Un indicatore ormai classico della salute dei fiumi è la quantità dei pesci che risalgono la corrente. Franco La Cecla, un bravo antropologo che ha insegnato da noi a Venezia, mi indusse a comprendere che la salute di una città è rivelata dalla quantità dei bambini che stanno per strada.
Naturalmente (e prevengo subito un’obiezione possibile) quando pensiamo a una città in buona salute non pensiamo a una città le cui strade sono popolate dai bambini e dai ragazzi che Roberto Saviane descrive nel bellissimo e scandaloso Gomorra: a una città schiava dei clan camorristici che utilizzano i bambini per strada come servi delle aziende malavitose. Pensiamo a una città normale, dove vige la “legge comune”, dove le cittadine e i cittadini sono rispettosi degli altri e dei diritti di ciascuno, dove magari ciascuno ilo sabato lava l’automobile davanti casa per andare il pomeriggio all’outletfactory o allo shopping center, dove la domenica invita gli amici a mangiare arrosto al barbecue nel giardinetto, e gli altri giorni fa la fila per raggiungere l’ufficio o accompagnare il bambino a scuola.
In questa città, nella città dove abitiamo, bambini per strada ce ne sono pochi. Prevalentemente sono accompagnati. Spesso i marciapiedi sono occupati dalle automobili, non dai pedoni né dalle carrozzine. Spesso le piazze sono dei grandi parcheggi, a volte organizzati a volte casuali: raramente sono rimasti luoghi d’incontro, di svago, di apprendimento reciproco, di confronto, di esibizione, di festa.
Penso a Venezia, penso ai suoi campi i quali – quando non sono resi deserti dall’abbandono demografico e dalla monocultura turistica – sono luoghi vivi, ricchi di animazione e di persone di tutte le età e le condizioni. Penso che una volta tutte le città erano ugualmente vissute nei loro spazi pubblici; che una volta ogni paese, anche il più piccolo e periferico, aveva la sua piazza, il suo fuoco della vita sociale.
Perché non è più così? Occorre domandarselo. Occorre chiedersi qual è la radice del problema. Se non si parte dall’individuazione del problema non si trovano soluzioni: si possono solo applicare cerotti, si può solo nascondere il problema, o allontanarlo un poco.
Vogliamo dare ai bambini e ai ragazzi la chiave della progettazione della città. Ma per dargliela non come un giocattolo, ma come uno strumento per agire, allora dobbiamo innanzitutto aiutarli a comprendere che cosa la città è e che cosa potrebbe essere, che cosa è stata, perché è diventata quello che è, e come si può rinnovarla nel suo modo di essere: quindi, in che direzione, verso quale visione di città la sua progettazione deve essere indirizzata.
C‘è chi sostiene (e io sono tra questi) che la città è stata inventata quando l’uomo ha sentito il bisogno di stare insieme perché solo così, solo in comunità, riusciva a soddisfare esigenze nuove che erano nate nel corso dello sviluppo economico e sociale della civiltà umana. Se riflettiamo a fondo sulle vicende della nascita e dello sviluppo della città, ci rendiamo conto che essa è nata come luogo finalizzato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze che i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano risolvere da soli. E’ nata per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali.
Riconosciamo chiaramente questa natura della città se osserviamo ciò che rimane delle città foggiate prima dei tempi moderni: i nostri “centri storici”. Ho citato Venezia, ma in tutte le parti antiche delle città possiamo vedere come i luoghi, gli spazi, gli edifici dedicati alle esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali hanno caratterizzato le città, hanno dato a ciascuna di esse una particolare identità e riconoscibilità, sono state la ragione della sua particolare bellezza.
Osserviamo con uno sguardo attento ai siti, e cercando di immaginare la storia che sta dietro ad essi, i centri storici delle città italiane o francesi, tedesche od olandesi, spagnole o austriache. Lo sguardo sarà colpito da alcuni grandi edifici, adorni e ricchi, più maestosi degli altri, collocati al margine o al centro di piazze, o sistemi di piazze, a loro volta abbellite da fontane e statue e da studiate pavimentazioni. E magari ricorderemo le antiche storie che ci raccontano come in questi luoghi (nella piazza della cattedrale o in quella del palazzo del governo o in quella del mercato) donne e uomini, vecchi e bambini si incontravano nelle ore del lavoro e in quelle dello svago, e come in quegli stessi luoghi i cittadini accorrevano a frotte, in ogni occasione gioiosa e festosa, o ad ogni allarme o pericolo.
Ma non sono soltanto questi “monumenti” a costruire l’immagine della città, a costituire la sua identità Se non ci lasciamo distrarre più del dovuto dalla Grande Opera della Cattedrale o del Palazzo, osserviamo ancor oggi che la loro bellezza non sta solo nei loro volumi, ma dal contesto nel quale sorgono, che ne sottolinea - e quasi ne determina – lo splendore. Osserviamo ancora oggi, attorno a questi edifici e spazi, il regolare allinearsi delle casette “normali”, dove abitano e lavorano i cittadini e le loro famiglie: case uguali nelle strutture (le altezze, le larghezze, la forma del tetto, il modello delle finestre, nelle regioni piovose il portico sulla strada principale). Come nel contrasto armonico tra il coro e la voce solista, l’uniformità regolare della “edilizia minore” sottolinea l’importanza, la centralità, il ruolo dominante dei grandi volumi e dei grandi spazi (la cattedrale, il mercato, il palazzo del governo, il tribunale): i grandi volumi e i grandi spazi nei quali si identifica e si celebra la città.
La città si manifesta insomma come un insieme organico di opere, concepite e prodotte per soddisfare le esigenze non solo delle singole famiglie (la casa) ma della società nel suo insieme. Perciò affermo stesso (e torneremo su questa affermazione) che la città non è un insieme di case, ma è la casa della società.
Questa era la città, nei secoli nei quali l’uomo la inventò e la rese la più bella e la più ricca – la più complessa - delle sue costruzioni. In essa non mancavano le contraddizioni e i contrasti, ma si trattava di momenti di una dialettica nella quale lo “spirito cittadino” finiva per prevalere sulle divisioni. Le condizioni di igiene e di sicurezza non erano certo confrontabili a quelle che la civiltà moderna consente, nei suoi luoghi più alti, di raggiungere: ma, appunto,erano condizioni condivise, di cui tutti ugualmente pativano e che dipendevano dal generale livello di progresso tecnico raggiunto.
Oggi moltissimi vivono il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell’uomo e della donna dei nostri tempi (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Oggi la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, per persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri: a causa del traffico e del rumore, del pericolo, del prezzo delle case, dello stesso disegno degli spazi pubblici. Oggi la nostra salute è minacciata dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, i rumori ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Oggi l'abnorme produzione di rifiuti minaccia di seppellirci.
Voglio sottolineare soprattutto quell'aspetto della crisi della città che è il traffico: è forse il nemico peggiore dei bambini nella città, il maggiore concorrente per l’uso dei loro spazi, il maggior rischio per la loro incolumità.
Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità è l'aspetto più emblematico e paradossale della crisi della città. Questa è stata infatti storicamente (l’ho appena ricordato) il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della “civiltà dell'automobile”, nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.
E i luoghi dedicati all’incontro, allo scambio, alla reciproca partecipazione delle informazioni e dei sentimenti di persone appartenenti a età, ceti, condizioni, mestieri diversi – le piazze, i luoghi simbolo della città – sono divenuti le aree destinate al deposito degli ingombranti attrezzi di metallo, le automobili, divenuti più importanti delle persone cui dovrebbero servire.
Perché questo è avvenuto? Esiste una letteratura ampia e contraddittoria sulla crisi della città: una crisi di cui certamente molte sono le ragioni. Ma c’è una ragione che è centrale e nodale per comprendere.
All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati dal processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto in Europa, fin dalla fine del Settecento un poderoso aumento della popolazione e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Nell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.
Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. Fino alla nascita delle megalopoli e del “pianeta degli slum” – che comincia a caratterizzare gran parte dell’odierna umanità urbana - le città sono state luoghi nei quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini erano tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendevano di essere soddisfatte. E’ nata quindi una fortissima domanda di fruizione urbana: di lavoro “libero” (affrancato dalla servitù), di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.
Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.
Un aspetto particolarmente importante della crisi della città è costituito dal cambiamento profondo che v’è stato nella proprietà del suolo urbano. Prima del trionfo del sistema capitalistico borghese il suolo della città era generalmente indiviso: sia che appartenesse a un potente del sistema signorile (re o vescovo o feudatario che fosse), sia che le istituzioni cittadini lo avessero riscattato, esso apparteneva a un unico proprietario. Quando anche la proprietà era attribuita a soggetti diversi, in ogni caso la sua gestione era attribuita a un organo che esprimeva la collettività. In particolare apparteneva al governo della città la decisione sul dove costruire, che cosa, con quali regole.
Su questa base, la città poteva sorgere con la funzionalità e la bellezza che i suoi costruttori desideravano. E le trasformazioni rese necessarie dal mutamento delle esigenze e delle condizioni potevano avvenire senza dover sottostare ai vincoli di una proprietà parcellizzata e dominatrice.
Ad un certo momento della storia tutto ciò scomparve. Si era manifestato un cambiamento radicale delle regole che governavano la società. Una nuova classe si era impadronita del potere togliendolo alla classe dei grandi proprietari fondiari, ai re e alle loro corti: era avvenuta la “rivoluzione borghese”, che sbalzò dai troni e dai castelli i monarchi e il loro seguito di feudatari e insediò al loro posto i rappresentanti della borghesia.
La rivoluzione borghese, là dove si manifestò, portò grandi vantaggi all’umanità: aumentò enormemente la produzione di beni materiali, migliorarono l’alimentazione, la salute, il benessere delle persone e dei popoli direttamente interessati (non altrettanto può dirsi dei popoli invasi dal colonialismo). Me nelle stesse aree del mondo dove aveva trionfato essa distrusse qualcosa che meritava di sopravvivere. Scomparve la proprietà indivisa della terra,scomparve la base strutturale che aveva permesso alla città di essere bella e funzionale. Come ha scritto un acuto studioso e un appassionato propagandista della questione, Hans Bernoulli, “il suolo era divenuto libero. Non era più proprietà né titolo di diritto della nobiltà o del clero: era dei borghesi o dei contadini ai quali era stato ripartito o venduto. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune”[1].
“Allora non si pensava affatto”: non si riflette mai abbastanza al fatto che la storia che conosciamo, la registrazione degli eventi accaduti, non esaurisce tutte le possibilità; allora andò così, ma avrebbe potuto anche andare in un altro modo. Allora, tuttavia, la borghesia, che aveva inventato e promosso la dimensione sociale nella fabbrica (un luogo dove gli individualismi non possono sopravvivere alla catena di montaggio), non riuscì a proiettare quella medesima dimensione nella città. L’abbandonò all’individualismo più sfrenato, alla speculazione più devastante.
Enormi sono state le conseguenze di questa trasformazione nel destino delle città. Il suolo urbano non fu più la base della “casa della società”, il fondamento dell’ordine e della bellezza della città: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo. La liquidazione della proprietà indivisa del suolo generò necessariamente la speculazione. Da quel momento in poi, per la città, tutto fu più difficile.
La lotta per conquistare, nei tempi moderni, migliori condizioni di vita (e soprattutto di vita comune) nelle nostre città ha sempre dovuto scontrarsi con la volontà dei proprietari delle aree di lucrare il massimo possibile dall’utilizzazione edilizia della loro proprietà. Questo scontro è sotteso a tutte le vicende urbanistiche delle nostre città, e anche a una parte consistente di quelle più generalmente politiche.
Un momento particolarmente espressivo fu costituito da quella stagione (parlo degli anni Sessanta del secolo scorso) quando vide la luce una legge che stabiliva gli standard urbanistici: che prescriveva che in tutti i piani regolatori delle città dovesse essere riservata una determinata quota di spazi da destinare alle esigenze collettive dei cittadini: scuola, verde, ricreazione, salute e così via.
