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Per il 2007 eddyburg augura

Una buona legge per il territorio,

- che riduca il suo consumo a ciò che è strettamente necessario,

- che riconosca il valore dei paesaggi senza ridurli a merce,

- che subordini le sue trasformazioni alle esigenze collettive,

- che affidi le decisioni che lo riguardano al potere pubblico democratico.

Una legge che contribuisca

- a rendere le città più belle e funzionali per chi le abita e per chi le frequenta,

- a distrarre risorse dalla rendita per impiegarle nelle attività socialmente utili,

- a garantire ai nostri eredi almeno tante risorse quante ne abbiamo usate noi.

Una legge che aiuti

- partendo dalla piccolissima parte del mondo di cui si occupa

- a rendere il pianeta Terra

- più longevo, più ricco di diversità biologiche e culturali,

- e finalmente equilibrato nel rapporto

tra i bisogni delle persone e dei popoli e il loro appagamento

Nella Val di Susa si è praticata la strada autoritaria. L'impiego dello strumento più classico ma, ahimé, quello che viene usato con sempre maggiore frequenza, ad opera del governo come ad opera di sindaci sceriffi: la forza pubblica. Non dico che questo non sia uno strumento da adoperare: ma si tratta di comprendere a vantaggio di quale ragione, con quali conseguenze, con quali effetti sull’autorità di chi la impugna, con quale ricaduta sul rapporto tra chi esercita il potere e chi ne detiene il diritto. E si tratta di comprendere (poichè è in ogni caso una ferita che si apre) se si è fatto quello che era ragionevole fare prima di arrivare a tanto.

Quello esploso in Val di Susa è un problema che si ripropone ogni volta. Sempre più spesso ci si trova di fronte a conflitti che oppongono popolazioni locali (e interessi locali) a interessi di comunità più vaste. E allora ci si schiera su due versanti opposti: chi difende il piccolo, e chi difende il grande. Non è forse quello di schierarsi apoditticamente un vizio tutto italiano? (sebbene certamente lo condividiamo con altri). In genere la sinistra radicale e l’ambientalismo si schierano per il piccolo, il locale, l’immediatamente “popolare”, la sinistra riformista e il sindacalismo (adopero questi termini con l’accetta) per il grande, lo “strategico”, il produttivo. La destra (quella becera tipicamente italiana) e i grandi interessi stanno a vedere: tanto, potranno guadagnare sia da una parte che dall’altra.

La regolazione di simili conflitti dovrebbe essere parte sostanziale della missione di una democrazia pluralista: di una democrazia nella quale convivano, e debbano convivere perchè ciò è utile a tutti, interessi diversi. Interessi che non siano di per sè conflittuali (non c’è conflitto a priori tra il rafforzamento delle comunicazioni su ferro e la tutela dell’ambiente e della salute degli abitanti) devono poter trovare soddisfazione senza che l’uno calpesti l’altro.

La questione è solo tecnica per un verso, e politica per un altro. Nel caso della ferrovia in Val di Susa alla tecnica appartiene l’individuazione del tracciato e delle modalità che rendano minimi i danni e i modi in cui i danni residui possano essere compensati; alla politica appartiene la scelta del livello di priorità da assegnare alla allocazione delle risorse da impiegare per quel tracciato in relazione a impieghi alternativi (la guerra, il premio alla rendita, la promozione dei consumi superflui ecc.).

Ma nell’un caso e nell’altro tecnica e politica hanno bisogno di impiegare uno strumento specifico, che spesso viene considerato un orpello o un impaccio: qualcosa che appare solo esornativo, o addirittura una procedura che ostacola invece di aiutare. Mi riferisco alla pianificazione del territorio. E naturalmente mi riferisco alla pianificazione democratica, poiché abbiamo scelto la democrazia (e i nostri padri e fratelli più grandi, negli anni tra il 1943 e il 1945, proprio anche nelle montagne della Val di Susa).

Che cosa significa pianificazione democratica? Ricordiamolo a chi sta per stendere il programma di governo dell’Unione.

Significa in primo luogo che le scelte relative all’uso del territorio, e alle sue trasformazioni, si fanno a partire dalla conoscenza approfondita del territorio: della sua struttura, della sua dinamica, della popolazione che lo abita e lo utilizza.

Significa che queste scelte non si fanno separatamente (da un lato le infrastrutture, dal’altro l’ambiente e il paesaggio, dall’altro l’economia e la società, dall’altro le urbanizzazioni), ma nel loro insieme, sinteticamente: perchè la pianificazione è l’arte della sintesi, non la tecnica della giustapposizione.

Significa che di ogni trasformazione si valuta quali saranno i prezzi e i vantaggi, e si individua chi li paga e chi ne beneficia: e le scelte politiche, gli schieramenti veri, si compiono in base alla decisione di come ripartire gli uni e gli altri.

Significa che tutto ciò non si compie nel chiuso dei gabinetti politici e degli studi tecnici, ma coinvolgendo tutte le popolazioni interessate: ricordando che pianificazione e democrazia sono in primo luogo attività formative, bottom-up e top-down.

Hanno seguito questi semplici insegnamenti dell’arte del buon governo in una società complessa quanti hanno concorso alla decisione dell’Alta velocità in Val di Susa? E’ legittimo (dalla lettura delle cronache) dubitarne. Non è legittimo stupirne, se ci si guarda in giro e ci si informa al modo in cui i nostri governanti affrontano le scelte sul territorio.

Non parlo solo dei berlusconiani a pieno titolo. Mi riferisco anche a quelli che indossano casacche di colore diverso, e anzi opposto.

Un esempio. La regione Friuli-Venezia Giulia, amministrata da una maggioranza, una giunta e un presidente di centro.sinistra sta per approvare una legge per la pianificazione del territorio la quale, nonostante i rabberciamenti che si tenta di fare all’ultimo momento per ridurne il devastante impatto culturale e pratico, è costruita per “liberare” la decisione, la progettazione e la realizzazione delle infrastrutture dagli impacci della contemporanea considerazione delle esigenze (ambientali e sociali) del territorio.

Un filo evidente lega questi tre avvenimenti: più precisamente, lega gli effetti dello Tsunami alle grandi questioni del destino del nostro pianeta e dell’incapacità del vigente sistema economico-sociale ad assicurare benessere e sicurezza a tutte le donne e li uomini.

Accettare o meno come inevitabile ed eterno il sistema basato sull’accrescimento sistematico dell’accumulazione capitalistica, sul dominio del mercato su ogni altra regola, sulle procedure e garanzie di libertà inventate ed applicate dalla borghesia? Questo è l’argomento che, alla fine dei conti, segna la differenza tra le sinistre “radicali” e le componenti del “riformismo”.

Il sistema capitalistico-borghese ha indubbiamente portato vantaggi enormi all’umanità: ha sottratto masse sterminate alla povertà, alla malattia, alla morte precoce; ha determinato condizioni e garanzie di libertà e d’uguaglianza in interi continenti, e fomentato in altri tensioni verso i medesimi diritti; ha provocato uno sviluppo tecnologico che ancora stupisce. Ma al tempo stesso ha generato altre povertà, malattie, morti precoci; ha accentuato ingiustizie che urlano ribellione e vendetta; infine, si è rivelato incapace a governare i nuovi squilibri che esso stesso ha provocato allontanandosi (grazie al carattere del suo stesso sviluppo tecnologico) dalla necessaria naturalità della condizione umana.

Non è allora doveroso – più ancora che ragionevole – porre al centro di una riflessione non disarmata la ricerca, e la speranza, della possibilità di inverare un sistema fondato su valori diversi, più ricchi e più lungimiranti, non più appiattiti solo sulla crescita economica e sui diritti individuali? Questo è dunque il tema che occorre affrontare per disegnare un futuro diverso non solo all’Italia, ma all’umanità intera.

Il futuro, però, si prepara anche nel presente: altrimenti, la ricerca verso il domani può diventare una sterile fuga. È allora del tutto ragionevole che la componente “riformista” (che vuole aggiustare il sistema) e quella “radicale” (che vorrebbe cambiarlo) si riuniscano per affrontare i problemi dell’oggi e trovare per essi risposte comuni. Ed è positivo che abbiano trovato (come sembra dalle anticipazioni giornalistiche) un accordo pieno proprio sulle questioni dell’ambiente. La loro potenziale catastroficità è stata squadernata dallo Tsunami, ultimo di una catena di eventi che rivelano come l’arroganza della civiltà contemporanea abbia piedi d’argilla.

Le questioni dell’energia e dell’acqua, delle aree protette e dei rifiuti, della difesa del suolo e dei trasporti, della fiscalità ecologica e dell’agricoltura (riprendo dall’articolo di Giovanni Valentini l’elenco dei temi affrontati dal TAO, il Tavolo Ambiente dell’Opposizione) costituiscono certamente aspetti rilevanti della questione ambientale, ed è significativo che il primo testo base che verrà presentato all’esordio ufficiale del TAO sarà quello sull’energia e i cambiamenti climatici, predisposto dalla commissione di cui è presidente una persona seria e preparata come Paolo degli Espinosa.

C’è un tema però che è strettamente connesso alle questioni che ho finora evocato, e che sembra ignorato dalle agende dei “riformisti” come da quelle dei “radicali”: è la questione del governo del territorio, del sapere che sta alla sua base (l’urbanistica), del principale dei suoi strumenti (la pianificazione). È solo la pianificazione, una pianificazione basata sull’attenta e assidua considerazione dei valori e dei rischi dell’ambiente, che può aiutare a trovare una sintesi tra le diverse esigenze relative all’uso del suolo, a tradurla in regole valide erga omnes, a definire le opere necessarie alla vita degli uomini e allo sviluppo duraturo della società. Ed è solo una pianificazione di cui sia protagonista un’amministrazione pubblica autorevole, efficace, braccio operativo delle istituzioni nei quali si esprime l’attuale democrazia, capace di indicare le direttrici da percorrere e i precetti da rispettare, che può ottenere che l’interesse degli individui e delle aziende non prevalga sull’interesse collettivo, ma ne sia al servizio.

Una pianificazione, e un governo del territorio, molto lontani da quelli – dominati all’asservimento agli interessi privati della proprietà immobiliare – cui spalanca le porte la legge “per il governo del territorio” all’esame della Camera dei deputati. Sarebbe un buon segnale se, dai luoghi dove si discutono le prospettive e i programmi delle diverse e variegate sinistra, venisse un chiaro gesto di rigetto di quella legge e se, nelle agende della riflessione programmatica, il governo del territorio trovasse finalmente il suo ruolo.

Un eddytoriale sulla legge

Una lettera di Giovanni Caudo

E neppure pensavamo che la sinistra scomparisse di nuovo (dopo il ventennio fascista) dal parlamento italiano. Speravamo invece che, nonostante la brusca rottura del centro-sinistra freddamente operata da Veltroni, rimanesse aperto uno spazio per costruire una nuova alleanza capace sconfiggere il berlusconismo e ricostruire un’Italia coerente con i principi della Resistenza e della Costituzione. Così non è avvenuto. L’individuazione delle responsabilità non è difficile, ma ciò che importa adesso è comprendere come si può andare avanti.

Sappiamo che dovremo soffrire molto, giorno per giorno, per le conseguenze della débacle elettorale; ne soffrirà il paese, i gruppi sociali più deboli, il territorio, il futuro di noi tutti. Se guardiamo solo ai prossimi anni non è facile vincere la disperazione: eppure guardare nel presente è necessario, e il profilo dell’Italia di Berlusconi tracciato da Franco Cassano è lì per ricordarci l’essenziale.

Ma se guardiamo al di là dei prossimi anni (ed è lì che bisogna guardare dopo questo risultato) il dato più preoccupante è la scomparsa dal Parlamento di ogni formazione politica che abbia esplicitamente espresso una posizione critica nei confronti dell’attuale sistema economico-sociale: della condizione che questo sistema riserva al lavoro, all’ambiente, alla pace, all’eguaglianza. Non è tale infatti, ovviamente la destra, e neppure la formazione di Casini. Non lo è neppure il nuovo partito di Veltroni, per il quale il neoliberismo (il vero vincitore di queste elezioni) non è un rischio e la lotta di classe semplicemente non esiste.

Mi sembra che in questa situazione i compiti che spettano a chiunque sia scontento (per usare un eufemismo) di questo risultato elettorale siano numerosi. Innanzitutto c’è da lavorare (studiare) per comprendere che cosa è diventata l’Italia. Il mondo è cambiato. Non è migliore di quello di ieri: è diverso, profondamente diverso. Non sono diversi i meccanismi di fondo (l’alienazione del lavoro, la riduzione d’ogni cosa a merce, l’impiego della violenza per risolvere i conflitti, lo sfruttamento miope delle risorse della terra). È diverso il modo in cui si manifestano, in cui incidono nei rapporti sociali e nella percezione di ciò che accade, in cui plasmano le coscienze. Si sa molto di ciò che è cambiato, ma ne manca (salvo eccezioni) una consapevolezza critica. È questa che occorre in primo luogo riacquistare per comprendere come mai l’Italia è diventata “un paese egoista e miope”, fortemente permeato di razzismo, in cui la destra di Berlusconi e Bossi supera di dieci punti il centro e spazza via la sinistra.

Comprendere non per compiacersene, o per giustificare le sconfitte, ma per cambiare. E cambiare si deve, a partire dalle aree di protesta e di rifiuto che esistono, e che non possono non crescere. Se la società che la destra costruisce è una mondo dove l’ingiustizia e la disuguaglianza, la sopraffazione e la violenza diventano pratiche dominanti, dove gli interessi comuni vengono calpestati e dissolte le conquiste raggiunte, per quanto le cortine fumogene del sistema mediatico possano mascherare la realtà questa si rivelerà sulla pelle delle cittadine e dei cittadini. E la sofferenza materiale e morale non mancherà di esprimersi – come già lo sta facendo, in larghe aree del territorio e della società. Si tratta di incanalare il disagio e la rabbia, di indicare le direzioni giuste: quelle che costruiscano una società diversa, o indichino la strada per farlo.

È sul terreno della società che occorre operare, visto che quello della politica è per ora reso particolarmente difficile. Ma senza dimenticare che ogni soluzione dovrà trovare prima o poi (e meglio prima che poi) il suo sbocco negli strumenti della politica e delle istituzioni. Altrimenti, non è garantita la durata dello sforzo che è necessario per sconfiggere davvero i poteri oggi dominanti.

Qui l'articolo di Rossana Rossanda

Il piano paesaggistico della Sardegna, come è noto, è stato redatto in tempi brevissimi dagli uffici della Regione e approvato con tempestività dalla Giunta Soru. La sua premessa è stata un vincolo di salvaguardia temporanea su una fascia molto estesa delle coste, da decenni devastate da furiose iniziative immobiliari. Il tempo stabilito per sostituire al vincolo il piano era brevissimo, ed è stato rispettato, grazie alla dedizione di un numero elevato di tecnici mobilitati dalla Regione (sarebbe utile confrontarlo con il tempo della produzione di piani di analoga complessità di livello locale o d’area vasta). Appena adottato è stato reso noto urbi et orbi con rarissima tempestività.

Le opposizioni generate dal piano dopo la sua approvazione sono di due ordini. Da una parte, quella degli interessi costituiti, politici ed economici. Interessi vasti e diffusi, soprattutto i secondi, ramificati in molti settori potenti della vita nazionale. La loro opposizione non stupisce: era nel novero delle cose attese. L’altro ordine di critiche ha una matrice diversa, che invece induce alla riflessione. Si critica l’invadenza della Regione nei confronti dei poteri locali. I toni della critica non mancano di asprezza, non solo là dove i portatori delle critiche sono sollecitati anche da interessi politici ed economici, ma anche dove si tratta di persone e gruppi che condividono l’impostazione, gli obiettivi, la strategia territoriale della Giunta Soru.

Dalla Sardegna alla Toscana la distanza non è molta. E mentre in Sardegna si critica l’invadenza della Regione, sul versante continentale si protesta per i documentati danni che l’eccessiva compiacenza della Regione verso i comuni provoca: Monticchiello non è che la punta di un iceberg, si dice, la Regione si è legata le mani e i piedi, ha decretato l’autonomia piena dei comuni e così non può intervenire anche quando i municipi promuovono “schifezze” che guastano paesaggi celebrati nel mondo.

Riconosciamolo con franchezza: nelle file sparpagliate dei difensori del paesaggio e dell’ambiente, e nei mondi culturali e politici di cui sono l’espressione, alberga una grande confusione. E proprio su una questione che è fondamentale per la decenza stessa del sistema democratico rappresentativo. Quando le divisioni si manifestano all’interno di un fronte che è minacciato dalla pervasiva potenza degli interessi immobiliari occorre fare il massimo sforzo per superarle. E quando esse derivano dalla confusione, il primo obiettivo è far chiarezza al più presto: pena, la sconfitta dei valori di cui si vuole essere i difensori.

Per fare chiarezza, crediamo che si debbano innanzitutto superare alcuni miti che si sono diffusi negli ultimi anni. Il primo mito è che la cooperazione tra enti diversi (la “copianificazione”, come l’hanno ribattezzata gli urbanisti) sia una panacea, e non una procedura da applicare rispettando un principio essenziale: quando più decisori tentano l’accordo, occorre che sia chiaro chi decide nel caso che l’accordo non si raggiunga entro tempi stabiliti. Il secondo mito è che “piccolo” sia sempre “bello”, che l’istanza della democrazia “più vicina ai cittadini” sia la migliore di tutte per definizione stessa della democrazia (come se non fosse sempre il medesimo popolo a eleggere il governo del comune, della provincia, della regione e dello stato).

Sarebbe forse il caso, sul terreno dei criteri da assumere nelle regole della democrazia, di cominciare di nuovo a riflettere su quel “principio di sussidiarietà” che, nato in Europa per accrescere il potere del governo dell’Unione nei confronti di quelli degli stati nazionali, è stato adoperato in Italia in senso inverso: da alcuni – la destra leghista - come manganello per sconfiggere lo stato, da altri – il centrosinistra - come ripiego strumentale per rendere innocuo il manganello. Sussidiarietà non significa (quante volte lo si è scritto su queste pagine!) che tutto il potere possibile deve essere gestito dal livello più basso, e che solo il residuo merita di essere lasciato alle istanze provinciali, regionali, statali. Significa che di ogni decisione è attribuita a quel livello che meglio degli altri può assumerne la responsabilità, dal punto di vista della scala dell’azione e dei suoi effetti.

E sarebbe poi il caso di ragionare anche, sul terreno crudo dei fatti e delle loro cause, sul perché le popolazioni che più direttamente vivono i paesaggi che formano l’Italia, eredi di quelle stesse che li hanno costruiti nei secoli, ne siano diventati oggi, nella maggioranza dei casi, i più attivi demolitori. Schiave anch’esse dell’aberrazione per cui la felicità delle persone e dei gruppi sociali si raggiunge consumando e dissipando oggi ciò di bello e di utile che nei secoli è stato progressivamente formato, e che nei secoli meriterebbe di vivere: un’aberrazione che è la diretta conseguenza di una concezione dell’economia che vede nella quantità della produzione di merci l’unico parametro del progresso, e di una pratica della politica che di quell'economia la vede serva.

Cominciamo dalla forma, la quale spesso è sostanza. Soprattutto in una legge, che è un insieme di regole che devono essere applicate da qualunque operatore. Sciatteria, confusione, contraddizioni, termini uguali adoperati con significati diversi, espressioni non comprensibili: di ciò pullula la legge, e non l’hanno rilevato solo commentatori ostili al suo contenuto, ma anche personalità del mondo che ha condiviso le “innovazioni” introdotte da Lupi (mi riferisco all’INU).

Veniamo al contenuto. Voglio sottolineare solo un punto. Come tutti i critici hanno osservato, in quella legge l’iniziativa e la decisione nelle scelte di organizzazione del territorio passa dalle mani dell’autorità pubblica a quella degli operatori immobiliari. Con tre conseguenze gravi: sul territorio e sul paesaggio e, di conseguenza, sulla vita delle cittadine e dei cittadini; sul sistema dei poteri democratici; sull’economia e le sue prospettive.

L’interesse degli operatori immobiliari è quello della massima “valorizzazione” della proprietà, ovunque questa sia collocata. Ma è proprio per limitare i fallimenti del mercato e massimizzare il benessere collettivo che è nata, nelle democrazie liberali, l’esigenza di un governo pubblico delle decisioni sul territorio e la pratica della pianificazione urbanistica: un’esigenza vieppiù accresciuta quando si è compreso che non solo l’organizzazione del territorio ma anche la sua forma (il paesaggio) sono interessi comuni da tutelare.

Le nostre città testimoniano con l’evidenza dei fatti che dove la pianificazione è diventata prassi corrente nell’azione amministrativa le città sono abitabili e i paesaggi ancora salvi (le città dell’Emilia Romagna e le campagne della Toscana lo testimoniano, ma non sono le sole in Italia), dove la regola è stata imposta dalla proprietà immobiliare le città sono dei mostri (la Napoli del film “Mani sulla città” di Francesco Rosi ne è l’icona).

Promulgare una legge nella quale si afferma che la pianificazione è esercitata “prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi” (articolo 5, comma 4), e precisare che la negoziazione si svolge con i “soggetti interessati” alle trasformazioni (articolo 8, comma 7), significa tornare - nel mondo - a prima del piano di New York del 1811 e - in Italia - ai tempi denunciati da Francesco Rosi e dalle condizioni di vita in molte nostre città.

L’indebolimento dei poteri pubblici nei confronti degli interessi immobiliari non è espresso solo da quella affermazione generale, ma dal complesso dei meccanismi che la legge vorrebbe porre in essere. Il più smaccato è l’introduzione del silenzio-assenso nella verifica della conformità delle proposte di edificazione con le previsioni urbanistiche, ma anche l’obbligo puntiglioso per i comuni di motivare ogni e qualsiasi proposta di modifica ai piani adottati o di esproprio per pubblica utilità che venga rigettata è (per chi conosca la capacità d’inventiva della proprietà immobiliare nel proporre edificazioni e la debolezza cronica delle pubbliche amministrazioni gravate sempre più di oneri burocratici e private sempre più di risorse) un ignobile invito a lasciar correre e acconsentire tacendo alle proposte immobiliari.

Che dire poi del fatto che lo Stato (con buona pace non della “bossiana” devoluscion e del federalismo, ma dello stesso regionalismo) riprende tra i suoi “compiti e funzioni” nientedimeno che “il rinnovo urbano” (articolo 3, comma 1)? Forse per gli investimenti che si vogliono attribuire alla proprietà immobiliare nei “programmi urbani complessi”? E che dire del silenzio sulle modalità e le procedure con le quali lo Stato eserciterà le decisioni sul territorio per i settori d’intervento di sua competenza?

Pesanti riflessi avrà la legge Lupi (se il Senato non provvederà a fermarla) sul sistema economico. Non solo per la crescente inefficienza che sempre più condizionerà città e territori sottratti alla logica della pianificazione e affidati alla negoziazione, in regime di subalternità del pubblico alla congenita miopia degli interessi immobiliari. Non solo, insomma, per la crescita di tutte le ragioni dei dissesti attuali, ma anche per una ragione pienamente strutturale. La legge, secondo tutti gli osservatori appena smaliziati, è un poderoso incentivo alle rendite immobiliari, e a quelle finanziarie sempre più con esse intrecciate. Ebbene, non è proprio nel prevalere della rendita sul profitto e sul salario, delle attività speculative su quelle produttive, che i più attenti osservatori economici hanno visto una delle cause di fondo del declino economico del nostro Paese?

Battere la legge Lupi significherebbe allora dare un segnale d’inversione di tendenza anche sul terreno sul quale si gioca il futuro del nostro sistema economico, e quindi della nostra società. Ci si potrà poi dividere sul ruolo che i diversi interessi che compongono il mondo della produzione dovranno svolgere, sulla composizione tra i diversi interessi dialetticamente contrapposti, sulle regole e sulla durata dell’auspicato patto tra i produttori. Ma un fatto è certo, sconfiggere l’ulteriore prevalere delle rendite comporta, come primo passo, il profondo ripensamento delle regole di governo del territorio che la Camera dei deputati ha improvvidamente licenziato, e consegnato alla saggezza (speriamo) dei senatori della Repubblica.

Della legge urbanistica del 1942 si poté dire che aveva segnato la sconfitta degli interessi legati alla speculazione immobiliare e la vittoria degli interessi legati ai settori avanzati dell’economia. Della legge Lupi, se diventerà legge dello Stato, si dovrà dire il contrario. Avrà vinto una maggioranza molto più arretrata di quella che, in pieno regime fascista, approvò la legge 1150/1942.

Il testo della Legge Lupi

Un libro: La controriforma urbanistica

Una cartella di testi e documenti

È delle prime due che vogliamo occuparci brevemente oggi, soprattutto per il peso notevole che hanno nei confronti delle trasformazioni di un territorio prezioso e fragile quale quello dell’Italia.

Modernizzazione, innovazione: esprimono il bene, il futuro, la prospettiva verso la quale ineluttabilmente bisogna tendere. Ciò che è oggi e sarà domani, poiché è diverso da ciò che era ieri, è – deve essere – l’obiettivo di ogni azione che voglia essere legittimata dal consenso sociale. Tradizionale, passatista, conservatore diventano i termini che esprimono disvalori: sentimenti e tendenze che devono essere combattuti e sopraffatti. Ai fautori dei dogmi della modernizzazione e dell’innovazione (largamente dominanti nel Palazzo come nell’Accademia), a quanti credono che la Storia vada solo avanti e non conosca regressi il secolo scorso – e la paurosa regressione del nazismo – non ha insegnato nulla. Anzi, per essi la storia non serve: è meglio distruggerla nella memoria che trarre da essa i lineamenti e i principi di un possibile e migliore futuro.

