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A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).

Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).

Un estratto più ambio del libro di Canfora è in eddyburg, qui

Democrazia, una parola difficile

Abbiamo lavorato con parole difficili. La prima è forse la più difficile: democrazia.

Non fermiamoci a immagini facili e agiografiche della democrazia. Io oscillo tra due definizioni. La prima è quella di Chirchill: "E’ un sistema di governo pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più". E quella di Luciano Canfora:

La democrazia […] è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, "diritti"

Non rinuncio a nessuna di queste due definizioni: né alla democrazia come male minore, né alla democrazia come tensione verso l’eguaglianza e la crescita di nuovi diritti. E’ quest’ultima però quella che meglio possiamo utilizzare per passare all’altra parola difficile, la partecipazione. Del resto, anche Paba mi sembra che concordasse con questa impostazione, quando diceva che "la democrazia non è una cosa quieta".

Possiamo allora intendere la partecipazione come il lavoro per far entrare nella democrazia (nell’attuale sistema di governo) nuovi diritti: nuovi soggetti sociali, finora esclusi dal processo delle decisioni o marginali rispetto ad esso. Soggetti sociali portatori di nuovi interessi, di nuovi bisogni – e anche, ricordavano Paba e Baruzzi, di nuova ricchezza, di nuovi valori.

Partecipazione, dunque, come alimento e condizione della democrazia. Ma quali spazi consente la democrazia attuale, l’attuale sistema di governo, alla partecipazione intesa in questo senso? Vorrei regalarvi una più lunga citazione di Canfora:

A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).

E ancora:

Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).

Questo è l’orizzonte (nel senso di limite valicabile) nel quale si colloca la nostra azione. E allora non possiamo né dobbiamo farci spaventare dalle difficoltà. Per calibrare l’ottimismo della volontà sul pessimismo della regione ricordiamo Italo Calvino:

L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Il nostro compito può essere proprio questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".

Un'altra parola: Partecipazione

Naturalmente si è ragionato molto anche attorno alla seconda parola del nostro tema: Partecipazione. Vorrei riprendere quattro temi che mi sembrano centrali.

1. La partecipazione nella nostra storia.

Proprio qui a Bologna, in Emilia Romagna, ricordiamo come si comportava la sinistra; ne accennava Tarozzi nel suo intervento. Quando c’erano i partiti, i "partiti di massa (il comunista, il socialista, la democrazia cristiana) allora esistevano dei progetti di società, che i partiti - e le oggi deprecate ideologie - esprimevano. La politica aveva e dava una prospettiva, animava degli ideali: basta leggere quel bellissimo libro di Alcide Cervi e Renato Nicolai, I miei sette figli, per comprendere lo spessore che animava e nutriva la politica, e che dalla politica era animato e nutrito.

Oggi questo non c’è più. Ed è anche da questa decadenza che nascono le difficoltà del rapporto con la politica: del rapporto tra il popolo e la politica. E da questo nascono anche le difficoltà della politica con la terza parola del nostro convegno: la Urbanistica. A questo proposito vorrei che ricordassimo che le poche leggi di riforma (leggi riformatrici, non riformiste) negli strumenti di governo del territorio sono nate in determinate ragioni della nostra storia, per effetto della spinta di grandi organismi di massa e della sensibilità democratica (adopererei proprio questo termine) delle forze politiche.

Mi riferisco all’inserimento dell’obbligo di riservare determinati spazi per i servizi collettivi e il verde nei piani regolatori, statuito con il decreto sugli standard del 1968, che ha indubbiamente tra i suoi motori principali la lunga camopagna popolare ingaggiata dall’Unione donne italiane dall’inizio degli anni Sessanta, con una serie di iniziative attorno a una legge d’iniziativa popolare.

E mi riferisco all’iniziativa delle tra centrali sindacali che ebbe il suo epicentro nello sciopero nazionale generale del 19 novembre 1969 per la casa, i servizi, i trasporti, che condusse alle leggi di riforma dei primi anni Settanta.

Oggi, sei Camere del lavoro hanno dato vita a un’iniziativa che va di nuovo nella medesima direzione. Il sindacato dei lavoratori esce dalla fabbrica, acquisisce consapevolezza del fatto che l’organizzazione della città e del territorio incide pesantemente sulla vita dei lavoratori e suoi costi, e decide di porre il tema al centro delle sue vertenze. E’ un segnale promettente, una speranza.

2. Partecipazione e decisione

Esistono vari modi di partecipare, di influire al processo delle decisioni. Bibo Cecchini ne ha parlato in modo condivisibile, e le stesse esperienze illustrate hanno esemplificato significati e accezioni diverse della partecipazione. Per continuare a ragionare su questo tema, vorrei invitarvi a rifletters su due aspetti: i gradi della partecipazione, la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica.

Il grado più elevato della partecipazione è indubbiamente il concorso ala decisione. A questo proposito, alle istanze partecipative (il vicinato, il quartiere, la città) può essere delegata la decisione, oppure esse potranno esprimersi mediante proposte su cui il decisore sarà o meno tenuto a esprimersi, oppure potrà essere un mero condizionamento della decisione. Il modo maggiore o minore in cui l’istanza partecipativa contribuisce alla decisione varia evidentemente in relazione al carattere del decisore e al peso del "partecipatore".

Il grado minimo, ma essenziale, sembra a me essere la trasparenza del processo delle decisioni. Questo grado dovrebbe essere garantito sempre: in sua assenza la partecipazione è fittizia. Vorrei sottolineare che assicurare questo livello non basta "aprire le porte degli uffici e i cassetti delle pratiche": si pone anche, e in primo luogo, un problema di linguaggio. Il "burocratichese" è un linguaggio ricco di qualità, ma è formato per la comunicazione tra gli addetti ai lavori. I piani regolatori parlano un linguaggio costruito per essere compreso dal portatore d’interessi immobiliari, molto meno dagli utenti della città.

Il grado intermedio, il necessario passaggio tra la trasparenza e il concorso alla decisione, è la conoscenza. Questa implica certamente la possibilità di accedere ai dati, ma richiede in più apprendimento e cultura. A proposito del programma di amministrazione della giunta bolognese, a me sembrerebbe molto utile se ci fosse un forte nesso tra le politiche del territorio e dell’ambiente, dove ci si impegna a percorrere sentieri partecipativi, e le politiche culturali, che a prima vista mi sembrano un po’ "separate" e tradizionali.

Per quanto riguarda la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica vorrei limitarmi a rilevare che il principio di sussidiarietà, correttamente inteso (alla Mastricht, più che alla Bossi), potrebbe essere una guida sufficiente per comprendere. Così mi sembra ovvio affermare che a livello di vicinato o di quartiere la partecipazione è facile, mentre a livello di una intera città media o grande è molto difficile (pensiamo, ad esempio, a un PRG).

3. Partecipazione e interessi

Qualcun diceva che anche l’urbanistica concertata è una forma di partecipazione. In effetti occorre intendersi: partecipazione è un termine neutrale, occorre qualificarlo, chiedersi "partecipazione di chi". In termini sostanziali credo che si debbano distinguere tra loro i diversi tipi di interessi in relazione agli usi diversi delle risorse territoriali.

Occorre distinguere e selezionare gli interessi economici da quelli delle cittadine e dei cittadini (abitare, muoversi, comunicare, conoscere). All’interno dei primi occorre distinguere (e selezionare) gli interessi della rendita immobiliare e di quella finanziaria, quelli del profitto e dell’accumulazione nel processo produttivo e nell’innovazione, quelli del salario. Occorre distinuere gli interessi di quanti usano la città per le loro esigenze personali o produttive, e quanti la usano per il proprio arricchimento. Occorre distinguere le differenze tra i diversi gruppi sociali (ce ne parlava Bassetti, quando affermava che lo sforzo è nel ortare a sintesi le diversità).

Credo che una stella polare cui guardare per orientarsi sia in quella definizione di democrazia come "il prevalere dei non possidenti nel corso d’un inesauribile conflitto per l’eguglianza". E che ocorra ricordare che la partecipazione agisce anche attraverso la contestazione, dove gli interessi dei "non possidenti" sono esclusi dal processo di formazione delle decisioni, o non si riconoscono nei suoi esiti.

4. Gli strumenti della partecipazione.

Su questo punto voglio limitarmi a sottolineare che la partecipazione ha bisogno di tempo e ha bisogno di risorse. Senza questi due ingredienti la partecipazione non esiste. Può esistere, al massimo, la comunicazione: o meglio, quella forma banale di comunicazione che o la propaganda.

Ma dire questo significa anche dire che la partecipazione ha bisogno di procedure certe. Occorrerebbe ripartire da quel poco di partecipazione formalizzata che era consentito dalla stessa legge del 1942, le "osservazioni" agli strumenti urbanistici, per tener conto della maggiore dose di democrazia garantita dal sistema attuale rispetto a quello fascista.

Nel quadro degli strumenti, credo che un contributo rilevante potrebbe darl la Agenda 21, se riuscisse a legare i diversi aspetti delle politiche territoriali e ambientali a quel grande palinsesto delle decisioni dsul territorio che è il piano urbanistico e territoriale.

Per concludere.

Il nostro colloquio si è intrecciato attorno a tre poli: un primo polo rappresentato dalla democrazia, le istituzioni, quindi la politica: un secondo, l’urbanistica e i suoi strumenti; il terzo polo, la particapazione, cioò la presenza dei cittadini nel sistema delle decisioni.

Ora la politica (il primo polo) è in crisi: delegittimata non dalla sua inefficacia, ma – in Italia – dallo svelamento del vizio denominato Tangentopoli, ossia alla subordinazione delle regole e delle strategie condivise agli interessi venali di singoli e di gruppi (e, nel mondo, dal contemporaneo venir meno dela speranza di un sistema economico-sociale alternativo).

Anche l’urbanistica è in crisi. Quando la politica si riduce al quotidiano, quando il suo obiettivo è la conquista del consenso dei poteri forti, quando i poteri forti coincidono con la rendita immobiliare e finanziaria tra loro intimamente legate (e quando la cultura si riduce ad accademia) è inevitabile che anche l’urbanistica entri in crisi.

Io vedo la partecipazione anche come uno strumento che può essere utile per tentar di uscire dall’una e dall’altra crisi.

Uno strumento da adoperare con duttilità, pazienza e costanza, ricordando che le sue finalità sono due. Da una parte, raggiungere obiettivi concreti. Dall’altra parte, svolgere una funzione educativa, formativa, di crescita collettiva.

Uno strumento, infine, da adoperare tenendo conto che c’è un divario che deve essere governato perché non diventi una contraddizione: quello tra il "locale", come spazio nel quale la partecipazione può raggiungere maggiore efficacia. Il "generale", come spazio che inevitabilmente condiziona anche il locale, e che quindi non può essere "lasciato agli altri".

Le citazioni di Luciano Canfora sono tratte da: L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Editori Laterza, Roma-Bari 2004. Più ampi stralci sono in Eddyburg qui

Intervento di Edoardo Salzano

Una legge può essere valutata in se, nelle parole del suo testo. È una lettura del tutt legittima, ed è quella con la quale, con grande chiarezza. Marco Cammelli ha aperto il convegno. Forse perché il mio mestiere è fare l’urbanista, sono abituato invece ad analizzare e a valutare le leggi nel contesto – storico, culturale, sociale, politico – nel quale sono formate e agiscono. Garzilli ha svelato stamattina una porzione del contesto. Al contesto si riferirà l’insieme del mio intervento: un contesto, voglio sottolinearlo, non emiliano-romagnolo, ma italiano, dell’Italia nel suo complesso.

Prima di affrontare il tema del paesaggio vorrei brevemente inquadrare la questione sottolineando alcuni principi cardine che caratterizzano storicamente l’impostazione italiana dell’azione di tutela del patrimonio comune che è costituita dai beni culturali, di cui il paesaggio è parte rilevante.

Il principio dell’inalienabilità. Vorrei ricordare, sia pure per incidens, le origini molto antiche di questo principio, affermato per la prima volta dal soprintendente alle antichità di Roma Raffaello Sanzio, nel 1517 (V. Emiliani, 2004)

Vorrei ricordare come questo principio, più volte ripreso nei secoli successivi, sia stato ribadito nella prima legge organica dello Stato italiano sull’argomento (1909), in cui si proclama l’assoluta inalienabilità dei beni culturali.

Credo che si possa dire che la premessa della “linea italiana” sui beni culturali è insomma la statuizione della sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica.

Un secondo principio cardine mi sembra che sia costituito dalla consapevolezza della rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale.

Questo principio è stato portato a piena dignità d’espressione e di norma da Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti (1922): il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo".

Esso è stato ripreso dall’articolo 9 Cost: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Entrambi questi principi mi sembrano messi in crisi dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Questa valutazione, che condivido, era affermata per esempio con grande forza nell’intervento di stamattina di Andrea Emiliani.

Contraddetto è, di fatto, anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio; un principio che non a caso è stato posto – come ho appena ricordato - tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale. Su questo aspetto tornerò fra breve. Voglio però domandarmi prima: perché questo capovolgimento?

La premessa è, a mio parere, nell’introduzione tra gli idola tribus di questi decenni di alcune nuove priorità: privato è meglio di pubblico, mercato è meglio di Stato, individuale è meglio di collettivo. Idola che non hanno prevalso solo nelle tribus di destra. Su questi nuovi idola è intervenuto con molta efficacia Trimarchi, stamattina, quando ha osservato che la tesi corrente è che lo Stato non è capace di tutelare il nostro patrimonio, e quindi si aspetta il privato risolutore come nei film western si aspetta il Settimo cavalleggeri.

In questo quadro, mi sembra che abbia avuto un ruolo rilevante, e che costituisce un rivelatore efficace, il largissimo impiego del termine valorizzazione.

È un termine che non c’è nell’articolo 9 della Costituzione (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). È un termine che compare nell’articolo 117 novellato il quale, come tutti sappiamo, colloca la “ tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” , tra le materie di esclusiva competenza statale, e la “ valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, tra le materie di competenza concorrente.

È un termine a proposito del quale ho molto apprezzato le cose che ci ha detto stamattina Vanelli, dello sforzo di suerare la dicotomia tra valorizzazione e tutela riconducendo ciascuno dei due termini all’altro, come ho apprezzato l’angolazione economica intelligente sotto cui ci ha presentato il termine Trimarchi. Vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, che si riferisce alle categorie economiche che mi sono consuete.

Mi avevano insegnato che ci sono due forme del valore: il valor d’uso e quello di scambio. Il primo riferito agli oggetti come beni, il secondo agli oggetti come merci. A quale delle due forme di riferisce la valorizzazione della quale si parla oggi? Se si tratta del valor d’uso, allora mi sembra che coincida senza residui con tutela. Se invece si riferisce al valore di scambio, allora coincide con una visione economicistica, commercialistica, mercantilistica.

È certamente quest’ultima l’interpretazione che rinvia il contesto culturale e politico: È questa che è coerente con la logica della separazione, e con il trend culturale, iniziato con la proposta Craxi-De Michelis dei giacimenti culturali

La separazione significa: tutela l’oggetto come bene, valorizzazione l’oggetto come merce. Ma affidare la tutela allo stato, la valorizzazione sostanzialmente alla regione, significa allora introdurre una dialettica rischiosa. Impone comunque di porre su un piano di co-decisione (di condominio del potere) stato e regione. Una ragione forte a favore di un ruolo forte dei potere specialistici dello stato: ragione che, come vedremo, è negata e capovolta dal nuovo Codice.

Un ulteriore principio cardine dell’impostazione italiana dei beni culturale mi sembra sia costituito dal legame tra il bene culturale e il contesto. Questo principio è implicito nelle prime affermazioni dell’l’inalienabilità come divieto di estrarre dal contesto (ordinanze che si ritrovano già nella seconda metà del XVI secolo). Esso trova del resto la sua radice in quella straordinaria densità dei beni culturali nel contesto territoriale italianoi, come ci ricordava or ora Bruno Toscano: nel fatto che il nostro territorio è intriso di beni culturali, che non sono da esso distinguibili.

È da questo nucleo, mi sembra, che si sviluppa l’attenzione al paesaggio: ricordiamo il Ministro Benedetto Croce, ricordiamo Giulio Carlo Argan (il paesaggio come palinsesto nel quale possiamo leggere secoli di storia)

Il principio della rilevanza cuturale del paesaggio e dell’esigenza della sua tutela da parte dello Stato ha una prima statuizione compiuta nell’introduzione dei piani paesistici nella legge Bottai (1939), coeva della legge urbanistica del 1942. Ma è la legge Galasso (1985) il traguardo più significativo:

- si riprende l’intuizione crociana del paesaggio come espressione dell’identità nazionale,

- si individuano, prescrittivamente i lineamenti del paesaggio nazionale, la sua grande orditura e si vincolano (con vincolo solo procedimentale) i suoi elementi caratterizzanti,

- si amplia e si precisa lo strumento della pianificazione territoriale e urbanistica come strumento principe per la tutela del paesaggio (del contesto), passando da una visione settoriale del paesaggio a una visione tendenzialmente integrata con la pianificazione ordinaria: una anticipazione delle novità della convenzio ne europea del paesaggio, che Poli ci ricordava or ora;

- si definisce un sistema equilibrato competenze (e i doveri) dei poteri centrali e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.

Il nuovo Codice mantiene l’insieme del sistema Galasso, apportando utili integrazioni per quanto riguarda:

- il contenuto della pianificazione, secondo una linea che a me sembra convincente;

- la precettività delle determinazioni del piano paesaggistico;

- l’attività della ricognizione, del riconoscimento, dell’individuazione come fondamento della tutela, coe ci illustrava efficacemente Vanelli stamattina..

Il nuovo Codice rompe però drasticamente l’equilibrio tra potere centrale e potere regionale, eliminando il potere d’annullamento degli interventi contrastanti con le finalità della tutela e sostituendolo con l’espressione di un parere non vincolante delle sovrintendenze. In questo senso le critiche al Codice (ad esempio quelle che abbiamo sentito nell’intervento di Lo savio) mi sembrano motivate e giuste, e sottolineano anche in questo capitolo la linea generale di spoliazione dei poteri della nazione in quanto tale, che pervade tutta l’impostazione di questa legge, e di questa legislatura.

Credo che sia utile, e in questa sede necessario, passare dalla critica alla proposta.

Occorre domandarsi insomma che cosa fare, nel campo della tutela del paesaggio, per riprendere un cammino in avanti, che non sia di semplice resistenza ma che indichi prospettive positive: sia come preparazione di nuove regole (a livello nazionale e a livello regionale e subregionale) sia come azioni concrete.

1. A me sembra che sia in primo luogo necessario ribadire il principio di un interesse nazionale nella tutela del paesaggio: È un principio, del resto,dettato dalla Costituzione. È stato annebbiato negli ultimi anni dal cedimento alla demagogia della devoluscion, che si è manifestata già negli ultimi governi di centro sinistra.

Ribadire il principio dell’interesse nazionale del paesaggio non significa negare l’impianto regionalista della nostra Repubblica (prima o seconda che sia), ma significa richiamare l’idea dello Stato come “intero e armonioso complesso delle istituzioni” (V. Emiliani, 2004), e la concezione del paesaggio come elemento fondante dell’identità del tutto nazionale e delle sue singole parti. (Montale, “Il tutto è più importante delle sue parti”)

2. Ritengo che sia da apprezzare e da difendere, nel nuovo Codice, l’aver mantenuto la coerenza dell’impianto della legge Galasso, e in particolare il passaggio dal vincolo (indubbiamente valido come forma transitoria di protezione) alla pianificazione (come metodo e strumento per una considerazione complessiva delle esigenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente e di sintesi con le altre esigenze).

Non concordo perciò con la critica al Codice in merito alla vincolatività perenne dei vincoli ope legis, peraltro meramente procedimentali.

3. Ritengo che sia da ribadire ulteriormente la priorità delle determinazioni relative alla tutela (le invarianti strutturali) rispetto alle esigenze di trasformazione. È una priorità che ha un suo rilevante precedente nella pianificazione paesistica della Regione Emilia-Romagna (1986), e che è stata incorporata nella migliore legislazione regionale (Toscana 1995, Liguria 1997, Emilia-Romagna 2000)

4. Ritengo che il principio dell’interesse nazionale non debba necessariamente manifestarsi nella forma dell’ annullamento (che interviene solo a posteriori, Meandri 2004), e neppure in quello della autorizzazione, ma debba esprimersi sia, nell’immediato, con la vincolatività del parere preventivo, sia e soprattutto con la sempre più larga applicazione di pratiche di co-pianificazione: con la partecipazione paritaria alle scelte della pianificazione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici degli enti che esprimono gli interessi della tutela ai diversi livelli, a partire da quello nazionale.

Un positivo precedente mi sembra del resto costituito dalla norma dell’articolo 57 del DLg n. 112 del 31 marzo 1998[1], che dà alla pianificazione provinciale il valore di pianificazione di tutela di competenza statale “sempreche’ la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”

Vorrei aggiungere due considerazioni che non mi sembrano marginali, benché possano sembrare (e forse siano) delle assolute ovvietà.

La prima. Sono ormai trascorsi vent’anni dall’entrata in vigore della Legge Galasso. Mi sembrerebbe assolutamente indispensabile fare finalmente un’analisi seria del modo in cui essa è stata applicata: sia nelle concrete esperienze di pianificazione e nei loro effetti, sia dei comportamenti amministrativi, sia infine nelle ricadute sulla legislazione regionale.

Risulterebbero molte cose interessanti, alcune delle quali si possono già intuire:

- le enormi differenze tra regione e regione, che porrebbero in evidenza l’assoluta assenza di coordinamenti nazionali o di autocoordinamenti interregionali:

- le notevoli diversità di criteri adottati nelle diverse situazioni, a volte – ma non sempre - motivate da differenze sostanziali delle culture e delle realtà,

- l’inefficacia del sistema sanzionatorio, e quindi la scarsa garanzia fornita dalla potestà di annullamento

- la variegata traduzione (e spesso lo sviluppo) del “sistema Galasso” nelle legislazioni regionali.

La seconda. Se si condividono i punti che ho prima esposto, e in particolare l’esigenza di esprimere l’interesse nazionale nella forma della partecipazione preventiva delle strutture statali alle decisioni della pianificazione, si deve necessariamente convenire sul fatto che l’interesse nazionale non potrà essere tutelato finché l’apparato tecnico-scientifico dello stato sarà nelle tragiche condizioni di scarsità di risorse nelle quali versa, e verso le quali sempre più le sospingono il governo Berlusconi e il Ministro Urbani.

Se nelle preture e nei tribunali mancano cancellieri, attrezzature informatiche, e perfino codici, carta da fotocopie e carta igienica, non credo che le carenze di personale specializzato, di strumenti di lavoro e di materiali da consumo siano minori nelle sovrintendenze. Alle quali, per di più, l’autogoverno proprio del Terzo potere è sostituito da una burocrazia ministeriale la cui prevalenza mi sembra molto accentuata nell’ultima fase.

I sovrintendenti – lo scriveva Losavio nel suo intervento – sono relegati dal nuovo Codice “a un ruolo subalterno di mera consulenza”. Ed è facile immaginare la conseguenza di quella differenza tra il 2° e il 3à comma dell’articolo 115, che ci raccontava stamattina Cammelli: chiediamo all’ente pubblico di essere attrezzato, efficace ed efficiente, dotato degli strumenti e delle competenze adeguate, non lo mettiamo nelle condizioni richieste dal 2° comma, e allora siamo legittimati a dare i beni culturali nelle mani dei privati, cui il 3° comma non chiede nulla di simile. Il gioco è fatto.

[1]“La regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale di cui all'articolo 15 della legge 8 giugno 1990, n. 142, assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreche' la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”.

Repubblica, 29 aprile 2008

Ogni volta che attraverso l’area fiorentina mi colpisce e amareggia il contrasto tra la bellezza del paesaggio, le cui tracce si intravedono ancora, e la capacità di devastazione delle sempre più consistenti infrastrutture stradali che li hanno degradati. Ogni volta che attraverso Firenze e il suo centro storico mi scoraggia e deprime il contrasto tra la bellezza dell’impianto urbano, della grazia delle architetture, della bellezza (nelle aree centrali) degli originari spazi pubblici e l’invasione oscena delle automobili.

Il modo perverso con il quale sono stati adoperati gli strumenti del governo del territorio (come si è ribattezzata l’urbanistica) è testimoniato nella grande maggioranza delle città e dei territori italiani. Ma in Toscana, e a Firenze, ci turba particolarmente perchè in modo più smaccato contrasta con la bellezza di ciò che c’era prima: con quei paesaggi, urbani e rurali, che l’intelligenza estetica di generazioni succedutesi per secoli aveva saputo costruire.

È dagli albori del XIX secolo che si è compreso che regolare le trasformazioni della città in modo ordinato e consapevole era non solo possibile, ma anche necessario. Si è compreso che lasciare libero il gioco alla spontaneità dei processi economici innestati su regimi patrimoniali privatistici, provocava, nei territori urbanizzati, caos, diseconomie, disagi. È da allora che sono stati formati, e via via perfezionati, strumenti capaci di imprimere le regole di una trasformazione ispirata a obiettivi di carattere generale: obiettivi e strategie mirate a una prospettiva più ampia, a una visione più lungimirante, rispetto alle scelte di convenienza economica dei singoli soggetti che sul territorio agiscono.

Sono nati così gli strumenti della pianificazione urbanistica e poi territoriale. Ma erano, appunto, strumenti: utilizzabili per obiettivi e per strategie differenti, anche alternativi. Quali obiettivi avrebbero potuto essere assunti, e ai quali invece sono state di fatto finalizzate le strategie di trasformazione delle città e dei territori? I problemi odierni della mobilità (sia quella fisica, delle persone e delle merci, sia quella sociale, della convivenza e della permeabilità) ci aiutano a comprenderlo.

“Natura di cose altro non è che nascimento di esse”, scrisse Giovan Battista Vico. E sono convinto che per comprendere l’essenza delle cose occorre riflettere sul modo in cui inizialmente furono formate. Voglio perciò domandarmi come si poneva la questione della mobilità (sia quella fisica, dei corpi e delle cose attraverso lo spazio, sia quella sociale, delle persone attraverso i confini delle età, dei mestieri, dei redditi, delle culture) nelle città che precedettero le grandi trasformazioni dell’epoca del sistema economico-sociale nel quale viviamo.

Prima della grandiosa epoca della rivoluzione borghese – e anzi, nella sua prima fase – le ragioni della mobilità erano risolte dalla stessa natura, dalla scelta del sito, dalla configurazione, dall’organizzazione, dalla forma della città. La città era il luogo stesso dell’incontro. Era il luogo nel quale accorrevano i servi per diventare cittadini, cioè portatori di eguali diritti. Era il luogo deputato alla comunicazione, allo scambio, all’incontro. Raramente la specializzazione delle varie parti della città (quelle utilizzate dagli artigiani, dai mercanti e dai borghesi, dagli agricoltori, dai salariati) comportava la nozione di segregazione: bisogna aspettare il trionfo del capitalismo per vedere nel disegno e nella organizzazione della città i segni visibili della divisione in classi. E comunque c’erano i luoghi destinati egualitariamente ai cittadini in quanto tali: le piazze, e gli spazi pubblici costruiti attorno ad esse.

Le piazze sono il simbolo della città. Non solo ne sono (ne erano) i fuochi, i principali elementi ordinatori, ma esprimevano la natura stessa della città: il suo essere il luogo degli interessi comuni, della comunicazione e dell’incontro, e di quello che oggi chiamiamo “mixitè”. Che cosa sono diventate oggi?

Solo raramente – nei paesi, in qualche città piccola o media oculatamente governata, e nell’incomparabile città storica di Venezia – le piazze sono rimaste quello che erano: i luoghi della socialità. Ancora più raramente nei nuovi quartieri e nelle gigantesche espansioni ad alta o a bassa densità sono state create piazze, o simili luoghi d’incontro. Là dove c’erano e sono state vive le piazze sono state trasformate in grandi depositi di automobili o in incroci di traffico – o l’una e l’altra cosa insieme. Il pedone è quasi un intruso: Al massimo è accettato in qualche spazio incatenato come spettatore di qualche monumento più eccezionale degli altri.

In questi ultimi tempi si sta assistendo a uno scimmiottamento perverso dell’idea della piazza, spacciando come nuove piazze quelli che più propriamente sono stati definiti i “non luoghi”: le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, i grandi centri commerciali. Quei luoghi dovunque anonimi, informi, privi di collegamenti vitali con gli spazi dove le persone abitano e lavorano. Quei “non luoghi” il cui frequentatore non è più il cittadino, ma è il cliente. Quei “non luoghi” i cui caratteri dominanti sono lo shopping (la sollecitazione al consumo di merci quali che siano, generalmente tendenti verso l’inutilità, e sempre caratterizzate da anonimia e fungibilità), la sicurezza (cioè l’esclusione degli altri, dei “diversi”, dei soggetti non dotati di capacità di spesa), la mobilità (spesso si tratta infatti di luoghi correlati all’accesso di vettori di trasporto veloci, quali i treni e gli aeroplani).

Ma di quale mobilità si tratta ai nostri tempi? Ecco un’altra domanda rilevante.

La mobilità fisica non è necessariamente un bene in se. È un bene se viene scelta par ciò che il percorso offre. Ma se muoversi significa unicamente spostarsi da un luogo (quello in cui normalmente si abita) verso un altro luogo (dove si lavora, o si può fruire di un determinato servizio, o incontrare qualcosa o qualcuno), se significa dedicare una parte del proprio tempo a qualcosa che non si è scelto di fare, ma a qualcosa che si è obbligati a fare, allora la mobilità non è un bene.

Oggi molto raramente il percorso che si compie e il vettore che si utilizza, sono di per sé piacevoli, interessanti, tali da meritare di per sé uno spostamento e l’impiego di una porzione del proprio tempo. È bello, ed è un valore, muoversi a piedi o in vaporetto a Venezia, oppure in bicicletta o a piedi lungo l’argine di un fiume, oppure in battello lungo il corso del Nilo. Ma non è piacevole né interessante essere obbligati a prendere l’autobus o la metropolitana o il treno per andare la mattina da dove abito a dove lavoro. Né tanto meno è interessante e piacevole chiudersi nell’auto e, intruppati con mille altre simili, gran parte di quei fiumi di ferraglia che percorrono le strade e le autostrade di cui il nostro paese è sempre più ricco.

Non credo che sia necessario essere un urbanista, o un esperto di mobilità e infrastrutture, per rendersi conto che grandissima parte dei nostri movimenti (del tempo e dell’energia che impieghiamo per accedere a luoghi cui vogliamo accedere) dipendono dal modo in cui i luoghi che sono necessari alla nostra vita sono collocati sul territorio. Man mano che il lavoro diventa “flessibile” e precario, e i prezzi delle case più alti, i luoghi dove si abita sono lontani da quelli che si devono raggiungere per lavorare o per fruire dei servizi essenziali.