Fu una lotta aspra, che acquistò in determinati momenti il carattere di una vertenza di massa. Furono decisivi tre aspetti: il movimento dell’emancipazione femminile, che pretendeva che al nuovo ruolo produttivo delle donne si accompagnassero provvedimenti che riducessero il peso lavoro domestico; gli esempi che provenivano dalla saggia amministrazione di numerose città italiane, soprattutto in Emilia Romagna e in Toscana; i tentativi dei settori più avanzati dell’industria di ridurre il peso della rendita immobiliare e di ottenere, anche per questa via, un miglioramento delle condizioni di vita nelle città, che inevitabilmente si ripercuotevano sulle tensioni rivendicative dei salariati.
Credo che la stagione delle riforme (riforme della struttura del paese) avviata negli anni del primo centro-sinistra sia ancora tutta da studiare. C’è da riflettere sui risultati che allora furono raggiunti, delle ragioni per cui a un certo punto il vento cambiò direzione e le conquiste raggiunte, lungi dal prolungarsi, vennero abbandonate e – spesso – rovesciate nel loro contrario. Certo è che oggi il peso della rendita immobiliare, sempre forte nel nostro paese per ragioni che affondano nella storia della sua unità statuale, è aumentato a dismisura rispetto a quegli anni.
C’è da riflettere, ma soprattutto c’è da domandarsi che cosa si può fare, nel concreto, per trasformare le cose: per rendere oggi la città più vicina alle ragioni della sua creazione: più bella, più amica delle cittadine e dei cittadini e soprattutto dei più deboli. Credo che sia importante partire proprio dai bambini, sia perchè – come dicevo all’inizio – la loro presenza nelle strade, le piazze e i luoghi pubblici è un indicatore della salute della città, sia perché è a loro che è affidato il futuro, e quindi è importante la direzione di marcia che ad essi viene impressa dall’ambiente nel quale vivono.
Sono convinto che per dare ai bambini la chiave della progettazione della città, come promette il titolo di questo intervento, occorre fare in primo luogo uno sforzo di fantasia: ribaltare il modo di vedere, pensare la città e, a partire da questo ribaltamento, riprogettare e ricostruire la città. Non vi preoccupate: non saranno necessarie demolizioni massicce, solo un modo nuovo di fare cose che comunque si fanno, o si devono fare. Proverò a spiegarmi.
Ho detto all’inizio che la città non è un insieme di case. Eppure, nella testa delle persone (e anche nell’immaginazione e nei disegni di molti bambini, e nei progetti di molti urbanisti) la città non è altro che un insieme di case collegate tra loro da una rete di strade. Questo è il “pieno” della città, a cui fa riscontro il “vuoto” costituito dagli spazi liberi, dai residui di campagna in attesa di edificazione, dai corsi d’acqua sopravvissuti come discariche, e dagli spazi più o meno avaramente concessi agli usi collettivi.
Questa è la concezione e la struttura della città che occorre rovesciare, manifestando una diversa intenzione di vivere la città, obiettivi diversi da quelli di avere più case e più automobili, e un progetto di città diverso. Un’operazione non utopistica, come non è utopistico rovesciare un guanto. Un’operazione che è stata tentata in più occasioni. Io stesso, ho partecipato a tentativi interessanti ( a Carpi, a Imola, a Sesto Fiorentino) che brevemente riassumerò precisandone l’intenzione, gli obiettivi e il progetto che ne risulta.
L'intenzione è quella di rovesciare modo tradizionale di considerare la città: di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi della ricreazione e della ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al “consumo comune” (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).
L'obiettivo, di conseguenza, è quello di costruire un "sistema" formato dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali, culturali collegandole fra loro sia attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale protetto più filari di alberi) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.
Nelle città grandi e medie la formazione di un piano regolatore o di un piano particolareggiato sono l’occasione giusta per cominciare la costruzione di un sistema di spazi ispirati a questa intenzione e a questo obiettivo. Ma la rivendicazione di un uso diverso degli spazi comuni può essere un tema ricorrente per dare ai bambini le chiavi della città. Non c’è borgo, non c’è paese nel quale non vi siano germi o possibilità di luoghi per la comunità. Non c’è borgo e non c’è paese nel quale non si possano strappare alle automobili spazi per incontrarsi, per stare insieme, per giocare insieme e imparare insieme gli uni dagli altri, per organizzare meglio la propria vita sociale.
Centrare l’attenzione sull’uso degli spazi pubblici, sulla loro qualità, sicurezza, accessibilità, vitalità e vivibilità non è cosa che sia utile solo ai bambini. E’ un contributo generale a costruire una città migliore e, attraverso essa, una società migliore.
Sono convinto che la città può essere ricondotta a essere l’ambiente favorevole alla vita dell’uomo se gli uomini saranno capaci di restituirle, anche nelle cose, la sua natura originaria di “casa della società”: di luogo (o insieme di luoghi) la cui forma e la cui funzione siano complessivamente al servizio di quelle esigenze che l’uomo, maschio o femmina che sia, non è capace di soddisfare da solo, ma riesce a soddisfare efficacemente, economicamente, durevolmente, solo se insieme agli altri e per tutti.
La città nel suo insieme e le sue parti vitali devono quindi essere visti, sentiti e organizzati come “beni comuni”. Beni quindi, e non merci: prodotti e servizi che valgono di per sé, non in quanto possono essere scambiati con altri o con la moneta. Comuni quindi, e non individuali: elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.
Il primo passaggio operativo che, secondo logica, discende da questa asserzione è che la disponibilità del suolo sul quale la città è costruita appartenga alla collettività, attraverso le istituzioni che la esprimono. Non necessariamente nel senso che divenga pubblica la proprietà del suolo, ma nel senso che la collettività sia padrona delle decisioni su ciascuna delle trasformazioni che concorrono a fare della città uno strumento utile alla società, e dei valori, anche economici, che dalle scelte e dalle opere della collettività derivano.
Il secondo passaggio operativo è che le trasformazioni della città (la sua espansione, il completamento, il restauro, il rinnovo, la ristrutturazione delle sue parti, l’integrazione e il rifacimento dei suoi elementi, l’introduzione delle innovazioni tecnologiche e così via) avvengano nel rispetto del carattere sistemico della città, della sua natura di organismo, di insieme di parti tra loro legate in modo che le modifiche di ciascuna di esse influisce sul funzionamento di ciascuna delle altre.
“Il tutto è più importante delle sue parti”: questa frase rappresenta con efficacia la città, la visione olistica che è necessaria per comprenderla e per governare le sue trasformazioni. Ma essa ci rinvia anche a un altro e più vasto “tutto”.
La città è parte del territorio, delle nostre regioni e continenti e del nostro pianeta. La città è una parte della crosta terrestre. E’ quella parte nella quale più intense sono, a un tempo, l’accumulazione di cultura e la dissipazione di energia. La città è il luogo dove sono massimi la creatività dell’uomo e la sua capacità distruttiva. La città, quindi, è anche il luogo dove al massimo possibile la creatività dell’uomo, e la sua capacità di inventare l’ambiente della propria vita, devono essere impiegate per recuperare un equilibrio con la natura.
La natura è qualcosa che la cultura e il lavoro dell’uomo sono deputati a utilizzare e a trasformare. Ma si tratta di utilizzare e trasformare risorse che sono finite, e che spesso non sono riproducibili. Anche di questo la progettazione della città e del territorio devono farsi carico. Accennare al come farlo richiederebbe un tempo altrettanto lungo di quello di cui ho finora approfittato. Mi limiterà a dire – poiché parliamo di bambini e di ragazzi – che aiutar loro a comprendere che città e ambiente, natura e storia, urbanistica ed ecologia, sono capitoli della stessa vicenda e strumenti della stessa azione è essenziale perché la loro partecipazione alla società e alle sue decisioni sia illuminata, la loro salute materiale e morale migliore, la rivendicazione dei loro diritti consapevole e determinata.
[1] Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Corte del Fontego Editore, Venezia 2006, p. 35-36
Eddyburg
Un’iniziativa cominciata per caso ha raccolto un’adesione inaspettata.
Perchè? Non tanto la qualità del prodotto, il sito eddyburg.it. E neppure tanto per la mancanza di altri prodotti analoghi.
Ciò che ha reso eddyburg.it un sito popolare è la diffusa sensazione di crisi del nostro mestiere.
Il quadro
L’urbanistica è sempre stata un mestiere legato al tentativo di far assumere un ruolo adeguato ai beni, i valori, gli interessi comuni. Oggi l’individualismo ha vinto, prevale e domina in tutti i campi
L’urbanistica è un mestiere che ha sempre avuto un legame essenziale e costitutivo con la politica, intesa come governo della società in nome di interessi generali. Oggi la politica, la politica in questo senso, non c’è più.
L’urbanistica è un mestiere che lavora per il futuro, perchè le trasformazioni del territorio, che l’urbanistica vuole progettare e governare, sono durevoli e richiedono impegni di lungo periodo. Oggi la miopia è diventata la forma unica della visione di chi comanda.
L’urbanistica è un mestiere che ha sempre visto la rendita (in particolare quella urbana) come l’ostacolo più grande alla costruzione di una città e un territorio caratterizzai da equità, funzionalità, bellezza. Oggi la rendita immobiliare è diventata la categoria economica dominante.
Perchè questa scuola
Per sopravvivere in questo quadro l’urbanistica deve porsi nettamente controcorrente: deve essere alternativa rispetto alla tendenza dominante.
Ricordiamo Italo Calvino:
“L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Con la scuola di eddyburg ci proponiamo di raccogliere quelli che vogliono resistere e dare spazio al “non inferno”.
Ci proponiamo di dar loro gli strumenti per lavorare:
- strumenti di conoscenza e d’azione,
- strumenti del nostro mestiere, ma non strumenti neutrali,
- strumenti tecnici, ma finalizzati ad un ideale.
Il tema del corso: il consumo di suolo
Abbiamo scelto quest’anno un tema concreto, un tema d’azione possibile, attorno al quale molti altri si annodano e che esamineremo da molteplici punti di vista: il consumo di suolo
E’ un prodotto vistoso delle ombre del quadro cui ho accennato.
E’ una questione centrale non solo in Italia e non solo in Europa.
E’ un modo di governare il territorio che comporta
- perdita di qualità naturali, storiche, culturali,
- perdita di valori identitari essenziali per le civiltà del mondo,
- perdita di risorse per il futuro dell’umanità
Eppure, il consumo di suolo si può combatterlo, altri lo fanno, vedremo come.
La legge Lupi
Insieme al consumo di suolo, parleremo anche della minaccia più immediata: della legge Lupi.
Una legge che non ci preoccupa tanto di per sè; che questa destra italiana faccia orribili leggi non ci meraviglia più,
e neppure pensiamo che un testo così scollacciato e informe possa venire approvato,
ma ci preoccupa perchè
il sostanziale consenso politico con cui la legge è maturata,
e il silenzio dell’opinione pubblica,
ci fanno temere che quella ignobile legge esprime una tendenza che è maggioritaria.
Alla fine del corso
ragioneremo insieme sul che fare dopo questa prima occasione d’incontro:
- che fare in generale, per l’urbanistica inn Italia,
- che fare per proseguire questa esperienza (se ci avrà soddisfatti),
- che fare per migliorare eddyburg.it
La legge Lupi: che cos’è, che cosa fare dopo
Organizzato dalla Seconda Facoltà di architettura del Politecnico di Torino e da Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, il convegno si è svolto alla Sala Zodiaco del Castello del Valentino. Hanno aperto i lavori Roberto Gambino(vicepreside della Facoltà) e Vanda Bonardo (presidente di Legambiente Piemonte). Hanno presentato il libro Flavia Bianchi (responsabile del settore territorio di Legambiente Piemonte) ed Edoardo Salzano con l’intervento che segue. In calce una sintesi del dibattito, nel quale sono intervenuti Roberto Gambino, Raffaele Radicioni e Claudio Malacrino (urbanisti), Maria Teresa Roli (presidente di Italia Nostra), i docenti del Politecnico Giovanni Maria Lupo, Silvia Saccomani, Castanza Roggero.
