;

- nell'utilizzare per UrPlaNet il prodotto di Muleta per associare un thesaurus multilingue (UrPlanThes) finalizzato alla ricerca delle schede catalografiche dei vari piani urbanistici;

- nel costituire un server OPAC sperimentale di indicizzazione delle schede catalografiche (UrPlanIndex) da usare sia come "user query interface", che come "query router" verso i singoli cataloghi, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto CriDaup;

- nel coinvolgere alcuni Enti pubblici territoriali (o loro strutture tecniche) non solo allo scopo di popolare il catalogo con le informazioni di loro competenza, ma anche in qualità di beneficiari del progetto per sperimentare il modello di OPAC, anche rivolto a un’utenza allargata. .

Si tratterebbe, insomma, di allargare la portata dei progetti già finanziati ampliando a livello europeo la rete delle unità di ricerca coinvolte, ottenendo così un allargamento degli standard (catalografici, lessicali, informativi) individuati a livello nazionale, favorendo altresì una loro verifica sul campo, e inoltre la formulazione di un linguaggio comune a una pluralità intranazionale di addetti, sia nella direzione del coinvolgimento di molti paesi europei, sia in quella di favorire il passaggio dell'utilizzo dello strumento dall’utenza accademica (studioso e studente) ad una più generica di “addetti ai lavori” (utente tecnico e professionista), fino al cittadino.

Alcune direzioni di lavoro

Tenendo conto delle iniziative già avviate, dei risultati ottenuti dai progetti già finanziati, delle necessità del loro completamento e delle opportunità della loro proiezione, il proseguimento dell’attività di ricerca potrebbe orientarsi secondo alcuni filoni già in parte indicati nei precedenti paragrafi e cioè:

A. Consolidare la rete di relazioni già stabilite con i diversi partners italiani ed europei, e soprattutto confermare la volontà di una fattiva e concreta collaborazione che porti a consolidare il processo di omogeneizzazione dei criteri di interrogazione e interazione degli archivi;

B. Progettare un avanzamento ed uno sviluppo del progetto di rete CriDaup, articolandolo secondo diverse direttrici tattiche d’azione, ciascuna delle quali avvia collaborazioni con partner diversi.

Le articolazioni del programma di lavoro possono essere così sintetizzate:

·Costruzione di un archivio nazionale dei piani urbanistici, sviluppando il collegamento con l’Osservatorio Piani d’Area Vasta dell’Inu, nonché con alcune ricerche di analogo tenore recentemente messe a punto da istituti universitari e di ricerca.

·Costruzione di un archivio di materiali utili alla conoscenza del territorio elaborati in occasione della redazione degli strumenti urbanistici, o in connessione ad essi. È noto che in Italia non esiste alcun archivio di “letteratura grigia” (documenti ufficiali e ufficiosi, non pubblicati a stampa o disponibili in tirature limitate), mentre in altri paesi europei si tratta di patrimoni informativi esplorati e diffusi

·Sviluppo e proiezione a livello europeo del “glossario”, in connessione al progetto Muleta e alla partecipazione a un suo sviluppo e trasformazione, da semplice strumento di lavoro per la compilazione di schede, a indice di un sistema antologico di definizione dei termini.

·Costruzione sperimentale di una o più reti provinciali di Comuni, per la formazione e la gestione dei piani urbanistici, in collaborazione con una o più amministrazioni provinciali. Si tratta di verificare la possibilità di raggiungere l’obiettivo di condividere in corso d’opera informazioni relative alla pianificazione, tra Provincia e Comuni, consentendone l’accesso sia ai diversi uffici, sia ai cittadini.

·Sviluppo del sistema di condivisione delle informazioni che, superando gli scogli su cui si è arenato il progetto Napster, consenta a qualunque utente di percorrere una rete informativa europea (e universale) di archivi nei settori dell’urbanistica, dell’architettura, delle costruzioni ecc., di conoscere i documenti depositati negli archivi delle varie agenzie collegate, di ottenerli direttamente scaricandoli dagli archivi, risolvendo direttamente con le agenzie i problemi dei diritti d’autore.

[1]. Per sistema informativo Cri_Daup si intende: (i) possibilità di interrogare congiuntamente le basi dati documentali dei partner del progetto almeno per quanto riguarda i campi comuni individuati, d’ora innanzi definito, (ii) applicativi specifici che permettano la gestione in tutti i suoi aspetti dei documenti digitali, d’ora innanzi definito, (iii) applicativi specifici che permetteranno la catalogazione dei documenti, (iv) accessibilità condivisa agli authority file, thesaurus geografico e glossario.

In calce il sommario del numero speciale "In fondo ai Fori"

Era archeologo. Scrisse: “Il bello dell’archeologia è che la scoperta di un oggetto antico (qualora non si sia dei retori crepuscolari in cerca di assurde evasioni) è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perchè dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d’aver perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria”. Credo che in questo pensiero, contenuto in un suo scritto del 1951[1], ci sia la chiave del suo percorso: la ragione del suo diventare, da archeologo, combattente per la difesa delle risorse del territorio, giornalista e urbanista.

Come archeologo aveva compreso che la terra che calpestiamo, coltiviamo, abitiamo è un deposito di storia: contiene le radici del nostro essere partecipi della civiltà cui apparteniamo, rappresenta il mondo che è dentro di noi perchè è venuto prima di noi, e che dobbiamo trasmettere al futuro, ai nostri eredi. Il territorio era un valore inestimabile, ma veniva trattato come se fosse solo un’entità geometrica: mero recipiente neutrale per la costruzione di oggetti spesso privi di qualunque giustificazione, quasi sempre disposti con rozzezza. L’espansione disordinata delle città che avveniva in quegli anni (gli anni dei Vandali in casa e dei Brandelli d’Italia) trasformava le campagne e i paesaggi in una “repellente crosta di cemento e asfalto”. Un meccanismo mostruoso era in moto, distruggeva valore trasformandolo in merce, macinava bellezza e storia, minacciava la salute e la qualità della vita per produrre rendita nelle tasche degli speculatori e dei loro scherani.

Con l’indignazione, cresceva in Cederna la volontà di comprendere: per denunciare, con la rabbia del giusto, ma anche per ammaestrare, per spiegare come si poteva fare, come si era fatto e si faceva altrove, per evitare gli errori e gli scempi, per soddisfare le esigenze del presente senza sacrificare né passato né futuro.

Dal risvolto positivo della sua indignazione nacque così il suo interesse per l’urbanistica:

"La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese"[2].

Roma era al centro della sua passione. Lì raggiungevano il più alto livello sia il valore del lascito storico sia l’aggressiva ferocia della speculazione immobiliare:

"Distruzione di monumenti antichi e rovina del loro ambiente, sventramento di antiche città, trasformazione in sordidi agglomerati di cemento di colli, parchi e campagne, tali e non altri sono i risultati dell’attività della Società generale immobiliare. Ad essa manca qualunque principio urbanistico, che sia minimamente organico e unitario: suo unico scopo, al pari di qualunque piccolo affarista, è di sfruttare al massimo i propri terreni: un po’ poco, se si pensa alla prosopopea con cui essa presenta i suoi progetti, alla rispettabilità cui essa tiene e alla grande considerazione in cui è tenuta dai più. Guardiamo Roma. I mille tentacoli di questa piovra agiscono indipendentemente da qualunque visione generale: sia che costruisca a Monte Mario, sulla Trionfale, sulla Camilluccia, sulla Cassia, sulla Casilina, sulla Tuscolana, sull’Appia Antica, sull’Ardeatina o sulla C. Colombo, l’Immobiliare non fa che stirare ciecamente Roma in tutti i punti cardinali, e quindi realizzare trionfalmente l’espansione della città a macchia d’olio, incrementando paurosamente e rendendo cronica l’anarchia, stabile il caos e il fallimento dell’urbanistica romana"[3].

Implacabile è Cederna nel denunciare, oltre ai promotori delle devastazioni sistematiche del centro storico e della campagna romana, dei beni culturali e della vivibilità, anche i poteri pubblici inetti e i loro accomodanti tecnici (memorabile in proposito è la poesiola “A un architetto impegnato” che apre Brandelli d’Italia). A loro spetterebbe il compito di esprimere l’interesse generale di tutelare i valori comuni e di rendere civile la città, di dotarla di una struttura funzionalmente idonea (perciò la sua difesa tenace della strategia del Sistema direzionale orientale e della liberazione del centro storico dalle attività amministrative), di arricchirla di verde pubblico come tutte le grandi città europee, di commisurare l’invasione dell’Agro allo stretto fabbisogno indispensabile di nuove urbanizzazioni.

E a loro, ai politici e ai tecnici che tradivano la propria missione, si rivolgevano le sue più laceranti staffilate. E’ facile pensare alle espressioni che riserverebbe oggi a chi si propone di rendere urbanizzabili, senza alcuna necessità, 16mila ettari di Agro romano per rispettare inesistenti “diritti edificatori”

[1] “Il tempio sotto il melo”, ora in Antonio Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton editori, Roma 1991, pp. 17-23.

[2] A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, p. 18.

[3]A. Cederna, “Il leviatano Immobiliare”, in Il mondo, 26 giugno l956, ora in A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, pp. 411-412.

Sommario

del numero speciale di Carta Qui

"In fondo ai Fori"

Cederna, Petroselli il progetto dei fori [ Vezio De Lucia]

Lo chiamavano Tonino [ Giuseppe Cederna]

Le invasioni barbariche [ Edoardo Salzano]

Il triste destino della "sua" terrazza [ Italo Insolera]

Il foro nel parco [ Cartaqui]

La città è come un'infezione in mano ai trafficanti di suolo urbano [ Paolo Berdini]

Chi strangola il parco dell'Appia [ Anna Pacilli]

Il disegno della città non si fa a pezzi [ Antonello Sotgia]

Caro Rutelli, e il parco? [ Antonio Cederna]

Il nuovo Codice dei beni culturali, per alcuni aspetti sostanziali, costituisce un ribaltamento rispetto a impostazioni che sono maturate, in Italia, fin dalla formazione dello Stato unitario. Giuseppe Chiarante ricordava (l’Unità, 7/2/2004) che già nella prima legge organica sull’argomento[1], si proclamava l’assoluta inalienabilità dei beni culturali: la premessa della “linea italiana” sui beni culturali era insomma la sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica. Nel campo dei beni paesaggistici era stato affermato un altro principio cardine: la rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale. Lo aveva posto con grande chiarezza già Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti: il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo"..

Entrambi questi principi sono capovolti dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Contraddetto è di fatto anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio, non a caso posta tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale.

Nel corso della maturazione delle nuove concezioni della tutela, basata sulla pianificazione del territorio anziché sulle mera apposizione del vincolo, si era raggiunto[2] un delicato equilibrio tra le competenze (e i doveri) dei poteri pubblici espressione dell’unitarietà della nazione e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.

Mentre il Codice Urbani mantiene l’insieme del sistema di tutela/pianificazione definito dalla “legge Galasso” e l’equilibrio tra competenze statali e competenze sub-statali da esso accortamente messo a punto, da esso scompare totalmente il potere di annullamento, tradendo in tal modo un percorso culturale che aveva vittoriosamente attraversato tre stagioni della storia italiana: quella post-risorgimentale e giolittiana, quella fascista, e infine quella repubblicana. Pedaggio alla devoluscion, evidentemente, del quale pagheranno il prezzo le generazioni future; ma la sostenibilità non è di questo regime.

Edoardo Salzano,

Ordinario di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia

[1] Legge 20 giugno 1909 n. 364.

[2] Soprattutto con la legge 8 agosto 1985, n. 431 (“legge Galasso”).

È vero quello che molti hanno detto. I crolli delle case (a Foggia come a Roma), le frane e le colate di fango e l’esondazione dei fiumi e dei torrenti (in Campania e in Sicilia come in Liguria e in Piemonte) non testimoniano solo né tanto la fragilità dei nostri territori. Essi disvelano ogni anno, e più volte all’anno, i gravissimi guasti che alcuni dissennati decenni di rapine e di saccheggi hanno provocato: dagli anni forsennati di una ricostruzione postbellica all’insegna dell’ ognuno si arrangi come può , a quelli del boom dell’edilizia e dell’automobile. Ha ragione Franco Botta, quando sull’ Unità di ieri scrive: “L’arte dell’arrangiarsi ha consentito agli interessi miopi e speculativi di avere campo libero, e tutto questo ha prodotto città che sono invivibili e fragili”.

Non da oggi questo avviene. Non da oggi le case crollano e le montagne vengono giù a pezzi e le alluvioni travolgono paesi e città. Il guaio è che a questi eventi ci siamo assuefatti. Fanno parte della routine, ormai: ci si commuove per un po’, si accusano i soliti ignoti, e poi si dimentica, senza neppure provare a cambiare qualcosa nei meccanismi che di quei drammi sono all’origine.

Una volta non era così, giova ricordarlo. Giova ricordare quello che accadde, per esempio, nel 1966, all’indomani del crollo di Agrigento (decine di palazzi crollarono in una notte, miracolosamente senza vittime), e delle alluvioni dell’Arno e dell’eccezionale alta marea di Venezia (sorella acqua minacciò di affogare due gioielli della civiltà mondiale). L’opinione pubblica insorse, il Parlamento denunciò, discusse, e subito legiferò. Venne approvata (nel 1967) una legge urbanistica: non “la riforma”, ma alcune norme semplici e razionali. Si rafforzarono le regole di controllo dell’uso del territorio, si impose la pianificazione urbanistica ai comuni diventati complici dell’”arte di arrangiarsi” a danno della collettività, si disciplinarono le lottizzazioni dei terreni imponendo standard di spazi pubblici e perequazione tra i proprietari.

Poi vennero (nel 1970) le regioni, cui la Costituzione affidava importanti compiti di governo del territorio. Con esse, emersero con evidenza le differenze nei comportamenti pubblici delle diverse parti del paese: in alcune regioni (poche) si fecero delle buone leggi e si provò a pianificare l’uso del territorio e delle sue risorse, nelle altre ci si limitò a sommare i difetti della miopia dello stato centralistico con quelli della permissività delle amministrazioni locali.