E sempre più siamo spinti, dal potere delle compagnie law cost e all inclusive, a raggiungere per il nostro tempo libero luoghi lontani ed esotici: quindi a muoverci, a spostarci chiusi nei grandi vettori aerei consumatori di energia e produttori d’inquinamento.

Ma lo spreco d’energia e la produzione di inquinamento sono poderosamente incrementati, al di là da ogni ragionevole necessità, dal modo stesso nel quale l‘assenza di pianificazione e la cattiva pianificazione, saldate con la cattiva politica dei trasporti, hanno plasmato (meglio, hanno lasciato plasmare al mercato) l’organizzazione del territorio e quella il sistema delle infrastrutture. La logica sempre più applicata nella pianificazione è stata quella di rincorrere gli interessi delle proprietà immobiliari e della loro valorizzazione, non quella di porsi obiettivi d’interesse comune ed esigenze degli strati sociali più deboli: massima valorizzazione delle aree e non massima riduzione della mobilità e del disagio urbano.

La crescita indefinita della città, l’accavallarsi di una periferia sull’altra, la promozione (o la tolleranza) nei confronti dello sprawl urbano e della diffusione dell’edificazione su territori sempre più vasti sono stati i risultati. E mentre da un lato si aumentava in tal modo la domanda di mobilità, si affidava l’offerta pressoché interamente all’automoobile: al vettore più consumatore di spazio e d’energia, e più produttore d’inquinamento, tra tutti quelli disponibili.

Ecco allora manifestarsi, nelle città, quello che definisco il paradosso del traffico: la città, luogo nato e foggiato dalla storia per favorire gli incontri, gli scambi, la convivenza è diventata il luogo dove ciò è divenuto impossibile. Ed ecco il proliferare di strade, autostrade, raccordi, bretelle, tangenziali ecc. ecc. che sempre di più devastano i paesaggi rurali; e che, man mano che aumentano, generano altro traffico, reclamano ulteriori aggiunte bdi nastri di cemento e asfalto, sempre più spesso dotate di muraglia di “mitigazione” dei danni e fiancheggiati da capannoni e capannoncini, cartelloni e vetrini. Sempre più intrusivi e devastatori dei paesaggi attraversati.

il manifesto, 22 febbraio 2008

il manifesto, 15 aprile 2008

URBANISTICA - L’urbanistica è la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e

l’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale. In questo senso il significato del termine urbanistica è profondamente diverso da altri, di analoga radice, con i quali è talvolta confuso: urbanesimo, che indica la concentrazione e condensazione dei fattori demografici, sociali, culturali ed economici costituenti la città; urbanizzazione, che indica il processo di formazione e disseminazione delle città in una determinata area; e infine inurbanamento, che è il processo di afflusso di popolazioni per lo più rurali nei centri urbani.

Come disciplina autonoma, l’urbanistica è nata dal secolo scorso, quale risposta (e difesa) ai problemi suscitati nell’esistenza e nella cultura urbana dal progressivo affermarsi dell’industrializzazione e dal rapido incremento della popolazione e del traffico (specialmente, nel nostro secolo, del traffico motorizzato). Solo retrospettivamente e per analogia, perciò, si chiamano urbanistici i modi di strutturazione, organizzazione, configurazione dello spazio urbano nel passato, siano essi spontanei o diretti da norme giuridiche o iniziative di governo o da teorie e princìpi formulati da politici, filosofi, architetti. E solo in quanto si ammette la costanza di una certa disciplina nella crescita delle città si chiama comunemente storia dell’urbanistica la storia del fatto urbano. Come attività specificamente intenzionata alla progettazione degli sviluppi urbani, l’urbanistica è interessata a tutte le componenti geografiche, storiche, ideologiche, culturali, economiche ecc. del fatto urbano, nonché a tutte le esigenze tecnologiche, igieniche, educative, assistenziali ecc. ad esso connesse. Sotto l’aspetto estetico, l’urbanistica è particolarmente in rapporto con la progettazione (v.), con l’architettura (v.), e le sue tipologie (v. STRUTTURE, ELEMENTI E TIPI EDILIZI), nonché con la funzione ideologica e rappresentativa degli edifici (v. MONUMENTO) e con la concezione della natura e specialmente della società e della vita rurale, come contrapposte, almeno in certe civiltà, alla vita cittadina.

Sommario.

L’idea di città - Nomenclatura essenziale - Definizione di urbanistica - Definizione di città: Verso una scienza urbana - Definizione geografico-urbanistica della città - Definizioni storico-sociologiche della città - Lo “spazio urbano”: Mondo arcaico - Antiche civiltà urbane - La città medievale - La città rinascimentale - La città barocca - Disintegrazione dello spazio urbano - Riscoperta, analisi e ricomposizione dello spazio urbano - Utopisti moderni - La pianificazione urbanistica: L’esperienza razionalista e il piano di Amsterdam - Verso una nuova concezione - Dall’urbanistica tecnica alla pianificazione continua - Aspetti giuridici ed economici della pianificazione urbanistica - Problemi e prospettive: Dati di base per una contabilità urbanistica - Problemi specifici: a) Quartieri residenziali - b) Centri storici e rinnovamento urbano - c) Il traffico veicolare - d) Zone industriali attrezzate - e) Attrezzature per il tempo libero - Piani per il futuro.

L’IDEA DI CITTÀ

Quando, in un primo approccio al fenomeno urbano, in qualsiasi tempo e luogo, anche remoti, si constati la sua indissociabile, attiva compartecipazione, come struttura portante, alle molteplici manifestazioni di civiltà, o se ne osservino le impetuose esplosioni in atto, o quando si tenti, avventurandosi nel futuro, qualche prima sommaria interpretazione della sua dinamica o qualche incerta anticipazione morfologica, mentre da un lato il fascino della straordinaria ampiezza e varietà del fenomeno allarga l’orizzonte dell’esplorazione, dall’altro non ci si può sottrarre al corrispettivo sgomento per la palese inadeguatezza degli strumenti conoscitivi.

Il fatto è che, dopo non meno di cinque millenni di civiltà urbana e di un’assai più antica cultura di villaggio, entrambe sviluppate in ambiti territoriali strutturati, ed in cui si sono avvicendati miliardi di esseri umani, dopo eventi così determinanti per la civiltà come la concentrazione insediativa e dopo varie ripetute vicende di impianto e formazione di città, di espansione e fioritura, di trapianto o di declino fino alla morte, con o senza risurrezione, o ancora di persistente plurimillenario rinnovamento in sito e di ristrutturazione territoriale, bisogna giungere fino a tempi estremamente ravvicinati perché l’idea stessa della città sia rappresentata in tutta la sua evidenza e le funzioni degli insediamenti umani sul territorio appaiano in tutta la loro dinamica complessità: in sintesi, per comprendere, come insegnò Patrick Geddes verso la fine del secolo scorso, che un villaggio, una città, una regione non sono solo un «luogo nello spazio», ma un «dramma nel tempo», inseriti dunque in un processo di sviluppo dinamico.

Essenzialmente statica e spazialmente delimitata è invece l’idea informatrice della città nel mondo antico, dagli insediamenti palaziali alla “polis”, quale traspare dai frammenti descrittivi di storici, geografi e viaggiatori, dalle regolamentazioni urbanistiche e dalle testimonianze archeologiche, come pure dalle stesse ipotesi platoniche ed aristoteliche di ideale formazione e di reggimento politico: comune, pur nella varietà di impianti, l’aspirazione ad una stabilità dimensionale, economica e sociale, sia dell’insediamento urbano principale, cittadella o città sacra o capitale o città commerciale, sia della sua area agricola, lenticolarmente concepita.

Verso questo obiettivo appare in sostanza indirizzata la stessa organizzazione territoriale romana, formatasi per aggregazioni successive di territori che venivano omogeneamente strutturati mediante impianto di città, creazione di relative aree economiche, dotazione di infrastrutture urbane e territoriali e di istituzioni civiche, il tutto tipizzato secondo una costante, monotona, e quindi universale, precettistica, che è riuscita per un arco di tempo non lungo, ma decisivo per la storia urbana, a garantire su estesa superficie l’equilibrio economico e sociale delle unità territoriali di base integrate in un sistema politico centrale.

Ancor più evidente è l’idea di microcosmo immobile implicita nella organizzazione della città medievale murata, che forma con il contado un sistema economico chiuso ed autosufficiente (salvo casi eccezionali, come, per es., le repubbliche marinare) e dove statuti, istituzioni, dialetti ed architettura, unitamente alle riaffiorate culture locali preromane, concorrono a caratterizzarne l’individualità nel rispetto dei princìpi universalmente accettati dell’equilibrio interno economico e sociale e della pariteticità di diritto degli insediamenti statutariamente riconosciuti.

Signorie e principati, tra il Cinque e il Settecento, non solo confermano l’idea del microcosmo urbano accentratore, ma lo isolano con un sempre più complesso sistema stabile difensivo, ed accentuano, su più vasta scala, la gerarchizzazione degli insediamenti sul territorio.

Si sviluppa in quei secoli l’arte urbana, che arricchisce le città principesche di nuovi episodi architettonici di rilievo; al tempo stesso si incomincia a teorizzare sulla “forma urbis” fino a dar vita ad una fioritura di nuove idee urbanistiche che sotto la veste di “città ideali”, si pongono, nei confronti delle esistenti, come altrettante possibili alternative globali; molto spesso le innovazioni vagheggiate sono soltanto formali, geometriche e difensive, ma in questa ricerca inventiva nuove idee prorompono sia nel campo tecnico sia nel campo dell’ordinamento sociale, aprendo la strada alle utopie. L’idea della città entra finalmente in movimento: basterebbero le intuizioni leonardesche per la irrigazione della Val di Chiana o per la ristrutturazione di Milano in dieci città da 30.000 abitanti a confermarlo.

Allo sviluppo di questi fermenti ideali non ha certo giovato l’ordine barocco e neoclassico congeniale al dispotismo politico, che dell’arte urbana ha fatto ampio uso e strumento, e tanto meno la grande ventata del suo opposto e successore, il liberistico “laisser faire”, applicato alla città; essi rivivranno e riprenderanno corpo solo nelle utopie dei primi riformatori sociali ottocenteschi.

Ma intanto l’orizzonte urbano si andava rapidamente allargando: protestantesimo, mercantilismo, accumulazione capitalistica, centralizzazione del potere, colonizzazione, scoperte e sistemi scientifici, rivoluzione industriale e demografica, teorizzazione economica, lotta politica, mentre danno vita ai tempi nuovi, spezzando, con il limitato orizzonte di idee, anche i chiusi circuiti dell’economia medievale e gli statici gruppi demografici, contribuiscono a rompere definitivamente l’ordine urbano e la statica gerarchia territoriale.

Dopo secoli di relativa stabilità demografica la popolazione europea nuovamente in fase di incremento, tanto da passare dai 180 milioni dell’anno 1800 ai 400 milioni nell’anno 1900, si pone ora in movimento, ridistribuendosi sul territorio e creando problemi nuovi che trovano impreparata l’antica strutturazione, urbana e territoriale.

All’abbandonato monocentrismo arcaico, nessuna nuova idea urbanistica si contrappone per lungo tempo: le caotiche strutture cittadine e territoriali sono, verso la metà dell’Ottocento aggredite dalle forze nuove e adattate a viva forza o distrutte come avviene con il significativo abbattimento delle mura, o confinate nella stagnazione e nell’abbandono; nuovi impianti produttivi e nuovi insediamenti sorgono senza far più ricorso all’arte urbana; nuove infrastrutture tecniche si sovrappongono indifferenti a quelle arcaiche: tutto il mondo storico rapida mente si dissolve e si trasforma.

La sensazione tuttavia che prospettive e possibilità si siano all’improvviso immensamente dilatate è confermata dal lungi mirante monito saint-simoniano (1825): « maintenant que la dimension de notre planète est connue, faites faire par les savants, par les artistes et les industriels un plan général de travaux à exécuter pour rendre la possession territoriale de l’espèce humaine la plus productive possible et la plus agréable à habiter sous tous les rapports».

Intanto il groviglio di problemi, sorti e non risolti per assenza di visione generale, ritardava purtroppo, ampliandosi e complicandosi, l’indispensabile ed urgente processo di razionalizzazione.

Né era facile scoprire una strada nuova che consentisse di uscire dalle imperanti degenerazioni dell’arte urbana tradizionale, ormai ridotta al disegno accademico di quinte a margine ed a decoro di grandi operazioni immobiliari speculative di sventramento o di rinnovamento urbano, che raggiungono il loro apice nell’attuazione del piano napoleonico-haussmanniano di Parigi degli anni ’50.

Due vie diametralmente opposte sono, in tutto il secolo, continuamente tentate: quella dei riformatori utopistici, alla ricerca di “modelli” ideali e generalizzabili come soluzioni alternative alla società in atto, e quella degli ingegneri urbani, che, allargando sempre più il loro campo d’azione dai ponti e strade agli impianti igienico-sanitari ed ai mezzi di trasporto collettivo, riscoprono il piano d’insieme. La prima ha prodotto, in concreto, qualche isolato prototipo e qualche quartiere operaio modello, costruito da industriali illuminati, sulla scia, peraltro, della tradizione settecentesca dei paesi nordici, ma non poteva pretendere, con modelli astratti, di ristrutturare una società in rapida evoluzione e le sue negative manifestazioni urbane. La seconda ha potuto produrre, oltre alle grandi opere come le reti di ferrovie metropolitane sotterranee ed aeree a Londra, Parigi e Berlino, eccezionalmente anche alcuni piani al larga concezione come la sistemazione del Ring di Vienna (1856) ed il piano di Barcellona di Ildefonso Cerdà (1859), dimostrandosi tuttavia impari al compito.

In ossequio all’incontrastato interesse privato ed ai princìpi liberistici, i piani tecnici di ampliamento e di sistemazione degli insediamenti in rapida espansione sono stati concepiti o sono stati attuati come puri e semplici piani di “allineamento” e cioè di discriminazione tra il sempre più limitato suolo pubblico, ormai ridotto alla sola viabilità ed ai parchi, ed il sempre più esteso dominio della proprietà privata, reale protagonista della città crescente, eludendo in tal modo i problemi economici e sociali e la visione generale dell’intero sistema urbano.

L’avvicinamento ad una soluzione integrata, sociale oltre che tecnica, pratica ma senza rinunce idealistiche, si ha solo verso la fine del secolo scorso: ad essa contribuiscono vari apporti scientifici e culturali di igienisti, geografi, sociologi e demografi. Dall’incontro di queste nuove discipline con l’ingegneria urbana e con una rinnovata, antiaccademica arte urbana nasce, alla fine del secolo scorso, la disciplina specifica ed autonoma dell’urbanistica; la prima edizione di Der Städtebau di Stubben, esce nel 1880; Der Städtebau nach seinen kunstlerischen Grundsatzen, di Camillo Sitte, nel 1889; Tomorrow, di Ebenezer Howard, nel 1898; la Regional Survey, di Patrick Geddes, nel 1899; Une Cité industrielle, di Tony Garnier, è del 1901-1904.

Con queste opere i fondamenti tecnici, estetici, sociologici ed innovatori dell’urbanistica moderna erano posti. Da esse e dagli studi teorici e sperimentali, che ne sono scaturiti nei decenni successivi, è sorta una nuova e più composita idea della città e del territorio urbanizzato, non più associata a forme astratte e statiche, ma tendente ad una sintesi di fattori complessi ed eterogenei.

Il fenomeno urbano è scomposto, analizzato e ricomposto scientificamente in tutti i suoi elementi costitutivi; anche l’uomo comune avverte ora la presenza, il peso, i problemi e la dinamica dell’urbanizzazione.

La scienza urbanistica ha camminato e la stessa tecnica dell’insediamento che nei primi decenni del secolo, soppiantando arte urbana ed ingegneria urbanistica, poteva apparire come conquista necessaria e sufficiente per la sistemazione razionale degli insediamenti e del territorio, sta ora cedendo il passo ad un processo che si profila globale, continuo e irreversibile: la pianificazione urbanistica.

Illustrare gli indirizzi teorici e pratici di questa tecnica in fase di evoluzione e di sistematizzazione e le sue più significative applicazioni concrete è compito della presente trattazione.

NOMENCLATURA ESSENZIALE

Con il passaggio avvenuto negli ultimi decenni del secolo scorso dall’arte urbana ( art urbain, civic art), intesa fino allora come architettura in grande, alla nascente tecnica dell’insediamento urbano, si modifica anche il linguaggio che si arricchisce rapidamente di nuovi vocaboli. Dove e quando e da quali occasioni questi siano sorti è problema filologico tuttora da esplorare: ci atterremo pertanto a pochi dati certi. Nel 1855 appare la parola “d emographie” nel trattato statistico di Guillard; non è quindi senza significato il fatto che nello studio delle componenti dei fenomeni demografici (natalità, mortalità, emigrazione ed immigrazione), quella particolare immigrazione che proprio allora stava dando corpo alle concentrazioni urbane fosse chiamata dagli statistici francesi con la parola “urbanisation” (ingl. urbanisation, amer. urban growth, ital. prima urbanismo poi urbanesimo) per designare la tendenza dei centri urbani a crescere, per inurbamento di immigrati, più rapidamente dei nuclei demografici circostanti.

Non è un caso che sia proprio Ildefonso Cerdà, che per primo impiega in modo sistematico l’analisi statistica negli studi preparatori al piano di Barcellona, a far precedere l’illustrazione a stampa del piano (1867) con un saggio intitolato Teoría general de la Urbanización, dove la stessa parola è impiegata nel duplice significato di concentrazione di popolazione urbana e di ampliamento fisico della città.

Questo duplice significato è attualmente di uso comune nelle spagnola e francese, mentre nella lingua italiana ed in quella inglese i due significati sono espressi con due distinte parole: il significato demografico-sociale rispettivamente con le parole “urbanesimo” ed “urbanisation”, quello fisico con “espansione urbana” e con “city development” (così è intitolato il libro di Geddes e Mawson, del 1903), dove “development” è usato in senso lato di “sviluppo”, o con “phisical growth of towns”. In italiano, la parola “urbanizzazione” è di uso assai recente ed è impiegata esclusivamente per indicare il processo di trasformazione d’uso da suolo agricolo a suolo urbano mediante la progettazione e l’attuazione di opere, impianti, servizi ed edifici a varia destinazione; ed ha il suo corrispondente inglese nel significato tecnico e legale di “development” (dal 1947), con l’avvertenza che questa parola ha un significato ancor più estensivo, comprendendo anche le semplici trasformazioni nell’uso degli immobili, cosicché la sua traduzione in italiano può essere, a seconda dei casi, “urbanizzazione” o “trasformazione d’uso”; anche il vocabolo francese “urbanisation” e quello spagnolo “urbanización” impiegati nel significato fisico sono recentemente usati anche nel senso più specifico di “urbanizzazione” e di “development”.

Esaminati i legami semantici tra fenomeno demografico e città costruita, si può ora ricercare con maggior sicurezza origine e significato dei vocaboli pertinenti all’urbanistica, intesa come scienza ed arte dell’organizzazione e dello sviluppo degli insediamenti.

Nella lingua tedesca non si sono posti particolari problemi linguistici, essendo chiaramente distinguibili le fasi di studio e di realizzazione della città con i due vocaboli composti di “Stadtplan” e di “Stadtbau”, che, usato con il plurale di città “Städtebau”, raggruppa in sintesi tutte le operazioni attinenti alla progettazione e costruzione della città ed assume quindi il significato generale di urbanistica: colui che se ne occupa è lo “Städtebauer”, cioè l’urbanista. L’uso di questi vocaboli risale agli ultimi decenni del secolo scorso e da allora si è mantenuto a lungo inalterato; ad essi, soltanto da pochi anni si sono aggiunti nuovi vocaboli rispondenti a nuove esigenze di espressione: così la fase analitica e scientifica dello studio, “Forschung”, è ora indicata con “Stadtforschung” per le città e “Raumforschung” per i territori, e l’organizzazione territoriale, che non può esser compresa nel concetto di “bauen”, è indicata con “Raumordnung”. Infine, di recente, si sta sviluppando l’uso della parola “Planung”, pianificazione territoriale, impiegata in “Landesplanung” ed in “regionale Planung”; nel campo degli studi economici è stato introdotto il termine di “Raumwirtschaft”, economia spaziale, così come l’aspetto politico della pianificazione urbanistica è designato con “Raumpolitik”.

Più complesso, variato e sfumato è il corredo linguistico anglosassone, per l’uso contemporaneo di tre differenti matrici “urban”, “city”, “town”, e con derivazioni del tutto particolari. Così in Inghilterra mentre il verbo “to urbanize” indica l’atto del rendere urbano un sito, con operazioni di trasformazione, queste sono designate, come già si è detto, con “development”, mentre il sostantivo “urbanisation” è usato esclusivamente nel significato statistico di urbanesimo; in America “urbanisation” è usato solo nel significato di estensione delle strutture urbane, ed è anche usata, sia pure non frequentemente, la parola “urbanism”per indicare il “modo di vita” conseguente all’inurbanamento. Per esprimere il concetto di “studio di appropriato sviluppo, pianificazione ed uso della città”, e cioè l’equivalente di urbanistica, l’Enciclopedia Britannica riporta la parola “urbiculture”, che non risulta adoperata nell’uso corrente.

Amplissima è la gamma di combinazioni con “plan”, pianta e progetto, e soprattutto con “planning”, che contiene in sé non solo le operazioni del progettare, ma anche quelle del programmare. Prima e fondamentale combinazione è il “town planning”, vocabolo che in Inghilterra all’inizio del secolo prende il sopravvento su “citv design” ed è consacrato nella prima legge urbanistica inglese, il Town Planning Act del 1909, nel titolo della prima rivista specifica, The Town Planning Review, sorta a Liverpool pure nel 1909, e nel primo congresso inglese, la Town Planning Conference, tenuto a Londra nel 1910: con questo duplice riconoscimento culturale e legale il “town planning” diventa, in Inghilterra, a partire dal secondo decennio del secolo, il termine ufficiale dell’urbanistica, come disciplina autonoma, concernente un campo che, nell’editoriale di apertura della Town Planning Review, è definito «alquanto nuovo ed inesplorato». Negli stessi anni, e precisamente nel 1909, Si aveva in U.S.A., a Washington (D.C.), il primo congresso nazionale di urbanistica, con la denominazione di City Planning. L’uso di questo vocabolo è rimasto in U.S.A. quello prevalente, tanto che anche l’Enciclopedia Britannica ospita la trattazione sull’urbanistica sotto la voce City Planning, scritta da John T. Howard, professore al Massachusetts Institute of Technology; in entrambi i paesi l’urbanista è indicato generalmente con “planner”, mentre in Inghilterra il primitivo “townplanner” è ancora in uso. Il “town planning”in Inghilterra ed il “city planning” in America non esauriscono tuttavia tutte le esigenze operative e culturali dell’urbanistica, che estende ben presto il suo campo di studio e d’azione al territorio ed alla regione. Si passa così in Inghilterra al “town and country planning”, dove “country” sta nel doppio significato di territorio e di insediamenti minori, ed al “regional planning termini questi entrati nell’uso corrente dopo il 1945; in U.S.A. al “city and regional planning” ed all’“urban planning”, dove, secondo Frederik Adams, con il primo si mettono in luce gli aspetti strumentali ed operativi dell’urbanistica al livello territoriale, con il secondo si evidenziano le interrelazioni fra gli aspetti sociali, economici e fisici, contenuti nella pianificazione. In italiano, la traduzione lessicale e concettuale di “town and country planning” e di “city and regional planning” è “pianificazione territoriale”, mentre “urban planning”corrisponde a pianificazione urbanistica, nell’accezione più estensiva. È da notare, tuttavia, che dagli anni ’50 in poi si sta diffondendo sempre più, sia in Inghilterra che in America, l’uso del puro e semplice “planning”, come termine comprensivo di tutti gli aspetti della pianificazione urbanistica: in questo senso la International Federation for Housing and Town Planning, le cui origini risalgono al 1913, ha cambiato denominazione, nel 1956, in International Federation for Housing and Planning (I.F.H.P.).

Anche nell’insegnamento universitario dell’urbanistica, che ha inizio in Inghilterra nel 1919 all’Università di Liverpool ed in America nel 1923 presso la Harvard University, varia è la denominazione delle Facoltà: in Inghilterra è generalizzata la denominazione di “town planning” e di “town and country planning”, mentre sopravvive l’antica denominazione di “civic design”all’Università di Liverpool, adottata peraltro anche in quella di Londra nel ’47, dove “civic design” è considerato l’equivalente di “town planning” ed è usato didatticamente per marcare la contrapposizione con “architectural design”; in U.S.A. le denominazioni prevalenti sono quelle di “city planning” e di “city and regional planning”.

Più ridotto di quello anglosassone, ma non così schematico come quello tedesco, è il lessico francese. Le prime derivazioni da “urbain” sono già state esaminate: “art urbain” e “urbanisation” da cui il suo opposto “désurbanisation”, decentramento urbano. Con gli inizi del secolo, fin dal 1903, prendono l’avvio gli studi storici ed i corsi di storia urbana, “études urbaines”, ad opera di Marcel Poëte, prima su Parigi e quindi sulle città in generale, e da essi, oltre che sull’onda dell’esplosiva attività culturale inglese del primo decennio del secolo, prende inizialmente le mosse 1’“urbanisme” inteso come scienza dell’evoluzione delle città.

Con notevole tempestività, nel 1911, viene fondata la Société Francaise des Urbanistes. Un’intensa attività culturale, nel secondo e terzo decennio del secolo, sviluppa in Francia un’ampia messe di pubblicazioni nel campo dell’urbanistica, incrementata anche dalle traduzioni dei “classici” tedeschi ed inglesi, dal Sitte ad Unwin. Per effetto di tali influssi la parola “urbanisme”, mentre continua ad essere impiegata per gli studi storici o per le anticipazioni del futuro, cede spesso, in quel periodo, alla “science des plans des villes”, che pare più aderente al “town planning”. Dopo gli anni ’30 quest’uso scompare e la parola “urbanisme”riassume in sé tutti i più ampi significati storici, teorici e pratici dell’urbanistica. Nella nomenclatura dei vari tipi di piano appare, fin dai primi anni del secolo, il il “plan d’aménagement”, come piano generale, soppiantato successivamente dal “plan directeur “(1952), mentre 1’“aménagement” è usato sol più nel senso di organizzazione territoriale in “aménagement des territoires” (1949) con le due specificazioni di “aménagement régional” e di “aménagement du territoire” quando l’oggetto è l’intero territorio nazionale. Solo recentemente, a partire dal 1960, e dopo l’avviamento dei piani economici nazionali pluriennali, l’“aménagement des territoires” è sostituito dalla “planification territoriale”, in coerenza con la “planification économique”.

In campo scientifico va ricordato il tentativo di inquadrare 1’“urbanisme” nel più vasto ambito dell’organizzazione dello spazio, per il quale M. F. Rouge ha proposto, nel 1947, la denominazione di “géonomie”, come equivalente del termine tedesco “Raumordnung”.

Attardati rispetto alla cultura internazionale, gli urbanisti italiani fanno le prime prove negli anni ’20, avendo alle loro spalle unicamente gli studi statistico-demografici, che avevano definito scientificamente l’urbanesimo (Mortara, 1908). Il primo congresso italiano è del 1926 (Torino) ed è intitolato all’Urbanesimo, dove questo termine è impiegato sia nel significato demografico, sia come adattamento di “urbanisme”; in questo senso ancora nel 1927, in una pubblicazione di Armando Melis su Torino, è impiegata la parola “urbanesimo”, ma nelle ultime pagine fa la sua apparizione la parola “urbanistica” usata sia come aggettivo, di dottrina, sia come sostantivo; e con urbanistica, anche “urbanista”.

A sprovincializzare l’ambiente culturale italiano concorre il XII Congresso della Intemational Federation for Housing and Town Planning, tenuto a Roma nel 1929, da cui prendono le mosse la costituzione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, avvenuta nel 1931 e l’inizio della pubblicazione della rivista Urbanistica nel 1932.

Questa posizione di retroguardia dell’Italia nella cultura europea contrasta stranamente con l’attività legislativa sviluppatasi ai primordi dell’unità nazionale, che aveva prodotto, in notevole anticipo rispetto alla Francia ed alla stessa Inghilterra, la legge del 1865 sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica, con cui erano stati istituiti, sia pure in forma facoltativa, i “piani regolatori edilizi” ed i “piani di ampliamento”, caratterizzati da una visione sufficientemente allargata del fenomeno urbano.

Bisogna giungere però fino al secondo dopoguerra, perché in Italia si sviluppi una nuova cultura urbanistica, orientata a trasformare i piani urbanistici episodici in un processo di pianificazione continua, che con l’allargamento dell’orizzonte concettuale comporterà anche l’introduzione di un nuovo linguaggio.

DEFINIZIONE DI URBANISTICA

Se sono occorsi oltre cento anni per liberare la concezione dell’urbanistica dalla identificazione dapprima con l’arte urbana e quindi con la normativa edilizia e con l’ingegneria stradale, fino a configurarla come disciplina autonoma, con proprio irriducibile oggetto e specifica metodologia conoscitiva ed operativa, è ben comprensibile che le definizioni formulate in così lungo arco di tempo divergano su di un ampio ventaglio; in questo processo l’atteggiamento acritico di molti urbanisti pratici non ha certamente agevolato il chiarimento scientifico e la stessa operatività degli interventi.

La definizione di arte e tecnica della costruzione delle città, per lungo tempo accettata come semplice parafrasi dello Städtebau, suonava come simmetrica della definizione accademica dell’arte e tecnica della costruzione di edifici (v. ARCHITETTURA) e denunciava, con tale parallelismo, una posizione concettuale che riteneva l’urbanistica coincidente sostanzialmente con la stessa architettura, salvo, se mai, le differenze di scala, come se si trattasse di una particolare categoria di architettura in grande, ricadendo così nell’ormai inattuale definizione di arte urbana; al tempo stesso tale definizione, assegnando all’urbanistica una ibrida natura di arte e di tecnica, apriva una lunga serie di equivoci e di dispute sulla priorità dell’arte sulla tecnica o della tecnica sull’arte o del modo di accompagnare e adattare l’una all’altra.

Per lo Stubben (1889), infatti, scopo dell’urbanistica è ancora il «rivestire la tecnica soddisfazione delle esigenze con piacevoli forme» quasi che si trattasse poco più di un addobbo scenico; definizione questa che, rifacendosi agli epigoni dell’accademia architettonica, ripropone le distinzioni tra forma e struttura, tra pianta funzionale e prospetto artistico di un edificio, e quindi fra trama urbana e decoro architettonico dei vari edifici.

Anche il Larousse du XXème siècle (1933) definiva l’urbanistica come “aménagement et embellissement” delle città e dei villaggi e proponeva di condensare il suo programma nelle tre parole: “assainir, agrandir, embellir”, come sintesi di igiene, comfort ed estetica, nuova versione della triade vitruviana. Ancora nel 1934 Pierre Remaury su uno dei primi numeri della rivista Urbanisme sosteneva che l’urbanistica «coincide con l’architettura, di cui non è altro che un’estensione su di un piano generale»; affermazione questa che di tempo in tempo riaffiora specialmente fra quei critici che dell’urbanistica rilevano come elemento caratterizzante il solo aspetto spaziale e formale del vaso urbano, architettonicamente definito (ad es. Argan, 1938).