Parliamo oggi di quella legge, dal titolo “Principi per in materia di governo del territorio”, che la Camera dei deputati ha approvato il 28 giugno 2005. Quella “legge Lupi” che aspetta, nelle stanze di Palazzo Madama, che la fine della legislatura le assegni uno dei due destini possibili: che la getti nell’archivio delle intenzioni rimaste tali, oppure, come ancora è possibile, che qualche furbacchione, con uno svelto colpo di mano la porti all’approvazione.
Che la legge Lupi venga sepolto in quell’archivio nel quale giacciono prodotti molto più nobili non è solo una speranza mia, ma – credo – è l’auspicio di molti di quelli che hanno compreso di che cosa si tratti. Alcuni di questi (Roberto Camagni, Vezio De Lucia, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Luigi Scano, Paolo Urbani, Antonio di Gennaro, Luca De Lucia), preoccupati come me del silenzio che circondava questa legge, si sono impegnati a mettere insieme alcuni scritti di critica che erano apparsi in varie sedi, e che erano quasi tutti raccolti nel sito eddyburg.it. Così, grazie soprattutto a Maria Cristina Gibelli, che ha lanciato la proposta e ha curato il libro, e all’editore Alinea, che lo ha tempestivamente allestito, è nato questo piccolo lavoro che oggi presentiamo.
I contenuti della Legge Lupi
Inizio con l’esaminare alcuni punti della versione della legge Lupi che ha ottenuto il via libera dalla Camera dei deputati. La Legge Lupi in pelle d’agnello, come l’ho ribattezzata su eddyburg.it dopo le modifiche introdotte nell’aula del Parlamento. Se queste infatti hanno in qualche punto addolcito il linguaggio, non hanno minimamente intaccato il carattere generale della legge: una legge che privatizza l’urbanistica. Come ha sottolineato Flavia Bianchi, in essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contenere: quelli della proprietà immobiliare.
Voglio sottolineare che il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contenere e condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto).
Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge.
La norma chiave è l’articolo 5, comma 4:
“Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”.
Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.
Del resto, il rinvio al’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso agli onorevoli Iannuzzi, Realacci, Mantini, Sandri, Vigni, Chianale, Lion, firmatari della coraggiosa proposta di sostituzione di cui sopra, è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.
Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miopi per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio.
Nel sistema “innovativo” e “moderno” le scelte sono concordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7). Se riflettete su ciò che sta avvenendo a Milano sulla base degli “obiettivi strategici” potete farvene un’idea.
Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo un vero “pasticcio di legge”.
Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili?
Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane?
Dell’articolo 5 ho già detto: esso è il centro dell’edificio.
L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Soffoca il ruolo delle province, rendendolo facoltativo. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendo la sostenibilità al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni: in cui il termine “sostenibile” è diventato sinonimo di “sopportabile”. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale (chi vuol capire come, legga gli scritti di di Gennaro e Scano in proposito). Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali: devono limitarsi a recepire le tutele della pianificazione sovraordinata.
L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”.
Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio del nuovo PRG di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).
L’articolo 8 (già ne ho commentato un aspetto) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari.
Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!).
Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”! Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.
Concludo questa rapida analisi con qualche ulteriore perla.
L’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura).
E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere “l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari).
E infine l’articolo 13, ultimo comma:
“Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”.
Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. Per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico si sostituisce, al “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso” (fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica).
Con buona pace di quanti sostengono che l’opposizione, in Parlamento, avrebbe fatto un ottimo lavoro e corretto positivamente il precedente testo cucinato dall’onorevole Lupi (amorevolmente assistito dall’onorevole Mantini), è opportuno precisare che quest’ultimo comma è stato aggiunto nel dibattito in Aula. Non solo: le “opposizioni” si sono astenute!
Una ideologia “bipartisan”?
Non è ancora legge ma – come diceva Flavia Bianchi nel suo intervento - la ideologia della Legge Lupi ha già lavorato nell’urbanistica italiana.
La legge Lupi non nasce come il parto di una volontà appena maggioritaria, che col suo 51% schiaccia un’altra volontà, fortemente ostile e portatrice di un disegno radicalmente diverso. Non è così. La legge Lupi esprime convinzioni, progetti, interessi, timori, esperienze che pervadono un arco ampio di gruppi e soggetti del mondo della politica, della cultura, dell’amministrazione.
Tracce dei “principi” e delle pratiche che la legge Lupi si propone di generalizzare sono evidenti in molti luoghi: in non poche legislazioni regionali; nelle pratiche di comuni, regioni, province sia al Nord che al Sud del paese; nelle pubblicazioni accademiche e in quelle specialistiche; nelle associazioni di categoria.
Indicative del generale clima “lupesco” mi sembrano due circostanze. La prima: che alcune connotazioni di fondo della legge Lupi fossero già presenti nel disegno di legge presentato da un nutrito gruppo di deputati della Margherita, guidati dall’on. Mantini. La seconda: che l’Istituto nazionale di urbanistica abbia svolto un ruolo di sostegno e di supporto alle impostazioni delle proposte Lupi e Mantini in tutto l’iter legislativo.
Pochi si sono scandalizzati, nell’area politico e culturale del centro-sinistra quando l’on. Mantini ha proclamato che la legge licenziata dalla Camera dei deputati è una legge bipartisan. Oppure quando l’on Lupi ha dichiarato che “il clima di collaborazione con cui il testo è nato pone le basi per andare avanti” al Senato.
Del resto, chi ha seguito le consultazioni della Commissione senatoriale ha potuto constatare che, agli incontri con le associazioni più critiche nei confronti della legge, i rappresentanti del maggior partito d’opposizione erano assenti e che perfino il rappresentante di una regione “rossa” come l’Emilia Romagna ha dato alla legge parere favorevole.
L’ideologia della Legge Lupi
Per concludere, vorrei cercare allora di riassumere gli elementi fondamentali dell’ideologia e della strategia espresse dalla legge Lupi. Elementi di fronte ai quali ci troveremo ancora, nei prossimi mesi e anni.
Si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari.
Si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi e spazi di vita comuni per i cittadini. Gli “standard urbanistici” sono sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”.
Si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio, contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria.
Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del paese, avviate con i condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare.
Ciò che si dovrebbe fare invece
Speriamo che domani si possa cominciare a parlare di “ciò che si dovrebbe fare invece”. Devo dire che – come il libretto testimonia – molti di noi hanno da tempo avanzato proposte positive, anche in occasione della critica alle proposte del governo. Nello stesso libretto le troverete, per esempio, nel testo a mia firma che apre il libro e in quello di Alberto Magnaghi e Anna Marson.
Esse si basano tutte su una convinzione e una consapevolezza.
La convinzione che – come scrivono Magnaghi e Marson – il principio basilare da affermare è “la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come bene comune [non alienabile senza il consenso della comunità], essenziale per il benessere delle comunità su di esso insediate”.
La consapevolezza – per adoperare le parole di Roberto Camagni – che ”il territorio come bene collettivo non viene adeguatamente garantito dal puro operare dei rapporti di mercato”, e “richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa”.
Il dibattito
Tutti gli interventi nel dibattito hanno condiviso le critiche alle legge Lupi, argomentato nelle due relazioni introduttive. Così sono stati condivisi gli indirizzi propositivi cui Salzano ha accennato, sebbene occorra (Radicioni) insistere con maggior forza sulla necessità di un controllo pubblico sulla formazione, trasformazione e distribuzione della rebdita, che costituisce il nodo rale della questione.
La maggior parte degli interventi (Bianchi, Radicioni, Gambino, Malacrino, Lupo, Roli) ha sottolineato, anche raccontando numerosi esempi di malgoverno del territorio in Piemonte, come la Legge Lupi si proponga di generalizzare una cultura che si è diffusa nel paese da tempo: a far data (precisa Malacrino) dagli anni Novanta, quando, a partire dalla legge Botta-Ferrarini, si è reintrodotto il rapporto diretto tra Stato e comuni, sono proliferati i “programmi complessi” in deroga alla pianificazione ordinaria, e alcune parole magiche (sussidiarietà, concertazione), spostate dal loro contesto, sono diventate grimaldelli per trasferire il potere alle immobiliari.
Il PRG (osserva Roli) viene considerato da molti sindaci un insieme di regole di cui occorre sbarazzarsi per avere le mani libere, ciò che i “programmi complessi” hanno aiutato a fare. Invece le regole sono indispensabili perchè consentono a tutti di interagire con le decisioni avendo un insieme certo di riferimenti.
Alla corruzione del sistema della pianificazione ha contribuito l’enfasi posta sulle grandi opere (Gambino, Lupo), e la vicenda del PRG di Torino, di cui oggi si possono verificare gli effetti, testimonia esemplarmente che il danno maggiore è venuto prima della proposta legislativa (Lupo).
L’Università non ha svolto un ruolo sufficiente: essa dovrebbe fare più leva sull’interrelazione tra le diverse discipline e sull’attenzione al concreto processo di trasformazione del territorio, che deve partire dalla consapevolezza degli elementi di storicità (Roggero).
La critica alla Legge Lupi (hanno osservato Gambino e Saccomani) non deve indurre ad esprimere una rozzezza parallela a quelle del legislatore, sforzandosi di cogliere sempre la compessità del reale e la parziale verità che in talune formulazioni della legge può nascondersi. Occorre però (questa convinzione è stata ribadita da tutti) che la legge con passi a nessun costo.
Citato in Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008
Certo, questa volontà e capacità sono necessarie, ma insieme ad esse e forse prima di esse, è necessaria la politica. Poiché la pianificazione della città e del territorio è lo strumento che la politica, pensosa dell’interesse generale e del futuro della comunità, dovrebbe impiegare, coerentemente con le proprie strategie. Come potrebbe la pianificazione non essere in crisi quando in crisi profonda è la politica? E la politica è in crisi proprio perché sono venuti meno i suoi due requisiti essenziali: la capacità di guardare lontano, di saper delineare un progetto di società da costruire pazientemente conquistando il consenso necessario; la capacità di esprimere interessi capaci di rendere migliori le condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione: capaci di divenire “interesse generale” della società.
È vastissima ormai la letteratura che illustra i modi e le regioni (e le devastanti conseguenze) di una politica che si è appiattita sull’immediato e sulla ricerca del consenso attraverso il solleticamento degli interessi più immediati. Di una politica che, anziché guidare l’economia, si è appiattita sull’economia data: quella per la quale l’unico obiettivo è la crescita esponenziale ed irrefrenabile della produzione di merci, il cui principale strumento la privatizzazione e la trasformazione in merce d’ogni risorsa materiale e immateriale, riproducibile e irriproducibile disponibile sull’intero pianeta. Schiava di un capitalismo la cui “manifestazione più evidente”, come ha scritto Piero Bevilacqua, “è la spinta impetuosa a trasformare la società in individui”, la politica ha perso ogni connessione con una società che possa definirsi tale. Non colloquia più con i cittadini, i partecipi di una comunità, né può esprimerli: si rivolge ormai alla “gente”, a una massa di individui ridotti a “clienti”, a meri compratori di merci sempre più “opzionali”, quindi inutili.
Del resto, l’ideologia che tende a costituire il “pensiero unico” di grandissima parte delle formazioni politiche, in Italia a altrove, è basata (come non ci stanchiamo di affermare) sulla dissoluzione dell’equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo, sull’appiattimento sull’individualismo, sulla celebrazione come massimi valori del successo individuale, della ricchezza. Mentre per converso concetti come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati tabù da evitare.
In definitiva dobbiamo concludere che, abbandonata dalla politica, l’urbanistica (e il suo strumento, la pianificazione) si è allontanata anche dalla società. Qui, forse, la ragione del suo declino. Ma qui anche, allora, la possibilità del suo riscatto, della sua ripresa. L’urbanistica infatti (ma preferiamo dire le ragioni della città come “casa della società”, come luogo, come prodotto e strumento di una comunità di cittadini) può ritrovare un suo ruolo e una sua utilità se si collega a quelle tensioni e interessi ch ormai si manifestano in quasi tutte le regioni d’Italia e si concretano spesso nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.
In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze). Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale puibblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati (ne ragioneremo nella prossima edizione della Scuola di eddyburg).
I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.