Negli stessi anni si sviluppò (grazie anche al maggiore benessere) una nuova attenzione all’ambiente, al paesaggio, alla qualità della vita. Ciò provocò, dopo anni di dibattiti e di lavoro, alcune leggi positive: sulla difesa del suolo e delle acque, sulle zone protette, sul paesaggio. Leggi che davano strumenti per un governo del territorio le cui regole fossero ispirate alla prevenzione dei rischi, alla tutela delle risorse naturali, alla salvaguardia dei patrimoni della storia e del paesaggio.

Ma negli stessi decenni maturarono tendenze di segno opposto. L a compiacenza verso l’abusivismo, e addirittura la sua legalizzazione con i condoni. Lo svuotamento dei tentativi delle pianificazioni regionali, l’ insabbiamento delle leggi di tutela, l’allargamento delle deroghe concesse per ogni evento “eccezionale”: dalle alghe in Adriatico ai Mondiali di calcio. Mentre la crescente fragilità del territorio, devastato da decenni di spreco, avrebbe chiesto regole più rigorose, controlli più accurati, impiego delle risorse più mirato, pianificazione del territorio più generalizzata e penetrante, la moda (e gli interessi emergenti) spingevano nella direzione opposta: verso la deregolamentazione, anzi, verso il disprezzo di ogni regola, e la sostituzione ad esse del’ autocertificazione. (Sapete che una Regione ha introdotto l’ autocertificazione, cioè la dichiarazione unilaterale dell’ interessato, alla concessione edilizia anche in caso di costruzioni del tutto nuove?).

Sembrava che la scoperta e la denuncia di Tangentopoli, la rivelazione dei nessi tra il sistema della corruzione e quello della deregolamentazione urbanistica e dell’elusione dei controlli, aprissero una stagione nuova. Le indagini e i processi avviati dalle preture di Mani pulite sembravano aver aperto la strada alla riscossa di una politica capace di restituire centralità all’interesse collettivo (delle generazioni presenti e di quelle future). Sembrava che la riduzione dell’ingerenza dello stato (e dei partiti) dalla gestione delle aziende e dell’economia potesse aumentare l’efficienza dello stato nella sua autorità di costruttore e custode delle regole valide per tutti, e delle infrastrutture essenziali per la vita delle aziende e delle famiglie (il suolo e la città sono una di quelle essenziali).

Molti di noi pensano che così non siano andate le cose. E allora alcuni sono sollecitati, dal crollo di Foggia, a una conclusione amara. Piangere per i morti di Foggia sembra naturale. Lo è, se in un animo alberga la pietà. Dati i tempi, e il segno che in essi sembra prevalere, sarebbe forse più saggio rassegnarsi a convivere con i lutti del territorio.

Le "aree dismesse" (fabbriche obsolete, caserme inutili, scali ferroviari in abbando­no, carceri ingestibili) potrebbero fornire occasioni strategiche per il futuro delle città. Non solo in Italia, anche in Europa: il Libro verde per l'ambiente urbano, recentemente approvato dal Parlamento europeo, dedica infatti una particolare attenzione alle aree di­smesse, definite come occasioni da non perdere per riqualificare e umanizzare le città. Gli stabilimenti Fiat-Lingotto a Torino, Pirelli-Bicocca e Alfa-Portello a Milano, Fiat a Fi­renze, le caserme del quartiere Prati a Roma, la Marittima a Venezia, il parco ferroviario a Pescara, l'Italsider a Napoli: sono solo alcuni degli esempi più noti. Ma anche ogni città media e piccola ha almeno un caso di area dismessa. Ed è, quasi sempre, un argomento di discussione, di progetti alternativi, di scontri culturali e sociali, di contrasti d'interessi economici, anche di crisi politica (Milano insegni). A volte, anche di scandali che giun­gono fino alle scrivanie dei magistrati e alle aule dei tribunali.

Di che cosa si tratta? La forte e sregolata espansione urbana, che si è avuta nell'ul­timo mezzo secolo, ha inglobato vasti complessi (produttivi, militari, civili), nati originariamente ai margini della città, o fuori di essa. La loro stessa acquisita centralità li ha resi poco idonei a svolgere la funzione originaria. Le strutture edilizie e gli impianti sono divenuti superati. Di qui, la propensione a dismetterli, ad abbandonarli. Si tratta di aree oggi collocate tra il centro, spesso soffocato dal traffico, e la periferia quasi sempre invivibile.

Aree che potrebbero essere utilizzate per sanare, almeno in parte, il deficit di servizi, e soprattutto di verde, che rende spesso ostile e alienante la città contemporanea, Aree dalle quali dovrebbero comunque essere escluse utilizzazioni che siano "attrattrici di traffico", che aumentino il "carico urbanistico" di queste zone delicate, che aumentino la già parossistica congestione del traffico.

D'altra parte, si tratta anche di aree il cui valore di mercato è aumentato a dismi­sura, proprio a causa della posizione che quei complessi sono venuti ad assumere grazie all'espansione urbana, che in gran parte è il prodotto degli investimenti della collettività. Forte è quindi, da parte delle società o degli enti proprietari, l'interesse a trasferire altro­ve gli impianti e a lucrare sull'area. Ecco allora innumerevoli progetti, spesso resi accattivanti da orpelli culturali, per la valorizzazione di questa o di quell'altra area di­smessa.

Lo scontro è sempre lo stesso. Deve prevalere l'interesse generale, e quindi la scelta delle soluzioni più idonee per migliorare la condizione urbana? Oppure deve vince­re l'interesse economico immediato dei proprietari? Non dovrebbe essere difficile rispondere. E ancora più facile dovrebbe essere comprendere che il potere pubblico deve spostare il pendolo verso gli interessi generali. Purtroppo non è così. Moltissimi esempi dimostrano anzi il contrario. Dimostrano l'incapacità degli enti locali di comprendere da che parte sta l'interesse della collettività.

Dimostrano addirittura il prevalere di collusioni e complicità con gli interessi economici: con la speculazione, per adoperare un termine non più di moda.

Un caso emblematico: la Zanussi di Conegliano. 17 ettari tra il centro e la periferia. Un'area grande come l'intero centro storico. Una fabbrica che il Piano regolatore del 1982 conferma nella sua funzione, ma che la proprietà vuole ora abbandonare. Che cosa avrebbe fatto un'amministrazione corretta? E' evidente. La dimensione dell'area e la sua posizione sono tali che è impensabile cambiare la sua utilizzazione senza riprogettare l'intero assetto della città: senza fare un nuovo piano regolatore generale, senza studiare quali sono le soluzioni più opportune tenendo conto di tutto l'organismo urbano, del suo funzionamento complessivo, dell'insieme delle esigenze sociali. Invece no. La giunta, a maggioranza democristiana, approva un progetto, limitato all'area Zanussi, "in variante" al piano regolatore vigente. Un progetto che prevede la realizzazione di 600 mila metri cubi (di uffici, residenze, centri commerciali): quanti se ne sono costruiti a Conegliano in 10 anni.

In città si apre un dibattito acceso. Lo animano il Pds. i Verdi, alcuni tecnici. In­terviene anche la Diocesi. La Commissione pastorale afferma che la città è in preda a "spinte interessate, ispirate da interessi economici consistenti: dalla politica urbanistica del Comune emerge l'ambiguità di obiettivi e metodi". I metodi seguiti dal Comune sono pesantemente criticati dalla Regione, dove sembra che gli argomenti degli oppositori abbiano la meglio. Il Comitato tecnico esprime un giudizio senza appello: è illeggittimo, oltre che tecnicamente inammissibile, introdurre con il meccanismo della "variante parziale" modifiche così stravolgenti. Identico il parere degli esperti legali cui la Giunta regionale si rivolge. Alle interpellanze del Pds e dei Verdi l'assessore regionale risponde condividendone il giudizio e impegnandosi a operare di conseguenza. Ma il comune tira diritto. Approfitta del ritardo con cui la Regione risponde uffi­cialmente per dichiarare esecutivo il progetto per "silenzio-assenso". La Giunta regionale ricorre al Tar. Ma non sta bene litigare troppo a lungo tra amministrazioni dello steso colore politico. Si trova la strada d'un accordo. Il Comune ottiene che la Regione inseri­sca la "pratica" del "fascicolo" di un'altra variante, che era in viaggio indipendentemente dal progetto Zanussi e cha aveva seguito, stancamente, un iter "regolare". Sul treno prossimo alla stazione d'arrivo si fa insomma salire, come un passeggero clandestino, il progetto Zanussi. Il Comitato tecnico regionale, spaccato al suo interno, approva il pa­sticcio. Il giorno dopo, in assenza perfino della relazione tecnica (che non è stata ancora stesa) la Giunta regionale approva. La sera, a Conegliano, il trevigiano ministro dei tra­sporti brinda col Sindaco. Ma il gruppo consiliare del Pds decide di ricorrere alla magi­stratura. C'è da scommettere che dell'area Zanussi di Conegliano si parlerà ancora.

Edoardo Salzano

Sembra il libro di uno scrittore sconosciuto, che parla di un luogo sconosciuto. L’uno e l’altro collocati, forse, nel mondo arabo. Ismé Gimdalcha è l’autore; “Progetto Kalhesa” il libro. Marsilio è l’editore, ed è l’unico che non sia mascherato. In realtà Ismé Gimdalcha è Giancarlo De Carlo (Ismé, come ci svela la prefazione dello stesso autore in un altro travestimento, significa “io stesso”, e Gim-dal-cha ripete le iniziali del suo nome). Ismè è dunque Giancarlo De Carlo, il grande architetto e urbanista ammirato nel mondo per Urbino, noto e stimato tra gli architetti per tanti altri progetti di grande sapiente qualità. E Kalhesa è, in realtà, Palermo. Il libro è il diario di una esperienza di lavoro, intensa e struggente, disperata e incantata, che De Carlo condusse in quella città tra il 1979 e il 1982, insieme con un altro grande intellettuale dell’architettura e dell’urbanistica, Giuseppe Samonà, e a due professionisti locali, incaricati dal Comune di redigere un progetto di risanamento del centro storico.

Il travestimento non si ferma alla copertina (e alla retrocopertina, nella quale compare una fotografia dell’autore camuffato con baffoni e occhiali neri, cappotto tirato su fino al mento e un improbabile colbaccone). Tutto il libro è in maschera. Si apre con una telefonata di Lucio Corinzio (Luigi Colaianni, allora responsabile regionale del PCI, che implora Ismé perché collabori, designato dalla Confraternita degli Austeri (il PCI), al Progetto Kalhesa, con Aristide Fragalà (Samonà), Alerto Madonnina e Baruffa Gentile, rispettivamente designati dai Reliquari (la DC), dai Ghermiglioni (i socialisti) e dai Diluvioni ed Elleridi (PSDI e PRI).

Sembra che riconoscere i personaggi veri sotto le maschere sia stato uno dei giochi preferiti dagli architetti, nelle piovose vacanze di quest’anno. E non è difficile individuare l’urbanista Teresa Cannarozzo, agitata e generosa sentinella sulle sponde dell’abisso palermitano, sotto le sembianze di Lilluntha Cavez One, i docenti dell’Istituto di ideografia di Lagunia (Architettura di Venezia) Ezra Jashar (Bruno Zevi), Manfredo Tafuri (Otiero Manfurio), Giovanni Astengo (Otto Quanto), Ignazio Gardella Telel Gard’hal), Luigi Piccinato (Kurt Smallish), Vittorio Gregotti (Gregorio Mediotti), Egle Trincanato (Glè Bevier), e ancora Le Corbusier (El Muftì), Elio Vittorini (Tor Eliogallo), Alvar Aalto (Egelin Anf), Carlo Doglio (Celso Foglio), Ernesto Belgioioso (Umberto Pulchris) e molti altri.

Più che Lagunia e gli altri luoghi dell’Internazionale dell’architettura la vicenda descrive Palermo e il suo mondo politico, sociale e culturale. E’ un racconto realistico e vero (De Carlo lo ha vissuto giorno per giorno, e lo analizza con la curiosità dell’esploratore e la freddezza dell’entomologo), ma al tempo stesso è reso astratto, quasi trasfigurato nella narrazione di una vicenda universale, dall’impiego sistematico del travestimento dei luoghi, delle persone e delle istituzioni e da una scrittura scorrevole e sapiente al servizio di un pensiero profondo.

Nel mare delle comparse due personaggi dominano il libro. Il primo è Aristide Fragalà, vero regista della complicata trama del Progetto Kalhesa (mai approdato alla concretezza, come forse si era voluto fin dall’inizio?) verso il quale l’autore rivela (verrebbe voglia di dire “smaschera”) un intensissimo rapporto di sospetto e amirazione, di rispetto e diffidenza, di distacco e di tenerezza: un rapporto complesso restituito nella sua dinamica lungo il percorso del Progetto Kalhesa, per concludersi con accenti di intensa pietas nelle pagine dedicate alla morte di Samonà.

Il secondo protagonista è il clima politico e culturale della Palermo di quegli anni. Nella città, e nel libro, si agitano confusamente i tentativi di rinnovamento degli Austeri, onesti ma impotenti per il loro esiguo peso e per la loro ingenuità, l’apparente disponibilità progressiva dei Ghermiglioni e dei Reliquari, sapienti nella tessitura delle diplomazie consociative. Ma il Deus ex machina, intuìto e ricorrentemente scrutato dalla curiosità forestiera da Ismé ma mai svelato, dissimulato com’è sotto i mille veli dell’omertoso compiacimento dei Reliquari e della Congrega del Dio operoso (l’Opus Dei?), è l’Organika, la Mafia. (Una divinità ancor oggi potente se è vero, come si afferma, che l’autore non riuscì a pubblicare il libro presso un editore siciliano, con il quale aveva già firmato il contratto e al quale aveva già restituito le bozze corrette).

