La legge Lupi: che cos’è, che cosa fare dopo
Organizzato dalla Seconda Facoltà di architettura del Politecnico di Torino e da Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, il convegno si è svolto alla Sala Zodiaco del Castello del Valentino. Hanno aperto i lavori Roberto Gambino(vicepreside della Facoltà) e Vanda Bonardo (presidente di Legambiente Piemonte). Hanno presentato il libro Flavia Bianchi (responsabile del settore territorio di Legambiente Piemonte) ed Edoardo Salzano con l’intervento che segue. In calce una sintesi del dibattito, nel quale sono intervenuti Roberto Gambino, Raffaele Radicioni e Claudio Malacrino (urbanisti), Maria Teresa Roli (presidente di Italia Nostra), i docenti del Politecnico Giovanni Maria Lupo, Silvia Saccomani, Castanza Roggero.
Parliamo oggi di quella legge, dal titolo “Principi per in materia di governo del territorio”, che la Camera dei deputati ha approvato il 28 giugno 2005. Quella “legge Lupi” che aspetta, nelle stanze di Palazzo Madama, che la fine della legislatura le assegni uno dei due destini possibili: che la getti nell’archivio delle intenzioni rimaste tali, oppure, come ancora è possibile, che qualche furbacchione, con uno svelto colpo di mano la porti all’approvazione.
Che la legge Lupi venga sepolto in quell’archivio nel quale giacciono prodotti molto più nobili non è solo una speranza mia, ma – credo – è l’auspicio di molti di quelli che hanno compreso di che cosa si tratti. Alcuni di questi (Roberto Camagni, Vezio De Lucia, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Luigi Scano, Paolo Urbani, Antonio di Gennaro, Luca De Lucia), preoccupati come me del silenzio che circondava questa legge, si sono impegnati a mettere insieme alcuni scritti di critica che erano apparsi in varie sedi, e che erano quasi tutti raccolti nel sito eddyburg.it. Così, grazie soprattutto a Maria Cristina Gibelli, che ha lanciato la proposta e ha curato il libro, e all’editore Alinea, che lo ha tempestivamente allestito, è nato questo piccolo lavoro che oggi presentiamo.
I contenuti della Legge Lupi
Inizio con l’esaminare alcuni punti della versione della legge Lupi che ha ottenuto il via libera dalla Camera dei deputati. La Legge Lupi in pelle d’agnello, come l’ho ribattezzata su eddyburg.it dopo le modifiche introdotte nell’aula del Parlamento. Se queste infatti hanno in qualche punto addolcito il linguaggio, non hanno minimamente intaccato il carattere generale della legge: una legge che privatizza l’urbanistica. Come ha sottolineato Flavia Bianchi, in essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contenere: quelli della proprietà immobiliare.
Voglio sottolineare che il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contenere e condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto).
Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge.
La norma chiave è l’articolo 5, comma 4:
“Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”.
Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.
Del resto, il rinvio al’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso agli onorevoli Iannuzzi, Realacci, Mantini, Sandri, Vigni, Chianale, Lion, firmatari della coraggiosa proposta di sostituzione di cui sopra, è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.
Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miopi per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio.
Nel sistema “innovativo” e “moderno” le scelte sono concordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7). Se riflettete su ciò che sta avvenendo a Milano sulla base degli “obiettivi strategici” potete farvene un’idea.
Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo un vero “pasticcio di legge”.
Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili?
Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane?
Dell’articolo 5 ho già detto: esso è il centro dell’edificio.
L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Soffoca il ruolo delle province, rendendolo facoltativo. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendo la sostenibilità al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni: in cui il termine “sostenibile” è diventato sinonimo di “sopportabile”. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale (chi vuol capire come, legga gli scritti di di Gennaro e Scano in proposito). Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali: devono limitarsi a recepire le tutele della pianificazione sovraordinata.
L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”.
Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio del nuovo PRG di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).
L’articolo 8 (già ne ho commentato un aspetto) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari.
Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!).
Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”! Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.
Concludo questa rapida analisi con qualche ulteriore perla.
L’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura).
E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere “l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari).
E infine l’articolo 13, ultimo comma:
“Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”.
Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. Per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico si sostituisce, al “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso” (fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica).
Con buona pace di quanti sostengono che l’opposizione, in Parlamento, avrebbe fatto un ottimo lavoro e corretto positivamente il precedente testo cucinato dall’onorevole Lupi (amorevolmente assistito dall’onorevole Mantini), è opportuno precisare che quest’ultimo comma è stato aggiunto nel dibattito in Aula. Non solo: le “opposizioni” si sono astenute!
Una ideologia “bipartisan”?
Non è ancora legge ma – come diceva Flavia Bianchi nel suo intervento - la ideologia della Legge Lupi ha già lavorato nell’urbanistica italiana.
La legge Lupi non nasce come il parto di una volontà appena maggioritaria, che col suo 51% schiaccia un’altra volontà, fortemente ostile e portatrice di un disegno radicalmente diverso. Non è così. La legge Lupi esprime convinzioni, progetti, interessi, timori, esperienze che pervadono un arco ampio di gruppi e soggetti del mondo della politica, della cultura, dell’amministrazione.
Tracce dei “principi” e delle pratiche che la legge Lupi si propone di generalizzare sono evidenti in molti luoghi: in non poche legislazioni regionali; nelle pratiche di comuni, regioni, province sia al Nord che al Sud del paese; nelle pubblicazioni accademiche e in quelle specialistiche; nelle associazioni di categoria.
Indicative del generale clima “lupesco” mi sembrano due circostanze. La prima: che alcune connotazioni di fondo della legge Lupi fossero già presenti nel disegno di legge presentato da un nutrito gruppo di deputati della Margherita, guidati dall’on. Mantini. La seconda: che l’Istituto nazionale di urbanistica abbia svolto un ruolo di sostegno e di supporto alle impostazioni delle proposte Lupi e Mantini in tutto l’iter legislativo.
Pochi si sono scandalizzati, nell’area politico e culturale del centro-sinistra quando l’on. Mantini ha proclamato che la legge licenziata dalla Camera dei deputati è una legge bipartisan. Oppure quando l’on Lupi ha dichiarato che “il clima di collaborazione con cui il testo è nato pone le basi per andare avanti” al Senato.
Del resto, chi ha seguito le consultazioni della Commissione senatoriale ha potuto constatare che, agli incontri con le associazioni più critiche nei confronti della legge, i rappresentanti del maggior partito d’opposizione erano assenti e che perfino il rappresentante di una regione “rossa” come l’Emilia Romagna ha dato alla legge parere favorevole.
L’ideologia della Legge Lupi
Per concludere, vorrei cercare allora di riassumere gli elementi fondamentali dell’ideologia e della strategia espresse dalla legge Lupi. Elementi di fronte ai quali ci troveremo ancora, nei prossimi mesi e anni.
Si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari.
Si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi e spazi di vita comuni per i cittadini. Gli “standard urbanistici” sono sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”.
Si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio, contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria.
Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del paese, avviate con i condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare.
Ciò che si dovrebbe fare invece
Speriamo che domani si possa cominciare a parlare di “ciò che si dovrebbe fare invece”. Devo dire che – come il libretto testimonia – molti di noi hanno da tempo avanzato proposte positive, anche in occasione della critica alle proposte del governo. Nello stesso libretto le troverete, per esempio, nel testo a mia firma che apre il libro e in quello di Alberto Magnaghi e Anna Marson.
Esse si basano tutte su una convinzione e una consapevolezza.
La convinzione che – come scrivono Magnaghi e Marson – il principio basilare da affermare è “la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come bene comune [non alienabile senza il consenso della comunità], essenziale per il benessere delle comunità su di esso insediate”.
La consapevolezza – per adoperare le parole di Roberto Camagni – che ”il territorio come bene collettivo non viene adeguatamente garantito dal puro operare dei rapporti di mercato”, e “richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa”.
Il dibattito
Tutti gli interventi nel dibattito hanno condiviso le critiche alle legge Lupi, argomentato nelle due relazioni introduttive. Così sono stati condivisi gli indirizzi propositivi cui Salzano ha accennato, sebbene occorra (Radicioni) insistere con maggior forza sulla necessità di un controllo pubblico sulla formazione, trasformazione e distribuzione della rebdita, che costituisce il nodo rale della questione.
La maggior parte degli interventi (Bianchi, Radicioni, Gambino, Malacrino, Lupo, Roli) ha sottolineato, anche raccontando numerosi esempi di malgoverno del territorio in Piemonte, come la Legge Lupi si proponga di generalizzare una cultura che si è diffusa nel paese da tempo: a far data (precisa Malacrino) dagli anni Novanta, quando, a partire dalla legge Botta-Ferrarini, si è reintrodotto il rapporto diretto tra Stato e comuni, sono proliferati i “programmi complessi” in deroga alla pianificazione ordinaria, e alcune parole magiche (sussidiarietà, concertazione), spostate dal loro contesto, sono diventate grimaldelli per trasferire il potere alle immobiliari.
Il PRG (osserva Roli) viene considerato da molti sindaci un insieme di regole di cui occorre sbarazzarsi per avere le mani libere, ciò che i “programmi complessi” hanno aiutato a fare. Invece le regole sono indispensabili perchè consentono a tutti di interagire con le decisioni avendo un insieme certo di riferimenti.
Alla corruzione del sistema della pianificazione ha contribuito l’enfasi posta sulle grandi opere (Gambino, Lupo), e la vicenda del PRG di Torino, di cui oggi si possono verificare gli effetti, testimonia esemplarmente che il danno maggiore è venuto prima della proposta legislativa (Lupo).
L’Università non ha svolto un ruolo sufficiente: essa dovrebbe fare più leva sull’interrelazione tra le diverse discipline e sull’attenzione al concreto processo di trasformazione del territorio, che deve partire dalla consapevolezza degli elementi di storicità (Roggero).
La critica alla Legge Lupi (hanno osservato Gambino e Saccomani) non deve indurre ad esprimere una rozzezza parallela a quelle del legislatore, sforzandosi di cogliere sempre la compessità del reale e la parziale verità che in talune formulazioni della legge può nascondersi. Occorre però (questa convinzione è stata ribadita da tutti) che la legge con passi a nessun costo.
Possono piacere o non piacere (a me non piacciono, e dirò perchè) ma una cosa è certa: Questi nuovi mega centri commerciali sono strutture che influenzano poderosamente il funzionamento del territorio, a una scala molto vasta. Inducono flussi di traffico, trasformano l’ambiente, provocano trasformazioni nelle zone circostanti. Sono quindi strutture che, sulla base di una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, vanno localizzate sulla base di un piano di livello almeno provinciale. E sono strutture nuove, le quali quindi devono essere regolate da una legge: una legge regionale che definisca dimensioni, condizioni, procedure. In quella zona non esista un piano che preveda questa megastruttura, e non esiste una legge regionale che stabilisca i requisiti e le attenzioni.
A me sembra del tutto intollerabile che le regioni, cui è attribuita la potestà di governare il territorio, che dal 1972 hanno la competenza e la responsabilità della legislazione urbanistica, siano inerti di fronte a questi episodi.
Nel merito, questi centri commerciali territoriali mi sembrano esprimere una tendenza molto preoccupante.
Guastano la città: le svuotano del commercio, che contribuisce poderosamente a renderle vive e vitali: il commercio che è stato all’origine della loro creazione. Allontanare il commercio dalla residenza, dai servizi, dalla vita quotidiana significa castrare le città, renderle un dormitorio, trasformarle a poco a poco in luoghi spenti.
Guastano il territorio: concentrare in un punto grandi quantità di negozi significa generare una dinamica di flussi completamente nuova, significa alterare profondamente il funzionamento di vasti territori. Seppure si scegliesse di farli è del tutto insensato localizzare strutture che hanno questo peso, questa capacità gigantesca di attrarre flussi di traffico, senza un piano generale dell’assetto del territorio: un piano esteso almeno all’intera provincia, che ne verifichi la funzionalità nei confronti di tutto il territorio.
Guastano la nostra vita, il nostro ambiente: i grandi centri commerciali implicano che sempre meno si adoperino i piedi per le necessità quotidiane e sempre più l’automobile. Implicano che sempre più si inquini, sempre più si sprechi l’energia, sempre più si accumulino nell’atmosfera i veleni che ci uccidono.
Informazioni molto più ampie su Borgarello e dintorni le potete trovare nel servizio di Fabrizio Bottini: Centro commerciali apocalittici. Centri commerciali integrati
Se non riuscite ad ascoltare la trasmissione al link sopra provate a cercarla nel comodo archivio di Radio anch’io
Dal Corriere della sera, 29 giugno 2008
Citato in Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008
Certo, questa volontà e capacità sono necessarie, ma insieme ad esse e forse prima di esse, è necessaria la politica. Poiché la pianificazione della città e del territorio è lo strumento che la politica, pensosa dell’interesse generale e del futuro della comunità, dovrebbe impiegare, coerentemente con le proprie strategie. Come potrebbe la pianificazione non essere in crisi quando in crisi profonda è la politica? E la politica è in crisi proprio perché sono venuti meno i suoi due requisiti essenziali: la capacità di guardare lontano, di saper delineare un progetto di società da costruire pazientemente conquistando il consenso necessario; la capacità di esprimere interessi capaci di rendere migliori le condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione: capaci di divenire “interesse generale” della società.
È vastissima ormai la letteratura che illustra i modi e le regioni (e le devastanti conseguenze) di una politica che si è appiattita sull’immediato e sulla ricerca del consenso attraverso il solleticamento degli interessi più immediati. Di una politica che, anziché guidare l’economia, si è appiattita sull’economia data: quella per la quale l’unico obiettivo è la crescita esponenziale ed irrefrenabile della produzione di merci, il cui principale strumento la privatizzazione e la trasformazione in merce d’ogni risorsa materiale e immateriale, riproducibile e irriproducibile disponibile sull’intero pianeta. Schiava di un capitalismo la cui “manifestazione più evidente”, come ha scritto Piero Bevilacqua, “è la spinta impetuosa a trasformare la società in individui”, la politica ha perso ogni connessione con una società che possa definirsi tale. Non colloquia più con i cittadini, i partecipi di una comunità, né può esprimerli: si rivolge ormai alla “gente”, a una massa di individui ridotti a “clienti”, a meri compratori di merci sempre più “opzionali”, quindi inutili.