Una diversa angolazione è data da chi, pur senza sostanzialmente scostarsi dalla definizione tradizionale, considera come elemento caratterizzante dell’urbanistica la “pianta” della città: l’urbanistica diventa allora l’“arte di progettare” i piani delle città (Art of designing Cities, in Town Planning in Practice, di Raymond Unwin, 1909) e più tardi La Science des plans des villes, di Rey, Pidoux e Barde (1930). Attraverso lo studio della pianta della città (il “piano” coincide in quel periodo con la “pianta in progetto”) si raggiunge così una visione necessariamente d’insieme, sia pure geometricamente raffigurata sul piano, e quindi ancora bidimensionale e staticamente definita, con tutte le limitazioni che ne derivano, ma che rappresenta un primo affrancamento dalla identificazione dell’urbanistica con l’architettura, o dall’ingenuo connubio di arte e tecnica.

È ben vero che lo studio delle piante delle città può condurre, come ha in effetti condotto, a sopravvalutare l’aspetto “geometrico “della pianta stessa, ed a metterne in evidenza le caratterizzazioni morfologiche, e tutta la pur rilevante produzione scientifica del Lavedan, dall’Histoirede l’Urbanisme (1926-1938) alla Géographie des villes (1936), risente di questa accentuazione, ma è anche immediatamente evidente che la rappresentazione planimetrica altro non è che uno strumento simbolico e sintetico nel quale sono condensate le soluzioni di molti problemi di varia natura ed a mezzo del quale si esprime il carattere del prodotto finale: la città. Ed è proprio nella ricerca di una definizione scientifica e pratica dei “problemi” e della “città” che si affina il concetto di urbanistica.

«Urbi et orbi, dentro e fuori la città, nulla senza la città», esclama Le Corbusier nel 1922, presentando il suo progetto di una moderna città ideale, e prosegue: «infatti l’urbanistica è l’espressivo prodotto del patto di associazione che ha sempre condizionato la possibile esistenza degli uomini»; la visione globale della città nuova quale sgorga dall’empito creativo presuppone ed anticipa per Le Corbusier anche una nuova, ma non ben identificata, struttura sociale, basata su di un novello “patto di associazione”; il riferimento alla “conjuratio”, da Max Weber studiata proprio in quegli anni (Die Stadt, 1921) come fondamento sociologico della formazione della città occidentale intorno al mille, parrebbe non casuale.

Ma una definizione dell’urbanistica non può considerare soltanto il caso più propizio ed emozionante, quello delia creazione ex novo di una città, e soprattutto di una grande città, che resta pur sempre un evento eccezionale, ma deve considerare anche le operazioni relative alla trasformazione delle città esistenti, che rappresentano ovviamente il caso più diffuso, comprendendo tutte le possibili trasformazioni dalla creazione all’espansione, alle modificazioni ed alterazioni di qualsiasi entità.

È ciò che era stao espresso in termini assai generali fin dal 1920, da Géo Ford in Urbanisme en pratique: «l’urbanistica è la scienzae l’arte di applicare la pratica previsionealla elaborazione ed al controllo di tutto ciò che entra nell’organizzazione materiale di un’agglomerazione umana e di ciò che l’attornia»: Géo Ford preconizzava fin d’allora che il lavoro di analisi e di sintesi risultasse dallo sforzo combinato di competenze specializzate ed affermava con ampiezza di vedute che il campo d’azione dell’urbanistica è illimitato: non solo villaggi e città, ma anche il territorio circostante, le regioni, una intera nazione sono campo d’azione dell’urbanistica.

È questa una posizione concettuale del tutto nuova, che andrà ad informare l’atività pratica senza immediati sviluppi in sede teorica. Durante gli anni ’30 l’attenzione degli urbanisti teorizzanti è infatti attratta ed assorbita più dallo sperimentalismo del periodo razionalista, limitatoal campo dell’abitazione, dalla casa al quartiere, che dalla sommessa ma seria preparazione dei primi piani scientificamente studiti, che pure vengono approntati in quegli anni. Questi offrono tuttavia la prima vera occasione di scoprire e di afferrare formalmente la complessa realtà urbana attraverso l’analisi sistematica dei fenomeni e l’applicazione dei metodi statistici: esemplare sopra tutti, per metodologia e risultati, lo studio del piano di Amsterdam, durato dal 1928 al ’35. Si può con tutta tranquillità affermare che è su questa esperienza che viene edificata la nuova urbanisitca del secolo XX.

Alla luce di questa esperienza, risultano invece ancora estremamente deboli ed imprecise le definizioni date in quegli anni sull’urbanistica.

Scienza d’osservazione, arte di composizione e filosofia sociale, la definisce Alfred Agache nel 1932; ma poi spiega che «l’urbanista deve tradurre in proporzioni, volumi, prospettive e profili le diverse proposte suggerite da ingegneri, economisti, igienisti e finanzieri» riducendo quindi l’urbanistica ad una sorta di interpretazione e di traduzione simultanea di idee altrui, con evidente negazione di qualsiasi autonomia di metodo e di giudizio. L’equivoco dell’“urbanista-interprete” durerà a lungo, configurando l’urbanistica come una pura e semplice tecnica neutrale e passiva, sottomessa ad altre discipline ed a decisioni del tutto esterne.

Contro questo atteggiamento remissivo e contro il suo opposto, l’atteggiamento demiurgico dell’alternativa globale proposta dall’“urbanista-riformatore sociale”, tipico dell’urbanistica utopistica, vien presa posizione in vari modi ed in varia misura.

L’atteggiamento più prudente, di fronte alla complessità dei problemi posti dalla realtà presente degli insediamenti urbani ed alla vastità delle analisi che essi reclamano, è quello di definire l’urbanistica come “punto di convergenza” di arti e scienze assai diverse (Joyant, 1934) o come “scienza che abbraccia molteplici branche” (Elgoetz, 1935): troppo poco, ma quanto meno, il punto focale è riportato al centro della realtà che si vuole esaminare e modificare e non al di fuori di essa.

Ma se si riconosce che la realtà su cui si vuol operare, ed operare “da dentro”, è complessa ed eterogenea, dovrebbe anche essere possibile individuare un principio di coesione interna specifico per la realtà urbanistica, da cui far discendere una scala di valori, che possa guidare nei giudizi di merito. A questo problema sono state date varie risposte.

Gli architetti ed urbanisti razionalisti degli anni ’30 hanno individuato questo pricipio nel funzionalismo di tutti gli elementi costitutivi della città. Per essi così si esprime Piero Bottoni nel 1938, definendo l’urbanistica «la dottrina che si occupa della organizzazione dei luoghi o centri destinati all’abitazione, alla produzione, alla distribuzione, alla vita collettiva, allo svago e riposo dell’uomo, con le comunicazioni ed i trasporti relativi, nel modo più conforme alla intrinseca funzionalità di quelli ed alle superiori necessità sociali collettive», ma non precisa il principio di funzionalità delle singole parti, né affronta il problema del passaggio dalla funzionalità delle parti a quella dell’insieme.

Il richiamo alla funzionalità, peraltro, non è nuovo nelle teorie architettoniche, ed in urbanistica esso si riallaccia alla penetrante intuizione di Ildefonso Cerdà (1859), che ricercava il principio di coesione interna della struttura urbana nelle ~ relazioni reciproche tra contenuto e contenente, che sono espressione del funzionamento della popolazione nella città», con la differenza che secondo gli urbanisti razionalisti il principio di funzionalità sembra discendere essenzialmente da relazioni intrinseche fra gli oggetti fisici (per es. soleggiamento, e quindi distanze fra gli edifici), mentre per Ildefonso Cerdà il termine di paragone e di misura è la popolazione nel suo rapporto con la struttura fisica urbana: città e popolazione diventano nell’impostazione di Cerdà due termini insopprimibili che vanno costantemente esaminati nella reciprocità delle loro relazioni. Si apre in tal modo il discorso a quella visione generale ed organica che viene ampiamente sviluppata da Patrick Geddes, nei suoi studi sulla evoluzione delle città: per Geddes (1923), l’urbanistica è anzitutto scienza civica, basata sulla “civic survey”, ed ha per obiettivo la riorganizzazione delle città e delle regioni, perché la scienza non può non mirare all’azione, la diagnosi alla cura.

«La città è un organismo, vivente di vita propria», aveva affermato Marcel Poëte fin dal 1908. La concezione organica, che sviluppa le idee di Cerdà, Geddes, Poëte, è chiaramente definita da Luigi Piccinato nell’Enciclopediaitaliana (1938): «l’urbanistica in generale guarda all’evoluzione della città nella sua totalità, poiché la città si può considerare come un essere vivente in continua trasformazione»: inquadrata in questa prospettiva l’urbanistica si propone lo studio generale delle condizioni, delle manifestazioni e delle necessità di vita e di sviluppo delle città.

Ma anche il principio della visione organica, pur costituendo un superamento della posizione tecnicistica dei funzionalisti, appare ancora insufficiente a risolvere tutti i problemi posti dalla pianificazione urbanistica, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici, come pure si rivela insufficiente a precisare il metro rispetto al quale possano essere ragionevolmente operate le scelte. Ancor più si complica il problema se nella realtà urbanistica si tien conto anche della struttura sociale e politica.

«Parlare di urbanistica fuori di una determinata concezione etico-politica non ha senso. L’urbanistica non è semplicemente una tecnica», ammoniva nel 1941 Carlo Ludovico Ragghianti.

In un orizzonte così dilatato è ancora possibile ritrovare un principio di coesione, di unificazione e di guida?

Sir William Holford, nel Town and Country Planning Textbook, del 1950, ha individuato tale principio nel «processo di coordinamento e di combinazione di operazioni su vari fronti», che sarebbe comune alle tre fasi fondamentali della pianificazione: l’indagine, il piano di sviluppo ed il programma di attuazione; nel Text-book è praticamente illustrato quanto l’urbanistica possa attingere per le sue analisi dalle varie discipline geografiche, sociologiche, economiche e giuridiche e di quale attrezzatura tecnica specifica ormai essa disponga dopo parecchi decenni di attività sperimentale. Il processo di sintesi occorrente per la formazione del piano è stato chiaramente definito da Lewis Keeble nei Principles and Practice of Town and Country Planning (1952), come risultato di «raccolta, confronto e valutazione di tutte le correlazioni, possibilità e conflitti, posti in luce dalle indagini». Il principio di coesione è dunque, nelle differenti fasi di analisi e di sintesi, anzitutto un principio di metodo. Ma se l’analisi può essere scientificamente condotta, la sintesi resta ancora, nella esposizione del Keeble, frutto soggettivo di una mente.

La ricerca della oggettivazione scientifica di un sempre maggior numero di scelte e la sperimentazione “ex ante” dei risultati di sintesi costituiscono i nuovi temi metodologici degli anni ’60: ed anche se finora i risultati pratici in tale direzione sono del tutto esigui, è tuttavia significativo che il problema sia ormai concettualmente impostato e che costituisca il campo di esplorazione della pattuglia più avanzata negli studi scientifici della pianificazione urbanistica.

Giunti a questo punto dell’esame delle varie definizioni di urbanistica, viste nel loro sviluppo storico e collocate nella loro concatenazione concettuale, riteniamo necessario, per procedere verso una ipotesi di definizione aggiornata, approfondire prima la natura dell’oggetto stesso della ricerca e degli interventi, l’insediamento umano sul territorio, nella sua più civile espressione, la città.

DEFINIZIONE DI CITTÀ

Vastissima è la letteratura sull’argomento, accumulatasi in poco più di mezzo secolo di studi ad opera di geografi, storici e sociologhi; ad essa va aggiunta una ancor più copiosa produzione di monografie locali, compilate a premessa di piani urbanistici, delle quali solo una esigua aliquota ha visto le stampe, mentre la maggior parte di esse, redatte in limitatissimo numero di copie, sono andate disperse. Manca per queste ultime una aggiornata e sistematica bibliografia per paesi, iniziata per ora soltanto in Inghilterra, Francia e Polonia; manca soprattutto, in questo campo, un centro internazionale di documentazione, che garantisca la conservazione e la consultazione dell’immenso materiale prodotto.

Verso una scienza urbana. - L’interesse per lo studio scientifico del fenomeno urbano da parte delle discipline geografiche e sociologiche ha inizio nell’ultimo decennio del secolo scorso, con notevole ritardo rispetto alle manifestazioni di interessamento e di esplosione urbanistica ormai in atto negli Stati Uniti ed in Europa a partire dalla metà del secolo. È infatti di quegli anni (1845) la drammatica denuncia di Engels sulla situazione delle abitazioni della classe operaia in Inghilterra, con la minuta descrizione della situazione urbanistica di Manchester. Ma bisogna giungere fin verso la fine del secolo perché prenda avvio lo studio scientifico degli insediamenti umani, che si sviluppa quasi contemporaneamente secondo vari filoni separati, e spesso contrastanti, facenti capo alle dottrine geografiche sociologiche ed economiche che in quegli anni si formano; sia pure nella molteplicità degli angoli visuali alcuni principi comuni vengono tuttavia riconosciuti e costituiranno il quadro di riferimento concettuale delle ricerche specifiche nel campo urbanistico.

Con l’Antropogeografia di Ratzel (1891) Si enuclea il principio della “unitarietà ambientale” e quindi della concatenazione di tutti i fenomeni di geografia fisica ed umana; l’Ecologia di Haeckel (1884) apre lo studio delle «mutue relazioni di tutti gli organlsmi viventi in un solo ed unico luogo e del loro adattamento all’ambiente che li attornia»; entrambe aprono la strada all insegnamento di Vidal de la Blache ed alla sua Geografia umana (uscita postuma nel 1922), Cui riconoscono di far capo le modeme scuole di geografia urbana che annoverano studiosi della statura di Max Sorre, Pierre George e Chabot.

Nello stesso periodo di tempo si sviluppa la moderna sociologia, che prende le mosse dalla prima opera di Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893); in essa, partendo dalla distinzione tra divisione di lavoro tecnico e divisione del lavoro sociale, Durkheim dimostra che lo sviluppo di quest’ultima conduce alla preponderanza della “solidarietà organica” (per dissomiglianza) sulla “solidarietà meccanica” (per assomiglianza) il che si manifesta con la crescente moltiplicazione di raggruppamenti particolari, la limitazione progressiva del diritto “repressivo” ,1’interiorizzazione della coscienza collettiva e la “fortificazione” della personalità umana. Con Durkheim viene affermata la «specificità della realtà sociale e la sua irreducibilità di fronte a qualsiasi altra realtà»; oggetto e metodo della sociologia, nel pensiero durkheimiano, sono così definiti dal Gurvitch: «La sociologia è una scienza che studia, con vedute d’insieme, in modo tipologico ed esplicativo, i differenti gradi di cristallizzazione della vita sociale, la cui base si trova negli stati di coscienza collettiva, irriducibili ed opachi alle coscienze individuali; questi stati si manifestano nelle costruzioni, istituzioni, pressioni e simboli esteriormente osservabili, si materializzano nella trasfigurazione della superficie geografico-demografica ed impregnano al tempo stesso tutti questi elementi con le idee, va!ori ed ideali cui tende la coscienza collettiva nel suo aspetto di libera corrente di pensiero e di aspirazione». La scuola durkheimiana, continuata da Marcel Mauss e da Maurice Halbwachs autore della Morphologie sociale (1935), è oggi rappresentata da Georges Gurvitch, che definisce la sociologia (1958) come «scienza che studia nel loro insieme ed ai vari livelli di profondità i fenomeni sociali totali astrutturali, strutturabili e strutturati, al fine di seguire-e spiegare, in collaborazione con la storia, i loro movimenti di strutturazione, destrutturazione, ristrutturazione e sprigionamento». Secondo questo indirizzo sociologico la prima tappa nello studio di un fenomeno sociale totale è data dalla ricognizione della superficie morfologica ed ecologica, che studia le esteriorizzazioni materiali della realtà sociale (densità, movimento e distribuzione spaziale della popolazione, insediamenti urbani, vie di comunicazione, utensili etc.) che si possono considerare sociali in quanto penetrate e trasformate continuamente dall’azione umana collettiva.

In questo quadro si collocano le più recenti ricerche di sociologia urbana di Chevalier, e di Chombart de Lauwe, che si riallacciano agli studi di ecologia urbana della scuola nordamericana, iniziati da Robert Ezra Park (1919), sviluppati in collaborazione con Burgess e McKenzie (1925), e proseguiti soprattutto dalla scuola di Chicago.

Lo scopo comune degli studi di sociologia e di ecologia urbana è stato definito da Denis Szabo (1933) come «lo studio dei gruppi sociali e della loro interazione in quanto influenzati da quell’ambiente fisico-psico-socio-culturale che è l’agglomerazione urbana».

Questo rapido schizzo, necessariamente sommario ed incompleto, della nascita degli studi urbani sarebbe ancora fortemente mutilo se non si facesse almeno un fugace cenno ad altri avvenimenti scientifici non meno importanti, quale il sostanziale rinnovamento di antiche discipline, come l’economia e la statistica, avvenuto sullo scorcio del secolo.

Per quanto riguarda la statistica, l’epoca moderna degli studi è collocata alla fine del secolo, con Karl Pearson, da cui hanno origine le modeme scuole di statistica, mentre, per quanto riguarda le scienze economiche, sarà qui sufficiente ricordare, in sintesi, che un decisivo sviluppo del pensiero economico ha inizio, negli ultimi decenni del secolo, per opera di due scuole entrambe astratte (quella austriaca, sull’utilità marginale applicata al campo della microeconomia, e quella di Losanna, sull’equilibrio generale esteso quindi ad una macroeconomia astratta per merito della scuola londinese di Alfred Marshall, che espone la teoria dell’equilibrio parziale basata sull analisi temporale dei periodi lunghi e brevi, e della scuola economica di Stoccolma) e inoltre che gli ulteriori sviluppi passano attraverso alla Teoria generale dell’impiego dell’interesse e della moneta di Keynes (1936), come tentativo di una teoria centrale esplicativa del funzionamento delle fluttuazioni di tutti i settori. Negli anni più recenti si assiste allo sforzo di far convergere le varie scuole moderne di pensiero economico verso una nuova metodologia, basata sulla unificazione dei metodi statistici e matematici e delle teorie economiche, che apre un nuovo campo di osservazione e di congettura; ricerche econometriche, modelli teorici e loro applicazione al mondo reale schemi globali di bilancio nazionale, modelli previsionali e decisionali sono i principali capitoli e le fondamentali tappe di questa nuova scienza economica, che sfocia nella teoria della pianificazione, intesa, secondo la definizione di Gilles-Gaston Granger (1955), come «organizzazione o riorganizzazione sistematica di una struttura e del suo funzionamento».

Il richiamo alle scienze economiche nel corso della presente trattazione potrebbe apparire, a prima vista, quasi senza nesso pratico, se, proprio nelle fasi finali dell’evoluzione del pensiero economico, non fossero stati ritrovati strumenti di osservazione e di previsione di un’economia globale territorialmente definita, che si possono applicare e si incomincia ad applicare anche a regioni, ad agglomerazioni urbane ed a città.

Coordinare ed integrare quelle parti della geografia, della sociologia, ed ora anche dell’economia, che si interessano dei fenomeni urbani in un’unica coerente scienza urbana è un passo ancora da compiere sul piano teorico e metodologico, ma esso appare allo stato attuale dello sviluppo di tali scienze, non solo possibile, ma opportuno ed auspicabile; il tentativo e effettivamente in corso, sia pure in forma ancora grezzamente sperimentale, nei più avanzati studi urbanistici.

Definizione geografico-urbanistica della città. - Una rapida rassegna delle principali fra le numerose defìnizioni di città enunciate da geografi, storici e sociologi moderni, pone in luce la estrema varietà degli aspetti rilevati e dei punti di vista e la difficoltà di contenerli in un’unica proposizione, che risulti valida al di fuori delle differenze temporali e spaziali. Così la definizione di città come «stabile concentrazione di uomini e di residenze che coprono considerevole parte di terreno, con strade commerciali al centro», data da Ratzel (1891), evoca piuttosto i caratteri della città preindustriale che non quelli delle città in esplosione verso la fine del secolo, e non può essere certamente assunta, per incompletezza, come enunciazione generale. Definire la città, distinguendola dal villaggio, per mezzo dell’attività dei suoi abitanti è impresa quasi senza sbocco, perché se si procede per esclusione, come propone von Richthofen (1908), secondo cui la città è «concentrazione di attività non agricole», si ottiene una indicazione non solo vaga, ma anche unilaterale, perché non riconosce carattere urbano alle città agricole che non abbiano carattere di villaggio; se si tenta di elencare tutte le possibili attività non si ottiene altro che una interminabile lista, ed infine, se si cerca di coglierne il carattere predominante, come nella definizione sintetica di Max Weber (1921) della città come «sede di mercato» (con le variazioni di città dei mestieri, dei mercanti o dei consumatori), si individuano solo alcuni degli aspetti economici tipici della città medievale del mondo occidentale, non estensibili ad altri periodi storici, o li si stempera nella genericità, come nella formula di H. Wagner (1923) per il quale le città sono «punti di concentrazione del commercio umano». Sempre in questa direzione sono ancora da segnalare la definizione di Bruhnes e Deffontaines (1920), secondo i quali «vi è città ogni qual volta gli abitanti impiegano la maggior parte del loro tempo all’interno dell’agglomerazione», che è evidentemente inapplicabile alle città-dormitorio ed alle città agricole, inentre lo potrebbe essere anche ad annucleamenti non strutturati; fra le più recenti quella di Pierre George (1952) che individua la città nel «punto di contatto tra economia industriale ed economia commerciale», anche questa tuttavia suscettibile di riserve. Utile ai fini orientativi e descrittivi, ma scientificamente sterile, è la classificazione tipologica degli insediamenti umani catalogati secondo i più svariati caratteri, dagli aspetti fisici del sito a varie ed arbitrarie classi di ampiezza, alle funzioni prevalenti (commerciali, militari, portuali, industriali, amministrative, politiche, religiose, turistiche, ecc.), ognuno dei quali, come ad esempio quello amministrativo, può generare numerose sottoclassi, e così via.

L’unico tentativo di trar partito da queste numerose classificazioni per una annotazione di sintesi dei dati segnaletici relativi ad un insediamento è stato realizzato da Griffith Taylor, che in Urban Geographie (1947) propone una “equazione di città", composta di due membri: il primo, a sinistra, formato dalla cifra della popolazione (in migliaia) moltiplicata per lo stadio di sviluppo (per il quale propone una curiosa divisione in cinque classi d’età: infantile, giovanile, adolescente matura e senile) più i caratteri del sito (espressi secondo una data classificazione); il secondo, a destra, formato da una somma di tanti addendi quante sono le zone funzionali della città, ciascuna delle quali contrassegnata da un’espressione composta dalla sigla di destinazione d’uso, dalla distanza chilometrica della zona dal nucleo centrale e dalla posizione della zona stessa rispetto ai punti cardinali, sempre riferita al nucleo centrale. Il metodo, per quanto perfezionabile ed utilizzabile ai fini classificatori, non risulta praticamente applicato.

Più fecondo di risultati è stato invece il metodo della lettura morfologica dell’insediamento, proposto dal Lavedan (1936), che individua come elementi generatori della pianta: l’asse stradale generatore, le direttrici naturali, il rilievo, l’eventuale cinta muraria, i monumenti (che determinano nel tessuto edilizio movimenti di avvolgimento, di attrazione o di prospettiva) ed infine i sistemi geometrici razionali di urbanizzazione (a scacchiera, radiocentrici, lineari, a fuso, ecc.).

Il metodo, se criticamente utilizzato, può fomire lo spunto per la interpretazione dei caratteri urbani, come hanno dimostrato gli studi di Luigi Piccinato sulle città medievali; «nell’organismo urbano», dice sinteticamente Umberto Toschi (1947) «funzioni e forme differenziano elementi costitutivi numerosi e diversi che bisogna cercare di individuare nei loro caratteri interiori ed esteriori».

L’analisi morfologica dell’impianto, del tracciato e del tessuto di un insediamento e dei caratteri del sito determinanti per la struttura urbana può quindi esser utilmcnte eseguita come uno dei primi passi verso la conoscenza della realtà del fenomeno urbano, ma può anche condurre a risultati del tutto sterili ed astratti, se l’esame vien limitato all’aspetto puramente geometrico e fisico degli elementi generatori della pianta, perché allo studio dell’organismo urbano, che pur si dichiara di non poter conoscere se non nella globalità di organismo, si sostituisce la descrizione schematica e statica del suo scheletro o, se si vuole, del suo guscio, correndo lo stesso rischio, denunciato da Marcel Mauss, di chi «trascura l’elemento vulcanico, novatore, effervescente, rivoluzionario della vita sociale, considerandola sotto l’aspetto istituzionale, visto di preferenza nella sua espressione cristallizzata e cadaverica».

Quest’esigenza era già stata profondamente capita da Patrick Geddes (1854-1932), che, superando l’esame delle semplici interazioni fra luogo-lavoro-popolo, proposte da Le Play e da lui attivizzate nei rapporti fra organismo-funzione-ambiente, ha insegnato a considerare le città nel loro stato di evoluzione e ad analizzare la condizione attuale in tutti i suoi aspetti dinamici, anche negativi. A lui si deve non solo la definizione della “città paleotecnica”, frutto della rivoluzione industriale incontrollata (che ha prodotto Kakotopia), cui contrappone la fase “neotecnica” (Eutopia), secondo una schematizzazione tipologica ed una terminologia che saranno ampiamente sviluppate da Lewis Mumford, ma anche una serrata critica della dispersione e disseminazione urbana in atto sul territorio inglese nei primi anni del secolo, con le patologiche manifestazioni dei nastri continui e delle fungaie di case o di quelle particolari proliferazioni di tessuto astrutturato che si sviluppano irregolarmente e con discontinuità attorno e fra i centri industriali fino a dar luogo, nel loro complesso, ad un nuovo tipo di insediamento e ad una nuova forma di aggregazione urbana, dal Geddes battezzata “conurbazione” (1915).

Il processo di urbanizzazione spontanea, sollecitata dai singoli interessi privati dell’economia capitalista in espansione, era infatti, in Inghilterra, in stadio di avanzata degenerazione fin dai primi anni del secolo con manifestazioni che si sarebbero prodotte solo più tardi in altri paesi, con la puntuale ripetizione ed accumulazione di identici aberranti effetti. Si sono così avuti differenti aspetti morfologici di espansione incontrollata, con casi di avvolgimento a nubi attomo a città accentrate tradizionali, con infiltrazioni a spora e a grappolo germogliate fra città principale e corona di città minori, oppure con inserimenti di tessuto sfilacciato ed informe fra città e città di pari importanza o, ancora, con la formazione di un amorfo tessuto indefinitamente dilatabile: ovunque si siano manifestati, questi nuovi insediamenti hanno rapidamente rotto l’antica separazione fra città e campagna, sconvolgendo antiche e recenti equilibrate strutture di quei sistemi solari urbani già studiati da Walter Christaller (1933) e che ora vengono trasformati da costellazioni in galassie, o dissolvendo ogni sistema in un’unica nebulosa urbana, formata da un “continuum urbano-rurale”, variamente diluito o condensato (A. Smailes, 1953).

I moderni geografi (T. W. Fawcett, Chabot e Pierre George) continuano ancora a denominare tali fenomeni “conurbazione “quando le città d’origine, fra le quali si sono insinuate le proliferazioni, restano distinte pur essendo inglobate in un unico insieme, ma li battezzano “agglomerazioni” quando tra città e proliferazioni si stabilisce uno stretto grado di interrelazioni e di dipendenza. Nel recente linguaggio urbanistico inglese, il termine “city region”, già adoperato dal Geddes in senso geografico di regione urbana, è ora spesso usato per indicare quelle conurbazioni che siano soggette ad un processo di ristrutturazione urbanistico-amministrativa, per la loro trasformazione da aggregati informi in aggregazioni strutturate. In questo senso “city region” è da tradurre con “regione urbanizzata” più che con “città-regione”, come spesso è stato impropriamente ed affrettatamente fatto in Italia in tempi recentissimi, dando luogo ad equivoci ed abusi nominalistici; il termine città-regione, infatti, non esprime con evidenza il senso di ricupero di una situazione negativa in atto, ma induce piuttosto all’illusoria scoperta di una nuova categoria di supercittà quasi che l’estensione del concetto di città ad un ampio territorio comportasse anche la risoluzione o l’assoluzione di tutti i suoi problemi.

Per alcuni geografi inglesi, tra cui il Dickinson (City, Region and Regionalism, 1947-1960), il termine di “city-region” è invece usato per indicare l’area tributaria funzionalmente dipendente, o servita, da una città, nel senso quindi geografico-economico di area di influenza.

il manifesto, 14 aprile 2008

Sono tra quelli che, a partire dell’inizio degli anni Ottanta del XX secolo, hanno cominciato a proporre e sperimentare l’articolazione della pianificazione in due componenti: una componente strutturale, una componente programmatica. Le proposte che in quegli anni proponemmo e sperimentammo[1] acquisirono marcata evidenza pubblica nel Congresso dell’INU del 1995, e ispirarono molte legislazioni regionali successive (a partire da quella toscana e quella ligure del 1995-1997) e la formazione di strumenti di pianificazione particolarmente in Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Veneto.

Oggi si discute (ma in cerchie abbastanza ristrette) sull’efficacia di quella articolazione. Una discussione nella quale si sentono molte voci critiche le quali, a mio parere, si riferiscono più all’applicazione concreta dell’articolazione che al suo significato. In questa note vorrei domandarmi se quella articolazione abbia ancora oggi un senso oppure no: se sia sbagliato, o comunque criticabile, il principio in se, il metodo che esso suggerisce, oppure se ne sia stata sbagliata l’applicazione; e se quindi quel principio e quel metodo siano ancora validi, e meritino perciò d’essere riproposti e, dove possibile, praticati.

Esporrò con una certa ampiezza le intenzioni dell’articolazione della pianificazione in due componenti citando i successivi approfondimenti cui ho partecipato, poi esaminerò molto brevemente alcuni aspetti della sua applicazione. E avverto subito il lettore che queste note non hanno un carattere sistematico ed esprimono e illustrano il portato e le opinioni desunte da esperienze personali. Sarebbe a mio parere estremamente utile se in qualche sede si svolgesse una ricerca seria, oggettiva, raccogliendo, raccontando e confrontando riflessioni ed esperienze dei numerosi urbanisti che sulla stessa linea si sono mossi, negli ultimi decenni. Così come sarebbe estremamente utile se le regioni che hanno avviato, ormai da molti anni, l’esperienza dell’articolazione del piano in più componenti promuovessero un serio bilancio critico dell’applicazione delle loro leggi urbanistiche.