Guardate le tendenza dell’architettura, che sempre più condizionano l’urbanistica (o trovano significativi riscontri culturali con gli urbanisti della modernizzazione). Guardate la fede indiscussa nella tecnologia, maestra d’ogni retorica e serva d’ogni individualistica bizzarria. Sembriamo tornati all’epoca in cui si nutriva illimitata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità affidata alle mirabolanti capacità delle tecniche dell’acciaio e del cavallo-vapore. Come diceva Marx, la storia si ripete, ma la seconda volta è farsa.

Che cosa vuol dire oggi, per il territorio, questo ritorno all’ideologia progressista dell’Ottocento? In una realtà in cui città e territori sono intrisi di storia e in cui la sedimentazione del passato è la ragione e la matrice della bellezza e della qualità dei luoghi, esso significa devastazione e regresso. Significa trascurare le regole che secoli di cultura e lavoro hanno impresso al modo in cui furono costruite le città, e trasformarle in un’accozzaglia disordinata di oggetti che non celebrano la società ma i loro Autori. Significa violentare i paesaggi rurali e mettere a rischio le risorse della natura costruendo dovunque infrastrutture stradali, spesso immotivata e sempre indifferenti ai contesti che attraversano. Significa seppellire le campagne sotto la coltre di espansioni urbane prodotte più dalla spinta della “valorizzazione immobiliare” (o alle pratiche della “perequazione” e “compensazione”) che da oggettive necessità non risolvibile in altro modo.

A Venezia, per esempio, significa pretendere di risolvere i problemi del degrado della Laguna e del deperimento (otto-novecentesco) della sua funzione regolatrice delle acque mediante le strutture “tecnologicamente avanzate” del MoSE anziché ripristinando gli equilibri ecologici compromessi dalle “modernizzazioni” del secolo scorso (per non parlare dell’inutile ponte di Calatrava e della devastante metropolitana sublagunare) . Tra il Continente e la Sicilia significa affidare l’agevolazione dei traffici alla costruzione di un mirabolante Pontone, capace di figurare nel Guinness dei primati dopo essere apparso nei fumetti di Paperino, invece di riorganizzare seriamente i trasporti via mare e aver adeguato alla normalità la rete ferroviaria interna della Sicilia. A Torino e a Milano significa agevolare gli interessi immobiliari di alcuni operatori privilegiati mortificando gli interessi comuni della cittadinanza e, laddove esiste, la legalità urbanistica, e minacciando il tradizionale paesaggio.

Il fatto è che con questa scelta di Opere, preferibilmente Grandi e perciò appariscenti e costose, si ottengono più risultati, utili sia al Palazzo che all’Accademia. Su un versante si favoriscono gli affari delle grandi holding nelle quali la rendita immobiliare e quella finanziaria si sono saldate (e si scaricano sulle generazioni future i costi dei fallimenti dei project financing e quelli delle manutenzioni e gestione delle opere). Sull’altro versante si appagano le smanie di affermazione personale (e monumentale) delle Grandi Firme dell’Architettura, divenute i massimi esperti della “modernizzazione urbana”, si utilizzano strumentalmente le loro ambizioni di “lasciare il segno sul territorio” per coprire col pennacchio operazioni immobiliari discutibili.

Chissà se un giorno chi decide (e chi sceglie i decisori) comprenderà che la vera modernità, la vera innovazione sono quelle che traggono dalla storia l’insegnamento di un corretto rapporto tra esigenze di trasformazione e natura dei luoghi, tra parsimonioso impiego delle risorse e appagamento delle nuove necessità sociali, tra creatività individuale e maturazione della cultura comune. Una regione del mondo la cui bellezza e la cui civiltà sono così profondamente radicate nella forma del territorio e delle città potrebbe davvero, se praticasse e predicasse un simile insegnamento, contribuire a rendere migliore un pianeta sempre più pervaso dall’anonimia, dall’omologazione, dall’appiattimento, dall’imposizione di modelli nati obsoleti, dalla cancellazione delle diversità culturali che dell’umanità costituiscono la ricchezza.

Qui lo scritto di Gustavo Zagrebelsky su valori e principi.

Ciò nonostante, il più appariscente attore della stagione di Mani pulite, il più acceso paladino della legalità, il ministro Antonio Di Pietro, e con lui il prudente ed equilibrato premier Romano Prodi, hanno imposto al Consiglio dei ministri di blindare ogni decisione e decretare la validità del MoSE. La forzatura (il blitz, lo hanno chiamato i giornali) è avvenuto alla vigilia della riunione del Comitato per la salvaguardia di Venezia e che era stato convocato per esaminare, su richiesta del Comune di Venezia, le ipotesi alternative: più leggere, più economiche, più affidabili, meno rischiose per la vita della Laguna. Nel Comitato, cui sono sottoposte le decisioni sui finanziamenti per la salvaguardia di Venezia e della Laguna, siedono i rappresentanti di quattro ministeri, della Regione, della Provincia, del Comune di Venezia e del rappresentante degli altri comuni lagunari.

Il blitz è avvenuto perché, nonostante l’immane apparato propagandistico del Consorzio Venezia Nuova, alimentato dai soldi dei contribuenti, la verità sugli errori del sistema MoSE si stava facendo luce. La maggioranza del Comitato poteva oscillare. Qualche ministro aveva studiato le carte (che inutilmente erano state da tempo trasmesse a Prodi e a Di Pietro), e il gigantesco apparato messo in piedi dal Consorzio Venezia Nuova poteva vacillare. I danni all’ecosistema lagunare potevano non commuovere troppi, ma il dubbio di gettare soldi in un pozzo senza fondo potendone spendere meno poteva sollecitare qualche attenzione. Meglio non rischiare. Meglio costringere i ministri a indossare l’elmetto e dichiarare “Obbedisco!”. (Lo faranno? Vedremo). Meglio dare uno schiaffo al Sindaco-filosofo di Venezia, e magari fargli minacciare le dimissioni.

L’ignoranza sulla realtà della Laguna e dello Mose, favorita dalla complicità di gran parte della stampa, è enorme. E altrettanto grandi sono gli interessi (privati) coinvolti. Il Consorzio Venezia Nuova è composto dai colossi del settore dell’edilizia, e l’entità della spesa prevista è di 4,5 miliardi di euro: ma tutti sanno che il consuntivo sarà molto più alto. Nessuno sa chi pagherà la gestione (certamente costosissima, data l’entità delle installazioni sotterranee, la struttura metallica delle parti sommerse, la delicatezza degli impianti, la continuità delle operazioni richieste). E nessuno ha avuto la possibilità di sperimentare a fondo le soluzioni alternative, dato il monopolio concesso dallo Stato (per la precisione, dal ministro Franco Nicolazzi, con un altro blitz) al poderoso Consorzio.

Elasticità nel rispetto della legge e subordinazione agli interessi forti sembrano essere gli elementi di continuità tra il vecchio e il nuovo governo. Difficile dire se ciò dipende da una oggettiva confluenza di atteggiamenti oppure – per il governo Prodi – dalla circostanza di affidarsi a consiglieri “amici del giaguaro”.

Moltissimi documenti sulla vicenda sono reperibili nell’apposita cartella dedicata al MoSE. In particolare: sull’obbligo non rispettato di por termine alla “ concessione unica” al CVN, la replica di Luigi Scano alle bugie del Ministro Lunardi; un quadro complessivo, tracciato da Edoardo Sazano, della questione MoSE e Laguna,in una sintesi su Liberazione e in un saggio ampio su Area vasta; sulle proposte alternative “ a gravità” e ARCA; infine, il testo della relazione della Commissione ministeriale per la Valutazione d’impatto ambientale.

Vezio De Lucia

Roma, 8 settembre 2005 - Caro Eddy, non ho creduto ai miei occhi nel leggere le tue osservazioni alla proposta di legge urbanistica siciliana. Salzano che parla bene, o almeno non parla male, di un testo della giunta Cuffaro mi pare inverosimile. Hai scritto che si tratta di una legge “migliore di tante altre che sono state approvate di recente dalle regioni”. Che “prevede un sistema di pianificazione incentrato sulla pianificazione regionale e provinciale (e questo della legge è indubbiamente un merito), alla quale viene attribuito il compito di individuare la struttura delle invarianti territoriali, distinguendo tra aree indisponibili …”, eccetera. La paragoni nientemeno alla legge Galasso. La confronti con le leggi dell’Emilia Romagna e della Toscana. Ma come fai, caro Eddy, a formulare giudizi su una legge astraendoti dal contesto storico e culturale dal quale ha origine? “Sganciare la legge dalla storia può portare a conseguenze aberranti”: lo hai scritto tu, ieri, commentando un articolo di Antonio Cassese: la postilla vale anche per te. Il contesto dal quale ha origine la legge è quello di una regione che ha venduto il suo territorio agli abusivi e alla malavita, che ha mandato in rovina i suoi centri storici, che ha trasformato le coste in una ripugnante periferia, che ha asservito le città alle automobili, e così di seguito. Questa regione, secondo te, dovrebbe adottare la pianificazione come metodo fondamentale per il governo del territorio? Ma quale pianificazione? Credo che in nessuna regione si siano fatti tanti piani come in Sicilia, senza che siano mai diventati efficaci. Esattamente trenta anni fa, nell’estate del 1975, collaborai con Edoardo Detti al corso estivo che teneva a Erice, dove esaminammo per conto della regione decine di piani territoriali (comprensoriali?) poi finiti nel dimenticatoio. Come tante altre esperienze. Dai dati pubblicati dalla Dicoter risulta che in Sicilia non c’è neanche un piano territoriale di coordiamento vigente, né “consolidato”. In cinque province “il processo è maturo” (inedito eufemismo). Che senso ha dire che se i piani ci fossero sarebbero meglio di quelli toscani? In tutta la legge non c’è una riga riguardante scelte ope legis. Non c’è verbo sulla repressione dell’abusivismo. Vi si allude all’art. 26 proponendo piani e procedure che sembrano fatti apposta per un’indiscriminata sanatoria. In Toscana la legge del 1995 (confermata nel 2005) ha prescritto il sostanziale blocco delle espansioni. Non è stata una captatio benevolentiae nei confronti degli ambientalisti. Dieci anni dopo, le previsioni dei piani regolatori erano dimezzate (da 8 a 4 milioni di abitanti). E veniamo ai vincoli. Intanto, come tu riconosci (non senza qualche sorprendente apprezzamento) gli standard sono abrogati, come nella legge Lupi, salvo a recuperarli con la nuova pianificazione. C’è chi ci crede. Lo stesso è per i vincoli di tutela. È vero che sono ripristinati da una norma transitoria, ma intanto sono cancellati, e si sa che le norme transitorie sono le più esposte a successive modifiche.

La verità è che fra le tue virtù, la principale è l’innocenza. Credi nelle conversioni e nei miracoli. Che il cielo ti ascolti. Io, che sono molto meno innocente di te, penso che, in un posto come la Sicilia, una legge autenticamente di riforma dovrebbe, in primo luogo, rafforzare, con norme perentorie, e senza tante raffinatezze, proprio il regime dei vincoli di tutela. Senza di che, come ha scritto Rosanna Piraino non si tratta di riforma ma di controriforma.

Un abbraccio, Vezio

Edoardo Salzano

Caro Vezio, non mi dispiacerebbe se fra le mie virtù la principale fosse l’innocenza, cioè se sapessi guardare e vivere la realtà senza il filtro della malizia. Ma non è così. E’ proprio la malizia, o più precisamente il calcolo politico, ad avermi suggerito di intervenire in quel modo nel dibattito (nella polemica) a proposito del disegno di legge urbanistica della Sicilia. Ho seguito con una certa attenzione il dibattito, ed ho letto la legge. Ciò che mi ha colpito è che nel dibattito le critiche non siano state alla politica urbanistica della Giunta Cuffaro, o all’impostazione della legge, ma si siano concentrate su un fatto specifico: sul fatto che quella legge abolirebbe sic et simpliciter i vincoli sulle coste, sui boschi e sugli altri beni precedentemente tutelati, nonché gli standard urbanistici. Ho verificato: non è così. Quella legge tutela quei medesimi beni, non più con un vincolo geometrico (tot metri) ma con la pianificazione. Come potevo ritenere negativo questo passaggio quando abbiamo celebrato insieme la legge 431/1985 (la legge Galasso) proprio perché ritenevamo giusto e sacrosanto che la tutela passasse (abbiamo scritto allora) “dal vincolo al piano”? E non dicevamo, né pensavamo, che questa regola doveva valere solo per le amministrazioni di sinistra.

A una prima lettura mi aveva preoccupato il fatto che la legge, rinviando le definizione delle tutele a un successivo atto (la pianificazione regionale e provinciale), non aveva però definito il regime delle aree vincolate nel periodo intermedio: poteva succedere carne di porco. Una lettura appena più attenta mi ha fatto scoprire che la legge prescriveva, nel periodo transitorio, la permanenza dei vincoli “vecchi”, e addirittura il loro irrigidimento in caso di ritardi nella pianificazione. Analogo ragionamento sugli standard, non soppressi ma trasferiti da una norma meramente quantitativa fissata per legge (regionale) ad uno specifico atto amministrativo (regionale). Non è così che fece la legge 765 del 1967? E non è così che hanno fatto successivamente molte regioni?

Non voglio però ripetere gli argomenti che ho sollevato nel mio articolo. Voglio dire soltanto che basare le critiche su un racconto della realtà non vero è un errore politico che favorisce l’avversario. Non è una critica efficace dell’avversario quella che si basa su un travisamento della verità dei fatti. Un’opposizione che si basa su valutazioni false è un’opposizione che ha perso una battaglia, e che ha rafforzato l’avversario. A me sembra che gli atti devono essere valutati anche in sé; e se in un contesto negativo si produce un atto che negativo non è, occorre domandarsi il perché, ma non aiuta a comprendere esprimere una valutazione pregiudizialmente negativa, o rifiutarsi di conoscere l’atto in se. Del resto, la storia che conosciamo e abbiamo studiato testimonia che in contesti molto negativi sono nati atti positivi (hai sostenuto da tempo che la legge urbanistica del 1942, in regime fascista, era una buona legge).

Hai ragione su un punto: ho sbagliato a non ricordare, nel mio articolo, il contesto, ma sono stato travolto dall’irritazione per una opposizione che, se si affida alle deformazioni della realtà, ha perso in partenza. Sono certo che, a partire da questa nostra discussione, si aprirà un dibattito più ampio che potrà servire a illuminare, oltre l’oggetto, anche la cornice.

Prendiamo il lemma “ambientalismo”. È stata recentemente coniata, ed ha avuto larga diffusione e apprezzamento, l’espressione “ambientalismo del fare”. Si è voluta propagandare, con questa espressione, la volontà di affrontare la crisi dell’ambiente della nostra vita con un impiego massiccio di tecnologie: inceneritori, pale eoliche a go-go, degassificatori ecc.. Di affrontarla e risolverla, cioè, intervenendo a valle del processo da cui la crisi origina: operando sugli effetti trascurando le cause – e anzi, in qualche caso, addirittura aggravandole.

Prendiamo il caso dei rifiuti, che grazie alle gravissime carenze politiche e amministrative di Napoli e della Campania è esplosa e continua a impegnare i mass media. Quante voci si sono levate a porre in primo piano la questione della eccessiva produzione di rifiuti e la necessità di ridurla drasticamente – come è possibile – intervenendo nella fase della produzione e commercializzazione delle merci che diventano rifiuti? Eppure Italo Calvino l’aveva compreso 36 anni fa, quando descrisse Leonia. La società dei consumi, descritta da John K. Galbraith nel 1958, e la sollecitazione a consumi sempre più inutili, denunciata da Vance Packard nel 1957, sono realtà del tutto sconosciute ai nostri governanti e ai loro corifei; oppure costituiscono una zuppa nella quale affondano volentieri i loro cucchiai. Lungi dal proporsi di criticare il meccanismo economico nel quale viviamo, non si adoperano neppure a correggerlo intervenendo almeno - per restare all'esempio dei rifiuti - sulla riduzione degli imballaggi, che dei rifiuti rappresentano una componente rilevantissima.

L’esemplificazione potrebbe continuare. Ma dietro questa apparente ignoranza si nasconde la mistificazione di un altro lemma rilevante: “sviluppo”. Questo è un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia. Ma nell’orrenda operazione compiuta sul linguaggio si è ridotto il termine sviluppo a una sola dimensione: oggi quel termine non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro effettiva utilità.

Come si vede, se si riflette un poco sulle cose, tra la concezione totalitaria dello sviluppo e la produzione abnorme di rifiuti (avete letto di quella nuova grandissima isola scoperta nell’Atlantico, composta unicamente di rifiuti flottanti aggregati dalle correnti?) c’è in nesso inscindibile. L’”ambientalismo del fare” è accolto e promosso perché contribuisce a produrre sviluppo (economico), cioè ad aumentare le ragioni di fondo della crisi dell’ambiente. Se esso fosse preceduto dall’”ambientalismo del pensare” si scoprirebbe che le cose che bisognerebbe davvero fare hanno connessioni strette con altre parole, dimenticate e seppellite sotto montagne di rifiuti. Parole come parsimonia, risparmio, razionalità. E con espressioni considerate ormai demoniache, come “ricerca di un’alternativa a questo sviluppo”.

Torniamo un attimo, prima di concludere, sul primo termine dal quale siamo partiti: “ambiente” e “ambientalismo”. L’orrenda semplificazione del linguaggio che ottunde i cervelli e li plasma arriva al punto da leggere le battaglie ambientalistiche come “scontro frontale tra bello e utile” (A. Cianciullo, su la Repubblica del 20 febbraio). Come se il nesso tra utilità e bellezza non dovesse essere strettissimo in una civiltà non trogloditica, e se non si dovesse applicare a qualsiasi trasformazione della crosta terrestre, come suggerisce Alberto Magnaghi, quella triade di “firmitas,utilitas, venustas” che Vitruvio aveva decretato per l’architettura (con buona pace per qualche architetto pennacchione, che proclama la bellezza delle ecoballe).

Nota. La città di Leonia è descritta da Italo Calvino, Le città invisiibili , Torino 1972. Il libro di John K. Galbraith, The affluent society , Boston 1958,è stato pubblicato in italiano col titolo La società opulenta, Milano 1965. Quello di Vance Packard, The Hidden Persuaders , New York 1957, è stato pubblicato in Italia col titolo I persuasori occulti, Torino 1958.

Sui rifiuti c'è in eddyburg una cartella, Rifiuti di sviluppo, nella quale c'è molto materiale.

L'icona è un disegno di Saul Steinberg.

L’episodio di Monticchiello ha particolarmente colpito perché è avvenuto in Toscana, regione che si colloca tra quelle che hanno espresso maggiore considerazione per la ricchezza costituita dalla qualità dei paesaggi. Così da Monticchiello il ragionamento si è allargato ma si è rimasti prevalentemente nella stessa regione: la Toscana felix è diventata la Toscana in bilico, si è scritto. Eppure basterebbe scendere un poco più a Sud (dal Lazio alla Campania, dalla Puglia alla Calabria) o un poco più a Nord (l’orribile conurbazione padana che sta divorando dimore storiche e campi come un mostruoso blob) per rendersi conto che altrove il danno al Belpaese è ben più grave di quello che nella Val d’Orcia si è svelato. Riflettere sul danno toscano può allora aiutare a comprendere che cosa fare per evitare, o almeno ridurre, quello italiano.

Molti ritengono che una delle cause dei numerosi scempi di brandelli del paesaggio sta nel fatto che la Regione Toscana ha attribuito troppo potere ai comuni, affidando loro qualcosa (il paesaggio) di cui la Costituzione attribuisce la tutela allo Stato. Hanno ragione. Esiste, ed è centrale nel governo del territorio, la comunità locale. Ma non è l’unica. Ciascuno di noi appartiene a cerchie via via più vaste di comunità: esiste il comune dove sono nato o dove abito e lavoro, e poi esiste la provincia (il “contado”, diceva Carlo Cattaneo), la regione, la nazione, l’Europa… Ciascuna di queste comunità è titolare del bene paesaggio, il quale non può essere privatizzato, gestito e goduto in esclusiva, da nessun individuo e neppure da nessuna comunità che ne escluda le altre.

Certo, la comunità più vicina, che del paesaggio è anche componente e diretta custode, ha maggiori responsabilità. Ma non è l’unica responsabile. E se opera male, se non tutela ciò che a lei spetterebbe tutelare, altre hanno il dovere di intervenire.

Le leggi hanno il compito di regolare i modi in cui le responsabilità devono equilibrarsi: senza esclusività per nessuno dei livelli di comunità cui la nostra costituzione attribuisce sovranità popolare. Pessima è una legge che attribuisca troppo potere a uno dei livelli, cancellando la responsabilità degli altri. E in Italia abbiano esempi di leggi pessime sia in una direzione sia nell’altra.

Il vizio di assolvere ai propri compiti scaricandoli su altri livelli non è peraltro solo della Toscana. Le tendenze cosiddette “federaliste” (come se federalismo non significasse associare invece che dissociare), così come l’interpretazione alla Bossi del principio di sussidiarietà (tutto il potere al basso), sono stati bandiere che tutto il centro sinistra ha sventolato, per tentar di distogliere dal fronte avversario qualche manipolo di leghisti.

Così come non è certamente solo toscano (anzi, questa Regione è ricca di esperienze alternative) la riduzione dell’intero concetto di sviluppo (morale, culturale, sociale, estetico…) al solo sviluppo economico inteso come mera crescita della produzione di merci.

In quanti comuni e regioni d’Italia non domina la concezione che costruire di più, a prescindere da qualsiasi dimostrato bisogno, è un bene per tutti, è qualcosa che ad ogni costo deve essere perseguito? E che semmai (per i benpensanti) si tratta di mitigare, ammorbidire, rendere sopportabile (anzi, travisando i termini, “sostenibile ambientalmente, economicamente, socialmente”) ogni inutile costruzione di case, capannoni, infrastrutture.

Considerare davvero, al di là delle chiacchiere, il territorio un bene comune comporterebbe di tener conto di entrambi gli aspetti: le responsabilità della tutela non spettano a un solo livello di governo, esistono valori che non soltanto non sono riducibili al valore di scambio e alla crescita economica, ma che vengono prima.

Si tratta di due principi che sono ormai presenti nel diritto come nella cassetta degli attrezzi del governo del territorio. In particolare, nel nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, che è il punto d’arrivo di un’elaborazione culturale e giurisprudenziale che è partita con la cosiddetta Legge Galasso. E i governanti della Regione Toscana hanno replicato alla tempesta sollevata a partire da Monticchiello non solo arroccandosi nel tabù dell’intangibilità della piena e indiscriminata autonomia dei comuni (soprattutto il presidente Martini), ma anche (soprattutto l’assessore Conti) indicando come strada per “superare” Monticchiello quello della pianificazione territoriale e dell’intesa in proposito con lo Stato.

Ma bisogna intendersi. Un piano che voglia avere le caratteristiche del piano paesaggistico prescritto dal Codice non può essere un compendio di analisi o una raccolta di esortazioni o un’antologia di racconti, ma deve definire, individuare e regolare precisamente ciò che il Codice prescrive. Esso deve individuare col massimo dettaglio possibile i beni meritevoli di tutela, sia quelli appartenenti a determinate “categorie” (boschi, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, rocche, casali, campi e trame agrarie, filari e piantate, percorsi storici …), sia quelli che, per la particolare identità che l’intreccio tra storia e natura ha determinato, compongono determinate riconoscibili unità di paesaggio (come la Val d’Orcia). Deve individuarli in modo preciso e disciplinarne l’uso e le trasformazioni consentite in termini tassativi, non perorativi o suggestivi,e dove è necessario con efficacia immediata.

I precetti relativi ai beni di rilevanza regionale e nazionale devono poi prolungarsi nelle direttive la cui traduzione in regole è affidata alla pianificazione sottordinata (provinciale e comunale), nei confronti della quale la regione ha una duplice ulteriore responsabilità: quella di sostenerla materialmente, consentendo alle comunità di minore capacità di dotarsi degli indispensabili strumenti tecnici per la pianificazione, e quella di verificare che le prescrizioni e le direttive siano rispettate.

E’ questo il piano che Toscana e Ministero dei beni e delle attività culturali hanno deciso di formare? Se è così, “schifi” come quello di Monticchiello potranno essere scongiurati. In Toscana e – se il Ministero per i beni culturali farà il suo mestiere e applicherà con rigore e fedeltà il Codice senza bisogno di altri Monticchielli – nelle altre regioni italiane. Altrimenti…

Qui alcune immagini del paesaggio di Monticchiello

Gli osservatori più attenti hanno ricordato il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Giavazzi ha posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (Corriere della sera, 16 luglio 2005) e Galapagos ha osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (il manifesto, 6 agosto 2005). E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice.

Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico, solo una riduzione della politica a lotta per il potere indifferente al progetto di società in nome del quale esercitarlo, solo l’incapacità di esprimere una prospettiva, una strategia, un orizzonte al quale indirizzare le forze sociali? Certo, queste sono componenti reali della situazione italiana. Ma in questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale, sulla quale è utile riflettere. Il prevalere delle rendite nel nostro sistema - questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei - affonda infatti le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia: svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale: doti delle quali l’attuale personale politico sembra del tutto sprovvisto.

Tra il XVIII e il XIX secolo si scontrarono, nelle diverse regioni d’Europa, tre grandi forze: l’ancien régime, espresso dagli ordinamenti feudali delle monarchie; la borghesia capitalistica, ormai lanciata alla conquista del mondo; il proletariato, emergente come nuovissima forza sociale dalle viscere stesse della produzione capitalistica. A queste tre figure sociali corrispondevano tre forme di reddito, che l’economia classica aveva puntualmente analizzato: la rendita, ossia la mercede del puro privilegio proprietario; il profitto, la remunerazione dell’attività volta ad associare i “fattori della produzione” e a trasformare i beni in merci, motore, attraverso l’accumulazione, dell’allargamento indefinito del processo produttivo; il salario, compenso per l’erogazione delle forza lavoro dei produttori.