Del resto, l’ideologia che tende a costituire il “pensiero unico” di grandissima parte delle formazioni politiche, in Italia a altrove, è basata (come non ci stanchiamo di affermare) sulla dissoluzione dell’equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo, sull’appiattimento sull’individualismo, sulla celebrazione come massimi valori del successo individuale, della ricchezza. Mentre per converso concetti come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati tabù da evitare.
In definitiva dobbiamo concludere che, abbandonata dalla politica, l’urbanistica (e il suo strumento, la pianificazione) si è allontanata anche dalla società. Qui, forse, la ragione del suo declino. Ma qui anche, allora, la possibilità del suo riscatto, della sua ripresa. L’urbanistica infatti (ma preferiamo dire le ragioni della città come “casa della società”, come luogo, come prodotto e strumento di una comunità di cittadini) può ritrovare un suo ruolo e una sua utilità se si collega a quelle tensioni e interessi ch ormai si manifestano in quasi tutte le regioni d’Italia e si concretano spesso nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.
In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze). Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale puibblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati (ne ragioneremo nella prossima edizione della Scuola di eddyburg).
I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.
È un lavoro nel quale spetta anche agli urbanisti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. Lo afferma del resto il loro “codice deontologico”, secondo il quale gli urbanisti “esercitano la loro professione esclusivamente per il bene e l'interesse pubblico […]. Il pianificatore territoriale rispetta il territorio come risorsa comunitaria, fragile e limitata, contribuendo, così, alla conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, favorendo lo sviluppo equilibrato delle comunità locali ed apportando miglioramenti alla qualità della vita”.
E più ancora della corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliora o peggiora, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.
Da Il Capitale, libro III; cit. in P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008
C’è stato un momento nella storia politica e culturale milanese del Novecento nel quale è sembrato possibile pianificare un assetto urbanistico per la Milano del nuovo millennio che avrebbe dato vita a una città molto diversa da quella che oggi conosciamo. Sono gli anni di ascesa del regime, soprattutto quelli che coincidono con l’arrivo a palazzo Marino di «un giovane tecnico - scrive Paolo Mezzanotte a metà degli anni venti - di ammirevole attività e di intelligenza fuori dal comune». Stiamo parlando di Cesare Chiodi, assessore all’edilizia tra il 1922 e il 1925, e del sogno tenacemente perseguito di una città policentrica.
Conclusa l’esperienza amministrativa, l’ingegnere liberale nato e vissuto a Milano tra il 1885 e il 1969 partecipa con Giuseppe Merlo e Giovanni Brazzola al Concorso nazionale per lo studio di un progetto di piano regolatore e d’ampliamento per la città di Milano del 1926-27: «il più importante [...] che si sia stato bandito» in Italia afferma orgogliosamente Ernesto Belloni che dell’intera operazione è il timoniere prima come commissario prefettizio, poi come podestà di Milano. In questa occasione le diverse anime dell’architettura e dell’urbanistica milanesi si trovano a confronto: quella di Piero Portaluppi e Marco Semenza, quella di un nutrito gruppo di architetti riuniti nel Club degli urbanisti (Alberto Alpago Novello, Tomaso Buzzi, Ottavio Cabiati, Giuseppe de Finetti, Guido Ferrazza, Ambrogio Gadola, Emilio Lancia, Michele Marelli, Alessandro Minali, Giovanni Muzio, Pietro Palumbo, Gio Ponti e Ferdinando Reggiori) e quella di Chiodi, Merlo e Brazzola che tramutano in disegno urbano la speranza di una Milano policentrica con un progetto - contrassegnato con il motto Nihil sine studio 2000 - che appare come la sintesi di una vicenda complessa: quella della genesi di un’idea di città e di progetto urbano nati in un momento di profonda inadeguatezza degli strumenti operativi e concettuali di pianificazione rispetto ai gravosi compiti a cui erano chiamati.
Il progetto, che risulterà terzo classificato, è composto da ventisette tavole [1] e una relazione. Se si escludono gli studi e le tavole preparatorie conservate dall’Archivio Cesare Chiodi del Politecnico di Milano, degli elaborati grafici presentati al concorso non sembra esservi più traccia negli archivi milanesi. L’Archivio Storico Civico del Comune di Milano conserva invece la relazione in più copie e in due versioni, identiche nei contenuti, ma diverse nell’impaginato. La prima è un dattiloscritto, con alcuni titoli e correzioni manoscritti, fascicolato, con copertina, di 123 pagine. La seconda è un dattiloscritto ciclostilato, fascicolato, di 93 pagine, realizzato probabilmente sia per uso dei singoli commissari, sia per l’esposizione al pubblico del progetto alla Fiera di Milano nel 1927.
Oltre a una lunga premessa - che riporta dati statistici demografici e i «limiti di studio del nuovo piano di ampliamento nei riguardi dell’accrescimento della popolazione» - la relazione, datata «aprile 1927», si articola in tre parti che da un lato ripropongono la dicotomia, anticipata dal bando di concorso, fra città storica e nuova espansione, dall’altro collocano il progetto urbano in una dimensione che comprende la gestione dei processi di costruzione della città segnando il momento di passaggio tra piano figurato ottocentesco e moderno strumento di amministrazione territoriale. Le dimensioni e i contenuti del testo consentono di ipotizzare che non si tratta semplicemente di un elaborato progettuale. Questo scritto, infatti, non contiene solo la descrizione e le motivazioni delle scelte adottate dagli autori nel piano per Milano, ma si configura come una sintesi delle migliori pratiche urbanistiche conosciute fino a quel momento, una sorta di anticipazione di quella tecnica urbanistica che Chiodi metterà a punto compiutamente, meno di dieci anni dopo, nel manuale La città moderna edito da Hoepli nel 1935. Il concorso per il piano regolatore di Milano, per la sua prevedibile visibilità sia tra gli addetti ai lavori sia tra il grande pubblico, sembra cioè essere utilizzato strumentalmente dai progettisti per diffondere una nuova « coscienza urbanistica che - afferma Chiodi nel 1926 - faccia più ardito il legislatore, più agguerrito il tecnico, più preveggente e sorretto l’amministratore, più illuminato lo speculatore nella ricerca dell’ ubi consistam comune per il maggior decoro delle [...] città e per il maggior benessere dei [...] concittadini».
Renzo Riboldazzi (rielaborazione dai paragrafi introduttivi a Una Città Policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo, Polipress, 2008)
[1] 1. Milano nel 1801; 2. Milano nel 1859; 3. Milano nel 1900; 4. Milano nel 1926; 5. Milano nel 2000; 6. Diagrammi dell’incremento della fabbricazione e della popolazione cittadina; 7. Studio generale del piano di ampliamento; 8. Densità della popolazione nelle zone della città futura; 9. Schema delle zone edificatorie nei nuovi nuclei suburbani; 10. Zone industriali e impianti ferroviari; 11. Sistema dei parchi e delle zone a fabbricazione estensiva; 12. Sistemazione della zona di Gorla-Precotto-Crescenzago; 13. Sistemazione della zona di Affori-Niguarda; 14. Schema delle radiali di grande comunicazione col contado; 15. Grandi radiali extraurbane ed anello esterno; 16. Futuro centro di Milano e rete di collegamento coi nuclei periferici; 17. Statistica del traffico tranviario; 18. Statistica del carreggio; 19. Rete dei mezzi di trasporto; 20. Rete dei mezzi di trasporto nella zona centrale; 21. Sistemazione stradale interna; 22. Rete stradale della zona interna; 23. Varianti al piano regolatore della zona interna; 24. Problemi edilizi particolari; 25. Problemi edilizi della zona interna; 26. Sezioni stradali del centro; 27. Sezioni stradali della periferia.
Nihil Sine Studio 2000
[…] Criteri generali di estensione del piano urbano
Opportunamente fu già acquisito alle direttive della amministrazione cittadina e viene riconfermato dallo stesso bando di concorso che l’accrescimento cittadino non debba effettuarsi con legge monocentrica, ma debba al contrario seguire un indirizzo policentrico, nel senso di limitare volutamente lo sviluppo dell’aggregato principale cittadino per dar vita a villaggi, o sobborghi, o città satellite, cioè ad enti compiutamente organizzati in ogni loro servizio e capaci di vita relativamente autonoma, opportunamente distribuiti all’intorno della zona di influenza della città originaria, cinti da spazi liberi e convenientemente collegati da poche buone arterie col centro principale e fra di loro. I margini del piano di ampliamento del 1912 dovrebbero a nostro avviso costituire gli estremi limiti non oltrepassabili della espansione monocentrica della città. Entro questi limiti, che approssimativamente coincidono con quelli della linea daziaria del 1921, sono oggi ospitati circa 680.000 abitanti (censimento 1921). La densità di sfruttamento assegnata alla parte tuttora fabbricabile coi criteri precedentemente indicati permette di prevedere un incremento di popolazione per questa zona di circa 375.000 [unità] portando a poco più di un milione gli abitanti del nucleo urbano principale, cifra già notevolmente elevata. Fuori di questi limiti si tratta di disporre col nuovo piano di ampliamento lo spazio necessario per circa un altro milione di abitanti ed è appunto a questa parte della città che possono applicarsi quelle nuove direttive di sviluppo urbano che valgono ad arginare lo sviluppo monocentrico della città. Da qui crediamo utile iniziare il nostro studio perché dal diverso gravitare dei nuovi nuclei satellite intorno al nucleo principale ne risultano notevolmente influenzate anche le condizioni di questo. A base del nostro studio sta il concetto che l’ulteriore sviluppo della città non avvenga per espansione isotropa ed uniforme del consueto schema a scacchiere o ragnatela, ma dia invece luogo ad un processo di differenziazione per generazione intorno al nucleo centrale di minori unità satellite che, pur nel quadro generale di una comune organizzazione, conservino spiccate caratteristiche proprie. La città non dovrà espandersi a caso ed uniformemente intorno alla periferia bensì mediante l’aggregazione di nuclei ben disegnati, definiti e delimitati (che saranno secondo i casi sobborghi industriali o residenziali, città giardino, quartieri operai) ognuno dei quali dovrà avere dimensioni appropriate, essere provvisto di quanto occorre alla vita giornaliera per il lavoro, la ricreazione, la coltura, contare su adeguati spazi liberi, elemento essenziale della città moderna non meno che le case e le strade.
I rilievi demografici riportati dimostrano come enormemente irregolare, per importanza e per posizione, sia la distribuzione attuale degli aggregati suburbani intorno alla città. Lo sviluppo edilizio e demografico suburbano è infatti prevalente ed ormai a contatto della città del quadrante settentrionale (Musocco, Affori, Niguarda, Greco, Gorla, Precotto, Crescenzago), è più scarso e lontano a ponente (Baggio e Corsico) ed a levante (Lambrate e Rogoredo), quasi nullo a mezzodì (Vigentino e Chiaravalle). Questa situazione di fatto attuale, che risponde anche a naturali condizioni di ambiente, non può essere senza influenza sullo sviluppo futuro. Sarebbe contrario alla logica di tracciare un piano di ampliamento che, a somiglianza dei precedenti, si estendesse con uniforme scacchiera in ogni direzione. Più opportunamente e con sicura economia di mezzi deve concentrarsi in determinati punti intorno ai più importanti nuclei suburbani e lungo le direttrici delle grandi radiali esterne lo sviluppo della rete stradale e dei servizi pubblici ed ordinarsi la fabbricazione. Una soluzione di questo genere ha anche un suo attraente lato morale in quanto permette di conservare meglio intorno alla città il ricordo e le caratteristiche storiche, artistiche od ambientali dei vecchi villaggi suburbani invece di affogarli nell’uniforme assorbimento entro le maglie della grande città. […] Nelle tavole è accuratamente riportato lo stato attuale della fabbricazione. Fu cura costante nello studio del nuovo piano esterno di rispettare in pieno tutto ciò che esiste, di raccordare la nuova rete di strade alla vecchia, di fare degli edifici o artistici o storici, o comunque di qualche pregio, i punti di riferimento per particolari adattamenti o sistemazioni.