È un lavoro nel quale spetta anche agli urbanisti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. Lo afferma del resto il loro “codice deontologico”, secondo il quale gli urbanisti “esercitano la loro professione esclusivamente per il bene e l'interesse pubblico […]. Il pianificatore territoriale rispetta il territorio come risorsa comunitaria, fragile e limitata, contribuendo, così, alla conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, favorendo lo sviluppo equilibrato delle comunità locali ed apportando miglioramenti alla qualità della vita”.
E più ancora della corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliora o peggiora, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.
Da Il Capitale, libro III; cit. in P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008
C’è stato un momento nella storia politica e culturale milanese del Novecento nel quale è sembrato possibile pianificare un assetto urbanistico per la Milano del nuovo millennio che avrebbe dato vita a una città molto diversa da quella che oggi conosciamo. Sono gli anni di ascesa del regime, soprattutto quelli che coincidono con l’arrivo a palazzo Marino di «un giovane tecnico - scrive Paolo Mezzanotte a metà degli anni venti - di ammirevole attività e di intelligenza fuori dal comune». Stiamo parlando di Cesare Chiodi, assessore all’edilizia tra il 1922 e il 1925, e del sogno tenacemente perseguito di una città policentrica.
Conclusa l’esperienza amministrativa, l’ingegnere liberale nato e vissuto a Milano tra il 1885 e il 1969 partecipa con Giuseppe Merlo e Giovanni Brazzola al Concorso nazionale per lo studio di un progetto di piano regolatore e d’ampliamento per la città di Milano del 1926-27: «il più importante [...] che si sia stato bandito» in Italia afferma orgogliosamente Ernesto Belloni che dell’intera operazione è il timoniere prima come commissario prefettizio, poi come podestà di Milano. In questa occasione le diverse anime dell’architettura e dell’urbanistica milanesi si trovano a confronto: quella di Piero Portaluppi e Marco Semenza, quella di un nutrito gruppo di architetti riuniti nel Club degli urbanisti (Alberto Alpago Novello, Tomaso Buzzi, Ottavio Cabiati, Giuseppe de Finetti, Guido Ferrazza, Ambrogio Gadola, Emilio Lancia, Michele Marelli, Alessandro Minali, Giovanni Muzio, Pietro Palumbo, Gio Ponti e Ferdinando Reggiori) e quella di Chiodi, Merlo e Brazzola che tramutano in disegno urbano la speranza di una Milano policentrica con un progetto - contrassegnato con il motto Nihil sine studio 2000 - che appare come la sintesi di una vicenda complessa: quella della genesi di un’idea di città e di progetto urbano nati in un momento di profonda inadeguatezza degli strumenti operativi e concettuali di pianificazione rispetto ai gravosi compiti a cui erano chiamati.
Il progetto, che risulterà terzo classificato, è composto da ventisette tavole [1] e una relazione. Se si escludono gli studi e le tavole preparatorie conservate dall’Archivio Cesare Chiodi del Politecnico di Milano, degli elaborati grafici presentati al concorso non sembra esservi più traccia negli archivi milanesi. L’Archivio Storico Civico del Comune di Milano conserva invece la relazione in più copie e in due versioni, identiche nei contenuti, ma diverse nell’impaginato. La prima è un dattiloscritto, con alcuni titoli e correzioni manoscritti, fascicolato, con copertina, di 123 pagine. La seconda è un dattiloscritto ciclostilato, fascicolato, di 93 pagine, realizzato probabilmente sia per uso dei singoli commissari, sia per l’esposizione al pubblico del progetto alla Fiera di Milano nel 1927.
Oltre a una lunga premessa - che riporta dati statistici demografici e i «limiti di studio del nuovo piano di ampliamento nei riguardi dell’accrescimento della popolazione» - la relazione, datata «aprile 1927», si articola in tre parti che da un lato ripropongono la dicotomia, anticipata dal bando di concorso, fra città storica e nuova espansione, dall’altro collocano il progetto urbano in una dimensione che comprende la gestione dei processi di costruzione della città segnando il momento di passaggio tra piano figurato ottocentesco e moderno strumento di amministrazione territoriale. Le dimensioni e i contenuti del testo consentono di ipotizzare che non si tratta semplicemente di un elaborato progettuale. Questo scritto, infatti, non contiene solo la descrizione e le motivazioni delle scelte adottate dagli autori nel piano per Milano, ma si configura come una sintesi delle migliori pratiche urbanistiche conosciute fino a quel momento, una sorta di anticipazione di quella tecnica urbanistica che Chiodi metterà a punto compiutamente, meno di dieci anni dopo, nel manuale La città moderna edito da Hoepli nel 1935. Il concorso per il piano regolatore di Milano, per la sua prevedibile visibilità sia tra gli addetti ai lavori sia tra il grande pubblico, sembra cioè essere utilizzato strumentalmente dai progettisti per diffondere una nuova « coscienza urbanistica che - afferma Chiodi nel 1926 - faccia più ardito il legislatore, più agguerrito il tecnico, più preveggente e sorretto l’amministratore, più illuminato lo speculatore nella ricerca dell’ ubi consistam comune per il maggior decoro delle [...] città e per il maggior benessere dei [...] concittadini».
Renzo Riboldazzi (rielaborazione dai paragrafi introduttivi a Una Città Policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo, Polipress, 2008)
[1] 1. Milano nel 1801; 2. Milano nel 1859; 3. Milano nel 1900; 4. Milano nel 1926; 5. Milano nel 2000; 6. Diagrammi dell’incremento della fabbricazione e della popolazione cittadina; 7. Studio generale del piano di ampliamento; 8. Densità della popolazione nelle zone della città futura; 9. Schema delle zone edificatorie nei nuovi nuclei suburbani; 10. Zone industriali e impianti ferroviari; 11. Sistema dei parchi e delle zone a fabbricazione estensiva; 12. Sistemazione della zona di Gorla-Precotto-Crescenzago; 13. Sistemazione della zona di Affori-Niguarda; 14. Schema delle radiali di grande comunicazione col contado; 15. Grandi radiali extraurbane ed anello esterno; 16. Futuro centro di Milano e rete di collegamento coi nuclei periferici; 17. Statistica del traffico tranviario; 18. Statistica del carreggio; 19. Rete dei mezzi di trasporto; 20. Rete dei mezzi di trasporto nella zona centrale; 21. Sistemazione stradale interna; 22. Rete stradale della zona interna; 23. Varianti al piano regolatore della zona interna; 24. Problemi edilizi particolari; 25. Problemi edilizi della zona interna; 26. Sezioni stradali del centro; 27. Sezioni stradali della periferia.
Nihil Sine Studio 2000
[…] Criteri generali di estensione del piano urbano
Opportunamente fu già acquisito alle direttive della amministrazione cittadina e viene riconfermato dallo stesso bando di concorso che l’accrescimento cittadino non debba effettuarsi con legge monocentrica, ma debba al contrario seguire un indirizzo policentrico, nel senso di limitare volutamente lo sviluppo dell’aggregato principale cittadino per dar vita a villaggi, o sobborghi, o città satellite, cioè ad enti compiutamente organizzati in ogni loro servizio e capaci di vita relativamente autonoma, opportunamente distribuiti all’intorno della zona di influenza della città originaria, cinti da spazi liberi e convenientemente collegati da poche buone arterie col centro principale e fra di loro. I margini del piano di ampliamento del 1912 dovrebbero a nostro avviso costituire gli estremi limiti non oltrepassabili della espansione monocentrica della città. Entro questi limiti, che approssimativamente coincidono con quelli della linea daziaria del 1921, sono oggi ospitati circa 680.000 abitanti (censimento 1921). La densità di sfruttamento assegnata alla parte tuttora fabbricabile coi criteri precedentemente indicati permette di prevedere un incremento di popolazione per questa zona di circa 375.000 [unità] portando a poco più di un milione gli abitanti del nucleo urbano principale, cifra già notevolmente elevata. Fuori di questi limiti si tratta di disporre col nuovo piano di ampliamento lo spazio necessario per circa un altro milione di abitanti ed è appunto a questa parte della città che possono applicarsi quelle nuove direttive di sviluppo urbano che valgono ad arginare lo sviluppo monocentrico della città. Da qui crediamo utile iniziare il nostro studio perché dal diverso gravitare dei nuovi nuclei satellite intorno al nucleo principale ne risultano notevolmente influenzate anche le condizioni di questo. A base del nostro studio sta il concetto che l’ulteriore sviluppo della città non avvenga per espansione isotropa ed uniforme del consueto schema a scacchiere o ragnatela, ma dia invece luogo ad un processo di differenziazione per generazione intorno al nucleo centrale di minori unità satellite che, pur nel quadro generale di una comune organizzazione, conservino spiccate caratteristiche proprie. La città non dovrà espandersi a caso ed uniformemente intorno alla periferia bensì mediante l’aggregazione di nuclei ben disegnati, definiti e delimitati (che saranno secondo i casi sobborghi industriali o residenziali, città giardino, quartieri operai) ognuno dei quali dovrà avere dimensioni appropriate, essere provvisto di quanto occorre alla vita giornaliera per il lavoro, la ricreazione, la coltura, contare su adeguati spazi liberi, elemento essenziale della città moderna non meno che le case e le strade.
I rilievi demografici riportati dimostrano come enormemente irregolare, per importanza e per posizione, sia la distribuzione attuale degli aggregati suburbani intorno alla città. Lo sviluppo edilizio e demografico suburbano è infatti prevalente ed ormai a contatto della città del quadrante settentrionale (Musocco, Affori, Niguarda, Greco, Gorla, Precotto, Crescenzago), è più scarso e lontano a ponente (Baggio e Corsico) ed a levante (Lambrate e Rogoredo), quasi nullo a mezzodì (Vigentino e Chiaravalle). Questa situazione di fatto attuale, che risponde anche a naturali condizioni di ambiente, non può essere senza influenza sullo sviluppo futuro. Sarebbe contrario alla logica di tracciare un piano di ampliamento che, a somiglianza dei precedenti, si estendesse con uniforme scacchiera in ogni direzione. Più opportunamente e con sicura economia di mezzi deve concentrarsi in determinati punti intorno ai più importanti nuclei suburbani e lungo le direttrici delle grandi radiali esterne lo sviluppo della rete stradale e dei servizi pubblici ed ordinarsi la fabbricazione. Una soluzione di questo genere ha anche un suo attraente lato morale in quanto permette di conservare meglio intorno alla città il ricordo e le caratteristiche storiche, artistiche od ambientali dei vecchi villaggi suburbani invece di affogarli nell’uniforme assorbimento entro le maglie della grande città. […] Nelle tavole è accuratamente riportato lo stato attuale della fabbricazione. Fu cura costante nello studio del nuovo piano esterno di rispettare in pieno tutto ciò che esiste, di raccordare la nuova rete di strade alla vecchia, di fare degli edifici o artistici o storici, o comunque di qualche pregio, i punti di riferimento per particolari adattamenti o sistemazioni.