In quasi nessuno dei paesi europei la nuova classe egemone, la borghesia capitalistica, giunse al potere senza combattimenti aspri, spesso tinti di sangue. L’ancien régime fu sconfitto e, quando ne riemersero i fantasmi, erano già trasformati in vesti borghesi: lo sfruttamento della proprietà attraverso la speculazione aveva prodotto risorse che più fruttuosamente venivano destinate in un’industria orientata a impadronirsi dei mercati mondiali. In Italia no.

In Italia la borghesia giunse al potere mediante un “compromesso storico” con l’ancien régime. E se questo era rappresentato, fuori dai confini del dominio pontificio e del regno borbonico, da una borghesia che aveva sovente nell’investimento nella terra le sue radici (e aveva quindi prodotto un’agricoltura resa feconda e, insieme, sapiente modellatrice del paesaggio, mediante cospicui investimenti delle rendite), in altre regioni l’alleanza fu stipulata con un’aristocrazia che si limitava a trasformare in consumi sfarzosi e futili il frutto della fatica del mondo contadino nelle terre, rese aride dalla mancanza degli investimenti necessari.

Fin dalla nascita dello Stato italiano il peso delle rendite (all’inizio, rendita fondiaria agraria) fu considerevole nell’economia italiana. E poiché, a un momento dato, le risorse sono quello che sono, l’ampiezza della quota percepita dalla rendita riduceva l’entità di quelle destinata al profitto (e quindi all’allargamento della produzione) e al salario (e quindi alla capacità di consumo, e all’allargamento del mercato). Lo sviluppo dell’urbanizzazione e, più tardi, la finanziarizzazione dell’economia capitalistica fecero sorgere, accanto alla rendita agraria, quella urbana (fondiaria ed edilizia, in una parola “immobiliare”) e quella finanziaria. L’intreccio tra le due, segnalato dagli osservatori più attenti da alcuni decenni almeno, è diventato in queste settimane l’elemento più preoccupante della situazione italiana: sul terreno dell’economia come su quello della democrazia. Entrambe le rendite hanno una cosa in comune: consentire l’accrescimento delle ricchezze personali di alcuni sulla base del privilegio proprietario, sottrarre ricchezza al circuito produttivo.

Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è dunque un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale: solo Bertinotti, Prodi, Epifani hanno, con parsimonia, segnalato la rilevanza di questo passaggio, e il “progetto dell’Italia” dell’Unione si limita ad affermare che “verranno assunte le iniziative necessarie a contrastare i privilegi legati alla rendita, le rendite di posizione e le distorsioni derivanti dai monopoli pubblici e privati” Ce n’est qu’un debut, è la speranza.

Io non so su quali strumenti si può contare per ridurre il peso della rendita finanziaria: so però che è un terreno nel quale le leve del potere pubblico sono notevoli, e oggi vengono usate all’incontrario. Conosco abbastanza bene, invece, gli strumenti cui si può ricorrere per ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), per distrarre risorse da quegli impieghi improduttivi, per travasarne parte consistenti verso utilità pubblica. L’utilità di farlo mi è stata insegnata dal pensiero dell’economia classica e di quella liberale (da David Ricardo a Karl Marx, da Claudio Napoleoni a Luigi Einaudi) gli strumenti per farlo mi sono stati indicati dalla cultura politica espressa da personaggi come Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan, amministratori e presidenti del consiglio nel primo decennio del secolo scorso, e da quella urbanistica, da maestri come Hans Bernoulli e Luigi Piccinato, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti. Di questi strumenti la pianificazione territoriale e urbanistica è il principale, proprio perchè esprime il primato del potere pubblico nel decidere le utilizzazioni e trasformazioni del territorio: cioè quei meccanismi mediante i quali la rendita immobiliare si forma e si trasforma. E anche perchè costituisce la cornice nella quale inserire le altre decisive politiche urbane: quelle della casa, dei servizi collettivi, della mobilità, della gestione dell’energia e dei rifiuti.

L’atteggiamento a dir poco ambiguo, che il gruppo dirigente dei DS ha manifestato nei confronti degli avventurosi arrembaggi degli immobiliaristi, e le operazioni immobiliari che esponenti dello stesso partito sponsorizzano in questa o quell’altra città, sono una spia di ciò che Lodo Meneghetti, nella sua appassionata “opinione” su questo sito, definiva “la vittoria definitiva egli immobiliaristi”. Le reazioni decisamente sopra le righe alle preoccupazioni espresse da Arturo Parisi, nella sua denuncia sulla risorgente “questione morale”, rivelano che si è toccato un testo doloroso e che ciò, forse, stimolerà in quel partito un riflessione seria. Una riflessione altrettanto seria dovrebbe però aprirsi anche in altre componenti del centrosinistra: da quel “polo rosso-verde” sempre di là da venire, che si è limitato a brontolare all’ultim’ora contro lo “scandalo” della Legge Lupi, a quella Margherita di cui un autorevole esponente, dopo aver collaborato alla stesura di quel testo, ha dichiarato in più occasioni che si tratta di un provvedimento bipartisan.

Che c’entra la Legge Lupi? Il lettore appena attento si sarà accorto che quella legge, ove fosse approvata anche dall’altro ramo del Parlamento, costituirebbe la sconfitta più grave per chi combatte contro il ruolo storicamente e attualmente centrale della rendita immobiliare, e la sconfessione più grave per gli uomini che, da ogni sponda culturale e politica, hanno tentato di contrastarla. Lo è perchè scardina il principio del primato del potere pubblico nelle decisioni sul territorio e sul suolo urbano, perchè introduce i “privati” (in Italia, la proprietà immobiliare) tra i decisori della pianificazione, perchè costruisce la cornice legale entro la quale esercitare il primato della rendita sul profitto e sul salario, della speculazione sull’impresa e sul lavoro. Ma su questi argomenti torneremo certamente con ampiezza, alla ripresa settembrina.

Qui potete trovare gli articoli citati nel testo: Galapagos, Il liberal D’Alema, Giavazzi, Privatizzazioni, chi le ha viste?, Meneghetti, La vittoria degli immobiliaristi. E sulla Legge Lupi, nella cartella Tutto sulla legge Lupi. Il documento dell'Unione è qui.

L'immagine è di Quentin Metsys, Gli usurai

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La cosidetta “tassa sul lusso” (ma vedremo che è tutt’altro) mi sembra esemplare per ragioni di politica del territorio, di equità sociale, di sviluppo economico.

Intanto, di che cosa si tratta. È un provvedimento della Regione Autonoma della Sardegna che istituisce tre imposte: la prima è prelevata una tantum sul plusvalore determinatosi nell’atto della compravendita di fabbricati destinati a residenze turistiche (seconde case) nella fascia compresa entro tre chilometri dal mare, e consiste nel prelievo del 20 % della differenza tra il prezzo di vendita dichiarato e quello originario d’acquisto o di costruzione; la seconda è annuale, è applicata agli stessi fabbricati ed è proporzionale alla dimensione delle unità immobiliari (va da un minimo di 900 € per unità fino a 60 mq a un massimo di 3.000 € e oltre per unità oltre i 150 mq); la terza imposta è prelevata una tantum agli aeromobili e alle imbarcazioni da diporto che approdano negli aeroscali e negli approdi dell’Isola nel periodo estivo, ed è anch’essa proporzionale alla dimensione del mezzo.

Le prime due imposte (quelle che riguardano le seconde case non appartenenti a cittadini sardi collocate entro la fascia costiera) sono destinate alla costituzione di un fondo regionale, che sarà impiegato per interventi di manutenzione ambientale, di ricostituzione dei paesaggi degradati e di sviluppo del turismo interno. Il fondo sarà ripartito tra progetti di interesse comunale, provinciale e regionale.

Il provvedimento, sul quale si è aperta una discussione ampia sia nell’Isola che nel Continente, è scaturito da una constatazione molto semplice e, a mio parere, totalmente condivisibile. La Regione ha provvidamente deciso di sottoporre a critica il modello di turismo (e di sviluppo economico) fin qui perseguito, basato sulla privatizzazione delle coste, sul loro sfruttamento edilizio, sull’espansione di un turismo di breve durata, e di promuovere al suo posto un modello (e uno sviluppo) alternativo. Il turismo tradizionale ha provocato, come è noto, il degrado di gran parte delle coste sarde, la distruzione paesaggi millenari di grande bellezza e la loro sostituzione con “villaggi turistici” e distese di seconde case di qualità scadentissima, contribuiendo al formarsi di squilibri territoriale e sociali. È un turismo che consuma la materia prima della quale vive (l’ambiente e il paesaggio della Sardegna, la sua identità) e che produce ricchezza soprattutto all’esterno dell’Isola: là dove hanno il loro domicilio fiscale le società immobiliari che costruiscono, vendono, affittano.

Le parole del presidente Soru che riportiamo nel box [stralci da questo documento] qui accanto illustrano a sufficienza le ragioni della critica e le speranze dell’alternativa. Il progetto delineato da Renato Soru ha tra le sue componenti un turismo caratterizzato da flussi di visitatori che della Sardegna frequentino non solo le coste, ma anche le risorse di cultura e di bellezza dell’interno, che non si presentino solo nel breve periodo delle vacanze estive ma in tutte le stagioni in cui l’Isola è bella e amichevole. Un turismo che trovi le sue attrezzature non nei villaggi turistici recintati e nel pullulare di ville e villette collocate a nastro lungo le coste, ma nei paesi e nei borghi posti al di là della fascia costiera, verso l’interno, i suoi paesaggi, i segni della sua identità. Un turismo che rafforzi perciò i sistemi insediativi esistenti, soggetti a un esodo sempre più pronunciato, e dia nuovo alimento alle economie locali: quelle legate alla produzione agricola e zootecnica, quelle legata all’impiego di tecniche, materiali e tipologie costruttive tradizionali, e quelle infine legate alla comunicazione e diffusione della cultura.

Il Piano paesaggistico regionale della Sardegna, al quale ho avuto l’onore di collaborare come membro del Comitato scientifico che ha dato il suo contributo all’Ufficio del piano, redattore del progetto, costituisce un primo passo: definisce una tutela accurata delle risorse d’interesse nazionale e regionale, disegna i lineamenti di progetti di paesaggio da sviluppare soprattutto da parte degli enti locali. Ma un piano non basta senza risorse.

Salvaguardare i paesaggi rimasti intatti, risanare quelli compromessi e degradati, mantenere il territorio e l’ambiente, richiede progetti e finanziamenti. E richiede progetti e finanziamenti anche lo sforzo di far nascere un turismo alternativo quale quello proposto. Ecco perché le nuove imposte, le quali attingono ai portafogli di chi ha ottenuto dallo sviluppo distorto privilegi negati agli altri, di chi ha contribuito alla distruzione di paesaggi straordinari, di chi vede ancora oggi la sua ricchezza privata accrescersi grazie a scelte pubbliche di politica del territorio e a investimenti di risorse collettive cui non contribuisce in misura significativa.

Le imposte che riguardano le costruzioni nella fascia costiera non colpiscono i profitti d’impresa, né tanto meno salari e stipendi: colpiscono la rendita immobiliare, quella che l’economia classica definisce “la componente parassitaria” del reddito. La ricchezza prodotta e goduta (il reddito) è infatti distinto in tre componenti. Secondo la scuola liberale e liberista, il salario (e lo stipendio, che ne è una forma) compensa il tempo di lavoro impiegato: cioè retribuisce chi spende il proprio sapere e mestiere e la propria attività fisica per produrre. Il profitto è, il compenso per l’attività dell’imprenditore: cioè di chi associa tra loro e organizza i vari fattori della produzione. La rendita è la parte della ricchezza collettiva di cui si appropria chi è pervenuto a possedere un bene che è richiesto da altri ed è disponibile in quantità limitata; è quindi la componente del reddito che premia chi si limita a richiedere una taglia per il fatto che gode della proprietà, ma non contribuisce in alcun modo al processo produttivo.

Nelle economie autenticamente liberali si tende a privilegiare, quale parte della ricchezza da cui prelevare le tasse, la rendita, la “componente parassitaria del reddito”. Il pensiero liberale ha considerato nel trasferimento di risorse dalla rendita alle attività produttive un contributo allo sviluppo di un’economia capitalistica sana. L’economista e politico statunitense Henry George divenne famoso nella seconda metà del XIX secolo per aver proposto un prelievo del 100 % della rendita immobiliare come soluzione per vincere la povertà e dare impulso alla produzione [si veda qui]. Il presidente della Fiat, Gianni Agnelli, sostenne pubblicamente, nel 1972, che “in Italia l'area della rendita si [è] estesa in modo patologico” e che, “poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa”. Questo era, secondo il padrone della maggiore azienda capitalistica italiana, “il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire” [si veda qui]

Non chiamiamo dunque “tassa di lusso” il sistema di imposte decise dalla Regione Autonoma Sardegna. Si tratta di tributi finalizzati alla difesa attiva della maggiore risorsa dell’Isola, patrimonio dei sardi e di tutti gli uomini che vogliono e vorranno goderne senza dissiparlo né rinchiuderla negli steccati delle proprietà esclusive; tributi che sottraggono alla “rendita parassitaria” una quota limitata di un plusvalore che è frutto della collettività e del suo secolare investimento nel paesaggio della Sardegna; tributi che incoraggiano uno sviluppo economico meno distorto di quello preconizzato dai difensori dei grandi poteri immobiliari.

Mi sono assunto il compito di riferire, in questo Convegno, sulla legge in difesa delle bellezze naturali, che è in vigore da più di otto anni -e la cui applicazione mi è stata affidata per ragioni di ufficio. Voi ne conoscete le disposizioni, che sono ben poche in verità: tuttavia ho bisogno di richiamare alla vostra memoria - e ciò per chiarire quel che sto per esporre - l’articolo lo nella sua completa formulazione:

“Sono dichiarate soggette a particolare protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale e della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche”.

Si venne così a stabilire una netta distinzione fra le cose immobili, che hanno un’entità propria ben definita, e quindi identificabili nei loro particolari, e le bellezze panoramiche, o meglio il paesaggio, che sfugge ad una precisa identificazione e quindi mal si presta ad essere raggiunto dalla stessa norma legislativa, quanto meno dalla stessa norma legislativa dettata per le cose facilmente individuabili nei loro confini e nelle loro caratteristiche.

Se non si tien bene in mente questa sostanziale distinzione, non si può comprendere l’economia di tutta la legge e non si possono neppure comprendere le difficoltà - non poche e non lievi - che s’incontrano nella sua applicazione. Giacché è per le cose immobili aventi i caratteri voluti dal primo comma dell’articolo l°, e cioè per le bellezze naturali propriamente dette, che la legge impone le notificazioni, che devono essere trascritte agli uffici ipotecari affinché i terzi ne abbiano conoscenza; e quindi tutti, a cominciare dal proprietario, devono sapere che quel tale immobile è sottoposto alla tutela, che chiameremo artistica, per intenderci - mentre per tutelare le bellezze panoramiche essa non concede che un intervento volta per volta, caso per caso, quando nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori (non si parla di piani di ampliamento) possono danneggiare l’aspetto e lo stato di pieno godimento del paesaggio. Non è facile identificare gl’immobili che hanno carattere di bellezze naturali. L’Italia ha una superficie di 313 mila chilometri quadrati; e per la sua conformazione, principalmente montuosa; per le sue lunghe riviere sulle quali digradano ultime propaggini appenniniche, aspri promontori e verdi colline, spesso tagliate da valli e da burroni profondi; per la sua antichissima storia che ha impresso in ogni angolo, su ogni pietra, su ogni zolla la poesia dei ricordi, è ricca, come nessun altro paese di Europa, di singolarissimi aspetti, di curiosità geologiche, di cose interessantissime, poste in siti spesso remoti, viventi di una vita propria, concluse in confini determinati, che permettono di apprenderle in uno sguardo, di descriverle con pochi tratti, di misurarle talvolta.

La loro dovizia è tale che sgomenta chi ha il compito di difenderle dalle insidie degli uomini. Tuttavia in otto anni, e precisamente sino al 31 dicembre ultimo, abbiamo fatto 4662 notificazioni di notevole interesse pubblico, vincolando 728 immobili. Un altro centinaio è in corso; e si attende che siano restituite dai podestà o dagli uffici delle ipoteche. Non sono molte ma quando ci si renda conto delle difficoltà da superare, specialmente nella ricerca dei confini e dei numeri catastali di ciascun immobile, e degli scarsi mezzi posti a disposizione dell’ufficio, si dovrà riconoscere che del lavoro se n’è fatto, Si pensi anche che ogni notificazione dà diritto al privato di ricorrere contro di essa al Governo del Re, che i ricorsi sono stati e sono moltissimi, e che per accoglierli o respingerli è necessario sentire il Consiglio Superiore delle Belle Arti e il Consiglio di Stato. Il che impone una vigile attività amministrativa.

Gl’immobili notificati non possono essere modificati senza il consenso del Ministero; e quindi per ogni lavoro, che su di essi si voglia fare, è necessario inviare il relativo progetto al Ministero medesimo che lo fa esaminare dal Consiglio Superiore delle Belle Arti. Ed è qui, su questo punto, anzi in questo momento, per dirla con un’antipatica frase burocratica, è in questo momento della pratica, che si determina il più vivo contrasto fra gli interessi pubblici e quelli privati. Mi permetterete di non scendere a particolari, anche per non essere troppo prolisso. Dirò solo quali sono le deficienze della legge, che in codesto contrasto dovrebbe dar man forte al Ministero e invece lo lascia inerme e indifeso. In due modi si può determinare il contrasto: modificando l’immobile notificato senza chiedere il consenso del Ministero o chiedendo il consenso per poi infischiarsene e fare il proprio comodo. Si modifica l’immobile, vanandone o distruggendone i caratteri essenziali che lo rendono di pubblico interesse, il che può farsi in mille modi facilmente immaginabili e si disubbidisce al Ministero, eseguendo integralmente quei progetti di lavori che, presentati all’ufficio per il suo esame e consenso, sono stati respinti o limitati.

Inquesti casi che può fare il Ministero? Può denunziare il contravventore all’autorità giudiziaria perchè sia punito con l’ammenda da L.300 a L.1000! (quando una benigna amnistia non lo abbia in precedenza lavato d’ogni colpa). Una pena, come vedete, ridicola: una specie di spaventa-passeri, che non preoccupa nessuno.

Si può, oltre questo, secondo l’articolo 6, ordinare la demolizione delle opere abusivamente eseguite; ma quali opere? Le costruzioni evidentemente, le opere, cioè, che si sovrappongono all’immobile e lo disarmonizzano. Ma non sono sempre le costruzioni che offendono un immobile dichiarato bellezza naturale; si può offenderlo aprendo nel suo seno una cava di pietra, una cava di pozzolana, di trachite, aprendo delle trincee, abbattendo degli alberi, spesso potandoli cosi eccessivamente da provocarne la morte si può offenderlo, insomma, in tanti e tanti altri modi consimili.

Mi sono prefisso di tenermi sulle generali, di non fare nomi né di località né di persone: ma sappiate che sotto le mie parole ci sono i fatti. Ora, di questi deplorevoli casi noi siamo costretti a constatare il danno e fare, se mai, delle vane proteste; poiché la legge non ci dà; il diritto di obbligare il proprietario dell’immobile a rimettere tutto in pristino, o, non potendosi più far questo, imporgli almeno di pagare una indennità equivalente al danno. Ci resta sempre, è vero, quella famosa ammenda da L.300 a L.1000; ma io ho il buon gusto di non provocarla mai ... È qui opportuno osservare che la legge parla di contravventori e di ammenda: il che vuol significare che le violazioni alle disposizioni di essa sono considerate contravvenzioni. Errore grave, contro il quale la Direzione Generale delle belle arti si è battuta invano: quando, come avvenne delle offese alle bellezze naturali, la volontà di frodare la legge è manifesta, ed è evidente la lesione del diritto pubblico, sono chiari ed inequivocabili gli estremi di un vero delitto, la cui sanzione non può certamente essere l’ammenda.

La difesa poi del paesaggio. la quale non è e neppure assistita da questa mite pena contravvenzionale, è tutta imperniata nell’art. 4 della legge: in virtù di questo articolo, il Mi nistero, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori può prescrivere distanze, misure ed altre norme, necessarie perchè le nuove opere non danneggino l’aspetto e il pieno godimento delle bellezze panoramiche. Or nessun mezzo preventivo ha il Ministero per far giungere a tempo la sua azione tutelativa: esso deve attendere che gli sia indicata la nuova opera. Ma spesso quest’opera è così avanzata che le provvidenze da prendere (distanze, misure, altezze, ecc.) si trovano di fronte ad uno stato di fatto che ha già compromesso la vista del paesaggio. Ciò accade perchè, non vigendo per la difesa delle scene panoramiche il sistema delle notificazioni, il privato ignora o finge di ignorare che la sua opera, iniziata o che sta per iniziare, offende qualcosa che interessa il pubblico godimento anzi, egli ignora che quel luogo su cui egli svolge la propria attività è un luogo degno di essere protetto per la sua bellezza paesistica. Né è possibile immaginare che si possa adottare il sistema delle notificazioni poiché il paesaggio è una parte di territorio, i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco o estetico a causa delle disposizioni e delle linee, delle forme e dei colori, e nel suo insieme è costituito da migliaia di particelle (immobili) appartenenti ad altrettanti proprietari. Di guisa che l’ufficio si trova quasi sempre in grande imbarazzo. I casi in cui il suo intervento raggiunge la nuova opera allo stato di progetto sono rari mentre sono frequenti i casi in cui l’opera è già iniziata, quando non è quasi per metà compiuta. E allora non abbiamo altra risorsa che di far sospendere i lavori e chiedere il progetto, perchè sia esaminato dai nostri corpi tecnici. E di sospensioni, infatti siamo costretti ad ordinarne parecchie. Che cosa accade dopo, lo lascio immaginare a voi: raccomandazioni, proteste, aggiramenti, minacce di suicidi ... Certo il danno di un tale procedimento non è da negarsi: e potete credermi se vi dico che il primo a dolersene sono io. Ma quale altro è possibile? Abbiamo pensato a varii espedienti : per alcuni luoghi di maggiore responsabilità sono stati pregati gli uffici periferici di raccoglierne i nomi dei proprietari, i confini, i numeri catastali degli immobili compresi in una scena panoramica: naturalmente centinaia, ed abbiamo proceduto a centinaia di notificazioni. Esempio, la nuova via Manzoni a Napoli, la quale si svolge dal Corso Vittorio Emanuele lungo la cresta della collina di Posillipo e scopre a destra i Campi Flegrei, a sinistra Napoli ed il Vesuvio con Torre del Greco, Resina, Pompei, Castellammare, Sorrento, e, dietro la Punta Campanella, Capri: un paesaggio ammirabile di cui forse uno più bello, e direi più spirituale per i grandi ricordi storici che racchiude, non esiste al mondo. La speculazione aveva già cominciato a deturparlo in vari punti, ed era necessario correre alla difesa. Qualcuno venne a dirmi che con tutte quelle notificazioni avrei fatto insorgere Napoli, ma la insurrezione non scoppiò - e le costruzioni su quella incantevole via sono regolate dalla Sovrintendenza. Potrei parlarvi di altri luoghi in cui abbiamo all’Arte Medioevale e Moderna della Campania adoperato lo stesso sistema. Ma voi comprenderete che esso è faticosissimo; che non può ad esempio, essere applicato alla Riviera Ligure, ai territori in mezzo ai quali splendono come gemme i laghi Maggiore, di Como, del Garda Ed allora, abbiamo escogitato un altro espediente: l’emanazione di decreti ministeriali, decreti in forma di dichiarazioni, che potrei qualificare moniti, avvertimenti, da tenersi affissi per sei mesi all’albo pretorio dei Comuni interessati. Permettetemi di leggervi uno;di questi decreti: quello emanato per salvare Capri dalle frequenti deformazioni delle singolarissime caratteristiche del paesaggio caprese: “Considerato che il territorio dell’isola di Capri, famosa nel mondo per la bellezza del suo paesaggio, è tutto sottoposto alla legge 11 giugno 1922 n. 778, e che urge provvedere, affinché le scene panoramiche, che ivi sono universalmente ammirate, non siano ostruite o in qualunque modo offese da opere non in armonia coi luoghi o in assoluto contrasto col godimento di essi;

“visto l’art. 4 della legge anzidetta, che dà al Ministero della pubblica istruzione nei casi di nuove costruzioni e ricostruzioni le facoltà, ecc..;

“atteso che è fermo proposito del Ministero medesimo di servirsi nel modo più rigoroso delle facoltà: di cui sopra, affinché la tradizionale bellezza di Capri non sia ulteriormente manomessa; e d’altra parte è interesse degli abitanti dell’isola che di tale proposito siano pubblicamente informati, affinché la provvida e legittima azione governativa non sia da essi prevenuta con opere che, per essere eseguite in dispregio della legge, dovrebbero essere abbattute;

“Il Ministero della P. I. notifica:

“Art. 1 - Nel territorio dell’Isola di Capri non si possono sopraelevare muri; innalzare cancelli, piantare cortine di alberi, fare sbarramenti di roccia e sterri, o compiere qualunque altra opera che ostruisca, modifichi o deteriori in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che ivi si godono.

“Nello stesso territorio non si può eseguire nessuna costruzione, né modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna della Campania, alla quale dovranno essere presentati i relativi progetti.

“Art. 2 - La presente notificazione sarà a cura di S. E. l’Alto Commissario della Provincia di Napoli pubblicata all’albo pretorio del Comune di Capri per un tempo non minore di sei mesi”.

Un decreto consimile fu emanato anche per Taormina, celebre meta turistica internazionale e già deformata da grandi alberghi, alcuni di uno stile arabo normanno che fa paura, e azzannata in punti delicatissimi da ben sette cave di pietra che la stavano divorando. L’efficacia di questi due decreti io ho modo di constatare giorno per giorno; ed avrem mo intenzione di ripeterli per altri luoghi anche di maggiore estensione.