Così, gli sforzi disordinati e le geniali intuizioni dei quattro architetti, diversamente coinvolti negli interessi locali (il più astratto e distaccato è Ismè-De Carlo, vuoi per la sua struttura logica e morale di settentrionale anarchico e illuminista, vuoi perché il suo riferimento è costituito dagli onesti Austeri), si insabbiano su un’inefficienza del potere pubblico generata dalla simbiosi tra la mollezza levantina del costume locale e il potere occulto di Cosa Nostra. Da questo punto di vista, la chiave del racconto è nella pagina in cui appare che l’unico che davvero conosce la città come il palmo della sua mano, e che quindi è capace di governarla, è l’uomo dell’Organika nell’amministrazione, Beppe Cianfrogna (dietro la maschera si intravede Vito Ciancimino): mentre gli uffici non riescono a redigere le carte per il progetto, si scopre che Cianfrogna possiede a casa sua un gigantesco plastico della città in cui, con legni di diverse essenze, sono rappresentati, e via via aggiornati, tutti gli edifici vecchi, nuovi e futuri distinti secondo i loro valori di mercato.

Questo episodio fa intravedere un’ulteriore, e amara, verità, cui l’autoironia di De Carlo più volte rinvia. In fondo, l’avventura cui Lucio Corinzio l’ha chiamato è un’illusione. Le lunghe discussioni, i rarefatti e acuti ragionamenti, gli scontri intellettuali apparentemente fecondi tra i due Maestri, Gimdalcha e Fragalà, non conducono a nulla. Il loro lavoro, l’apparato consociativo che attorno a loro si forma, le stesse regole lottizzatorie applicate della formazione del gruppo, il continuo rinvio della formazione di un ufficio per la pianificazione, la decisione politica di far scaturire le regole per il governo della città da demiurghi chiamati da fuori, rivelano il loro carattere strumentale.

Non è, quello di Giancarlo De Carlo, un romanzo sull’urbanistica: è la denuncia di un’urbanistica in maschera. Ormai consegnata alla storia e descritta cento anni dopo in un manoscritto fortunosamente rinvenuto da un viaggiatore in un caffè dell’Egeo, come appare nella prefazione, oppure, qui e là, ancora attuale? Ma questo è un altro discorso.

Edoardo Salzano

Quanto ci muoviamo nella vita d’oggi! Nella città, sul territorio. Ci muoviamo per raggiungere il lavoro dalla casa che abitiamo, e viceversa. Per utilizzare la scuola, l’ufficio postale, il mercato dove ciò che ci serve costa meno, l’ospedale, la palestra, e tutti gli altri servizi sempre più necessari alla nostra esistenza (e sempre peggio disposti sul territorio, rispetto a dove abitiamo e lavoriamo). Per prendere una boccata d’aria in campagna, visto che la città ha sempre meno verde di quello che serve, o per respirare l’aria di città, incontrare persone, attività, occasioni e strapparci dalla segregazione del paesino. E ci muoviamo per raggiungere siti lontani, spinti dalle necessità del nostro mestiere o dalla ricerca di stimoli o di riposi in luoghi diversi.

Non sempre ci rendiamo conto di quanto gran parte del nostro muoversi, e impiegare tempo nel vettore che ci trasporta, dipenda da una cattiva distribuzione degli oggetti che ci servono sul territorio (le abitazioni lontane dei luoghi dove lavoriamo, i servizi disposti avaramente e casualmente). E neppure ci rendiamo sempre conto che solo il prevalere degli interessi più forti ha impedito che si scegliesse volta per volta il sistema di trasporto più comodo per noi. Ma tutti si rendono conto che il disagio e lo spreco (di tempo, di energia, di salute, di risorse d’ogni genere) pesano sempre di più sulla nostra vita, la rendono sempre meno umana, piacevole, utile a noi stessi e agli altri. Soprattutto nelle grandi città, nelle agglomerazioni urbane, che ormai hanno conglobato nella loro anarchica espansione le aree una volta naturali, nelle quali abita e lavora la stragrande parte della popolazione.

Problemi ci sono anche per le comunicazioni a lunga distanza, con ritmi non quotidiani, che interessano meno persone ma soggetti di maggior peso sociale (le aziende interessate al trasporto di merci, gli operatori del terziario avanzato, i turisti). Disagi provocati da strozzature e disfunzioni nel sistema delle infrastrutture, sprechi derivanti dal fatto che i diversi modi di trasporti delle persone e delle merci (la rotaia, la strada, l’aria) si fanno concorrenza tra loro invece di integrarsi un una ragionevole collaborazione, e che altri (l’acqua) sono trascurati.

Disagi e sprechi, ma indubbiamente di tutt’altro peso, rispetto alla vita quotidiana, di quelli che affliggono le aree urbane. Eppure, l’opinione pubblica è informata delle vicende della Grandi Opere (il Ponte sullo stretto, l’Alta Velocità, il Corridoio Cinque transeuropeo) mentre non sa nulla di ciò che si fa nelle aree urbane: dei provvedimenti per rafforzare il trasporto pubblico su ferro (diventato la regina del trasporto urbano nelle città dell’Europa evoluta), per ridurre il peso e la necessità dell’automobile, per rendere sicure e vivibili ampie aree sottratte all’invasione delle semoventi scatole di latta. Non è un oscuramento casuale. Il fatto è che guidano in questa direzione le politiche del governo.

Si guardino i recenti provvedimenti. Per le Grandi Opere si stabiliscono canali di finanziamento speciali, si attivano procedure particolari, si mobilitano risorse eccezionali, si sfidano persino le regole europee (vedi il Ponte sullo Stretto) e di scatenano le forze di polizia (vedi la TAV in Val di Susa). E intanto con l’altra mano si toglie. la finanziaria riduce ancora le già scarse risorse destinate al finanziamento dei progetti per il trasporto pubblico nelle aree urbane.

Da un lato, i monumenti per celebrare il potere e agevolare gli interessi forti, con interventi forzati a prescindere dalla priorità, dalle garanzie di sicurezza, e perfino dall’utilità (come il Ponte). Dall’altro lato, gli interventi diffusi, decentrati, sulla rete dei servizi per la mobilità quotidiana dei cittadini: un aspetto rilevante delle condizioni di vita che lo Stato sociale deve garantire perchè la città e il territorio siano vivibili. Da una parte si dà, dall’altra si toglie. Eppure, gli avvenimenti di Parigi ci ricordano che demolire lo Stato sociale comporta prezzi che, alla fine, pagano tutti.

Il titolo è quello suggerito, Nella rivista l'Opinione non ha titolo

Molti sono gli interrogativi che in termini di vincoli urbanistici vorremmo chiarire; ad esempio: i vincoli posti, secondo il diritto italiano, dagli strumenti urbanistici decadono dopo un certo periodo di tempo? Se un Comune volesse tutelare un’area di pregio non ancora acquisita, deve scendere a patti con il proprietario concedendogli una quota di edificabilità, anche altrove? Il proprietario fondiario cui il piano regolatore ha attribuito una certa edificabilità, può pretendere un indenizzo dal Comune che ne ha modificato la destinazione d’uso, eliminando o riducendo fortemente l’edificabilità? Ed inoltre è necessario per “ragioni di diritto” compensare il proprietario la cui area non sia più edificabile come inizialmente previsto? Numerosi urbanisti ed amministratori che da essi si lasciano convincere tendono a dare a queste domande una risposta positiva.

È facile dimostrare invece che, sulla base del diritto vigente oggi in Italia, “compensazioni” e “perequazioni” possono essere suggerite da opportunità politiche, ma non sono affatto la conseguenza obbligata di norme perverse, che tutelino troppo profondamente gli interessi dei proprietari a dispetto degli interessi generali. All’interno di questo discorso è necessario distinguere due tipi di vincoli alla libera disponibilità della proprietà immobiliare: i vincoli ricognitivi e i vincoli funzionali o urbanistici ( vedasi scheda sui vincoli allegata all’articolo ) La pianificazione (regionale, provinciale, comunale) può imporre vincoli dell’uno e dell’altro tipo. Ma mentre per quelli “urbanistici” il vincolo non può essere imposto senza un interesse pubblico che lo motivi, e non può essere protratto senza indennizzo al di là di un termine ragionevole, per i vincoli “ricognitivi” non è necessario nessun indennizzo, perché il vincolo è “coessenziale” al bene.

La questione dei vincoli urbanistici fu posta per la prima volta in termini compiuti dalla Corte costituzionale nel 1968. La tesi che la Corte costituzionale argomenta nella sentenza 55/1968 può essere sintetizzata come segue. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli di destinazione di zona per uso pubblico sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Però al vincolo di piano non segue necessariamente l’atto concreto dell’espropriazione, e quindi del pagamento di una indennità: il vincolo ha validità a tempo indeterminato, e ugualmente indeterminato è il momento nel quale il comune avrà l’intenzione e la possibilità di realizzare l’opera prevista. Viene così a determinarsi “un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato finale”. Questo, sostiene la Corte, è costituzionalmente illegittimo.

Tuttavia la sentenza suggerisce anche il possibile riparo quando afferma che il legislatore potrebbe porre limitazioni pesantissime alla proprietà a queste tre condizioni: che la norma sia stabilita in relazione a tutte le proprietà appartenenti a una determinata “categoria di beni”, senza discrezionalità; che questo derivi da una esigenza d’interesse generale; che la limitazione non annulli il valore economico del bene. In caso contrario la limitazione è legittima, ma va indennizzata.

Contrariamente a quanto indicato dalla Corte il legislatore stabilì un sistema di proroghe e di validità a tempo determinato dei vincoli urbanistici (quelli ricognitivi non furono mai messi in discussione). Molti comuni, non riuscendo ad avviare le procedure di acquisizione delle aree entro i termini, rinnovarono i vincoli decaduti con nuovi provvedimenti urbanistici con il risultato che a qualche comune andò bene, ad altri meno.

Finalmente, nell’inerzia del legislatore, la Corte intervenne con una nuova sentenza, la n. 179 del 1999. In essa si afferma che i vincoli urbanistici “assumono certamente carattere patologico quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga sine die o all’infinito”. Ma nello stesso tempo la sentenza stabilisce in quali casi la reiterazione del vincolo non sia “patologica”, e quindi non sia criticabile per incostituzionalità. In sintesi tra i vincoli che “restano al di fuori dell'ambito dell'indennizzabilità ..... (sono ) .. compresi i vincoli ambientali-paesistici , i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli ... derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile”.

Esemplificando, se un comune attraverso un nuovo documento urbanistico modifica la primitiva destinazione a zona d’espansione o comunque di edificazione di una particolare area, già indicata nel piano regolatore, prevedendo utilizzazioni diverse ( esempio zona agricola), il proprietario ha diritto a qualche forma di risarcimento o d’indennizzo? Esiste un “diritto all’edificabilità” che una volta ottenuto appartenga al proprietario?

La giurisprudenza afferma che l’interesse pubblico - espresso dalle amministrazioni legittimate a compiere gli atti amministrativi - prevale sull’interesse dei privati. L’unica attenzione che legislazione e giurisprudenza costantemente pongono è che l’atto con il quale si comprimono i legittimi interessi dei proprietari sia adeguatamente motivato e che la compressione del legittimo interesse (cioè il danno materiale subito) sia adeguatamente indennizzata.

In altri termini non esiste alcun “diritto all’edificabilità” del proprietario, anche se in precedenza gratificato da una previsione edificatoria, poi cancellata e se, sulla base della suddetta previsione, aveva ottenuto l’approvazione convenzionata di un piano di lottizzazione e aveva stipulato con il comune i relativi atti.In sintesi il quadro generale evidenzia che:

non esiste impedimento giuridico a modificare le previsioni del piano regolatore comunale vigente, ove sia necessario, senza che ciò comporti alcun obbligo di indennizzo o compenso al proprietario che abbia avuto una riduzione della utilizzabilità urbanistica della sua area;

non esiste impedimento giuridico ( anzi esiste una sollecitazione da parte del giudice costituzionale) alla individuazione, da parte dei Comuni, di aree da sottoporre a tutela per motivi connessi ai valori culturali, archeologici, storici, paesaggistici (con specifico riferimento al paesaggio agrario) o a situazioni di fragilità e di rischio, su cui imporre un vincolo ricognitivo; non esiste impedimento giuridico a sottoporre a vincolo urbanistico aree già sottoposte a vincolo ricognitivo, ove le ragioni del vincolo lo consentano e compatibilmente con le trasformazioni e le utilizzazioni coerenti con tali ragioni;

non esiste obbligo a indennizzare i proprietari di aree, destinate a svolgere una funzione di pubblica utilità, per la quale la normativa urbanistica comunale preveda la gestione economica da parte del proprietario delle attrezzature e degli impianti di cui si ipotizza la realizzazione.

Ove sia necessario sottoporre a vincoli urbanistici di tipo espropriativo immobili che non ricadano nei due casi precedenti, e che non siano neppure acquisibili mediante le normali procedure della lottizzazione convenzionata praticata dal 1967, l’indennità espropriativa non deve compensare ipotesi di edificabilità diverse da quelle che le leggi in materia dispongono. A meno che il Comune non sia così sciocco da promettere edificabilità diffuse e “spalmate” su gran parte del territorio comunale.

Il testo integrale della relazione è leggibile e scaricabile qui

IL PASTICCIO URBANISTICO NON E' PASSATO



Tristi questi tempi. Bisogna gioire del fatto che una legge, partita con l'ottima intenzione del legislatore di regalare al paese la riforma del regime degli immobili (o almeno del regime dei suoli) che aspettiamo da un quarto di secolo, sia restata impaniata nella precoce fine della legislatura. Ce ne dispiace per tutti quelli che, alla Camera e al Senato, con molta buona volontà e molto impegno, si sono adoperati per discuterla, correggerla, verificarla. Ce ne dispiace meno per quegli urbanisti che, fin quasi alle ultime battute, hanno lavorato perchè in qualche modo venisse approvata. Ma ne siamo lieti per le città e il territorio, e per il loro governo.

Quella legge (non abbiamo mai mancato di dirlo e di dimostrarlo) era un pasticcio. Era sbagliata fin dall'inizio, fin dall'originaria impostazione del sen. Cutrera. Ma era allora, quattro anni fa, un meccanismo correttamente basato su un principio perverso (quello della "spalmatura", dell'attribuzione a ogni proprietà fondiaria di un diritto di edificabilità), sebbene temperato dal riconoscimento della non edificabilità delle aree di oggettivo interesse paesaggistico. Via via era diventata un pasticcio che avrebbe seppellito ogni residua possibilità di governo del territorio mediante la pianificazione.