LE INTENZIONI E LE PRIME ESPERIENZE

Due esigenze

Cominciammo a ragionare (con Edgarda Feletti e Luigi Scano) sull’articolazione della pianificazione (anzi, allora del “piano”) quando nel 1981 avviammo la redazione di un nuovo PRG per la città storica di Venezia. Proseguimmo il ragionamento,e la sperimentazione, soprattutto con Luigi Scano, in numerose occasioni successive, sia nell’attività culturale e professionale e in quella politica e legislativa, sia nell’ambito dell’INU (di cui sono stato il presidente dal 1983 al 1990). Ciò che inizialmente volevamo risolvere era la contraddizione tra due esigenze, che minava l’efficacia della pianificazione tradizionale.

Da una parte, il fatto che la definizione delle scelte territoriali richiedeva, soprattutto nella fase di prima impostazione, un lavoro di analisi della struttura fisica e di quella sociale del territorio di notevole impegno e durata, e che le scelte strategiche sulle prospettive della città richiedevano – una volta definite – la loro permanenza per un tempo lungo trattandosi di decisioni che richiedevano operazioni complesse e lunghe per essere tradotte in concrete trasformazioni della realtà. Del resto, le scelte derivanti da quelle analisi consistevano soprattutto nelle tutele degli elementi di qualità del territorio e nella definizione della strategia che si configurava per quel determinato territorio(città o ambito d’area vista che fosse. In entrambi i casi, scelte che dovevano avere una certa fermezza e costanza nel tempo, quindi dovevano dettare regole di carattere permanente, o almeno di lungo periodo.

Dall’altro lato, la necessità di poter modificare nel tempo scelte legate ad eventi non prevedibili, o di per sé tali da mutare in tempi medio-brevi: le caratteristiche della popolazione, le trasformazioni nell’assetto delle convenienze sociali ed economiche di utilizzazione degli spazi, i differenti orientamenti politici (e i differenti interessi sociali) prevalenti nelle istituzioni elettive. Si trattava di scelta che non era ragionevole ancorare a tempi indefiniti né lunghi, come non era ragionevole prescrivere procedure complesse per modificarle: purché, ovviamente, fossero coerenti e conformi alle decisioni strutturali e strategiche preliminarmente definite.

Il conflitto tra queste due esigenze diveniva più marcato negli anni in cui le trasformazioni sociali ed economiche subivano vistose accelerazioni, e la pianificazione tradizionale sembrava incapace di assicurare la flessibilità necessaria alle decisioni sul territorio. La pianificazione appariva dominata dalla rigidezza, dalla difficoltà di seguire in tempi ragionevoli il modificarsi delle esigenze e delle opportunità. L’unica risposta era quella di estendere all’inverosimile pa pratica delle varianti al piano parziali, episodiche, discrezionali: una risposta che, inseguendo la flessibilità e tentando di soddisfarla, provocava la perdita di ogni coerenza al sistema territoriale.

Per soddisfare entrambe le esigenze cominciammo a ragionare sulla possibilità di articolare le scelte della pianificazione in due componenti: l’una, contenente le scelte strutturali (in riferimento particolare alla struttura fisica del territorio, urbano ed extraurbano) e quelle strategiche (non fruttuosamente modificabili nel breve periodo); l’altra contenente le scelte, coerenti e compatibili con quelle strutturali e strategiche, concernente le trasformazioni da programmare e operare nel breve periodo, che si convenne coincidere con il mandato amministrativo.

Il piano del centro storico di Venezia

Il primo tentativo al quale partecipai fu in occasione della redazione del nuovo PRG per la città storica di Venezia, avviato nel 1981[2]. L’analisi tipologica strutturale delle unità edilizia (e delle altre unità di spazio) della città storica ci aveva condotto a individuare e definire, per ciascun tipo edilizio, due elementi: le trasformazioni fisiche consentite (che andavano generalmente nella direzione del ripristino degli elementi della tipologia storica originaria) e la gamma (generalmente molto larga) delle utilizzazioni compatibili con quel tipo: cioè tali da non stravolgerne l’assetto fisico e funzionale. Inoltre il piano perimetrava le parti della città in cui si potevano e dovevano effettuare operazioni più consistenti, fino alla ristrutturazione urbanistica; per questa parti il piano stabiliva le caratteristiche fisica e funzionali da rispettare nella formazione dei piani urbanistici attuativi.

Questa scelte dovevano avere carattere di permanenza nel tempo. In occasione di ogni mandato amministrativo si doveva invece decidere che cosa concretamente rendere esecutivo nel periodo successivo: quali destinazioni d’uso erano ammesse nelle diverse tipologie strutturali, naturalmente nella gamma di quelle compatibili; quali specifiche trasformazioni rendere obbligatorie nel periodo considerato; quali piani attuativi formare.

Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali, delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità degli operatori, il Consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna, ove necessario, la parte "fissa" del piano), rielabora integralmente la parte "programmatica" del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell'ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d'uso che devono, o possono essere attivate nel periodo successivo. E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti.

Lungo periodo e breve periodo

Esposi un primo tentativo di generalizzare l’esperienza di Venezia a un convegno organizzato dalla Provincia di Bologna nel 1984, al quale mi invitò l’amico Giorgio Trebbi.

Nella mia relazione, proponendo i requisiti di una nuova pianificazione, sostenevo che il piano “deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse sono certamente disponibili”. Sostenevo di conseguenza che il piano “deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più certo esplica la propria efficacia”, e che esso deve, di conseguenza, “essere contemporaneamente aggiornabile nella sua parte invariabile, o di lungo periodo, e programmabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva”[3].

Dal piano alla pianificazione;

il ruolo delle strutture pubbliche della pianificazione

L’articolazione del piano in due componenti era fin d’allora parte di una convinzione che riguardava l’intero ambito della pianificazione territoriale e urbana: quella che, in un saggio per La Rivista Trimestrale di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, definii come il passaggio dell’urbanistica dal piano alla pianificazione[4].

In quella sede, anche in riferimento alla polemica allora in corso tra i sostenitori del “piano” e quelli del “progetto”, sostenevo che era ormai insufficiente “l'immagine di uno strumento, costruito come la definizione del desiderabile assetto di una determinata parte del territorio, concluso e statico”, uno strumento “che, una volta delineato, verrà poi successivamente attuato mediante una separata attività di gestione e, nei casi migliori, di programmazione dei modi nei quali sviluppare nel tempo la sua attuazione.

Occorreva spostare “l'accento dallo strumento del ‘piano’ all'attività di ‘pianificazione’ significa non concepire e praticare più l'uso dei tre momenti tradizionali del ‘piano’ (ossia del disegno dell'assetto desiderato), del ‘programma’ (ossia della scelta, all'interno dell'universo delle opportunità definite del ‘piano’, di quelle da realizzare in una fase determinata), e della ’gestione’ (ossia dell'attuazione concreta, attraverso ‘progetti’ esecutivi, degli interventi previsti dal ‘programma’) come tre operazioni separate e successive, ma concepire invece, e praticare, i tre momenti suddetti come momenti logici di un'attività (la ‘pianificazione’, appunto) che si svolge con una stretta e continua interazione tra l'uno e l'altro momento”.

Una condizione essenziale perché si potesse compiere il passaggio “dal piano alla pianificazione” e perché quest’ultima potesse essere organizzata in modo nuovo (in particolare procedendo con continuità in un’attività sistematica di programmazione, esecuzione, monitoraggio delle scelte operative conseguenti dalle condizioni e dalle strategia dettate dalla componente strutturale della pianificazione, era costituita dalla presenza di adeguate strutture pubbliche specificamente adibite all’attività di pianificazione.

Lo avevamo già avvertito nell’esperienza veneziana, come sottolineavo nell’illustrazione del piano del centro storico, dove sottolineavo che l’impostazione proposta richiedeva, “per il suo pieno esplicarsi - una condizione irrinunciabile: una struttura di pianificazione e gestione comunale solida, efficiente, autorevole, e dotata degli attrezzi necessari per operare con continuità, sistematicità ed efficacia”.

Lo ribadivo nel saggio de La Rivista Trimestrale, dove ricordavo che “é da decenni che la migliore cultura urbanistica sostiene che la possibilità di esercitare un effettivo ed efficace governo del territorio ha il suo passaggio obbligato nella formazione di strutture pubbliche di pianificazione” e osservavo che “questo problema, mai risolto in modo compiuto, è oggi più urgente che mai proprio per le novità che sono intervenute”.

L’esperienza dell’INU prima della “svolta”

Ero presidente dell’INU quando (1988-89) avviammo la preparazione del XIX congresso nazionale. Proposi di lavorare per un congresso a tesi, al fine di consentire alle varie posizioni che venivano a manifestarsi nell’ampio gruppo dirigente dell’Istituto di esprimersi nel modo esplicito. La discussione fu ampia e, a mio parere, proficua. Non si riuscì, se non parzialmente, a giungere all’esplicitazione chiara di ipotesi alternative su cui votare all’Assemblea dei soci, coinvolgendo tutta la base associativa in una discussione che mi sembrava fondamentale. Si approdò invece a un documento unitario, approvato a maggioranza[5].

Al congresso, che si svolse a Milano dal 27 al 29 settembre 1990, presentai nella loro formulazione originaria le proposizioni che avevo avanzato nel corso dei lavori preparatori. Si trattava di due gruppi di tesi, che riguardavano argomenti nodali: l’efficacia del sistema di pianificazione e il rapporto tra pubblico e privato. Su quest’ultimo punto rendevo esplicita e argomentata con episodi concreti la critica alla “urbanistica contrattata”, che poi emerse con forza negli anni successivi con l’inchiesta giudiziaria “mani pulite e lo svelamento di Tangentopoli[6]. Ma la maggioranza dell’INU preferì glissare.

Sul primo argomento (l’efficacia del sistema di pianificazione) proponevo sostanzialmente un metodo basato sulla concezione della pianificazione come attività continua e sistematica, la preliminare considerazione dell’analisi delle risorse territoriali e della definizione delle invarianti strutturali e delle “regole della trasformabilità”, l’articolazione del piano in due componenti.

Proponevo in particolare “di porre la lettura delle qualità del territorio e la definizione delle regole della trasformabilità alla base dei processi di pianificazione non solo in tutta la pianificazione regionale ma anche nella pianificazione territoriale e urbanistica ai livelli provinciale o metropolitano e comunale”. E proponevo di definire successivamente “quali sono, all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione del territorio, lo operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla”[7].

Le mie proposte non vennero accolte.

La proposte dell’associazione culturale Polis

Il Congresso di Milano dell’INU aveva comportato la sconfitta della posizione culturale che esprimevo. Non ne fui più il presidente, né partecipai al gruppo direttivo e, successivamente, diedi le dimissioni dall’Istituto[8]. Con un gruppo di amici costituimmo un’associazione, che doveva consentirci di proseguire l’elaborazione che avevamo avviato nell’INU. Dopo una serie di seminari e di convegni approdammo, soprattutto grazie al lavoro di Luigi Scano, a definire una proposta legislativa compiuta. Essa fu presentata a un convegno nazionale, organizzato a Venezia dal PDS e dalla Sinistra europea, dedicato a una riflessione in occasione al cinquantesimo anniversario della legge urbanistica del 1942[9].

Per quanto riguarda le caratteristiche della pianificazione, nella posizione di Polis si sottolineava in primo luogo la necessità di provvedere, “ad ogni livello, a determinare, in via preliminare, le disposizioni finalizzate alla tutela sia dell'"integrità fisica" che dell'"identità culturale" del territorio interessato, da porre come "condizioni" (da intendersi sia come "limiti", sia come "prerequisiti") ad ogni possibile scelta di trasformazione (fisica e/o funzionale) del medesimo territorio”. Era, questo, un assunto che derivava anche dalla riflessione sulla legge 431/1995 (Legge Galasso) e dall’esperienza di formazione, ai sensi di quella legge, del piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna. Questo piano era stato considerato dai suoi protagonisti come la prima fase di un processo di pianificazione, che avrebbe dovuto completarsi con la formazione di un piano territoriale regionale[10].

La preliminare definizione delle regole di tutela non veniva considerato solo fine a se stesso, cioè come funzionale all’esigenza di difendere prima d’ogni altra scelta le qualità naturali e storiche del territorio, ma anche come necessaria premessa “per un'attività pianificatoria altamente, e correttamente, flessibile”. Una pianificazione, si sottolineava, “non soggetta a più o meno frequenti, e più o meno semplificate, ma comunque indiscriminate, variazioni delle scelte o delle disposizioni del piano, sulla base di ‘urgenze’ e di ‘nuove dinamiche’ troppo spesso insufficientemente valutate o neppure verificate nei loro effetti sull'assetto complessivo del territorio”, ma una pianificazione, “capace di assumere la gerarchia degli interessi e degli obiettivi che la comunità esprime e di dare tempestivamente, ma in costante riferimento ad essi, le risposte ai nuovi problemi via via insorgenti”.

Ecco che, sulla base di questa premessa, Polis riproponeva nella sua proposta di legge urbanistica l’articolazione della pianificazione, a tutti i livelli, in due componenti: “quella strutturale, rivolta al perseguimento dei principali obiettivi ambientali, culturali e socio-economici, e comprendente la definizione delle condizioni alle trasformazioni e delle trasformazioni strategiche, che costituisce la parte più solida, più duratura, della pianificazione, e che, quindi, richiede procedure di formazione di maggiore garanzia istituzionale”, e quella “programmatica, rivolta alla precisazione, alla configurazione ed all'organizzazione specifica delle trasformazioni, che costituisce la parte flessibile, e più agilmente modificabile, della pianificazione, e che, quindi, deve disporre di procedure più semplici e tempestive”.

La proposta al XXI Congresso (Bologna, 1995)

Nel 1995 si tenne a Bologna il 21° congresso nazionale dell’INU. Inviai un contributo che fu inserito negli atti del congresso[11]. Ribadivo “la possibilità, l'opportunità e l'utilità di una trasformazione del tradizionale strumento di pianificazione (il PRG)” mediante la “articolazione degli elaborati. grafici e normativi del piano comunale (ma analogo criterio viene proposto per gli atti di pianificazione degli altri livelli) in due serie di componenti” la strutturale e la programmatica.

La prima ”rappresenta e disciplina le decisioni relative alla tutela ambientale e della riduzione dei rischi, e quindi definisce, per ciascuna unità di spazio, le condizioni che l'esigenza suddetta pone alle trasformazioni territoriali, e inoltre individua (rappresentandole e disciplinandole) le scelte relative a opere e interventi di carattere strategico, e cioè riferite al lungo periodo e governabili solo in una prospettiva lunga. Essa ha validità a tempo indeterminato, viene periodicamente verificata (e aggiornata solo se ciò si rivela necessario), e comporta un iter procedimentale più garantistico dell'altra componente.”

La seconda componente “definisce le destinazioni d'uso attivabili, nonché le trasformazioni fisiche operabili (le une e le altre, ovviamente, nell'ambito e nel rispetto delle condizioni definite dalla componente strutturale e in coerenza con la sua stralegia), […] “ha validità per un quadriennio, cioè per un periodo coincidente con il mandato amministrativo; alla fine di tale periodo essa decade, e deve essere sostituita da un nuovo analogo atto. L'iter procedimentale della componente programmatica si esaurisce nell'ambito dell'ente territoriale che l'ha adottata (comune, provincia o città metropolitana, regione)”.

La proposta trovò un’eco che giudicai limitata nella proposta finale avanzata dall’INU.

Riepilogando: i contenuti essenziali della proposta

Possiamo adesso riepilogare sinteticamente i contenuti essenziali del modello di pianificazione che, a partire dall’esperienza del piano per il centro storico di Venezia, si era venuto via via precisando.

L’articolazione della pianificazione in due componenti è ritenuta utile a tutti i livelli, sulla base del cosiddetto “principio di pianificazione”[12].

Il contenuto della componente strutturale è costituito da due elementi: le regole che garantiscono la tutela delle qualità naturali e storiche del territorio e la salvaguardia dai rischi, le strategie definite per quel determinato territorio, sia nel loro aspetto di “progetto” di lungo periodo che in quello di trasformazioni di vasto respiro strategie. Dato il suo contenuto, le sue scelte sono valide a tempo indeterminato e definite con “rigidezza”, con una condivisione interistituzionale (“interscalare”), necessaria perché esse coinvolgono interessi non disponibili esclusivamente per la comunità direttamente interessata, ma anche per quelle più e meno vaste..

Il contenuto della componente programmatica è costituito dalle decisioni che possono o devono essere operative nel breve periodo, ovviamente nell’ambito e nel rispetto delle regole e delle strategie definite dalla componente strutturale. Esse sono valide a tempo determinato, e costituiscono il luogo della flessibilità nel rispetto delle rigidezze definite dalla componente strutturale. La responsabilità si esaurisce nell’ambito del territorio di competenza dell’ente proponente, e quindi le procedure di formazione si concludono entro il livello proprio.

Un corollario che ne discende è il passaggio dall’approvazione alla verifica di conformità. Poiché ogni istituzione esprime la proprie scelte mediante un atto di pianificazione, invece dell’approvazione da parte dell’ente sovraordinato delle scelte del livello sottordinato, o di complesse procedure di co-pianificazione, il ruolo dell’ente sovraordinato si esaurisce nella definizione del proprio piano e nella verifica di conformità del piano sottordinato rispetto ad esso.

Due condizioni sono indispensabili perché un simile modello funzioni.

La pianificazione non deve consistere più nella formazione di piani, ciascuno caratterizzato da un inizio e una fine del suo percorso (della sua storia), ma si invera in un’attività sistematica e continua nel tempo, nella quale le varie fasi dell’analisi, delle scelte, del monitoraggio e della formulazione delle nuove scelte si susseguono ciclicamente. Un’attività della quale il quadro conoscitivo, sistematicamente aggiornato e condiviso con tutti gli attori direttamente e indirettamente coinvolti è la base indispensabile.

Ma perché questa condizione possa verificarsi è indispensabile che, a ciascun livello, operino strutture pubbliche tecniche dotate di tutte le competenze e le attrezzature necessarie per svolgere con efficacia le operazioni necessarie. Strutture la cui qualificazione sia tale da consentir loro di individuare i supporti di consulenza necessari nelle diverse fasi del processo e in relazione ai diversi contenuti specialistici necessari, sia in termini di conoscenze esperte che di progettazione di singoli aspetti o settori od oggetti.

Una terza condizione, sulla quale in questa sede non mi soffermerò ma che è anch’essa essenziale, è la volontà politica e culturale, da parte degli eletti, di adoperare effettivamente un metodo e un procedimento siffatto per decidere sulle trasformazioni territoriali, nel breve e nel lungo periodo.

LA PRATICA SUCCESSIVA,

NELLE LEGGI E NEI COMPORTAMENTI

Le leggi regionali

Si può dire che tutte le leggi regionali approvate a partire dal 1995 prevedono l’articolazione del piano secondo criteri analoghi a quelli che ho enunciato. Esse adottano, sia pure in maniera molto diversificata, la distinzione di due (o più) componenti, o parti, o disposizioni, nell’ambito degli atti di pianificazione generale, o, più ampiamente, di più piani con differenti denominazioni, contenuti, procedure.

Nelle proposte che avevo contribuito a definire l’articolazione riguardava la pianificazione a tutti i livelli. La quasi totalità delle leggi regionali l’applica invece solo al livello comunale. Esse attribuiscono alla pianificazione di livello comunale, e ai relativi documenti, un carattere complessivo e riassuntivo di tutte le scelte sull’assetto del territorio.

La Toscana (1995) articola la pianificazione comunale in “piano strutturale”, “regolamento urbanistico” e “programma integrato d’intervento”: il primo con un carattere di individuazione e classificazione delle risorse territoriali, il secondo con efficacia di attribuzione di prescrizioni (e valori) agli immobili, il terzo con funzione programmatica e operativa.

L’Umbria (1995) articola il piano comunale in una “parte strutturale, che individua le specifiche vocazioni territoriali a livello di pianificazione generale in conformità con gli obbiettivi ed indirizzi urbanistici regionali e di pianificazione territoriale provinciale”, e una “parte operativa, che individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti nella parte strutturale”. La Liguria (1997) articola il “piano urbanistico comunale” in “descrizione fondativa”, “documento degli obiettivi”, “struttura del piano”, “norme di conformità e di congruenza”. Il Lazio (1999) articola il “piano urbanistico comunale” in “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche”. La Basilicata (1999) e l’Emilia Romagna (2000) articolano analogamente, alla legge toscana, la pianificazione comunale in “piano strutturale comunale”, “piano operativo” e “regolamento urbanistico”. La Calabria (2002) prevede un “piano strutturale comunale”, peraltro ricco di articolati contenuti precettivi, un “regolamento urbanistico ed edilizio”, che contamina contenuti propriamente “urbanistici” con quelli tipici del più tradizionale regolamento edilizio, e un “piano operativo temporale”, con forte valenza di programmazione temporalizzata degli interventi, arricchita di alcuni elementi di specificazione della disciplina urbanistica.

Come si vede, alcune regioni prevedono più piani, tra loro connessi ma reciprocamente autonomi, per le componenti strategico-strutturali e per quelle più direttamente operative; altri invece articolano in più componenti un’unica figura pianificatoria generale.

Alcune leggi regionali attribuiscono l’articolazione della pianificazione in più parti o componenti anche ai livelli sovraordinati. Così la Liguria prevede a ciascuno dei tre livelli un documento di analisi fondativa (“quadro descrittivo” a livello regionale, “descrizione fondativa” a livello provinciale e comunale), una trascrizione precettiva di tale analisi (“quadro strutturale” e “struttura del piano”). Il Lazio prevede la distinzione tra “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche” anche a livello regionale e provinciale. In particolare, la legge laziale stabilisce che “la pianificazione territoriale ed urbanistica generale si articola in: previsioni strutturali, con validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio regionale, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata; previsioni programmatiche, riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali”.

In sostanza, l’impostazione delle legislazioni regionali rimane fedele ad alcuni dei criteri emersi dalle elaborazioni culturali degli anni precedenti. In particolare, per la parte strutturale della pianificazione comunale sono sempre presenti tre elementi: la preliminare individuazione degli elementi del territorio che ne condizionano l’integrità e ne connotano l’identità; la definizione delle regole che ne assicurino la corretta utilizzazione anche per i posteri; l’individuazione delle direttrici strategiche dell’azione di trasformazione.

A causa di questa sua natura, il piano strutturale parte generalmente da una descrizione, la assume come fondativa delle scelte di lungo periodo (lo “statuto dei luoghi”), la traduce in regole di lunga durata (di carattere “statutario”).

L’attuazione

Non mi risulta che sia stata compiuta una seria analisi comparativa delle esperienze di applicazione dell’articolazione del piano in più componenti. Sarebbe a mio parere un lavoro estremamente utile. Un’analisi che parta da una chiara enunciazione degli obiettivi che si volevano raggiungere, dalle intenzioni che li sorreggevano, che esponga il modo in cui i precetti sono stati applicati nelle diverse situazioni (o almeno in un certo numero di casi oculatamente scelti come rappresentativi), che misuri la distanza tra gli obiettivi e i risultati, che formuli alcune ipotesi sullo scarto maggiore o minore tra gli uni e gli altri. Ma non sembra facile, ai nostri tempi e nel nostro paese, fondare l’attività legislativa su un’analisi rigorosa dell’attuazione delle leggi che si vogliono cambiare, e di cui semplicemente di vuole verificare l’adeguatezza.

Mi limiterò quindi, per ora, a formulare alcune osservazioni sulla base delle conoscenze più ravvicinate di cui dispongo.

Credo di poter innanzitutto sostenere che gia nelle leggi regionali, e ancor di più nella loro attuazione, si siano trascurati due aspetti della questione che a me sembrano essenziali.

In primo luogo, non si è applicato quello che ho definito il “principio di pianificazione”. Stato, regioni, province non hanno espresso le loro scelte territoriali sulla base di metodi e procedimenti di pianificazione, ossia traducendo in quadri coerenti e olistici, trasparentemente formati, l’insieme delle loro decisioni, ma hanno proceduto per singoli programmi, settori, opere, politiche, spesso occasionati dall’emergenza o da motivazioni di prestigio e d’immagine, o meramente di potere.

In secondo luogo, si è completamente trascurato il fatto che il nuovo modello avrebbe richiesto un poderoso rafforzamento delle strutture pubbliche adibite alla pianificazione. L’aggiornamento della base conoscitiva e la sua alimentazione con i risultati del monitoraggio sui piani e sulle trasformazioni da essi indotte, l’aggiornamento della componente strutturale e la sistematica riformulazione della componente operativa, il prolungamento dell’azione di pianificazione territoriale e urbanistica nelle attività esecutive (edificazioni private, interventi pubblici di infrastrutturazione e urbanizzazione, definizione di politiche aventi ricadute sul territorio), azione di stimolo nei confronti della partecipazione dei cittadini alle scelte: tutto ciò avrebbe richiesto la presenza di strutture abitate da tecnici qualificati e motivati, dotate di attrezzature efficaci, formalizzate in un’organizzazione autorevole e qualificata.

Un’esperienza diretta

Ho dedicato tutta la prima parte di queste note all’esposizione di proposte maturate nell’esperienza personale. Concluderò questo appunto con alcune considerazioni riferite anch’esse all’esperienza personale: in particolare, alla sperimentazione di una delle migliori leggi in materia, la 5/1995 toscana, nella collaborazione alla formazione degli strumenti urbanistici nuovi (piano strutturale e regolamento urbanistico) del comune di Sesto Fiorentino. Un comune di circa 60mila abitanti, nel quale si sono succedute amministrazioni capaci di condurre politiche urbanistiche lungimiranti.

La premessa politica del nostro lavoro è stata ottima. L’amministrazione ci ha fornito direttive che abbiamo completamente condivise: porre termine all’espansione, salvaguardare il territorio inedificato, garantire le visuali libere e promuovere le connessioni ambientali e di percorrenza tra i due complessi paesaggistici più rilevanti, il Monte Morello e la piana dell’Arno, coordinare le scelte con i comuni limitrofi, accrescere il livello della vivibilità della cittadina, rispettare l’individualità dei singoli paesi che la componevano ma consolidare l’unitarietà del Comune.

Anche sul piano normativo la nostra interpretazione della legge regionale, che gli uffici regionali hanno formalmente dichiarato di condividere, ci ha consentito di utilizzare i diversi nuovi istituti prescritti dalla legge (lo statuto dei luoghi, le invarianti strutturali, i sistemi e sub-sistemi territoriali, le unità territoriali organiche elementari) in modo coerente con il contenuto delle componenti della pianificazione (quella strutturale e quella operativa) che era la nostra.

Su alcuni punti rilevanti delle scelte abbiamo trovato soluzioni a mio parere convincenti, che però sono state frutto di una interpretazione della legge, alla quale numerose altre potevano contrapporsi (e si sono infatti contrapposte). Mi riferisco al rapporto tra dimensionamento di lungo periodo, richiesto dalla legge per il piano strutturale (ma ha senso un dimensionamento di lungo periodo?), e la sua articolazione in una serie di piani operativi. Mi riferisco al rapporto tra aspetti strutturali del piano e aspetti strategici, tra sistema delle tutele e progetto di città. Mi riferisco ancora al rapporto tra la rigidità delle scelte strutturali e strategiche e la flessibilità delle scelte operative: un rapporto difficile, che spinge i comuni a interpretare il piano strutturale o come un documento vago, generico e privo di regole, oppure, al contrario, come un vecchio piano regolatore generale.

C’è poi un paio di problemi per i quali neanche interpretando creativamente la legge abbiamo potuto raggiungere soluzioni soddisfacenti: il livello d’area vasta, i tempi della pianificazione.

In assenza di una pianificazione regionale e provinciale che definisca le scelte territoriali di più vasta portata è particolarmente incerto il rapporto con l’area vasta. Molte delle scelte comunali riguardano aspetti (ambientali, paesaggistici, infrastrutturali) che hanno rilevanza sovracomunale, e che solo operando a questo livello possono essere affrontati seriamente. Ma in Toscana (e, credo, anche altrove) la dimensione d’rea vasta è del tutto trascurata. La regione trascura generalmente la dimensione provinciale della pianificazione (e, in generale, del governo del territorio) e “risolve” i problemi con rapporti bilaterali regione-comune. La provincia continua a essere considerata un ente settoriale, di rango inferiore, e le forme associative volontarie di comuni non hanno preso piede. È probabile che questo limite sia particolare evidente in Toscana, dove l’attuale gruppo dirigente della regione teorizza, oltre a praticare, la centralità del momento comunale risolve la maggior parte dei problemi con il rapporto diretto tra Regione e singolo comune[13]: ciò che indubbiamente accresce il peso delle decisioni regionali e aumenta il suo potere discrezionale.

In Toscana, ma anche in altre regioni, il problema principale è tuttavia rappresentato dalla lentezza con cui si rinnova la pianificazione e dall’inerzia delle decisioni. A Sesto Fiorentino, uno dei primi comuni nei quali si è adoperato l’incerto modello della legge 5/1995, il vecchio PRG è morto nel 2006, cioè 11 anni dopo l’inizio dell’applicazione di quella legge. Nella provincia di Firenze molti comuni hanno approvato il piano strutturale ma non il piano operativo, il Regolamento urbanistico.Clamoroso è il caso di Firenze, che dopo tredici anni dal suo avvio anni non ha concluso l’iter formativo del piano strutturale. Nella più rosea delle ipotesi saranno necessari altri due anni per “superare” il veccguo PRG: cioè saranno trascorsi quindici anni dalla legge.

Nel frattempo i vecchi PRG e le loro scelte obsolete (generalmente caratterizzate dal sovradimensionamento) pesano. A Firenze oggi si realizza una tramvia pensata 20 anni fa; la progettazione dell’attraversamento del treno ad alta velocità è iniziato negli anni Novanta; l’università a Sesto Fiorentino è attuativa di in un brandello del Piano intercomunale, progettato da Detti negli anni Sessanta, del quale si sono realizzati alcuni tasselli casuali che oggi appaiono del tutto privi di logica urbanistica; il famoso intervento sull’area Fiat-Fondiaria, contestato un quarto di secolo fa, sta per essere completato oggi (e non parliamo del come). In base alla legge (o meglio, alla sua interpretazione corrente) le previsioni obsolete o semplicemente vecchie non decadono: nulla di ciò che è stato promesso può essere messo in discussione, e tutto si somma in maniera casuale.

Se almeno il tempo trascorso fosse stato impiegato per costruire strumenti e strutture di pianificazione efficaci, competenti, attrezzati, autorevoli, se almeno si fosse instaurata una prassi ci collaborazione tra le strutture tecniche dei diversi livelli di governo i cui interessi e le cui azioni si intersecano sugli stessi territori, se fosse maturata una cultura (tecnica, politica, amministrativa) condivisa e capace di durare nel tempo, il tempo impiegato nella prima fase di attuazione del nuovo modello di pianificazione avrebbe potuto dare frutti negli anni a venire. Così – almeno per quanto mi è dato conoscere – non è stato. Spero che altri contributi su questo tema possano consentire di affermare che non dappertutto è così.