Non credo però che questo espediente, suggeritomi dalla necessità di difendere, in difetto di più efficaci disposizioni legislative; alcuni punti di grande sensibilità paesistica, possa essere applicato ai grandi agglomeramenti di abitanti, alle città, quali Genova, per esempio, o Napoli, o Milano, a quelle che sono in continuo accrescimento, costrette a sbandare fuori delle antiche cerchie e invadere i dintorni. La rete degli interessi è più fitta lì che altrove, le esigenze della vita, e della vita moderna, sono più imperiose, e tutte raggiunte dai tentacoli della speculazione; della quale anzi non è possibile fare a meno. Mentre in questi luoghi, fra questo coacervo di bisogni, di desideri, di avidità, che di giorno in giorno si ingrossa sempre di più e preme da tutte le parti, e dire che qui non si possono compiere opere che ostruiscano, modifichino e deteriorino in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che vi si godono, né eseguire costruzioni nuove, o modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione del Ministero, significherebbe mettere in pericolo quell’azione di tutela paesistica che ci sta a cuore e per il cui maggiore sviluppo siamo qui riuniti. D’altra parte, stare in sull’attenti in perpetuo, per avvistare il caso in cui sia obbligatorio il nostro intervento, è cosa, come potete comprendere, angosciosa, spesso non utile, sempre piena di sorprese e d’inquietudini. Si vuole costruire, mettiamo, lungo un lido su cui digradano verdi colline: località panoramica di primo ordine, degna della più alta speculazione, in una città ricca ma stretta fra il mare e il monte, e in continuo lievito di accrescimento. Si allestisce alla chetichella un sommario piano di ampliamento, si dimenticano i necessari accertamenti di legge, si trascura di avvertire i Ministeri interessati; ed ecco già creato sotterraneamente un trust di sfruttamento delle aree. I primi sbancamenti di antiche ville cominciano, si allivellano poggetti deliziosi, sorgono i primi casoni come per incanto. Chiediamo il piano di avviamento: non c’è. Preghiamo che si faccia subito: non si risponde. Insistiamo: si mena il can per l’aia. Intanto, le costruzioni avvampano. Ne sospendiamo alcune. E comincia la tragedia. Perché sospendete? Perché vogliamo vedere il progetto di costruzione, prestabilire le misure, le distanze, le altezze (art. 4). - Ma il progetto è stato approvato dalla Commissione Edilizia! - Non basta: la legge di tutela del paesaggio è indipendente dalle decisioni dei Comuni. - Ma insomma che cosa volete? -Vogliamo che su questo punto non si costruisca, che su questo altro l’edificio occupi una superficie minore, o non superi i due piani. - Ma questo è impossibile: abbiamo pagato l’area a 500 lire il metro quadrato! - Ma ciò non ci riguarda. Non vi riguarda? Espropriateci, pagateci il prezzo dell’area e fate quel che vi aggrada. - Lo Stato non ha questi obblighi: l’imposizione di una servitù di diritto pubblico non comporta indennizzi. - Ma questa servitù la imponete proprio ora? Se io l’avessi preveduta non avrei acquistato, o avrei acquistato a prezzo minore. - E allora? allora, egregi signori, ci si trova impigliati in una serie di compromessi, di transazioni, di mezze misure, che non risolvono nulla, quando non aggravano le condizioni di ambiente. In tutti i casi il beneficio della legge è frustrato, se non in tutto, almeno in parte; e il prestigio dell’autorità è in iscacco.

Quale il rimedio a questo stato di cose così penoso? Poiché, come abbiamo visto, non è possibile adottare il sistema preventivo delle notificazioni, né quello dei decreti uso Taormina e Capri, sembra che unico, previsto dalle nostre leggi, sia il sistema dei piani regolatori e di ampliamento, studiati seriamente prima che un decreto reale li renda esecutivi.

Ed eccoci giunti casi al punto centrale di questa mia non lieta disamina.

Non è qui il caso di dire quale sia l’importanza di un piano regolatore dal lato della viabilità, dell’igiene, dell’estetica e anche dell’educazione cittadina. Sono cose note, e nelle quali voi tutti qui presenti siete maestri. E neppure credo di dovervi rassegnare le disposizioni di legge che lo riguardano, e le discussioni cui esse han dato e danno argomento nella dottrina giuridica, specialmente in occasione della divisata riforma di espropriazione per pubblica utilità. Penso che nessuno di voi creda ancora che un piano regolatore debba consistere unicamente nel “tracciare delle linee (leggo la definizione che ne dà la legge del 1865) da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato dove occorreva rimediare alle viziose disposizioni degli edifici”. Molta acqua è passata da allora sotto i ponti, troppi bisogni son nati, troppe esigenze, allora neppur sospettate, oggi premono imperiosamente: e l’edilizia pubblica, allora semplicista e di origine prettamente francese, è ora una scienza che ha trovato e trova quotidianamente nelle antiche città italiane materia di studio e di originale applicazione. Al tempo in cui fu approvata la legge sulle espropriazioni per pubblica utilità, due bisogni cittadini preoccupavano i governanti: quello della salubrità e quello del traffico; e l’art. 86 di quella legge lo dice chiaramente. A provvedere a questi due bisogni doveva tendere il piano regolatore. Il quale, perciò, nella pratica, si riduceva a un piano di allineamento, e quindi a un tracciamento di linee a qualunque costo pur di raggiungere quei due intenti. E dati questi principi non è da meravigliarsi che in un vecchio piano regolatore di Roma, a furia di tracciare linee, gl’ingegneri incaricati non si fossero accorti che buttavano giù la bella chiesa del Priorato di Malta sull’Aventino.

Ora, nonostante che la legge sia la medesima, si va più cauti, o almeno ci si sente avvolti in un’atmosfera in cui giungono, senza bisogno di radio, preoccupazioni e moniti, proteste e consigli, che rendono pensosa quella beata innocenza, per cui un piano regolatore si riduceva al famoso segno di matita colorata. Non fu ascoltato quindici anni or sono Gabriele D’Annunzio, che insorse per difendere Bologna, “minacciata di sacrilegio da uomini mercantili ben più aspri di quelli che frequentavano la bellissima loggia vicina”, ma oggi, che una pericolosa irrequietezza edile ha invaso le amministrazioni delle città italiane, non è più possibile non comprendere l’alto significato di queste parole di Marcello Piacentini, dell’ architetto che più lavora in Italia, da Messina a Brescia, e al quale certo non si può negare esperienza e modernità: “Le nostre cento città sono dei valori come non esistono altri, ricchezze cui nessun’altra può paragonarsi. Sono la nostra storia ed il nostro orgoglio. Sono la immagine esatta della nostra razza o dei nostri ideali. Attraverso ad esse il mondo apprende la nostra civiltà. In esse riconosciamo noi stessi e la varia e molteplice espressione dei nostri temperamenti regionali. Come le fisionomie dei membri di una stessa famiglia, esse si compongono in un atteggiamento di reciproco affetto e di mutua comprensione. Ebbene, questo tesoro unico ed inestimabile dev’essere da noi gelosamente conservato. Quante cure non abbiamo per minuti oggetti: per pianete o reliquie celate nelle sagrestie delle chiese, per quadri che custodiamo riverenti nelle gallerie, mentre le città sono molto spesso abbandonate a sé stesse, facile preda di faccendieri e d’incompetenti reggitori! Prenda maggiormente il Governo sotto le sue cure speciali le città italiane: esse costituiscono la più bella ricchezza nazionale. Esse sono, tutte insieme, la Patria. E la civiltà fascista deve salvarne il passato e curarne lo sviluppo avvenire”.

Salvare il passato e curare lo sviluppo avvenire: parole d’oro che dovrebbero essere epigrafe di ogni piano regolatore. Ma salvare il passato non significa per noi perpetuare nei fetidi vicoli oscuri il drappeggio dei cenci alle finestre; e quando dei troppo corrivi demolitori, in mancanza di argomenti, e credendo di fare effetto sugl’ingenui, lanciano contro di noi la stupida accusa di misoneisti, amanti della vecchia sporcizia, abbiamo ben ragione di protestare. Salvare il passato significa ben altro per noi: significa non distruggere, senza una inderogabile assoluta necessità, gli edifici che l’antichità ci ha tramandati intatti, e soprattutto non disambientarli, perchè allora tanto varrebbe distruggerli; ed in quanto a curare lo sviluppo avvenire delle città non significa irrompere fuori le mura per lottizzare ville monumentali, abbattere pinete, sbancare colline; poiché questo non è sviluppo, è devastazione.

Da ciò la necessità, riconosciuta universalmente, e del resto dalla nostra legislazione prevista, di sentire sui piani regolatori i pareri, non solo dei corpi tecnici superiori, ma anche del Consiglio Superiore delle Belle Arti che è, in materia d’arte, un corpo tecnico anch’esso. Donde la conseguenza che nessun piano regolatore possa dirsi approvato senza che il parere di tale Consiglio sia stato sentito. Non sono cose peregrine queste ch’io dico, lo so, ma sono necessarie, perchè io pervenga, su questo punto, a una conclusione, che è frutto di lunga esperienza.

La procedura per giungere all’approvazione di un piano regolatore è quanto mai complicata; e appunto perchè cosi complicata, invece di dare la massima garanzia nell’esame di tutte le questioni tecniche, sanitarie, economiche, artistiche, monumentali; riduce spesso cotesto esame a una parvenza formale senza sostanza. Si crede, in buona fede, che tutto sia esaminato, discusso approfondito, sulla base del piano già studiato dall’ufficio tecnico del Comune; ma in realtà non ostante i pareri dei corpi superiori consultivi, è sempre questo che prevale nelle linee-base originarie. E non può essere diversamente.

Gli organi, attraverso cui passa un piano regolatore, sono: il Genio Civile ed il Consiglio Superiore dei Lavori pubblici per la parte tecnica; la Giunta provinciale amministrativa, il Ministero dell’Interno e il Consiglio di Stato per la parte giuridica e amministrativa; la Commissione provinciale sanitaria per gli aspetti igienici; la Soprintendenza ai Monumenti e il Consiglio Superiore delle Belle Arti nei riguardi artistici. “Bisognerebbe - disse S. E. il Ministro dei LL. PP. recentemente - che non funzionassero tutti questi congegni o ci fosse il partito preso di voler dichiarare guerra ad oltranza al passato e di voler alzare i gagliardetti dell’avvenire più o meno futuristico, per non sentire sufficientemente tutelato il patrimonio artistico e storico della Nazione”. Ebbene, Signori, io non dico che non funzionino codesti congegni: funzionano certamente, ma spesse volte come tante ruote che girano a vuoto. E i primi a dolersene sono gli eminenti uomini chiamati a cotali funzioni. Quali le cause? Non le cause, ma la causa: è una sola. Essa consiste nel fatto che tanti elevati corpi tecnici sono chiamati ad esaminare delle carte non delle cose; a esaminare, uno dopo l’altro, dei bei tracciati sulla carta, tenendo per guida la relazione dell’ufficio compilatore del piano, non a giudicare di questo sulla faccia dei luoghi. Sono rari i casi in cui un corpo tecnico superiore si sposta per un esame di questo genere; ma quand’anche i casi fossero frequentissimi, il risultato è sempre infelice. Poiché non una breve visita dei luoghi può dare la visione esatta delle conseguenze di un piano regolatore; e d’altra parte se la visita dovrà prolungarsi per tanto tempo quanto è necessario per uno studio particolareggiato del piano stesso, le difficoltà della lunga permanenza di un corpo tecnico superiore in una città diversa dalla propria sede diventano insormontabili.

Sono argomenti, lo so, terra terra; ma purtroppo certi fatti, che ci sembrano inesplicabili, hanno appunto queste umili cause. Ma ce n’è una meno umile: ed è la mancanza di un esame totalitario ed unitario di tutte le questioni edilizie, che si connettono a un piano regolatore, esame da farsi in un sol tempo e in contradizione con tutti gli interessi di un giuoco. Mettere in discussione il lavoro di un ufficio, che è costato mesi e mesi di fatiche, metterlo in discussione a gradi, sottoponendolo ora ad un corpo tecnico, ora ad un altro, è la cosa più illogica e inconcludente. Illogica, perchè ogni corpo tecnico, che voglia fare sul serio, deve rifare alla sua volta lo studio integrale del piano, e quindi vi porterà in aggiunta i propri criteri che spesso non si armonizzano coi criteri dell’altro corpo tecnico che lo esaminerà dopo; inconcludente, perchè, a voler far bene, sarebbe necessario sviluppare codesti criteri, spesso contraddittori, sulla carta a correzione del piano in esame, apportando così una complicazione tale che, per evitarla, si cercano tutti i mezzi per eluderla.

Questo c’insegna la pratica: e questo ho voluto dire, per giungere alla conseguenza che, sino a quando l’esame dei piani regolatori non sarà fatto da un corpo tecnico unico, in cui siano rappresentati tutti gl’interessi da tutelare, l’interesse economico, monumentale, paesistico, di viabilità, d’igiene - posti questi interessi sulla stessa base d’importanza - si avranno sempre a deplorare inconvenienti, tanto più gravi in quanto, dopo la approvazione del piano, sono irrimediabili. Si chiede, insomma, quel che il Capo del Governo volle per Roma. Vero è che nulla vieta ai Podestà di nominare delle Commissioni speciali, come quella di Roma, per l’esame dei piani regolatori delle rispettive città; ma, a prescindere che esse, di natura discrezionale del podestà, non evitano l’esame dei corpi superiori tecnici, di cui abbiamo discorso, nessuno vorrà negarmi che codeste Commissioni, se fossero prestabilite per legge, avrebbero ben altra autorità e sarebbero assai meglio costituite e più rispondenti ai varii interessi in giuoco. Sono convinto che, presto o tardi, si dovrà giungere a ciò.

Ma intanto l’Ufficio che ha, come quello a me affidato, la grave incombenza di applicare la legge in difesa del paesaggio italiano, non può non preoccuparsi di questo stato di cose in fatto di piani regolatori. Esso si trova spesso di fronte a precostituite posizioni di diritto, che non è possibile smontare. Una di queste posizioni formidabili è, come ho già detto, la presa di possesso delle aree. Si ha un bel dire: applicate rigorosamente la legge, e fate che un edificio, destinato a essere di cinque o sei piani per compensare il prezzo elevatissimo dell’area, sia ridotto a due, oppure che là dove erano stabilite costruzioni intensive sorgano invece dei villini, o non venga costruito affatto. Le opposizioni, fondate su uno stato di diritto qual’è quello che nasce da un piano regolatore approvato, sono assai più gravi di quel che non si pensi. E poiché è innegabile in esse un certo contenuto di moralità e di economia sociale, è assai difficile far prevalere la nostra azione fondata su d’un principio di estetica. Io mi sto studiando di evitare queste opposizioni o di ridurle al minimo, facendo studiare, là dove ancora è possibile, dei piani regolatori paesistici, nei quali siano già preventivate (mi si perdoni questa parola prettamente commerciale) le provvidenze in favore delle bellezze panoramiche della città. Un primo tentativo stiamo facendo a Genova, dove sono stati inviati dalla Direzione Generale delle Belle Arti due giovani architetti, che lavorano a tale scopo d’accordo col Comune e sotto la direzione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna del Piemonte e della Liguria. Siamo in viva attesa. Ma intanto mi giungono voci di contrasti derivanti dal regolamento edilizio. Anche questa del regolamenti edilizi è questione grave che sarei tentato di trattare dinanzi a Voi. Ma il discorso sarebbe troppo lungo; ed ho già la sensazione di avervi stancati. Sarà piuttosto opportuno toccare brevemente qualche altro punto assai delicato della difesa del paesaggio; e poi chiedervi venia. Esso sta nella mancanza di coesione fra le varie Amministrazioni dello Stato, in tal guisa che spesso una agisce in senso contradittorio all’altra, punto sospettando il danno che ne deriva all’interesse pubblico. Ne abbiamo dato da tempo l’allarme, insistendo in vario modo sul fatto che i maggiori pregiudizi nei riguardi della conservazione delle bellezze naturali si sono verificati e si verificheranno, assai più che per il capriccio e l’avidità di lucro dei privati, per la esecuzione di grandiose opere pubbliche progettate e concretate con la sola preoccupazione del punto di vista tecnico ed economico, e trascurando completamente le esigenze della bellezza del paesaggio. Alludo non soltanto alle opere di spettanza diretta dello Stato o di altri enti pubblici (quali, ad esempio, le strade ordinarie, le bonifiche, le sistemazioni dei bacini montani, ecc. ecc.) ma altresì quelle lasciate alla iniziativa di persone o di enti previsti, ma sottoposte per il loro grande interesse politico-sociale a concessione o ad autorizzazione amministrativa (si pensi soprattutto alla materia delle concessioni di acque pubbliche e di aree demaniali). Pure qualcosa la nostra insistenza ha ottenuto: ed è da mettere all’attivo nel bilancio di questi otto anni in cui la legge paesistica è in vigore.

Avveniva, infatti, che nelle concessioni di aree demaniali, i Comandanti delle Direzioni Marittime e delle Capitanerie di Porto permettessero il sorgere sulle spiagge di troppi stabilimenti balneari di cemento armato, di caffè, di Kursaal, che ingombravano sconciamente bellissime passeggiate littoranee e ostruivano la vista del mare. Ebbene abbiamo ottenuto da S. E. il Ministro Ciano una circolare del 10 agosto 1927 che impone di chiedere il parere delle Sovrintendenze ai monumenti nei casi di concessioni di aree demaniali per costruzioni di carattere stabile. Contiene codesta circolare limitazioni e condizioni, che potevano essere trascurate; ma ad ogni modo è sempre qualcosa che avvicina a quella collaborazione delle Amministrazioni interessate, che fu sempre nei nostri voti. Una simile circolare ottenemmo da S. E. Giuriati, già Ministro dei Lavori Pubblici, a proposito delle derivazioni d’acque in rapporto specialmente agl’impianti idro-elettrici. Varrebbe la pena di leggerla, ma non è breve. Dico soltanto che è diretta ai Provveditori alle opere pubbliche, agli Ingegneri capo del Genio Civile, a S. E. l’Alto Commissario per la città di Napoli e provincia, e per conoscenza al Presidente del Magistrato delle acque e all’Ispettore per la Maremma Toscana. Si dispone con essa che nelle ordinanze per l’istruttoria di domande di derivazioni di acque pubbliche sia, di regola, inserito l’inciso che l’ordinanza debba essere comunicata in copia alla locale Soprintendenza ai monumenti, affinché questa, conosciute le caratteristiche essenziali dei progetti e la data per le visite locali, possa, ove lo creda, prendere visioni degli atti depositati e intervenire agli accertamenti sopraluogo. Come vedete, siamo ben lontani dal giorno in cui la nostra azione era considerata con diffidenza e tale da evitarsi in tutti i modi. Non abbiamo potuto ancora ottenere nulla di simile dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste; ma credo che già ci siamo vicini. Intanto la Milizia Forestale non ci ostacola, anzi devo dire che in molti casi ci ha favoriti dimostrando di comprenderci. Si tratta ora di giungere ad una piena cooperazione. Ed io non dispero di giungervi.

Non ho bisogno d’intrattenermi su questi due punti importanti della tutela paesistica: acque e boschi; poiché persone più competenti di me hanno assunto l’impegno di portare in questo convegno il prezioso contributo della loro esperienza. Dico solo che negli ultimi cinque anni lo sfruttamento intensivo del nostro paesaggio ci ha molto preoccupati.

[...]

E qui fo punto - chiedendovi scusa se troppo ho abusato della vostra pazienza. Sarei ben felice - e certamente voi con me - se da questo Convegno fossero per derivare delle pratiche utilità. Le discussioni serene e amichevoli, animate dal solo spirito di bene, sono le sole, che possano condurre a ciò.

Ordine del giorno votato all’unanimità in seguito alla discussione della relazione Parpagliolo:

Il Comitato Nazionale per la difesa dei monumenti e del paesaggio, riunito dal Touring Club nella sua sede il 1° febbraio 1931, fa voti che la legge 11 giugno 1922 N. 778 sia resa più rispondente all’altissimo fine della protezione della singolare bellezza paesistica d’Italia, e quindi modificata in quelle disposizioni che durante gli otto anni in cui è in vigore; si sono manifestate inefficaci”.

Dalla lapide in bronzo a Piazza Antonio Gramsci, a Ghilarza (NU)

Ci sono in tutto il mondo milioni e milioni di persone che apprezzano gli asparagi, impareggiabile gustoso e sano prodotto di stagione. Ci sono, parimenti, altri milioni (?) di persone che gli asparagi li detestano, ma una buona parte lo fa perché vengono puntualmente proposti nel medesimo modo: scottati in acqua bollente, da intingere in un tuorlo d’uovo, magari con un pochino di olio d’oliva e/o di formaggio grattugiato. Ottimi, ma se stufano stufano.

Così un paio d’anni fa ho preso l’abitudine di stufarli io, prima che loro stufassero me.

La cosa più importante è dividere le punte dalla parte ancora morbida ma intermedia dell’asparago. Le punte si possono anche tagliar via con un coltello, ancor prima di slegare il mazzetto in cui vengono di solito venduti. La parte intermedia è quella che, piegando l’asparago, si spezza facilmente e in modo netto, in uno o due tratti. Il resto, naturalmente, è la parte che si butta.

Agli asparagi vanno aggiunti: aglio fresco, prezzemolo, sale e olio d’oliva.

Preparare in una casseruola un fondo di olio d’oliva e aglio fresco salato (più o meno, un intero gambo di aglio molto fresco tagliato a rotelline sottili, per ogni mazzetto di asparagi). Mettere a cuocere per circa 45 minuti a fuoco lento, coperti, i pezzetti intermedi degli asparagi, con l’aggiunta di una manciata di prezzemolo tritato e mezzo bicchier d’acqua. Poi verificando che non si sia asciugata troppo l’acqua sul fondo, aggiungere le punte e proseguire la cottura per altri venti minuti. Far asciugare del tutto, ed è fatto.

Tempo di preparazione (cottura a parte) 5-7 minuti. L’unica “difficoltà” è quella di giudicare quale parte degli asparagi buttar via, ma basta eccedere un po’ per evitare di trovarsi pezzettini legnosi, che comunque poi è facile scartare da cotti.

E, volendo, per salvare la tradizione, si può intingere nell’uovo, o cospargere di parmigiano grattugiato, anche questa versione.

Le triglie alla livornese sono buonissime. Punto.

Ma ad esempio la triglia di scoglio può essere un po’ caruccia sul mercato, oppure succede che quando si cerca di squamarla, quelle placche da carro armato ti schizzano per tutta la cucina, e le ritrovi ancora dopo tre giorni, magari in un’altra stanza, sotto le lenzuola. E poi il pomodoro, che c’è già con la pasta, l’insalata mista … Insomma, capita di cercare (anche qui, come in altri campi) l’alternativa.

Alternativa al caruccio sul mercato, perché i barboni o trigliette di fango vengono sempre via a molto, ma molto meno. Eliminazione totale della squama blindata sotto il cuscino, perché il barbone praticamente non va squamato. Ultimo tocco, che caratterizza e semplifica ulteriormente il tutto: via il sugo al pomodoro, e avanti il bianco del latte ristretto alle cipolle. Potevo chiamare questa roba clochards au lait, ma ho avuto pietà per chi non apprezza le battutacce.

Ingredienti per ogni persona: una manciata abbondante di barboni (3-400 grammi); un bicchiere di latte; mezza cipolla; sale, olio d’oliva. Insomma non dovete nemmeno uscire dal quartiere, sempre che non abitiate nell’allegra città diffusa … ma questa è un’altra storia.

Per pulire i barboni, il modo più semplice e rapido è quello dei tre tagli di forbice. Uno elimina la testa, badando di tagliare anche le due pinne anteriori; uno la coda; l’ultimo, perpendicolare agli altri due, taglia il ventre, ed elimina col medesimo gesto anche le pinne ventrali. A questo punto basta rimuovere le interiora con un colpo di pollice e il gioco è fatto. Dato che i barboni sono piccolini di taglia, se ne devono pulire parecchi, e quindi serialità ed efficacia dei singoli movimenti sono importanti.

Per il sugo, si mette un cucchiaio scarso d’olio (aggiustare ovviamente se aumentano le dosi) in una padella antiaderente, di cui si ha a disposizione anche un coperchio a misura che chiude abbastanza bene. Si aggiunge la cipolla tagliata ad anelli il più possibile sottili, si sala leggermente, e si lascia appassire a fuoco lento per qualche minuto. Poi si aggiunge il latte, e lasciando scoperto si fa continuare la cottura finché evaporata gran parte del liquido e sciolta la cipolla sul fondo non resta che una specie di crema.

Si aggiungono i barboni puliti, si sala di nuovo sopra i pesci, e si copre.

Il tutto si cuoce in una decina di minuti, con qualche variante a seconda della taglia dei pesci. Se possibile, meglio non girare, perché la carne potrebbe staccarsi dalla lisca e fare un piccolo pasticcio. Eventualmente, a cottura del pesce ultimata, far asciugare il liquido residuo.

Si accompagna benissimo a verdure cotte in insalata: patate, fagliolini, carote ecc.

Buon appetito

La selezione dal saggio originale e la presentazione che segue in corsivo sono tratti da Urbanistica informazioni , n 94, luglio-agosto 1987

Carlo Cattaneo (1801 - 1869) era ciò che oggi chiameremmo un "politico". Dai suoi scritti dedicati alla città e al territorio emerge con evidenza come la sua passione politica traeva la linfa dalle radici di un'indagine appassionata e lucida della storia della civiltà italiana, e come di quest'ultima egli soprattutto analizzasse, quasi svelandole, le ragioni, il "principio" leggibili nella città: che egli appunto considerava come «l'unico principio per cui possano i trenta secoli della istoria italiana ridursi a esposizione evidente e continua».