Prima di passare ad un rapido cenno descrittivo dei singoli nuovi gruppi creati crediamo opportuno indicarne le caratteristiche comuni. In generale si è mirato a dare veramente l’impronta di unità autonoma a ciascuno di questi gruppi, creando per ognuno un proprio centro intorno al quale potessero raccogliersi i principali uffici pubblici ed il quartiere commerciale, di disporre intorno a questo i quartieri residenziali a fabbricazione gradatamente sempre più estensiva e di assegnare alle zone marginali in opportuno contatto, o in facile comunicazione colle grandi vie di traffico stradale, ferroviario o per vie d’acqua, i quartieri industriali; il tutto circondato da zone agricole e intramezzato da spazi verdi. Rispetto al centro di ognuna di queste unità satellite si orienta la propria rete stradale: sia quella della grande viabilità, destinata ai collegamenti colla vecchia città, col contado e colle unità satelliti prossime, sia quella della viabilità minore interna. Una disposizione così teoricamente perfetta dal punto di vista edilizio e stradale, non è stata ovunque raggiungibile; ad ogni modo ad essa si è cercato di tendere colla maggiore approssimazione. I gruppi principali creati all’infuori dei limiti del vecchio piano di ampliamento del 1912 sono i seguenti: il quartiere di Lambrate è costituito da due parti quasi distinte, separate fra di loro dal corso del nuovo canale navigabile e dalla zona verde prevista sulle sponde del Lambro. La prima (che racchiude il vecchio abitato del paese) compresa fra il canale navigabile e la nuova stazione ferroviaria ha destinazione prevalentemente industriale, perfettamente rispondente al suo indirizzo attuale ed alla sua vicinanza a così importanti arterie di traffico. La seconda, più orientale e completamente di nuova creazione, ha invece destinazione residenziale, come villaggio operaio in parte a fabbricazione intensiva, in parte a fabbricazione estensiva, destinato a raccogliere la popolazione operaia della vicina zona industriale. Il quartiere di Linate è costituito da un unico agglomerato disposto a cavaliere della grande radiale suburbana dell’est e da questa direttamente collegato alla città, pur essendone materialmente separato dall’ampia zona verde lasciata sui margini del Lambro. Ha destinazione prevalentemente residenziale per la popolazione operaia che gravita intorno ai centri industriali dell’Ortica e della zona del porto. Il quartiere portuale occupa tutto il settore di sud-est della nuova città con caratteristiche nettamente industriali, rete stradale a grandi maglie regolari orientate secondo l’andamento degli impianti portuali e delle tre principali arterie di collegamento colla città: la via Marco Bruto, la nuova sede della strada Paullese ed il corso XXVIII Ottobre. L’abitato di Rogoredo costituisce la zona residenziale, prevalentemente operaia, di questo quartiere. Il quartiere di Vigentino è l’unica prevista espansione della città verso il sud. Le condizioni igieniche meno felici di questo settore della città non consigliano di dare maggior sviluppo alla fabbricazione in questo senso. Il nuovo nucleo principale si estende dalla provinciale Pavese alla Vigentina. Il quartiere di S. Cristoforo ha caratteristiche industriali nella zona che si estende radialmente lungo il Naviglio Grande e la linea ferroviaria ed è invece previsto come grande villaggio operaio nella parte fra la stazione di S. Cristoforo e la piazza d’Armi di Baggio. Le linee del piano regolatore vigente (già in corso di attuazione) limitano notevolmente in questo punto le possibilità di sviluppo di nuove soluzioni. Si è perciò studiato di adattare a quelle la organizzazione generale del quartiere, pure assegnando una impronta più precisa e definita alle sue singole parti. Il grande rettifilo dalla stazione di S. Cristoforo alla piazza d’Armi può costituire il progettato viale delle Milizie, asse del quartiere di caserme e di stabilimenti militari. Il quartiere di Baggio, notevolmente lontano dalla città, ha più caratteristico e spiccato aspetto di unità autonoma. La nuova zona di espansione si stende a ventaglio intorno al vecchio paese che è completamente rispettato nella sua struttura. Il suo nuovo centro viene creato verso la città allo sbocco della grande radiale di congiunzione ed all’incrocio coi collegamenti trasversali con Corsico e Trenno. Intorno al grande piazzale centrale alberato sono previste le zone residenziali; al sud in direzione di Cesano Boscone e Corsico, le zone industriali facilmente raccordabili alla ferrovia di S. Cristoforo. Il quartiere di Trenno costituisce pure una piccola unità autonoma fra il parco dell’Olona e la zona degli ippodromi di destinazione quasi esclusivamente residenziale. Il quartiere di Boldinasco situato allo sbocco in città delle autostrade, percorso da arterie in diretta comunicazione colla Fiera campionaria ed il corso Sempione ed in gran parte costituito da terreni di proprietà comunali, è suscettibile di rapido sviluppo con fabbricazione parte intensiva e parte estensiva. Il quartiere Affori-Niguarda compreso fra la linea delle Ferrovie Nord ed il corso del Seveso presenta qualche difficoltà di sviluppo in parte per la esistenza di importanti nuclei fabbricati, in parte per la progettata costruzione del nuovo ospedale che occuperà una notevole porzione centrale di questa zona. […] Le difficoltà di studio di questo quartiere hanno consigliato di svilupparne la planimetria in scala maggiore. Una nuova arteria radiale parallela alla strada provinciale per Como percorre in direzione da nord-ovest a sud-est il nuovo quartiere tagliandolo in due parti. Quella di ponente, raccordabile alle linee della Ferrovia Nord, si presta ad uno sviluppo industriale; per quella di levante è prevista invece una utilizzazione prevalentemente residenziale. Il quartiere di Greco ha un grande sviluppo longitudinale avendo come direttrice il nuovo vialone per Monza. Sui due margini di questo sorgerano i nuovi quartieri di abitazione; fra questi e la ferrovia si ha invece un’ampia zona che si presta a scopi industriali anche per la vicinanza della nuova stazione di Greco. Il Milanino, colla sua struttura attuale suscettibile di futuri ampliamenti, entra definitivamente coll’estensione del piano di ampliamento a far parte del sistema urbano collegandosi alla città con un ampio viale assiale che si innesta nei pressi della Bicocca al nuovo viale per Monza. Il quartiere Gorla Crescenzago occupa la parte nord-est della città fra la ferrovia per Monza ed il Lambro. Le arterie esistenti del viale Monza e di via Padova costituiscono due situazioni di fatto non suscettibili di ritocchi. Nella zona libera fra le due arterie si è previsto lo sviluppo del nuovo quartiere che ha fra le sue caratteristiche anche il corso della Martesana che si è voluto conservare immutato fiancheggiandolo con zone a verde ed a fabbricazione rada.
Rete stradale
La tendenza decongestionatrice e decentratrice del nucleo urbano, che tende a dar vita ai margini della città ad unità demografiche capaci di un notevole grado di autonomia funzionale, rende necessaria la impostazione del problema stradale con criteri affatto differenti da quelli seguiti nel vecchio piano regolatore. Gli schemi tipici di espansione a scacchiere od a ragnatela orientati rispetto ad un unico centro urbano ed uniformemente distesi tutt’intorno alla città in ogni direzione non hanno più ragione di essere. La rete stradale e dei pubblici servizi inerenti deve disporsi in relazione alle necessità particolari e relative delle zone già designate per il preordinato sviluppo della città. La rivoluzione compiutasi nell’ultimo ventennio nei mezzi di trasporto concorre a modificare le concezioni delle necessità stradali. È notevole, ad esempio, la caratteristica del piano regolatore vigente (1909-12) che, concepito in un’epoca nella quale i mezzi di trasporto erano quasi unicamente monopolizzati dalle ferrovie, si arresta ai margini della città senza preoccuparsi di creare i necessari collegamenti della città col contado, colle fiorenti città e borgate delle provincia – quali Monza, Sesto, Saronno – colle zone industriali del Gallaratese, con quelle agricole della “Bassa”, tutte unicamente congiunte alla città dalle anguste strade provinciali esistenti assolutamente inadeguate ad ospitare il sempre crescente traffico dei mezzi di trasporto automobilistici o le sedi di linee tramviarie foresi.
Al contrario oggi si impone la necessità di considerare, come elemento essenziale nell’ordinato sviluppo della città, i suoi rapporti colla regione che la circonda e di studiare i mezzi più adatti per le comunicazioni extraurbane che hanno influenza grandissima sulla vita demografica ed economica della città. Nel nostro studio noi ci siamo proposti una esatta distinzione fra le arterie di grande traffico e le strade secondarie di puro disimpegno. Alle prime corrispondono tre funzioni essenziali di collegamento: a) quello radiale fra il nucleo centrale e le unità satelliti sia del suburbio, sia della regione, corrispondente alla funzione delle nostre vecchie provinciali; b) quello periferico fra i nuclei satellite fra loro; c) quello interno fra i diversi quartieri di uno stesso nucleo. Le strade secondarie soddisfano invece alle necessità della circolazione locale, al disimpegno delle zone edificatorie, al movimento di cabotaggio entro i ristretti limiti di ciascun quartiere. A funzioni così distinte corrispondono necessità di dimensioni e di sistemazioni affatto diverse. Premettiamo subito che nello studio di un piano così vasto per la cui attuazione si richiederà la vita di alcune generazioni è soprattutto alle arterie di grande traffico che occorre dare ordinamento e disposizione definitiva. Quanto alle arterie secondarie, se pure esse risultano nelle nostre tavole indicate con qualche ricchezza di particolari per quelle zone della città delle quali per le loro più difficili – ed in parte già pregiudicate condizioni edificatorie – abbiamo creduto opportuno sviluppare i piani in iscala più evidente, non è possibile dare a questo nostro studio portata superiore di quella alla quale può onestamente pretendere. Esso va preso quindi come esemplificazione di un indirizzo al quale l’amministrazione può ispirarsi, pur senza escludere che all’atto pratico la rete minuta di lottizzazione abbia a subire qualche ritocco.
Lo scarso assegnamento che si può fare sulle antiche strade provinciali per i collegamenti radiali fra il centro urbano ed i nuclei satellite ed il contado, per essere quelle quasi tutte troppo anguste e già vincolate dalla fabbricazione che si è lasciata sorgere troppo prossima ai loro cigli senza sufficienti zone di rispetto, ha consigliato di iniziare lo studio della rete stradale da quello delle future grandi arterie radiali esterne destinate a sostituirsi alle vecchie provinciali almeno nel tratto più prossimo alla città. Le nuove radiali previste sono le seguenti, iniziando dal settore di nord-est: 1) la radiale Veneta destinata a sostituire la provinciale Veneta nel suo ultimo tratto (attraversamento di Crescenzago e viale Padova). Essa se ne distacca a monte di Vimodrone, si dirige in rettifilo su Lambrate (al Dosso), raccogliendo il traffico di questo nuovo nucleo cittadino, e sottopassa l’argine ferroviario nel punto ove già esiste il cavalcavia, che dovrà essere convenientemente ampliato. Di qui può penetrare in città per due distinte strade, l’una per la via Porpora ed il corso Buenos Ayres, atte a smistare il traffico verso il centro e l’ovest, l’altra per via Pacini e il viale Lombardia, destinate agli allacciamenti col sud. 2) La radiale dell’Est sul prolungamento del corso XXII Marzo, predisposta per ricevere in futuro gli allacciamenti di una eventuale autostrada da Venezia e per collegare colla città il nuovo parco del Lambro, il quartiere di Linate e le provenienze della strada Paullese. Essa sottopasserà il rilevato ferroviario col manufatto già costruito della luce netta di 30 metri e potrà penetrare in città fino a poche centinaia di metri dal Duomo attraverso l'ampio rettifilo del corso XXII Marzo e di porta Vittoria che, in tutto il suo sviluppo di 3 km, ha larghezza sempre prossima ai 30 metri. 3) La radiale Piacentina ha già un buon imbocco in città nel corso XXVIII Ottobre largo, nelle parti sistemate, 50 metri. Più fuori, la copertura del Redefossi assicura alla provinciale Piacentina una larghezza quasi costante di 40 metri ed il cavalcavia di Rogoredo permette di evitare lo sbarramento ferroviario e la strozzatura di Rogoredo. 4) La radiale Vigentina si distacca dalla provinciale attuale a Brandezzate deviando verso ponente fino a raggiungere i pressi della cascina Trebbia. Da qui ripiega a nord e lungo la strada di Morivione, opportunamente allargata a 40 metri, colla copertura del Ticinello, raggiunge i Bastioni e penetra più addentro nella città colla spaziosa via Calatafimi ed il piazzale della Vetra. 5) La radiale Pavese si distacca a Gratosoglio dalla provinciale attuale e piega in rettifilo verso levante, alla cascina Trebbia si congiunge alla radiale Vigentina e con questa penetra in città. 6) La radiale Vigevanese si distacca a Gaggiano sulla sponda sinistra del Naviglio Grande dalla attuale provinciale, passa poco a tramontana di Corsico costituendo l’arteria fondamentale di tutto l’importante quartiere industriale di S. Cristoforo e può penetrare in città attraverso le due vie parallele Solari e Foppa (entrambe di 30 metri di larghezza) e le vie Filangeri ed Olona che a quelle seguono e che sono suscettibili di rettifiche di tracciato. 7) La radiale dell’Ovest si stacca dalla provinciale Vercellese alle Bettole di Figino, ove può ricevere anche l’imbocco dell’autostrada di Torino, passa al mezzodì dei nuovi quartieri di Trenno, costeggia al nord l’ippodromo di San Siro e di qui può penetrare in città attraverso le tre vie parallele Monterosa, Monte Bianco ed Albani e le loro continuazioni Alberto da Giussano, Mascheroni e Giotto. 8) La radiale del Sempione segue il tracciato della provinciale attuale suscettibile di allargamento fino all’altezza di Boldinasco, qui se ne distacca in direzione di sud-est e raggiunge la Fiera campionaria penetrando in città per le vie V. Monti e Abbondo Sangiorgio. 9) Le autostrade pei laghi e per Bergamo, riunitesi al nord di Musocco e sboccate alla Certosa di Garegnano, possono di qui proseguire allacciandosi alla precedente per penetrare in città. 10) La radiale Varesina si distacca a monte di Roserio dalla provinciale attuale, passa a levante dell’abitato di Musocco raggiunge con curva più dolce il cavalcavia attuale sopra la ferrovia, ne scende e si biforca nella via Espinasse e nella via Mac Mahon, raggiungendo la città da un lato per il corso Sempione dall’altro per via Cenisio e porta Volta. 11) La radiale Comacina si distacca alla Mal Cacciata dalla provinciale attuale, passa a levante degli abitati di Dergano e di Affori, sbocca nel piazzale Macciachini, e prosegue verso la città o attraverso la via Valtellina ed il corso Como, o allacciandosi per un breve tratto del viale Marche. 12) La radiale del Nord (attuale viale Zara dei quartieri nord Milano) destinata ad essere prolungata, già in progetto fino al rondò dei Pini a Monza, costituirà la nuova strada di comunicazione con quelle città, col parco, con Sesto, con Milanino. Essa riceve sulla sua destra la deviazione dell’attuale strada Valassina che costituisce l’asse mediano del Milanino, attraversa la zona fra Niguarda, Prato Centenaro e Greco e potrà essere messa in condizione di buona penetrazione del centro di Milano non appena, colla soppressione degli impianti ferroviari, sarà dato sbocco al sud alle vie Volturno e colla copertura che si propone di un tratto della Martesana e del tombone di S. Marco, ne potrà essere prolungato il tracciato fino al contatto dell’anello dei Navigli e del Foro Bonaparte. Le dodici grandi radiali proposte – con sezioni quasi sempre superiore ai 40 metri e talora raggiungenti i 60 metri – costituiranno i nuovi accessi alla città degni dei migliori esempi lasciatici nel passato nel corso Sempione e nel corso Lodi, soprattutto se si curerà di disciplinare rigorosamente le costruzioni sorgenti sui loro lati. Ma soprattutto, esse permetteranno di risolvere in modo veramente efficace il problema delle comunicazioni meccaniche (automobilistiche o tramviarie) extraurbane oggi penosamente incanalate nelle sedi delle strade provinciali.