Prima di passare ad un rapido cenno descrittivo dei singoli nuovi gruppi creati crediamo opportuno indicarne le caratteristiche comuni. In generale si è mirato a dare veramente l’impronta di unità autonoma a ciascuno di questi gruppi, creando per ognuno un proprio centro intorno al quale potessero raccogliersi i principali uffici pubblici ed il quartiere commerciale, di disporre intorno a questo i quartieri residenziali a fabbricazione gradatamente sempre più estensiva e di assegnare alle zone marginali in opportuno contatto, o in facile comunicazione colle grandi vie di traffico stradale, ferroviario o per vie d’acqua, i quartieri industriali; il tutto circondato da zone agricole e intramezzato da spazi verdi. Rispetto al centro di ognuna di queste unità satellite si orienta la propria rete stradale: sia quella della grande viabilità, destinata ai collegamenti colla vecchia città, col contado e colle unità satelliti prossime, sia quella della viabilità minore interna. Una disposizione così teoricamente perfetta dal punto di vista edilizio e stradale, non è stata ovunque raggiungibile; ad ogni modo ad essa si è cercato di tendere colla maggiore approssimazione. I gruppi principali creati all’infuori dei limiti del vecchio piano di ampliamento del 1912 sono i seguenti: il quartiere di Lambrate è costituito da due parti quasi distinte, separate fra di loro dal corso del nuovo canale navigabile e dalla zona verde prevista sulle sponde del Lambro. La prima (che racchiude il vecchio abitato del paese) compresa fra il canale navigabile e la nuova stazione ferroviaria ha destinazione prevalentemente industriale, perfettamente rispondente al suo indirizzo attuale ed alla sua vicinanza a così importanti arterie di traffico. La seconda, più orientale e completamente di nuova creazione, ha invece destinazione residenziale, come villaggio operaio in parte a fabbricazione intensiva, in parte a fabbricazione estensiva, destinato a raccogliere la popolazione operaia della vicina zona industriale. Il quartiere di Linate è costituito da un unico agglomerato disposto a cavaliere della grande radiale suburbana dell’est e da questa direttamente collegato alla città, pur essendone materialmente separato dall’ampia zona verde lasciata sui margini del Lambro. Ha destinazione prevalentemente residenziale per la popolazione operaia che gravita intorno ai centri industriali dell’Ortica e della zona del porto. Il quartiere portuale occupa tutto il settore di sud-est della nuova città con caratteristiche nettamente industriali, rete stradale a grandi maglie regolari orientate secondo l’andamento degli impianti portuali e delle tre principali arterie di collegamento colla città: la via Marco Bruto, la nuova sede della strada Paullese ed il corso XXVIII Ottobre. L’abitato di Rogoredo costituisce la zona residenziale, prevalentemente operaia, di questo quartiere. Il quartiere di Vigentino è l’unica prevista espansione della città verso il sud. Le condizioni igieniche meno felici di questo settore della città non consigliano di dare maggior sviluppo alla fabbricazione in questo senso. Il nuovo nucleo principale si estende dalla provinciale Pavese alla Vigentina. Il quartiere di S. Cristoforo ha caratteristiche industriali nella zona che si estende radialmente lungo il Naviglio Grande e la linea ferroviaria ed è invece previsto come grande villaggio operaio nella parte fra la stazione di S. Cristoforo e la piazza d’Armi di Baggio. Le linee del piano regolatore vigente (già in corso di attuazione) limitano notevolmente in questo punto le possibilità di sviluppo di nuove soluzioni. Si è perciò studiato di adattare a quelle la organizzazione generale del quartiere, pure assegnando una impronta più precisa e definita alle sue singole parti. Il grande rettifilo dalla stazione di S. Cristoforo alla piazza d’Armi può costituire il progettato viale delle Milizie, asse del quartiere di caserme e di stabilimenti militari. Il quartiere di Baggio, notevolmente lontano dalla città, ha più caratteristico e spiccato aspetto di unità autonoma. La nuova zona di espansione si stende a ventaglio intorno al vecchio paese che è completamente rispettato nella sua struttura. Il suo nuovo centro viene creato verso la città allo sbocco della grande radiale di congiunzione ed all’incrocio coi collegamenti trasversali con Corsico e Trenno. Intorno al grande piazzale centrale alberato sono previste le zone residenziali; al sud in direzione di Cesano Boscone e Corsico, le zone industriali facilmente raccordabili alla ferrovia di S. Cristoforo. Il quartiere di Trenno costituisce pure una piccola unità autonoma fra il parco dell’Olona e la zona degli ippodromi di destinazione quasi esclusivamente residenziale. Il quartiere di Boldinasco situato allo sbocco in città delle autostrade, percorso da arterie in diretta comunicazione colla Fiera campionaria ed il corso Sempione ed in gran parte costituito da terreni di proprietà comunali, è suscettibile di rapido sviluppo con fabbricazione parte intensiva e parte estensiva. Il quartiere Affori-Niguarda compreso fra la linea delle Ferrovie Nord ed il corso del Seveso presenta qualche difficoltà di sviluppo in parte per la esistenza di importanti nuclei fabbricati, in parte per la progettata costruzione del nuovo ospedale che occuperà una notevole porzione centrale di questa zona. […] Le difficoltà di studio di questo quartiere hanno consigliato di svilupparne la planimetria in scala maggiore. Una nuova arteria radiale parallela alla strada provinciale per Como percorre in direzione da nord-ovest a sud-est il nuovo quartiere tagliandolo in due parti. Quella di ponente, raccordabile alle linee della Ferrovia Nord, si presta ad uno sviluppo industriale; per quella di levante è prevista invece una utilizzazione prevalentemente residenziale. Il quartiere di Greco ha un grande sviluppo longitudinale avendo come direttrice il nuovo vialone per Monza. Sui due margini di questo sorgerano i nuovi quartieri di abitazione; fra questi e la ferrovia si ha invece un’ampia zona che si presta a scopi industriali anche per la vicinanza della nuova stazione di Greco. Il Milanino, colla sua struttura attuale suscettibile di futuri ampliamenti, entra definitivamente coll’estensione del piano di ampliamento a far parte del sistema urbano collegandosi alla città con un ampio viale assiale che si innesta nei pressi della Bicocca al nuovo viale per Monza. Il quartiere Gorla Crescenzago occupa la parte nord-est della città fra la ferrovia per Monza ed il Lambro. Le arterie esistenti del viale Monza e di via Padova costituiscono due situazioni di fatto non suscettibili di ritocchi. Nella zona libera fra le due arterie si è previsto lo sviluppo del nuovo quartiere che ha fra le sue caratteristiche anche il corso della Martesana che si è voluto conservare immutato fiancheggiandolo con zone a verde ed a fabbricazione rada.
Rete stradale
La tendenza decongestionatrice e decentratrice del nucleo urbano, che tende a dar vita ai margini della città ad unità demografiche capaci di un notevole grado di autonomia funzionale, rende necessaria la impostazione del problema stradale con criteri affatto differenti da quelli seguiti nel vecchio piano regolatore. Gli schemi tipici di espansione a scacchiere od a ragnatela orientati rispetto ad un unico centro urbano ed uniformemente distesi tutt’intorno alla città in ogni direzione non hanno più ragione di essere. La rete stradale e dei pubblici servizi inerenti deve disporsi in relazione alle necessità particolari e relative delle zone già designate per il preordinato sviluppo della città. La rivoluzione compiutasi nell’ultimo ventennio nei mezzi di trasporto concorre a modificare le concezioni delle necessità stradali. È notevole, ad esempio, la caratteristica del piano regolatore vigente (1909-12) che, concepito in un’epoca nella quale i mezzi di trasporto erano quasi unicamente monopolizzati dalle ferrovie, si arresta ai margini della città senza preoccuparsi di creare i necessari collegamenti della città col contado, colle fiorenti città e borgate delle provincia – quali Monza, Sesto, Saronno – colle zone industriali del Gallaratese, con quelle agricole della “Bassa”, tutte unicamente congiunte alla città dalle anguste strade provinciali esistenti assolutamente inadeguate ad ospitare il sempre crescente traffico dei mezzi di trasporto automobilistici o le sedi di linee tramviarie foresi.
Al contrario oggi si impone la necessità di considerare, come elemento essenziale nell’ordinato sviluppo della città, i suoi rapporti colla regione che la circonda e di studiare i mezzi più adatti per le comunicazioni extraurbane che hanno influenza grandissima sulla vita demografica ed economica della città. Nel nostro studio noi ci siamo proposti una esatta distinzione fra le arterie di grande traffico e le strade secondarie di puro disimpegno. Alle prime corrispondono tre funzioni essenziali di collegamento: a) quello radiale fra il nucleo centrale e le unità satelliti sia del suburbio, sia della regione, corrispondente alla funzione delle nostre vecchie provinciali; b) quello periferico fra i nuclei satellite fra loro; c) quello interno fra i diversi quartieri di uno stesso nucleo. Le strade secondarie soddisfano invece alle necessità della circolazione locale, al disimpegno delle zone edificatorie, al movimento di cabotaggio entro i ristretti limiti di ciascun quartiere. A funzioni così distinte corrispondono necessità di dimensioni e di sistemazioni affatto diverse. Premettiamo subito che nello studio di un piano così vasto per la cui attuazione si richiederà la vita di alcune generazioni è soprattutto alle arterie di grande traffico che occorre dare ordinamento e disposizione definitiva. Quanto alle arterie secondarie, se pure esse risultano nelle nostre tavole indicate con qualche ricchezza di particolari per quelle zone della città delle quali per le loro più difficili – ed in parte già pregiudicate condizioni edificatorie – abbiamo creduto opportuno sviluppare i piani in iscala più evidente, non è possibile dare a questo nostro studio portata superiore di quella alla quale può onestamente pretendere. Esso va preso quindi come esemplificazione di un indirizzo al quale l’amministrazione può ispirarsi, pur senza escludere che all’atto pratico la rete minuta di lottizzazione abbia a subire qualche ritocco.
Lo scarso assegnamento che si può fare sulle antiche strade provinciali per i collegamenti radiali fra il centro urbano ed i nuclei satellite ed il contado, per essere quelle quasi tutte troppo anguste e già vincolate dalla fabbricazione che si è lasciata sorgere troppo prossima ai loro cigli senza sufficienti zone di rispetto, ha consigliato di iniziare lo studio della rete stradale da quello delle future grandi arterie radiali esterne destinate a sostituirsi alle vecchie provinciali almeno nel tratto più prossimo alla città. Le nuove radiali previste sono le seguenti, iniziando dal settore di nord-est: 1) la radiale Veneta destinata a sostituire la provinciale Veneta nel suo ultimo tratto (attraversamento di Crescenzago e viale Padova). Essa se ne distacca a monte di Vimodrone, si dirige in rettifilo su Lambrate (al Dosso), raccogliendo il traffico di questo nuovo nucleo cittadino, e sottopassa l’argine ferroviario nel punto ove già esiste il cavalcavia, che dovrà essere convenientemente ampliato. Di qui può penetrare in città per due distinte strade, l’una per la via Porpora ed il corso Buenos Ayres, atte a smistare il traffico verso il centro e l’ovest, l’altra per via Pacini e il viale Lombardia, destinate agli allacciamenti col sud. 2) La radiale dell’Est sul prolungamento del corso XXII Marzo, predisposta per ricevere in futuro gli allacciamenti di una eventuale autostrada da Venezia e per collegare colla città il nuovo parco del Lambro, il quartiere di Linate e le provenienze della strada Paullese. Essa sottopasserà il rilevato ferroviario col manufatto già costruito della luce netta di 30 metri e potrà penetrare in città fino a poche centinaia di metri dal Duomo attraverso l'ampio rettifilo del corso XXII Marzo e di porta Vittoria che, in tutto il suo sviluppo di 3 km, ha larghezza sempre prossima ai 30 metri. 3) La radiale Piacentina ha già un buon imbocco in città nel corso XXVIII Ottobre largo, nelle parti sistemate, 50 metri. Più fuori, la copertura del Redefossi assicura alla provinciale Piacentina una larghezza quasi costante di 40 metri ed il cavalcavia di Rogoredo permette di evitare lo sbarramento ferroviario e la strozzatura di Rogoredo. 4) La radiale Vigentina si distacca dalla provinciale attuale a Brandezzate deviando verso ponente fino a raggiungere i pressi della cascina Trebbia. Da qui ripiega a nord e lungo la strada di Morivione, opportunamente allargata a 40 metri, colla copertura del Ticinello, raggiunge i Bastioni e penetra più addentro nella città colla spaziosa via Calatafimi ed il piazzale della Vetra. 5) La radiale Pavese si distacca a Gratosoglio dalla provinciale attuale e piega in rettifilo verso levante, alla cascina Trebbia si congiunge alla radiale Vigentina e con questa penetra in città. 6) La radiale Vigevanese si distacca a Gaggiano sulla sponda sinistra del Naviglio Grande dalla attuale provinciale, passa poco a tramontana di Corsico costituendo l’arteria fondamentale di tutto l’importante quartiere industriale di S. Cristoforo e può penetrare in città attraverso le due vie parallele Solari e Foppa (entrambe di 30 metri di larghezza) e le vie Filangeri ed Olona che a quelle seguono e che sono suscettibili di rettifiche di tracciato. 7) La radiale dell’Ovest si stacca dalla provinciale Vercellese alle Bettole di Figino, ove può ricevere anche l’imbocco dell’autostrada di Torino, passa al mezzodì dei nuovi quartieri di Trenno, costeggia al nord l’ippodromo di San Siro e di qui può penetrare in città attraverso le tre vie parallele Monterosa, Monte Bianco ed Albani e le loro continuazioni Alberto da Giussano, Mascheroni e Giotto. 8) La radiale del Sempione segue il tracciato della provinciale attuale suscettibile di allargamento fino all’altezza di Boldinasco, qui se ne distacca in direzione di sud-est e raggiunge la Fiera campionaria penetrando in città per le vie V. Monti e Abbondo Sangiorgio. 9) Le autostrade pei laghi e per Bergamo, riunitesi al nord di Musocco e sboccate alla Certosa di Garegnano, possono di qui proseguire allacciandosi alla precedente per penetrare in città. 10) La radiale Varesina si distacca a monte di Roserio dalla provinciale attuale, passa a levante dell’abitato di Musocco raggiunge con curva più dolce il cavalcavia attuale sopra la ferrovia, ne scende e si biforca nella via Espinasse e nella via Mac Mahon, raggiungendo la città da un lato per il corso Sempione dall’altro per via Cenisio e porta Volta. 11) La radiale Comacina si distacca alla Mal Cacciata dalla provinciale attuale, passa a levante degli abitati di Dergano e di Affori, sbocca nel piazzale Macciachini, e prosegue verso la città o attraverso la via Valtellina ed il corso Como, o allacciandosi per un breve tratto del viale Marche. 12) La radiale del Nord (attuale viale Zara dei quartieri nord Milano) destinata ad essere prolungata, già in progetto fino al rondò dei Pini a Monza, costituirà la nuova strada di comunicazione con quelle città, col parco, con Sesto, con Milanino. Essa riceve sulla sua destra la deviazione dell’attuale strada Valassina che costituisce l’asse mediano del Milanino, attraversa la zona fra Niguarda, Prato Centenaro e Greco e potrà essere messa in condizione di buona penetrazione del centro di Milano non appena, colla soppressione degli impianti ferroviari, sarà dato sbocco al sud alle vie Volturno e colla copertura che si propone di un tratto della Martesana e del tombone di S. Marco, ne potrà essere prolungato il tracciato fino al contatto dell’anello dei Navigli e del Foro Bonaparte. Le dodici grandi radiali proposte – con sezioni quasi sempre superiore ai 40 metri e talora raggiungenti i 60 metri – costituiranno i nuovi accessi alla città degni dei migliori esempi lasciatici nel passato nel corso Sempione e nel corso Lodi, soprattutto se si curerà di disciplinare rigorosamente le costruzioni sorgenti sui loro lati. Ma soprattutto, esse permetteranno di risolvere in modo veramente efficace il problema delle comunicazioni meccaniche (automobilistiche o tramviarie) extraurbane oggi penosamente incanalate nelle sedi delle strade provinciali.