Il magistrale saggio, di cui pubblichiamo di seguito ampi stralci, fu pubblicato per la prima volta nel 1858. Esso può esser letto alla luce degli avvenimenti, e della speranza, di quegli anni: un contributo alla lotta per la traduzione in termini statuali dell'identità nazionale, un messaggio alla borghesia che di quella era protagonista. Ed è singolare, e oggi significativa, l'attenzione che Cattaneo poneva al rapporto tra città e territorio: è in questo rapporto, nella sua organicità e ricchezza, la ragione del porsi delle città italiane come nuclei fondativi della civiltà. È facile affermare oggi che, anche su questo punto, la borghesia nazionale perse la scommessa con la storia, e ridusse a utopia l'incitamento politico e pratico del Cattaneo: parallelamente alla disgregazione dell'agricoltura e al degrado del territorio, riusciamo difficilmente, oggi, a distinguere le città italiane da quelle «pompose Babilonie», città «senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità», che nelle pagine che seguono sono presentate come l'antitesi della città.

£ facile affermarlo, ma non è facile individuare oggi le strade da percorrere (e soprattutto le forze da mobilitare) per tradurre in atto l'utopia di Cattaneo. L'indagine di questo figlio, e protagonista, del Risorgimento ci aiuta comunque a comprendere meglio in quale direzione occorra muoversi. E vogliamo invitare il lettore a non limitare agli stralci che qui pubblichiamo la conoscenza dell'Autore che proponiamo. La sua attualità emerge anche in altri scritti. Ad esempio, in quelli raccolti nella succinta antologia curata da Manlio Brusatin per l'Editore Marsilio.

La città considerata come principio ideale

delle istorie italiane

In un paragone tra l'economia rurale delle Isole Britanniche e dell'Insubria inserto in questi fogli sul cadere dello scorso anno, abbiamo dimostrato come l'alta cultura (high farming), essendo una precipua forma della moderna industria, una delle più grandi applicazioni del capitale, del calcolo, della scienza, ed effetto in gran parte d'un consumo artificialmente provocato dall'incremento delle popolazioni urbane, non si può spiegare se non per l'azione delle città sulle campagne.

Ed ora, per quanto l'angustia dello spazio il consente, vorremmo ampliare questo vero fino al punto di dire che la città sia l'unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell'assidua composizione e scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtú e corruttela, di senno e imbecillità, d'eleganza e barbarie, d'opulenza e desolazione; e l'animo ricade contristato e oppresso dal sentimento d'una tetra fatalità.

Fin dai primordii la città è altra cosa in Italia da ciò ch'ella è nell'oriente o nel settentrione. L'imperio romano comincia entro una città; è il governo d'una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo. [...].

La prisca Europa fu dapprima un'immensa colonia dell'oriente, come in questi tre secoli l'America fu colonia dell'Europa. Ma per due vie, e con due ben diversi gradi di civiltà, qui pervennero le genti orientali. Le une peregrinarono lentamente per terra, tragittando al più l'uno o l'altro Bosforo, e traendo seco dall'Asia, coi frammenti delle lingue e religioni indoperse, la pastorizia e una vaga agricoltura annua, senza fermi possessi privati, quasi senza città. [...].

Vaganti per lo squallido settentrione in sempiterna guerra, e mescolate qua e là colle tribù aborigene dell'Europa selvaggia, esse apparirono poi barbare a quegli altri popoli che, oriundi pur dall'Asia, erano approdati navigando alle isole e penisole della Grecia, dell'Italia e dell'Iberia.

Questi, uscendo dalle città dell'Egitto, della Fenicia, della Libia, della Frigia, della Colchide, non pensavano di poter vivere nella nuova patria se anzi tutto non consacravano a stabile domicilio uno spazio, urbs; e lo chiudevano con cerchio di valide mura, che il corso dei secoli non ha dovunque distrutte. Prima essi facevano le mura; e poi le case. E così fermati per sempre ad un lembo di terra, erano costretti ad assegnarlo con sacri termini ai cittadini, affinché questi avessero animo di fecondarlo con perseveranza e con arte. L'agricoltura era provvida e riflessiva, perché la dimora era immobile e il possesso era certo. [...].

In Italia il recinto murato fu in antico la sede comune delle famiglie che possedevano il più vicino territorio. La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d'altro popolo che prende nome d'altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente. Il nostro popolo, nell'uso domestico e spontaneo, mai non diede a sé medesimo il nome geografico e istorico di lombardo; mai non adottò famigliarmente quelle variabili divisioni amministrative di dipartimenti e di provincie, che trascendevano gli antichi limiti municipali. [...].

Questa adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica, uno stato elementare, permanente e indissolubile. Esso può venir dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato d'ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell'attrazione o compressione per qualsiasi vicenda vien meno, la nativa elasticità risorge, e il tessuto municipale ripiglia l'antica vitalità. Talora il territorio rigenera la città distrutta. La permanenza del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le istorie italiane. [...].

Le colonie greche in Italia sono interamente libere e regine; non hanno vincolo fra loro né colle città madri, benché abbiano l'amicizia di queste e talvolta il soccorso. Le città dette propriamente italiche sono libere in sé; ma il supremo diritto di guerra e di pace è limitato da patti federali più o meno larghi colle altre della medesima lingua, o da trattati colle rivali, o dall'autorità delle più potenti. Le colonie partecipano alle guerre, alle paci, alle alleanze delle città madri, e sorgono o cadono colla fortuna di queste. Ma ogni città si governa da sé, dentro i termini della sua terra. E anche quando è costretta a guerre non sue, milita sotto le sue proprie insegne e i suoi capitani. L'indole armigera e magnanima è comune a tutte. Tale è la prima éra delle città italiane.

Roma, sorta al confine di tre lingue, la latina, la sabina, l'etrusca, pare costituirsi dalla vicinanza e dalla graduale coesione di tre colonie, poste forse a vigilar reciprocamente all'estremo confine, sui colli che sorgevano come isole in mezzo alle paludi, presso il confluente di due fiumi arcifinii, il Tevere e l'Aniene. Le tre castella nel corso degli anni divennero tribù d'una città comune, in cui per l'opportunità del luogo poté accasarsi maggior numero di Latini e la loro lingua prevalse. Pel connubio delle tre stirpi le loro tradizioni religiose, civili e militari nei posteri si vennero confondendo. Roma fin da origine ebbe ad unificare in sé tre sistemi; ebbe a darsi una civiltà triplice, ad esercitare un triplice ordine d'idee. Colla combinazione di queste, ella si pose a capo delle tre nazioni, e quindi mano mano di tutta la penisola, assimilando, appropriando, assorbendo, mentre ognuna delle altre genti rimase confitta nelle sue idee prime; epperò predestinata a soccombere ad una volontà retta da più vasto e potente pensiero.

Nel seguito delle guerre, in molte città vennero poste come colonie, cioè come presidii perpetui, centinaia anzi migliaia di famiglie romane; fra le quali furono divise le terre confiscate alle famiglie più avverse o a tutto il comune. Ma restò sempre alle sole città italiche l'onore e il profitto della milizia romana. Uomo d'altra nazione non venne mai scritto nelle legioni della repubblica. Anzi l'antica coorte si componeva d'un manipolo romano e d'uno latino; e il centurione latino si alternava nel comando col romano. La milizia italica durò finché durò la milizia romana. Da Roma usci l'esercito; dall'esercito romano usci la nazione. [...].

Così mentre il romano propagava per tutti i municipii la sua milizia, il suo commercio, l'usura, i possedimenti, i connubii e i varii gradi della sua cittadinanza, le singole città, quanto più si congiungevano a Roma, tanto più si disgiungevano dalle città consanguinee. Ma nella dispersione delle leghe, nell'oblio delle lingue e delle religioni, nell'esterminio delle minime città, il cui territorio colle immani confische delle guerre sociali e civili era inghiottito forse in un solo latifondio, quei municipii ch'erano largamente radicati nelle campagne, sopravvivevano; anzi si chiudevano più saldamente in sé, per la maggior distanza del centro comune. Tutto ciò che non si fece romano, ebbe a farsi più strettamente municipale.

Né le sole famiglie più oscure si saranno attenute all'antico nido; ma forse quelle appunto ch'erano state in altro tempo più illustri. Sdegnose, e contenute nell'odio, esse avranno anteposto alle ambizioni romane la tacita riverenza dei cittadini. Questo è nell'indole costante della nazione; e più volte si avverò. A questa stoica accettazione d'una dignitosa oscurità si deve la tenace e continua vita dei municipii nelle età più infauste e desolatrici. [...].

Dopo le guerre civili e le proscrizioni e la conquista della Liguria e della Rezia, al limitare dell'éra nostra, v'è in Italia una sola nazione, unificata e rappresentata in una sola città. Le altre non hanno autorità sovrana se non in quanto sono ascritte alle tribù di questa; schierate sotto le sue insegne, hanno parte alle spoglie del mondo. Ma quell'unica sovranità è già in nome del popolo afferrata dai Cesari. I Cesari sono l'ultima conseguenza e l'ultima espressione dell'unità.

Le legioni vengono relegate alle frontiere. Roma è data in guardia ai pretoriani. L'Italia è armata; e tiene colle armi un immenso imperio. Ma le sue città sono tutte inermi. Così si compie l'éra seconda. [...].

In seno alla pace, l'Italia, meta comune di tutte le nuove vie che collegavano le provincie, porto d'un mare tutto suo, dimora delle famiglie che avevano conquistato i regni, versò i tesori del mondo nella decorazione delle sue città e de' suoi campi. Il Tevere, diceva Plinio, e ornato e vagheggiato da più ville che non tutti gli altri fiumi della terra.

A misura che si estinguevano le famiglie educate nell'eredità degli onori e delle conquiste, e che il senato si faceva ossequioso e il popolo si disusava dalle armi, la truce ragione di stato dei Tiberii e dei Seiani poteva placarsi. I capitani che la fortuna inalzava al comando delle legioni e al nome di Cesari, non furono più spinti a incrudelire contro i privati per propria salvezza. Interrotta dal solo Domiziano, potè continuarsi nell'imperio una serie d'uomini come Vespasiano, Tino, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio. Ma con tutta la loro saviezza, pur non potevano non obbedire alla logica del potere che li traeva ad emanciparsi sempre più dall'aura popolare, dalle armi cittadine, dalle repubbliche municipali, dal predominio dell'Italia, la quale irradiava le native sue istituzioni su tutto l'occidente. Cominciarono essi a coscrivere nelle estreme provincie le legioni che dovevano presidiarle. E siccome è nella natura delle cose che gli armati non restino inferiori di condizione agli imbelli, infine, sotto Caracalla (a. 212), la cittadinanza romana fu accomunata a tutti i sudditi dell'imperio. Il che vale quanto dire che fu abolita. [...].

Così nella terza éra le città italiche, opulente, ornate d'arti e di lettere, penetrate da un alto senso di ragione e d'umanità, erano vicine a perdere insieme alla cittadinanza romana ogni distintivo di nazionalità. Era un decadimento velato dall'apparenza della prosperità della cultura e del dominio. Ciò che i Cesari avevano rispettato e adulato nelle città italiche, era il soldato romano. Abolito il soldato e il cittadino, l'Italia, sebben sede del1'imperio, non era altro ormai che una provincia.

Dopo Caracalla, per tutto il secolo III, i capitani d'un esercito sempre più straniero si contesero colle armi l'imperio e la vita. Ma tutti, per orgoglio militare e per illimitato arbitrio, dovevano aborrire ogni rappresentanza municipale; e più di tutto quella che pareva una continuazione della repubblica romana. [...].

Con Diocleziano ebbero principio sette secoli di barbarie, fino al risorgimento dei municipii, verso l'anno mille.

E per verità, che sogliamo noi significare anche oggidì quando chiamiamo barbara l'Asia? Non è già che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più d'un modo di squisita industria, e certa tradizione d'antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e Romani sentiamo in mezzo a tuttociò un'aura di barbarie. Ed è perché in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii basterebbe a infondere nell'India decrepita un principio di nuova vita

Adeguata alle provincie dell'Asia, l'Italia cadde al pari di esse sotto il flagello della fiscalità. In breve si vide desolata la campagna, disgregato dagli esattori il retaggio avito della città.

Intanto le false legioni, coscritte fra quei medesimi barbari ch'esse dovevano combattere, e prive di quell'arte militare ch'è il frutto e il compendio d'un'alta civiltà, erano di tanto infida e vana difesa che poco dopo Caracalla già le orde nomadi poterono penetrare nel mezzo dell'Italia, che non perciò dai Cesari venne armata; pensarono essi ch'era meglio vederla desolata che vederla forte. I popoli, non potendo più distinguere in quel diluvio straniero gli eserciti amici dai nemici, disfacevano i ponti e le strade per disviare le invasioni. Le città isolate in mezzo a squallide solitudini caddero in rapida miseria e ruina. Poco dopo Costantino, S. Ambrogio le chiamava: semirutarum urbium cadavera.

Ciò si sa perché Costantino avesse abbandonato l'Italia. Finché l'Italia era la sede dei regnanti, sempre la memoria del suo primato suonava nell'animo delle nazioni come la voce del diritto. E le nuove pompe asiatiche, delle quali divenivano solenni legislatori e antistiti gli eunuchi, non potevano senza amaro disdegno esser mirate dal popolo romano sempre ricordevole dell'antica potenza e maestà. Quindi irresistibile nei Cesari il pensiero di trasferire sul limitare dell'Asia la sede dell'imperio, volgendo a tal uopo la stessa poetica tradizione che poneva in quei luoghi la madrepatria di Roma. Quindi l'Italia tramutata in frontiera, spogliata di quelle difese e di quei privilegi che si riservano alla sede dei regni.

Nella quarta éra le città d'Italia sono adunque sottomesse al regime asiatico, subordinate ad una capitale quasi asiatica, civilmente e moralmente associate all'Asia. Anzi in tal condizione rimasero molte città marittime per tutto quasi il medio evo; fu questa la forma della loro barbarie. [...].

Ma la rimanente Italia soggiacque ad altra più profonda sovversione dell'ordine municipale e a più intenso grado di barbarie, quand'ebbe a stabili abitatori suoi gli stessi barbari.

Per volgo degli scrittori, l'invasione gotica e longobarda è l'ultimo esito d'un'inveterata guerra tra Roma dominatrice e le nazioni vergini e libere del settentrione. Non è cosi. Goti e Longobardi non avevano mai avuto a difendere i patrii deserti dalla conquista romana; non combattevano pei loro diritti; ma erano in uno od altro modo mercenari o vassalli o profugi nelle terre bizantine; e fattisi ribelli, venivano riversati per ripiego dei governanti verso l'Italia, ch'era divenuta per questi una frontiera al di là dai mari e dai monti. [...].

Intanto erano isolate nel secolo quinto e sesto le città, perché vi si era introdotto di recente l'uso rituale della lingua latina, o conservato forse in alcune il primiero uso della greca, ma nelle campagne, presso la casta militare, dominava la fede ariana e la lingua gotica, e presso le genti rustiche il culto degli antichi Dei.

Ebbene, in tanta confusione, la forza dei municipii comunque prostrati e conculcati, fu tanta, che il rituale latino poté uscirne ad occupare insensibilmente tutta la superficie dell'Italia. E a misura che il paganesimo spariva dalle campagne, i confini tra l'una e l'altra diocesi vennero a coincidere all'incirca con quelli delle antiche giurisdizioni municipali, che rappresentavano altri più vetusti termini di popoli e religioni. Era come una selva atterrata che ripullula da sepolte radici. La stessa casta longobarda, opponendo un vescovo ariano ad ogni vescovo latino, accettò e sancí quelle prische circoscrizioni. Il municipio fu più forte della conquista. [...].

Il dominio dei Longobardi fu men vasto di quello dei Visigoti, degli Eruli, degli Ostrogoti e molto più lontano dal raggiungere l'unità, ed ebbe più poderosi nemici dentro e fuori; eppure durò due secoli, quando quello degli Ostrogoti che abbracciò tutta l'Italia durò solo sessant'anni; e quelli degli Eruli e dei Visigoti assai meno.

Tutti questi regni, ed altri, caddero non perché fosse loro troppo angusta la terra e poca la gente, sicché non potessero affrontarsi con qualsiasi altra potenza dei tempi loro; ma perché non avevano radice nei popoli, perché si erano grettamente appresi alle glebe dei feudi e alle chiuse delle Alpi, e non all'antica forza municipale, al comizio, al tribunato, al foro; non si erano assimilate le città come i Romani; non le avevano fraternamente ascritte alle tribù e alle legioni. Avevano bensí i loro malli e arringhi, i loro parlamenti armati, ma in disparte dei popoli. E non erano più che i consigli di guerra di una casta militare; non erano più che lo stato maggiore d'un esercito disseminato per una terra, sulla quale da più generazioni esso nacque e rinacque come pianta parassita, senza prendere innesto sul tronco nativo, né appropriarsi la legge della sua vita.[...].

Nei quattro secoli incirca del dominio gotico e longobardo, la barbarie andò crescendo; poiché nessuno poteva inalzarsi se non seguendo ed imitando i barbari. Le città non erano apprezzate se non come fortezze; i cittadini, come tali, non avevano parte nelle cose del regno; né avevano potere alcuno sulle proprie sorti; il municipio era quasi disciolto e abolito. Le buone tradizioni si andavano sempre più spegnendo di generazione in generazione. II male non è il bene; barbarie, ruina, distruzione non è progresso. Milizia, agricoltura, commercio, scienze, lettere, l'alfabeto stesso, andavano in oblio. La gente più non aveva valore né virtù. I barbari si andavano spegnendo, insieme alle città che avevano desolate. [...].

Non più favorevole alle città italiche fu l'éra settima, o vogliam dire la dominazione di Carlomagno e de' suoi posteri e pretendenti, per l'indole sua feudale e rusticana. Ma giovò ad esse l'odio suo contro i Longobardi, e più ancora la debolezza e caducità delle sue istituzioni.

Già si sa che Carlo medesimo non sapeva scrivere; né alcuno darà colpa a lui dell'ignoranza del secolo in cui crebbe. Ma gli scrittori sinceri non possono negare che le sue istituzioni fecero le città d'Italia più barbare che non le avessero lasciate i Goti. Da Carlomagno il secolo del ferro. [...].

Al tramonto di quella abbagliante meteora di Carlomagno, l'imperio suo, accerchiato da cinque nazioni nemiche, non aveva già più difensori. [...].

Il flusso e riflusso della conquista nell'inerme retaggio di Carlomagno si sarebbe ripetuto senza fine con altri barbari, come da tempo immemorabile nella imbelle Mesopotamia. [...].

Da quel tempo non fu più fatto ostacolo a qualsiasi signore di provvedere a sé ed a' suoi. In poche generazioni, sull'intera superficie dell'imperio si venne tessendo con nuovi elementi una feudalità locale, che ridusse a torri e castella le case, murò i villaggi, armò i servi più gagliardi; ospitò profughi, tollerò asili, e anziché far traffico della propria gente da' Greci e Musulmani, come al tempo di Carlomagno, ne comperò dalle terre germaniche, e più dalle slave, per ripopolare i deserti. [...].

Disperse per entro alla selva delle castella, le città non ebbero nemmeno più il privilegio d'essere il rifugio dei potenti fra le incursioni dei barbari; rimasero tanto più disarmante e avvilite. [...].

E così mentre oltralpe i feudi sopraffacevano le deboli città, in Italia si poterono alzare, una a fronte dell'altra, due milizie. L'una urbana composta di liberi artefici, mercanti, scribi e altri superstiti delle famiglie degli antichi giureconsulti e sacerdoti, divisa per arti o per porte, pronta ad accorrere sulle mura, ricordava le tribù civiche della prisca Italia; celava in sé il principio d'un risorgimento integrale. L'altra sparsa per le foreste del contado, composta di castellani e torrigiani e di loro bastardi e bravi, si attruppava intorno alle romite muraglie di Biandrate, di Castel Seprio, di Castel Marte, ove una gotica strategia aveva posto il ricapito delle cavalcate feudali. La diversità delle giurisdizioni e delle leggi, ch'erano romane nella città e confidate a giudici elettivi, mentre nelle campagne erano più sovente longobarde o saliche, e confuse colla disciplina militare e coll'arbitrio feudale, fecero si, che il servo della gleba potesse anch'egli farsi franco, purché solo riuscisse a fuggire e a lucrarsi colle braccia il pane nella prossima città o nella sua giurisdizione. Quindi crescente ogni giorno il popolo urbano; e per forza di ciò, maggiore ogni anno nel contado la necessità d'armare altri gagliardi, e interessarli con franchigie e feudi e livelli alla difesa delle castella.

Le città, non appena riscosse dal letargo dei secoli gotici, espandevano dunque in circuito un'influenza avvivatrice che rigenerava anche il patto feudale; ed era più possente, ov'esse erano mercati e officine di più largo contado, mentre le città piccole e povere della montagna o delle terre basse e impaludate, e quelle che avevano più patito per le ultime invasioni, dovevano rimaner più ligie alla feudalità. Pertanto esse dovettero recare fino a più tarda età, non l'impronta longobarda, ma l'impronta dell'età dei Longobardi, non perché fossero in origine più barbare, ma perché trovarono intorno a sé minori sussidi a uscir dalla barbarie.

Il fatto supremo si è che per tutte le dominazioni gotiche, longobarde e franche si era trasmesso nella ierarchia episcopale quell'ordine di preminenza in cui le città stavano fra loro nei tempi in cui quella erasi instituita. Sempre Roma era stata nell'ordine sacro la prima città d'Italia; sempre Milano era stata la seconda Roma; il primato ambrosiano comprendeva Torino e Genova, si dilatava oltremonti fino a Coira e Ratisbona. Le città non emergevano dunque come dal fiume dell'oblio, ma come da lungo sonno, con tutti gli orgogli dell'antico stato. [...].

Nel primo secolo dopo il mille, che si può chiamare l'éra ottava delle città, le guerre tra i primati e le diocesi suffraganee, tra la chiesa ambrosiana e la romana, tra i pontefici e la dinastia salica a cagione delle investiture; e infine la prima crociata, ebbero tutte un'indole teocratica. [...].

Ma già nel principio del secolo seguente, ossia nell'éra nona delle città, le guerre si fecero secolari e mondane, benché fossero in parte effetto e continuazione delle rivalità episcopali. Dapprima le città contesero in cerchio colle città finitime, come già l'antica Roma con Sabini e Latini. Esse dovevano ristabilire le giurisdizioni e i confini che la geografia militare dei barbari aveva trasandati e manomessi. Poscia in cospetto del possente Barbarossa le inimicizie vicinali si atteggiarono in due grandi leghe. E finalmente, dopo trent'anni di guerra, la pace di Costanza introdusse nella legge imperiale le città libere. [...].

Ebbene, qui vediamo fin da quei remoti tempi le nostre città dare il primo esempio di quella grande innovazione sociale che ora soltanto vediamo iniziarsi in Russia e in Polonia, quale imperiosa necessità di tardo secolo. Tra i molti fatti che Giuseppe Ferrari trasse dalle tenebre delle croniche municipali, e ordinò e chiarì ne' suoi studi su i Guelfi e Ghibellini, nessuno è più degno d'essere ricordato ai posteri e additato alla malevola Europa di quello ch'ei raccolse in una cronica bolognese: "Nel 1236 furono liberati tutti i contadini; e il popolo di Bologna li comperò a denari contanti; e si decretò sotto pena della vita che non si avesse a tener più alcuno per fedele (cioè schiavo); e il comune riscattò i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro beni" (V. II, 231). Chi faccia ragione di sei secoli d'intervallo, dovrà dire che questo fatto supera al paragone anche quel glorioso decreto, col quale il parlamento britannico consacrò cinquecento milioni di franchi a redimere tutti i Negri delle sue colonie.

Liberato a questo o ad altro patto o anche a forza il contado, si trovarono con ciò risuscitati i comuni rurali. Le selve e montagne, su cui la caccia feudale aveva steso le sue gotiche interdizioni, o furono rese all'aratro, o partecipate in possesso a tutto il popolo, come già nella lontana éra celtica. I servi affrancati, coscritti dalla città in cerne, riebbero anche il virile diritto di portare le armi private che la legge feudale aveva loro interdetto sotto pena di mutilazione o di morte. Tutte le popolazioni vennero unificate sotto il nome della loro città, la cui legge si stese su tutta l'antica sua terra.[...].

Nel tempo medesimo, dalle consuetudini dei naviganti e degli artefici si svolse il nuovo diritto commerciale e marittimo, che parve un'esenzione e un privilegio concesso ai mercanti, e ch'era la più pura formula dell'eguaglianza, tra gli individui non solo, ma tra le nazioni che il commercio conduceva a incontrarsi. E così usciva dalle città un nuovo diritto delle genti.[...].

La terra sgombra di servi, libera dalle sbarre e chiuse feudali, non più stabilmente assediata dalle masnade castellane, percorsa da vie la cui custodia, tolta ai vescovadi, fu data alle corporazioni stesse dei mercanti, venduta, comprata, divisa, suddivisa per progressivo influsso del diritto romano in liberi patrimoni, vide diradarsi le foreste, sfogarsi le paludi, ristaurarsi le grandi arginature dei fiumi già intraprese dalle antichissime città etrusche.

Ma il dono più magnifico delle città alle campagne fu quello delle generose irrigazioni ch'esse con pensiero provvido e con braccio possente e irresistibile condussero, ad onta di tutte le barbare immunità, per vasti territori intorno a Milano, a Novara, a Pavia, a Lodi, a Cremona, a Brescia. Fa stupore, veramente stupore, che siffatte imprese potessero aver principio e compimento in quegli anni medesimi in cui le travagliate città combattevano fra le stragi e le ruine. Perocché il canale del Ticino si crede intrapreso (1179) tre anni dopo la battaglia di Legnano su le pianure medesime ove fu combattuta. E la Muzza, il più grande dei canali irrigatorii, fu aperto dopo la battaglia di Casorate contro Federico II e i suoi Arabi (1239). Allora gli statuti diedero alle acque irrigatrici il diritto di libero passo, diritto che alcune delle più civili nazioni non sanno ancora oggidi conciliare colla nuda idea d'un'assoluta proprietà. Epperciò un ingegnere scozzese la chiamò con frase del suo paese la Magna Charta dell'irrigazione (Baird Smith, Italian irrigation, V. I.).