Il “Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentin”i è scaricabile qui

[1] Nelle diverse fasi della riflessione e della sperimentazione concorsero alla messa a punto in primo luogo, e decisivamente Luigi Scano, poi Edgarda Feletti, Vezio De Lucia, Giulio Tamburini, Alessandro Dal Piaz, Mauro Baioni, Paolo Berdini.

[2]Mi riferisco alla variante di PRG per la città antica, la cui costruzione fu impostata e iniziato nel 1982, (ero assessore all’urbanistica), interrotto nel 1985, ripreso nel 1987, concluso e reso pubblico nel 1990, e adottato nel 1992 Ho seguito il piano come diretto responsabile nella prima fase, poi come collaboratore esterno negli anni in cui, assessori Boato prima e Salvagno poi, gli uffici diretti da Edgarda Feletti, con la costante collaborazione di Scano, lo conclusero e portarono all’adozione. La Giunta eletta nel 1993 (sindaco Massimo Cacciari), vittima della ventata di neoliberismo che in quegli anni soffiava impetuoso, iniziò subito smantellare quel piano. Esso fu ampiamente rimaneggiato dall’assessore Roberto D’Agostino e dal consulente Leonardo Benevolo, soprattutto nella normativa e, reso ormai irriconoscibile, adottato nel 1996.

[3] “Livelli di pianificazione e livelli di governo: Le tendenze che devono affermarsi per la costruzione di un processo unitario di pianificazione”. Provincia di Bologna, Luoghi e logos - Il territorio fra sistemi di decisione e tecnologie della conoscenza, convegno nazionale, Bologna, 27-28 nov. 1984. Il mio contributo fu inserito nel terzo volume dei materiali preparatori.

[4] “L’urbanistica dal piano alla pianificazione”, La Rivista Trimestrale, n. 4, dicembre 1985

[5] Le tesi sono pubblicate in un supplemento allegato al n. 108, novembre-dicembre 1989, della rivista Urbanistica informazioni.

[6] Si veda P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco. Come negli incredibili anni ’80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma, 1993.

[7] Le tesi alternative sono pubblicate in eddyburg.it, al seguente indirizzo:

[8] Le ragioni sono espresse nell’editoriale di “Commiato” che pubblicai nell’ultimo numero di Urbanistica informazioni che uscì sotto la mia direzione (n. 125-126, settembre-dicembre 1992)

[9] Gli atti furono pubblicati in Cinquant'anni dalla legge urbanistica italiana 1942-92, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma, 1993

[10] Il Piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna fu adottao il 29 dicembre 1986, e approvato

[11]“Nota sulle proposte di riforma urbanistica dell'INU -1995”, in: XXI Congresso Inu, Bologna 23-25 novembre 1995, Atti, Volume secondo - I contributi al congresso.

[12] Principio di pianificazione

[13] Ma non accade così anchein E-R?

La pianificazione territoriale è lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico.

Da : Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.

Venise est née avec l’eau, elle a eu grâce à l’eau l’alimentation de son peuple, sa défense, le développement économique, la puissance politique.

Sans les eaux (les eaux de la Lagune elle-même, l’eau des fleuves qu’y portent la terre et les eaux douces, l’eau des océans qui lui apportent les rythmes des marées et les eaux salées) on ne saurait imaginer Venise.

Les eaux déterminent la forme même de ses espaces et le dessin de ses architectures.

Mais Venise et sa Lagune n’auraient pas été possibles, elles n’eurent pas duré mille ans sans l’emploi d’une extraordinaire sagesse scientifique et politique, technique et administrative: car aucune lagune au monde n’est restée intacte après mille ans de vie, car aucun centre historique n’a gardé ses formes et sa vitalité comme la ville historique de Venise.

Depuis mille ans, Venise est une ville durable.

Aujourd’hui la durabilité de Venise - telle que nos ancêtres nous l’ont transmise - est en grave péril.

La cause générale est un renversement de la politique d’aménagement : l’abandon de la maintenance continuelle et systématique de l’environnement lagunaire, qui en à garanti la survivance jusqu’à aujourd’hui, et sa substitution par une politique lourde, de grands ouvrages indifférents au site et a ses règles.

Pour comprendre les risques qu’on court, il faut auparavant comprendre ce qu’est une lagune telle que celle de Venise.

Les fleuves portent à la mer les eaux et la terre qu’ils ont arrachée. La terre se dépose sur le front des bouches. Des longues barres se forment, et finalement émergent. Un bassin se forme donc entre la ligne du ressac et la ligne de la terre : un bassin que quelques bouches (pertuis) lient à la mer. Avec les rythmes lunaires, les marées mêlent l’eau de la mer et les eaux des fleuves.

Une nouvelle eau est née, ni douce ni salée: saumâtre. Dans cette eau, une flore et une faune se forment, extraordinairement différentes, dans leur association, les unes des autres.

Mais la lagune n’est pas un système qui puisse atteindre, selon les lois de la nature, un état de paroxysme: un état stable. C’est, selon les lois de la nature, un système dynamique. Il peut évoluer en deux directions, et toutes les lagunes se sont transformées dans l’une ou l’autre direction.

Les flux des fleuves portent la terre, les courants de la mer rongent les littoraux. Si les fleuves l’emportent, la terre se dépose, le bassin devient un marais, le marais se transforme en terrain solide. Si l’apport des fleuves s’affaiblit, la mer l’emporte, la lagune devient une baie.

La République Sérénissime avait décidé, à partir de début du deuxième millénaire, de maintenir la Lagune telle qu’elle était. Cela exigea la mise à point d’une instrumentation technique et administrative tout à fait unique, fondée sur le contrôle systématique et l’intervention quotidienne, sur un système de surveillance et de garanties juridiques très rigide, et surtout sur trois principes, qui furent plus tard résumés en trois mots : expérimentation, progressivité, réversibilité.

Pour utiliser les lois de la nature et en corriger les effets, il fallait expérimenter d’abord la transformation qu’on voulait apporter, il fallait ensuite la conduire avec une progressivité permettant d’en évaluer les conséquences, il fallait enfin qu’on puisse à chaque moment revenir sur ses pas et rétablir la situation antérieure.

Une approche tout a fait moderne, qu’il à été indispensable d’inventer et d’adopter car on avait affaire à un écosystème extraordinairement délicat et vif, qu’on ne pouvait pas laisser à son évolution naturelle, et qu’on ne voulait pas arracher au lois naturelles qui l’avaient crée et qui – si elles étaient savamment guidées – pouvaient aider l’homme a conserver dynamiquement l’équilibre.

Laguna nel XX secolo

Les choses changèrent à partir du XIXème siècle. D’un coté, localement, à cause de la chute de la République Sérénissime, qui eu lieu à la fin du XVIIIème siècle, quand elle fut écrasée entre les empires de France et d’Autriche. De l’autre coté, globalement, à cause des nouvelles techniques et des nouvelles conceptions qui s’affirmèrent dans le domaine de l’aménagement et de l’équipement, et de l’emploi des patrimoine communs.

En effet, les civilisations précédentes (et en particulier la Vénitienne) considéraient l’environnement comme une ressource qui devait être protégée pour pouvoir être utilisée durablement. Au contraire, la civilisation basée sur la production industrielle massive considère le sol comme une grande extension neutre, sur laquelle les techniques peuvent provoquer sans aucune conséquence toutes les transformations voulues. Un sol, d’autre part, soustrait aux règles sévères et durables de la soumission à l’intérêt commun, car il était devenu une marchandise disponible pour tout avantage économique de particuliers plus malins et plus agressifs.

La privatisation des terrains, l’introduction de techniques modernes hard pour la réalisation des infrastructures, la formation d’équipement industriels provoquèrent des transformation soustraites au trois principes d’expérimentation,de progressivité, de réversibilité, qui avaient guidé le gouvernement vénitien.

En conséquence, le bassin de la Lagune s’est rétréci, à cause des remblaiements. Les canaux sont devenus plus profonds, à cause des navires toujours plus grands, et ça a augmenté l’afflux de l’eau marine. La terre s’est abaissée, à cause des puits ouverts pour les exigences de l’industrie. À côté de ça, le niveau de l’eau de la mer est devenu plus haut, à cause des changements du climat et de la réduction des glaciers qui en résultait.

En 1966, à cause d’une marée exceptionnellement haute et d’un apport également extraordinaire d’eau par les fleuves, la ville fut inondée à des niveaux jamais atteint auparavant.

Le gouvernement italien pris la question en charge. Une loi nationale de 1973 définit les grandes lignes et les outils nécessaires à la restauration physique et sociale du bassin lagunaire et des habitats. Pour les problèmes spécifiquement hydrauliques, un appel d’offre international fut lancé. Des commissions furent constituées. En 1980, un consortium d’entreprises privées (le consortium Venezia Nuova) fut constitué. En 1984 le Ministre des Travaux publics lui confia la mission d’étudier, de projeter et de réaliser les ouvrages nécessaires à la sauvegarde de la Lagune.

La même année, le Parlement, poussé par le Conseil Municipal de Venise (le plus important de la dizaine de communes qui sont baignées par les eaux de la Lagune), avait précisé, par une nouvelle loi, les orientations directrices fondamentales des interventions pour la sauvegarde de la Lagune, en reprenant les trois grands principes de la République Sérénissime: expérimentation, agir avec progressivité, et surtout appliquer des solutions qui soient réversibles.

Ça aurait signifié donc avant tout réduire la taille (et surtout la profondeur) des canaux qui apportent à la Lagune l’eau de la mer, régulariser les fleuves qui coulent dans le territoire bordant la Lagune, transformer les zones de pêche fermées en bassins ouverts au passage de l’eau, rouvrir les parties de Lagune remblayée en prévision de l’expansion de l’industrie, abandonner l’extraction de l’eau souterraine (ce qui, pour alimenter la zone industrielle, avait provoqué l’abaissement du terrain). Enfin, faire tous les travaux de réhabilitation du réseau des canaux que l’abandon plus que centenaire de l’entretien systématique rendait nécessaire.

On avança dans la direction opposée. Si l’extraction de l’eau souterraine a été interrompue, on est en train de forer le sous-sol de la Haute Adriatique pour en extraire du pétrole. Mais le risque le plus important vient d’un projet qui est en cours d’exécution.

En deux mots, il est un revival de l’idéologie qui avait dominé le XIXème et XXème siècle: la nature n’est pas une entité avec laquelle il faut cohabiter sur la planète, mais un ennemi a battre.

Le nom de ce projet est MOSE : Modulo Sperimentale Elettromeccanico C’est-à-dire Module Expérimental Électromécanique.

MoSE, simulazioni

l est constitué de 79 grands caissons d’acier, la surface qui s’oppose à l’eau mesurant 20x20 mètres. Ils sont plein d’eau lorsqu’ils sont au repos sur le fond. Ils sont remplis d’air comprimé lorsqu’ils doivent se soulever face à la marée entrante et l’arrêter. Une imposante œuvre sous-marine en béton armé porte les caissons ; à l’intérieur se trouvent les mécanismes de commande très complexes et les faisceaux de tuyaux amenant l’air comprimé et les autres éléments nécessaires pour le fonctionnement du système. Une île artificielle, créée à côté d’un des pertuis de la Lagune, d’une superficie de 135.000 m2, accueille les autres appareillages nécessaires.

L’entrée en fonction du système est prévu lorsque les prévisions laisseront envisager que la marée dépassera les 110 cm sur le niveau moyen de marée. En 2003 il y à eu plusieurs dizaines de marées hautes : aucune a dépasse cette mesure.

C’est un énorme projet. La totalité des matériaux prélevés dans la Lagune ou enlevé des ouvrages existants est de 5 millions de mètres cubes. Douze mille pieux de ciment, chacun de 10 à 20 mètres de long, 6.000 éléments d’acier de 10 à 28 mètres de long, 157 caissons de béton armé, 560.000 m2 de pavés de pierre. Enfin, un coût de construction qu’on estime proche de 7-8 millions de Euro : mais personne n’a encore estimé les coûts de gestion et de maintenance, qui sera certainement très élevé.

On formule trois critiques principales contre le projet MoSE.

• de ne pas être efficace et, à la limite, d’être dangereux ;

• d’être trop coûteux, et en fait d’absorber tant de ressources qu’il n’en resterait aucune pour les œuvres certainement nécessaires (celle que le Parlement avait demandés) ;

• de ravager l’environnement, et de finalement détruire cette Lagune qu’il aurait pour mission de sauvegarder.

Mais au-delà de ces excellentes critiques, je veux souligner un aspect à mon avis très grave du point de vue de l’exercice du pouvoir et de la démocratie. Le projet est illégal à plusieurs points de vue: il n’a jamais eu d’évaluation d’impact environnemental positive (le dossier à été au contraire profondément critique sur tout le points essentiels); il est réalisé par le biais d’une concession qui est contraire aux principes de la concurrence. À ce propos, il suffit de savoir qu’un groupement unique a été chargé de faire les études préliminaires, concevoir le projet, et de réaliser les travaux.

Le fait que ce groupement soit composé en grande majorité d’entreprises de bâtiment, donc intéressées à ce type de travaux, aide à comprendre pourquoi on a refusé de prendre en considération des solutions beaucoup plus sures, moins chères, plus proches des trois principes d’expérimentation,de progressivité, de réversibilité, que les sages gouvernants de la République Sérénissime, et à nos jours le Parlement national, avaient posé comme critères directeurs de toute solution.

Je suis vivement préoccupé par le silence de l’opinion publique nationale et internationale. Rara avis, vien de sortir un numero de la revue Cahiers Science&Vie, entièrement dediée à Venise, qui rend compte aussi des critiques.

Le fait est que le monopole de l’information appartient au richissime consortium Venezia Nuova, qui à reçu des fleuves d’argent de l’État et en a employé une grande partie pour sa propagande.

La lobby que s’est formé autour du Consortium est très puissant, s’opposant seulement aux faibles associations pour la protection du patrimoine et de la nature (tels Italia Nostra et WWF), et une partie des force politiques locales.

Et la question est très complexe, et pas facile à comprendre : dans l’opinion courante, une lagune est tout à fait équivalente a un fleuve ou à un lac, alors qu’il s’agit en fait d’un eco-système tout à fait différent. Mais on ne prête pas grande attention au différences dans un monde qui court vers l’homogénéisation.

Je serai heureux de faire parvenir de plus amples informations à quiconque m’enverra son adresse de courrier électronique :
eddysal@tin.it

Dans ce site vouz trouvez plusiers textes et informations sur Venise et sa Lagune dans le dossier dedié a Venezia e la Laguna. Sur le thèmes traité dans le texte je vous conseil mon écrit La Laguna di Venezia e gli interventi proposti, aussi en englais.

Secondo il diritto italiano i vincoli posti dagli strumenti urbanistici decadono dopo un certo periodo di tempo? Quindi se si vuole tutelare un’area di pregio, che non si sia potuta acquisire, occorre scendere a patti col proprietario e concedergli una quota di edificabilità, lì o altrove? E il proprietario fondiario cui una previsione urbanistica (ad esempio, un piano regolatore approvato) ha attribuito una certa edificabilità, può pretendere dal Comune un indennizzo se questi ritenga di modificare la destinazione d’uso ed eliminare, o ridurre fortemente, l’edificabilità? È quindi necessario, per ragioni di diritto [1], compensare il proprietario la cui area non sia più edificabile come inizialmente previsto?

A queste domande si tende a dare, da qualche anno, una risposta positiva: non da parte dei giuristi, ma da parte di numerosi urbanisti, e dagli amministratori che da essi si lasciano convincere.

Sempre più diffusamente si parla infatti di “perequazione”. Non come pratica introdotta con il comparto (1942) e, più tardi (1967), con la lottizzazione convenzionata, da estendere ad altri casi. Ma come sistema che consente di sfuggire alla decadenza dei vincoli e alla mancata riforma del diritto dominicale. Antesignano, il comune emiliano di Casalecchio al Reno; sponsor, l’Istituto nazionale di urbanistica, a partire dal 1995.

E sempre più diffusamente si propongono complesse pratiche di “compensazione” con trasferimenti di cubature su e giù per le campagne. Esemplare il caso del PRG di Roma, approvato dalla Giunta comunale nel luglio 2002 e da allora soggetto a una serie consistente di critiche soprattutto al sovradimensionamento.

Non sono un giurista (benché per fare l’urbanista qualcosa del diritto bisogna pur conoscerlo). Ho consultato qualche amico che ne sa, e ho letto qualche documento. Proverò a dimostrare che, sulla base del diritto vigente oggi in Italia, “compensazioni” e “perequazioni” possono essere suggerite da opportunità politiche, ma non sono affatto la conseguenza obbligata di norme perverse, che tutelino troppo profondamente gli interessi dei proprietari a dispetto degli interessi generali.

La questione dei vincoli: una distinzione preliminare

La Corte costituzionale ha avuto, negli anni, un orientamento costante e costantemente ribadito [2], che può essere riassunto nei termini seguenti.

È necessario distinguere due tipi di vincoli alla libera disponibilità della proprietà immobiliare. Un primo tipo di vincoli (i giuristi li definiscono “vincoli ricognitivi”) deriva dal fatto che il legislatore abbia stabilito che una determinata “categoria di beni”, per la sua intrinseca natura, merita di essere tutelata in modo particolare, limitando le possibilità di trasformazione dei beni che ricadono in quella categoria. Un secondo tipo di vincoli (i giuristi li chiamano “vincoli funzionali” o “urbanistici”) comprende quelli che la pubblica amministrazione pone su determinati immobili (aree o edifici che siano) in relazione all’utilizzazione che ne vuol fare.

È chiara la ragione della distinzione.

Nel secondo caso è l’amministrazione che decide, in modo sostanzialmente discrezionale, che è lì, su quell’area, che conviene prevedere la costruzione di una scuola o il passaggio di una strada. Sono vincoli posti in relazione alla funzione (d’interesse pubblico) che si vuole assegnare a quell’immobile, e al disegno urbanistico che si vuole realizzare. Sono vincoli che vengono apposti a questa o quell’altra area con una certa “discrezionalità amministrativa”: il disegno urbanistico avrebbe potuto essere diverso, la funzione collocata in un altro sito.

Nel primo caso, invece, il legislatore ha stabilito che tutti i beni appartenenti a quella determinata categoria (per esempio, i boschi, o gli edifici anteriori al 1900, o i terreni terrazzati oppure, più generalmente, i beni d’interesse paesaggistico) devono essere utilizzati senza compromettere le caratteristiche proprie di quella categoria di beni. L’atto amministrativo che impone il vincolo a un determinato bene (quel bosco o quell’edificio antico) non è una decisione autonoma, ma è semplicemente il riconoscimento che quel determinato bene appartiene alla categoria di beni che la legge ha voluto tutelare: è un vincolo “ricognitivo”, perché la sua imposizione a un determinato oggetto deriva dalla ricognizione che l’atto amministrativo (il PRG, o l’elenco, o il decreto) effettua per individuare gli oggetti che, all’interno di un determinato perimetro, appartengono a quella categoria.

La pianificazione può imporre vincoli dell’uno e dell’altro tipo. Ma mentre per quelli “urbanistici” il vincolo non può essere imposto senza un interesse pubblico che lo motivi, e non può essere protratto senza indennizzo al di là di un termine ragionevole, per i vincoli “ricognitivi” non è necessario nessun indennizzo, perché il vincolo è “coessenziale” al bene.

Vincoli ricognitivi: riferimenti alle sentenze costituzionali

Espressa in termini semplici la tesi prevalente (e anzi, sembra, unanimemente condivisa nel diritto), è opportuno adesso riferirsi precisamente al testo di alcune sentenze. Già nel 1966 (sentenza 19 gennaio 1966, n. 6) la Corte costituzionale aveva

"rilevato che la legge non può disporre indennizzi quando i modi e i limiti che essa segna ai diritti reali attengono in maniera obiettiva, rispetto alla generalità dei soggetti, al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando essa regola la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della pubblica amministrazione; nel quale caso la legge imprime, per così dire, un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per caratteristiche intrinseche, salva la possibilità di accertare, con atti amministrativi di destinazione individuale, l'esistenza delle situazioni presupposte rispetto a singoli soggetti e a singoli beni. Solo per le imposizioni che comportano un sacrificio riguardo a beni che non si trovino nella situazione suddetta sorge [...] il problema dell'indennizzabilità."

Pochi anni dopo, in una delle due famose e concorrenti sentenze del maggio 1968 (sentenza 29 maggio 1968, n. 56), la Corte costituzionale si sofferma più ampiamente e organicamente sull’argomento e afferma che

"i beni che formano il patrimonio paesistico della comunità costituiscono essi stessi una categoria a contorni certi, dato il carattere tecnico del giudizio che la pubblica amministrazione è chiamata a emettere per delinearla in concreto, e che è suscettibile di sindacato giurisdizionale."

La Corte rileva che

"i beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro localizzazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge. Costituiscono cioè una categoria che originariamente è di interesse pubblico, e l’amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa. Individua il bene che essenzialmente è soggetto al controllo amministrativo del suo uso in modo che si fissi in esso il contrassegno giuridico espresso dalla sua natura e il bene assuma l'indice che ne rivela all'esterno la qualità; e in modo che sia specificata la maniera di incidenza di tali qualità sull’uso del bene medesimo. L'atto amministrativo svolge [...] una funzione che è correlativa ai caratteri propri dei beni naturalmente paesistici e perciò non è accostabile a un atto espropriativo; non pone in moto, vale a dire, la garanzia di indennizzo apprestata dall'articolo 42, terzo comma, della Costituzione."

E la sentenza prosegue:

"Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le è attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene, così che le sia consentito di confrontare il modo di esercizio di alcune facoltà inerenti a quel godimento con l'esigenza di conservare le qualità che il bene ha connaturali secondo il regime che gli è proprio e di prescrivere adempimenti coordinati e correlativi a tali esigenze. L'amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare[...]. Ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull’area, perché questo diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; né aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com'è nel caso dell'espropriazione considerata nell'articolo 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone."

Questa posizione, molto chiara e ragionevolmente motivata, viene ribadita in numerose sentenze successive[3]. Fino alla più recente, quando la Corte, pronunciandosi più specificamente in merito ai cosiddetti “vincoli urbanistici” (di cui parleremo più avanti) ricapitola la propria giurisprudenza anche a proposito di “vicoli ricognitivi” (sentenza 20 maggio 1999, n.179). In questa sentenza la Corte ribadisce che

"non sono inquadrabili negli schemi dell’espropriazione, dei vincoli indennizzabili e dei termini di durata i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge."

E ricorda che

"più in generale si è ritenuto che la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i limiti imposti - previsti dalla legge direttamente o con il completamento attraverso un particolare procedimento amministrativo - attengano, con carattere di generalità per tutti i consociati e quindi in modo obiettivo [...], a intere categorie di beni, e per ciò interessino la generalità dei soggetti con una sottoposizione indifferenziata di essi - anche per zone territoriali - a un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso. Non si può porre un problema di indennizzo se il vincolo, previsto in base a legge, abbia riguardo ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando la legge stessa regoli la relazione che i beni abbiano rispetto ad altri beni o interessi pubblici preminenti."

Chi pone i vincoli ricognitivi?

Ma i vincoli ricognitivi non sono forse di competenza dello Stato e, dopo la legge 431 del 1995, delle Regioni? Che c’entrano dunque con le politiche urbanistiche locali e con i piani regolatori, se non come una tutela che viene dall’alto e che come tale deve essere rispettata?

In realtà, porre i “vincoli ricognitivi” non spetta solo gli organi centrali dello Stato, com’era mezzo secolo fa, nè solo alle Regioni, cui la costituzione e i decreti succedutisi dal 1970 al 1977 hanno attribuito, trasferito e delegato competenze e poteri in proposito alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Ma, dopo la legge 431 del 1985, quel compito (e quel potere) spetta anche agli altri enti pubblici dotati di competenze in materia di pianificazione territoriale e urbanistica. Molto chiara in proposito è, ad esempio, la Corte costituzionale con la sentenza n. 378 del 2000. In essa si afferma, riferendosi alla pianificazione in Emilia Romagna:

"[…] proprio perché il legislatore regionale, in linea con la previsione della legislazione statale, ha seguito la via alternativa (al piano paesistico) dello strumento di pianificazione urbanistica, sia pure anche con valenza paesistica e ambientale, non esiste un limite territoriale alle sole zone elencate nel quinto comma dell’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977 […]. Anzi gli strumenti di pianificazione urbanistica hanno una efficacia normalmente orientata verso l’assetto dell’intero territorio dell’ente investito dello specifico potere di pianificazione. […] Del resto la tutela paesistico-ambientale svolta attraverso uno strumento di pianificazione urbanistica può comportare la protezione di un territorio ben più vasto delle aree strettamente vincolate, per le necessarie connessioni con le zone contermini e per esigenze di coinvolgimento di una sfera più ampia. Ed infatti questa Corte ha avuto occasione di sottolineare che la protezione preordinata dalla legge n. 431 del 1985, sia pure "minimale", non esclude né preclude "normative regionali di maggiore o pari efficienza" […], soprattutto quando vi siano esigenze di una valutazione complessiva (e più ampia) dei valori sottesi alla disciplina dell’assetto urbanistico."

L’equazione “vincolo ricognitivo uguale vincolo imposto per legge”, che costituisce un’opinione corrente nel mondo perequativo, è quindi priva di fondamento. Lo è certamente per gli aspetti paesaggistici, poiché la stessa legge nazionale 431/1985 prevede la possibilità di redigere “piani urbanistici” che possono riguardare (anzi, di norma riguardano) l’intero territorio. Lo è più in generale per tutte le categorie di vincoli preordinati alla tutela paesistico-ambientale che possono essere apposti, attraverso i piani urbanistici, anche in virtù di leggi regionali più restrittive di quella nazionale. Tale orientamento della Corte prelude ad un’altra fondamentale statuizione: hanno facoltà di individuare sul territorio beni da sottoporre a vincoli ricognitivi non indennizzabili, quindi, le Regioni, le Province e anche i Comuni, nell’ambito della pianificazione ordinaria. La Corte costituzionale lo ribadisce nella stessa sentenza:

"Del resto, la pianificazione urbanistica a livello comunale non ha carattere esaustivo e non riassorbe, con funzione di prevalenza, le altre forme di pianificazione o gli altri vincoli non urbanistici, poiché qualsiasi intervento che modifica il territorio non deve porsi in contrasto con tutti gli altri vincoli su di esso esistenti (paesistici, culturali, di rispetto delle ferrovie e delle autostrade, del demanio marittimo ecc.), ancorché la pianificazione urbanistica comunale non escluda tale tipo di intervento o lo consenta. Il principio è reciproco anche nei rapporti tra vincoli non urbanistici e vincoli derivanti da pianificazione urbanistica comunale. Riguardo alla sfera degli interessi coinvolti e delle esigenze relative al territorio, giova sottolineare che la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell'ambito territoriale in cui si svolge la vita dell'uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria. Detta tutela costituisce compito dell’intero apparato della Repubblica, nelle sue diverse articolazioni ed in primo luogo dello Stato (art. 9 della Costituzione), oltre che delle regioni e degli enti locali."

Sulla facoltà (anzi, il dovere) dei Comuni a sviluppare, approfondire e articolare l’individuazione dei beni territoriali da sottoporre a tutela effettuata dalle Regioni la Corte si era del resto già espressa all’indomani dell’entrata in vigore della legge 431 del 1985, con la sentenza n. 151 del 24 giugno 1986. La Corte aveva affermato in quella sede che la legge 431/1985,

"discostandosi nettamente dalla disciplina delle bellezze naturali contenuta nella legislazione precostituzionale di settore (l. n. 1497 del 1939) introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, implicante, cioè, una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce del valore estetico-culturale, in aderenza all'art. 9 Cost., che assume tale valore come primario. Detta tutela non esclude nè assorbe la configurazione dell'urbanistica quale funzione ordinatrice degli usi e della trasformazioni del suolo nello spazio e nel tempo, devoluta alle Regioni: la nuova normativa provvede, bensì, al raccordo - nell'ambito stesso della nuova tutela e nei suoi rapporti con l'urbanistica - tra competenze statali e competenze regionali, mediante soluzioni ispirate al principio di leale cooperazione, sia istituendo un rapporto di concorrenza, strutturato in modo che le competenze statali sono esercitate (solo) in caso di mancato esercizio di quelle regionali e (solo) in quanto ciò sia necessario per il raggiungimento dei fini essenziali della tutela; sia proiettando quest'ultima (in modo dinamico) sul piano dell'urbanistica, col regolare l'esercizio qualificato, e teleologicamente orientato in senso estetico-culturale, di competenze regionali in materia urbanistica."

Anche la pianificazione comunale, in altri termini, deve farsi carico dell’esigenza di individuare sul territorio i beni che è necessario sottoporre a vincolo ricognitivo (non indennizzabile), “proiettando” così la tutela, “in modo dinamico, sul piano dell’urbanistica”.

I vincoli “urbanistici”:incostituzionale non indennizzarli se sono “espropriativi”

La questione dei vincoli urbanistici fu posta per la prima volta in termini compiuti con la prima delle due sentenze del 1968: la n. 55. In realtà le due sentenze (che ad alcuni frettolosi commentatori apparvero allora in contraddizione tra loro) compongono tra loro un unico ragionamento: legato dalla distinzione tra “vincoli ricognitivi” e “vincoli urbanistici” che ho all’inizio sottolineato, e che è davvero fondativa per qualsiasi valutazione in materia.

La tesi che la Corte costituzionale argomenta nella sentenza 55/1968 può essere sintetizzata come segue. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli di destinazione di zona per uso pubblico sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Però al vincolo di piano non segue necessariamente l’atto concreto dell’espropriazione, e quindi del pagamento di una indennità: il vincolo ha validità a tempo indeterminato, e ugualmente indeterminato è il momento nel quale il comune avrà l’intenzione e la possibilità di realizzare l’opera prevista. Viene così a determinarsi “un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato finale”. Questo, sostiene la Corte, è costituzionalmente illegittimo.

Ma la sentenza suggerisce anche al legislatore il possibile riparo. La sentenza afferma infatti che il legislatore potrebbe anche porre limitazioni pesantissime alla proprietà, a tre condizioni: che la norma sia stabilita in relazione a tutte le proprietà appartenenti a una determinata “categoria di beni”, senza discrezionalità; che questo derivi da una esigenza d’interesse generale; che la limitazione non annulli il valore economico del bene. In caso contrario, la limitazione è legittima, ma va indennizzata.

Com’è noto, il legislatore non seguì la via indicata dalla Corte. Ne eluse l’insegnamento, stabilendo un sistema di proroghe e di “validità a tempo determinato” [4] dei vincoli urbanistici (quelli ricognitivi non furono mai messi in discussione). Molti comuni, non riuscendo ad avviare le procedure di acquisizione delle aree entro i termini, con nuovi provvedimenti urbanistici rinnovarono i vincoli decaduti. A qualche comune andò bene, ad altri no.