Per gli allacciamenti trasversali fra queste arterie radiali il piano vigente ha già due buoni anelli continui nella cerchia dei vecchi Bastioni e nella cerchia più esterna dei viali marginali al piano regolatore del 1889 (viale Abruzzi, Piceno, Umbria, Isonzo, Toscana, Tibaldi, Liguria, Troya, Bezzi, Ranzoni, Monte Ceneri, Bodio, Jenner, Marche, Brianza). Questo doppio anello, intimamente collegato alla tipica forma di sviluppo passato della nostra città, può tuttavia egregiamente servire allo smistamento fra i diversi quartieri periferici della vecchia città del traffico proveniente dall’esterno. L’anellodei Bastioni, costituito dal doppio sistema stradale dei vecchi Bastioni propriamente detti e della laterale circonvallazione, offre infatti nei suoi punti sistemati una sezione stradale veramente cospicua. Vedansi ad esempio, nel tratto presso porta Venezia, il viale Luigi Maino e il parallelo viale Piave l'uno di metri 35, l’altro di metri 27 che offrono completamente una sezione stradale di oltre 60 metri paragonabile cioè a quella del Ring viennese e quasi doppia di quella dei boulevards interieurs parigini che hanno la medesima posizione relativa e le medesime funzioni rispetto alla città. L’altro anello di viali, più esterno, ha la larghezza costante di 40 metri ed è quindi pure in grado di assolvere bene il suo compito. Trascuriamo gli altri parziali collegamenti esterni anulari del piano del 1912, alcuni dei quali costituiscono forse dal punto di vista della viabilità degli inutili doppioni, e passiamo senz’altro a considerare la zona che forma oggetto di studio per il nuovo piano proposto. Avendo abbandonato per questa parte del nuovo piano l’antico organismo della ragnatela stradale, non sarebbe stato logico costringere ad una forma di troppo geometrica precisione la rete delle congiungenti esterne dei nuclei satellite fra di loro e delle trasversali di smistamento fra le radiali principali. Piuttosto che sacrificare la realtà alla geometria, abbiamo preferito adattare la geometria alla realtà, ricordandoci volentieri – fra tanto imparaticcio di urbanistica straniera – dell’aureo ammonimento di Carlo Cattaneo che «una città che ha già vissuto ventiquattro secoli… non può essere condannata ad affondarsi tutta sotterra per risorgere quadrettata come un panno scozzese». Ciò che egli predicava ottan’anni fa per la città possiamo ben ricordarlo oggi per il suo suburbio. Il nuovo anello esterno marginale proposto si orienta quindi senza nessun preconcetto geometrico secondo la distribuzione dei quartieri satellite predisposti. Esso assume una forma naturalmente regolare nel settore di ponente dove collega i nuovi nuclei urbani disposti in regolare collana da Corsico, a Baggio, a Trenno, a Boldinasco. Qui lo sbarramento del cimitero ed il punto di passaggio obbligato al cavalcavia sopra la stazione di Musocco consigliano una diflessione del tracciato che poi riprende nuovamente regolare da Musocco, passando al centro del nuovo nucleo Affori – Bruzzano – Niguarda ed accostandosi alle zone industriali di Sesto per poi spingersi a monte di Crescenzago presso l’importante bivio della cascina Gobba dove può utilmente raccogliere il traffico della provinciale Veneta ed incanalarlo verso il nord e l’ovest della città evitando i percorsi di puro transito attraverso l’abitato. Nella parte orientale, fra Crescenzago, Lambrate e la zona portuale, le stesse due strade laterali al canale navigabile possono costituire le necessarie arterie di collegamento. Lo sbarramento creato dalla futura stazione di smistamento e dal triangolo di raccordi ferroviari dell’Ortica non consente d’altra parte molta varietà di soluzioni. Non è presumibile in queste difficili condizioni naturali un traffico trasversale molto attivo. Migliori vie di arroccamento si hanno più all’interno negli spaziosi e rettilinei viali Lomellina e Lombardia. La zona portuale del resto, che è la più importante di questo quadrante, naturalmente gravita per la sua stessa configurazione verso queste ultime arterie attraverso i tre importanti allacciamenti della via Marco Bruto, della nuova allargata sede della strada Paullese (già prevista nel piano regolatore vigente di 60 metri di larghezza) e del corso XXVIII Ottobre. Nella zona sud della città le due arterie previste sulla sponda del canale navigabile di congiunzione fra il Naviglio Grande e il porto possono servire ai collegamenti trasversali, tanto più che già esiste nel piano regolatore ed è in parte sistemato (viale Giovanni da Cermenate) l’ampio viale di arroccamento che doveva servire anche come sede al progettato canale di giunzione quando i bacini portuali erano previsti in posizione più a tramontana di quella scelta col progetto definitivo. Per quanto riguarda la rete secondaria di viabilità non crediamo necessaria una maggiore illustrazione di quanto è segnato nelle tavole richiamando solo il concetto informatore al quale abbiamo voluto ispirarci di una netta separazione fra le grandi arterie di traffico e le minori arterie di semplice disimpegno. Le strade di lottizzazione indicate rappresentano di massima solo le maglie principali di suddivisione entro le quali potrà inserirsi, in sede di attuazione del piano, la rete minore di frazionamento oggi neppur prevedibile. Le dimensioni dei lotti maggiori sono state scelte in modo da prestarsi al miglior frazionamento a seconda del tipo di fabbricazione assegnato alla zona (fabbricati in serie chiusa, villini, edifici industriali). […Circa le piazze] abbiamo curato che in ogni nucleo satellite esse avessero funzioni ben definite: le une di centro di riferimento della vita locale, le altre di disimpegno e di incrocio delle principali arterie, […] altre [ancora] infine di luogo di riposo e di sosta. Le sezioni trasversali assegnate alle strade variano a seconda delle loro specifiche funzioni. Alle grandi arterie radiali si sono attribuite larghezze variabili dai 40 ai 60 metri. La ripartizione della carreggiata secondo la diversa natura dei veicoli e la diversa velocità del traffico è fatta in modo da portare verso il centro della strada i mezzi di trasporto più rapidi, verso i fianchi il traffico locale. Le tramvie si sono di preferenza disposte in sede propria. Le alberate, se possibile in numero di quattro, si sono spostate verso il centro della strada in modo da non soffrire danno dalla vicinanza dei fabbricati. Dove si prevede di lasciare una zona di arretramento sistemata a giardini privati, fra il ciglio della strada e la linea dei fabbricati, potrà essere disposta anche un'alberata sui marciapiedi laterali. In ogni caso si è prevista la posizione delle alberate in modo da potersi adottare indifferentemente disposizioni diverse per la carreggiata senza compromettere l'esistenza degli alberi. Per le radiali maggiori si è prevista la possibilità di collocare in trincea le linee tramviarie e la carreggiata del traffico diretto per evitare gli attraversamenti. In taluni casi sarà possibile utilizzare lo spazio fra le alberate per galoppatoi. Questo ci sembra che possa particolarmente farsi nei due tronchi di strada radiale e trasversale che corrono a mezzodì ed a ponente degli ippodromi del trotter e di S. Siro che non sono percorse da un notevole traffico né spezzate da importanti attraversamenti e che, appunto per la loro vicinanza al quartiere degli sports, si prestano meglio alle esercitazioni ippiche. Per il nuovo anello esterno di collegamento fra i diversi nuclei non si è voluto esagerare le dimensioni, trattandosi di una strada non destinata ad incanalare notevoli correnti di traffico e che si svolge con una certa scioltezza di tracciato con frequenti sovrappassi agli impianti ferroviari ecc. e sussidiata, oltreché dall'anello dei viali marginali al piano regolatore del 1889, anche da parecchie altre strade di collegamento fra i diversi quartieri cittadini. Si reputa sufficiente la larghezza di 30 metri divisa in due carreggiate laterali ed un'allea alberata centrale che può tanto servire come passeggio, quanto come sede di tram. Nell'assegnare in ciascuna arteria il frazionamento delle carreggiate si è avuto cura di stabilire le dimensioni trasversali di questa in ragione di un multiplo della sagoma di ingombro dei veicoli che si è ritenuto di poter assegnare in metri 2,50. Si è dato perciò alle carreggiate di transito locale larghezza da metri 5 a metri 5,50; a quelle per il transito rapido larghezza da 7,50 a10 metri. I tram vennero collocati in sede propria (marciatram) e preferibilmente disposti sui lati della carreggiata principale lungo i viali pedonali laterali sui quali può effettuarsi in piena sicurezza la sosta, la discesa e la salita dei viaggiatori. […] Il concetto informatore della regolazione degli incroci è quello di ridurre al minimo gli attraversamenti diretti dell'arteria principale. A questo scopo gli sbocchi delle strade secondarie nella principale si sono di proposito sbarrati coi passeggi alberati in modo da costringere il traffico di quelle ad incanalarsi nelle carreggiate laterali del transito locale prima di confluire nella corrente equiversa del traffico diretto o per raggiungere il più prossimo punto di attraversamento che gli consenta di innestarsi nella corrente controversa sull'altro lato della via. I punti di attraversamento diretto vengono con ciò a concentrarsi in corrispondenza degli incroci delle arterie principali. Qui occorre provvedere un conveniente sgombro del campo visivo colla soppressione delle alberate e con un eventuale arretramento o smusso dei fabbricati. Certamente, dal punto di vista estetico, la soluzione a smusso non è delle migliori ma essa ha indubbi vantaggi pratici. Lo smusso deve però in ogni caso servire solo per la visuale e non per allargamento in raccordo della sede stradale che, anzi, da taluno si consiglia un certo restringimento della carreggiata della strada tributaria in corrispondenza dello sbocco nella principale per meglio inarginare il traffico prima di versarvelo […].
Nota: il documento integrale della relazione Nihil Sine Studio 2000 è scaricabile in formato pdf stampabile di seguito. Per maggiore chiarezza è stata inserita anche la riproduzione in piccolo formato di una delle tavole, che mostra l’organizzazione generale del piano coi quartieri giardino autonomi. Su questo sito sono anche disponibili diversi articoli teorici di Cesare Chiodi (f.b.)
E' la stagione degli asparagi e degli agretti. Ecco quindi una semplice ricetta per un primo piatto gustoso che in queste ultime settimane cucino spesso per il piacere nostro.
Garganelli alle verdure di stagione. Per quattro persone. 200 gr di guanciale laziale tagliato in 1 o 2 fette spesse 1/1,5 cm (no pancetta, mi raccomando, nè lardo);3 porri freschi;1 mazzo di asparagi verdi;una confezione da 200/250 gr di garganelli all'uovo (scegliete una marca di pasta buona, non lesinate sennò il piatto si dequalifica).
E' un piatto gustoso e ricco, quindi, come secondo, ci aggiungo un piatto di "capelli della vecchia", cioè di agretti (ben lavati e cotti al massimo 1/2 minuti in pentola a pressione e serviti freddi ben scolati), conditi con olio extra-vergine di oliva DOP, pepe, sale e succo di limone. Poi un tocchetto di pecorino di media stagionatura, possibilmente toscano o umbro. Chiudere con una bella frutta.
Cit. in Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, editori Laterza, Roma-Bari 2008
Da la Repubblica, 11 giugno 2008
Si parla di due iniziative, che appaiono culturalmente e politicamente coerenti e tra loro connesse. Una proposta di legge regionale d’iniziativa popolare, promossa da Legambiente e da alcuni docenti del Politecnico; il Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp), di cui è responsabile l’assessore provinciale al territorio, il verde Pietro Mezzi.
Sia la proposta di legge che il Ptcp hanno al loro centro l’impegno a ridurre il consumo di suolo. Pietro Mezzi, dopo aver fornito dati allarmanti sul consumo di suolo nel territorio provinciale, dichiara che il nuovo piano si pone l’obiettivo di contrastarlo ponendo un limite all’urbanizzazione, disegnando una rete ecologica provinciale, individuando le aree destinate all’attività agricola. Enfasi giustamente posta su un problema indubbiamente centrale, temi pragmatici correttamente enunciati: ma bisognerà verificare quale efficacia avranno le scelte del piano provinciale sulle pianificazioni comunali, e come il limite al consumo di suolo sarà territorialmente articolato (per evitare che restino immutate le previsioni dei piani pregressi nelle zone in cui il limite è già superato, e che nelle altre il limite, più alto della situazione attuale, non spinga ad accentuare le spinte all’edificazione).
La stessa ispirazione muove la proposta legislativa, della quale abbiamo per ora solo informazioni giornalistiche. Essa si muove certamente nella direzione giusta: quella di contenere il consumo di suolo e di accompagnare ogni nuova edificazione dall’attrezzatura di una adeguata quantità di verde pubblico. Il meccanismo proposto (che ha conquistato il ministro Pecoraro Scanio, intenzionato a proporlo a livello nazionale) è la “compensazione ecologica preventiva”. Per dirla con Giovanni Caudo, “il passo è nella direzione giusta, ma bisogna capire se la testa lo segue”. Se si abbandona lo slogan e si passa alla concretezza della disciplina sorgono numerosi problemi.