Con altro pensiero affatto nuovo in Europa, le città condussero le acque con tale proposito, da servire anche alla navigazione (1257). E così si poterono tanto più facilmente diradar le selve su le pianure, in quanto si poté allora supplire con quelle di lontane alpi ai bisogni delle città; e si ebbe dovizia di materie a riedificarle.

Il cronista di Bologna scrisse: "Il Comune riscattò i servi e le serve del contado e i signori conservarono i loro beni". Ma egli non s'avvide, e non s'avvidero allora i popoli, che i signori, oltre al conservare i loro beni, li avevano, per quel riscatto dei servi e delle serve, immensamente accresciuti. Quando la foresta feudale, sparsa qua e là di rari campi e popolata di pochi schiavi e da frotte di porci e cignali, si tramutò in poderi coltivati da livellaria e mezzadri, che potevano alimentare l'agricoltura coi frutti delle loro fatiche o con prestiti di denaro altrui; quando le vie libere e i liberi fiumi ed i canali condussero i viveri alle città; e queste crebbero per nuove industrie a cui la rude Europa pagava allora tributo, è chiaro che un feudatario, il quale, sullo spazio ove gli avi suoi tenevano cento capi di schiavi, poté dar lavoro a mille liberi agricoltori, e vide ricercarsi le sue derrate a prezzo inudito, si trovò, per influenza delle città, sollevato a favolosa opulenza. [...].

IMPORTANZA DELLA STORIA DEL TERRITORIO IN ITALIA

Partiamo da una domanda semplice e fondamentale. Perché è importante, in Italia, la storia del territorio? Certo, l’utilità di una tale storia vale ovviamente per qualunque altro Paese. Ma in Italia le ragioni della sua rilevanza rivestono un carattere del tutto peculiare. E questo, innanzi tutto, per motivi che riguardano il nostro passato millenario.Tuttavia, prima di svolgere le mie considerazioni debbo confessare di utilizzare con un certo disagio e insoddisfazione il termine territorio. Certo, si tratta di una parola polisemica, dunque utile, che ogni disciplina curva in maniera più consona agli aspetti che vuol trattare. Ma è un lemma che appare ormai inadeguato a designare il complesso di fenomeni che con esso tentiamo di abbracciare. La nozione di territorio, infatti, non si limita soltanto a designare il suolo, il terreno, ma comprende anche le acque, il clima, il regime delle piogge, la flora, la fauna. Nel territorio non ci siamo solo noi, esso non è il fondale inerte delle nostre attività, ma un campo di forze in movimento, talora collegate in forma di sistema. A tal fine il termine habitat, che intercaleremo, come sinonimo, si presta forse meglio a togliere unidimensionalità a una parola che oggi appare, del resto, troppo logorata dall’uso.

L’Italia è un Paese profondamente riplasmato dall’azione umana, artificiale. In Europa è comparabile solo con i Paesi Bassi, che hanno dovuto lungo i secoli strappare la terra al mare attraverso il sistema dei polders. Ma nel nostro Paese il processo di civilizzazione è più antico e le forme della manipolazione dell’habitat più varie e complesse. Sereni, nella sua Storia del paesaggio agrario italiano ha ricordato come già Goethe avesse osservato, nelle sue peregrinazioni in Italia, la marcata originalità dell’impronta romana sulla Penisola. Una civilizzazione – fatta di ponti, acquedotti, cisterne, strade, porti, cinte murarie, ecc - che durava e operava sul nostro territorio come una "seconda natura".

L’Italia, d’altra parte, è stata per eccellenza una terra di bonifiche: vale a dire il teatro di quelle opere volte a prosciugare paludi, arginare fiumi e torrenti, colonizzare pianure. Tutte le popolazioni che si sono insediate nel tempo nei vari siti della Penisola hanno operato trasformazioni territoriali per fondare e sviluppare le loro economie ed edificare gli abitati. Gli Etruschi, com’è noto, hanno operato nell’Italia centro-settentrionale, i Romani nella Valle del Tevere – ma poi in tutti gli altri territori dove è giunto il loro dominio – i coloni greci nell’Italia meridionale. In età medievale la bonifica è stata il motore di vaste trasformazioni ambientali che hanno mutato il volto di intere contrade e dato impulso allo sviluppo dell’agricoltura. Nella Valle del Po i monaci Benedettini hanno promosso un’opera grandiosa di prosciugamento di paludi, dissodamento di boscaglie, conquista di terra fertile grazie alla capacità di attrazione delle rade popolazioni contadine tramite contratti vantaggiosi che implicavano la bonifica territoriale. Non dobbiamo dimenticare che nel Medioevo la pianura padana era ben lontana dall’avere l’aspetto attuale. Molte terre erano coperte dalle acque e le popolazioni si spostavano più facilmente in barca che per le vie di terra. Il Po non era un corso d’acqua disordinato e mutevole ed sondava in innumerevoli bracci, insieme a tanti altri fiumi alpini, per la grande pianura.

In questo stesso ambiente è stato d’altra parte avviata un’opera davvero grandiosa di utilizzazione delle risorse idriche. Sin dal Medioevo, soprattutto in Lombardia, ma anche in Piemonte, sono state realizzate grandi canalizzazioni finalizzate al trasporto, ma anche all’uso dell’acqua per scopi di irrigazione .Nel XII secolo venne realizzato il Tesinello, cioè il Ticinello (poi Naviglio Grande) e nel secolo successivo il canale della Muzza, il più grande costruito in Europa fino al XVIII secolo. E un numero davvero notevole di canali, rogge, fontanili, sono stati costruiti nella Bassa Pianura in tutti i secoli successivi, toccando il culmine con la costruzione del Canale Cavour, in Piemonte, all’indomani dell’unità d’Italia.Per la sua costruzione si misero allora in piedi e si associarono ben 20 mila consorzi di proprietari. Tutte queste opere, indirizzate alla manipolazione e all’uso dell’acqua, hanno dato un grande impulso all’agricoltura, all’industria – grazie all’erogazione di forza motrice - e al commercio.Al punto che un grande ingegnere idraulico, ancora negli Trenta del XX secolo, ha potuto scrivere: "Ogni provincia dell’alta Italia guarda ai fiumi come alle leve maggiori della produzione ". Ma naturalmente questo secolare processo di derivazione delle acque fluviali ha impresso caratteristiche peculiari al territorio, e al tempo stesso ha plasmato anche la cultura delle popolazioni.Esse sono state obbligate per secoli a forme di cooperazione – come quella dei Consorzi, sorti fin dal Medioevo – per realizzare le grandi opere necessarie all’espansione delle attività produttive e del commercio.Naturalmente, anche nel’«Italia appenninica» lo sforzo delle popolazioni di attingere l’acqua e di impiegarla a scopi produttivi è stato intenso e continuo nel tempo, anche se ha prodotto modificazioni meno vistose nel territorio.D’altra parte, bisogna comprendere che nell’Italia centro-meridionale non dominavano i grandi fiumi alpini, ma i corsi appenninici, di natura prevalentemente torrentizia.

Tanto le bonifiche che i lavori idraulici hanno naturalmente interessato il nostro territorio per tutta l’età moderna e contemporanea. E in tutte le regioni d’Italia. Nel Regno di Napoli,ad esempio, soprattutto nel corso del XIX secolo, sono state realizzate importanti esperienze di bonifica ed elaborati studi e leggi di notevole modernità che sono stati poi ripresi e nella prima metà del XX secolo . I vari Stati preunitari, infatti, hanno continuato, con vario impegno e fortuna, l’opera avviata nel medioevo. Ma anche il nuovo Regno unitario dopo il 1861 ha avviato un sempre più incisivo processo di bonificazione soprattutto a partire dalla Legge Baccarini del 1882. Naturalmente qui non è possibile entrare nel merito di questa vicenda, che ha conosciuto successi e insuccessi nei vari ambiti della Penisola, ma su cui ha impresso un’impronta profonda e spesso – non solo nel bene –irreversibile. Quel che si vuole invece sottolineare è la straordinaria continuità del processo storico. Chi scrive ha potuto ricostruire tante opere di bonificazione realizzate in età contemporanea nelle varie regioni d’Italia grazie agli scritti (opuscoli, perizie, progetti, ecc) degli ingegneri impegnati in prima persona nei lavori di bonificazione. Ebbene, si può dire che non c’è scritto, di bonificatori attivi in Italia tra il XVIII e il XX secolo che, operando su un determinato sito, non contenga notizie storiche sulle bonifiche realizzate in passato in quella stessa area. Non c’è ingegnere che non si senta obbligato a fare un po’ di storia sulle attività che hanno preceduto la sua opera. Anche perché spesso, nel lavoro di scavo capitava di rinvenire le tracce delle opere precedenti, più o meno antiche. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, non solo della dimensione di lunga durata delle bonifiche sul nostro territorio, ma della ininterrotta stratificazione della manipolazione umana su di esso.

Bene, sin qui si è parlato di storia. E a questo punto – se ci fermassimo qui - qualcuno potrebbe dedurre che conoscere la storia del nostro habitat è importante per ragioni meramente culturali e morali: perché su di esso sono state realizzate grandi opere che è giusto non far cadere nell’oblio.Le giovani generazioni devono conoscere gli uomini e le vicende che hanno portato il paesaggio che hanno attorno ad assumere le attuali fattezze. In realtà non si tratta solo di questo, che già sarebbe tanto. Conoscere il passato senza fini utilitaristici è, infatti, un grande esperienza culturale formativa. E,’ prima di ogni altra cosa, un’opera di "bonificazione della mente", che, nella nostra epoca, è ormai piegata a considerare importante solo ciò che presenta una evidente utilità strumentale.

In realtà, la conoscenza del nostro passato è importante anche per ragioni civili e politiche rilevantissime che investono il nostro presente. Se così lunga e continua è stata l’opera di rimodellamento dell’habitat italico ciò non è dipeso soltanto dalla vetustà degli insediamenti umani e dall’operosità delle popolazioni, ma anche dalle caratteristiche fisiche del nostro territorio. Tante opere di bonifiche sono state necessarie perché l’orografia, la natura del suolo, la morfologia delle terre, il sistema idrografico le hanno rese necessarie. Il nostro è, infatti, un Paese geologicamente giovane, in continua evoluzione. Ricordo che l’Italia è il solo Paese d’Europa ad avere ben 4 vulcani attivi. E quindi il suo è un suolo di recente formazione, ancora instabile, segnato e funestato da una intensa periodicità di eventi sismici. Quasi la metà del territorio nazionale è soggetto in grado elevato alla funesta ricorrenza di tali fenomeni. E qui entriamo in un area di problemi nella quale l’importanza della storia del territorio appare in tutta la sua ovvia evidenza. Infatti, è solo grazie alla paziente ricostruzione della storia dei terremoti che noi disponiamo di una carta sismica con cui conosciamo anche la "storia sotterranea" del nostro suolo. E’ la ricostruzione del passato che ci informa sulla fragilità e instabilità di alcune aree, ci suggerisce le necessarie strategie dell’edificazione, i moduli di costruzione degli abitati e dei manufatti.

Ma il suolo peninsulare è segnato anche da molti altri elementi di fragilità. Abbiamo fatto cenno alle bonifiche nella Pianura padana. Ebbene, è il caso di ricordare che tale area ospita forse il più complesso sistema idrografico d’Europa.La presenza di molteplici fiumi e affluenti in uno stesso territorio espone queste terre a grandi esondazioni delle acque, in caso di piogge prolungate. Memorabile è stata l’alluvione del Po del 1951 ma anche in tempi recenti, nel 1994 e nel 2000 Ancora oggi, d’altra parte, in quest’area del Paese si estendono vaste superficie di terre ad altimetria negativa, vale a dire sotto il livello del mare, che necessitano della diuturna opera delle macchine idrovore per mantenersi asciutte. E’ il caso di rammentare che in quest’area si concentrano numerosi e molteplici insediamenti urbani e buona parte del complesso industriale del Paese. La conoscenza della sua storia, dei suoi caratteri e della sua trasformazione è dunque imprescindibile per governarne l’evoluzione, per tutelarne la sicurezza. E dovrebbero bastare questi pochi cenni per comprendere quanto la risorsa suolo sia preziosa in questa regione strategica del Paese. Essa dovrebbe essere tutelata, messo al riparo dalla frenesia del cosiddetto sviluppo che vorrebbe divorarlo con un’attività costruttiva senza fine.

Non meno esposta appare la vasta area dell’Italia peninsulare. Quella, per intenderci, dominata dalla dorsale appenninica. Come ben sapevano già alcuni tecnici dell’Ottocento, l’Appennino costituisce un immenso campo di forze in continua attività. Non si tratta di terremoti, ma di fenomeni più lenti e meno clamorosi, che operano tuttavia con continuità. Dagli Appennini, infatti, discendono innumerevoli corsi d’acqua che trascinano materiale d’erosione verso valle lungo i due opposti versanti della Penisola. Da millenni, questa dorsale è soggetta a un colossale processo di erosione che naturalmente si è accelerato in epoca storica, con i diboscamenti e il denudamento delle pendici montane e pedemontane.Sabbia, fango, ciottoli, massi, sono stati trascinati verso il piano dalle acque torrentizie dando luogo alla formazione delle cosiddette maremme. Così sono state storicamente denominate quelle boscaglie costiere, punteggiate di stagni e paludi, formate per l’appunto dai torrenti appenninici che a un certo punto non riuscivano più a sfociare in mare a causa dei materiali da essi stessi trascinati, che occludevano la foce. Molti dei laghi costieri dell’Italia centro-meridionali si sono formati grazie a questa dinamica territoriale. Tale vicenda fa comprendere almeno una delle regioni del carattere storicamente continuo dell’opera di bonifica lungo le nostre pianure litoranee. Ebbene, è il caso di ricordare che, almeno a partire dal Basso Medioevo fino agli anni Sessanta del Novecento, questo gigantesco processo erosivo è stato almeno in parte controllato e filtrato dalle popolazioni contadine insediate nelle colline poste fra la montagna e il mare. Le famiglie mezzadrili, che per secoli hanno operato in Toscana, Umbria, Marche e ai margini di altre regioni non hanno solo provveduto a produrre derrate agricole per sè e per i loro padroni, ma hanno compiuto al tempo stesso un’opera tanto oscura quanto preziosa di manutenzione del territorio. Sono stati, infatti, i contadini a creare e tenere sgombri fossi e canali per il deflusso dell’acqua piovana, a erigere e riparare muretti di protezione, a piantare alberi, a controllare frane e smottamenti.

Anche in questo caso la storia ci informa di una rilevante novità. Queste figure sociali che facevano manutenzione quotidiana del territorio, questi controllori del nostro habitat collinare non esistono ormai più da decenni. Tutta la vasta area delle colline interne è abbandonata a se stessa. Dunque, un elemento in più di fragilità si è storicamente aggiunto negli ultimi decenni. Non cè bisogno di spendere altre parole per sottolineare la portata strategica, per l’avvenire delle nostre stesse pianure, di una consapevolezza storica su questa grande area dell’Italia peninsulare.

Naturalmente, per un Paese come l’Italia, l’importanza della storia del territorio non risiede soltanto nella consapevolezza della sua vulnerabilità e fragilità. Esiste un passato del nostro territorio che è importante conoscere anche per altre e più positive ragioni. Senza una conoscenza storica profonda come si fa a operare in una «terra di città» quale l’Italia è stata ed è, in maniera originalissima e dominante ? Come si può essere urbanisti, in Italia, senza essere al tempo stesso storici? Tutti i manufatti urbani di cui è disseminata la Penisola e le isole, frutto di molteplici stratificazioni di epoche e civiltà, non sono governabili né tutelabili senza la conoscenza storica della loro formazione nel tempo. Nel loro passato, dunque, e nella coscienza civile dei contemporanei si racchiude il nucleo del loro valore. Quel valore che dovrebbe stare a cuore a ogni cittadino e motivarlo alla sua custodia. Ma questo dovrebbe ormai essere ovvio. Per lo meno per chi è ancora in grado di pensare.

Bibliografia essenziale.

E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari 1961

P.Bevilacqua, M.Rossi-Doria, Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, Laterza, Bari-Roma 1984

P. Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua. Irrigazioni e trasformazione dell’agricoltura tra Sette e Novecento, in P.Bevilacqua ( a cura di ) Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I. Spazi e paesaggi, Marsilio Venezia 1989

P.Bevilacqua,Tra natura e storia.Ambiente,economie, risorse in Italia, Donzelli Roma, 1996

AA.VV: Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980.Istituto Nazionale di Geofisica, Storia Geofisica Ambiente (SGA), Bologna 1995.

P. Bevilacqua, Sulla impopolarità della storia del territorio in Italia, in P.Bevilacqua e P.Tino ( a cura di ) Natura e società. Studi in memoria di Augusto Placanica, Donzelli, Roma 2005.

F. Cazzola, Il Po da risorsa delle popolazioni padane a fonte d’inquinamento, in « I frutti di Demetra», 2005, n. 8

1.

Strano paese l’Italia. Ogni volta che si va all’estero, negli altri paesi d’Europa, ci si meraviglia di come stiano attenti a custodire la natura, a conservare il paesaggio, a aggiungere qualità al territorio. Fenomeni come il consumo di suolo, che da noi investono ogni anno migliaia e migliaia di ettari, vengono combattuti da decenni in Gran Bretagna, in Germania, Iin Francia e nei Paesi bassi. Nel progettare le strade si segue il più possibile l’andamento del terreno e si allontanano i cartelloni pubblicitari da tutte le visuali di un certo interesse. Da noi il territorio è considerato poco più d’una pattumiera.

Eppure, in questa situazione che indigna molti c’è qualcosa che si è salvato, e ancora si salva, meglio che altrove. Dirò qualcosa che farà forse stupire qualche mio collega, ma io credo di non sbagliare se dico che in Italia siamo all’avanguardia per quanto riguarda i nostri centri storici. Non c’è forse la cura minuziosa e quotidiana che in Austria e in Germania si pone alla conservazione dei piccoli centri tradizionali, e in Gran Bretagna e in Francia alla tutela dei monumenti più rilevanti e celebri, ma la sostanza dei nostri centri storici ne fa, ancora oggi, dei meglio conservati e dei più vivibili d’Europa.

Credo che questo dipenda dal fatto che, in Italia, si sono comprese prima che altrove tre verità importanti:

1.che ciò che ha valore e merita di essere conservato della nostra storia non sono soltanto i monumenti, le costruzioni eccezionali e “artistiche”, ma le città storiche nel loro insieme: che esse sono un valore perché testimoniano modi di vivere e di abitare nei quali tra le cose e l’uomo c’è equilibrio, formano nel loro insieme ambienti vivibili che la cultura e la tecnica moderne riescono raramente a eguagliare.

2. che la bellezza e l’utilità dei centri storici non è costituita soltanto dalle pietre che li formano, dai materiali e dalle forme degli edifici e degli spazi aperti che li organizzano, ma anche dalla società che li vive: dagli uomini e le donne, dai bambini e dai vecchi, dai lavoratori nei diversi mestieri, dai residenti stabili e dai viandanti e visitatori che vi arrivano.

3.che i centri storici non vivono separati dal territorio che li circonda, ma devono saper ricostituire con questo (con i nuovi quartieri e con gli altri centri antichi e nuovi, con i nuovi luoghi di produzione e con le vie di comunicazione, con le campagne e i paesaggi aperti) un rapporto efficace: se non si progetta l’insieme del territorio, anche i centri sstorici decadono.

2.

Un momento significativo della comprensione di queste verità è costituita da un documento, approvato nel 1960 in un convegno di studiosi e di amministrazioni comunali particolarmente consapevoli: c’erano Ascoli Piceno ed Erice, Bergamo e Ferrara, Genova e Perugia, Venezia e Gubbio. Mi riferisco alla cosiddetta Carta di Gubbio, nella quale si delineano alcuni essenziali principi, a mio parere ancora oggi in gran parte validi:

Era una fase particolarmente significativa della nostra storia. Nel dopoguerra si era costruito per ogni dove. L’esigenza di una ricostruzione rapida di tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra prevalse, in Italia, su ogni altra esigenza e attenzione. Alla fine degli anni 50 si cominciavano a vedere i danni di un’edificazione senza scrupoli. Si cominciava a sentire come un delitto la devastazione dei vecchi centri e quartieri con edifici moderni. Furono gli anni in cui l’esigenza di una profonda riforma urbanistica diventò un grande tema politico e culturale. Bisognava salvare qualità preziose che minacciavano di scomparire. Ecco perciò l’impegno della cultura e dell’amministrazione più avveduta per correre ai ripari.

Di fronte agli scempi che si perpretavano la Carta di Gubbio pone in primo piano la salvaguardia:

“Si invoca una immediata disposizione di vincolo di salvaguardia, atto ad efficacemente sospendere qualsiasi intervento, anche di modesta entità, in tutti i Centri Storici, dotati o nodi Piano Regolatore, prima che i relativi piani di risanamento conservativo siano stati formulati e resi operanti”

Salvaguardia rigorosa, in attesa di compiuti atti di pianificazioni, basati su un accurato studio dei centri storici, finalizzati alla conservazione di tutti gli elementi e le regole che ne determinano la qualità. Pianificazione coordinata con quella dell’intero territorio comunale: la tutela e il risanamento

“come premessa allo stesso sviluppo della città moderna e quindi la necessità che esse facciano parte dei piani regolatori comunali, come una delle fasi essenziali nella programmazione della loro attuazione”.

Ma non basta il risanamento fisico:

“nei progetti di risanamento una particolare cura deve essere posta nell’iindividuazione della struttura sociale che caratterizza i quartieri e che, tenuto conto delle necessarie operazioni di sfollamento dei vani sovraffollati, sia garantito agli abitanti di ogni compatto il diritto di optare per la rioccupazione delle abitazioni e delle botteghe risanate, dopo un periodo di alloggiamento temporaneo, al quale dovranno provvedere gli Enti per l’edilizia sovvenzionata; in particolare dovranno essere rispettati, per quanto possibile, i contratti di locazione, le licenze commerciali ed artigianali ecc., preesistenti all’operazione di risanamento”.

Possiamo dire che da allora, in Italia, la buona cultura urbanistica e e la buona amministrazione hanno sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Riassumo brevemente le ragioni della qualità del patrimonio costituito dagli insediamenti storici:

1.Sono testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio.

2.Sono il prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne.

3.Sono elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.

3.

I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare

- Edoardo Detti e alla sua difesa del centro storico e delle colline di Firenze.

- La difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti.

- Il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo.

- L’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto del centro storico e delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.

- Il piano del centro storico di Bologna, con il quale Pierluigi Cervellati introdusse per la prima volta nella pianificazione di un centro storico l’attenzione, e soprattutto la pratica, della difesa degli abitanti attraverso l’impiego – in un centro storico accuratamente pianificato con l’impiego dell’analisti tipologica – della programmazione dell’edilizia abitativa pubblica.

È all’inizio degli anni 70, del resto, che anche qui ad Asolo ci fu una coraggiosa battaglia e una coraggiosa scelta, grazie alla quale abbiamo ancora un centro storico intatto e bellissimo, ancora vivo e vitale, nonostante i suoi problemi. Mi riferisco alla scelta di evitare – con il PRG del 1973 - di manomettere con nuove pesanti costruzioni e con l’espansione dalla collina verso la piana il delicato assetto di uno dei più bei centri collinari.

4.

Riprendiamo il nostro ragionamento e veniamo all’oggi. Ogni centro storico ha una duplice caratteristica, una duplice funzione, e pone quindi una duplice serie d'esigenze, le quali sono due facce d'una medesima medaglia.

Da un lato, vi è il ruolo e il valore che deriva ai centri antichi dalla loro storicità: dal fato cioè che in essi si è verificata, nel corso dei secoli, una intensa accumulazione di valori, la quale fa oggi dei centri storici un patrimonio di grandissima rilevanza.

Dall'altro lato, vi è il ruolo che deriva dal fatto che nei centri storici si deve vivere, si deve lavorare, si deve abitare: che perciò essi devono essere comunque porzioni vive, attive, dinamiche degli organismi urbani e territoriali di cui sono parte.

I due aspetti sono strettamente intrecciati, e si sostengono anzi l'uno con l'altro. Infatti, mentre è ormai chiaro che i centri storici non trovano la ragione della loro bellezza solo nelle pietre e negli intonaci da cui sono costituiti, ma anche (e in modo essenziale) nella vita che in essi si svolge, è chiaro che solo nella misura in cui diverranno un patrimonio effettivamente considerato come tale - e perciò attivamente tutelato, messo in valore, concretamente utilizzato dalla collettività nazionale - i centri storici potranno diventare ancora una volta luoghi realmente vitali, sedi di attività non lesive dell'assetto formale che il trascorrer dei secoli e l'accumularsi del lavoro umano ha conferito a essi, ma capaci invece di integrarsi fecondamente con gli antichi valori.

Si apre a questo punto un problema di notevole rilevanza metodologica, al quale mi limiterò ad accennare. Tutelare in modo effettivo i centri storici significa, per quel che s'è detto, trovare un rapporto equilibrato e organico tra “strutture vitali” e “strutture formali”; significa in altri termini individuare, tra i “tipi organizzativi”, le attivita, le specifiche forme della vita produttiva presenti nella nostra epoca, quali siano quelli che possono non solo non risultar dannose all'assetto formale dei centri storici, ma anzi costituirne il contenuto organico e omogeneo, e perciò ravvivarlo e conferirgli nuova forza.

Questo è il tema che è di fronte a noi. Come fare della tutela, della conservazione, del risanamento e restauro, non qualcosa che sia fine a se stesso, ma la premessa e l’occasione per ripristinare una nuova vivibilità e vitalità del centro storico.