È illegittimo reiterare i vincoli urbanistici?A certe condizioni non lo è

Finalmente, nell’inerzia del legislatore, la Corte intervenne con una nuova sentenza, la n. 179 del 1999. In essa la Corte afferma che i vincoli urbanistici

"assumono certamente carattere patologico quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza […]. Ciò ovviamente in assenza di previsione alternativa dell’indennizzo […], e fermo, beninteso, che l’obbligo dell’indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)."

Ma nello stesso tempo la sentenza stabilisce in quali casi la reiterazione del vincolo non sia “patologica”, e quindi non sia criticabile per incostituzionalità. Ribadisce ulteriormente la piena validità (e la non indennizzabilità) dei vincoli ricognitivi, ma afferma che devono considerati “come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente”, e quindi non indennizzabili, anche

"i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili."

Quindi, ad esempio, non sono indennizzabili i vincoli consistenti nelle destinazioni a zona agricola. Non pongono analogamente problemi di indennizzabilità, o altra compensazione,

"i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene."

La Corte precisa anche tecnicamente questo caso, e aggiunge:

"Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento. Si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato."

Ma la Corte aggiunge ancora una ulteriore precisazione. Essa ricorda come la giustizia amministrativa

"a proposito della reiterazione dei vincoli, ha delineato un diritto vivente (che deve essere tenuto presente per risolvere la questione di legittimità costituzionale prospettata), secondo cui la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del termine può ritenersi legittima sul piano amministrativo se corredata da una congrua e specifica motivazione sulla attualità della previsione, con nuova ed adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, e con giustificazione delle scelte urbanistiche di piano, tanto più dettagliata e concreta quante più volte viene ripetuta la reiterazione del vincolo."

In definitiva, in questa stessa sentenza 179/1999, che è stata giudicata come escludente in modo tassativo ogni ipotesi di reiterazione dei vincoli, la Corte indica la piena legittimità costituzionale delle reiterazioni a talune condizioni. E afferma esplicitamente che

"la reiterazione in via amministrativa degli anzidetti vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale (v., per quest’ultimo profilo, sentenze n. 344 del 1995; n. 82 del 1982; n. 1164 del 1988) non sono fenomeni di per se inammissibili dal punto di vista costituzionale. Infatti possono esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con adeguata motivazione) dell’amministrazione preposta alla gestione del territorio o rispettivamente apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà."

Utile riepilogo è costituito dall’ultimo paragrafo dell’articolata sentenza dove la Corte, sintetizzando l’insieme degli approdi delle sue argomentazioni, afferma che

"restano al di fuori dell'ambito dell'indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni - ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici -, i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile."

Può il PRG eliminare senza danni l’edificabilità di un’area?

In altri termini, se il comune, con un piano regolatore aveva destinato una particolare area a zona d’espansione, o comunque aveva attribuito una utilizzazione che comportava l’edificazione, e poi con un successivo documento urbanistico aveva modificato questa destinazione prevedendo utilizzazioni diverse (per esempio, zona agricola), il proprietario ha diritto a una qualche forma di risarcimento o d’indennizzo? Esiste insomma una “diritto all’edificabilità” che, una volta ottenuto dal proprietario, gli appartenga come parte del proprio patrimonio?

La giurisprudenza è costante nell’affermare che l’interesse pubblico, espresso dalle amministrazioni legittimate a compiere gli atti amministrativi, prevale sull’interesse dei privati proprietari. L’unica attenzione che legislazione e giurisprudenza costantemente pongono è che l’atto con il quale si comprimono i legittimi interessi dei proprietari siano adeguatamente motivati, e che la compressione del legittimo interesse sia altrettanto adeguatamente indennizzata.

Motivazione e indennizzo, sono dunque i due elementi cardine che temperano la piena potestà della pubblica amministrazione e garantiscono gli interessi legittimi del proprietario (non sembra che legislazione e giurisprudenza, in Italia, si siano occupati altrettanto del cittadino non proprietario).

Ecco alcune sentenze, dal 1980 al 2001 (sono riprese dalla, Rassegna di giurisprudenza dell’urbanistica di Renzo Poggi; i corsivi sono miei):

Nel 1980 il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, ha stabilito che

"l’amministrazione comunale, se pure non è tenuta a motivare le scelte urbanistiche generali considerate nella loro globalità (se non nei casi in cui tali scelte incidano su lottizzazioni già approvate), deve peraltro motivare l’adozione di una variante al piano regolatore generale che quelle scelte abbia approvato, indicando le ragioni che hanno determinato la totale o parziale inattualità del piano o la convenienza di migliorarlo." [5]

Il TAR Lombardia ha sentenziato, nel 1982, che

"la variante al piano regolatore comunale abbisogna di una particolare motivazione solo quando al posizione del privato, proprietario dell’area, risulti “consolidata” per effetto di precedenti convenzioni lottizzate stipulate con il comune, e non anche quando trattasi di aree sulle quali insiste un semplice manufatto edilizio” [6].

Il Consiglio di Stato, IV Sezione, ha affermato nel 1984 che

"è illegittima la variante al piano regolatore generale in contrasto con un preesistente piano di lottizzazione, che non indichi i motivi di interesse pubblico che giustificano il mutamento della sistemazione urbanistica del territorio" [7] .

Ma veniamo ad anni più vicini. In una sentenza del 2000 il Consiglio di Stato, Sezione V, ha giudicato che

"il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" [8].

Il TAR Lombardia, sez. Brescia, ha stabilito nel 2001 che

"neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il prg non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" [9].

Con la medesima pronuncia il tribunale ha argomentato che

"il comune, pur avendo la più ampia discrezionalità di rivedere le previsioni urbanistiche in sede di disciplina del proprio territorio, tuttavia, anche in assenza di una preesistente lottizzazione convenzionata, ove abbia ingenerato precisi affidamenti sulla edificabilità nel proprietario dell’area, non può adottare una variante che modifichi le previsioni già in vigore, senza addurre una circostanziata motivazione sulle particolari ragioni di pubblico interesse che abbiano reso necessario incidere sulle posizioni giuridiche del privato costituitesi con l’avallo dell’amministrazione e senza una congrua comparazione tra i vari interessi in conflitto" [10].

Nel medesimo anno il Consiglio di Stato, V sezione, ha giudicato che

"sono illegittime le deliberazioni comunali di adozione di variante a piano regolatore generale che modificano la destinazione urbanistica di aree oggetto di convenzione di lottizzazione precedentemente autorizzate, senza recare una congrua e puntuale motivazione in ordine alla preponderanza dell’interesse pubblico sotteso alla nuova destinazione urbanistica sull’interesse precedente e che aveva trovato espressione nell’approvata lottizzazione" [11].

L’esemplificazione della giurisprudenza potrebbe proseguire a lungo. Ciò che mi interessa sottolineare è che, se è legittimo modificare con uno nuovo strumento urbanistico, al limite escludendo l’edificabilità, una lottizzazione convenzionata già stipulata purché se ne motivino adeguatamente le ragioni, a maggior ragione ciò è possibile se si tratta di una semplice previsione di PRG. In tal caso, neppure una specifica motivazione sembra necessaria. E meno che meno è necessario un indennizzo.

In altri termini , non esiste alcun “diritto all’edificabilità” da parte del proprietario, né se questi è stato in precedenza gratificato da una previsione edificatoria poi cancellata, e neppure se, sulla base di quella previsione, aveva ottenuto l’approvazione di un piano di lottizzazione convenzionata e aveva stipulato con il comune i relativi atti.

Davvero è necessario “compensare” e “perequare”perché lo richiede il diritto?

È possibile a questo punto riepilogare per giungere a una conclusione.

Non esiste impedimento giuridico a modificare le previsioni del piano regolatore comunale vigente ove ciò sia necessario, senza che ciò comporti alcun obbligo di indennizzare o compensare in alcun modo il proprietario che abbia avuto una riduzione della utilizzabilità urbanistica della sua area.

Non esiste impedimento giuridico (e anzi esiste una sollecitazione da parte del giudice costituzionale) alla individuazione, da parte dei Comuni, di aree da sottoporre a tutela per motivi connessi ai valori culturali, archeologici, storici, paesaggistici (con specifico riferimento al paesaggio agrario) o a situazioni di fragilità e di rischio, e su cui quindi imporre un vincolo ricognitivo.

Non esiste impedimento giuridico a vincolare per utilizzazioni pubbliche (a sottoporre quindi a vincolo urbanistico) aree già sottoposte a vincolo ricognitivo, ove le ragioni del vincolo lo consentano e compatibilmente con le trasformazioni e le utilizzazioni coerenti con tali ragioni.

Non esiste obbligo a indennizzare i proprietari di aree, destinate a svolgere una funzione di pubblica utilità, per la quale la normativa urbanistica comunale preveda la gestione economica da parte del proprietario delle attrezzature e degli impianti di cui si ipotizza la realizzazione.

Ove sia necessario sottoporre a vincoli urbanistici di tipo espropriativo immobili che non ricadano nei due casi precedenti, e che non siano neppure acquisibili mediante le normali procedure della lottizzazione convenzionata praticata almeno dal 1967, l’indennità espropriativa non deve compensare ipotesi di edificabilità diverse da quelle che le leggi in materia dispongono. A meno che il Comune non sia così sciocco da promettere edificabilità diffuse e “spalmate” su gran parte del territorio comunale.

Edoardo Salzano

Venezia, 10 gennaio 2003

[1] Sottolineo “per ragioni di diritto” perché possono esserci motivi di opportunità politica o sociale che inducono ad agevolare determinati gruppi di proprietari; ma non è di questi aspetti che voglio occuparmi.

[2] A partire dalle sentenze n. 55 e 56 del 1968, fino alla sentenza 378 del 2000. Le rilevantissime sentenze del 1968 le ho commentate a suo tempo: Dopo la sentenza della Corte Costituzionale – La responsabilità a sciogliere i nodi nella questione del suolo urbano, in “Città e Società”, n.6, nov.- dic. 1968. Vedi anche: V.De Lucia, E.Salzano, F.Strobbe, Riforma urbanistica 1973, edizioni delle autonomie, Roma 1973: E Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Laterza editori, Bari-Roma, 20024.

[3] Si vedano le sentenze 15 luglio 1969, n. 136; 26 aprile 1971, n. 79; 20 febbraio 1973, n. 9; 4 luglio 1974, n. 202; 20 dicembre 1976, n. 245; 16 giugno 1988, n. 648; 17 luglio 1989, n. 391; 20 luglio 1990, n. 344; 28 luglio 1995, n. 417.

[4] Legge 19 novembre 1968, n. 1187. In realtà nell’approvare la legge il Parlamento si era impegnato a risolvere più sostanzialmente la questione approfittando della proroga quinquennale che si era concesso.

[5] Cons. Stato, Ad. Plenaria, 21 ottobre 1980 n. 37.

[6] TAR Lombardia, Sez. Milano, 6 maggio 1982 n. 254.

[7] Cons. Stato, Sez IV, 5 dicembre 1984 n. 884

[8] Cons. Stato, sez. IV, 3 luglio 2000 n. 3646.

[9] TAR Lombardia, sez. Brescia, 12 gennaio 2001, n. 2.

[10] Ibidem.

[11] Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1385.

Per affrontare le questioni poste in questa sessione – e più in generale in questa conferenza - occorre definire l’oggetto attorno al quale ragioniamo: il paesaggio. A me interessa allora ricordare che il paesaggio è il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura. Nel paesaggio, nella forma del territorio così come ci appare, natura e storia si integrano variamente nelle varie parti del pianeta. Essi formano così tipi diversi di paesaggio (naturale, agrario, urbano), ciascuno dei quali è caratterizzato da genesi, caratteri, significati, utilità, problemi diversi. È proprio la loro genesi, caratterizzata dalla sintesi tra evento e sito, che definisce quindi l’identità dei luoghi: elemento costitutivo della stessa identità delle comunità, nazionali e locali, che quei luoghi abitano. Prodotto della storia, e identità dei luoghi e delle comunità: questi sono gli attributi del paesaggio che soprattutto mi interessano.

Sottolineare, come mi sembra giusto fare, il ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi del suo valore) significa porre l’accento sul ruolo dell’uomo. Occorre allora riconoscere che l’intervento dell’uomo sulla natura ha avuto ed ha segni diversi. A volte (in certe epoche, in certe società, in certi luoghi) un ruolo positivo: ha costruito paesaggi (urbani, agrari, naturali anche) ai quali riconosciamo oggi valore d’insegnamento e valore estetico: con la semplice manutenzione, oppure con la formazione di nuovi paesaggi agrari, oppure con la creazione di opere integrate nel paesaggio preesistente, l’uomo ha aggiunto insomma valore alla forma della Terra. Ma altre volte (con l’incuria e l’abbandono, con l’eliminazione dei segni del passato in nome del profitto immediato, con l’artificializzazione dissennata) ha sottratto valore e distrutto il patrimonio culturale e storico costituito dal paesaggio, ha ridotto la ricchezza della civiltà umana.

Una domanda inquietante dobbiamo allora proporci. È in grado la società di oggi, la cultura che essa esprime, di porsi nei confronti della natura e della costruzione del paesaggio nello stesso modo nel quale si sono posti gli uomini il cui prodotto oggi ammiriamo, e nel quale riconosciamo una componente essenziale della nostra identità? I paesaggi urbani e periurbani, la devastazione delle campagne, la distruzione di ambienti naturali, realizzati in Italia nell’ultimo mezzo secolo, non lasciano dubbi in proposito, e invitano alla massima attenzione di fronte alla tentazione di “abbassare la guardia” dell’azione di tutela.

Lo sviluppo sostenibile

A non abbassare la guardia nell’azione di tutela ci invita del resto il titolo stesso di questa sessione: “Paesaggio e sviluppo sostenibile”. Molti criticano oggi il temine “sostenibile”: in effetti, è diventato un aggettivo passepartout, può essere stiracchiato fino a coprire qualunque contenuto, anche il più devastante. Ma non c’è da meravigliarsi: succede sempre così, quando una parola diventa alla moda. Occorre però allora precisare, oltre al termine “paesaggio”, anche “sostenibilità”.

Io mi riferisco all’accezione del termine che ne è stata data nel Rapporto Brundtland, nella Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell’ONU, nel 1983. Per “sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto – si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

A ragionarci bene, è un’interpretazione severa. Non si tratta di trovare un qualche compromesso, tra l’esigenza della conservazione e quella della trasformazione. Non si tratta di scegliere le trasformazioni in qualche modo “compatibili” con la tutela. Si tratta, invece, di rinunciare a quelle trasformazioni che comportino una riduzione delle risorse che riteniamo necessarie, oggi e domani, al genere umano. Oppure (ed è un altro modo di dire la stessa cosa) si tratta di garantire che il bilancio di ogni trasformazione porti a un miglioramento dell’insieme delle risorse disponibili: nel campo che ci interessa, a un miglioramento della qualità del territorio e della vita.

Utilità del paesaggio

Per ricondurre il paesaggio sotto le regole dello “sviluppo sostenibile” occorre allora invertire la tendenza, e imparare di nuovo a governare la natura senza negarla. Ma questo non può essere lasciato alla buona volontà dei singoli, o all’azione di qualche minoranza illuminata. Occorre che la tutela del paesaggio diventi una priorità sociale. Perché ciò avvenga, è necessario rendere evidente a tutti quali sono le ragioni per cui è socialmente necessario tutelare e arricchire la qualità del paesaggio (dei paesaggi). Perché, insomma, il paesaggio serve?

In primo luogo, il paesaggio è memoria. Il paesaggio è un deposito di storia. In esso è rappresentato e testimoniato il nostro passato, il passato della nostra civiltà. Esso è dunque il fondamento della identità delle diverse comunità che abitano il pianeta (dalle nazionali alle locali). Esso serve (a noi, e alle generazioni future) perché è una insostituibile risorsa della civiltà, è la materia vitale che alimenta il futuro. Basterebbe questo a comprendere come una società che voglia esistere debba custodire il paesaggio come una propria risorsa primaria.

Ma il paesaggio è anche risorsa economica. Sempre più, nell’economia moderna, tendono ad accrescere il loro peso (fino a diventare dominanti) i settori legati alla produzione di “beni immateriali”, tra i quali i comparti legati alla ricreazione e al benessere fisico, al turismo, alla conoscenza e al godimento estetico assumono crescente rilievo. In moltissime aree dell’Italia (e dell’Europa) il paesaggio di qualità è luogo e condizione per produzioni enogastronomiche “di nicchia”, caratterizzate dalla qualità e dall’identità, fondamentali sia per lo sviluppo economico e sociale delle aree coinvolte che per la conservazione di valori universali.

A proposito del ruolo economico del paesaggio nei prossimi decenni non va trascurato il peso che può avere per lo sviluppo dell’occupazione in molte regioni italiane un’azione di manutenzione del suolo, di riduzione dei rischi e dei costi del degrado ambientale, di avvio di un’azione di presidio ambientale. Si tratta di ricostituire e manutenere ambienti naturali distrutti dall’incuria dell’uomo (e minacciosi per la sopravvivenza nelle aree a valle del degrado), oppure ambienti caratterizzati da un assiduo rapporto di costruzione del paesaggio agrario.

Alla qualità del paesaggio è legata anche la qualità della vita: La bellezza dei panorami, l’armonia dei luoghi nei quali si svolge la sua vita sono essenziali per il benessere della donna e dell’uomo, del bambino e dell’anziano. Nell’epoca della globalizzazione, la concorrenza tra le regioni e le città assume sempre di più la qualità dell’ambiente (come componente della qualità della vita) come un valore economico da mettere in gioco nel “ marketing urbano”. Ciò pone, una volta ancora, l’esigenza economica di migliorare la qualità del paesaggio anche là dove (come nelle periferie urbane) non si è stati capaci di creare qualità nuove, ma solo di distruggere quelle preesistenti.

Paesaggio e pianificazione

Obiettivo primario che si pone è dunque quello di conferire piena efficacia alla protezione e al godimento dei beni paesaggistici (di quelli esistenti e di quelli da realizzare) da parte delle generazioni presenti e future. Con quali strumenti però?

Non credo nella sufficienza di politiche meramente vincolistiche (sebbene sia convinto, come argomenterò fra poco, che tali politiche siano ancora necessarie). Non credo neppure nella utilità di strumenti che isolino determinate porzioni del territorio e riservino a queste l’azione di tutela. Il paesaggio va governato nel suo complesso, con un’azione cui non sfuggano nè la storicità del paesaggio (e dunque la consapevolezza dell’intreccio tra lavoro e natura che il paesaggio rappresenta ed esprime), né l’esigenza di tutelarlo dinamicamente, governandone quindi l’evoluzione e il rapporto, certo complesso e difficile, con l’azione antropica.

Il paesaggio può essere tutelato con efficacia unicamente se diviene un aspetto, decisivo e vitale, di un’azione di governo del territorio che affronti l’insieme dei problemi e delle esigenze legati al suo uso e alle sue trasformazioni, assicurando in questo quadro la priorità alla tutela e allo sviluppo delle dimensioni qualitative: dunque, del paesaggio. Ecco perché ritengo che la pianificazione territoriale e urbanistica, come insieme di metodi e strumenti volti ad assicurare coerenza alle trasformazioni del territorio garantendo trasparenza e partecipazione al processo delle decisioni, sia l’ambito entro il quale tale obiettivo può essere raggiunto.

Ed ecco perché, per converso, sono preoccupato delle fortune che sempre più stanno ricevendo quegli strumenti urbanistici “anomali”, che dall’inizio degli anni Ottanta stanno rendendo via via più complicata – e più perversa – la pratica della pianificazione. Mi riferisco ai programmi integrati, ai programmi di recupero urbano, ai programmi di riqualificazione urbana, ai contratti di quartiere, agli accordi di programma quadro, ai contratti di programma, ai patti territoriali, ai contratti d’area, ai programmi straordinari di edilizia residenziale, e infine ai programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio.

Ciò che accomuna la quasi totalità di questi “piani anomali” è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini).

Indirizzi per la pianificazione

Occorre utilizzare lo strumento e il metodo della pianificazione nella sua reale portata. Ma occorre arricchire e adeguare quest’ultima, definendo nuovi indirizzi che le consentano di farsi carico più compiutamente delle esigenze della tutela del paesaggio. A me sembra particolarmente significativo, da questo punto di vista, il modo in cui la legge 431/1985 (la cosiddetta Legge Galasso) ha posto le premesse per innovare il sistema di pianificazione.

La legge è stata attuata solo parzialmente, e spesso la sua attuazione è stata una elusione delle sue finalità. Ma l’esperienza di attuazione di quella legge, là dove un’attuazione positiva vi è stata, induce ad sottolineare, e a proporre alcuni indirizzi particolarmente significativi. Li enuncerò in termini molto sintetici:

La “attenta considerazione delle valenze paesistiche e ambientali”, che la legge 431 chiede alla pianificazione ordinaria perché abbia efficacia, deve diventare una costante nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale.

Più precisamente, la prima fase della pianificazione deve essere costituita dall’assidua ricognizione delle qualità naturali e storiche del territorio, come si tentò di fare nell’esperienza della Regione Emilia Romagna del 1985-86 e come hanno prescritto, in modi più o meno chiari, le nuove leggi urbanistiche della Toscana e della Liguria.

La ricognizione delle qualità del territorio deve condurre precettivamente all’individuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili con le caratteristiche proprie di ogni unità di spazio, come condizionenon negoziabile per ogni decisione sulle trasformazione da promuovere o consentire;

La tutela attiva del paesaggio richiede che nel processo di pianificazione vengano integrati tutti gli strumenti disponibili: le politiche e le azioni di settore, gli incentivi finanziari, la partecipazione a programmi e progetti nazionali e sovranazionali, il ricorso all’imprenditoria privata. Questi strumenti non devono essere adoperati in contrasto alla pianificazione oppure come alternativa ad essa, ma - appunto - come suoi strumenti.

Sottolineare l’utilità della pianificazione (come mi sembra indispensabile) significa riconoscere la parzialità, e quindi l’insufficienza, della protezione passiva costituita dai vincoli di tutela. Ma credo che il clima culturale e morale che stiamo attraversando (gli anni Ottanta non finiscono mai!) impongano al tempo stesso di ribadirne l’utilità.

I vincoli, ancorché non sufficienti, sono utili sotto un duplice profilo. In primo luogo, il vincolo è necessario come difesa temporanea, in attesa che la pianificazione consenta di articolare le politiche, sia attive che passive, di tutela. In secondo luogo perché (come dimostra l’esperienza della legge 431/1985) il vincolo agisce strumentalmente come sollecitazione alla pianificazione, e quindi alla possibilità di una tutela più compiuta e di una fruizione dei beni paesaggistici che ne garantisca la conservazione.

Sussidiarietà e intesa

Un ultimo punto vorrei brevemente toccare. La tutela e valorizzazione del paesaggio esprime una pluralità d’interessi collettivi: da quelli nazionali a quelli locali. Occorre evitare sia il rischio del conflitto paralizzante sia quello della negazione di uno o dell’altro degli interessi coinvolti.

Il principio di sussidiarietà è il criterio utilizzabile per individuare a chi spetta la responsabilità della scelta in relazione agli oggetti e aspetti su cui occorre decidere. Lo è, beninteso, se è assunto nella sua accezione corretta, quella elaborata nella recente cultura europea. Non il principio di sussidiarietà inteso come “tutto il potere alla periferia”, ma come riconoscimento del fatto che per ogni decisione c’è un livello giusto al quale quella decisione può essere presa efficacemente. Ma valga il testo ufficiale (Trattato di Maastricht, art.3B):

Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.

È davvero difficile pensare che il paesaggio, essendo elemento fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, non rientri pienamente nelle responsabilità (e nelle competenze) dello Stato, essendo appunto questione che si pone a una scala nazionale.

Ma se gli organi centrali dello Stato hanno la responsabilità dell’azione di tutela, essi hanno anche quella di promuovere la concorrenza dei poteri nell’azione di tutela. Se la responsabilità primaria in materia di paesaggio spetta allo Stato, anche i livelli di governo regionale e locale sono legittimati (credo d’averlo argomentato a sufficienza) a concorrere con esso nella azione di individuazione, definizione, tutela.

Come può esercitarsi la concorrenza nel campo della pianificazione territoriale e della tutela del paesaggio? Anche qui vi è un principio, e un istituto già introdotto nel nostro ordinamento, che possono aiutare. È il principio secondo il quale gli strumenti di pianificazione, laddove disciplinino beni dello Stato in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possono diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato. Questo principio, del resto, è stato introdotto recentemente nell'ordinamento, seppure limitatamente alla pianificazione provinciale, dall'articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, il quale stabilisce che:

la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale [...] assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.

Come propone l’associazione Polis, un simile testo normativo può essere esteso al di là del suo specifico contesto, e costituire un modello sulla cui base affrontare compiutamente la questione. È un modello, del resto, che è già stato più volte proposto e applicato in concrete esperienze di governo del territorio e può dar luogo a utili semplificazioni e snellimenti delle procedure. Ciò che è nell’interesse di tutti.

Vedi anche: Ragionando sul paesaggio

Sintesi

Giustamente l'INU pone al centro della sue riflessione due questioni entrambe nodali: il sistema della pianificazione urbanistica e territoriale, il regime degli immobili. E altrettanto giustamente l'INU affronta la prima delle due questioni ponendo l'accento su argomenti (quali il rapporto tra pianificazione e tempo, le competenze dei vari livelli di governo e di pianificazione, i contenuti che la pianificazione deve avere in relazione alle nuove situazioni e alle nuove esigenze) per i quali soluzioni innovative sono, a un tempo, necessarie e mature. Sulla prima questione è peraltro possibile compiere passi avanti molto più decisi di quelli che l'INU propone, come il dibattito culturale e recenti esperienze di pianificazione dimostrano. Sulla seconda questione le proposte dell'INU costituiscono un preoccupante arretramento rispetto a un'elaborazione culturale la cui vicenda (a partire dagli anni 50) è parte costitutiva della storia dell'INU.

Il sistema della pianificazione

Per restituire credibilità alla pianificazione occorre affrontare e risolvere tre problemi: come far sì che la pianificazione, senza perdere la propria coerenza, riesca ad adattarsi alle trasformazioni della realtà in tempi “politici” e non “storici”; come rispondere efficacemente, con la pianificazione, alla fondamentale esigenza della tutela delle qualità ambientali e della riduzione dei rischi; come ottenere snellezza e chiarezza dei procedimenti, in una situazione in cui almeno tre livelli di governo sono coinvolti nel processo di pianificazione.

Tali problemi possono essere enunciati sinteticamente come quelli dei rapporti della pianificazione con il tempo, con l'ambiente e con i poteri pubblici. È su questi che mi propongo ora di soffermarmi, prima di dedicare, in conclusione, qualche brevissima annotazione alla questione del regime degli immobili (che tocca il cuore di un quarto rapporto: quello tra la pianificazione e i poteri privati).

Pianificazione e tempo

In alcuni strumenti urbanistici alla cui elaborazione ho partecipato dall'inizio degli anni 80[1] abbiamo sperimentato la possibilità, l'opportunità e l'utilità di una trasformazione del tradizionale strumento di pianificazione (il PRG), che è stata successivamente messa a punto in alcuni elaborati prelegislativi presentati in varie sedi. La proposta è basata sull'articolazione degli elaborati. grafici e normativi del piano comunale (ma analogo criterio viene proposto per gli atti di pianificazione degli altri livelli) in due serie di componenti.

La prima componente, che abbiamo definito strutturale (ma che presenta sostanziali differenze rispetto allo “structure plan”), rappresenta e disciplina le decisioni relative alla tutela ambientale e della riduzione dei rischi, e quindi definisce, per ciascuna unità di spazio, le condizioni che l'esigenza suddetta pone alle trasformazioni territoriali, e inoltre individua (rappresentandole e disciplinandole) le scelte relative a opere e interventi di carattere strategico, e cioè riferite al lungo periodo e governabili solo in una prospettiva lunga. Essa ha validità a tempo indeterminato, viene periodicamente verificata (e aggiornata solo se ciò si rivela necessario), e comporta un iter procedimentale più garantistico dell'altra componente.

La seconda componente, che abbiamo definito programmatica (ma che ha un contenuto molto più ampio del Programma poliennale d'attuazione, avvicinandosi piuttosto al “Pian d'occupation du sol”, e che è a sua volta matrice, per le aree di pesante trasformazione urbanistica, di specifici piani urbanistici attuativi), definisce le destinazioni d'uso attivabili, nonché le trasformazioni fisiche operabili (le une e le altre, ovviamente, nell'ambito e nel rispetto delle condizioni definite dalla componente strutturale e in coerenza con la sua stralegia). La componente programmatica ha validità per un quadriennio, cioè per un periodo coincidente con il mandato amministrativo; alla fine di tale periodo essa decade, e deve essere sostituita da un nuovo analogo atto. L'iter procedimentale della componente programmatica si esaurisce nell'ambito dell'ente territoriale che l'ha adottata (comune, provincia o città metropolitana, regione).

In tal modo, mentre da un lato vi sarebbe una forte garanzia di permanenza, e di modificabilità molto controllata, sulle scelte relative alle tutele e alle strategie, le concrete operazioni di trasformazione funzionale e fisica sarebbe interamente demandate alla responsabilità dell'ente territoriale, consentendo a quest'ultimo di seguire con tempestività le trasformazioni e l'evoluzione della domanda sociale.

Il documento dell’INU sembra diretto verso i medesimi obiettivi, i quali peraltro meriterebbero d'essere esplicitati con maggiore chiarezza e, soprattutto, più coerentemente tradotti nel sistema di pianificazione proposto.

Pianificazione e ambiente

E solo attorno alla metà degli anni 80 che l'esigenza di attribuire una “specifica considerazione ai. valori paesaggistici e ambientali” nella redazione degli strumenti di pianificazione ha cominciato ad affermarsi. Si conviene ormai largamente che, come si affermò in modo esplicito fin dai documenti preparatori del Piano paesistico dell'Emilia-Romagna, “la tutela dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio costituisce la precondizione per le trasformazioni”.

Più generalmente, molti ritengono che la pianificazione debba assumere il requisito della sostenibilità come proprio obiettivo centrale. E quando si parla di sostenibilità ci si riferisce alla definizione di “sviluppo sostenibile” adottata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, la cosiddetta Commissione Brundtland. Dove per “sviluppo sostenibile - è opportuno ricordarlo - “si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”[2].

Queste posizioni di principio devono però tradursi in specifiche prescrizioni normative che inverino tale posizione nel procedimento tecnico di formazione degli atti di pianificazione.

La nuova configurazione degli atti di pianificazione indicata nel precedente paragrafo, e in particolare i contenuti della componente strutturale, mi sembrano tali da consentire di raggiungere l'obiettivo “ambientalista”. Della componente strutturale fanno infatti parte sostanziale tutti gli elementi di individuazione e di prescrizione che definiscono, per ciascuna porzione del territorio e per ciascuna unità di spazio, le condizioni che le esigenze della tutela pongono alle trasformazioni.