Il primo. La cessione di aree non può essere l’unica regola da stabilire. Occorre preliminarmente stabilire che cosa si deve costruire, dove, per chi, a quali prezzi dell’immobile realizzato. È quello che una volta si chiamava “calcolo del fabbisogno”, e che oggi dovrebbe certamente assumere un significato quantitativo e qualitativo più ampio, dovendosi arricchire di valutazioni e decisioni relative all’uso finale del bene realizzato. Se non si parte da qui si rischia di fare come il PRG di Roma, che concede edificabilità a go go a condizione che un po’ d’area venga utilizzata per spazi pubblici.
Il secondo. Quali aree devono essere destinate perennemente alla natura o all’uso pubblico, chi le sceglie? Se per ogni intervento è l’operatore che cede una parte dell’area in cui interviene allora non c’è nulla di nuovo: è la prassi generalizzata fin dal 1967 con la lottizzazione convenzionata, e poi dal 1977 con gli oneri di urbanizzazione (uno strumento che è stato dissolto da dissennate politiche regionali e comunali). Se è l’operatore che sceglie l’area da conferire alla collettività, allora non c’è il rischio, ma la certezza che saranno “sacrificate” le aree più marginali, dissestate, inutili. Se invece, come sarebbe ragionevole, le aree sono scelte tra quelle che la collettività, con un piano (magari definito a livello sovracomunale) individua come le più idonee dal punto di vista delle loro caratteristiche proprie e da quello della loro collocazione in un disegno coerente del territorio, allora con quali meccanismi si può ottenere il trasferimento alla collettività?
Come si comprende dalle due questioni che abbiamo evocato il tema non riguarda solo le politiche ambientali ma, più compiutamente, quelle territoriali, e in primo luogo quella urbanistica. Speriamo che il testo della proposta di legge dia una risposta positiva alle domande che abbiamo posto, altrimenti avrebbero buon gioco quanti vorrebbero utilizzarne l’annunciato dispositivo per lottizzare qualche parco già previsto. Speriamo che la linea di lavoro indicata dalle due iniziative cui ci riferiamo non trovi ostacoli nell’ambito dell’attuale maggioranza, e non sia significativa la inaspettata presa di distanza del presidente della Provincia. E speriamo, soprattutto, che la testa guardi nella stessa direzione in cui si muovono i primi passi.
In un mondo in cui l’oggetto trionfa sul contesto, lo slogan prevale sulla concretezza del dato, l’annuncio sostituisce l’evento, occorre che siano chiari a tutti, e soprattutto a chi governa, la complessità delle questioni, i nessi che legano i diversi aspetti dei problemi, gli ostacoli che si frappongono tra le intenzioni enunciate e la realtà. Non per rinunciare alle buone ispirazioni e agli obiettivi giusti, ma per tradurre le prime in fatti concreti e per raggiungere i secondi.
L'articolo di eddyburg sul n. 38 di Carta sarà sulla homepage sabato 27.10; è comunque raggiungibile qui fin d'ora. Per gli argomenti di cui si tratta nell'eddytoriale si vedano in particolarei risultati dell’indagine sui consumi di suolo fatta per la Provincia, e le informazioni riportate dalla stampa questi giorni.
L'immagine è la campagna lombarda raffigurata da Carlo Carrà
Come si argomenta nella relazione che accompagna l’articolato (entrambi i testi sono scaricabili in calce), il ”governo del territorio” è concetto e campo molto vasto. Comprende materie che sono attribuite dalla Costituzione a enti diversi. Una legge che regoli l'insieme dell'argomento richiederà un lavoro di lunga lena, che non può non avere la sua premessa in un diligente lavoro di enucleazione dei principi desumibili dalla ricchissima legislazione vigente. Non a caso le leggi regionali in materia, anch’esse usurpando in qualche misura l’espressione “governo del territorio”, concernono il campo - più limitato ma indubbiamente decisivo – della pianificazione del territorio urbano ed extraurbano. A definire “principi” relativamente a questo campo è dedicato il testo che proponiamo.
È un testo snello, essenziale, scritto cercando di adoperare un linguaggio chiaro ma anche giuridicamente corretto. Non è comunque questo che soprattutto ci interessa, quanto il contenuto: le riaffermazioni che in esso si fanno di principi consolidati nella giurisprudenza costituzionale, le novità che si formulano tenendo conto delle nuove esigenze ed esperienze maturate.
Due principi sono alla base dell’intero articolato e ne ispirano i contenuti e i procedimenti: il territorio e la sue risorse sono un patrimonio comune, di cui le autorità pubbliche sono garanti e custodi; la titolarità della pianificazione del territorio compete esclusivamente alle pubbliche autorità democraticamente elette e rappresentative della cittadinanza.
Tra le riaffermazioni e il consolidamento di principi già presenti nel quadro legislativo italiano, segnaliamo l’assunzione della pianificazione come metodo generale per il governo delle trasformazioni territoriali (principio peraltro contraddetto nell’azione amministrativa e nella legislazione recente), l’onerosità per l’operatore immobiliare delle opere necessarie per la trasformazione urbanistica, la non indennizzabilità dei vincoli di tutela dell’identità culturale e dell’integrità fisica del territorio.
Particolare evidenza tra le novità, introdotte anche mutuando elementi dalle legislazioni regionali più recenti, assume una decisa opzione per la riduzione di quello sciagurato fenomeno, contrastato negli ultimi anni da tutti i governi europei, consistente nell’abnorme consumo di suolo, motivato unicamente dall’esigenza di accrescere il valore di scambio di privati patrimoni immobiliari. Accanto a questi, si segnalano: nuove norme per la tutela ope legis degli insediamenti storici, per effetto dell’essere individuati dagli strumenti di pianificazione, purché d’intesa con la competente Soprintendenza; l’affermazione del diritto alla città e all’abitare, riprendendo e consolidando il diritto alla presenza di determinate quantità di spazi pubblici e d’uso pubblico ma aggiungendo, tra l’altro, i diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale delle risorse territoriali ed ambientali e del patrimonio culturale; l’obbligo per gli enti pubblici di acquisire antro un termine perentorio gli immobili assoggettati dai piani a vincoli di tipo espropriativo; infine (last but not least) la formazione partecipata degli strumenti di pianificazione.
A quest’ultimo proposito si ritiene che la partecipazione della società alle scelte di governo non sia un problema dell’urbanistica, ma della democrazia, della vitalità dei suoi istituti, della loro capacità di rinnovarsi. Certo è comunque che le scelte sul territorio hanno particolare rilevanza sia dal punto di vista dei poteri che da quello dei diritti dei cittadini. Procedure aperte, trasparenti, attente all’ascolto e alla proposta, rendiconti puntuali, chiarezza negli atti a partire dalla condivisione delle basi conoscitive e dalla evidenza nella rappresentazione delle scelte – possono essere valido aiuto, che la legge può contribuire a determinare, per l’espressione dei diritti democratici. Anche a tal fine, oltre che per adempiere a un obbligo formale,si è introdotta nella proposta il recepimento della normativa europea in materia di valutazione ambientale strategica, per le parte in cui riguarda i procedimenti di formazione e i contenuti della pianificazione delle città e dei territori.
Affidando queste proposte alla buona volontà dei legislatori, ci auguriamo che esse diano un contributo per la costruzione, nella città e nel territorio, non di una congerie di valorizzazioni immobiliari e di conseguenti diversificate degradazioni ambientali, sociali e culturali, ma della casa comune della società italiana dei futuri decenni.
A prima vista, appare un paradosso. Ma come, gli ambientalisti predicano la necessità di incentivare le energie alternative, e poi protestano quando finalmente si cerca di passare dalle parole ai fatti! Così hanno scritto Valentini, Manfellotto e tanti altri bravi giornalisti. Così pensa una parte consistente, forse maggioritaria, dell’opinione pubblica, e perfino qualche componente dell’ambientalismo. Tanto è vero che Massimo Serafini e Mario Agostinelli (persone del cui giudizio mi fido) hanno invitato Vendola a ripensare al suo decreto di moratoria agli impianti eolici in Puglia e ad adottare soluzioni più soft. Cerchiamo di ragionare, senza schierarci: o meglio, prima di schierarci, per comprendere se ci si debba schierare o no, e da quale parte.
Le ragioni di chi difende le energie alternative, utilizzatrici di risorse rinnovabili, sono fuori di ogni dubbio. Ma ogni energia, anche alternativa, ha bisogno che venga realizzata una “interfaccia”, un apparecchio o un complesso di apparecchi che trasformi la sorgente di energia in energia accumulabile, trasmissibile, consumabile. E ogni energia, anche alternativa, provoca trasformazioni del territorio: modeste o cospicue, in parti del territorio più o meno dotate di qualità e di fragilità.
Ora il fatto è che tra le proposte degli ambientalisti e la loro pratica traduzione in opere si inserisce, di fatto, un solo soggetto: l’industria, senza alcuna guida, senza alcun indirizzo, senza alcuna definizione delle prestazioni richieste e delle condizioni da rispettare. Manca, insomma il governo: il government, l’autorità pubblica garante dell’interesse generale. E l’industria, miope per definizione (è guidata esclusivamente dalla ricerca del profitto, in assenza del quale fallisce), produce oggetti progettati con l’unica finalità di produrre il massimo di energia al costo più basso.
Va bene questo? Non va bene: lo dimostra la documentazione raccolta da Carlo Ripa di Meana e dal suo Consiglio nazionale per il paesaggio, e la ricca letteratura in proposito che è stata prodotta in Europa e negli USA. Non va bene soprattutto in Italia, dove il paesaggio costituisce la maggiore ricchezza della nazione, e una delle maggiori fonti di reddito per il futuro (oltre all’intelligenza, la quale peraltro comincia anch’essa a scarseggiare): e dove le amplissime piantagioni di impianti eolici (produttori di quote molto modeste di energia) stanno trasformando in modo irreversibile delicatissimi paesaggi degli Appennini, spesso “protetti” da provvedimenti europei, nazionali o regionali.
Domandiamoci allora – visto che per di più siamo in una fase di definizione dei programmi elettorali – che cosa un governo lungimirante ed efficace dovrebbe fare.
In primo luogo, dovrebbe elaborare un piano energetico nazionale, nel quale si stabilisca, in relazione alle risorse energetiche disponibili e alle loro concrete capacità d’impiego, quali impiegare e per quale quota: e questo è un compito del tutto tradizionale, che qualunque mediocre governo in una società moderna adempie come normale amministrazione. È ragionevole che in Italia dal 1988 non si sia fatto un Piano energetico, e che (peggio ancora) con la riforma del titolo V delle Costituzione la materia sia stata attribuita alle 20 regioni? È ragionevole che si sia avviata una iniziativa per la diffusione massiccia dell’eolico, senza neppure prima verificare – per esempio – se nella concreta situazione paesaggistica e meteorologica della penisola sia più conveniente l’eolico o il solare?
In secondo luogo, il governo dovrebbe definire le prestazioni richieste agli impianti relativi a ciascun tipo di energia. Per far questo sarebbe ovviamente necessario un potenziale di ricerca applicata direttamente gestito dallo Stato, con la massima autonomia rispetto all’industria. Sarebbe necessario definire (da parte dello Stato e delle Regioni) le caratteristiche dei progetti di impianti in relazione alle collocazioni possibili nei nostri territori, con un’attenzione particolare ai paesaggi urbani e a quelli territoriali. Sarebbe necessario definire le caratteristiche dei siti capaci di ospitare gli impianti e le altre infrastrutture necessarie per la loro gestione, le modalità mediante le quali gli strumenti della pianificazione territoriale e urbana debbano decidere le specifiche localizzazioni e le regole della loro attivazione. E su tutto ciò, sulla rigorosa applicazione delle regole definite e degli strumenti individuati, occorrerebbe esercitare controllo e monitoraggio.
Sono giuste, allora, le critiche alla opposizione degli ambientalisti a interventi devastanti? Finché chi governa non avrà fatto il suo dovere, la mia opinione è che gli ambientalisti, poiché non governano, abbiano il dovere di proporre e di denunciare: non è a loro che spettano i compromessi. E chi governa, nell’incertezza derivante dall’assenza delle condizioni indispensabili per agire, ha ragione se applica il principio di precauzione: provvida perciò la moratoria, e il contemporaneo avvio di un’iniziativa che consenta di decidere a ragion veduta, di scegliere con piena cognizione di causa. Per governare, e per non essere governati dai poteri forti.
Il disegno è di Pablo Picasso, "Don Quijote y Sancho Panza", 1955
La questione delle rendite è un argomento scottante, sotto molti punti di vista e da moltissimi anni: sia per i territori, le città, i paesaggi, il loro assetto, le condizioni di vita degli abitanti, la permanenza (meglio, la scomparsa) delle qualità e delle testimonianze in essi sedimentate, sia per l’economia del nostro paese. La quota della ricchezza del paese che va alla rendita è sottratta ai salari e ai profitti, quindi riduce la possibilità di utilizzare i maggiori salari per allargare i consumi, e quella di reinvestire il profitto nel processo produttivo applicandovi ricerca e innovazione. A partire dagli anni sessanta del secolo scorso, accanto al drenaggio di ricchezza provocato dalla rendita immobiliare (contro la quale non a caso si era scagliato un predecessore di Luca di Montezemolo, l’avvocato Gianni Agnelli) si è via via accresciuto quello provocato dal largo investimento nelle rendite finanziarie.
Oggi rendite finanziarie e rendite immobiliari sono strettamente intrecciate, e pesano fortissimamente sul nostro paese. Lo avevano compreso gli estensori del programma di governo della formazione “Uniti per l’Ulivo”: il documento sulla cui base gli elettori sono stati chiamati a votare alle ultime elezioni politiche e l’Unione ha riportato la vittoria. In quel programma, infatti, si legge che tra “le cause del declino che investe il sistema paese” vi è “un sistema fiscale che penalizza il reddito di impresa rispetto alla rendita finanziaria”, si accusa il governo di centrodestra di aver “ favorito un’abnorme crescita delle rendita immobiliare”, si constata che “si è realizzato un drammatico impoverimento del potere d’acquisto dei redditi medio-bassi” mentre “è stato riconosciuto un vantaggio fiscale alla rendita piuttosto che ai redditi prodotti dalle imprese”, ci si impegna ad “attuare una nuova politica della concorrenza che miri”, tra l’altro, a “ridurre le rendite e la convenienza all’impiego di capitali nei settori che le alimentano tali rendite (immobiliare, autostrade, ecc.)”.