Per gli allacciamenti trasversali fra queste arterie radiali il piano vigente ha già due buoni anelli continui nella cerchia dei vecchi Bastioni e nella cerchia più esterna dei viali marginali al piano regolatore del 1889 (viale Abruzzi, Piceno, Umbria, Isonzo, Toscana, Tibaldi, Liguria, Troya, Bezzi, Ranzoni, Monte Ceneri, Bodio, Jenner, Marche, Brianza). Questo doppio anello, intimamente collegato alla tipica forma di sviluppo passato della nostra città, può tuttavia egregiamente servire allo smistamento fra i diversi quartieri periferici della vecchia città del traffico proveniente dall’esterno. L’anellodei Bastioni, costituito dal doppio sistema stradale dei vecchi Bastioni propriamente detti e della laterale circonvallazione, offre infatti nei suoi punti sistemati una sezione stradale veramente cospicua. Vedansi ad esempio, nel tratto presso porta Venezia, il viale Luigi Maino e il parallelo viale Piave l'uno di metri 35, l’altro di metri 27 che offrono completamente una sezione stradale di oltre 60 metri paragonabile cioè a quella del Ring viennese e quasi doppia di quella dei boulevards interieurs parigini che hanno la medesima posizione relativa e le medesime funzioni rispetto alla città. L’altro anello di viali, più esterno, ha la larghezza costante di 40 metri ed è quindi pure in grado di assolvere bene il suo compito. Trascuriamo gli altri parziali collegamenti esterni anulari del piano del 1912, alcuni dei quali costituiscono forse dal punto di vista della viabilità degli inutili doppioni, e passiamo senz’altro a considerare la zona che forma oggetto di studio per il nuovo piano proposto. Avendo abbandonato per questa parte del nuovo piano l’antico organismo della ragnatela stradale, non sarebbe stato logico costringere ad una forma di troppo geometrica precisione la rete delle congiungenti esterne dei nuclei satellite fra di loro e delle trasversali di smistamento fra le radiali principali. Piuttosto che sacrificare la realtà alla geometria, abbiamo preferito adattare la geometria alla realtà, ricordandoci volentieri – fra tanto imparaticcio di urbanistica straniera – dell’aureo ammonimento di Carlo Cattaneo che «una città che ha già vissuto ventiquattro secoli… non può essere condannata ad affondarsi tutta sotterra per risorgere quadrettata come un panno scozzese». Ciò che egli predicava ottan’anni fa per la città possiamo ben ricordarlo oggi per il suo suburbio. Il nuovo anello esterno marginale proposto si orienta quindi senza nessun preconcetto geometrico secondo la distribuzione dei quartieri satellite predisposti. Esso assume una forma naturalmente regolare nel settore di ponente dove collega i nuovi nuclei urbani disposti in regolare collana da Corsico, a Baggio, a Trenno, a Boldinasco. Qui lo sbarramento del cimitero ed il punto di passaggio obbligato al cavalcavia sopra la stazione di Musocco consigliano una diflessione del tracciato che poi riprende nuovamente regolare da Musocco, passando al centro del nuovo nucleo Affori – Bruzzano – Niguarda ed accostandosi alle zone industriali di Sesto per poi spingersi a monte di Crescenzago presso l’importante bivio della cascina Gobba dove può utilmente raccogliere il traffico della provinciale Veneta ed incanalarlo verso il nord e l’ovest della città evitando i percorsi di puro transito attraverso l’abitato. Nella parte orientale, fra Crescenzago, Lambrate e la zona portuale, le stesse due strade laterali al canale navigabile possono costituire le necessarie arterie di collegamento. Lo sbarramento creato dalla futura stazione di smistamento e dal triangolo di raccordi ferroviari dell’Ortica non consente d’altra parte molta varietà di soluzioni. Non è presumibile in queste difficili condizioni naturali un traffico trasversale molto attivo. Migliori vie di arroccamento si hanno più all’interno negli spaziosi e rettilinei viali Lomellina e Lombardia. La zona portuale del resto, che è la più importante di questo quadrante, naturalmente gravita per la sua stessa configurazione verso queste ultime arterie attraverso i tre importanti allacciamenti della via Marco Bruto, della nuova allargata sede della strada Paullese (già prevista nel piano regolatore vigente di 60 metri di larghezza) e del corso XXVIII Ottobre. Nella zona sud della città le due arterie previste sulla sponda del canale navigabile di congiunzione fra il Naviglio Grande e il porto possono servire ai collegamenti trasversali, tanto più che già esiste nel piano regolatore ed è in parte sistemato (viale Giovanni da Cermenate) l’ampio viale di arroccamento che doveva servire anche come sede al progettato canale di giunzione quando i bacini portuali erano previsti in posizione più a tramontana di quella scelta col progetto definitivo. Per quanto riguarda la rete secondaria di viabilità non crediamo necessaria una maggiore illustrazione di quanto è segnato nelle tavole richiamando solo il concetto informatore al quale abbiamo voluto ispirarci di una netta separazione fra le grandi arterie di traffico e le minori arterie di semplice disimpegno. Le strade di lottizzazione indicate rappresentano di massima solo le maglie principali di suddivisione entro le quali potrà inserirsi, in sede di attuazione del piano, la rete minore di frazionamento oggi neppur prevedibile. Le dimensioni dei lotti maggiori sono state scelte in modo da prestarsi al miglior frazionamento a seconda del tipo di fabbricazione assegnato alla zona (fabbricati in serie chiusa, villini, edifici industriali). […Circa le piazze] abbiamo curato che in ogni nucleo satellite esse avessero funzioni ben definite: le une di centro di riferimento della vita locale, le altre di disimpegno e di incrocio delle principali arterie, […] altre [ancora] infine di luogo di riposo e di sosta. Le sezioni trasversali assegnate alle strade variano a seconda delle loro specifiche funzioni. Alle grandi arterie radiali si sono attribuite larghezze variabili dai 40 ai 60 metri. La ripartizione della carreggiata secondo la diversa natura dei veicoli e la diversa velocità del traffico è fatta in modo da portare verso il centro della strada i mezzi di trasporto più rapidi, verso i fianchi il traffico locale. Le tramvie si sono di preferenza disposte in sede propria. Le alberate, se possibile in numero di quattro, si sono spostate verso il centro della strada in modo da non soffrire danno dalla vicinanza dei fabbricati. Dove si prevede di lasciare una zona di arretramento sistemata a giardini privati, fra il ciglio della strada e la linea dei fabbricati, potrà essere disposta anche un'alberata sui marciapiedi laterali. In ogni caso si è prevista la posizione delle alberate in modo da potersi adottare indifferentemente disposizioni diverse per la carreggiata senza compromettere l'esistenza degli alberi. Per le radiali maggiori si è prevista la possibilità di collocare in trincea le linee tramviarie e la carreggiata del traffico diretto per evitare gli attraversamenti. In taluni casi sarà possibile utilizzare lo spazio fra le alberate per galoppatoi. Questo ci sembra che possa particolarmente farsi nei due tronchi di strada radiale e trasversale che corrono a mezzodì ed a ponente degli ippodromi del trotter e di S. Siro che non sono percorse da un notevole traffico né spezzate da importanti attraversamenti e che, appunto per la loro vicinanza al quartiere degli sports, si prestano meglio alle esercitazioni ippiche. Per il nuovo anello esterno di collegamento fra i diversi nuclei non si è voluto esagerare le dimensioni, trattandosi di una strada non destinata ad incanalare notevoli correnti di traffico e che si svolge con una certa scioltezza di tracciato con frequenti sovrappassi agli impianti ferroviari ecc. e sussidiata, oltreché dall'anello dei viali marginali al piano regolatore del 1889, anche da parecchie altre strade di collegamento fra i diversi quartieri cittadini. Si reputa sufficiente la larghezza di 30 metri divisa in due carreggiate laterali ed un'allea alberata centrale che può tanto servire come passeggio, quanto come sede di tram. Nell'assegnare in ciascuna arteria il frazionamento delle carreggiate si è avuto cura di stabilire le dimensioni trasversali di questa in ragione di un multiplo della sagoma di ingombro dei veicoli che si è ritenuto di poter assegnare in metri 2,50. Si è dato perciò alle carreggiate di transito locale larghezza da metri 5 a metri 5,50; a quelle per il transito rapido larghezza da 7,50 a10 metri. I tram vennero collocati in sede propria (marciatram) e preferibilmente disposti sui lati della carreggiata principale lungo i viali pedonali laterali sui quali può effettuarsi in piena sicurezza la sosta, la discesa e la salita dei viaggiatori. […] Il concetto informatore della regolazione degli incroci è quello di ridurre al minimo gli attraversamenti diretti dell'arteria principale. A questo scopo gli sbocchi delle strade secondarie nella principale si sono di proposito sbarrati coi passeggi alberati in modo da costringere il traffico di quelle ad incanalarsi nelle carreggiate laterali del transito locale prima di confluire nella corrente equiversa del traffico diretto o per raggiungere il più prossimo punto di attraversamento che gli consenta di innestarsi nella corrente controversa sull'altro lato della via. I punti di attraversamento diretto vengono con ciò a concentrarsi in corrispondenza degli incroci delle arterie principali. Qui occorre provvedere un conveniente sgombro del campo visivo colla soppressione delle alberate e con un eventuale arretramento o smusso dei fabbricati. Certamente, dal punto di vista estetico, la soluzione a smusso non è delle migliori ma essa ha indubbi vantaggi pratici. Lo smusso deve però in ogni caso servire solo per la visuale e non per allargamento in raccordo della sede stradale che, anzi, da taluno si consiglia un certo restringimento della carreggiata della strada tributaria in corrispondenza dello sbocco nella principale per meglio inarginare il traffico prima di versarvelo […].