Nel numero scorso di questa rivista abbiamo pubblicato un ampio e documentatissimo dossier di Maurizio Coppo, i cui argomenti sono stati decisivi per indurre i parlamentari del Pds a "togliere la legislativa" (cioè a ritirare l'autorizzazione alla maggioranza a votare la legge direttamente in Commissione), e per sollecitare i deputati della Sinistra indipendente e della Lista verde a praticare in Aula un robusto filibustering l'ultimo giorno di validità parlamentare. Vogliamo ricordare un paio di dati di fatto illustrati nella ricerca di Coppo, perchè in essi sono le ragioni della nostra odierna soddisfazione per lo scampato pericolo.

I più gravi vizi sostanziali della proposta di legge erano in due aspetti: quello economico e quello urbanistico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è dimostrato innanzitutto che la variazione del rapporto tra valori dell'indennizzo e valori di mercato sarebbe elevatissima (dal 10 al 250 per cento). Ciò contraddirebbe pesantemente il principio di equità, cui la Corte costituzionale è particolarmente legata, e inoltre obbligherebbe i comuni ad esborsi elevatissimi nella situazioni sopravvalutate e a subire contenziosi infiniti in quelle sottovalutate.

In secondo luogo, nella maggior parte dei comuni gli introiti derivanti dai contributi di maggiore edificazione sarebbero stati tali da non compensare nemmeno gli indennizzi per l'acquisizione delle aree occorenti per gli standard urbanistici necessari per i nuovi insediati. Lungi dal risolvere positivamente i problemi della gestione urbanistica dei comuni, la legge li avrebbe addirittura aggravati.

Dall'analisi di Coppo appare evidente che nessuna correzione del sistema previsto dalla legge avrebbe potuto emendarne i vizi che danno luogo a risultati così scoraggianti. Ma ancor più evidente è il vizio di fondo della proposta se se ne esaminano gli aspetti urbanistici: le perverse ricadute sulla pianificazione urbana e territoriale.

"Data la diretta relazione tra indici fondiari, valori degli indennizzi e valori dei contributi per la maggiore utilizzazione fondiaria, le scelte urbanistiche determinerebbero, anche più che nella situazione attuale, pesantissime implicazioni d'ordine economico; tali implicazioni renderebbero da un lato la pianificazione urbanistica oltremodo complessa e dall'altro la sua gestione ancor più conflittuale di quella attuale".

Con buona pace per chi pensa (come noi pensiamo) che obiettivo di una riforma deve essere quello di tendere verso "l'indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani", per adoperare l'espressione di Aldo Moro all'epoca del primo governo di centro-sinistra.

Alla soddisfazione per lo scampato pericolo vogliamo aggiungere la speranza che il Parlamento che eleggeremo sia più maturodi quello appena sciolto, e meglio capace di affrontare, e finalmente risolvere, il problema sotteso al pasticcio urbanistico della X legislatura.



FINALMENTE

UNA BUONA SENTENZA

La prima sezione della Cassazione civile ha pronunciato una sentenza d'importanza capitale (21 ottobre 1991, n.11133). Ancora più importante oggi, dopo il definitivo arenarsi della legge sul regime dei suoli.

La Cassazione ha infatti decretato che, in caso di esproprio di un'area per la quale uno strumento urbanistico formato a norma di legge prevede un vincolo di inedificabilità, l'indennità espropriativa non deve essere riferita ai valori di mercato conseguenti dalla potenzialità edificatoria, perchè l'edificabilità di quell'area è stata legittimamente cancellata.

Il compenso dovuto dal proprietario può invece tener conto delle utilizzazioni legittime in atto o possibili quali, esemplifica la sentenza, quelle per parcheggio, oppure per l'installazione di chioschi o di altre strutture mobili. (La sentenza è pubblicata e commentata sul Corriere giuridico, n.1/1992, con un acuto commento di Antonio Catalano).

Il fatto più rilevante è che la sentenza non si riferisce ai vincoli cosiddetti "ricognitivi" (quelli cioè derivanti dalla "ricognizione", e dalla puntuale individuazione, di beni appartenenti a categorie vincolate da una legge, come ad esempio i beni culturali o le emergenze naturalistiche). Essa si riferisce,nella fattispecie, a un vincolo cemeteriale, con argomentazioni che sono immediatamente e quasi meccanicamente estensibili a tutti i vincoli derivanti da leggi, e più in generale sono riferibili a qualsiasi vincolo posto dallo strumento urbanistico.

Singolare è infine che il Consiglio di Stato abbia fatto riferimento a un criterio di valutazione dell'indennità (quello basato sul valore derivante dalla utilizzazione legittima in atto) che è esattamente quello previsto dalla proposta di legge di riforma del regime degli immobili Cervati-Scano che l'Inu elaborò tra 1l 1979 e il 1983.

UN NEONATO, UN ALBERO,

QUATTRO AUTOMOBILI

Lo stesso giorno, il 28 gennaio 1992, sono uscite sui giornali due notizie, che la stampa non ha collegato.

Gli onorevoli Rutelli e ... hanno presentato una proposta legislativa che prevede l'obbligo che in ogni comune si metta a dimora, per ogni nuovo nato, un nuovo albero. Una proposta sacrosanta. Nell'ultimo secolo abbiamo così pesantemente impoverito il potenziale biologico del nostro pianeta, ne abbiamo così radicalmente compromesso e indebolito la capacità di rigenerazione, che ogni iniziativa volta ad aumentare, sia pur di poco, sia pur solo quasi simbolicamente, la produzione di ossigeno, è la benvenuta: va sostenuta, difesa, attuata.

L'altra notizia, nei titoli dei giorali, è anch'essa riferita ai neonati. Non si tratta di una promessa, ma di una realtà. Anzi, di una statistica. A Roma, ogni giorno, per un bambino che nasce vengono immatricolate quasi quattro automobili (per la precisione, 3,8).

Un bambino, un albero, quattro automobili. Così non ce la faremo mai. Se la motorizzazione privata prosegue con i ritmi attuali si potrà anche aumentare il numero di alberi da piantare per ogni nuovo nato. Non si troverà più posto per piantarli. Così come già, da molto tempo, nelle città non si trova più posto per passeggiare, poichè le strade i marciapiedi le piazze i viali sono otturati dall'orrida lamiera.

IL NUOVO ANTIREGIONALISMO

Dio sa se siamo teneri con le Regioni. Non abbiamo mancato di criticarne le inerzie, le pigrizie, il burocratismo. Non abbiamo mancato di denunciare il boicottaggio che gran parte di esse hanno esercitato nei confronti di quelle poche leggi di riforma che il Parlamento ha prodotto: dalla "legge Galasso" (in quante regioni vigono piani efficienti ed efficaci formati "con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali"?) alla nuova legge sull'ordinamento degli enti locali (sul fallimento della speranza dell'istituzione delle città metropolitana occorrerebbe pronunciare un'invettiva, non scrivere un articolo). E abbiamo anche sostenuto che il "nuovo regionalismo", di cui tanti parlano e che sembra dover contrassegnare la fase politica che si aprirà dopo le elezioni, ha senso se ha la sua premessa in una seria autocritica del modo (inerte, pigro, burocratico) in cui le regioni hanno fino ad ora funzionato.

Ciò detto, e confermato, noi non siamo perchè si facciano surrettiziamente passi indietro rispetto ai traguardi raggiunti.

Noi non siamo perchè si stravolgano le regole che esistono senza neppure riconoscerlo, surrettiziamente. Noi non siamo perchè alle regioni, quali che siano gli errori in cui sono incorse, si sottraggano clandestinamente i poteri e le competenze che la Costituzione ha affidato loro (bene o male che le esercitino).

Eppure, è proprio questo che è stato fatto non solo dagli onorevoli Botta e Ferrarini, firmatari della legge sull'intervento pubblico nell'edilizia residenziale, ma anche dal Parlamento che, a larga maggioranza, l'ha recentemente approvata.

E' una legge che disciplina cose che al Parlamento nazionale non spettano più, da quando è diventato operativo quell'articolo della Costituzione che attribuisce alle regioni la competenza legislativa in materia di urbanistica: come quando inventa nome, contenuto, finalità e procedure di un un nuovo piano urbanistico "progetto integrato d'intervento"). Con buona pace, tra l'altro, di quanti predicano la semplificazione, delegificazione, snellimento ecc. E' una legge che contraddice perfino una recentissima legge, come dicono gli esperti, di "rango subcostituzionale", quale è la legge 142/1990, poichè sottrae ai comuni la facoltà di approvare la neonata figura pianificatoria.

Si può dire tutto degli onorevoli Botta (DC) e Ferrarini (PSI);non che siano inesperti della disciplina che regola il settore (il primo, del resto è stato fino a ieri presidente della Commissione Ambiente della Camera, e il secondo era sottosegretario ai Llpp), e neppure che siano degli eversori.

Nemmeno si può dire che quello appena dissolto sia stato un Parlamento antiregionalista. Se allora le cose sono andate così, vuol dire davvero che la nebbia che grava sulle istituzioni è fitta come mai non è stata.

IN LIQUIDAZIONE

IL MEGLIO DI UN SECOLO

Fu agli inizi del secolo, dalla tradizione laburista e socialdemocratica della solidarietà operaia, che nacquero in Italia gli Istituti delle case popolari. Fu allora che iniziò, e poi via via si sviluppò, la storia dell'intervento pubblico nell'edilizia volto a consentire l'esercizio del diritto a un tetto per le classi e i soggetti meno abbienti. Nel tempo, si comprese sempre meglio che la finalità dell'edilizia residenziale pubblica non era solo, e neppure prevalentemente, quella di assistere (più o meno temporaneamente) le categorie sociali deboli.

Il ruolo dell'edilizia residenziale pubblica non era solo assistenziale, era anche strategico. Era un ruolo di possibile orientamento del mercato privato: ne avrebbe potuto condizionare (solo che si fosse provveduto a riformare le attuali strutture, portando a conclusione le iniziative legislative da tempo avviate) le tipologie, i sistemi costruttivi, i prezzi. Era un ruolo di possibile guida dello sviluppo urbano e della riorganizzazione della città: ruolo decisivo oggi, che la riqualificazione è divenuta obiettivo centrale e il risanamento urbanistico dei complessi pubblici (spesso a cerniera tra le aree centrali e i quartieri delle nuove periferie) potrebbe diventare davvero determinante. Ed era poi, soprattutto negli ultimi anni, la garanzia almeno oggettiva della presenza di uno stock di alloggi da assegnare in affitto: strumento essenziale dunque, in una società moderna, per una sufficiente mobilità dei soggetti sul territorio.

Tutto questo l'improvvida miopia dei governanti e l'opaca distrazione dei legislatori ha voluto cancellare, con i provvedimenti per la liquidazione del patrimonio pubblico (sia quello residenziale che quello demaniale) approvati mentre nel Palazzo risuonavano, sterili e devastanti, le "picconate". Chissà se c'è qualcuno che si è reso conto che, con quei provvedimenti, si liquidava il meglio di un secolo di Stato sociale.

Venezia, 1 febbraio 1992

La citta' sostenibile

Relazione di Edoardo Salzano al convegno Ambiente urbano delle città d'Europa: La città sostenibile, organizzato da PDS - Direzione nazionale - Sezione Ambiente, EP. PE - Groupe pour la gauche unitaire européenne, ENE - Euronordest - Fondazione in Venezia ; Venezia, 4-5 ottobre 1991

Per città sostenibile intendiamo una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.

1. La tutela dell'ambiente: "precondizione per lo sviluppo

"Ogni lettura di un testo, di un documento - e soprattutto di un documento complesso quale é il Libro verde per l'ambiente urbano - é in qualche modo orientata, mirata. Ogni lettura, insomma, è una interpretazione: una traduzione di quel testo nel linguaggio più vicino alla sensibilità e agli interessi culturali del lettore, e alle concrete esigenze che lo spingono a leggerlo. Molti di quanti hanno lavorato a organizzare questo convegno conoscevano già il Libro verde. Hanno deciso di promuovere una iniziativa pubblica che da esso traesse lo spunto perchè hanno ritenuto che fosse particolarmente utile, in questa fase iniziale della vita del Pds, partire da quel documento, da quella formulazione di temi per molti di noi consueti, per tentar di costruire - in un confronto largo - alcuni elementi di una possibile piattaforma per la sinistra italiana. Nell'ambito di questa lettura, che è indubbiamente soggettiva ma che spero non sia troppo distante da quella autentica, è sembrato a noi di cogliere il centro ideale del documento in una consapevolezza che lo pervade. Nella consapevolezza, cioè, che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente (delle qualità del territorio) non c'é sviluppo della società e della città.

2. Una prassi da rovesciare

"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica": così afferma esplicitamente il Libro verde (p. 51). E non è chi non veda come questa impostazione costituisca un ribaltamento completo non solo della prassi finora (e ancora oggi, nel nostro paese) praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione nelle città, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento della qualità insediativa. Forse sentiremo esporre e argomentare una simile tesi nel corso stesso del nostro convegno. Ma sono certo che nelle comunicazioni e negli interventi che si riferiranno a concrete situazioni locali (penso alle città del Mezzogiorno, ma non solo a quelle) ascolteremo testimonianze dirette sulla pervasiva presenza di una simile, obsoleta concezione del rapporto tra sviluppo e qualità urbana. Sentiremo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in variante o in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o alla ricettività turistica, o a quei "centri direzionali" che da un paio di decenni sembravano abbandonati tra i ferrivecchi dell'urbanistica del boom edilizio.

3. Prima la qualità, poi lo sviluppo

Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità urbana. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente urbano è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico. Molte ragioni concorrono a formulare quest'affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamenteambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica. Rinvio per questo aspetto alla lettura delle chiarissime pagine che il Libro verde dedica all'argomento, e rinviosoprattutto alle comunicazioni presentate da autorevoli ambientalisti, che ascolteremo e leggeremo in queste due giornate. E consentitemi di rinviare, oltre che alla scienza, anche alla letteratura e alla poesia. Consentitemi allora di rinviare anche alla rilettura di alcune delle Città invisibili di Italo Calvino, nelle quali molti di noi hanno trovato l'espressione perfetta dei loro sogni, e dei loro incubi.

Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico" (p. 42).

4. La qualità urbana non è più un lusso

Le vicende di ciascuna delle nostre città (le grandi, le medie, le piccole) lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende produttive di beni o di servizi, è in proporzione diretta con la qualità urbana. E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale, un sito, piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di monumenti e luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti; un'attrezzatura urbana efficiente, che consenta al cittadino di accedere con facilità e comodità ai luoghi urbani e di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta. E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere in una gara in cui non é in gioco un premio simbolico o un primato di mero prestigio, non è in palio un Oscar o un Leone d'oro o una citazione nel Guinness dei primati, ma è in gioco una posta molto più concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza. Il governo del territorio - nel suo versante politico e amministrativo come in quello urbanistico - deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana. Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.

5. Qualità, sviluppo:parole ambigue da chiarire

Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato. Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell'organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere. E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità. Non ho la pretesa di aggiungere alcunchè al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che, sul terreno molto pratico che ci è proprio sia come urbanisti che come politici, se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti. Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sè un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sè un segno positivo del suo manifestarsi.

6. Dallo sviluppo sostenibile alla città sostenibile

In effetti, quando parliamo di sviluppo ci riferiamo a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" (1). Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente. Ma se vogliamo applicare quella definizione all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare - come in questo convegno proponiamo nel suo stesso titolo - di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perchè ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perchè la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua quelità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone %H6%(2)%H6%. Su alcuni rilevanti aspetti di questo trend, e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi che abbiamo proposto per questo incontro: temi ai quali si riferiranno, in modo più o meno diretto, le comunicazioni che saranno illustrate.

7. Il paradosso della mobilità: colpa del "modello funzionalista"?

La crisi della mobilità è forse l'aspetto più appariscente e drammatico, e certamente il più emblematico, della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressochè interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto. Il Libro verde attribuisce la scelta della motorizzazione individuale anche ai limiti della pianificazione urbanistica. Precisamente al fatto che "la separazione spaziale promossa dalla teoria funzionalista lascia poche alternative all'automobile privata". In altri termini, aver basato la pianificazione sul principio della rigida separazione, in zone collegate solo dalle infrastrutture del trasporto, delle varie funzioni urbane (le abitazioni, le industrie, gli uffici, i servizi ecc. ) ha contribuito ad aumentare sia la domanda globale di mobilità sia la necessità di uno strumento flessibile come l'automobile. E' un'osservazione indubbiamente giusta, ed essa coglie una delle ragioni per cui la cultura urbanistica ha da tempo criticato la rigidità della "zonizzazione monofunzionale". E tuttavia è un'osservazione che ha un valore pratico nelle regioni d'Europa dove le città si sono sviluppate secondo la pianificazione urbanistica. Mi sembra che nelle città italiane, e soprattutto in quelle dove la crisi del traffico è più drammatica (come Napoli e Roma, Palermo e Firenze) la causa urbanistica sia da attribuire molto più alla mancata pianificazione e alla conseguente anarchia degli interventi privati abusivi e di quelli pubblici in deroga, che alla severa applicazione dei canoni dell'"urbanistica funzionalista".

8. Occorre "rendere l'automobile un'opzione"

"Quale che sia comunque la miscela di cause che determinal'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti. Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade" (p. 44). Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità". Indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante.

9. Il patrimonio culturale. . .

Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti. Forse non ce n'è alcuna oppure, se c'è, è un'eccezione, ed è allora notevole almeno per questo. Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani (magari oggi criticabili e criticati nelle loro regole di fondo) diligentemente attuati; non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente; non abbiamo ricchezza di parchi e boschi nèefficienza di servizi collettivi; non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente. Non abbiamo, in Italia, ciò che tante altre città europee hanno conquistato. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela. E'allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti. Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione "senza opere" che è provocata dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere. (Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte).

10. . . . e la coda della lucertola

Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica, quando leggo le invettive di Argan o di Cacciari. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proposte di Paolo Costa o di Luigi Scano sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, di promuovere quello che Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione". Ma dispero quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiare ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettaremetropolitane nei centri storici, quando vedo i Fori imperiali di Roma o la Piazza San Marco di Venezia ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà, magari sponsorizzati (come il recente episodio veneziano) da autorevoli istituzioni culturali come la Biennale. Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie. E noi stiamo qui come la coda della lucertola, che si agita ancora quando la lucertola è già morta.

11. I confini della città

Puntare sulla qualità urbana significa indubbiamente guardare alla città con sguardo nuovo. Significa analizzare criticamente la "conurbazione senza confini", che gli anni infiniti del boom edilizio ci hanno regalato. Quella "conurbazione senza confini" che la bella mostra dell'Istituto regionale dei Beni storici e culturali dell'Emilia-Romagna ha qualche anno fa illustrato %H6%(3)%H6%, e la ricerca interuniversitaria condotta da Giovanni Astengo ha puntigliosamente documentato %H6%(4)%H6%. L'assenza di confini certi è ciò che connota la mancanza di identità, di chiarezza di appartenenza, di forma definita e riconoscibile. Ed è infatti ciò che primariamente connota la città insostenibile, costruita dallo spontaneismo e dalla miopia, alleati della speculazione, negli anni della crescita senza forma. Voler raggiungere un sufficiente livello di qualità urbana significa allora anche cercare i confini della città vera, della città umana, della città storica: quei confini tracciati nel centro urbano come nel territorio foraneo organizzato, da antiche culture, in funzione della vita della città. E significa poi intervenire nelle periferie senza forma e senza volto, ridisegnare lì i confini - e la struttura, e le forme - di una città di oggi e di domani nella quale tutti possano riconoscersi, tutti possano ritrovare una identità, una comune cittadinanza.

12. Il mercato ha vinto, ma non basta

I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato. Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa: ha vinto la sua storica tenzone con l'alternativa marx-leniniana. Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili (privi cioè di peculiari caratteristiche individuali e perciò sostituibili l'uno all'altro nell'ambito del medesimo genere), il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali. Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene). Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sè capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che dovevamo necessariamente porre all'inizio di questo convegno, anche se non è a questa relazione che tocca svilupparlo, ma alle comunicazioni che le fanno seguito.

13. La riforma del regime degli immobili: non si può farne a meno

A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile - o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili. Una questione che è tanto più importante trattare in quanto essa è totalmente assente dal Libro verde, di cui costituisce l'unica rilevante lacuna. Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.

Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finchè non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.

Su questa affermazione siamo, io credo, largamented'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinti che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi (e non incorrere una volta ancora in una di quelle dichiarazioni d'incostituzionalità che dal 1968 hanno frustrato i tentativi, o conati, di riforma) una riforma dell'attuale assetto del regime immobiliare debba avere alcuni precisi requisiti; alcuni punti fermi, prodotti e raffinati in una elaborazione collettiva che dura da qualche decennio almeno. Varrà la pena di ricordarli.

14. Le nuove regole per gli immobili

Le nuove regole del regime immobiliare dovrebbero, innanzitutto, riguardare, e regolare contemporaneamente tutti i beni immobili: cioé sia le aree sia gli edifici. Le concrete trasformazioni territoriali e urbane riguardano infatti sempre di più il già urbanizzato e il già costruito.

Naturalmente, una riforma adeguata dovrebbe definire la questione sia per quanto riguarda i valori che per quanto riguarda i poteri. Dovrebbe cioè risolvere, oltre alla questione delle indennità espropriative, anche quella dei cosiddetti vincoli urbanistici. Che è una questione molto semplice e molto concreta: si riduce alla questione del potere, da parte dell'autorità pubblica, di decidere le "destinazioni d'uso", o più precisamente di decidere le trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, che sono ammissibili in tutte le unità immobiliari, nonché i loro tempi e modi.

Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà, è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso leggittimo del bene. Tanto antico e consolidato è questo principio che essoera già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865. Ma non è solo questa la ragione per cui non sembra a me che esso debba essere abbandonato per assumere criteri (quale quello del plafond de densité) che sono stati abbandonati là dove sono stati inventati.

E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità diespropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.

Ma c'é un punto, un requisito, che voglio soprattutto sottolineare. Ciò che ai fini della possibilità tecnica di ottenere una sufficiente qualità urbana più interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.

15. Quale pianificazione per la città sostenibile: un obiettivo. . .

"Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale" (p. 11). E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti. Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata. Una pianificazione, come afferma il Libro verde, che vada al di là della rigidità razionalistica dello zoning, al di là dell'urbanistica di Le Corbusier e della Carta d'Atene. Ma anche una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell' espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro. Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.

16. . . . e alcuni indirizzi

Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità". E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, volta per volta e in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie che altrimenti non sarebbero soddisfacibili.

Se la definizione che prima ho proposto per qualità urbana è condiviso, allora dovremmo convenire che si devono considerare di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.

Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.

17. Il futuro e la politica

"Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde (p. 14). Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico-sociale, non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può appparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.

Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine" (p. 40). Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare alcuniquesiti, indubbiamente inquietanti. E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l'affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la nostra responsabilità, siamo davvero all'altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati - non senza ragioni - di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso il piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov'é sbagliato, o far correre una strada dove non serve, o rivestire d'un retino tecnico una sanatoria che non va concessa.

Per finire, un'ultima domanda. E' davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, nè elettoralmente nè socialmente, perchè ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Anche su questo dovremo insieme riflettere.

NOTE

(1) Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988. Preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinchè uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr. E. Goldsmith e N. Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano.

(2) ". . . quelle pompose Babilonie sono città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: CarloCattaneo, "La città come principio", a cura di M. Brusatin, Marsilio, 1972).

(3) Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, I confini perduti, Graphis, Bologna.

(4) IT. URB. 80, Rapporto sullo stato dell'urbanizzazione in Italia, "Quaderni di Urbanistica informazioni, n. 8, 1990.

Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.

Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai regnatori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini. E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.

E’ una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il ruolo che ogni volta svolge di nuovo, ombra sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. E’ stato facile allora, per Rosi, scegliere fare un attore da un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano

Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, investe il territorio italiano.

Trasformazioni che partono dalla città. Sprawl urbano, città “sguaiatamente sdraiata” sulla campagna, fu la prima denominazione del fenomeno quando si manifestò nel mondo anglosassone. Villettopoli, insediamento disperso, oppure città diffusa, città esplosa, viene denominata oggi in Italia, dai critici più severi o da quanti credono scorgervi i segni di una nuova civiltà urbana. In ogni caso, una marmellata di case e ville e villette e tuguri, mescolati a capannoni e capannoncini, arterie variamente intrecciate e piazzali, shopping centers e rutilanti outlet factories. Le nuove forme informi di quella “repellente crosta di cemento e asfalto” di cui s’indignava Antonio Cederna, che via via cancella la natura e la storia, le testimonianze impresse nel nostro territorio, nella sua forma, nel suo paesaggio.

E partono anche da fuori, dal territorio extraurbano, dove la natura lavora meno disturbata dall’azione superba (e spesso squallida) dell’uomo: si manifesta nelle distese coperte dalle selve e dai boschi, dalla macchia e dai pascoli, dalle campagne coltivate nelle pianure o sulle coste terrazzate o sulle ordinate colline. Là dove le trasformazioni non sono minori e non hanno minore incidenza sul futuro dell’uomo, sulla sua vita, sulla sua sicurezza: sui modi della sopravvivenza di quel vasto deposito di risorse naturali (la terra, l’acqua,la vegetazione e la fauna, la biodiversità, l’energia solare imprigionata dalle masse vegetali) e di memoria e bellezza (i mille paesaggi che compongono la variegata facies della nostra Penisola).

Pochi indagano, misurano, valutano queste trasformazioni, offrendo così informazioni attendibili e sicure a chi deve governare. E pochi dalle informazioni disponibili traggono valutazioni, propongono politiche, suggeriscono azioni. Tra i pochi, Antonio di Gennaro. Questo libretto è un ulteriore testimonianza del suo lavoro e della sua utilità. Lo ha scritto con Francesco Innamorato, con cui da anni esplora, impiegando metodi rigorosi e intuizioni audaci, tecnologie raffinate e appassionate escursioni, i territori rurali delle sue regioni. A cominciare dalla Campania. cui è dedicato questo volume.

Tra tutti gli studi che indagano sulle trasformazioni urbane e territoriali questo lavoro si segnala per due caratteristiche.

In primo luogo, assume come soggetto della sua indagine il territorio. Da mero supporto delle utilizzazioni urbane, delle nuove forme della città, del modo in cui gli uomini soddisfano le loro esigenze di abitazione, movimento, ricreazione, lavoro, oppure delle attività del settore agro-silvo-pastorale e della vita e consistenza delle aziende volte alla produzione, il territorio diventa il protagonista essenziale dell’indagine: la sua storia, la sua forma, la sua bellezza sono il valore implicito nell’analisi.

In secondo luogo, e di conseguenza, attribuisce grande rilievo allo strumento della cartografia: cioè della rappresentazione fedele del territorio. In altre occasioni di Gennaro ha polemizzato con quanti ritengano di poter studiare il territorio, i suoi usi, le sue trasformazioni facendo ricorso unicamente ai moduli descrittivi forniti dalla lettura storica, dalle fonti statistiche, dalla interpretazione economica. In questo, come in altri suoi lavori, conferma come l’uso corretto dello strumento cartografico sia essenziale per comprendere realmente che cosa sul territorio avviene, che cosa lo minaccia, che azioni possono salvarlo.

La Casa delle libertà sta lavorando a una legge urbanistica coerente con gli interessi del proprio blocco sociale. Per comprenderne la natura basta considerarne due elementi.

Il primo è l’abbandono del principio secondo il quale tutto il territorio nazionale deve essere governato mediante atti di pianificazione assunti dagli enti territoriali elettivi. Secondo la proposta le regioni possono invece individuare a loro piacimento sia “gli ambiti territoriali da pianificare”, sia “l’ente competente alla pianificazione”.