Le citazioni potrebbero proseguire, ma sembra chiaro che, sulla perniciosità del peso assunto delle rendite finanziaria e immobiliare, e sulla conseguente necessità di liberarne le altre forme di reddito, le valutazioni e le intenzioni fossero esplicite. Eppure, oggi, alla proposta di rendere efficaci gli impegni assunti, si reagisce - da parte degli stessi autori di quegli impegni programmatici - con timidezza, prendendo le distanze da chi quegli impegni dichiara di voler tradurre in atti di governo, e senza ribattere con la necessaria energia agli esponenti di quel capitalismo straccione, iperprotetto, pronto ad approfittare di ogni smagliatura del sistema degli accertamenti fiscali e di ogni occasione per socializzare perdite e privatizzare risorse pubbliche, generatore delle iniziative arrembanti dei “capitani coraggiosi” dediti all’assalto dei galeoni delle grandi banche e dei grandi giornali con i proventi dei raggiri finanziari.
Forse, per comprendere le ragioni di un simile atteggiamento, converrà ripercorrere l’amara esperienza del ministro democristiano Fiorentino Sullo e il saggio dedicato da Valentino Parlato al “blocco edilizio”. Forse l’Italia (il suo popolo, i suoi elettori, il suo sistema economico) sono così intrisi dalla rendita e dalla concezione individualistica della proprietà che i governanti avveduti sono costretti a recitare, con la Zerlina del Don Giovanni, “vorrei… e non vorrei, mi trema un poco il cor”.
“Lavoro” è un termine che esprime un valore profondo, primario, fondativo della nostra società. Per la nostra Costituzione (la difendiamo abbastanza?) il lavoro è il fondamento della Repubblica italiana. E in effetti, in modo diverso e con alleanze di classe diverse, le grandi forze che fondarono la Repubblica esprimevano tutte il mondo del lavoro: dal PCI e il PSI, alla DC, ai “partiti laici”.
La corrente di pensiero che, nella sua analisi e nella sua azione, ha posto come centrale il lavoro dell’uomo è comunque indubbiamente la marxista. E allora vale la pena di ricordare il modo in cui Marx lo definiva: “l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso [corsivo mio] di qualsiasi genere”. E ancora: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.
Riflettere sul significato del lavoro dell’uomo nei contesti nei quali viviamo (dal governo nascituro dell’on. Prodi alla crisi planetaria) porta a sottolineare due connotazioni dei nostri tempi, l’una di carattere tattico e relativa al breve-medio periodo, l’altra di carattere strategico e relativa allungo periodo. Da esse scaturiscono due necessità dell’azione politica e di quella culturale: necessità certamente distinte, ma che sarebbe delittuoso separare.
Da un lato, è evidente che nell’attuale situazione italiana, così come questa si è determinata per colpa sia della destra che delle debolezze del centro-sinistra, il lavoro ha perso la centralità che la Costituzione gli assegnava. Lo rivelano l’espansione del precariato e la sua assunzione come “fattore di modernizzazione”, l’indebolimento dei sindacati dei lavoratori, lo squilibrio tra la tassazione dei redditi da lavoro e quella dei redditi finanziari, nonché, per riferirci a un tema centrale per queste pagine, la prevalenza della rendita (remunerazione della proprietà) sul salario (remunerazione del lavoro) e del profitto (remunerazione dell’attività imprenditiva secondo una scuola, il frutto stesso del lavoro secondo un’altra). Un programma di governo che volesse ripristinare il rispetto della Costituzione su ciò che costituisce il fondamento della Repubblica dovrebbe assumere perciò come centrale la questione del lavoro, in tutte le articolazioni ora enunciate.
Ma accanto e dietro questo aspetto del problema del lavoro un altro se ne pone, che ne costituisce in qualche modo la prospettiva e lo scenario. La concezione del lavoro che ancor oggi nutre il pensiero economico e l’organizzazione sociale è quella propria del sistema capitalistico: il lavoro socialmente ed economicamente riconosciuto è quello finalizzato, direttamente o indirettamente, alla produzione di merci. Se Marx, nel brano sopra citato, riferiva il lavoro alla produzione di valor d’uso, oggi per il calcolo economico, e per la stessa considerazione sociale, l’unico valore che è rimasto è il valore di scambio. I beni (siano essi oggetti o servizi) cui la produzione è finalizzata sono solo quelli riducibili a merce, e in tanto sono considerati in quanto sono ridotti a merce. Ciò che conta non è la loro utilità ai fini dello sviluppo dell’uomo e dell’umanità, ma la loro capacità di essere acquistati da un consumatore.
È morto qualche giorno fa John Kenneth Galbraith. Fu lui che, nel lontano 1958, coniò per primo il termine “società opulenta” (affluent society). Con questa espressione si designa appunto una società nella quale la produzione ha perso qualunque profondo connotato umano, ed è finalizzata esclusivamente a vendere, in misura via via crescente, merci via via più lontane da ogni reale utilità per l’uomo. Sembra che un lavoro finalizzato esclusivamente alla produzione crescente di merci superflue (spesso per di più dannose) non possa essere considerato durevole. Il ragionamento sul lavoro e la rivendicazione della sua necessaria centralità si deve perciò connettere a quello attorno ai limiti dello sviluppo (di questo sviluppo, basato sulla riduzione dei beni a merci, sull’orgogliosa negazione dei limiti posti dal pianeta, sulla perdita di ogni finalità propriamente umana), al nuovo imperativo della “decrescita”, al pieno riconoscimento economico e sociale dei valori d’uso - e delle qualità culturali,ambientali, storiche del territorio.
Il discorso di Fausto Bertinotti
Scritti sulla "decrescita" nella cartella Il nostro pianeta
Ricordo che l’articolo di Valentini è stato generato dall’attacco di Legambiente a Italia Nostra, accusata di privilegiare il NO, e si è inserito nel dibattito, molto aspro, che ne è conseguito, i cui elementi più significativi sono raccolti nella cartella Polemiche di questo sito. È stato un dibattito lacerante, che ha fatto del male all’ambientalismo italiano: ma potrà fargli del bene, se aiuterà a chiarire alcune cose che mi sembrano palesemente confuse.
Cominciamo dalle parole, e cominciamo da una parola che si è talmente logorata nell’uso da diventare di per sé priva di qualsiasi connotazione, tanto che sempre più spesso viene qualificata da un attributo: la parola “sostenibile”. In parziale dissenso, su questo punto, da Tullio De Mauro e da quanti privilegiano le mutazioni impresse dall’uso, sono convinto che vale anche per le parole ciò che Giovan Battista Vico attribuiva a tutte le cose, quando affermava che “natura di cose altro non è che nascimento di esse”. Allora ricordo che quel termine, attribuito all’altro termine terribilmente equivoco di “sviluppo”, nacque quando si cominciò a comprendere che ritenere possibile uno sviluppo indefinito in un mondo limitato è una follia, e si definì sostenibilità in un modo di governare l’esistenza del genere umano sul pianeta tale da non consumare risorse che non siano sostituibili.
Se questo è il significato del termine “sostenibile”, allora sembra a me che esso possa essere attribuito agli oggetti che posseggano entrambe queste caratteristiche: di essere “risorse”, ossia beni utili all’umanità attuale e futura, e di essere “non sostituibili” nelle quantità necessarie. Se scaviamo un poco più a fondo scopriamo che queste risorse possono essere suddivise in due grandi categorie: quelle che sono “uniche”, nel senso che sono caratterizzate da una tale individualità da non poter essere sostituite da nessun’altra simile, e quelle invece che possono essere sostituite da altre che svolgano, per l’umanità di oggi e di domani, il medesimo ruolo. Per esemplificare le prime, un’opera d’arte, un paesaggio, un centro storico; per esemplificare le seconde, l’energia, l’acqua.
L’ambientalismo, anche in Italia, è nato e si è sviluppato in reazione al trend sempre più veloce di distruzione senza sostituzione delle risorse dell’uno e dell’altro tipo (e potrebbe anzi essere un utile esercizio verificare se le differenti organizzazioni ambientaliste, e le loro politiche, riflettano le differenze tra i diversi tipi di risorse di cui privilegiano la difesa). Talchè parlare di un ambientalismo che debba diventare “sostenibile” non significa solo incorrere in un’ossimoro, ma dire una bestialità. Dispiace che la velocità polemica della penna abbia indotto in errore anche Valentini.
Ora l’ambientalismo agisce in un mondo nel quale le fortissime regole generali, che determinano le azioni della società e dei suoi multiformi meccanismi, sono ancora non solo condizionate, ma pesantemente dominate (nell’economia, nella politica, nella cultura) proprio da quella visione distruttrice e idiota dello sviluppo che ne determina l’insostenibilità. Se è così, allora la missione di ogni ambientalismo decente non può essere che la difesa a oltranza di ogni risorsa che minacci di essere soppressa senza che ne sia garantita (non promessa, non dichiarata possibile: garantita) la sostituzione (non la sostituibilità: la sostituzione).
Chiedere all’ambientalismo di negoziare, di accettare compromessi, di ratificare “depeggioramenti” e mitigazioni significa attribuire all’ambientalismo un potere che non ha né deve avere, e togliergli l’unico potere cui non può rinunciare: denunciare ognuno dei passi sbagliati che vengono compiuti, dai pochi che governano il mondo, nello sperimentato cammino improvvidamente percorso dal mondo e dalle sue parti verso la perdita d’ogni identità e, all’orizzonte, della sua stessa vita.
“L’ambiente al servizio dell’uomo, e naturalmente della donna, non l’uomo e la donna sottomessi all’assolutismo dell’ambiente”. Così Valentini conclude il suo articolo. Ma perché l’ambiente sia al servizio dell’umanità (maschile e femminile, attuale e futura) ne devono essere innanzitutto difese le risorse: quelle risorse, costruite dalla natura e migliorate dall’uomo, che le perversità, gli errori e i limiti dei poteri della politica, dell’economia e della cultura hanno, nei secoli a noi più vicini, sistematicamente distrutto. E d’altra parte, non è forse l’ambiente un valore anche in sé, indipendentemente da ogni sua finalizzazione?
Per adoperare ancora le parole di Giorgio Ruffolo, oggi viviamo “una nuova vulgata neoliberista [che] si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico”. Abbandonando ogni senso critico e dimenticando la lezione liberista sui limiti del mercato, questo è insomma divenuto la misura non solo del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società.
Questa vulgata non è innocente. Dietro di essa si nasconde una pratica di classe che è stata acutamente indagata. Si tratta del neoliberismo, che non è una forma ammodernata della vecchia concezione dell’economia e della società tipica della società borghese e della sua ideologia, ma qualcosa del tutto nuovo.
Per dirla con uno dei suoi più acuti studiosi, David Harley “il neoliberismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Esso è un progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Lo studioso americano apertamente sostiene (si veda la recensione di Ilaria Boniburini) che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e quindi come tale occorre trattarla.
È a questo scenario che occorre riferirsi quando si sente parlare oggi della necessità di “tener conto del mercato”. Dimenticare che la pianificazione urbanistica è una delle pratiche inventata (dalla società borghese) per risolvere problemi che lo spontaneismo del mercato era incapace di affrontare non è solo grave errore intellettuale. È anche subalternità a un disegno politico che è forse il rischio più grave che corre oggi la democrazia.
Eppure, è quello che succede in Italia a proposito del territorio e del suo governo. Succede ovviamente a Milano, nelle modalità di “governo del territorio” esplicitamente subalterno alle scelte delle grandi società immobiliari, teorizzata da intellettuali provenienti dalla sinistra (Luigi Mazza e Stefano Moroni) e praticata dal ceto politico più omogeneo al neoliberismo. Succede in Toscana, dove l’autorevole ispiratore della politica del territorio della giunta di centrosinistra (Massimo Morisi) ha esplicitamente sostenuto che bisogna fare entrare a pieno titolo il mercato nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica, e che la pianificazione deve svolgersi su due “gambe”, tenendo conto delle finalità e delle regolazioni del pubblico e delle finalità e del dinamismo del mercato, poiché solo in tal modo si può garantire sviluppo, modernizzazione e capacità competitive. E succede nel Parlamento nazionale, dove si accetta pressoché unanimemente che le localizzazioni industriali possano avvenire (proposta di legge Capezzone e altri) senza alcuna di quelle verifiche di necessità, di adeguatezza e di coerenza territoriale che solo una corretta pianificazione del territorio può assicurare.
Verrebbe da dire che siamo alle frutta con il nostro Belpaese. Anche perché il “mercato” al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Non è quello della dinamica capitalista, ma è quello del parassitismo proprietario. Ed è un mercato il cui predominio sulla città produce (lo ha dimostrato la storia) segregazione di gruppi sociali, spreco di risorse comuni, disagio delle persone e delle famiglie, penalità al sistema produttivo e infine (tanto per adoperare un altro concetto divenuto idolo delle piazze) ulteriore motivo di perdita di competitività di un sistema già pesantemente degradato e inefficiente.
I valori furono dunque una componente decisiva: non ricostituzione (come in Francia e in Danimarca, in Belgio e in Olanda, in Jugoslavia e in Norvegia) di quelli nazionali calpestati dal nemico invasore, ma costruzione di valori nuovi, fondativi della società nuova che – a partire dalla Liberazione – si cominciava a costruire.
Ricordare oggi, 25 aprile 2006, la liberazione dell’Italia dal nazifascismo suggerisce prepotentemente una necessità di oggi: rimettere i valori al centro dell’attenzione della politica e della società.