Nota: il documento integrale della relazione Nihil Sine Studio 2000 è scaricabile in formato pdf stampabile di seguito. Per maggiore chiarezza è stata inserita anche la riproduzione in piccolo formato di una delle tavole, che mostra l’organizzazione generale del piano coi quartieri giardino autonomi. Su questo sito sono anche disponibili diversi articoli teorici di Cesare Chiodi (f.b.)
E' la stagione degli asparagi e degli agretti. Ecco quindi una semplice ricetta per un primo piatto gustoso che in queste ultime settimane cucino spesso per il piacere nostro.
Garganelli alle verdure di stagione. Per quattro persone. 200 gr di guanciale laziale tagliato in 1 o 2 fette spesse 1/1,5 cm (no pancetta, mi raccomando, nè lardo);3 porri freschi;1 mazzo di asparagi verdi;una confezione da 200/250 gr di garganelli all'uovo (scegliete una marca di pasta buona, non lesinate sennò il piatto si dequalifica).
E' un piatto gustoso e ricco, quindi, come secondo, ci aggiungo un piatto di "capelli della vecchia", cioè di agretti (ben lavati e cotti al massimo 1/2 minuti in pentola a pressione e serviti freddi ben scolati), conditi con olio extra-vergine di oliva DOP, pepe, sale e succo di limone. Poi un tocchetto di pecorino di media stagionatura, possibilmente toscano o umbro. Chiudere con una bella frutta.
Cit. in Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, editori Laterza, Roma-Bari 2008
Da la Repubblica, 11 giugno 2008
Non c’è ancora nessuna informazione ufficiale, ma ormai si sa che il principale dei cantieri nei quali si preparano i “pezzi” del MoSE saranno nelle aree libere della Penisola di Pellestrina, costituite dalle due riserve naturali di Santa Maria del Mare e di Ca’ Roman. Le due aree sono entrambe Siti d’importanza comunitaria, e ovviamente sono entrambe tutelate dagli strumenti di pianificazione. Le vincola in particolare il Palav (Piano d’area della Laguna di Venezia), redatto e approvato dalla Regione e tuttora vigente.
Ebbene, è proprio in quelle aree che si realizzeranno i giganteschi elementi di calcestruzzo, ciascuno delle dimensioni di un palazzo alto cinque piani e lungo cinquanta metri, che dovranno costituire i basamenti sommersi dell’immane macchina del MoSE. In tutto i cassoni saranno 157: quanti se ne costruiranno contemporaneamente? Non è noto, perché il progetto del cantiere è top secret. Nonostante la competenza di quattro ministri (Beni e attività culturali, Ambiente e tutela del territorio e del mare, Università e ricerca, Infrastrutture), nonostante i poteri, sia pure dimessi come quelli di postulanti, di Comune e Provincia, nonostante la presenza di due taciturne Università, nonostante leggi rigorosamente protettive approvate dopo la famosa alluvione del 1966 per tutelare l’incomparabile gioiello, l’ecosistema unico al mondo, costituito dalla Laguna di Venezia – nonostante tutto ciò, nessuno sa nulla: chi sa, tace.
Innumerevoli sono le violazione di legge. Ma neppure la magistratura se ne accorge. È un po’ come ai dintorni di Napoli, a Casalnuovo, dove 71 edifici abusivi sorsero senza che nessuno se ne accorgesse. Ma siamo a Venezia, e la camorra non c’è.
Del resto, scorrendo le cronache veneziane si scopre che le violazioni delle norme negli interventi in Laguna si susseguono con tanta regolarità da essere divenuti la Regola. Mentre da qualche decennio si è stabilita in 12 metri la profondità massima dei canali navigabili (per ridurre l’afflusso delle acque marine) e si era deciso per legge di allontanare il traffico delle petroliere (a causa del loro eccessivo pescaggio), ora si sta decidendo di approfondire il “canale dei petroli” a 14 metri per consentire il transito di gigantesche navi cerealicole. Mentre da decenni leggi speciali e piani d’ogni ordine e grado probiscano ogni “imbonimento” (così si chiama il riempimento con terra di porzioni della Laguna), è in corso di realizzazione un’isola artificiale per immagazzinare i fanghi inquinati. Mentre, in omaggio a leggi vigenti e con finanziamenti pubblici, ci si adopera a disinquinare la Laguna, si prevede un imbonimento (di nuovo) sul margine della Laguna per ospitarvi una gigantesca discarica di rifiuti, alta una dozzina di metro, camuffata da terrazza belvedere sulle barene e i canali, adornata da ridenti vegetazioni.
Su ciascuno di questi episodi occorrerebbe soffermarsi: e lo faremo, in questa sede e altrove. Per ora, segnaliamo una situazione che è drammatica per il silenzio che la circonda: nessuno vede, nessuno sente, nessuno parla.
Votiamo dunque turandoci il naso, come in un contesto ben più civile (ma dirigendo la mira in una direzione opposta) invitava a fare Indro Montanelli. Certo che il fetore è alto: basta vedere come sono state composte le liste elettorali, e come sono scomparsi quasi tutti i margini di scelta dell’elettore: “attivo” solo nella nomenclatura formale, poiché ogni reale attività è stata consegnata da Berlusconi ai partiti.
Votiamo rinunciando all’odorato, ma non alla vista: guardiamo anzi con attenzione al significato del nostro voto. Per quanto mi riguarda la mia “speranza di voto” questo avrà un duplice significato.
1. cacciare un personaggio e un gruppo la cui permanenza al potere renderebbe invivibile e inutilizzabile a fini civili quel poco di pulito che è rimasto tra le Alpi e il Canale di Sicilia. Non credo che sia necessario illustrare questo assunto. Mi limiterò a ricordare che, quando ci indigniamo per quello che di poco limpido c’è nello schieramento di opposizione parliamo di berlusconismo: il germe dell’infezione sta dunque là, fuori di quello schieramento, ed è di là in primo luogo che occorre debellarlo.
2. ristabilire un quadro di principi fermi, di regole funzionanti, di istituti efficaci mediante i quali si possa svolgere la libera dialettica tra forze diverse, oggi confusamente aggregate nell’opposizione a Berlusconi.
Credo che sia utile, forse addirittura necessario, fare uno sforzo per comprendere quali sono le forze diverse che formano l’opposizione (in che cosa precisamente consista la loro differenza), e qual è il programma che può unirle non solo per sconfiggere Berlusconi ma anche per governare dopo di lui.
Sul primo punto mi sembra che il discrimine che faticosamente sta emergendo dalla confusione possa essere definito nel seguente dilemma:
(a) se il sistema entro il quale viviamo (il sistema economico-sociale fondato sul modo di produzione capitalistico e nutrito dai principi e dagli istituti foggiati dalla borghesia, con il concorso dialettico della classe antagonista) sia tale da poter essere corretto nei suoi aspetti più critici senza modificarlo dalle radici, cioè dalla concezione dell’uomo, del lavoro e della società;
(b) oppure se le contraddizioni di quel sistema siano così profonde e letali da poter essere scongiurate solo attraverso l’invenzione e la graduale messa in opera di un sistema economico-sociale fondato su principi (e governato da istituti) del tutto diversi.
La dialettica tra “moderati” e “radicali” esprime forse queste due posizioni. Sarebbe augurabile che nelloro ambito si riuscissero a formulare con una qualche chiarezza i rispettivi connotati, a partire da argomenti fondanti e non dalle occasioni di cronaca: dalle strategie e non dalle tattiche.
Sul secondo punto, il programma, mi sembra che le ragioni dell’unione, e quindi le basi di un programma di governo unitario, debbano essere individuate in due direzioni, da enunciare in con un'esplicitazione chiara di contenuti, principi e indirizzi, un reale e serio "contratto con gli italiani", e non in un elenco infinito, e necessariamente sempre incompleto, di cose da fare
Innanzitutto deve essere reso chiaroi ed esplicito l'impegno a istabilire le regole della convivenza democratica. Ciò comporta ritrovare l’ispirazione della Costituzione del 1948, che non a caso fu un patto democratico tra forze portatrici di progetti di società alternativi; ma richiede anche di instaurare un rapporto tra le diverse dimensioni dell’umano operare (la politica, l’economia, l’amministrazione, la religione, l’arte, la scienza…) nella quale le rispettive autonomie siano tutelate e le diversità dei punti di vista rispettate, senza alcuna sudditanza d’una dimensione all’altra.
Mi sembra che la prevaricazione della politica sull’amministrazione e quella dell’economia sulla politica, come l’utilizzazione politica della religione, siano tra le più inquietanti anomalie dei nostri anni.
Un impegno altrettanto chiaro ed esplicito deve essere dichiarato oggi (e domani praticato) per mettere in moto un meccanismo economico nel quale vengano sconfitti alcuni vizi storici del capitalismo italiano: innanzitutto il peso schiacciante delle rendite d’ogni tipo e dimensione, a cominciare da quella immobiliare, e poi anche il permanere di ampie sacche di privilegio prive ormai d’ogni giustificazione sociale, e la conseguente rinuncia a percorrere le rischiose strade dell’innovazione.
Ma un meccanismo nel quale vengano garantiti i valori del lavoro e quelli del futuro: nel quale quindi, in attesa di un più compiuto riconoscimento sociale (possibile solo in una società radicalmente diversa), i valori dei beni comuni non riconducibili a merci siano garantiti nella loro sopravvivenza e nel loro sviluppo.
Nella consapevolezza che un vero sviluppo, omogeneo alla natura del genere umano e al suo patrimonio culturale, può avvenire solo se il valore d’ogni prodotto viene riconosciuto alla sua carattere di bene, e non alla sua riduzione a merce.
Una consapevolezza, questa, che non dovrebbe appartenere solo alle componenti “radicali” dello schieramento unitario.
Mi riferisco a una lettera dell’intelligente climatologo Luca Mercalli e alla replica della brava economista Mercedes Bresso, candidata felicemente vittoriosa alla carica di presidente (non “governatore”, ha intelligentemente precisato) del Piemonte. E mi riferisco all’uscita dalla scena del tentativo di costituire un’unità dell’arcipelago della “sinistra radicale”, e alla conseguente penalizzazione che quest’ultima (anzi, le sue componenti) ha avuto nel risultato elettorale: fino al limite estremo (nel senso di più basso, infimo) nella baruffa veneziana, dove quella sinistra si è spaccata nelle due entità antagoniste, tra le quali la destra ha avuto buon gioco a scegliere quella a sé più vicina. Fra i due avvenimenti c’è forse un nesso. Ma vorrei soffermarmi soprattutto su quello “minore”.
In una lettera aperta a Bresso, dopo averne richiamato i grandi meriti scientifici (è stata la prima in Italia a proporre una visione ecologica dell’economia) ed amministrativi, Mercalli le rimprovera alcune ambiguità del suo programma elettorale. Da questo “trapelano gli echi delle sirene della crescita continua”, si dichiara di proporsi “uno sviluppo sostenibile per evitare il declino del Piemonte”, ma di fatto ci si riferisce implicitamente a indicatori che misurano il declino in termini non adeguati (PIL, crescita della produzione di automobili, ecc.). Mercalli le rimprovera la scelta di ammettere la realizzazione di nuove infrastrutture, e quindi di non riconoscere “il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione”. La lettera è molto bella, merita di essere letta con attenzione e diffusa. Essa è naturalmente disponibile in questo sito, insieme alla risposta altrettanto pregevole di Bresso.
La candidata (ora felicemente eletta al vertice della Regione Piemonte) risponde molto puntualmente e seriamente al suo interlocutore. Il succo della sua replica è questo: “anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di ‘blocco dello sviluppo’; mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile”. Bresso sostanzialmente condivide l’impostazione data da Mercalli alla questione della crescita, ma indica la decrescita come il risultato di un percorso, culturale e politico, che non può non partire dall’impegno a rendere più innocuo possibile, nei confronti delle risorse della terra, l’aggiunta di nuove trasformazioni a quelle, in larga misura devastanti, già apportate.