Ma la scelta più significativa è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati”. Nella concreta situazione italiana, ciò significa l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.

Questa impostazione è talmente distante da quella non solo della sinistra, ma anche di una corretta tradizione liberale europea, da risultare incomprensibile che, a sinistra e al centro, vi sia ancora chi si attarda in una logica di emendamenti e che addirittura si applauda al ribaltamento della gerarchia tra interesse pubblico e interesse privato (immobiliare). Come fa l’INU, che in un suo documento dichiara di condividere senz'altro che la funzione di governo del territorio “possa essere svolta anche con la partecipazione e il contributo diretto di soggetti privati”.

Intendiamoci. Negare l’impostazione del rapporto pubblico/privato sotteso all’impostazione della Casa delle libertà non significa affatto negare la “contrattazione” (quella esplicita, non quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). Essa fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.

Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno di avere l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e magari contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?

E’ un sistema, quello della pianificazione, che funziona bene? Certo che no. Da molti decenni si propongono le modifiche necessarie. Ma i risultati sono stati raggiunti solo in parte molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire la destra.

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Eddytoriale 39 del 13 marzo 2004

Per affrontare le questioni poste da Gazzetta Ambiente occorre partire da lontano. Occorre innanzitutto definire l’oggetto attorno al quale ragioniamo: il paesaggio. A me preme allora ricordare che il paesaggio è il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura. Nel paesaggio, nella forma del territorio così come ci appare, natura e storia si integrano variamente nelle varie parti del pianeta. Essi formano così tipi diversi di paesaggio (naturale, agrario, urbano), ciascuno dei quali è caratterizzato da genesi, caratteri, significati, utilità, problemi diversi. È proprio la loro genesi, caratterizzata dalla sintesi tra evento e sito, che definisce quindi l’identità dei luoghi: elemento costitutivo della stessa identità delle comunità, nazionali e locali, che quei luoghi abitano. Prodotto della storia, e identità dei luoghi e delle comunità: questi sono gli attributi del paesaggio che soprattutto mi interessano.

Non sto proponendo qui una particolare interpretazione del paesaggio. Se l’accentuazione del ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi nella comprensione dei suoi valori) è propria di alcuni rilevanti scuole di pensiero (da Emilio Sereni a Piero Bevilacqua, per rimanere in Italia), nella vicenda culturale italiana ed europea il paesaggio è stato oggetto di interpretazioni diverse: da quella estetica a quella storicistiche, dall’”archeologia del territorio” alla “ecologia del paesaggio”. Non credo però che si debba scegliere tra l’una o l’altra interpretazione. Non si tratta dell’espressione di posizioni antitetiche, ciascuna delle quali si contrapponga alle altre, ma della messa in luce di differenti punti di vista, ciascuno dei quali sottolinea uno degli aspetti del paesaggio, rivelandone la ricchezza e la complessità. Il paesaggio, la storia, l’uomo

Sottolineare, come mi sembra giusto fare, il ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi del suo valore) significa porre l’accento sul ruolo dell’uomo. Occorre allora riconoscere che l’intervento dell’uomo sulla natura ha avuto ed ha segni diversi. A volte (in certe epoche, in certe società, in certi luoghi) un ruolo positivo: ha costruito paesaggi (urbani, agrari, naturali anche) ai quali riconosciamo oggi valore d’insegnamento e valore estetico: con la semplice manutenzione, oppure con la formazione di nuovi paesaggi agrari, oppure con la creazione di opere integrate nel paesaggio preesistente, l’uomo ha aggiunto insomma valore alla forma della Terra.

Ma altre volte (con l’incuria e l’abbandono, con l’eliminazione dei segni del passato in nome del profitto immediato, con l’artificializzazione dissennata) ha sottratto valore e distrutto il patrimonio culturale e storico costituito dal paesaggio, ha ridotto la ricchezza della civiltà umana. Una domanda inquietante dobbiamo allora proporci.

È in grado la società di oggi, la cultura che essa esprime, di porsi nei confronti della natura e della costruzione del paesaggio nello stesso modo nel quale si sono posti gli uomini il cui prodotto oggi ammiriamo, e nel quale riconosciamo una componente essenziale della nostra identità? I paesaggi urbani e periurbani la devastazione delle campagne, la distruzione di ambienti naturali, realizzati in Italia nell’ultimo mezzo secolo, non lasciano dubbi in proposito, e invitano alla massima attenzione di fronte alla tentazione di “abbassare la guardia” dell’azione di tutela.

Utilità del paesaggio

Per invertire la tendenza, per imparare di nuiovo a governare la natura senza negarla, occorre che la tutela del paesaggio diventi una priorità sociale. Perché ciò avvenga, è necessario rendere evidente a tutti quali sono le ragioni per cui è socialmente necessario tutelare e arricchire la qualità del paesaggio (dei paesaggi). Perché, insomma, il paesaggio serve?

In primo luogo, il paesaggio è memoria. Il paesaggio è un deposito di storia. In esso è rappresentato e testimoniato il nostro passato, il passato della nostra civiltà. Esso è dunque il fondamento della identità delle diverse comunità che abitano il pianeta (dalle nazionali alle locali). Esso serve (a noi, e alle generazioni future) perché è una insostituibile risorsa della civiltà, è la materia vitale che alimenta il futuro. Basterebbe questo a comprendere come una società che voglia esistere debba custodire il paesaggio come una propria risorsa primaria.

Ma il paesaggio è anche risorsa economica. Sempre più, nell’economia moderna, tendono ad accrescere il loro peso (fino a diventare dominanti) i settori legati alla produzione di “beni immateriali”, tra i quali i comparti legati alla ricreazione e al benessere fisico, al turismo, alla conoscenza e al godimento estetico assumono crescente rilievo. In moltissime aree dell’Italia (e dell’Europa) il paesaggio di qualità è luogo e condizione per produzioni enogastronomiche “di nicchia”, caratterizzate dalla qualità e dall’identità, fondamentali sia lo sviluppo economico e sociale delle aree coinvolte che per la conservazione di valori universali.

A proposito del ruolo economico del paesaggio nei prossimi decenni non va trascurato il peso che può avere per lo sviluppo dell’occupazione in molte regioni italiane un’azione di manutenzione del suolo, di riduzione dei rischi e dei costi del degrado ambientale, di avvio di un’azione di presidio ambientale. Si tratta di ricostituire e manutenere ambienti naturali distrutti dall’incuria dell’uomo (e minacciosi per la sopravvivenza nelle aree a valle del degrado), oppure ambienti caratterizzati da un assiduo rapporto di costruzione del paesaggio agrario.

Alla qualità del paesaggio è legata anche la qualità della vita: La bellezza dei panorami, l’armonia dei luoghi nei quali si svolge la sua vita sono essenziali per il benessere della donna e dell’uomo, del bambino e dell’anziano. Nell’epoca della globalizzazione, la concorrenza tra le regioni e le città assume sempre di più la qualità dell’ambiente (come componente della qualità della vita) come un valore economico da mettere in gioco nel “marketing urbano”. Ciò pone, una volta ancora, l’esigenza economica di migliorare la qualità del paesaggio anche là dove (come nelle periferie urbane) non si è stati capaci di creare qualità nuove, ma solo di distruggere quelle preesistenti.

Indirizzi per la pianificazione

Obiettivo primario è quello di conferire piena efficacia alla protezione e al godimento dei beni paesaggistici (di quelli esistenti e di quelli da realizzare) da parte delle generazioni presenti e future. La pianificazione territoriale e urbanistica, come insieme di metodi e strumenti volti ad assicurare coerenza alle trasformazioni del territorio garantendo trasparenza e partecipazione al processo delle decisioni, è l’ambito entro il quale tale obiettivo può essere raggiunto.

A me sembra particolarmente significativo, da questo punto di vista, il modo in cui la legge 431/1985 (la cosiddetta Legge Galasso) ha posto le premesse per innovare il sistema di pianificazione. La legge è stata attuata solo parzialmente, e spesso la sua attuazione è stata una elusione delle sue finalità. Ma l’esperienza di attuazione di quella legge (là dove un’attuazione positiva vi è stata) induce ad sottolineare, e a proporre alcuni indirizzi particolarmente significativi. Li enuncerò in termini molto sintetici:

La “attenta considerazione delle valenze paesistiche e ambientali”, che la legge 431 chiede alla pianificazione ordinaria perché abbia efficacia, deve diventare una costante nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale.

Più precisamente, la prima fase della pianificazione deve essere costituita dall’assidua ricognizione delle qualità naturali e storiche del territorio, come si tentò di fare nell’esperienza della Regione Emilia Romagna del 1985-86 e come hanno prescritto, in modi più o meno chiari, le nuove leggi urbanistiche della Toscana e della Liguria.

La ricognizione delle qualità del territorio deve condurre precettivamente all’individuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili con le caratteristiche proprie di ogni unità di spazio, come condizionenon negoziabile per ogni decisione sulle trasformazione da promuovere o consentire;

La tutela attiva del paesaggio richiede che nel processo di pianificazione vengano integrati tutti gli strumenti disponibili: le politiche e le azioni di settore, gli incentivi finanziari, la partecipazione a programmi e progetti nazionali e sovranazionali, il ricorso all’imprenditoria privata. Questi strumenti non devono essere adoperati in contrasto alla pianificazione oppure come alternativa ad essa, ma - appunto - come suoi strumenti.

Sottolineare l’utilità della pianificazione (come mi sembra indispensabile) significa riconoscere la parzialità, e quindi l’insufficienza della protezione passiva costituita dai vincoli di tutela). Ma credo che il clima culturale e morale che stiamo attraversando (gli anni Ottanta non finiscono mai!) impongano al tempo stesso di ribadirne l’utilità. I vincoli, ancorché non sufficienti, sono utili sotto un duplice profilo. In primo luogo, il vincolo è necessario come difesa temporanea, in attesa che la pianificazione consenta di articolare le politiche, sia attive che passive, di tutela. In secondo luogo perché (come dimostra l’esperienza della legge 431/1985) il vincolo agisce strumentalmente come sollecitazione alla pianificazione, e quindi alla possibilità di una tutela più compiuta e di una fruizione dei beni paesaggistici che ne garantisca la conservazione.

Sussidiarietà e intesa

Un ultimo punto vorrei brevemente toccare. La tutela e valorizzazione del paesaggio esprime una pluralità d’interessi collettivi: da quelli nazionali a quelli locali. Occorre evitare sia il rischio del conflitto paralizzante sia quello della negazione di uno o l’altro degli interessi coinvolti.

Il principio di sussidiarietà è il criterio utilizzabile per individuare a chi spetta la responsabilità della scelta in relazione agli oggetti e aspetti su cui occorre decidere.. Lo è, beninteso, se è assunto nella sua accezione corretta, quella elaborata nella recente cultura europea. Non il principio di sussidiarietà inteso come “tutto il potere alla periferia”, ma come riconoscimento del fatto che per ogni decisione c’è un livello giusto al quale quella decisione può essere presa efficacemente. Ma valga il testo ufficiale:

Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità [1],

È davvero difficile pensare che il paesaggio, essendo elemento fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, non rientri pienamente nelle responsabilità (e delle competenze) dello Stato, essendo appunto questione che si pone a una scala nazionale.

Ma se gli organi centrali dello Stato hanno la responsabilità dell’azione di tutela, essi hanno anche quella di promuovere la concorrenza dei poteri nell’azione di tutela. Se la responsabilità primaria in materia di paesaggio spetta allo Stato, anche i livelli di governo regionale e locale sono legittimati (credo d’averlo argomentato a sufficienza) a concorrere con esso nella azione di individuazione, definizione, tutela.

Come può esercitarsi la concorrenza nel campo della pianificazione territoriale e della tutela del paesaggio? Anche qui vi è un principio, e un istituto già introdotto nel nostro ordinamento, che possono aiutare. È il principio secondo il quale gli strumenti di pianificazione, laddove disciplinino beni dello Stato in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possono diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato. Questo principio, del resto, stato introdotto recentemente nell'ordinamento, seppure limitatamente alla pianificazione provinciale, dall'articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, il quale stabilisce che:

la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale [...] assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.

Come propone l’associazione Polis, tale testo normativo può costituire, può essere esteso al di là del suo specifico contesto, e costituire un modello sulla cui base affrontare compiutamente la questione. È un modello, del resto, che è già stato più volte proposte e applicato in concrete esperienze di governo del territorio e può dar luogo, come è stato osservato, a utili semplificazioni e snellimenti delle procedure. Ciò che è nell’interesse di tutti.

[1] Trattato di Maastricht, art.3B.

LA TELENOVELA URBANISTICA

E' davvero un serial la vicenda del regime degli immobili: più lungo di Dinasty, più brutto di Beautiful, più angoscioso di Twin Peaks. Passerà ancora molto tempo, temiamo, prima che quella vicenda possa considerarsi conclusa ed esser raccontata come un vero, nobile romanzo. Passerà molto tempo (é questo che più conta) prima che vi possa essere certezza del diritto sui contenuti economici delle trasformazioni urbane, e chiarezza di poteri nel loro governo.

Mentre scriviamo, il farraginoso elaborato risultante dalla originaria proposta dell'on. Cutrera e dalle abbondanti superfetazioni prodotte dal sovrapporsi di infiniti intarsi emendativi (nei quali si é particolarmente distinto il relatore alla Camera dei Deputati, l'on. Guido D'Angelo) é in discussione nella Commissione Ambiente della Camera.

L'ultimo testo che conosciamo (il lettore lo troverà nel dossier di questo numero) ha una particolarità interessante: apre una finestra sul futuro, ci fa comprendere quale sarà, secondo la volontà della regia, il contenuto delle ultime puntate del serial. E' racchiuso nell'art.22, intitolato "Norme transitorie". (E' sempre in questi angolini nascosti delle leggi che bisogna guardare, per comprendere ciò che realmente avrà efficacia. Ricordate il famoso "anno di moratoria" della legge ponte del 1967, che riempì l'Italia di tanto cemento quanto non se ne era realizzato in un decennio?).