5.

A questo punto dobbiamo rilevare che nel nostro paese – a differenza degli altri paesi dell’Europa – se la politica della conservazione sembra abbastanza saldamente presente, manca assolutamente una politica che si faccia carico dei problemi concreti dell’assetto economico e sociale dei nostri territori, in particolare di quelli più delicati e preziosi.

Non mancano le spinte e le sollecitazioni economiche sul territorio e sulle città. Ma sono spinte e sollecitazioni di un’economia malata: un’economia che bada più all’appropriazione dei beni comuni e alla loro trasformazione in merci, che punta più alla rendita parassitaria che al profitto d’impresa, che divora il patrimonio storico anziché investire nel futuro, che riempie disordinatamente il territorio di edificazioni che spesso servono solo a chi le costruisce.

Ma non ci sono risorse per affrontare problemi per i quali in altri paesi di destinano investimenti importanti. Non ci sono risorse per un’edilizia abitativa a prezzi ragionevoli. Non ci sono risorse per aiutare i comuni a dotare le città e i paesi delle attrezzature necessarie per la vita civile. Non ci sono risorse per contribuire a restaurare e riqualificare patrimoni comuni importanti per il presente e il futuro, come appunto l’edilizia storica. Non ci sono leve per incentivare le utilizzazioni virtuose, socialmente e culturalmente utili, degli spazi per l’artigianato di qualità, il piccolo commercio vitale per i centri urbani, un’agricoltura radicata nelle specificità dei territori.

E invece, cresce a dismisura la ricchezza di chi sui beni comuni, sul territorio e sulla città, specula in modo sempre più smaccato. Non so quanti di voi hanno visto domenica scorsa il programma di Report dedicato all’urbanistica romana. Avete sentito grandi imprenditori confessare candidamente che, grazie alle scelte di una pianificazione compiacente con il loro interessi, il valore di aree acquisite pochi anni fa è aumentato di cinque e dieci volte.

In altri paesi dell’Europa, di cui pure facciamo parte, la pianificazione pubblica anticipa e guida le scelte degli investitori immobiliari. E sulle operazioni di trasformazione immobiliare l’incremento della ricchezza privata dovuto alle scelte della collettività ritorna in misura molto larga nelle casse pubbliche, per essere spese negli interventi utili per l’intera comunità. Da noi succede il contrario: con i nostri soldi, con le tasse, paghiamo i guasti, i disagi, le congestioni, i malfunzionamenti che un uso dissennato del territorio provoca alle nostre vite.

6.

Gli approdi della cultura urbanistica più avanzata si sono per lo più tradotti in strumenti e iniziative di salvaguardia, ma queste non sono sufficienti per tutelare con efficacia i centri storici e i loro paesaggi..

La pianificazione urbanistica ha contribuito alla tutela dei centri storici, scongiurando pesanti manomissioni e indirizzando l’attività edilizia verso il restauro e il recupero del patrimonio edilizio esistente. E questo benché i centri storici non siano riconosciuti né tutelati in modo specifico dalle leggi nazionali in materia di tutela del paesaggio e dei beni culturali, e sono disciplinati in modo fortemente disomogeneo dalle leggi urbanistiche regionali.

Ma risultati del tutto insoddisfacenti sono stati raggiunti con riferimento al secondo ruolo dei centri storici, quella di luogo privilegiato per vivere, lavorare e incontrarsi. Ai problemi legati allo spopolamento, alla terziarizzazione, alla degradazione collegata al turismo di massa, alla chiusura di servizi e attività commerciali di base, non sono state fornite risposte compiute, né sotto il profilo legislativo, né all’interno delle elaborazioni tecniche e culturali degli urbanisti.

Così come per la città nel suo complesso, la domanda di pianificazione si è ampliata negli anni, senza trovare adeguate risposte nella strumentazione ordinaria. Come ci si attrezza per facilitare la vita nelle città, e quindi nel centro storico? Quali attività sono da favorire e quali da escludere, in periferia e nel centro? Le politiche per la casa, i trasporti, i servizi ambientali, i servizi sociali, gli spazi pubblici devono trovare una declinazione specifica quando riguardano i centri storici? e fino a che punto sono influenzate dalle decisioni che riguardano le periferie o i territori circostanti?

Per Asolo, ci siamo sforzati – insieme all’amministrazione e ai numerosi cittadini che siamo riusciti a coinvolgere nel nostro lavoro – di fornire alcune risposte, sulle quali ragioneremo nel pomeriggio. E certo che localmente molto si è fatto, soprattutto negli ultimi anni, e molto si può ancora fare. Un grande rulo spetta ai comuni. È certo difficile, significa navigare controcorrente. Ma è ciò che feca a Gubbio, nel 1960, un gruppo di comuni animosi che sapevano guardare lontano.

Siamo convinti che il problema di Asolo sia parte di un problema molto più generale, che non riguarda solo gli asolani ma l’intera comunità nazionale, e di cui la comunità nazionale deve prendere consapevolezza. Bisogna che l’Italia decida se vuole davvero vedere e vivere nel suo patrimonio storico come qualcosa che essa possiede più d’ogni altra nazione, qualcosa che costituisce la ragione del suo prestigio nel mondo, qualcosa che nessuna concorrenza della Cina o della Malaysia può toglierle, perché è unico e serve per tutto il mondo di oggi e di domani. A condizione non solo che questo patrimonio venga amorevolmente conservato, ma che si investa in esso perché possa essere adoperato nel pieno delle sue possibilità, con l’impegno di quelle risorse finanziarie, amministrative, legislative che in altri paesi vengono largamente desinati ai beni comuni, e che da noi vengono invece troppo spesso dilapidati in opere inutili e inutilmente costose.


Un quadro nazionale contraddittorio

Il nuovo PR di Eboli si colloca in una situazione nazionale fortemente contraddittoria. In essa colpiscono in primo luogo gli elementi negativi, alcuni dei quali sono già stati evocati in questo dibattito. Voglio riassumerli in quattro punti.

1. La grande incertezza sull’idea stessa di potere pubblico, sul suo ruolo, la sua forza, la sua necessità: L’interesse comune sembra spingere sempre di più verso la disponibilità del potere pubblico a diventare mero strumento al servizio degli interessi privati. Il documento sull’urbanistica milanese, di cui De Lucia ha parlato, è un caso limite, non certo l’unico.

2. La continua contrapposizione di strumenti speciali, sostanzialmente derogatori, provocati e condizionati dall’emergenza e dall’occasionalità, prodotti e gestiti all’ombra della discrezionalità, agli strumenti della pianificazione, necessariamente, statutariamente governati dalla trasparenza e dalla tensione verso la coerenza.

3. L’utilizzazione dell’accresciuta attenzione dei cittadini per l’ambiente più come stimolo alle esercitazioni retoriche che come presa in carico dell’esigenza di avviare processi di lungo periodo capaci di stabilire nuovi equilibri tra storia e natura, tra uomo e ambiente. Dalla tensione verso il la ristrutturazione ecologica della produzione siamo passati alle ecodomeniche.

4. Quasi come sintesi ed emblema degli elementi negativi del quadro, le mai sopite tensioni verso la promozione dell’abusivismo (Gaia Pallottino ce lo ha appena ricordato) attraverso la riproposizione continua dei condoni, nonché la scarsa attenzione verso gli episodi di deciso contrasto all’abusivismo, che hanno visto Eboli in prima linea.

Un quadro scoraggiante. Ma per fortuna, accanto a questi elementi ve ne sono altri di segno opposti. Deboli, non ancora egemoni, forse addirittura minoritari, che proprio per ciò meritano di essere conosciuti, promossi, valorizzati nei loro elementi positivi più che criticati per gli aspetti insoddisfacenti e per gli errori che inevitabilmente contengono. Mi riferisco a due serie di elementi:

- ad alcune tendenze e iniziative nuove a livello nazionale (e in particolare alla nuova legge urbanistica)

- all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo.

Le legge urbanistica nazionale

Dopo un lungo lavoro dell’VIII Commissione parlamentare della Camera dei deputati, e un lavoro intelligente della sua Presidenza, è stato definito un testo unificato che affronterà nei prossimi mesi le discussioni e decisioni finali. La valutazione complessiva che ne do è positiva: è una proposta che assume, con equilibrio e intelligenza, gli elementi positivi e innovativi emersi dal dibattito e dall’esperienza degli ultimi tre lustri. Mi limito a sottolineare alcuni aspetti essenziali.

Mi limiterò ad annotarne gli aspetti a mio parere più interessanti.

In primo luogo, l’assunzione piena dell’articolazione degli atti di pianificazione in due componenti, quella strutturale e strategica e quella programmatica e operativa, come nuova forma della pianificazione. Una forma che si è cominciato a sperimentare nel PRG del centro storico di Venezia negli anni Ottanta, che è stata proposta da Polis nel convegno sui 50 anni della legge urbanistica tenuto a Venezia nel 1992, che è stata assunta dall’INU nel congresso di Bologna nel 19895, che è stata sperimentata in più d’un PRG e che è sostanzialmente contenuta nelle nuove leggi urbanistiche della Toscana, della Liguria, del Lazio. È un’innovazione decisiva, a mio parere, pere rendere più chiaro e più snello il processo di pianificazione, per semplificarne le procedure, per avviarci verso una “pianificazione continua” delle trasformazioni del territorio, per decentrare le responsabilità di rilevanza locale senza rinunciare al controllo di quelle di carattere più generale.

In secondo luogo, la definizione di rapporti responsabili tra i diversi livelli di governo coinvolti nel processo di pianificazione. Benché non si dia una definizione sufficientemente rigorosa del principio di sussidiarietà, esso è concretamente applicato in modo convincente: non come trasferimento d’ogni potere “verso il basso”, ma come individuazione del livello giusto (cioè efficace ed efficiente) per ogni decisione. La responsabilità degli enti sottordinati viene intesa (come deve essere) in due sensi: essi assumono la competenza a decidere, ma al tempo stesso vengono previste norme suppletive e di salvaguardia nel caso che essi non adempiano in modo adeguato.

In terzo luogo, il modo corretto con il quale si assume e si risolve il tema della “perequazione”: non come riconoscimento generalizzato si un diritto a edificare trasferibile sul territorio, non come “spalmatura” dell’edificabiità, e neppure come alternativa generalizzata all’espropriazione delle aree necessarie per la formazione di spazi pubblici, ma come tecnica di ripartizione di oneri e benefici all’interno delle aree trasformabili, decise come tali dagli strumenti urbanistici. Una generalizzazione, insomma, della procedura già introdotta con i “comparti” dalla legge 1150/1942, estesa alle zone d’espansione dalla legge 765/1967. (Ma devo annotare che rimane aperto un problema di fondo: quello della realizzazione della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”, e della sperequazione tra i proprietari compresi nelle aree urbanizzabili o riurbanizzabili, e gli altri).

Infine, la soluzione equilibrata che si dà alla questione del coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati nel processo di pianificazione. È una questione decisiva: ne ho parlato come uno degli elementi negativi della situazione nella quale viviamo. La proposta di legge affronta il tema affermando sempre, nelle procedure, il principio della priorità del generale sul particolare, del “piano” sul “progetto”. Questa scelta è resa ancora più esplicita e forte da una proposta che al lettore disattento può sfuggire.

Si prescrive infatti la formazione di un Testo unico nazionale il quale, tra l’altro, si disponga “l’abrogazione esplicita di tutte le norme non conformi ai principi” della nuova legge” (articolo 33). E poiché tra tali principi campeggia quello secondo cui “la tutela, l’uso, la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono sono disciplinati esclusivamente dai piani” previsti dalla legge stessa (articolo 8), si comprende facilmente come il legislatore s’impegni a fare piazza pulita della selva di strumenti derogatori accumulati negli ultimi vent’anni.

Il “principio di pianificazione”

La valutazione complessivamente positiva, molto positiva, della legge mi induce a sorvolare sui suoi limiti, su alcune formulazioni poco chiare o ambigue. Esse potranno essere precisate e messe a punto nell’ultima fase del lavoro parlamentare – analogamente a quanto, del resto, ci si propone di fare per il PRG di Eboli in fase di osservazioni. C’è un punto, peraltro, sul quale si deve a mio parere porre grande attenzione: esso riguarda il carattere della pianificazione a livello regionale, che nella formulazione attuale della legge è piuttosto evanescente.

C’è un principio, mai esplicitamente formulato ma sotteso all’insieme delle norme proposte, che considero fondamentale. È quello che definirei il “principio di pianificazione”. Esso può essere così espresso. ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione: atti cioè nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - precisamente riferite al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte.

Assumere questo principio significa aver deciso che la pianificazione è il metodo generale che gli enti pubblici elettivi di primo grado (in Italia: comuni, regioni, province, stato) adottano quando effettuano scelte suscettibili di incidere sull’assetto fisico e funzionale del territorio. Se un ente (poniamo, la Regione), decide che non assume alcuna scelta di rilevanza territoriale, che delega alle province o lascia allo stato qualunque opera o intervento o programma che incida sul territorio, allora evidentemente la pianificazione di livello regionale non è necessaria. Se così non è, allora non si comprende perché le scelte di competenza della regione non debbano essere formulate, garantite nella loro coerenza e rese esplicite con trasparenza, in modi analoghi a quelli da adottarsi da parte delle province e dei comuni.

Mi sembra che il “principio di pianificazione” dovrebbe essere affermato in modo esplicito, e tradotto più compiutamente nella strumentazione a tutti i livelli.

Il nuovo piano comunale di Eboli

Dicevo che il secondo elemento positivo della situazione attuale è individuabile nell’all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo. Il caso di Eboli e del suo nuovo PRG mi sembra un caso esemplare di questa tendenza positiva. E devo dire che mi riconosco così pienamente nelle scelte compiute, di merito e di metodo, che ho quasi una certa ritrosia a parlarne.Ma vorrei mettere in evidenza quattro aspetti e limitarmi ad essi.

1. Il sistema degli obiettivi proposto. Sono espressi nella relazione in una frase molto bella, sintetica ed esauriente, efficace. Precisamente, là dove si afferma che il disegno del piano è “comandato dall’obiettivo di rigenerare ciò che è deteriorato, riqualificare ciò che è saturo, trasformare ciò che è incompiuto, connotare ciò che è indefinito”.

2. L’impegno a tutelare quella gigantesca risorsa – per le generazioni presenti e per quelle future – costituito dalla zona agricola. Mi è sembrato leggere una volontà tenace, cocciuta, di difendere quel patrimonio, di contrastare ogni tentativo di lasciar invadere la campagna dalla “discarica urbana”, città diffusa o villettopoli che la si voglia denominare. In quella difesa della produttività agricola vedo l’emblema di un generale impegno alla difesa delle risorse: il centro storico, il territorio collinare, la costa, il fiume. Risorse viste non come “monumento”, ma come occasione per uno sviluppo economico durevole.

3. La decisione, non solo proclamata ma portata a compimento, di costituire un Ufficio del piano che è stato il vero Autore del piano. Questo è un impegno essenziale. Senza questo strumento la pianificazione non esiste: è solo chiacchiera, o accademia.

4. La determinazione con la quale si si è accompagnata, sorretta e preparata la redazione del PRG con un’azione energica contro l’abusivismo,. Senza il recupero della legittimità l’interesse generale non può essere un obiettivo credibile, e la stessa società scompare.

Come vedete, queste valutazioni positive sono rivolte più all’Amministrazione che ai progettisti. Ma secondo me la validità di un piano, a qualsiasi livello, sta proprio in questo: nella capacità e volontà dell’Amministrazione di farne il suo strumento per il governo del territorio. Il piano non è un fine: è lo strumento di questa volontà.

La definizione che preferisco di “piano urbanistico” è proprio questa: “una decisione politica tecnicamente assistita”. Mi sembra che, nel caso di Eboli, l’assistenza tecnica sia stata ottima, e l’azione politica della scelta continua e sistematica degli obiettivi giusti e delle soluzioni giuste sia stata eccezionale.

Per iniziare con un’espressione sintetica, vorrei affermare subito che Giovanni Astengo aveva una visione politica del ruolo dell’urbanistica nella società italiana. Questa affermazione deve essere chiarita.

Devo cioè precisare che cosa intendo per visione politica, e in che modo questa visione politica si sia espressa nel transito di Giovanni Astengo, e in particolare in relazione a quello che è l’argomento specifico della nostra discussione, “La rivista urbanistica sotto la direzione di Giovanni Astengo - La comunicazione delle idee degli urbanisti e del dibattito dell’INU”.

Potrò poi enunciare qualche idea su quello che, per Giulio Tamburini (coordinatore di questo insieme di riflessioni su Astengo) dovrebbe essere il vero obiettivo della nostra riflessione: che cosa si può trarre oggi, in positivo e in negativo, dall’insegnamento di Giovanni Astengo.

Urbanistica, società, politica

Astengo era indubbiamente convinto che l’urbanistica fosse una esigenza della società. Era convinto che una società adeguatamente organizzata, che voglia garantire anche solo una adeguata funzionalità, non possa fare a meno della pratica di cui l’urbanistica era portatrice: la pratica della pianificazione del territorio.

Ma la politica doveva porsi anche un obiettivo più alto della mera funzionalità: doveva realizzare una società solidale. Anche questo compito non poteva essere assolto senza il contributo creativo e scientifico dell’urbanistica.

Urbanistica e politica, quindi, come due componenti strettamente legate del percorso della società. Ma qual è il ruolo reciproco? Qual è, in questo rapporto inevitabile e necessario, il ruolo dell’urbanistica? Mi sembra che Astengo resti coerente con una posizioni teorica, a partire dalla quale compie uno sforzo in due direzioni pratiche.

La posizione teorica può essere sintetizzata così: l’urbanistica deve svolgere un ruolo di guida della politica:

Chi può e deve creare il territorio non può essere che la classe dei savants, in base a proprie motivazioni autonome e disinteressate, insindacabili: corpo di pubblica utilità, come i pompieri e la croce rossa (Fabbri 1975, p.59)

Ecco allora il tema dell’”orgoglio del tecnico”:

[…] il tecnico è depositario di un sapere e di un compito, quello di trasmettere le sue convinzioni ai politici investiti del potere di decisione. Astengo non dubita che il suo “sapere” sia frutto di una sintesi e che non debba perciò essere posto in dubbio da nessun altro “attore”; non si stupisce, si compiace anzi della solidarietà che altri tecnici illustri gli esprimono. Esisteva ancora, parrebbe, un orgoglio corporativo basato su una concezione “alta” della professione: difficile a leggersi oggi, nella pratica della lottizzazione eretta a sistema (G.Piccinato 1991, p. 287)

L’”orgoglio del tecnico” è riferito a un ruolo possibile, non a una funzione effettuale: si riferisce a un “dover essere”. Bisogna allora lavorare in due direzioni: verso gli urbanisti, e verso chi governa.

Una classe di savants

Da un lato, occorre costruire una “classe di savantsconsapevoli del proprio ruolo e padroni degli strumenti disciplinari necessari per svolgerlo. Mi sembra che il ruolo principale di “Urbanistica” sia proprio in questa direzione. Ed è tutta l’attività di Astengo che opera in questa direzione. È già negli anni della ricostruzione postbellica che da lui

l’esigenza di giungere alla formazione di un linguaggio omogeneo e ad un’uniformità di metodi e di procedure per la pianificazione territoriale era stata sottolineata con forza […] (C. Mazzoleni 1991, p. 46)

La pubblicazione dei piani, cui Astengo dedica tanta parte del suo impegno e che costituisce della sua rivista un esempio mai più raggiunto, non è documentazione: è proposta di modelli, di archetipi, di norma.

Così si spiega il fatto che, se la sua rivista “rimane certo una delle fonti più importanti per ricostruire la storia dell’urbanistica italiana ed europea” del suo periodo,

difficilmente potremmo compiutamente ricostruire sulla sua sola base la storia dello stesso periodo, riconoscerne lo svolgimento, i principali periodi e i caratteri salienti (B. Secchi 1991, p. 149)

Il luogo e l’impegno nel quale prosegue e in qualche modo vuole coronarsi, il tentativo di Astengo di costituire un corpo di savants, gradualmente sostituendo il lavoro di direzione e gestione della rivista, è la faticosa costituzione del Corso di laurea in urbanistica (F. Indovina 1991, p.217 e segg.).

La “carta” di fondazione del corso di laurea pone come prima ragione della progetto la constatazione della

Necessità davvero inderogabile di specializzazione. I tecnici che oggi si occupano di urbanistica escono dalle facoltà di architettura e ingegneria le quali […] offrono una preparazione in tal campo che non si può che definire dilettantistica (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)

E d’altra parte (ecco la necessità sociale del progetto di un nuovo corso di laurea)

L’assenza di una specializzazione basata su una chiarificazione disciplinare contribuisce a perpetuare, e ormai giustifica in parte (mio corsivo), la non utilizzazione dello strumento della pianificazione da parte degli enti pubblici [e] risulta ormai insopportabile per le pubbliche amministrazioni: al loro interno la presenza del tecnico urbanista diviene necessaria anche per dimensioni urbane medio-basse (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)

E si può tranquillamente affermare che la stessa attività professionale di redattore di piani e documenti di pianificazione che Astengo ha svolto era finalizzata a sperimentare modelli (tecnici e procedurali) idonei a esser proposti in quel dinamico manuale che la sua rivista ha costituito (C. Mazzoleni 1991, pp.35 e segg.). Un tentativo continuo di “codificare” le esperienze selezionate come valide, non solo al fine di costruire paradigmi comuni tra gli urbanisti

per renderli esponenti di una influente comunità scientifica, studiosi e professionisti accomunati da uno stesso modo di guardare, descrivere e problematizzare il territorio e la società (P. Di Biagi 1992, p.422)

ma anche (e forse soprattutto) per costruire una corporazione di sapienti capace di avere un peso politico: capace di esprimere socialmente il ruolo politico dell’urbanistica.

La moralità dell’urbanista

Come aveva una concezione alta della politica, Astengo aveva anche una concezione alta dell’urbanistica e del suo portatore, l’urbanista. Il suo impegno non va solo nella direzione di rendere solido lo statuto disciplinare: Astengo non era un accademico. Il suo impegno volto a consolidare, a rendere certo il mestiere dell’urbanista e convincente il suo risultato si accompagna con forti richiami alla moralità e alla responsabilità.

Un esempio. Nel 1956 il governo amplia gli elenchi dei comuni obbligati a formare i PRG: saranno alcune centinaia le città che riceveranno l’imprinting della pianificazione. La posta è grossa, ricorda Astengo (“Urbanistica” 20, 1957):

Tre-quattrocento piani significano l'avvenire delle nostre città; se ben studiati ed utilizzati a fondo essi possono rappresentare il trapasso da situazioni di disordine e di amministrazione caso per caso a a situazioni di pianificazione per programmi organici, possono consentire di moralizzare il mercato edilizio o di nazionalizzare e quindi risanare i bilanci comunali. Se male interpretati, od usati in modo superficiale e del tutto esteriore, essi possono decadere al rango di un artificioso regolamento edilizio.

Le attese sono grandi. Ma l’esito “non dipende solo dalle Amministrazioni”,

anche dall’attività degli urbanisti chiamati a redigere i piani e soprattutto di quelli investiti di diretta e completa responsabilità. […] Ad essi aspetta infatti -rendersi conto fin dagli inizi dei più minuti particolari delle varie manifestazioni della vita del Comune; dipanare l'aggrovigliata, matassa dei problemi, per ritrovare il filo conduttore di un futuro più razionale sviluppo della comunità; illuminare amministratori e funzionari, guidandoli nei primi passi di questa esperienza; stimolare le collaborazioni locali, chiarendo ai tecnici ed ai privati le finalità e le procedure della pianificazione; infondere al piano un contenuto economico e sociale che sostanzi gli interventi edilizi; agire da soli anche senza adatti strumenti legali per la salvaguardia del piano in fieri; dare, in una parola, inizio alla pianificazione urbana, già fin dai primi atti del suo concepimento.

Non si tratta di una responsabilità burocratica: è una responsabilità morale:

Questo compito ben duro supera, è chiaro, i limiti di un consueto mandato professionale […] I piani, anche i più giovani ormai lo sanno, non possono farsi a distanza e a tavolino: essi nascono faticosamente sul posto. occorre preparare il terreno, seminare e coltivare giorno per giorno l'arbusto, se si vuole che la pianificazione urbana metta ben saldo le radici e con l'approvazione del piano essa si trovi ad essere adulta e rigogliosa. Quest'opera, che ben poco ha da vedere col piano disegnato, non ha, compensi, è chiaro. Solo lavorando pazientemente ed umilmente, consci dei propri modesti limiti, ma fermamente decisi a penetrare fino in fondo la realtà sociologica urbana e ad imprimere alle situazioni attuali impulsi vivificatori, ciascuno di noi avrà contribuito, in misura proporzionale al proprio impegno, a costruire il futuro per le più importanti città italiane.

L’indignazione

Nel 1966 Astengo fu chiamato da Giacomo Mancini, ministro per i Lavori pubblici, a fare parte della Commissione d’indagine su Agrigento. Non ne fu solo un membro: insieme al presidente Michele Martuscelli ne fu l’anima. La relazione al Parlamento, in gran parte pubblicata su “Urbanistica”, (n. 48, 1966) costituisce un documento essenziale per comprendere il suo ruolo nell’urbanistica italiana (e nella storia degli urbanisti), e cogliere un aspetto centrale del suo messaggio.

Fu un momento di straordinaria tensione nella sua vita. Astengo affermò che

nella mia vita di studioso e di pubblico amministratore […] l’indagine di Agrigento rappresenta la più forte emozione e la più straordinaria tensione nmorale che abbia finora provato e che difficilmente penso possa per me essere, in un altro caso, raggiunta (in: P. Di Biagi 1992, p. 411)

Merita di essere ricordato e meditato ancor oggi, l’editoriale con il quale si apre in numero di “Urbanistica” dedicato agli

Improvvisi ed eccezionali accadimenti hanno scosso il paese tra luglio e novembre: la frana di Agrigento, l'allagamento di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nell'alto e basso Veneto.