Sarà certo necessario (ma non in sede di legge nazionale, e neppure di legge regionale, sebbene in sede di regolamentazione tecnica di livello substatuale) suggerire o prescrivere le concrete modalità tecniche, gli specifici parametri, le puntuali analisi che dovranno essere adottati nel definire la componente strutturale degli atti di pianificazione. Esiste ormai una messe sufficientemente ampia di esperienze di pianificazione, in Italia, oltre che all'estero, che consentirebbero di mettere a punto rapidamente una prima bozza di regolamentazione tecnica.

Pianificazione e poteri pubblici

La legge 142 del 1990 ha definitivamente stabilito che i livelli di pianificazione (oltre alla questione del “livello” nazionale, la quale meriterebbe un ragionamento a parte) sono tre: la regione, la provincia (e, dove è istituita, l'area metropolitana), il comune. Giustamente il documento dell'INU recepisce questa indicazione, la quale del resto corona un lunghissimo dibattito culturale iniziato con il Codice dell'INU del 1959 e poi proseguito attraverso le elaborazioni e le discussioni sull'istituto regionale e sull'ente intermedio. Il problema ancora aperto è quello di definire contenuto, competenze e procedimenti dei tre livelli di pianificazione e di governo, sulla base del presupposto (che il documento dell'INU `palesemente non condivide) che a ogni livello di governo corrisponde un livello di pianificazione, e che ogni ente pubblico territoriale elettivo di primo grado, titolare di competenze in merito a scelte che incidono sul territorio, esprima le sue scelte mediante un atto di pianificazione.. Il criterio che mi sembra ragionevole assumere per distinguere le competenze territoriali dei tre livelli di governo è quello per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le funzioni relative ad aspetti che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste.

Questo criterio coincide con quello, consolidato nella cultura e nella prassi della Unione europea, della “sussidiarietà”, per cui debbono competere ad ogni livello, e a ogni soggetto, istituzionale, tutte le funzioni che a quel livello, e da parte di quel soggetto, ragionevolmente si possa ritenere siano esplicabili con efficienza ed efficacia tali da rispondere accettabilmente agli interessi dei cittadini amministrati, essendo (soltanto) le funzioni “residue” via via deferite ad altri soggetti e/o livelli, istituzionali, con particolare riferimento a quelli “sovraordinati”.

Nella pratica della pianificazione, l'esercizio delle competenze proprie di ciascun livello di governo (e di piano) dovrebbe esprimersi in forme differenziate in ragione sia della natura e delle caratteristiche degli oggetti e aspetti territoriali considerati, sia della congruità delle “forme espressive” (localizzazioni precise, ambiti di localizzazione, soglie, ecc.) con le specifiche competenze pertinenti a quel livello. Così, gli strumenti di pianificazione dei livelli di governo sovraordinati e di tipo “generale” dovrebbero definire precise localizzazioni o esatti tracciati per alcuni elementi (per es., un porto o una grande infrastruttura lineare), ambiti, o direttrici, di localizzazione, da osservare nell'attività pianificatoria di livello sottordinato o di tipo attuativo per altri elementi (per es., la localizzazione di un aeroporto a livello nazionale, di una sede universitaria a livello regionale, di un istituto scolastico superiore a livello provinciale), quantità o soglie quantitative per altri elementi ancora, e in particolare per quelli influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommatoria degli effetti che ne risultano.

Per quanto riguarda le procedure, ogni livello di governo dovrebbe potersi esprimere sugli atti di pianificazione di competenza di ciascun altro livello, ma la decisione ultima spetta al livello di governo che ha competenza per quel determinato elemento o aspetto della struttura territoriale. Conseguentemente, ad ogni livello di governo dovrebbe essere riconosciuto un mero potere di controllo della conformità delle scelte di competenza dei livelli sottordinati alle decisioni proprie e degli altri livelli sovraordinati.

Gli enti territoriali elettivi di livello sottordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianifica­zione di livello sovraordinato esprimendo osservazioni, cui dovrebbe essere sempre obbligatorio controdedurre motivatamente. Parimenti, gli enti di livello sovraordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sottordinato mediante pareri e osservazioni, ai quali dovrebbe essere ugualmente obbligatorio controdedurre motivatamente, ma che dovrebbero essere vincolanti solamente ove concernenti la tutela di interessi la cui competenza sia riconosciuta ai predetti enti di livello sovraordinato.

E ove gli enti di livello sovraordinato abbiano provveduto ad esprimere tali interessi mediante gli strumenti di pianificazione di propria competenza, la vigenza degli strumenti di pianificazione di livello sottordinato dovrebbe essere soggetta soltanto al controllo della loro conformità alle de terminazioni dei primi. Non dovrebbe infine essere previsto alcun controllo di merito, da parte degli enti di livello sovraordinato, sugli atti di pianificazione di tipo “attuativo”, che vengano dichiarati, e siano, meramente esecutivi delle prescrizioni di strumenti di tipo “generale” già vigenti.

Il regime degli immobili: pianificazione e poteri privati

Gli obiettivi che 1' INU, e le forze progressiste e riformatrici della cultura e della politica, si sono tradizionalmente posti sono stati due: impedire che flussi di risorse affluissero alla rendita fondiaria ed edilizia (e tendenzialmente eliminare la quota di rendita fondiaria trasferita nel prezzo delle abitazioni), e rendere i proprietari di suoli “indifferenti alle destinazioni dei piani”[3] (3). Quest'ultimo obiettivo è particolarmente rilevante per chi - come gli urbanisti -è culturalmente e tecnicamente impegnato nella pianificazione. Finché quella indifferenza non sarà raggiunta, finche sarà la matita degli urbanisti a spostare da un'area a un'altra (e da un portafoglio all'altro) ingenti masse di reddito, le ragioni culturali e tecniche saranno sempre perdenti: le scelte saranno legittimamente compiute non dai “tecnici”, ma dai politici i quali, in quanto eletti dai cittadini, sono gli unici pienamente legittimati a decidere (si spera, nell'interesse collettivo) su scelte delle quali l'aspetto economico è senza dubbio predominante su quello tecnico.

Mi sembra questa la ragione di fondo per cui, fin dagli anni 50 (ma forse sarebbe utile riandare perfino al dibattito che precedette la legge del 1942), gli urbanisti si sono “impicciati” ditemi così precipuamente economici, sociali e politici come quello del regime degli immobili. Ed è questa anche la ragione di fondo per cui ritengo che la proposta della cosiddetta “perequazione”, avanzata nel documento dell'INU, sia un gravissimo cedimento.

La proposta oggi sostenuta dall'INU attribuisce infatti un valore di rendita edilizia a tutte le aree comprese all'interno delle aree urbanizzabili o ri-urbanizzabili, operando “perequazioni” tra i proprietari compresi all”interno di queste ultime (perdi più con differenze di indici che non si comprende quale portata “sperequativa” possano avere). Nessuna perequazione sembra peraltro prevista tra i proprietari esterni alle aree urbanizzabili e quelli interni. Talché, mentre rimangono del tutto aperti i vizi di legittimità costituzionale (alcuni proprietari sono beneficiati dalla decisione pubblica, altri no), è sempre la matita dell'urbanista che traccia (che dovrebbe tracciare) il confine tra chi è beneficiato e chi no.

Molto più ragionevole ed efficace rimane la proposta, derivata dall'ipotesi formulata nel 1968 dall'allora Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli, nutrita delle riflessioni di Guido Cervati, Vincenzo Cabianca.

[1]Variante al Prg per la città storica di Venezia, 1980-1985, 1987-1990; Prg del Comune di Carpi, 1990-1995.

[2] Per le ricadute urbanistiche della "sostenibilità" rinvio agli atti del Convegno tenuto a Venezia nel 1991: La città sostenibile, a cura di E. Salzano, Edizioni delle autonomia, Roma 1992.

[3] Per adoperare I'espressìone formulata da Aldo Moro nel 1964.

Il testo della lettera spedita l'11 genna56 2007 alla responsabile DS per il Territorio, Patrizia Colletta. In calce il link all'articolato dei DS, in formato .pdf.

Cara Patrizia, molto sinteticamente alcune osservazioni di carattere generale sul testo che mi hai inviato.

Mi sembra intanto, per esprimere una valutazione complessiva, che non ci siano più elementi di contrasto o contraddizione con il testo a suo tempo presentato dagli “amici di eddyburg”. Rilevo anzi con piacere che formulazioni rilevanti della nostra proposta siano state riprese nel documento DS.

Naturalmente sono possibili numerose critiche, intese come proposte di miglioramento, su singoli e specifici punti; ma su questo ci sarà tempo e modo di intervenire più avanti. Sottolineo invece tre questioni sulle quali mi piacerebbe che una riflessione conducesse ad alcune correzioni di sostanza del vostro testo. Si tratta di due integrazioni secondo me indispensabili, e omogenee al testo, e di una questione un po’ più sostanziale e meno “tecnica”. Nell’ordine.

1. Il consumo di suolo. Così com’è (ultimo comma dell’articolo 3) mi sembra che il contenimento del consumo di suolo sia poco più della manifestazione di un’intenzione. È un po’ poco per chi, come me, pensa l’obiettivo di merito centrale delle politiche territoriali oggi in Italia debba essere l’arresto dello sprawl e dell’ingiustificato consumo di suolo e la tutela delle aree extraurbane. Nel nostro testo c’erano alcune formulazioni più precise. Mi riferisco in particolare all’articolo 7 (Il contenimento dell'uso del suolo e la tutela delle attività agro-silvo-pastorali), al secondo comma dell’articolo 10 (Gli strumenti e gli atti di pianificazione, e in particolare il ruolo della pianificazione provinciale), e all’articolo 19 (Modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio).

Si tratta di formulazioni che a mio parere possono essere integrate (per esempio, chiedendo alla legislazione regionale di precisare le modalità tecniche di valutazione dell’effettiva necessità di nuove urbanizzazioni, ciò che neppure il nostro testo affronta), ma comunque costituiscono un minimo indispensabile se davvero la riduzione del consumo di suolo è anche per l’Italia un obiettivo.

2. Priorità della tutela sulle trasformazioni. Mi sembra trascurata una questione che a me appare rilevantissima: la priorità delle determinazioni relative alla tutela (cioè della definizione delle condizioni che le esigenza della tutela dell’identità culturale e dell’integrità fisica pongono alle trasformazioni) rispetto alle decisioni di trasformazione del territorio. Nel testo degli “amici di eddyburg” questa precisazione era ritenuta assorbita dall’impianto generale del testo, e in particolare dalla tutela generalizzata delle aree interessate dagli articoli 7 e 8, oltre che dalla stretta connessione con la pianificazione paesaggistica e dalla stringente partecipazione degli organi preposti alla tutela di cui all’articolo 11 (Formazione partecipata degli strumenti di pianificazione).

Secondo me non si può non farsi carico di questo obiettivo, soprattutto se si specificano i contenuti degli strumenti di pianificazione ai vari livelli, come nel vostro testo di fa. (A proposito, ha senso imporre a tutte le regioni il modello di tre componenti della pianificazione di cui all’articolo 15, modello che è applicato solo dalla Regione Toscana?).

Non separiamo urbanizzazione e tutela, infrastrutture e paesaggio. In assenza dei due elementi che ho sopra richiamati (che possono peraltro essere facilmente integrati raccogliendo suggerimenti della nostra proposta) il testo rimane limitato a una disciplina dell’edificazione, e si presenta molto arretrato rispetto a tutte le novità introdotte, anche nelle legislazioni regionali, a partire dall’ambientalismo e dall’attenzione al paesaggio, quindi diciamo dagli anni Ottanta in poi.

Mi sembra che non superare la contrapposizione tra urbanistica (disciplina dell’edificazione) e tutela (disciplina del paesaggio, del beni culturali e dell’ambiente) sia un errore culturale e politico. Come quello di perpetuare la separazione tra politica delle infrastrutture e politiche dell’ambiente e del paesaggio, di cui vedo vistose tracce nella vostra formulazione sui “lineamenti fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”.

3. Il principio di sussidiarietà e i rapporti tra le istituzioni. Mi sembra che nel vostro testo si ponga l’accento solo sulla collaborazione e sull’intesa, e non sulla responsabilità che spetta ai diversi livelli istituzionali. Se non si raggiunge l’intesa, chi deve decidere?

So bene che negli anni passati c’è stato in Italia uno scivolamento da un’impostazione alla Delors a un’impostazione alla Bossi, ma mi sembra che stia maturando la consapevolezza che lo slogan “tutto il potere al basso” provoca più problemi di quanti non ne risolva. Richiamare il concetto di responsabilità istituzionali definite in relazione alla “scala delle azioni e dei loro effetti” (uso la terminologia europea) è indispensabile. Intese si, co-pianificazione si, ma che si sappia che, per ogni questione, c’è un livello istituzionale cui spetta la decisione ultima.

Esistono interessi nazionali, interessi regionali, interessi provinciali e locali. È un grave errore stabilire che sono tutti assorbiti dal livello “più vicino all’elettore” (come se l’elettore non votasse per tutti i livelli). La sussidiarietà è un principio che fu inventato per attribuire a ciascun livello le competenze proprie in relazione alla maggiore efficacia dell’azione di governo, non per stabilire che ciascuno ha un diritto di veto oppure che tutto il potere spetta al livello più basso. Nella stessa logica mi sembra sbagliato assumere dalla Convenzione europea la definizione del paesaggio, che io giudico estremistica perché manca un “anche”, laddove dice.che il paesaggio è ciò che percepisce la popolazione: è anche questo, non solo questo.

Buon lavoro

Qui sotto il link al testo dell’articolato

IL MESTIERE DELL’URBANISTA

L’urbanista

Diverse sono le interpretazioni sulla nascita di questa nuova figura professionale, l’urbanista. Questa figura professionale ancora oggettivamente acerba e soggettivamente incerta. Una figura caratterizzata più dal suo mestiere che dal suo sapere (la “disciplina”), più da ciò che la società gli chiede che da una propria carismatica “missione”. Una figura più propensa a individuare problemi e a proporre percorsi per risolverli che a propinare certezze, più a favorire la ricerca di visioni condivise che a imporre la propria.

C’è chi, come Leonardo Benevolo, lega il mestiere dell’urbanista alla crisi del sistema economico-sociale fondato sulla produzione industriale, alla conseguente necessità di sanare i guasti prodotti nell’ambiente della vita dell’uomo, all’emergere dell’aspirazione (da parte di élite visionarie o di gruppi organizzati di uomini) a una condizione urbana caratterizzata da salubrità, socialità, benessere condiviso.

C’è chi, come Hans Bernoulli, dedica il mestiere dell’urbanista al tentativo di recuperare la grande rottura storica avvenuta quando il trionfo della borghesia, sciogliendo i variopinti vincoli feudali che legavano la società e ponendo l’interesse individuale come motore dello sviluppo, infranse anche il sistema delle regole comuni basate sulla proprietà indivisa del suolo urbano, capace di rendere la città bella e funzionale.

E c’è chi, assumendo come metafora della nascita dell’urbanistica il piano di New York del 1811, individua il mestiere dell’urbanista come il primo tentativo di superamento dell’incapacità del mercato a risolvere i problemi derivanti dalla contraddizione tra il carattere intrinsecamente sociale, comune, collettivo della città e la logica invincibilmente individualistica che del mercato è padrona.

Dalla parte del collettivo

Una cosa è certa. Se guardiamo alla storia, ci rendiamo conto che l’urbanistica moderna, e quindi l’urbanista quale oggi riusciamo a immaginarlo, nascono per risolvere problemi che derivano da una circostanza che ha segnato il nostro tempo. Dalla contraddizione tra il carattere collettivo, sociale, comune che hanno necessariamente alcune costruzioni del processo storico (e in particolare la città) e il carattere individualistico proprio dell’ideologia che è alla base del sistema capitalistico.

Esiste una letteratura sconfinata su questa contraddizione. E possiamo affermare che il modo mediante il quale si è cercato e si cerca di superarla caratterizza le diverse scuole, le diverse tonalità, i diversi stili dell’urbanistica, mentre mi sembra indubbio che la posizione a partire dalla quale l’urbanista si pone, il versante sul quale si schiera, sono dalla parte del collettivo, del comune, del sociale.

L’urbanistica è regolativa

La privatizzazione del suolo urbano è la prima forma della contraddizione tra sistema economico-sociale e città, ed è il primo ostacolo alla riduzione dei suoi effetti. Chi governa in nome degli interessi collettivo non è libero nelle sue operazioni: deve fare i conti con la proprietà privata del suolo urbano.

Una parte consistente dell’urbanistica (e una parte consistente del lavoro dell’urbanista) è perciò volta a regolare la proprietà privata: non può ignorarla, non può ignorare che il suolo urbano è parcellizzato, suddiviso, frammentato, frantumato: una città che voglia avere una identità, e quindi voglia esprimere un’immagine unitaria di se stessa, non può essere liberamente disegnata, progettata, pianificata sul terreno tenendo conto solo delle sue caratteristiche fisiche: deve fare i conti con la proprietà individuale e i suoi confini. Perciò, deve imporre ai proprietari (ai “particuliers”, dicono i francesi) la sua regola. L’urbanistica non può non essere regolativa.

E la prima fase del mestiere dell’urbanista è stata proprio quella di regolare a priori (mediante lo strumento del “piano regolatore”) i malfunzionamenti che sarebbero nati se le forme della crescita delle città fosse stata solo quella dettata dai vincoli dell’assetto dominicale e dalle leggi del sistema economico.

I beni culturali

Se la prima contraddizione tra l’habitat dell’uomo e il sistema economico-sociale è quella che ho enunciato, altre sono nate con la sua crescita. Voglio sottolinearne due principali.

La prima sta nel fatto che il sistema capitalistico compie una doppia operazione sul terreno dei valori: da un lato riconosce quale unico valore socialmente rilevante quello economico, ma dall’altro lato, e contemporaneamente, riduce il valore economico al valore di scambio, dimenticando completamente l’altra componente del valore, il valor d’uso. In altri termini, le cose hanno valore, meritano di essere considerate, promosse, tutelate, se sono riducibili a oggetti (servizi) che possano essere comprati e venduti: on hanno valore in se. In una parola, i beni sono ridotti a merci.

Questo comporta il fatto che se un castello o un casale o un bel paesaggio sono d’intralcio a una operazione che dà reddito al suo promotore, il castello o il paesaggio possono essere distrutti.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i valori del sistema capitalistico-borghese non avevano ancora occupato tutti gli spazi. Esisteva, sia pure a livello di élites (ma le èlites allora governavano), la consapevolezza che determinati valori (e determinate qualità territorialmente localizzate) meritassero di sopravvivere di per se, indipendentemente dal loro valore economico: che dovessero essere sottratte alle leggi del mercato mediante la tutela. Esistevano insomma, oltre alle esigenze dell’economia e quelle della razionalità nell’organizzazione della città, anche le esigenze della cultura e della storia.

La teoria economica non osò, o non seppe, compiere il passaggio di allargare il senso del valore economico inventando un riconoscimento economico anche per il valor d’uso, riportando nell’economia gli oggetti in quanto beni, e non solo in quanto merci. Si promosse invece la formazione di un settore protetto, in cui vigevano leggi diverse da quelle dell’economia.

E nacque, di conseguenza, un versante del mestiere dell’urbanista, il quale fu indotto a occuparsi del territorio non solo come sede nella quale far sorgere e sviluppare ordinatamente la città, ma anche come luogo nel quale esistevano oggetti (e configurazioni) che esprimevano valori che dovevano essere individuati, riconosciuti, protetti rispetto ad altre utilizzazioni.

E’ il filone di lavoro che si aprì con le leggi di tutela del 1939, e proseguì nelle esperienze della migliore urbanistica italiana: i piani di Astengo per Assisi, di Detti per Firenze, di Campos Venuti per Bologna, di Piccinato per Siena – per non ricordare che i caposcuola.

L’ambiente

La seconda contraddizione nuova che si manifesta nel corso dello sviluppo del sistema capitalistico è quella che nasce come “questione ambientale”. Anche questa esprime un vizio profondo del sistema. Nella sostanza, quello di aver ridotto l’intero ciclo economico alla produzione via via crescente di beni materiali (merci), secondo ritmi necessariamente tali da minacciare la sopravvivenza delle stesse basi materiali sulle quali poggia l’esistenze dell’umanità sul pianeta Terra.

Questa contraddizione richiederebbe, per essere superata, una visione d’insieme della società (dell’intera società umana), richiederebbe una visione a lungo termine, richiederebbe una serie di politiche che passano tutte attraverso la fase della massima parsimonia nell’impiego delle risorse non riproducibili.

Gran parte di queste risorse riguardano il territorio, nel senso che ne sono parti costituenti, o nel senso che il loro consumo dipende dall’uso che del territorio e delle sue parti si fa. Ecco quindi che un nuovo, ulteriore interesse collettivo – la saggia gestione delle risorse naturali – entra nel campo di lavoro dell’urbanista.

URBANISTICA E POLITICA

Riepilogo

Proviamo a riassumere e a fare un passo avanti.

Il mestiere dell’urbanista nasce in relazione alla necessità di tutelare, nell’organizzazione della città, alcuni interessi comuni di cui la logica del mercato era incapace di tener conto. Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si spostarono nel tempo dalla città ad ambiti più vasti: dalla città al territorio. Agli interessi comuni della funzionalità e della bellezza della città altri se ne sono aggiunti nel tempo: anche la tutela dei valori e interessi dei beni storici e culturali, anche l’impiego razionale e parsimonioso delle risorse naturali e dell’ambiente, si rivelarono via via come beni e interessi non tutelabili dalle leggi dell’economia, che quindi richiedevano un intervento regolatore “esterno”.

Di questo intervento regolatore si fece carico – sul piano sostanziale della decisione – l’autorità politica: cioè, nel sistema democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti direttamente dalla popolazione. In Italia, il sistema Stato, Regione, Provincia, Comune.

Poiché si trattava di regolare una realtà complessa, che riguardava una realtà georeferenziata, si inventò un insieme di strumenti che avevano la loro base in un progetto di territorio, cioé un piano. Poiché, più tardi, si vide che la dinamica delle trasformazioni non era sufficientemente governata da un documento statico, si trasferì l’accento dal piano alla pianificazione, cioè a un’attività continua di governo delle trasformazioni territoriale.

Nacque, e via via si sviluppò, la figura professionale adibita alla formulazione tecnica degli strumenti per il governo, delle trasformazioni territoriali: l’urbanista, depositario dei saperi e mestieri tecnici necessari per supportare le decisioni dell’autorità politica: per redigere gli atti necessari a dar corpo a “una voltà politica tecnicamente assistita”, come dice Indovina.

L’urbanista e il politico

L’urbanista e il politico (l’elu, l’eletto, dicono i francesi) sono due figure sociali che vivono in stretta simbiosi.

L’una, l’urbanista, esprime i saperi e i mestieri connessi alla materia che la pianificazione deve trattare. Poiché questi saperi e mestieri sono un ventaglio molto ampio, il terreno di lavoro è essenzialmente interdisciplinare. Dalla pluralità dei saperi l’urbanista deve trarre ciò che serve a sorreggere le decisioni, che spettano al politico. Egli è perciò in qualche modo la cerniera tra i vari saperi “tecnici” e la sfera della politica, del governo. Non ha però autonomia rispetto alle decisioni, poiché queste, in un regime democratico, spettano a chi rappresenta la collettività, al politico (all’eletto).

Il suo mestiere è legato (l’ho detto e ripetuto) alla ricerca della soddisfazione di interessi comuni, collettivi. Ma gli interessi della collettività sono rappresentati dall’altra figura: il politico. E’ lui, nel sistema democratico, il soggetto che esprime gli interessi “generali”. E’ a lui che è attribuito il compito (la responsabilità) di tradurre questi interessi in atti di governo che modifichino, dirigano, conducano le trasformazioni della società.

La politica oggi

E’ proprio nel rapporto tra queste due figure il problema di fronte al quale ci troviamo, in questi anni. Per chiarire il mio punto di vista dovrò riferirmi alla mia personale esperienza.

Il grosso della mia attività di urbanista si è svolto in una fase della nostra storia in cui il politico era l’espressione di un partito: di una formazione (tra il sociale e l’istituzionale) la cui coesione, e l’appartenenza dei cui membri, era assicurata dalla comune convinzione della validità di un progetto di società.

Lo scontro politico era la competizione tra progetti di società alternativi, ciascuno riferito agli interessi di determinate classi sociali. A seconda del potere conquistato dai portatori dell’uno o dell’altro progetto di società, il compromesso che via via si raggiungeva nella concreta attività di governo era più vicino all’uno o all’altro.

Ciò che voglio sottolineare è che in quella fase l’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un obiettivo di ampio respiro, un progetto di società. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani.

E poichè per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica di arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima conquistare le coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.

La politica è cambiata

La politica è radicalmente cambiata. Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare il consenso con una doppia operazione:da una parte, calibrando la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impigando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza di strati vasti di popolazione.

Dall’interesse generale alla cattura di tutti gli interessi più immediati e spiccioli. Dalla faticosa costruzione del futuro alle piccole trasformazioni nell’immediato. Dalla formazione alla manipolazione. Dalla visione prospettica alla miopia. Questa è la sintesi della caduta della politica.

E ciò è tanto più grave se teniamo conto dell’attuale quadro delle vicende del nostro pianeta. E’ infatti sempre più profonda e più ampia la convinzione che il modello di sviluppo otto-novecentesco, basato sulla crescita indefinita della produzione di merci sotto la spinta dell’interesse individuale dei proprietari dei mezzi di produzione, non solo è incapace di risolvere i grandi problemi del mondo (il deperimento delle risorse, l’estendersi della povertà e delle ingiustizia, la scomparsa delle diversità culturali e di quelle naturali) ma tende ad aggravarli sempre di più: basta scorrere i titoli di testa dei giornali negli ultimi anni per rendersi conto di come il disagio diventi catastrofe.

Se vogliamo che la nostra civiltà abbia un futuro e non deperisca (come è accaduto a moltissime altre) occorrerebbero classi dirigenti che non si riducano ad amministrare il giorno per giorno, a logorarsi nella piccola conquista di sempre più miseri poteri, ma classi dirigenti capaci di progettare una società e un’economia del tutto nuovi, e di avviarne faticosamente e tenacemente la costruzione.

LA LEGGE LUPI

Cambia di mano il bastone di comando

Come sapete, la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura una nuova legge “per il governo del territorio”, che dovrebbe sostituire tutta la legislazione urbanistica nazionale vigente. Con essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contrastare: quelli della proprietà immobiliare.

Il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto). Ma su questo punto ritornerò fra poco.

Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge.

Cancellato il piano “regolatore”

La norma chiave è l’articolo 5, comma 4:

“Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”.

Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, la maestra di Forlì, il contadino di Tricarico, il musicista di Sorrento, il salumaio di Norcia, la studentessa di Bologna? Oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.

Del resto, il rinvio all’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.

Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miope per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio. Nel sistema “innovativo” e “moderno”, largamente condiviso dai parlamentari di centro sinistra presenti nel lavoro di Commissione, le scelte sono concordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7).

Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo legislativo, che sarebbe giusto definire “pasticcio di legge”. Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili? Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane? Dell’articolo 5 si è già detto: esso è il centro dell’edificio.

L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Cancella il ruolo delle province. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendolo al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale. Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali.

Cancellati gli standard nazionali

L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”. Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).

Frustrati gli uffici pubblici

L’articolo 8 (già ne abbiamo commentato uno svelamento) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari. Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!). Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”!

Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.

Altri gioielli della legge Lupi

Qualche ulteriore gioiello va esibito. Così l’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura).

E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere "l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari).

E infine l’articolo 13, ultimo comma: “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”. Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico: il “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso”: fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica.

Lupi non è solitario

Ciò che a me preoccupa di più non è che la maggioranza di destra (della destra italiana) abbia lavorato per una legge siffatta. Mi preoccupa che questa legge abbia ricevuto la sostanziale adesione di una parte consistente del centrosinistra (l’on. Mantini, della Margherita, l’ha definita una legge bipartisan), che sia stata apertamente appoggiata dagli organi nazionali dell’INU, e che sia stata discussa e approvata nel totale silenzio dell’opinione pubblica (con l’eccezione di qualche articolo sul manifesto e su Liberazione).

Questo è il segno più cupo dei tempi in cui viviamo: davvero un tempo di lupi, in cui ogni conquistato traguardo di solidarietà, di prevalenze dell’interesse di tutti su quello di pochi, di preoccupazione per il futuro, sembra seppellito in un passato di cui ci si è dimenticati, e di cui quasi ci si vergogna.

E L’ECONOMIA?

La questione della rendita

La questione della rendita immobiliare è sempre stata strettamente legata all’urbanistica e ai suoi problemi. La proprietà privata del suolo urbano ha determinato un conflitto di fondo tra diverse categorie di soggetti. Da una parte, la proprietà immobiliare (immobili = aree + edifici), interessata alla massima redditività dei propri immobili, e quindi tenacemente orientata ad ottenere edificabilità, destinazioni d’uso pregiate, quantità edilizie più elevate possibile. Dall’altra parte, le categorie di soggetti interessati a un prezzo moderato degli alloggi e degli altri edifici, a una città ordinata e funzionante, alla presenza di spazi pubblici e così via.

Tra gli interessi teoricamente antagonisti rispetto alla proprietà immobiliare, oltre a quelli delle “famiglie” (cioè dei cittadini il cui reddito è costituito prevalentemente dalla remunerazione del lavoro) ci sono anche quelli delle “aziende”, cioè delle attività economiche, i cui gestori sarebbero anch’essi interessati al buon funzionamento della città, quindi al contenimento del potere della proprietà immobiliare.

Il conflitto teorico nella città è il riflesso di un conflitto più ampio, che ha a che fare con la distribuzione delle risorse e dei loro frutti nelle tre grandi categorie: la rendita, ossia la mercede del puro privilegio proprietario; il profitto, la remunerazione dell’attività volta ad associare i “fattori della produzione” e a trasformare i beni in merci, motore, attraverso l’accumulazione, dell’allargamento indefinito del processo produttivo; il salario, compenso per l’erogazione delle forza lavoro dei produttori.

Nella vicenda storica della formazione degli Stati (e dei mercati) moderni i rapporti tra le grandi classi sociali corrispondenti a quelle tre componenti del reddito sono stati determinanti per più di un aspetto: in particolare, hanno inciso sulla formazione della città e sull’urbanizzazione del territorio. Nei paesi più avanzati la borghesia (la classe sociale legata all’impresa e al profitto) è stata egemone, ha sconfitto l’ancien régime (interprete e beneficiario principale della rendita), e ha giocato il suo sviluppo sulla dialettica del conflitto con la classe operaia (la classe sociale legata al salario). In Italia non è stato così. Sviluppiamo un momento questo tema.