L'articolo 22 afferma, al primo comma, che "le disposizioni della presente legge relative alla determinazione dell'indennità di espropriazione per le aree edificabili nonché del contributo sulla maggiore utilizzazione edificatoria hanno applicazione dopo diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge".

Avete capito bene. Secondo il legislatore questa legge, che ha impegnato centinaia di migliaia di ore di lavoro di senatori e deputati, quando finalmente sarà stata approvata da entrambi i rami del Parlamento e, munita dela firma del Presidente della Repubblica, sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, non entrerà in vigore: resterà sospesa per un anno e mezzo. In questo periodo si ricorrerà per gli espropri, come stabilisce il medesimo articolo, alla legge di Napoli del 1885.

Perché un così lungo periodo di moratoria? Chi lo chiedesse ai parlamentari, si sentirebbe probabilmente rispondere che questo é il tempo occorrente per mettere a punto i meccanismi necessari perché la legge funzioni. Noi saremo certamente maliziosi e irrimediabilmente "dietristi", ma immaginiamo uno scenario diverso, meno europeo e più levantino.

La legge sarà approvata. Il sen.Cutrera, autore dell' originaria impostazione della nuova normativa (ahimé quanto degradata nel tempo!), uscirà formalmente vincitore dalla vicenda. Come Bucalossi, come Galasso, avrà anche lui la "sua" legge. Potrà adoperare l'esito della sua iniziativa per raccogliere i consensi (indubbiamente meritati per le qualità intrinseche del personaggio) nel corso della vicina campagna elettorale.

Nel frattempo, si applicherà per gli espropri una legge sperimentata (mai ricusata dalla Corte costituzionale), per un periodo transitorio. Alla scadenza, una provvidenziale leggina, approvata da un distratto Parlamento, ne prorogherà per la prima volta gli effetti. Di proroga in proroga, la norma transitoria diventerà di fatto permanente. Così, anche i democristiani, che le elaborate invenzioni del sen. Cutrera non hanno mai convinto, e che preferiscono la tranquillità del vecchio alle incertezza del nuovo, avranno vinto.

Una soluzione all'italiana. Una soluzione della quale, nel merito di entrambe le sue conseguenze, non avremmo da dolerci: perché il sen. Cutrera merita certamente la rielezione, e perché la legge di Napoli é certamente meglio di quel pasticciaccio che il Parlamento ha prodotto. Peccato, però, che la riforma del regime degli immobili si allontani ancora nel tempo, che la telenovela debba proseguire ancora per tanti, tanti anni. (75 righe)

IL PRG AUTODEROGANTE

Non solo nelle leggi: anche nei Prg bisogna guardare con attenzione negli angolini nascosti delle norme. Sotto il vestito magari accattivante delle tavole e dei disegni, dietro le intenzioni argomentate e convincenti delle relazioni, si nasconde spesso la peggiore deregulation urbanistica. Vogliamo pubblicarne un esempio. Non perché sia eccezionale, o eccezionalmente mistificatorio. No. Anzi, proprio perché, nella sua innocenza, é in qualche modo tipico.

Parliamo del Prg di Rimini, in corso d'adozione. Le sue norme contengono un comma che riproduciamo integralmente, dall'art.2.01. "Il Consiglio comunale (...), previa individuazione e perimetrazione delle aree, approva progetti speciali per servizi e attrezzature di generale interesse volti a sostenere e riqualificare l'ambiente nonché a promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano, su iniziativa di soggetti pubblici e/o privati, anche in variante alle previsioni di Prg secondo le speciali procedure semplificate previste dalle leggi".

Se abbiamo capito bene, il Consiglio comunale può accettare proposte in contrasto al Prg ("anche in variante alle previsioni"), anche di privati, che dichiarino di voler realizzare un "progetto speciale", purché esso sia atto a "promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano". Dove il Prg prevede servizi di quartiere, o un parco pubblico, o una zona agricola, il proprietario, o un qualsiasi altro soggetto d'accordo con lui, può quindi proporre un edificio, magari "intelligente", per uffici, o un centro congressuale, o un villaggio turistico, o una succursale di Disneyland?. Sembra di si.

Gli urbanisti si lamentano sempre delle deroghe ai piani introdotte dalle leggi. Era ora che qualcuno si decidesse a fare un piano capace di autoderogarsi. (32 righe)

S.D.O. O NO?

La previsione strutturalmente più significativa del Prg di Roma del 1962 era costituita da quello che, negli anni successivi, fu definito "Sistema direzionale orientale" (Sdo). Si trattava di un "asse attrezzato" (nel disegno di allora, una grande autostrada urbana), e da "centri" e "zone" direzionali. Collocato nelle aree libere a metà strada tra la cintura ferroviaria che stringe i quartieri centrali e il Grande raccordo autostradale, lo Sdo avrebbe dovuto costituire il "nuovo centro città", rompere l'espansione a macchia d'olio e svolgere una funzione strategica per la sua riorganizzazione.

Molti anni sono passati da allora. Lo Sdo non é stato realizzato. C'é chi dubita sulla validità attuale della proposta. C'é invece chi ritiene che, opportunamente ridimensionato in alcune sue previsioni (quelle infrastrutturali e quelle volumetriche) e riconvertito nelle sue funzioni, abbia ancora un'importanza strategica per risolvere tre problemi della città.

Tre problemi nodali per il suo futuro. Si tratta del problema della mobilità, se lo Sdo servirà a riorganizzare la rete della grande viabilità nel settore orientale abbandonando le ipotesi autostradali e, soprattutto, costruendo prioritariamente alcune nuove linee del trasporto collettivo su ferro. Si tratta del problema della riqualificazione dei giganteschi e slabbrati quartieri circostanti, poveri di qualsiasi attributo di civiltà. DE si tratta infine del problema del decongestionamento del centro storico, mediante il trasferimento dei ministeri e la sostituzione a questi di utilizzazioni "leggere".

Numerose ipotesi sono state avanzate per le modalità della realizzazione dello Sdo. Scartata, "naturalmente", quella di attrezzare gli uffici comunali, scartate per fortuna anche quelle basate sui criteri della lottizzazione convenzionata, si é approdati a una soluzione che, nonostante un'ambiguità di fondo nel rapporto tra pubblico e privato, non é priva di una sua convincente efficacia. Si é deciso cioé di affidare in concessione a un consorzio di imprese la progettazione urbanistica del sistema e di espropriare preliminarmente le aree. Il finanziamento per l'avvio dell'operazione é già stato stabilito dalla Legge speciale per Roma Capitale.

Nell'ottobre scorso sono state firmate le convenzioni che danno il via all'operazione. Nello stesso mese si sono avute tre notizie. La prima: il Comune avrebbe concesso al Ministero della Difesa di costruire un edificio militare (... mc circa) in una vastissima area dello Sdo, ponendo così una pesantissima ipoteca sulla sua fattibilità. La seconda: con una interpretazione lassista delle norme il Comune starebbe consentendo la realizzazione di numerosi fabbricati direzionali nelle zone industriali, favorendo in tal modo l'ulteriore espansione del "sistema direzionale diffuso" che già caratterizza la Capitale. La terza: sarebbe definitivamente confermato lo spoostamento del Ministero della Sanità sulle rive sud del Tevere, alla Magliana.

Sembra insomma che il Comune abbia deciso, senza dichiararlo esplicitamente ma lasciandolo intendere nei suoi atti concreti, di abbandonare lo Sdo. Ma e' mai possibile realizzare una simile opera contro la volontà del Comune? Non sembra proprio. Tanto più, se si considera che il nuovo significato che allo Sdo si vuole dare, la soluzione insomma di quelle tre questioni sopra ricordate, rendono indispensabile che il Comune, contestualmente alla progettazione dello Sdo, proceda nella formazione degli atti necessari per la pianificazione del centro storico e dei quartieri periferici, nonché nel completamento del sistema della mobilità.

C'é chi ritiene che, l'anno prossimo, la commemorazione del trentennale del Prg del 1962 debba avere, come suo piatto forte, la dichiarazione dell'abbandono dell' avventurosa proposta dello Sdo. E si comincerà allora a discutere se le aree ancora libere dovranno essere tutelate e destinate a parco, oppure se dovranno essere edificate in continuità con u quartieri limitrofi. Si troverà, comunque, un compromesso. Tornerà (é facile prevederlo) la proposta della lottizzazione convenzionata. I proprietari, piccoli e grandi, vecchi e nuovi, tireranno in ogni caso un sospiro di sollievo. I grandi problemi della funzionalità della Capitale d'Italia aspetteranno qualche decennio ancora.

E' PASSATO UN QUARTO DI SECOLO

Fu venticinque anni fa. Da Agrigento a Venezia, in pochi mesi l'Italia fu squassata da frane e alluvioni che rivelarono la fragilità della stessa base fisica della vita sociale e personale degli italiani.

E' passato un quarto di secolo. Molte parole, molte indagini, molte proposte, molte iniziative legislative. Ma nel concreto, pochissime cose sono avvenute che abbiano valso davvero a sanare le ferite allora aperte. E pochissime cose sono cambiate (qualcosa, forse, anche in peggio) negli atteggiamenti morali e culturali, e nel modo di di operare con gli strumenti della tecnica e dell'amministrazione. Non a caso, la stampa ha ricordato il novembre 1966 sotto il segno d'una sostanziale continuità.

Per conto nostro vogliamo ricordare il quarto di secolo che da allora é trascorso pubblicando stralci di un editoriale che Giovanni Astengo scrisse allora su Urbanistica (n.48). Ci sembra purtroppo che quelle parole valgano ancora.

Mi sembra che alcune cose avvenute nel nostro paese negli ultimi tempi, non soltanto offrano più d'una conferma alle tesi che abbiamo esposto nei documenti preparatori di questa Conferenza, ma soprattutto illuminino con una luce diversa, più cruda e più chiara, alcune delle affermazioni che abbiamo fatto, delle analisi che abbiamo avanzato, delle esigenze che abbiamo prospettato.

Voglio soffermarmi brevemente su due punti, tra loro stretta­mente collegati: le tendenze e le iniziative che si manifestano da parte delle grandi aziende capitalistiche, e il ruolo necessario e possi­bile del tessuto delle autonomie locali.

Già nell'autunno scorso avevamo individuato e denunciato, pra­ticamente in tutti i documenti preparatori di questa Conferenza, il senso che assumevano le iniziative delle grandi aziende monopoli­stiche, pubbliche e private, nel settore del' turismo e del tempo libero. A quelle iniziative noi attribuivamo un significato negativo non soltanto per gli effetti che producevano all'interno del settore, ma anche per il più grande disegno politico che ad esse vedevamo sotteso.

Quel disegno politico è diventato oggi del tutto esplicito e chiaro. Con il « programma di emergenza » di Rumor e Giolitti, con i « progetti speciali » predisposti su misura per la FIAT, la Monte­dison,l'Efim, l'IRI, l'ENI, con l'istituto della « concessione » pro­pagandato dai professorini del Ministero del Bilancio, noi abbiamo visto manifestarsi, in tutta la sua globalità e coerenza, una strategia di lungo periodo; una strategia che mira, con l'alibi di una presunta e non dimostrata « efficienza » e « modernità », a utilizzare strumen­talmente la grande domanda insoddisfatta d'investimenti sociali per sostituire, a una Repubblica fondata sugli istituti democratici e sul primato della politica, uno Stato fondato sugli interessi immediati delle grandi aziende monopolistiche e sul primato del profitto.

Questo è il senso che il nostro partito, con la grande maggio ranza delle Regioni e del movimento autonomistico, con il movimento sindacale, ha riconosciuto e contestato nelle proposte del « piano d'emergenza ». Ed è grazie all'opposizione che in tal modo è venuta a determinarsi, che l'ambizioso progetto dei Cefis, degli Agnelli e dei Fanfani sembra oggi ridimensionarsi e offuscarsi. Ma credo che commetteremmo un grave errore se ritenessimo d'aver già vinto, con il successo d'una battaglia, una guerra che è solo alle prime scara­mucce.

In realtà, nell'analizzare il ruolo delle grandi aziende monopo listiche nel settore del turismo e del tempo libero, noi non abbiamo affatto sottovalutato gli elementi che forniscono, alle proposte di

quelle aziende, una oggettiva forza di convinzione e una presa reale. Di fronte a una offerta turistica atomizzata, irrazionale, largamente dominata da elementi di speculazione, divoratrice delle risorse natu­rali e ambientali; di fronte all'incapacità di questo tipo di offerta di fornire una risposta adeguata alla domanda di massa del tempo libero, le grandi aziende monopolistiche hanno veramente buon gioco.

Occorre fornire - abbiamo detto - una risposta che sia alterna­tiva rispetto a quella del monopolio, ma che sappia misurarsi con la novità dei problemi e con la nuova qualità e quantità della domanda. Una risposta che sia basata su un ruolo nuovo dell'impresa privata piccola e media, non più intrisa di elementi di speculazione e di rapina; che sia basata su una rigorosa ed efficiente organizzazione della domanda, gestita dalle associazioni democratiche, dai sindacati, dagli enti locali, da una scuola profondamente rinnovata; che sia basata, soprattutto, su una capacità nuova dei Comuni e delle Regioni di amministrare il territorio e le sue trasformazioni e utilizzazioni, adoperando tutti i possibili strumenti per rendere concreto il prin­cipio, per noi irrinunciabile, che l'ambiente, la natura, il paesaggio, la cultura, rappresentano aspetti diversi di un patrimonio collettivo e sociale, che non può essere utilizzato a vantaggio di pochi privi­legiati.

Ora il punto che voglio sottolineare è che la nostra capacità di reagire vittoriosamente e di battere fino in fondo la strada delle grandi centrali capitalistiche è interamente affidata alla nostra capa­cità di realizzare nel concreto, e anche in tempi molto brevi, quella alternativa che proponiamo.

Non nascondiamocelo, compagni, poiché faremmo un errore che pagheremmo a caro prezzo: non solo l'alibi, ma la concreta occasione par passare, è fornita alle grandi aziende dallo stato profondo d'inefficienza, d'incapacità amministrativa, tecnica ed ecenomica, in cui 25 anni di gestione democristiana del potere hanno lasciato precipitare gran parte degli strumenti dell'azione pubblica, a livello degli organi centrali dello Stato come a livello delle Amministrazioni locali.