Un numero con la copertina tutta nera: l’unico nella storia della rivista. Alla radice di ciascuno di quegli avvenimenti, scrive Astengo,

sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatosi. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d'improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici.

In entrambi i casi, alla radice è l'imprevidenza umana. E se, nell'imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia una ben piú ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica.

Non è infatti pensabile l'istituzione ed il funzionamento di un sistema di costante controllo, capace di far scattare uno stato di allarme, senza la presenza di un quadro di riferimento generale, che, stabilite le regole interne di equilibrio fra i vari fattori, definisca le finalità delle singole azioni, d'intervento e d'uso, e fissi le soglie dello stato di pericolo. Senza piani territoriali ed urbanistici, seriamente studiati e coscienziosa- mente resi operanti, è dunque perfettamente inutile pretendere un efficace sistema di controlli per l'ultima ora: se in Olanda scatta l'allarme nel polder minacciato è perché l'intero paese è vigilato da una pianificazione territoriale attiva ed attenta, con strutture, responsabilizza e tradizioni.

Quel memorabile fascicolo di “Urbanistica”, e l’intera vicenda della partecipazione di Astengo al lavoro della Commissione ministeriale per Agrigento, mi sembrano significativi almeno per due aspetti.

In primo luogo, per il modo in cui Astengo riesce a saldare in un’unica operazione l’accuratezza dell’analisi scientifica sull’evento, la finalizzazione civile e politica del lavoro, la tempestività della restituzione e diffusione dei risultati, la lezione morale e culturale rivolta all’insieme dell’opinione pubblica.

In secondo luogo, la carica di indignazione che riesce ad esprimere e a comunicare, e attraverso la quale trasmette, con il veicolo dell’emozione, il suo messaggio, la sua “verità”. Una carica di indignazione che difficilmente si riesce ad accostare, nella memoria, alla figura dimessa e grigia di quello che fu chiamato, con un certo benevolo compatimento, “il ragioniere dell’urbanistica”. Una carica d’indignazione che esprime compiutamente la ragione morale del ruolo dell’urbanistica come esigenza della società.

L’azione sul governo e nel governo

Una duplice azione di consolidamento nei confronti degli urbanisti, verso l’interno: un’azione per fondare uno statuto della disciplina, una ben ordinata cassetta degli attrezzi; e un’azione per dotare il corpo dei savants di un’anima, e quindi di una responsabilità e di una moralità. Ma dall’altro lato occorre cominciare da subito un’azione diretta su chi ha la responsabilità di governare: su chi ha il potere. Occorre tenacemente far comprendere, spiegare, illustrare e documentare a chi esercita il potere. Occorre conquistare consenso. In questo senso ha ragione chi afferma che quella di Astengo

non è una ricerca di verità epistemiche e di fondamenti, quanto piuttosto quella di una verità consensuale. Di argomenti che possano essere condivisi e divenire comportamento degli urbanisti in primo luogo, delle amministrazioni e dei differenti soggetti sociali infine (B. Secchi 1990, p.41)

Se e finché la politica non è stata “educata” dagli urbanisti a comprendere ciò che deve fare per governare al meglio le trasformazioni del territorio, occorre farlo in sua vece. Occorre, al limite, esercitare un ruolo di supplenza.

L’azione diretta sulla politica è naturalmente diversa a seconda delle diverse fasi dell’evolversi dei rapporti di forza tra le diverse componenti del quadro politico: in particolare, quelle più legate a un processo di modernizzazione ed “europeizzazione” della società italiana, più vicine ad Astengo e ai suoi amici, e quelle nelle quali si esprimeva il versante più arcaico del compromesso storico tra borghesia nazionale ancien régime.

Così, è evidente che nella fase che va dall’immediato dopoguerra all’iniziale manifestarsi della crisi dell’equilibrio politico centrista e della prospettiva di governi di centro-sinistra l’impegno sembra rivolto prevalentemente a denunciare i danni che derivano dall’assenza dell’urbanistica e della programmazione, dallo sviluppo delle città senza pianificazione, dalle inefficienze e dai ritardi culturali nell’organizzazione dei quartieri.

Particolarmente cocente è l’indignazione che sorge nel comparare il modo nel quale il governo del territorio avviene in Italia e quello nel quale si procede negli altri paesi europei, dove la pianificazione è stata lo strumento della ricostruzione ed è divenuta negli anni prassi indiscutibile.

Una fase diversa si apre successivamente. Mentre si infittiscono le discussioni (e le dislocazioni di forze sociali, interessi economici, rappresentanze politiche) che porteranno al centro-sinistra, “Urbanistica” diventa via via più propositiva ed affronta i temi che sono già, o che più facilmente meritano di essere portati al centro dell’attenzione politica. Dal regime dei suoli alla politica della casa, al governo delle trasformazioni territoriali, alla partecipazione dei privati alle spese di urbanizzazione, la rivista di Astengo è il repertorio delle soluzioni possibili e il manifesto delle critiche alle soluzioni sbagliate.

Ma alle speranze e alle proposte della fase iniziale del centro-sinistra subentrano presto la delusione e la protesta, a mano a mano che la carica riformatrice della nuova alleanza di governo mostra segni di logoramento – e a mano a mano che gli esponenti politici a lui più vicini, i socialisti della sinistra di Riccardo Lombardi, perdono peso e potere, o si trasferiscono su altre sponde.

Una nuova speranza nasce quando vengono istituite le regioni a statuto ordinario. Astengo riprende l’esperienza di amministratore pubblico (come Detti a Firenze e Campos Venuti a Bologna all’inizio degli anni Sessanta, era stato assessore comunale a Torino) e diventa assessore all’urbanistica nella regione Piemonte. In una stagione in cui “le politiche territoriali delle regioni” non offrono molti spunti incoraggianti, in cui (nonostante le attese degli urbanisti) “non è riconoscibile una consapevole politica di piano”, dal

quadro generale si distingue il Piemonte, che ha vissuto un quinquennio di grazia nella persistente volontà di vincere la quasi impossibile scommessa per una politica di piano (M. Romano 1981, p.3)

In termini generali, non mi sembra che – una volta conclusa l’esperienza regionale e spenta l’illusione della carica rinnovatrice – sia stato fatto un bilancio serio dell’esperienza delle regioni. Né da parte degli urbanisti, per il vero, né da quella dei politici. Né allora, né quando – concluso il terzo mandato elettorale – era apparsa evidente la generale riduzione delle regioni a organismi prevalentemente dedicati alla gestione burocratica dell’esistente e alla funzione di cinghia di trasmissione delle politiche centrali; e neppure quanto, all’inizio del decennio scorso, le vampate separatiste, autonomiste e poi federaliste avrebbero imposto, in un paese serio, una seria riflessione sull’esperienza del regionalismo.

Una contraddizione

Qui però si tocca, probabilmente, un limite dell’impostazione di Astengo ben registrata dall’archivio che “Urbanistica” costituisce. La rivista patisce una singolare contraddizione.

Da un lato, negli anni in cui Astengo la gestisce, la rivista è l’urbanistica italiana: la rappresenta, la riassume, la esprime. In Italia, in quegli anni, non c’è urbanistica fuori di “Urbanistica”: non per volontà egemonica o per particolari capacità di sopraffazione delle voci diverse, ma per l’assenza di posizioni alternative capaci di dotarsi di analoghi strumenti d’espressione; o, se si vuole, per la pienezza di rappresentatività di Astengo.

Ma dall’altro lato, e proprio per la piena consapevolezza della dimensione politica delle questioni cui disciplinarmente è legata, la rivista manca di continuità nello sviluppo del dibattito, dell’elaborazione, nell’accumulazione e nella digestione dei prodotti dell’evoluzione disciplinare. Per meglio dire, anzi, la sua continuità è nel seguire gli eventi, nello scegliere volta per volta, fase per fase, la questione più rilevante ai fini dell’affermazione sociale del messaggio dell’urbanistica, della politica della pianificazione urbana e territoriale.

Se mi è consentito un riferimento personale, la ragione di fondo per la quale, nel 1971, nacque “Urbanistica informazioni” fu forse proprio questa: la consapevolezza, da parte del rinnovato gruppo dirigente dell’INU (ossia di quello che allora ancora era l’espressione degli urbanisti italiani), del logoramento del ruolo di “Urbanistica” come strumento di raccordo con gli eventi e i soggetti della politica, come attrezzo idoneo a svolgere un ruolo dinamico, e perciò stesso mutevole, di polemica e di proposta nei confronti della “faccia politica” della società.

Una valutazione

In molte sedi si sono tentate valutazioni del ruolo di Astengo. A me personalmente non convincono le letture dell’azione di Astengo che tendono ad attribuire all’insufficienza dell’elaborazione il mancato raggiungimento degli obiettivi proposti (ad esempio: Secchi 1984, Berlanda 1991, Becchi 1998). Sebbene in queste critiche ci siano elementi di verità sui quali occorerebbe riflettere con attenzione.

La mia opinione è che il tentativo di Astengo (e degli altri che ne condivisero l’impegno) era in sostanza quello di imprimere al governo del territorio in Italia un sistema di regole (metodologiche, procedurali e tecniche) analogo a quelli che aveva consentito agli altri paesi europei di conoscere uno sviluppo sociale ed economico accompagnato e sorretto da un’armatura urbana e territoriale bella ed efficiente e da una valorizzazione delle risorse territoriali.

E credo che, alla fine degli anni Cinquanta, sia stata giusta la scelta di individuare nella questione della rendita il nodo centrale del garbuglio che rendeva così difficili i tentativi di esercitare un governo moderno alle violentissime trasformazioni del sistema territoriale.

Ma sono convinto che ha probabilmente anche ragione chi si domanda perché gli urbanisti

non si sono battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era, la n. 1150 del 1942? e perché all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova? (A. Becchi 1998, p.52).

Del resto, agli urbanisti e ad Astengo può essere giustamente rimproverato, a proposito della questione della rendita, il fatto di “non vedere altri aspetti” della questione,

ad esempio, di capire i connotati della strategia di mobilitazione individualistica in atto, di capire che non ci si trova di fronte a governi che perseguono “in modo empirico e senza alcuna prospettiva di lungo termine, una politica di composizione dei contrasti, equilibrismi e rinvii, accompagnata da piccolo favori a determinate categorie o clientele” [l’A. cita un testo di L. Bortolotti], ma, all’opposto, ad un programma politico certamente teso a privilegiare nel suo complesso i ceti medi, ma delineato con grande chiarezza (B. Secchi 1984, p. 70)

Questi argomenti, peraltro, sono stati affrontati dagli urbanisti nella fase (su cui si dovrebbe lavorare di più) successiva al clamoroso fallimento del Congresso di Napoli del 1968, che vide articolarsi il mondo degli urbanisti italiani in una pluralità di gruppi e di posizioni, alcune delle quali specificamente impegnate nell’analisi del “programma politico” dominante.

Un altro limite che può esser rimproverato ad “Urbanistica”, e in generale alla cultura urbanistica italiana, mi sembra quello di non aver scavato al fondo delle ragioni storiche che avevano prodotto, in Italia, il manifestarsi di un peso politico e sociale della rendita molto più forte di quanto non fosse nei paesi nei quali la rivoluzione borghese aveva vinto sull’ancien régime in modo non compromissorio.

Un limite, e due considerazioni

Può esser rimproverato agli urbanisti, insomma, di non aver compiuto con sufficiente continuità e rigore analisi politiche corrette. Questa osservazione sollecita però due ordini di considerazioni.

In primo luogo, è un’osservazione che chiama in causa, prima ancora che un ritardo (e una insufficienza) della cultura degli urbanisti, un ritardo della cultura politica. I ritardi, insomma, non sono stati soltanto né tanto quelli della cultura urbanistica, quanto soprattutto quelli della cultura politica. Ed è indubbio che questo ritardo (e questa insufficienza) tende ai nostri giorni ad accrescere con straordinaria velocità, a mano a mano che la politica riduce la progettualità a tutela degli interessi degli attori più forti, e la missione alla conservazione del potere.

In secondo luogo, è un’osservazione che richiederebbe da parte degli urbanisti (ed effettivamente richiede) un impegno più severo e attento nella direzione della politica (della sua analisi, della comprensione dei suoi fondamenti e delle sue regole, e perfino nella partecipazione ai suoi eventi): il che mi sembra largamente il contrario di ciò che sta avvenendo in una vasta porzione del mondo degli urbanisti.

È vero insomma che i limiti progredenti della cultura politica privano l’urbanista di una “spalla” essenziale per la sua riflessione, ma a me sembra altrettanto vero che ciò non può costituire un alibi il ripiegamento su posizioni esclusivamente tecnicistiche, per isolare la “progettazione” dalla “politica”.

Quale urbanistica

Questi appunti, certo disordinati, mi sono stati sollecitati dalla rilettura delle pagine di Astengo sulla sua rivista e di alcuni commenti alla sua opera. Domandarsi quale sia il contributo che oggi Giovanni Astengo può dare alla vicenda dell’urbanistica italiana induce a porsi un ulteriore interrogativo: qual’era – al di là delle definizioni canoniche forse troppe volte ripetute – l’idea di urbanistica che Astengo praticava? E quali componenti di questa idea sono ancora oggi utili?

Una prima componente l’ho già enunciata: l’urbanistica è una faccia della politica. Non dico “una parte”, come dice L. Benevolo, perché questa espressione può alludere a un ruolo parziale, di “ritaglio”, o, al contrario, troppo invadente dell’urbanistica. Dire che è una faccia della politica significa dire che senza un rapporto con la politica l’urbanistica è monca, e che viceversa è insufficiente a svolgere la propria missione una politica che ignori le ragioni, i metodi, le attenzioni dell’urbanistica.

Una seconda componente, che in qualche modo argomenta e sorregge la prima, è nella convinzione che l’urbanistica è servizio tecnico di interessi collettivi. È in questa natura dell’urbanistica, a mio parere,la ragione della necessità del rapporto con la politica: anch’essa - nella tradizione giacobina e borghese cui Astengo partecipa - al servizio di interessi collettivi.

Una terza componente, figlia delle due che ho ora enunciato, è che l’urbanistica, nella tradizione e nella realtà dell’Europa, è sostanzialmente compito dell’amministrazione pubblica. Gli urbanisti, allora, sono primariamente commis d’Ètat, civil servants, funzionari pubblici, e la loro missione comprende la partecipazione alla ricerca della struttura amministrativa più efficiente ai fini del governo del territorio.

Una quarta componente (o per meglio dire, una direzione di ricerca alla quale sollecitano gli assunti precedenti) è l’individuazione, o la costruzione, del ruolo dell’urbanistica, nel duplice senso della scoperta della sua utilità e della sua autonomia dalla politica.

In questa direzione moltissimo cammino resta da percorrere. A me sembra che due linee di lavoro possano essere fruttuose.

Custodi delle risorse territoriali

Da un lato, l’azione volta alla individuazione degli elementi dell’assetto delle città e dei territori che non sono negoziabili: che non sono assoggettabili al deperimento derivante da un loro uso indiscriminato perché costituiscono parte del patrimonio dell’umanità.

Si tratta di una problematica legata a una contraddizione sempre più lacerante e a una tradizione che rischia di essere assunta in modo rituale e riduttivo.

Mi riferisco alla contraddizione (che costituisce un limite serio della democrazia) tra i mandato elettorali temporalmente limitati caratteristici della forma attuale della democrazia, e gli impegni che bisogna assumere (e le penalizzazioni che occorre subire) per garantire i diritti delle generazioni future.

E mi riferisco alla tradizione della migliore urbanistica italiana, diligentemente e puntigliosamente illustrata nelle pagine di “Urbanistica”, che ha visto esemplari ed efficaci azioni di difesa e valorizzazione e promozione (con i piani e al di là dei piani) delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali. I piani di Piccinato, di Detti, di Astengo illustrati da “Urbanistica” non sono solo capitoli di un manuale tecnico, ma manifesti, proclami ed esempi di un’azione di tutela delle risorse territoriali che ha contribuito allo sviluppo di una consapevolezza sociale dei valori impliciti in quelle risorse (sebbene il ragionamento in essi implicito non sia sviluppato).

Forse, l’utilità dell’urbanistica per la politica e, al tempo stesso, uno dei fondamenti della sua autonomia possono essere individuati proprio nel suo ruolo di regia dei saperi utili a individuare e segnalare le risorse e le occasioni per lo sviluppo della civiltà presenti nel territorio.

E forse nello svolgimento di questo suo ruolo l’urbanistica può anche trovare un suo collegamento diretto con la società, autonomamente rispetto a quello comunque ricercato attraverso la politica. Superando in tal modo anche il limite, presente nella vita dell’INU, e nelle stesse pagine di “Urbanistica”, fino alla fine degli anni Sessanta, e anche negli anni più recenti,di un collegamento esclusivo con i patrons della politica e“i grossi apparati della burocrazia ministeriale” (C. Mazzoleni 1991).

La misura della razionalità

C’è chi sostiene che il carattere analitico, minuzioso, in ultima analisi positivistico di Astengo, e il carattere che ha voluto imprimere alle pratiche urbanistiche in Italia derivino prevalentemente dalla volontà di “una migliore argomentazione, giustificazione e forse specificazione delle scelte” (P.C. Palermo 1987). È probabile che sia così. Credo però che lo sforzo di Astengo di garantire una razionalità a priori alle scelte sul territorio mediante un fondamento razionalistico della pianificazione possa essere proseguito su più piani di lavoro, e che possa fornire un ulteriore contributo alla definizione di un ruolo (e un’utilità sociale fondata sull’autonomia disciplinare) per l’urbanistica.

Si tratta di impiegare gli strumenti logici e, soprattutto, la “sensibilità territoriale” elaborati e affinati nelle pratiche dell’urbanistica per misurare la razionalità delle scelte sul territorio: per valutarne costi e benefici, vantaggi e svantaggi per le diverse categorie di soggetti interessati (presenti e futuri), per simularne le conseguenze vicine e remote, per disegnare scenari analoghi a quelli utilizzati nelle tecniche della Vision of cities.

Si tratta, insomma, di suggerire alla politica non solo i quadri normativi tipici della pianificazione classica (essenziali soprattutto laddove l’appartenenza dei diritti alla trasformazione urbanistica non è del pubblico), ma anche le modalità per scegliere secondo ragione.

In fondo, si tratterebbe di svolgere un ruolo analogo a quello che, secondo Ugo Foscolo, svolge quel tale Machiavelli il quale

Gli allor ne sfronda ed alle genti mostra

Di che lagrime grondi e di che sangue.

Il ruolo di chi illustra al Principe - alla politica nel suo intreccio con la società - , le conseguenze delle scelte che essa si accinge a compiere, e in tal modo limpidamente richiama la politica alle sue responsabilità.

Perché questo ruolo sia utile (e anzi, semplicemente possibile) è naturalmente necessario che ci sia una politica degna di questo nome. Ma questo è un altro discorso.

Edoardo Salzano

13 giugno 2000

STORIA DEL 1° MAGGIO

Il 1° Maggio nasce come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, né tanto meno sociali, per affermare i propri diritti, per raggiungere obiettivi, per migliorare la propria condizione.

"Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire" fu la parola d'ordine, coniata in Australia nel 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento. Si aprì così la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, il primo Maggio, appunto, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare una forma di lotta e per affermare la propria autonomia e indipendenza.

La storia del primo Maggio rappresenta, oggi, il segno delle trasformazioni che hanno caratterizzato i flussi politici e sociali all'interno del movimento operaio dalla fine del secolo scorso in poi.

Le origini

Dal congresso dell'Associazione internazionale dei lavoratori - la Prima Internazionale - riunito a Ginevra nel settembre 1866, scaturì una proposta concreta: "otto ore come limite legale dell'attività lavorativa".

A sviluppare un grande movimento di lotta sulla questione delle otto ore furono soprattutto le organizzazioni dei lavoratori statunitensi. Lo Stato dell'Illinois, nel 1866, approvò una legge che introduceva la giornata lavorativa di otto ore, ma con limitazioni tali da impedirne l'estesa ed effettiva applicazione. L'entrata in vigore della legge era stata fissata per il 1 Maggio 1867 e per quel giorno venne organizzata a Chicago una grande manifestazione. Diecimila lavoratori diedero vita al più grande corteo mai visto per le strade della città americana.

Nell'ottobre del 1884 la Federation of Organized Trades and Labour Unions indicò nel 1 Maggio 1886 la data limite, a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno.

1886: I "martiri di Chicago"

Il 1 Maggio 1886 cadeva di sabato, allora giornata lavorativa, ma in dodicimila fabbriche degli Stati Uniti 400 mila lavoratori incrociarono le braccia. Nella sola Chicago scioperarono e parteciparono al grande corteo in 80 mila. Tutto si svolse pacificamente, ma nei giorni successivi scioperi e manifestazioni proseguirono e nelle principali città industriali americane la tensione si fece sempre più acuta. Il lunedì la polizia fece fuoco contro i dimostranti radunati davanti ad una fabbrica per protestare contro i licenziamenti, provocando quattro morti. Per protesta fu indetta una manifestazione per il giorno dopo, durante la quale, mentre la polizia si avvicinava al palco degli oratori per interrompere il comizio, fu lanciata una bomba. I poliziotti aprirono il fuoco sulla folla. Alla fine si contarono otto morti e numerosi feriti. Il giorno dopo a Milwaukee la polizia sparò contro i manifestanti (operai polacchi) provocando nove vittime. Una feroce ondata repressiva si abbatté contro le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori, le cui sedi furono devastate e chiuse e i cui dirigenti vennero arrestati. Per i fatti di Chicago furono condannati a morte otto noti esponenti anarchici malgrado non ci fossero prove della loro partecipazione all'attentato. Due di loro ebbero la pena commutata in ergastolo, uno venne trovato morto in cella, gli altri quattro furono impiccati in carcere l'11 novembre 1887. Il ricordo dei "martiri di Chicago" era diventato simbolo di lotta per le otto ore e riviveva nella giornata ad essa dedicata: il 1 Maggio.

1890: 1 maggio, per la prima volta manifestazione simultanea in tutto il mondo

Il 20 luglio 1889 il congresso costitutivo della Seconda Internazionale, riunito a Parigi, decise che "una grande manifestazione sarebbe stata organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente i tutti i paesi e in tute le città, i lavoratori avrebbero chiesto alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore".

La scelta cadde sul primo Maggio dell'anno successivo, appunto per il valore simbolico che quella giornata aveva assunto.

In Italia come negli altri Paesi il grande successo del 1 Maggio, concepita come manifestazione straordinaria e unica, indusse le organizzazioni operaie e socialiste a rinnovare l'evento anche per 1891.

Nella capitale la manifestazione era stata convocata in pazza Santa Croce in Gerusalemme, nel pressi di S.Giovanni. La tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono diversi morti e feriti e centinaia di arresti tra i manifestanti.

Nel resto d'Italia e del mondo la replica del 1 Maggio ebbe uno svolgimento più tranquillo. Lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori.

1891: la festa dei lavoratori diventa permanente

Nell'agosto del 1891 il II congresso dell'Internazionale, riunito a Bruxelles, assunse la decisione di rendere permanente la ricorrenza. D'ora in avanti il 1 Maggio sarebbe stato la "festa dei lavoratori di tutti i paesi, nella quale i lavoratori dovevano manifestare la comunanza delle loro rivendicazioni e della loro solidarietà".

Il primo maggio durante il fascismo

Nel nostro Paese il fascismo decise la soppressione del 1 Maggio, che durante il ventennio fu fatto coincidere il con la celebrazione del 21 aprile, il cosiddetto Natale di Roma. Mentre la festa del lavoro assume una connotazione quanto mai "sovversiva", divenendo occasione per esprimere in forme diverse (dal garofano rosso all'occhiello, alle scritte sui muri, dalla diffusione di volantini alla riunione in osteria) l'opposizione al regime. Il 1 Maggio tornò a celebrarsi nel 1945, sei giorno dopo la liberazione dell'Italia.

1947: L'eccidio di Portella della Ginestra

La pagina più sanguinosa della festa del lavoro venne scritta nel 1947 a Portella della Ginestra, dove circa duemila persone del movimento contadino si erano date appuntamento per festeggiare la fine della dittatura e il ripristino delle libertà, mentre cadevano i secolari privilegi di pochi, dopo anni di sottomissione a un potere feudale. La banda Giuliano fece fuoco tra la folla, provocando undici morti e oltre cinquanta feriti. La Cgil proclamò lo sciopero generale e puntò il dito contro "la volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori".

La strage di Portella delle Ginestre, secondo l'allora ministro dell'Interno, Mario Scelba, chiamato a rispondere davanti all'Assemblea Costituente, non fu un delitto politico. Ma nel 1949 il bandito Giuliano scrisse una lettera ai giornali e alla polizia per rivendicare lo scopo politico della sua strage. Il 14 luglio 1950 il bandito fu ucciso dal suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, il quale a sua volta fu avvelenato in carcere il 9 febbraio del 1954 dopo aver pronunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage di Portella.

Il primo Maggio oggi

Le profonde trasformazioni sociali, il mutamento delle abitudini, la progressiva omogeneizzazione delle abitudini hanno profondamente cambiato il significato di una ricorrenza che aveva sempre esaltato la distinzione della classe operaia. Il modo di celebrare il 1 maggio è quindi cambiato nel corso degli anni.

Da diversi anni Cgil, Cisl, Uil hanno scelto di celebrare la giornata del 1 Maggio promovendo una manifestazione nazionale dedicata ad uno specifico tema.

http://www.lomb.cgil.it/primo_maggio.htm

Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere.

K arl Marx, Capitale , libro Primo, sezione III, 1867

In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita.

Karl Marx, Capitale , libro Primo, sezione IV, 1867

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