La particolarità italiana

Tra il XVIII e il XIX secolo si sono scontrate, nelle diverse regioni d’Europa, tre grandi forze: l’ancien régime, espresso dagli ordinamenti feudali delle monarchie; la borghesia capitalistica, ormai lanciata alla conquista del mondo; il proletariato, emergente come nuovissima forza sociale dalle viscere stesse della produzione capitalistica. A queste tre figure sociali corrispondevano le tre classiche forme di reddito: della rendita, del profitto, del salario

In quasi nessuno dei paesi europei la nuova classe egemone, la borghesia capitalistica, giunse al potere senza combattimenti aspri, spesso tinti di sangue. L’ancien régime fu sconfitto e, quando ne riemersero i fantasmi, erano già trasformati in vesti borghesi: lo sfruttamento della proprietà attraverso la speculazione aveva prodotto risorse che più fruttuosamente venivano destinate in un’industria orientata a impadronirsi dei mercati mondiali. In Italia no.

In Italia la borghesia giunse al potere mediante un “compromesso storico” con l’ancien régime. Questo era rappresentato, nelle regioni del Nord e nella Toscana, da una borghesia che aveva sovente nell’investimento nella terra le sue radici (e aveva quindi prodotto un’agricoltura resa feconda e, insieme, sapiente modellatrice del paesaggio, mediante cospicui investimenti delle rendite). Ma in altre regioni l’alleanza fu stipulata con un’aristocrazia che si limitava a trasformare in consumi sfarzosi e futili il frutto della fatica del mondo contadino nelle terre, rese aride dalla mancanza degli investimenti necessari.

Fin dalla nascita dello Stato italiano il peso delle rendite (all’inizio, rendita fondiaria agraria) fu quindi considerevole nell’economia italiana. E poiché, a un momento dato, le risorse sono quello che sono, l’ampiezza della quota percepita dalla rendita riduceva l’entità di quelle destinata al profitto (e quindi all’allargamento della produzione) e al salario (e quindi alla capacità di consumo, e all’allargamento del mercato). Lo sviluppo dell’urbanizzazione e, più tardi, la finanziarizzazione dell’economia capitalistica fecero sorgere, accanto alla rendita agraria, quella urbana (fondiaria ed edilizia, in una parola “immobiliare”) e quella finanziaria. L’intreccio tra le due, segnalato dagli osservatori più attenti da alcuni decenni almeno, è diventato in queste settimane l’elemento più preoccupante della situazione italiana: sul terreno dell’economia come su quello della democrazia. Entrambe le rendite hanno una cosa in comune: consentire l’accrescimento delle ricchezze personali di alcuni sulla base del privilegio proprietario, sottrarre ricchezza al circuito produttivo.

Gli “immobiliaristi” e il rischio del declino

La questione è riemersa nelle ultime settimane. Gli osservatori più attenti hanno ricordato il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Francesco Giavazzi ha posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (Corriere della sera, 16 luglio 2005) e Galapagos ha osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (il manifesto, 6 agosto 2005).

E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice.

Fragilità culturale e fragilità strutturale

Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico, solo una riduzione della politica a lotta per il potere indifferente al progetto di società in nome del quale esercitarlo, solo l’incapacità di esprimere una prospettiva, una strategia, un orizzonte al quale indirizzare le forze sociali? Certo, queste sono componenti reali della situazione italiana.

Ma in questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale: appunto, il prevalere delle rendite nel nostro sistema, questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei e che, come abbiamo visto, affonda le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia. Svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale: doti delle quali l’attuale personale politico sembra del tutto sprovvisto.

Ridare prospettiva all’economia

Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è dunque un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale.

Non so su quali strumenti si può contare per ridurre il peso della rendita finanziaria. Conosco abbastanza bene, invece, gli strumenti cui si può ricorrere per ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), per distrarre risorse da quegli impieghi improduttivi, per travasarne parte consistenti verso utilità pubblica. L’utilità di farlo mi è stata insegnata dal pensiero dell’economia classica e di quella liberale (da David Ricardo a Karl Marx, da Claudio Napoleoni a Luigi Einaudi) gli strumenti per farlo mi sono stati indicati dalla cultura politica espressa da personaggi come Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan, amministratori e presidenti del consiglio nel primo decennio del secolo scorso, e da quella urbanistica, da maestri come Hans Bernoulli e Luigi Piccinato, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti.

Di questi strumenti la pianificazione territoriale e urbanistica è il principale, proprio perchè esprime il primato del potere pubblico nel decidere le utilizzazioni e trasformazioni del territorio: cioè quei meccanismi mediante i quali la rendita immobiliare si forma e si trasforma. E anche perchè costituisce la cornice nella quale inserire le altre decisive politiche urbane: quelle della casa, dei servizi collettivi, della mobilità, della gestione dell’energia e dei rifiuti.

CHE FARE

Il nostro mestiere, il mestiere dell’urbanista, e il ruolo sociale che esso si attribuisce, la sensibilità ai problemi territoriali propri di quel mestiere, sono oggi di grande rilievo per comprendere l’ampiezza della posta in gioco e le strade che occorre percorrere per vincere la scommessa: scommessa nella quale la posta è rappresentata dalla capacità di sopravvivenza della nostra civiltà.

Sul terreno della tutela del nostro patrimonio culturale e paesaggistico come su quello del risparmio delle risorse essenziali (la terra, l’acqua, l’aria, l’energia) il ruolo della pianificazione territoriale e urbana è decisivo, per chiunque comprenda che una visione olistica dei problemi e delle politiche è essenziale. E sul terreno delle risorse disponibili e della loro allocazione ottimale per la sopravvivenza del sistema economico la contestazione del potere decisionale della rendita immobiliare è un contributo rilevante per scoraggiare l’afflusso di risorse al settore improduttivo dell’economia.

Mi sembra che il primo passaggio da compiere per ottenere qualche risultato concreto sia quello di far sì che l’assetto legislativo (determinante per l’impiego degli strumenti specifici della pianificazione) non venga peggiorato. Per aprire qualche varco l’’uscita da una società di lupi occorre quindi in primo luogo sconfiggere la legge Lupi. Ho spiegato perchè l’approvazione di quella legge costituirebbe la sconfitta più grave per chi combatte contro il ruolo storicamente e attualmente centrale della rendita immobiliare, e la sconfessione più grave per gli uomini che, da ogni sponda culturale e politica, hanno tentato di contrastarla. Lo è perchè scardina il principio del primato del potere pubblico nelle decisioni sul territorio e sul suolo urbano, perchè introduce i “privati” (in Italia, la proprietà immobiliare) tra i decisori della pianificazione, perchè costruisce la cornice legale entro la quale esercitare il primato della rendita sul profitto e sul salario, della speculazione sull’impresa e sul lavoro.

Ma al di là e oltre questo, occorre lavorare nel concreto in tutte quelle situazioni nelle quali il potere pubblico democratico intende avvalersi pienamente dei suoi strumenti per servire l’interesse collettivo. Sapendo che spesso lavoreremo controcorrente, e che anche dove la “corrente politica” è favorevole alle direttrici della nostra azione troveremo ostacoli, sordità, insufficienze, scarsità di risorse e di strumenti contro i quali dovremo batterci ogni giorno.

Dovremmo ricorrere con ampiezza all’”ottimismo della volontà”. E per calibrarlo sul “pessimismo della ragione senza cadere nella disperazione potrà esserci utile rileggere quanto scriveva Italo Calvino alla fine di quel suo vero e proprio manuale di urbanistica che è Le città invisibili:

“L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Il nostro compito può essere anche questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".

Sono passati quarant’anni dal discorso che Robert Kennedy tenne all’Università del Kansas il 18 Marzo 1968, nel pieno della campagna elettorale per la Presidenza degli USA. Un discorso coraggioso, rivolto soprattutto ai giovani cui chiedeva di esprimere una decisa volontà di cambiamento. Il riferimento strategico era la fine della guerra in Vientnam e il risveglio di un rinnovato sentimento di dignità nazionale, orientato alla lotta sia contro la povertà materiale (negli USA e nel mondo) sia contro la miseria nei rapporti tra le persone, nelle aspirazioni e negli obiettivi dell’esistenza. Lotta contro la povertà materiale e quella spirituale, risveglio della solidarietà. Tre mesi dopo, Robert Kennedy fu assassinato.

Nel quadro del suo discorso colpiscono le parole anticipatrici dedicate alla denuncia dell’assoluta insufficienza dei consolidati parametri economici nel misurare l’effettivo benessere di una nazione. La critica al concetto stesso di PIL è la parte più nota di quel discorso. Qui la riprendiamo e traduciamo, dal testo ufficiale. In calce, il link al testo integrale, in lingua inglese.

[…] Ma anche se agiamo per eliminare la povertà materiale, c’è un altro più grande compito, cioè affrontare la miseria dell’appagamento – scopo e dignità – che ci affligge tutti. Troppo, e troppo a lungo, è sembrato che l’eccellenza personale e i valori comunitari si fossero arresi alla mera accumulazione di beni materiali. Il nostro Prodotto Interno Lordo è oggi oltre gli 8 miliardi di dollari annui, ma questo Prodotto Interno Lordo – se giudichiamo gli USA da questo – questo Prodotto Interno Lordo mette in conto l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze necessarie per ripulire le nostre strade dalle carneficine. Mette in conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le infrangono. Mette in conto la distruzione dei boschi sempreverdi e la perdita delle nostre meraviglie naturali nel caotico sprawl: Mette in conto il napalm e le testate nucleari e i carri armati che la polizia usa per combattere le rivolte nelle nostre città. Mette in conto i fucili Whitman’s e i coltelli Speck’s, e i programmi della televisione che glorificano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini.

Ma il Prodotto Interno Lordo non mette in conto la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione o la gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità delle nostre famiglie, l’intelligenza dei nostri dibattiti e l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né la nostra intelligenza né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né il nostro sapere, né la nostra compassione né la nostra dedizione al nostro paese. In sintesi, misura tutto, fuorché quello rende la vita degna d’essere vissuta. Ci sa dire tutto sull’America, fuorché ciò che ci rende orgogliosi d’essere americani.

Se tutto questo è vero qui a casa nostra, allora è vero in tutto il mondo. Dall’inizio dei nostri più orgogliosi vanti c’è la promessa di Jefferson, che noi, qui in questo paese, saremmo stati la migliore speranza dell’umanità. E adesso, se guardiamo alla guerra in Vietnam, ci meravigliamo se ancora rispettiamo sufficientemente le opinioni dell’umanità, e se gli altri mantengono un sufficiente rispetto per noi .oppure se, come l’antica Atene, perderemo la simpatia, e l’aiuto, e infine la nostra stessa sicurezza, a causa dell’egoistico perseguire i nostri esclusivi bersagli e i nostri esclusivi obiettivi. […]

Il testo integrale del discorso è in questo sito. Il brano riprtato qui sopra è stato verificato sulla registrazione audio tratta da questo sito

"URBANISTICA", NEI TESTI LEGISLATIVI NAZIONALI

Legge 17 agosto 1942, n. 1150, articolo 1

Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi

L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno sono disciplinati dalla presente legge.

Il Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo.

Decreto Presidente Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, articolo 80 (ora abrogato)

Le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”

Si osservi il profondo cambiamento tra la formulazione del 1942, limitata ai centri abitati e al loro ampliamento edilizio, e la formulazione del 1977, che estende l’urbanistica all’interi territorio e “a tutti gli aspetti” del suo governo

"GOVERNO DEL TERRITORIO", NEI TESTI LEGISLATIVI NAZIONALI

Norme per il governo del territorio, testo unificato licenziato dalla Commissione parlamentare, XII legislatura, l’11 gennaio 2001 (“legge Lorenzetti”)

Governo del territorio: le disposizioni e i provvedimenti per la tutela, per l'uso e per la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono.

Disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005, in un testo risultante dall’unificazione dei disegni di legge presentati nel corso della XIII legislatura (“Legge Lupi”)

Il governo del territorio consiste nell’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie.

Si osservi l’analogia del primo testo (Lorenzetti) con la definizione di “Urbanistica” del 1977, e il ritorno, nel secondo testo (Lupi) di elementi della definizione del 1942 (“obiettivi di sviluppo del territorio”)

"GOVERNO DEL TERRITORIO", NELLE INTERPRETAZIONI REGIONALI

Regione Emilia-Romagna (dal sito della Regione)

Per governo del territorio si intende l’insieme delle attività finalizzate alla tutela, alla valorizzazione e alla trasformazione del territorio. Il governo del territorio comprende quindi tutto ciò che attiene alla regolazione dell’uso del suolo e alla localizzazione di opere, interventi o attività Rientrano nella materia del governo del territorio le seguenti discipline:

- l’urbanistica e la pianificazione d’area vasta;

- l’edilizia privata;

- l’edilizia residenziale pubblica;

- la programmazione, localizzazione e realizzazione delle opere e lavori pubblici;

- le espropriazioni per pubblica utilità;

- gli interventi di riqualificazione e la disciplina dei centri storici;

- la pianificazione paesaggistica.

La Regione, nell’ambito delle proprie competenze legislative, definite dall’art. 117 della Costituzione, emana leggi e altri atti normativi in materia di governo del territorio per promuovere lo sviluppo economico, sociale e civile della popolazione regionale, assicurando un uso appropriato delle risorse ambientali, naturali, paesaggistiche, territoriali e culturali.

Regione Toscana (dal sito della Regione)

Il governo del territorio è l'insieme delle attività che riguardano l'uso del territorio: le conoscenze, le norme e la gestione finalizzate alla tutela, alla valorizzazione e alle trasformazioni delle risorse che lo costituiscono. L'obiettivo è quello di tener conto delle esigenze legate alla migliori qualità della vita delle generazioni presenti e di quelle future.

Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.

Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.

Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.

Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.

Da "Abolire i privilegi della rendita", il manifesto, 13 marzo 2008

Nel descrivere la costiera amalfitana potevamo constatare, nel redigere il Piano territoriale di coordinamento della provincia di Salerno[1], che in quel territorio “il paesaggio storico insediativo ed agricolo conserva inalterati i suoi principali connotati, grazie anche alla rigorosa disciplina di tutela che si attua con il Piano urbanistico territoriale dell’area sorrentino-amalfitana”. In quell’area il nostro compito era facilitato. In effetti, quel piano indicava con grande precisione “le linee per realizzare il consolidamento e la conservazione della caratterizzazione insediativa, ambientale, socio-economica dell’area”.

Perciò, nel PTCP di Salerno abbiamo accolto senza riserve, nella sua interezza, il PUT dell’area sorrentino-amalfitana (ovviamente per la parte che ricadeva nel territorio salernitano) e abbiamo proposto “il coordinamento delle iniziative relative al territorio della provincia di Salerno con quelle inerenti le zone ricadenti nella provincia di Napoli, sia per le evidenti connessioni ambientali e funzionali che per le relazioni che hanno connesso storicamente i processi di evoluzione territoriale e socio-economica dell’area sorrentino-amalfitana”.

A differenza del PTCP di Salerno il PUT ha l’efficacia, insieme, di piano urbanistico e territoriale e di piano paesaggistico. La tutela del paesaggio può quindi prolungarsi e divenire operativa proprio attraverso la sua saldatura con le prescrizioni di carattere urbanistico (l’organizzazione delle diverse parti e componenti del sistema insediativo, le caratteristiche fisiche e funzionali degli edifici e degli altri manufatti) e quelle di carattere territoriale (la grande organizzazione del sistema cinematica e degli altri elementi territoriali alla scala di area vasta). Solo così è possibile tutelare la conformazione di un paesaggio nel quale l’intervento dell’uomo è stato profondo e costitutivo.

Questa natura del PUT, cui è affidata la sua virtuale efficacia, non può essere trascurata nel discutere sul “che fare” nel nuovo assetto degli strumenti di pianificazione introdotti dalla nuova legge urbanistica regionale. Se si volesse effettivamente “superare” il PUT con il piani provinciali di Salerno e Napoli, e si volesse al tempo stesso raggiungere il medesimo livello di tutela, occorrerebbe conferire ai piani provinciali contenuti e livello di dettaglio analoghi a quelli del PUT. Non solo, ma bisognerebbe risolvere il problema del coordinamento delle previsioni e degli interventi sull’uno e sull’altro lato del confine tra le province: un coordinamento che nel PUT è affidato all’unico piano, mentre nella prassi dei “ccordinamenti” e delle “intese” è affidato all’effimera liturgia dei “tavoli” e delle “conferenze”.

Il PUT rivendica con chiarezza il “ruolo prioritario della salvaguardia paesaggistica e ambientale”[2]. Le altre componenti del territorio, gli altri aspetti della sua conformazione fisica e funzionale sono disciplinati e progettati perché solo così, solo dettando regole precise alle azioni trasformative dell’uomo, si può ottenere una efficace tutela del paesaggio. Gli elaborati arrivano a decisioni e precetti di grande dettaglio: assumono la conformazione di una manualistica, di una guida attenta a chi deve operare offrendo puntuali indicazioni sulle stereometrie, sui materiali, sulle tecniche costruttive: su tutto ciò che concorre a determinare la forma della terra. Le proposte di riorganizzazione degli elementi funzionali del territorio (come il progetto di nuova configurazione del sistema della mobilità) e l’attenzione agli aspetti economici della sua utilizzazione (come l’attenzione alle esigenze della produzione agricola) sono finalizzate alla ricostituzione delle condizioni che consentano di conservare, ai nostri giorni, l’assetto territoriale peculiare di quei paesaggi.

Il grande merito del PUT è l’aver consentito di conservare sostanzialmente intatto uno dei paesaggi più belli e più interessanti del mondo: un paesaggio che testimonia i risultati eccezionali che si possono raggiungere quando tra il dato originario della natura e il lavoro e la cultura dell’uomo si raggiunge una sintesi creativa. Le condizioni materiali e culturali che consentirono, in molte parti del nostro paese di raggiungere (in misura maggiore o minore) risultati analoghi non esistono più. È difficile prevedere quando potranno essere ricostituite. Per farlo, occorrerà liberare la società contemporanea di credenze, miti e poteri che oggi appaiono fortemente radicati: l’ideologia della crescita indefinita di tutte le grandezze materiali, quella della modernizzazione come valore in sè, la prassi della riduzione d’ogni bene a merce e d’ogni valore a moneta, l’impegno nella cancellazione delle differenze (quelle biologiche come quelle culturali, quelle delle abitudini come quelle dei materiali) mediante l’omologazione ai modelli dettati dai poteri globali.

Un percorso lungo e aspro sarà necessario. Esili (sebbene crescenti) sono le forze che hanno consapevolezza della necessità di un’alternativa allo sviluppo in atto,e perciò la perseguono; fortissime, invece, quelle che non vedono altro orizzonte che la prosecuzione acritica delle tendenze. Anche per questo squilibrio, e per l’incapacità dei “modernizzatori” di concepire soluzioni diverse da quelle che rompono la continuità con il migliore passato, la conservazione deve essere oggi l’imperativo dominante: perché è necessario in se, e perchè possa essere testimoniata la possibilità di raggiungere, in un domani, risultati simili a quelli che i nostri antenati ci permettono oggi di ammirare.

Una conservazione che non sia l’alternativa allo “sviluppo”, ma la base per un altro sviluppo. Uno sviluppo che non cancelli il valor d’uso riducendo ogni bene a merce, ma metta in risalto la qualità dei beni disponibili. Che “valorizzi” nel senso di esaltare e amorevolmente curare, proteggere, restaurare, porre in evidenza il valore intrinseco presente nelle cose che il passato ci ha lasciato: dai paesaggi agli usi, dai sapori agli oggetti, dalle architetture ai mestieri. Che protegga le differenze e le individualità, difendendole dall’omologazione e dall’appiattimento.

Percorrere questo cammino è una scommessa per il futuro. Raccoglierla è perciò quello che ci si aspetterebbe da un ceto politico consapevole dell’abisso che sempre più si sta aprendo tra le sue pratiche e la società. Un abisso che può essere riempito solo dalla capacità di aprire la prospettiva di un futuro diverso. Si vogliono forse mobilitare le speranze per una Penisola sorrentino-amalfitana che diventi simile a Rapallo o ai Colli Aminei, o alla paccottiglia degli insediamenti turistici che si vedono nei cataloghi della agenzie di viaggi, oppure si vuole conservare e restaurare un territorio incomparabile, unico al mondo, riscattarlo nella sua unicità?

Questa è la scommessa. E il PUT precisa accuratamente le condizioni che devono realizzarsi, i percorsi che devono essere seguiti, per vincerla. Chiamano tutti in causa poteri che sono più alti di quelli delle singole amministrazioni comunali, che sono più generali dei singoli uffici dello stato. Sono soprattutto i poteri della Regione. È essa che ha compiuto il primo passo: la benemerita approvazione nel 1987 - quindici anni dopo aver fatto proprie le Ipotesi di assetto territoriale del Comitato regionale per la programmazione economica - del PUT, è ad essa che spetta il dovere di compiere i passi successivi.

Mi riferisco al sostegno alle attività agricole e silvo-pastorali tipiche del versante sorrentino, di quello amalfitano e della conca di Agevola e dei Lattari. Attività essenziali per il loro valore intrinseco e per il loro insostituibile ruolo ai fini della tutela del valore paesaggistico e della difesa del’integrità fisica del suolo. Mi riferisco al sistema cinematico, in cui le previsioni del piano (l’asse infrastrutturale dorsale di alimentazione del “pettine” di percorsi monti-costa e degli itinerari vallivi) sono essenziali per un corretto assestamento del turismo, per la vitalità quotidiana dei centri urbani e per la protezione dei paesaggi oggi più minacciati.

E mi riferisco alla gestione della tutela, della difesa dei beni culturali, architettonici, paesaggistici riconosciuti. Non si può mancar di sottolineare a questo proposito le parole del documento illustrativo del piano[3]: “Anche un notevole incremento del personale” addetto alla tutela dei beni culturali e paesaggistici non basterebbe a soddisfare l’esigenza di proteggere la ricchezza del territorio. I danni maggiori, e le peggiori devastazioni, hanno la loro causa principale nella “assenza di reale impegno di tutte le autorità pubbliche alle quali competeva la difesa del bene comune […] nell’enorme influenza negativa che i caotici interventi del capi tale privato hanno esercitato, e tuttora esercitano, sull’ambiente umano”, nella “sfiducia, così largamente diffusa nella pubblica opinione [che] è stata ed è purtroppo motivata dai numerosi e gravi crimini, urbanistici ed edilizi, che sono restati impuniti o, peggio ancora, colpiti da sanzioni talmente lievi e trascurabili da aver già costituito una previsione di spesa nel calcolo degli imprevisti”.

Parole scritte vent’anni fa, cui poco ci sarebbe da aggiungere. E non di positivo.

[1] Ho partecipato alla redazione del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Salerno. Il lavoro è iniziato nel 1996 e si è concluso con l’approvazione del piano nel 2004.

[2] Regione Campania, Assessorato all’urbanistica e all’assetto del territorio, Piano territoriale di coordinamento e Piano paesistico dell’area sorrentino-amalfitana – Proposta, Napoli s.d., p. 12.

[3] Regione Campania cit., pp. 108-109.

La moderna pianificazione nasce sostanzialmente quando l’affermazione del sistema capitalistico di produzione, e il parallelo affermarsi della borghesia, si trovano a fare i conti con alcune contraddizioni nel funzionamento della città: contraddizioni che la spontaneità del mercato - rivelatasi decisiva per sviluppare la produzione - non solo non riusciva a risolvere ma anzi aggravava.

Oggi generalmente si intende per pianificazione territoriale ed urbanistica il metodo, e l’insieme degli strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni. Le trasformazioni territoriali oggetto della pianificazione sono quelle, sia fisiche che funzionali, suscettibili (singolarmente o nel loro insieme) di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma di parti significative del territorio, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

Gli obiettivi posti alla pianificazione variano in relazione al contesto storico. Tutti i possibili sistemi di obiettivi oggi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.

Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazione sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.

Uno dei compiti della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti. Questa è la ragione per cui in Italia la pianificazione è sempre stata (fino alle recentissime rotture costituzionali) competenza specifica ed essenziale degli istituti elettivi di primo grado, nei quali si esplica nel nostro paese la democrazia; e anche la ragione per cui, nell’ambito delle istituzioni elettive, le scelte di maggior respiro (quelle relativa agli strumenti di pianificazione generale, dai piani regolatori comunali a quelli territoriali provinciali e regionali) sono state di competenza degli organismi consiliari, nei quali sono rappresentate anche le minoranze (scelta contraddetta da recentissime, e improvvide, leggi regionali, come quella della Campania).

La pianificazione territoriale e urbanistica nei termini in cui l’ho ora sintetizzata è soggetta in Italia a tensioni, che si esprimono sia in tentativi di adeguamento alle nuove esigenze e ai nuovi strumenti che è possibile impiegare, sia in tentativi di radicale stravolgimento.

Tra i primi collocherei gli sforzi che molte regioni hanno fatto, soprattutto tra il 1995 e il 2000, per introdurre nella legislazione urbanistica procedure e strumenti volti a privilegiare la considerazione degli aspetti ambientali e culturali, ad aggiornare sistematicamente le scelte sul territorio sulla base del ruolo rilevante dei quadri conoscitivi e del monitoraggio degli effetti, a snellire le procedure conservando, e anzi rafforzando, il carattere democratico e la trasparenza del processo delle decisioni.

Tra i secondi porrei in grande evidenza i tentativi compiuti (e malauguratamente vicini a cogliere l’obiettivo, se passa la cosiddetta Legge Lupi) di sostituire all’urbanistica “autoritativa” o “regolativa”, cioè tradotta in regole d’azione sul territorio stabilite dai poteri pubblici espressi dalle istituzioni democratiche, l’urbanistica “negoziata” con i poteri economici dominanti nei differenti contesti territoriali; quindi, in Italia, soprattutto con la proprietà immobiliare e con gli interessi finanziari ad essa legati.

In una posizione intermedia porrei i tentativi, di introdurre, prevalentemente accanto o indipendentemente dalle procedure tradizionali di pianificazione, procedure e strumenti definiti di “pianificazione strategica”. Su questa vale la pena di soffermarsi.

In Italia spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deformano il significato, il contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Anche per questo è utilissima una rubrica, come “Glossario”, che si preoccupa di stabilire il senso delle parole. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jacques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche nella sinistra si sia adoperato quel termine per dire “privato è meglio” sconcerta. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo severo significato reale. Così vale per la parola “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.

Sappiamo che è un termine relativo all’arte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).

Nel campo del territorio e del suo governo la strategia ha allora a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro. E assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso: deve fare i conti con il sistema delle istituzioni, nelle quali il consenso oggi si esprime.

Ulteriore segno dell’italiana confusione dei significati, da noi per pianificazione strategica si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni.

Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.

Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorre, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla dalla tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse è solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, nella pratica delle istituzioni e impadronendosi di esse e delle loro regole, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti della pianificazione, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.

Il piano ”per la città antica” di Venezia., presentato nel luglio scorso dalla Giunta comunale, è il risultato di una manipolazione, non sempre abile, della variante al PRG per la città storica, la cui elaborazione era stata iniziata nel 1981 (all’epoca ero assessore all’urbanistica, e ho continuato a lavorarci anche successivamente) e conclusa, dopo alcuni stop and go, nel 1992, con l’adozione e la successiva pubblicazione e raccolta delle osservazioni. La prima domanda che sorge è quindi la seguente: perché la Giunta, invece di introdurre le modifiche in sede di controdeduzione alle osservazioni, ha voluto ricominciare l’iter da capo? Il guaio è che, in questo modo, gli interventi di trasformazione edilizia nella città storica sono bloccati, a meno di non essere autorizzati illegittimamente o realizzati abusivamente.

Al di là della scelta di fondo, contraddittoria con l’impostazione storica delle forze culturali e politiche progressiste, di accentuare la polarizzazione della città verso la radice del Ponte della Libertà (che emerge con chiarezza dall’altro documento presentato, riguardante “il nuovo PRG comunale”), le modifiche introdotte nel piano della città storica sono molto significative sotto il profilo culturale, sociale e politico. Delineano una tendenza grave e pericolosa: in sintesi, quella di affidare le decisioni sulle trasformazioni della città all’accordo, volta per volta, tra assessorato e proprietà immobiliare, rendendo elusive, generiche, meramente indicative, suscettibili di interpretazioni molteplici e soggettive le decisioni del piano. Cercherò di illustrarle molto sinteticamente. Poiché il PRG di D’Agostino è il risultato di aggiunte, cancellazioni e sostituzioni del PRG del 1992, è a quest’ultimo che sarò costretto a riferirmi.

Il piano del 1992 definiva, per ciascuna unità edilizia storica, tutte le trasformazioni fisiche ammissibili: chiunque volesse intervenire sapeva esattamente quali elementi poteva modificare, costruire o ricostruire e quali doveva conservare o ripristinare. Con il nuovo piano il proprietario può dichiarare che la sua unità edilizia ha perso le caratteristiche storiche che ne richiedevano la tutela e proporre una disciplina diversa; il giudizio è affidato a una fantomatica “commissione scientifica” oppure, decorsi 20 giorni, alla decisione di un funzionario comunale. Naturalmente, la conseguenza è che le trasformazioni possibili diventano molto più vaste.

Il piano del 1992 stabiliva, per ciascuna unità edilizia, quali erano le utilizzazioni compatibili con le caratteristiche fisiche (generalmente una gamma molto ampia) e quali erano, per i successivi 4 anni, le specifiche destinazioni d’uso che dovevano essere rispettate. Queste ultime prescrizioni non riguardavano né tutte le unità edilizie né tutte le utilizzazioni, ma miravano a tutelare oltre (ovviamente) le attrezzature pubbliche e d’uso pubblico, anche gli alberghi (come è richiesto da una legge regionale), la residenza (che a Venezia ha particolari ragioni per essere tutelata) e determinate attività produttive. Con il nuovo piano sono praticamente ammessi tutti i cambiamenti d’uso che ricadono entro la vastissima gamma delle “utilizzazioni compatibili”: nella sostanza, non c’è più nessun controllo sulle destinazioni d’uso.

Il piano del 1992 stabiliva, per una serie di “ambiti” comprendenti le aree dove si prevedeva la possibilità di trasformazioni urbanistiche anche sostanziali (Piazzale Roma, Tronchetto, Marittima, Junghans, Stucky, San Basilio, Sacca dell’Inceneritore, Cantieri a Sant’Elena, per non citarne che alcuni) l’obbligo di redigere specifici piani attuativi e, per ciascun ambito, stabiliva esattamente le funzioni, le quantità edilizie, l’organizzazione morfologica che il piano attuativo doveva rispettare. Con il nuovo piano le prescrizioni diventano assolutamente generiche, evasive, indicative: tutto si può fare, tutto si può modificare.

Difficilmente un assessore di una giunta di centro-destra avrebbe potuto soddisfare più largamente le attese della proprietà immobiliare, e degli interessi ad essa collegati. Difficilmente un apostolo della deregulation più sfrenata avrebbe potuto sostituire in modo più smaccato la certezza del diritto, la trasparenza del procedimento, la chiarezza della norma con l’indeterminatezza, la discrezionalità, la valutazione caso per caso, e soggetto per soggetto. (Sul fatto, poi, che questo governo della città è stato eletto per attuare il piano del 1992 e non per rovesciarlo nel suo contrario, parleremo un’altra volta).

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