Non è un caso se le :grandi aziende capitalistiche hanno scelto come terreno di pascolo il Mezzogiorno e le zone montane. Non è un caso se quelle stesse aziende si presentano invece in punta di piedi

e col cappello in mano nelle regioni dove il tessuto dei poteri locali è forte, consolidato dalla tradizione e dall'esperienza politica, radicato nelle masse popolari, consapevole ed efficiente.

Per battere l'avversario di classe nelle forme in cui esso oggi è costretto a presentarsi, dobbiamo fare un salto di qualità. Un salto di qualità che non può manifestarsi soltanto con una nuova e diversa produzione legislativa, ma che si realizza soprattutto nella gestione e nell'amministrazione quotidiana, e che sa però trasfondere in questa la carica politica e ideale che sappiamo impiegare nelle grandi battaglie.

Dovremmo fare un'analisi seria, io credo, degli strumenti che abbiamo già conquistato nelle battaglie generali e nazionali, e che non riusciamo ad utilizzare; scopriremmo di avere un arsenale coperto spesso di polvere. Voglio fare un esempio solo. Nel 1971 abbiamo conquistato, con una lotta lunga e faticosa, una legge che ci con­sente - fra l'altro - di espropriare, praticamente senza limitazioni, tutte le. aree da destinare agli insediamenti turistici e al tempo libero. Con questa legge il Parlamento ha messo nelle mani dei comuni - abbiamo detto - « uno strumento che può essere deci­sivo non solo per abbattere la speculazione fondiaria vecchia e nuova ma anche per promuovere forme nuove e avanzate di turismo ».

Ebbene, oggi, in Italia, quanti Comuni sono in grado di uti­lizzare e gestire questo strumento? Quanti Comuni hanno la capacità tecnica ed amministrativa, oltre che politica, di sfruttare le possibilità che l'art. 27 della 865 loro offre? Quante Regioni hanno promosso una politica di incentivazioni finanziarie e procedurali per aiutare e sollecitare i Comuni in questa direzione? Quanto impegno politico si è speso, abbiamo speso, per aiutare i Comuni a rafforzare le pro­prie strutture tecniche, per persi concretamente in una dimensione comprensoriale, per rendersi capaci di utilizzare gli strumenti strap­pati dal movimento di lotta?

E' indubbio che possiamo registrare più di una iniziativa e più di un successo in questa direzione. Ma a parte il fatto che spesso adoperiamo più spazio; sui nostri giornali, per illustrare le mirabilia di un impianto di depurazione che per spiegare i contenuti e gli strumenti di esperienze avanzate nella politica del territorio, a parte questo, mi sembra che stentiamo ancora a porre in modo genera­lizzato il problema della rifondazione, del rafforzamento, del salto di qualità degli enti elettivi come un grande e centrale problema poli­tico e ideale.

Credo che sia necessario un deciso impegno del partito, di noi tutti, in questa direzione. Solo a questa condizione, solo alla condi­zíone di riuscire a costruire un tessuto di istituti elettivi democratici ed efficienti in tutto il Paese, e soprattutto là dove esso è oggi più stentato e precario, solo così potremo riuscire a far passare la linea alternativa che proponiamo per i problemi del turismo e del tempo libero.

Non è un caso, d'altra parte, se oggi registriamo un attacco con­centrico contro 1e autonomie locali, o più in generale, contro gli istituti rappresentativi. Se ci riflettete, noi siamo riusciti a porre al centro dell'attenzione del paese una serie di problemi, siamo riusciti a far emergere nelle masse lavoratrici e popolari una serie di esi­genze, siamo riusciti a far prevalere nell'opinione pubbblica intera una serie di proposte e indicazioni nostre, che realmente sono capaci di mutare il quadro complessivo della società italiana. Quando noi parliamo - nel caso specifico di cui qui ci occupiamo - di un turismo come diritto e come servizio sociale, noi realmente intro­duciamo una proposta rivoluzionaria, una proposta che tende a tra­sformare fin dalle radici il modo in cui fino a oggi è concepito il turismo e il tempo libero. E' una reale e integrale alternativa rispetto a un tempo libero dominato dall'individualismo, dal privatismo e dal privilegio, a un turismo come evasione e come fuga dall'alienazione del lavoro verso un'alienazione diversa e complementare

E questa nostra proposta è forte, ed è virtualmente vincente, non solo perché è l'unica pienamente omogenea al carattere sociale della classe operaia, ma anche e soprattutto perché offre una base e uno strumento serio alla politica delle alleanze della classe operaia: nei confronti dei ceti medi produttivi, che solo in una seria program­mazione possono trovare l'occasione per uno sviluppo senza crisi laceranti; nei confronti delle popolazioni residenti nei luoghi del turi­smo, che solo in un turismo strettamente integrato alle economie.

Pianificazione

Scritto per la rubrica “Glossario” de I frutti di Demetra, bollettino di storia e ambiente, n. 5/2005, marzo 2005. Tratta, molto sinteticamente, della pianificazione territoriale e urbanistica e della pianificazione strategica

La moderna pianificazione nasce sostanzialmente quando l’affermazione del sistema capitalistico di produzione, e il parallelo affermarsi della borghesia, si trovano a fare i conti con alcune contraddizioni nel funzionamento della città: contraddizioni che la spontaneità del mercato - rivelatasi decisiva per sviluppare la produzione - non solo non riusciva a risolvere ma anzi aggravava.

Oggi generalmente si intende per pianificazione territoriale ed urbanistica il metodo, e l’insieme degli strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni. Le trasformazioni territoriali oggetto della pianificazione sono quelle, sia fisiche che funzionali, suscettibili (singolarmente o nel loro insieme) di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma di parti significative del territorio, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

Gli obiettivi posti alla pianificazione variano in relazione al contesto storico. Tutti i possibili sistemi di obiettivi oggi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.

Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazione sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.

Uno dei compiti della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti. Questa è la ragione per cui in Italia la pianificazione è sempre stata (fino alle recentissime rotture costituzionali) competenza specifica ed essenziale degli istituti elettivi di primo grado, nei quali si esplica nel nostro paese la democrazia; e anche la ragione per cui, nell’ambito delle istituzioni elettive, le scelte di maggior respiro (quelle relativa agli strumenti di pianificazione generale, dai piani regolatori comunali a quelli territoriali provinciali e regionali) sono state di competenza degli organismi consiliari, nei quali sono rappresentate anche le minoranze (scelta contraddetta da recentissime, e improvvide, leggi regionali, come quella della Campania).

La pianificazione territoriale e urbanistica nei termini in cui l’ho ora sintetizzata è soggetta in Italia a tensioni, che si esprimono sia in tentativi di adeguamento alle nuove esigenze e ai nuovi strumenti che è possibile impiegare, sia a tentativi di radicale stravolgimento.

Tra i primi collocherei gli sforzi che molte regioni hanno fatto, soprattutto tra il 1995 e il 2000, per introdurre nella legislazione urbanistica procedure e strumenti volti a privilegiare la considerazione degli aspetti ambientali e culturali, ad aggiornare sistematicamente le scelte sul territorio sulla base del ruolo rilevante dei quadri conoscitivi e del monitoraggio degli effetti, a snellire le procedure conservando, e anzi rafforzando, il carattere democratico e la trasparenza del processo delle decisioni.

Tra i secondi porrei in grande evidenza i tentativi compiuti (e malauguratamente vicini a cogliere l’obiettivo, se passa la cosiddetta Legge Lupi) di sostituire all’urbanistica “autoritativa” o “regolativa”, cioè tradotta in regole d’azione sul territorio stabilite dai poteri pubblici espressi dalle istituzioni democratiche, l’urbanistica “negoziata” con i poteri economici dominanti nei differenti contesti territoriali; quindi, in Italia, soprattutto con la proprietà immobiliare e con gli interessi finanziari ad essa legati.

In una posizione intermedia porrei i tentativi, di introdurre, prevalentemente accanto o indipendentemente dalle procedure tradizionali di pianificazione, procedure e strumenti definiti di “pianificazione strategica”. Su questa vale la pena di soffermarsi.

In Italia spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deforma il significato, il contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Anche per questo è utilissima una rubrica, come “Glossario”, che si preoccupa di stabilire il senso delle parole. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jacques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche nella sinistra si sia adoperato quel termine per dire “privato è meglio” sconcerta. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo severo significato reale. Così vale per la parola “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.

Sappiamo che è un termine relativo all’arte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).

Nel campo del territorio e del suo governo la strategia ha allora a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro. E assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso: deve fare i conti con il sistema delle istituzioni, nelle quali il consenso oggi si esprime.

Ulteriore segno dell’italiana confusione dei significati, da noi per pianificazione strategica si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni

Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.

Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorre, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, nella pratica delle istituzioni e impadronendosi di esse e delle loro regole, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti della pianificazione, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.

Edoardo Salzano, 27 febbraio 2005

Ho due ragioni per essere contrario alla costruzione dell’auditorium a Ravello: 1) l’intervento è illegittimo, e battersi per ottenerlo significa avallare la pericolosissima teoria e prassi secondo cui se una legge ostacola ciò che voglio fare, beh, abroghiamola o scavalchiamola; 2) è sbagliato perché non ha senso modificare un paesaggio già perfetto di per sé, che non ha bisogno d’aggiunte.

La prima ragione mi sembra la più grave. Che l’intervento sia in contrasto con la legge regionale 35 (1987), che ha approvato il piano urbanistico territoriale della Costiera in attuazione alla legge Galasso, non è questione di cui si possa dubitare. Lo ha spiegato con molta chiarezza Alessandro Dal Piaz sul Corriere del Mezzogiorno del 14 gennaio 2004. E se qualcuno di quelli che hanno dato il parere favorevole avesse letto il testo della legge regionale e quello del Put non staremmo a questo punto. Del resto, già in una precedente occasione il Tar aveva rilevato che la previsione dell’auditorium è in contrasto con la legge: con l’ordinanza 1350 del 5 luglio 2000, «ritenuto che sussiste il contrasto con il Put» , il Tar sospese la delibera commissariale di adozione del Prg.

Salvatore Settis scriveva su la Repubblica del 23 gennaio: « Chi studierà la svalutazione delle istituzioni? » . E osservava che « l’Italia di questi anni è un eccellente laboratorio d’indagine per chi voglia cimentarsi col tema; specialmente per chi voglia studiare come possano essere le istituzioni a svalutare se stesse, e utilizzando meccanismi istituzionali » .

Questo di Ravello è proprio un caso tipico dell’anomalia italiana descritta da Settis: la Regione promuove un Accordo di programma per tentar di annullare, in un singolo caso, una legge che, viceversa, dovrebbe essere uguale per tutti.

Mi sembra molto grave, e mi dispiace molto che persone come Paolo Sylos Labini e Nicola Cacace, Massimo Cacciari e Franco Barbagallo, Giovanni Valentini e Giorgio Ruffolo — e tanti altri — non se ne siano accorti. So che il clima generale è questo, che la tendenza a privilegiare l’interesse specifico rispetto alla legge è forte, ma a maggior ragione mi preoccupa che nessuno — tra i difensori dell’auditorium — si sia reso conto che anche in questo caso la difesa della legalità deve essere la prima preoccupazione.

Ho parlato e parlo di auditorium, e non di progetto di Niemeyer, perché il progetto non è di Niemeyer. La questione non è di grande rilievo, ma ha avuto un peso strumentale. Non credo che 165 intellettuali si sarebbero spesi per un appello se si fosse trattato di difendere, che so, un progetto dell’architetto Rosa Zeccato. Eppure, stanno difendendo proprio il progetto di Rosa Zeccato, ispirato da uno schizzo di un architetto che, sia pure famoso ( e bravo a costruire nuove città nel deserto), a Ravello non ha mai messo piede. Ce lo dice candidamente il sindaco di Ravello, in un suo ampio intervento sul Corriere del Mezzogiorno del 15 gennaio.

Che il progetto sia di Niemeyer o dell’architetto Zeccato ( che immagino bravissima) a me peraltro poco importa.

Sul merito del progetto per me il punto è un altro. Io sono convinto che non tutte le parti del territorio della nostra civilissima Italia abbiano bisogno di essere trasformate con l’aggiunta di nuovi oggetti. E a me sembra che Ravello abbia una qualità che non tollera né aggiunte né sottrazioni ( salvo forse quelle poche opere abusive che qui o là s’intravedono).

Vogliamo Niemeyer? Benissimo. Ha costruito a Segrate, chiamiamolo a fare un progetto a Scampìa o a Nola o a Soccavo, se la legge e i piani lo consentono. Ma lasciamo in pace Ravello, e per i concerti utilizziamo Villa Rufolo, Villa Cimbrone, e magari San Giovanni del Toro.

Ascoltati gli interventi di quanti sono intervenuti alla trasmissione della Rai Ambiente Italia ( ieri pomeriggio, ndr),

devo dire che le mie preoccupazioni sono aumentate. Non mi hanno convinto le difese della bellezza dell’oggetto, perché non è questo che conta: non stiamo parlando di un quadro attaccato a un muro. Né mi hanno convinto le teorizzazioni di chi sostiene ancora oggi ( come si sosteneva cinquant’anni fa a proposito dei centri storici) che dappertutto si può trasformare a condizione che la trasformazione sia « bella » . Mi ha preoccupato il fatto che il tentativo di scavalcare la legge ( perché è questo che si è fatto) sia stato ridotto dal rappresentante di Legambiente a una questione di « prob lemi legali » , come se si trattasse di un affare di condominio o di eredità. Mi ha preoccupato che si sia addirittura proposto al Consiglio regionale ( come ha fatto il direttore del Wwf) di fare una legge eccezionale per Niemeyer. Dopo il « Lodo Schifani » siamo al « Lodo Benedetto » ? Il paesaggio non si salva se si avalla la teoria secondo la quale la legalità è qualcosa che si può aggiustare, come certi giudici disonesti, pagati da certi avvocati malfattori, aggiustavano certi processi.

Edoardo Salzano

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