Una necessità di oggi. Il risultato elettorale del 9-10 aprile scorso non rivela soltanto che “l’Italia è spaccata in due”: risultato inevitabile d’un sistema maggioritario, come qualche osservatore più lucido ha rilevato. Rivela anche un’incertezza degli elettori, una certa aleatorietà del risultato, una mobilità di parte consistente dell’elettorato che non ci sarebbero se alla base delle scelte di voto ci fossero convincimenti profondi e radicati, e legami stretti tra questi e le proposte delle diverse (delle due) parti politiche.
In assenza di convincimenti profondi e radicati (di valori) è evidente che tendono a prevalere gli interessi differenziati dei gruppi,delle corporazioni, dei segmenti della nostra frammentata società. Tendono a prevalere insomma quei moventi del voto che più facilmente vengono catturati dalle offerte mercantili (bugiarde o meno) degli imbonitori cui è stato lasciato il possesso dei mezzi di comunicazione di massa.
Singolare, in proposito, l’atteggiamento del centro-sinistra. La sua propaganda ha lasciato cadere tutti i numerosi spunti polemici (e di convincimento delle coscienze) che potevano essere offerti dalle stesse parole ed azioni dell’avversario. A partire dall’ingiustizia di fondo,dal vero e proprio vulnus dell’ordinamento democratico, costituito dal potere straordinario in mano a uno solo dei contendenti (in codice: il conflitto di interessi), fino a quell’incredibile affermazione dell’ex premier, rivelatrice di un pensiero osceno, secondo il quale sarebbe del tutto evidente che il figlio d’un operaio vale meno del figlio d’un professionista.
Abbiamo dimenticato i principi fondativi della nostra nuova società, nata dalla Resistenza. Non ci siamo sentiti offesi dal loro tradimento, dal loro rovesciamento perfino. Ricordiamoli,così come furono costruiti nelle coscienze e nei sacrifici negli anni difficili della Resistenza e tradotti in principi costituzionalmente garantiti.
Solidarietà, primato del lavoro, subordinazione della proprietà al suo ruolo (al suo dovere) sociale, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e ai diritti non solo giuridici, sostegno ai più deboli perché possano entrare nel novero dei più forti, privilegio agli interessi della collettività, politica come proposta di un progetto di società più alto di quello dell’antagonista. Infine, ma non è l’ultimo dei valori, difesa dei beni comuni costruiti dal lavoro di tutti: a partire dalle fabbriche strenuamente difese, nel 1943-45 dagli operai perché non erano dei padroni, ma di tutti, fino alla tutela del paesaggio e dei beni storico-artistici come patrimonio della Nazione,nel 1946-48.
È da qui che occorrerebbe partire per conquistare durevolmente il consenso delle cittadinee dei cittadini: dalla riaffermazione orgogliosa di quei principi, dalla loro propaganda tenace e intelligente, dalla loro traduzione in una reale riforma dei codici della convivenza civile (a cominciare dalla demolizione delle norme e delle prassi con essi in contrasto). E scendendo dal generale allo specifico degli interessi di questo sito, vorremmo lavorare per una legge sul governo del territorio che si aprisse con le parole: “le risorse del territorio sono patrimonio comune non negoziabile”. Ma di questo scriveremo un’altra volta.
La notizia vola negli ambienti politici e culturali bolognesi, si diffonde arricchendosi di particolari non controllabili. La decisione di smantellare l’ufficio sarebbe partita qualche mese fa dalla federazione dei DS, e avrebbe colto di sorpresa la Margherita. Ne sarebbero state liete le imprese immobiliari (tra cui quelle potentissime della Lega delle cooperative), i cui interessi non avrebbero potuto espandersi se si fosse consolidata la politica di contenimento del consumo di suolo promossa dal Piano territoriale provinciale. Ridurre il peso dell’ufficio e “burocratizzarlo” avrebbe eliminato un elemento di confronto politico e culturale, rischioso per alcune scelte municipalistiche che starebbe assumendo il governo Cofferati.
Un fatto è certo. Piero Cavalcoli, contro la sua volontà, è estromesso dalla gestione dell’ufficio (il Settore pianificazione territoriale e trasporti) che ha creato e diretto per 15 anni e che aveva avviato una trasformazione radicale dell’assetto del territorio bolognese. Il personale tecnico, raccolto e “allevato” con pazienza e divenuto, nel suo complesso, un modello per l’Italia, ha cominciato a essere dirottato verso altri uffici della provincia o in altre istituzioni. Un’esperienza di pianificazione intelligente, capace di utilizzare tutte le leve dell’intervento pubblico sul territorio, di promuovere la collaborazione tra le amministrazioni comunali fino ad allora divorate dal municipalismo, di tradurre in concrete decisioni amministrative un disegno di riduzione della congestione, di arresto dello sprawl, di protezione effettiva (e non solo a chiacchiere) delle risorse territoriali – un’esperienza unica in Italia e all’avanguardia in Europa - viene ridotta al rango degli uffici delle “vecchie province”: quelle che con la riforma della legge 142/1990 si era tentato di rinnovare ab imis, assumendo quale loro centro la responsabilità della pianificazione territoriale.
Ciò che sta avvenendo a Bologna, ha per l’Italia lo stesso significato che ebbe per la Gran Bretagna della Tatcher lo smantellamento del Greater London Council. È la rivincita degli interessi municipalistici (e in primo luogo dei municipi più grandi) sugli interessi di un’organizzazione equibrata delle risorse territoriali. È la rivincita degli interessi economici di breve periodo, basata sullo sfruttamento immediato della risorsa fondiaria, sugli interessi aperti al lungo periodo della tutela dell’acqua, del paesaggio rurale, della natura. È la rivincita, infine, dalla politique politicienne su una visione strategica, di ampio respiro, dei valori e della vita della comunità
Ma ciò che avviene attorno al bunker nel quale sembra assediato Cofferati, è fonte di grave preoccupazione anche al di là caso del specifico. Perché significa che le forze che aspirano a sostituire Berlusconi nel governo dello Stato patiscono alcune insufficienze gravi di intelligenza politica: la concezione del funzionario pubblico, il civil servant, come figura subalterna al potere (icastica la vignetta di Bucchi), l’incapacità di aprire una discussione di merito su strategie territoriali che non si condividono (e che si preferisce annullare surrettiziamente mediante interventi di mero potere), l’utilizzazione di “linee di comando” tipiche dei peggiori risvolti di quella Prima Repubblica che tutti sembrano deprecare, ma di cui troppi rinnovano i (ne)fasti.
Tra i buoni segnali, annoveriamo senz’altro la più recente edizione della proposta di legge per il governo del territorio (prima firmataria l’on. Raffaella Mariani). In essa – come abbiamo già osservato – accanto a qualche residuo del linguaggio dell’immobiliarismo neoliberista ereditato dalla precedente legislatura e dalle posizioni culturali allora egemoni (da Berlusconi all’INU) abbiamo ritrovato quasi tutte le formulazioni della proposta degli “Amici di eddyburg”, fatta propria da Rifondazione comunista e da altri esponenti della sinistra (pdl on. Migliore e sen. Sodano), soprattutto, ma non solo, in materia di contrasto al consumo di suolo e di tutela delle aree rurali.
Ma quanti segnali di direzione opposta! Alla tenace resistenza della maggioranza dei ministri ad abbandonare la logica delle Grandi opere (si è lasciato cadere solo il poco difendibile Ponte sullo Stretto) risponde nelle regioni e nelle città un coro di iniziative, promosse e sostenute da governanti del centro-sinistra, che meriterebbero un’amplissima distribuzione di Premi Attila. Il premio più consistente spetterebbe probabilmente (ma la gara è aperta) al presidente del Friuli - Venezia Giulia (che avrebbe il dovere morale di dividerlo con alcuni suoi più attivi collaboratori). Non solo per la pessima legge urbanistica da poco approvata (si leggano in proposito le spietate critiche di Luigi Scano) ma anche per le innumerevoli iniziative, emblematiche del nuovo corso che l’ex sindaco di Trieste ha impresso a una regione che è stata sede, in tempi lontani, di coraggiose sperimentazioni.
Ci riferiamo in particolare all’ultima della serie: il nuovo grande cementificio sul margine delle Laguna di Grado e Marano, a Torviscosa. Una proposta decisamente contrastata non solo dalle associazioni ambientaliste, ma dai comuni più direttamente interessati e dai sindacati dei lavoratori (i quali sempre più spesso rifiutano il ricatto occupazione contro ambiente). La tenacia con la quale l’establishment regionale difende il devastante progetto ha condotto a una spaccatura aperta all’interno stesso della maggioranza e a un conflitto tra Esecutivo e Legislativo. Un autorevole esponente dei DS, capogruppo in Consiglio regionale, ha criticato pesantemente l’iniziativa di Illy, e la commissione consiliare ha sollevato obiezioni tutt’altro che marginali.
In una delle sue sortite a difesa e giustificazione della scelta Illy ha lasciato chiaramente comprendere che i diversi momenti della sua politica del territorio sono tasselli organicamente legati d’una medesima strategia: serve produrre più cemento per realizzare le numerose nuove infrastrutture che dovranno continuare a invadere i delicati territori del Carso giuliano e di quello friulano, a devastare i residui ecosistemi, a rendere più precarie le condizioni delle falde idriche e dei corsi d’acqua.
Ma quanti piccoli e grandi Illy comandano ancora nelle regioni e nelle città del Malpaese? Per far sì che le promesse contenute nelle leggi per il governo del territorio producano fatti occorre davvero grande determinazione, in quelle aree del centro e della sinistra che ancora credono che il territorio, il paesaggio, l’ambiente siano beni da preservare nelle loro risorse e nella loro qualità, e che lo sviluppo non consista nell’aggiungere cemento e asfalto a quelli già ridondanti che il secolo scorso ci ha lasciato. La speranza è che non manchino loro né determinazione né ricerca dell’unità, nel Parlamento e nel popolo.
Occupiamo – una tantum – questo spazio riservato alle riflessioni di Edoardo Salzano (temporaneamente ‘in vacanza’, ma consenziente all’invasione) per un’occasione davvero speciale che Eddyburg non può permettersi di non celebrare (v.d.l.; m.p.g.)
La lunga notte del 10 aprile ci ha restituiti ad una mattinata caliginosa di dubbi, mescolati a qualche inquietudine, ma anche ad una soddisfazione tanto intensa quanto lungamente compressa nel tempo che vorremmo condividere con i lettori di eddyburg.
Come abbiamo rilevato più volte, durante la campagna elettorale, i temi dell’urbanistica e del governo del territorio, hanno abitato uno spazio defilato, sempre a rimorchio di qualcos’altro (le infrastrutture, ad esempio, vere primedonne bypartisan) ma, come è stato scritto in questi giorni, le vere scelte si fanno dopo il 9 aprile.
Ed è importante, adesso, smentendo – finalmente – il costume inveterato della politica italiana, dagli anni di piombo a mani pulite, non limitarsi ad accantonare i detriti in un angolo e passare oltre o peggio cercare di recuperarli, quei detriti. Proprio perchè troppe volte ci si è limitati a nascondere la spazzatura sotto il tappeto della nostra casa comune, l’altra notte, di fronte all’altalena disperante di proiezioni e sondaggi, molti di noi hanno pensato che quest’Italia sia destinata a non voltare mai pagina. E che il berlusconismo, con i suoi connotati di populismo e totale disprezzo delle regole, tenacemente affezionato all’accezione di libertà come decostruzione dello Stato e del pubblico, è ancora sentire viscerale largamente diffuso.
Gli eddytoriali hanno costantemente ribadito la preoccupazione nei confronti di fenomeni e pratiche che stanno accellerando il degrado, non solo del nostro territorio e del nostro patrimonio culturale e paesaggistico, ma assieme del sistema condiviso delle regole di governo.
Questo del governo del territorio è uno degli ambiti in cui il ribaltamento dalla forza del diritto al diritto della forza, connotato distintivo del berlusconismo, si è acuito nell’ultimo lustro, infettando, come una forma epidemica, trasversalmente, anche l’habitus urbanistico di regioni province e comuni di centro sinistra, così come Eddyburg non si è mai stancato di rilevare. Decisiva riprova del fascino bypartisan esercitato da queste pratiche deregolative è il tentativo, maldestro anche sul piano della cultura giuridica, noto come legge Lupi. Provvidamente annullata dalla fine della legislatura, oltre che da una ‘guerriglia’ instancabile di cui eddyburg è stato il primo motore, pare suscitare ancora trasversali, non sopite, nostalgie.
In questi ultimi anni abbiamo segnalato, sempre più spesso, come le molte amministrazioni comunali e regionali abdicassero dal proprio ruolo di pianificatori e di garanti del pubblico interesse nell’illusione, nella lettura più benevola, di ricavare, dalle trattative dirette con i portatori di interessi privati, benefici economici da reinvestire in altri servizi, sacrificando un bene irriproducibile per ‘guadagni’ rapidamente vanificati, nel medio-lungo termine, da perdite e danni alla collettività in temini di disservizi, congestione e, in generale, depauperamento del livello di vivibilità.
Fra le tante urgenze che attendono il prossimo governo Prodi, vi è dunque anche questa. Quella della ricostruzione di un sistema delle regole aggiornato e fondato su alcuni irrinunciabili principi di tutela del territorio come bene collettivo non negoziabile, di titolarità pubblica del governo del territorio, di limitazione del consumo di suolo, di diritto alla città, alla casa, ai servizi, di garanzia di partecipazione alle decisioni urbanistiche. Insomma un sistema chiaro di ‘regole inderogabili’su cui costruire la gerarchia degli strumenti di pianificazione.
Ma anche la migliore delle leggi è destinata ad essere disattesa se non è sostenuta da un comune retroterra culturale e civico che ne costituisca l’humus imprescindibile.
In fondo, con limitatissimi mezzi, eddyburg ha operato, in questi anni, esattamente in questa direzione: a chi da domani ci governerà offriamo fin da ora il nostro contributo sia per quanto riguarda la costruzione del sistema delle regole che per quel che attiene la costruzione di una cultura che lo accompagni e lo sostenga.
Ma adesso è tempo di festeggiare e di ribadire la nostra gioia per un cambiamento tanto atteso e dal quale tanto ci attendiamo.
La questione che c’è sotto è globale: è la questione della democrazia. In Italia il nodo è quello del rapporto tra società e politica. Questo rapporto si è rotto: la società non si sente più rappresentata dagli strumenti e dagli istituti della democrazia. I partiti, e di conseguenza le istituzioni non hanno più credito. Se la maggioranza dei cittadini li subisce (e comunque elude i valori che essi dovrebbero rappresentare, accettando il potere reale degli strumenti di comunicazione di massa), quella porzione che si rifiuta di sottomettersi chiede di rappresentarsi da sé: di decidere, o almeno di partecipare direttamente al processo delle decisioni. Si forma così (caso per caso, episodio per episodio) una opposizione al “potere che decide”, che vuole decidere in sua vece. Ma poiché non ha la forza per costruire, riesce solo a decidere ciò che non va fatto: riesce a bloccare le decisioni, a ritardarle. Magari a proporre una soluzione alternativa: mai a praticarla. Ecco che la partecipazione (questa partecipazione) diventa una forza di paralisi. Al tempo richiesto dal gioco di pesi e contrappesi della democrazia, che è nato per garantire interessi legittimi contro il decisionismo del tiranno, si aggiungono così i tempi degli arresti provocati dalla partecipazione. La crisi del sistema aumenta.
Mi rendo conto di dare un’interpretazione pessimistica della partecipazione. Allora cerco di domandarmi da dove nasce quella crisi del rapporto tra politica e società cui la partecipazione vuole dare una risposta “dal basso". La mia tesi è semplice, forse semplicistica. Quando la democrazia fu introdotta in Italia (dai comunisti, dai democristiani, dai socialisti, dai liberali), essa prevedeva una stretta relazione collaborativa tra i partiti e le istituzioni. Le istituzioni, gli strumenti della democrazia rappresentativa, erano nutrite dalla società attraverso i partiti: ben al di là del collegamento a lunga periodicità dei comizi elettorali. I partiti, e soprattutto i grandi partiti, esprimevano le diverse componenti della società: nei loro ideali e nei loro interessi, nei loro egoismi e nelle loro speranze. Davano ad esse un progetto di società, in nome del quale chiedevano l’adesione e fornivano soluzioni. Mediando tra loro, ricercando intese dove era possibile raggiungerle,e denunciando differenze dove queste restavano, governavano attraverso le istituzioni.
Il rito pluriennale delle elezioni non era quindi che una verifica periodica della forza elettorale dei diversi partiti, ma ciascuno di questi era il tramite quotidiano tra la società (certo informalmente rappresentata) e le istituzioni. A partire dalla caduta del muro di Berlino e del simmetrico svelamento dei torbidi misfatti di Tangentopoli, la credibilità dei partiti è venuta meno. Contemporaneamente è nata un’altra aberrante forma di potere, che l’analisi marxiana non aveva potuto conoscere, sebbene l’avesse intuita indicando nella religione “l’oppio dei popoli” Alla religione si sono sostituiti i mass media, al predicatore di Nazaret il cavaliere di Arcore.
Il problema allora cui la partecipazione allude è proprio questo: come ricostituire un legame tra società e istituzioni, che salvi queste dalla necrosi e restituisca alla società la possibilità di intervenire positivamente sul potere? Come sostituire (o ricostituire) i partiti, e il ruolo che essi svolgevano? Oppure, avvicinandoci a un livello più praticabile, come utilizzare la partecipazione nelle decisioni sul governo del territorio in modo da aiutare il superamento della crisi in atto? A me sembra che la risposta vada cercata in due direzioni, che richiedono entrambe un impegno reciproco: da pate delle istituzioni, e da parte dei membri della società.
Innanzitutto bisogna ricordare che la prima tappa, il primo requisito della partecipazione è la conoscenza esatta delle questioni su cui si decide. Garantire la conoscenza è compito impegnativo per le istituzioni. Richiede di ripensare compitamente le procedure, e soprattutto la forma dei materiali, del processo di formazione degli atti in cui si esplicita la decisione. Richiede un investimento consistente di risorse: intelligenze, formazione, persone, mezzi finanziari. Ed è un compito impegnativo anche per l’altra parte, per i cittadini: richiede attenzione, studio, costanza, modestia nell’esprimere le proprie idee. Non è poco, rispetto ai modi in cui si esprime la partecipazione oggi.
In secondo luogo, bisogna ricordare la massima di Winston Churchill: “La democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più”. Ciò significa che alcune regole elementari della democrazia vanno rispettate, e vanno rispettati i suoi istituti. Rispettati, e adoperati, finché non se ne costruiscono di migliori.
Significa che la partecipazione deve passare attraverso le istituzioni, lottando per il loro corretto funzionamento. (Da questo punto di vista stupisce che a Napoli, dove stanno fiorendo iniziative molteplici di partecipazione non sempre informata, nessuno abbia protestato contro la legge per il governo del territorio, approvata recentemente dal Consiglio regionale della Campania, che sottrae ai consigli la facoltà di decidere sui piani urbanistici, riservandola alle giunte). E significa che le istituzioni devono fare il massimo sforzo per aprirsi alla società, senza rinchiudersi nel rapporto (ormai divenuto sterile) con i partiti. Bisogna forse avere più coraggio nel praticare tutti i lati del triangolo costituito dal rapporto tra istituzioni, partiti e società. Senza cadere nell’errore della demagogia populistica, conservando tutto il rigore richiesto dalla missione di governo, ma evitando di ripiombare nelle pratiche del secolo scorso, divenute ormai sterile palude: come le vicende politiche di molte città italiane testimonia.
Non c’è ancora nessuna informazione ufficiale, ma ormai si sa che il principale dei cantieri nei quali si preparano i “pezzi” del MoSE saranno nelle aree libere della Penisola di Pellestrina, costituite dalle due riserve naturali di Santa Maria del Mare e di Ca’ Roman. Le due aree sono entrambe Siti d’importanza comunitaria, e ovviamente sono entrambe tutelate dagli strumenti di pianificazione. Le vincola in particolare il Palav (Piano d’area della Laguna di Venezia), redatto e approvato dalla Regione e tuttora vigente.
Ebbene, è proprio in quelle aree che si realizzeranno i giganteschi elementi di calcestruzzo, ciascuno delle dimensioni di un palazzo alto cinque piani e lungo cinquanta metri, che dovranno costituire i basamenti sommersi dell’immane macchina del MoSE. In tutto i cassoni saranno 157: quanti se ne costruiranno contemporaneamente? Non è noto, perché il progetto del cantiere è top secret. Nonostante la competenza di quattro ministri (Beni e attività culturali, Ambiente e tutela del territorio e del mare, Università e ricerca, Infrastrutture), nonostante i poteri, sia pure dimessi come quelli di postulanti, di Comune e Provincia, nonostante la presenza di due taciturne Università, nonostante leggi rigorosamente protettive approvate dopo la famosa alluvione del 1966 per tutelare l’incomparabile gioiello, l’ecosistema unico al mondo, costituito dalla Laguna di Venezia – nonostante tutto ciò, nessuno sa nulla: chi sa, tace.
Innumerevoli sono le violazione di legge. Ma neppure la magistratura se ne accorge. È un po’ come ai dintorni di Napoli, a Casalnuovo, dove 71 edifici abusivi sorsero senza che nessuno se ne accorgesse. Ma siamo a Venezia, e la camorra non c’è.
Del resto, scorrendo le cronache veneziane si scopre che le violazioni delle norme negli interventi in Laguna si susseguono con tanta regolarità da essere divenuti la Regola. Mentre da qualche decennio si è stabilita in 12 metri la profondità massima dei canali navigabili (per ridurre l’afflusso delle acque marine) e si era deciso per legge di allontanare il traffico delle petroliere (a causa del loro eccessivo pescaggio), ora si sta decidendo di approfondire il “canale dei petroli” a 14 metri per consentire il transito di gigantesche navi cerealicole. Mentre da decenni leggi speciali e piani d’ogni ordine e grado probiscano ogni “imbonimento” (così si chiama il riempimento con terra di porzioni della Laguna), è in corso di realizzazione un’isola artificiale per immagazzinare i fanghi inquinati. Mentre, in omaggio a leggi vigenti e con finanziamenti pubblici, ci si adopera a disinquinare la Laguna, si prevede un imbonimento (di nuovo) sul margine della Laguna per ospitarvi una gigantesca discarica di rifiuti, alta una dozzina di metro, camuffata da terrazza belvedere sulle barene e i canali, adornata da ridenti vegetazioni.
Su ciascuno di questi episodi occorrerebbe soffermarsi: e lo faremo, in questa sede e altrove. Per ora, segnaliamo una situazione che è drammatica per il silenzio che la circonda: nessuno vede, nessuno sente, nessuno parla.
Votiamo dunque turandoci il naso, come in un contesto ben più civile (ma dirigendo la mira in una direzione opposta) invitava a fare Indro Montanelli. Certo che il fetore è alto: basta vedere come sono state composte le liste elettorali, e come sono scomparsi quasi tutti i margini di scelta dell’elettore: “attivo” solo nella nomenclatura formale, poiché ogni reale attività è stata consegnata da Berlusconi ai partiti.
Votiamo rinunciando all’odorato, ma non alla vista: guardiamo anzi con attenzione al significato del nostro voto. Per quanto mi riguarda la mia “speranza di voto” questo avrà un duplice significato.
1. cacciare un personaggio e un gruppo la cui permanenza al potere renderebbe invivibile e inutilizzabile a fini civili quel poco di pulito che è rimasto tra le Alpi e il Canale di Sicilia. Non credo che sia necessario illustrare questo assunto. Mi limiterò a ricordare che, quando ci indigniamo per quello che di poco limpido c’è nello schieramento di opposizione parliamo di berlusconismo: il germe dell’infezione sta dunque là, fuori di quello schieramento, ed è di là in primo luogo che occorre debellarlo.
2. ristabilire un quadro di principi fermi, di regole funzionanti, di istituti efficaci mediante i quali si possa svolgere la libera dialettica tra forze diverse, oggi confusamente aggregate nell’opposizione a Berlusconi.
Credo che sia utile, forse addirittura necessario, fare uno sforzo per comprendere quali sono le forze diverse che formano l’opposizione (in che cosa precisamente consista la loro differenza), e qual è il programma che può unirle non solo per sconfiggere Berlusconi ma anche per governare dopo di lui.
Sul primo punto mi sembra che il discrimine che faticosamente sta emergendo dalla confusione possa essere definito nel seguente dilemma:
(a) se il sistema entro il quale viviamo (il sistema economico-sociale fondato sul modo di produzione capitalistico e nutrito dai principi e dagli istituti foggiati dalla borghesia, con il concorso dialettico della classe antagonista) sia tale da poter essere corretto nei suoi aspetti più critici senza modificarlo dalle radici, cioè dalla concezione dell’uomo, del lavoro e della società;
(b) oppure se le contraddizioni di quel sistema siano così profonde e letali da poter essere scongiurate solo attraverso l’invenzione e la graduale messa in opera di un sistema economico-sociale fondato su principi (e governato da istituti) del tutto diversi.
La dialettica tra “moderati” e “radicali” esprime forse queste due posizioni. Sarebbe augurabile che nelloro ambito si riuscissero a formulare con una qualche chiarezza i rispettivi connotati, a partire da argomenti fondanti e non dalle occasioni di cronaca: dalle strategie e non dalle tattiche.
Sul secondo punto, il programma, mi sembra che le ragioni dell’unione, e quindi le basi di un programma di governo unitario, debbano essere individuate in due direzioni, da enunciare in con un'esplicitazione chiara di contenuti, principi e indirizzi, un reale e serio "contratto con gli italiani", e non in un elenco infinito, e necessariamente sempre incompleto, di cose da fare
Innanzitutto deve essere reso chiaroi ed esplicito l'impegno a istabilire le regole della convivenza democratica. Ciò comporta ritrovare l’ispirazione della Costituzione del 1948, che non a caso fu un patto democratico tra forze portatrici di progetti di società alternativi; ma richiede anche di instaurare un rapporto tra le diverse dimensioni dell’umano operare (la politica, l’economia, l’amministrazione, la religione, l’arte, la scienza…) nella quale le rispettive autonomie siano tutelate e le diversità dei punti di vista rispettate, senza alcuna sudditanza d’una dimensione all’altra.
Mi sembra che la prevaricazione della politica sull’amministrazione e quella dell’economia sulla politica, come l’utilizzazione politica della religione, siano tra le più inquietanti anomalie dei nostri anni.
Un impegno altrettanto chiaro ed esplicito deve essere dichiarato oggi (e domani praticato) per mettere in moto un meccanismo economico nel quale vengano sconfitti alcuni vizi storici del capitalismo italiano: innanzitutto il peso schiacciante delle rendite d’ogni tipo e dimensione, a cominciare da quella immobiliare, e poi anche il permanere di ampie sacche di privilegio prive ormai d’ogni giustificazione sociale, e la conseguente rinuncia a percorrere le rischiose strade dell’innovazione.
Ma un meccanismo nel quale vengano garantiti i valori del lavoro e quelli del futuro: nel quale quindi, in attesa di un più compiuto riconoscimento sociale (possibile solo in una società radicalmente diversa), i valori dei beni comuni non riconducibili a merci siano garantiti nella loro sopravvivenza e nel loro sviluppo.
Nella consapevolezza che un vero sviluppo, omogeneo alla natura del genere umano e al suo patrimonio culturale, può avvenire solo se il valore d’ogni prodotto viene riconosciuto alla sua carattere di bene, e non alla sua riduzione a merce.
Una consapevolezza, questa, che non dovrebbe appartenere solo alle componenti “radicali” dello schieramento unitario.