Il dialogo mette lucidamente allo scoperto un problema, che a me sembra il nodo politico rilevante della nostra epoca. Da una parte, questa crescita, questo sviluppo, sono condannati all’esaurimento oppure alla distruzione dell’attuale civiltà (come acutamente segnala Ian McEwan nello scritto inserito ieri in Eddyburg). Ma dall’altra parte, interrompere oggi il percorso avviato molti secoli fa non è possibile per alcune buone ragioni: perché non è chiaro quale meccanismo economico può sostituire quello attuale, il quale lega i redditi individuali (quindi la personale capacità di vita) al funzionamento di un sistema compattamente basato sulla crescita indefinita della produzione di merci; perché le forze sociali (nessuna esclusa) non sono disposte a incamminarsi su una strada (quello di uno sviluppo alternativo a quello fin qui praticato) il cui orizzonte è incerto; perché, comunque, non è ripetibile una scelta analoga a quella che fu compiuta quando, nell’URSS, si decise di “costruire il socialismo in un paese solo”.
Occorre allora assistere impotenti alla distruzione delle nostre terre e del nostro pianeta? No certamente. Ma è altrettanto sicuro che il destino della civiltà umana sarà cupo se la politica non si farà carico di quella che con ogni evidenza è la contraddizione di fondo della nostra epoca. Forse la vera differenza tra le politiche progressiste e quelle conservatrici, tra sinistra e destra, sta proprio in questo.
Il massimo che si può chiedere alla destra (a chi è soddisfatto dell’attuale sistema economico-sociale, come a chi non pensa che un altro sia possibile) è di accompagnare il pianeta verso una dignitosa agonia. È evidente che il conglomerato di forze che si aggrega attorno a Berlusconi ci nega perfino questo, e quindi sbarazzare il terreno dall’ingombrante cadavere che ancora occupa il potere è un primo passo essenziale, al quale tutti sono chiamati a concorrere. Ma la sinistra, e soprattutto e in primo luogo la sinistra “radicale”, deve comprendere che può ritrovare un sua consistenza e un suo ruolo storico, che la renda alternativa sia alla destra “sporca” attuale che a una possibile (e auspicabile) destra “pulita”, solo se affonda la sua critica nel vivo della contraddizione sostanziale dell’attuale civiltà: quella contraddizione che ha la sua radice in una concezione oggi rivelatasi errata e mortifera dello sviluppo. Frammenti di una simile critica, barlumi di un possibile percorso alternativo, vagiti di nuove possibilità di relazione tra bisogno dell’uomo e uso delle risorse esistono già, dispersi sulla superficie del mondo. Si tratta solo di comprendere che la questione ambientale è questo, e non si riduce all’abolizione della caccia o all’istituzione di un parco.
E la strenua difesa della democrazia e delle sue ragioni, delle sue radici (domani festeggiamo la Resistenza) e dei suoi istituti (ci prepariamo a contrastare l’abolizione della Costituzione), portano vittorie durevoli se rendono più favorevole il terreno per costruire una società radicalmente diversa da quella attuale, e sorretta da altri valori. Le stesse battaglie per la difesa di quanto resta del patrimonio accumulato da secoli (dalla Laguna di Venezia ai beni culturali dissipati dal tremontismo, dalle coste della Sardegna ai paesaggi della Toscana) hanno un senso se sono vissuti non come estremi sguardi a un passato che va scomparendo, ma come segnali di saggezza e bellezza che dalla storia saluta un futuro possibile.
Ma vorremmo che fosse migliorata: soprattutto per emendare il linguaggio da alcuni residui “lupeschi” (i diritti edificatori, lo sviluppo del territorio), e per introdurre maggiore efficacia ai suoi principi, soprattutto in materia di difesa del suolo e di diritti dei cittadini.
Della tradizione dell’urbanistica italiana, cancellata ope legis o lasciata cadere in desuetudine dalle pratiche di “governo del territorio” la proposta di legge recupera più d’un elemento. Rende esplicito il “principio di pianificazione”, con una formulazione efficace. Ribadisce la non indennizzabilità dei “vincoli ricognitivi”, cioè delle tutele poste per ragioni oggettive su parti del territorio dotate di qualità o soggette a rischi. Recupera gli standard urbanistici, sia pure con formulazioni non sempre convincenti. Ripristina alcuni apporti della Commissione Giannini (DPr 616/1977) caduti in desuetudine, come i “lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale” quale documento territoriale nel quale le competenze dello stato (dalle infrastrutture alle tutele) dovrebbero trovare la loro sintesi.
Molte delle formulazioni, il rilievo dato – almeno sul piano dei principi e degli impegni generali – al contenimento del consumo di suolo, e la riconduzione della “perequazione” sostanzialmente a ciò che era nella “legge ponte” del 1967, rivelano il tentativo, in gran parte riuscito, di costruire una piattaforma che possa comporsi con le proposte formulate da altre forze politiche del centro-sinistra, in particolare con quelle che hanno fatto propria le “legge di eddyburg”. E se il lavoro parlamentare proseguirà tenendo conto prevalentemente delle due proposte che abbiamo finora citato si può dire senz’altro che la fase della “legge Lupi” è dietro le nostre spalle. Ma a un paio di condizioni.
In primo luogo, occorre correggere alcune espressioni linguistiche tipiche dell’impostazione distruttiva prevalsa nel decennio trascorso, e rivelatrici della sua ideologia. Ne segnaliamo in particolare due.
Negli articoli si parla spesso di “sviluppo del territorio” (espressione che appare fin dall’importante articolo 2 dedicato al “principio di pianificazione”). È un’espressione nemmeno ambigua nel suo significato, poiché il suo uso discende dal termine anglosassone “development” e indica la trasformazione del territorio per l’attuazione di un piano di lottizzazione o simile. “Sviluppo del territorio” allude alla Cascinazza di Monza, non all’emersione improvvisa dal mare dell’isola Ferdinandea. È un termine non adoperato dai geologi, ma dai promoters di operazioni immobiliari. In un testo che, nei suoi principi, dichiara sempre la priorità del risparmio delle risorse non rinnovabili, della conservazione della biodiversità e del patrimonio culturale, storico e paesaggistico, ha senso riferirsi di continuo allo “sviluppo del territorio” come un obiettivo di grande rilievo? E ha senso introdurre all’articolo 16 tra gli standard urbanistici (alias “dotazioni territoriali”) “il sostegno all’iniziativa economica”?
Veniamo alla seconda espressione. Opportunamente nella proposta si riconduce la perequazione a strumento attuativo della pianificazione urbanistica, e quindi se ne ripristina il ruolo di compensazione degli interessi immobiliari all’interno degli ambiti attuativi (il collaudato meccanismo dei piani di lottizzazione convenzionata). Ma perché attribuire alle facoltà di edificazione, concesse dai piani, e giustamente destinate alla decadenza ove non utilizzate nei tempi stabiliti, il termine impegnativo di “diritto edificatorio”? Questa espressione non esiste nella legislazione urbanistica. Introdurlo appare una incoerenza, o un residuo di precedenti stesure. Come del resto palesemente contraddittorio è il comma 6 dell’articolo 21 (dedicato appunto alla perequazione e alla disciplina dei diritti urbanistici), nel quale si afferma che “l’utilizzazione dei diritti edificatori deve avvenire a seguito di trasferimento di cubatura”. Da dove a dove, visto che tali “diritti” devono essere perequati all’interno degli ambiti?
La seconda condizione per rendere adeguata la proposta è quella di attribuire efficacia operativa ai principi proclamati. L’abbondanza delle formulazioni di principio e d’intenzioni accattivanti (a volte anche pleonastiche, come il principio di legalità e quello di democrazia e trasparenza) non trova riscontro in formulazioni legislative capaci di agire con immediatezza e chiarezza nelle trasformazioni del territorio. La proposta nata da questo sito (e le formulazioni della proposta dell’on. Migliore e altri) consentono ben diversa, più efficace e più immediata tutela del territorio non urbanizzato (riportiamo qui sotto gli articoli in proposito).
Più in generale, preoccupa molto la delega pressoché totale alle regioni della responsabilità di tradurre i principi stabiliti dalla legge nazionale in precise norme vigenti erga omnes. Così in materia di standard urbanistici, a proposito dei quali occorrerebbe almeno far salvi i “diritti acquisiti” dai cittadini sulla base della legge del 1967 e del decreto del 1968. Ma il caso limite è l’attribuzione alle leggi regionali della “emanazione delle misure di salvaguardia” (articolo 15). Oggi in ogni parte d’Italia tra l’adozione di un piano e la sua approvazione il sindaco non può autorizzare interventi che siano in contrasto con il piano adottato, ma non ancora vigente; ciò per effetto di una legge che vige in tutto il territorio nazionale. Domani non sarà più così? Un comune che avrà deciso con un nuovo piano urbanistico – come molti hanno fatto in questi ultimi decenni – di ridurre le previsioni di espansione, o correggere interventi di trasformazione urbanistica (development) lungo le sponde del fiume o sulle colline, dovrà aspettare una eventuale legge regionale per impedire che questa sua saggia decisione venga rispettata?
Il dibattito parlamentare, che auspichiamo si apra presto e si svolga in modo produttivo, darà risposte a queste e ad altre domande che il testo solleva. La speranza è che le positive intenzioni espresse nella proposta di cui è prima firmataria l’on. Raffaella Mariani, e che sappiamo essere il risultato di un faticoso lavoro di composizione di esigenze, culture ed esperienze diverse, trovino l’approdo in un testo legislativo con esse pienamente coerente.
Una persona soprattutto dobbiamo ringraziare, per ciò che ha fatto molto concretamente: il senatore Sauro Turroni, Verde, eletto nel Collegio di Prato per la lista dell’Ulivo. È stato (a nostra conoscenza) l’unico parlamentare che non abbia ceduto né alla distrazione né alle lusinghe bipartisan, l’unico che abbia dimostrato di possedere una consapevolezza piena della posta in gioco e la capacità di convincere i suoi “compagni di laticlavio” a smorzare gli entusiasmi e rifiutare le accelerazioni. Grazie. Speriamo di rivederlo nel Senato che uscirà dalle elezioni del 9-10 aprile.
Il lavoro da fare sarà molto, e uno spazio grande spetterà al Parlamento. Le idee su cui lavorare per elaborare proposte positive per un rinnovato “governo del territorio” ci sono; molte le abbiamo raccolte in questo sito, rendendo così disponibili contributi provenienti da fonti e voci diverse, ma tutte ispirate ad alcuni principi comuni: alla centralità del territorio come bene pubblico e collettivo e alla conseguente esigenza che il primato delle decisioni in materia di pianificazione urbanistica e territoriale spetti al potere pubblico: a un potere pubblico democratico non solo per le modalità di elezione degli organismi rappresentativi. Voci diverse, ma tutte consapevoli che il maggiore conflitto che avviene sul territorio, e ne decide il destino, è quello tra interessi economici nemici di ogni possibile sviluppo durevole (quali quelli della rendita) ed esigenze di una vita personale, sociale ed economica soddisfacente, in un quadro di vita gradevole e bello, in un’organizzazione territoriale razionale ed efficiente: per le cittadine e i cittadini di oggi, e anche per quelli di domani.
Consideriamoci all’inizio di un lavoro da fare: non per distruggere proposte che sono ormai morte, ma per costruire. Qualche base c’è nei programmi elettorali.
Questi (mi riferisco in particolare a quello presentato da Romano Prodi e dai leader dell’Unione) sembra volto in una direzione giusta. Possono trarsi conseguenze rilevanti e positive dall’affermazione che le politiche saranno “orientate a garantire la qualità ambientale, culturale e paesistica, la biodiversità, il risparmio del suolo, la prevenzione e la riduzione dei rischi”, come dalladichiarazione “che i principi della sostenibilità, della prevenzione e della precauzione debbano improntare tutti i piani e programmi che intervengono sul medesimo territorio, garantendo la massima trasparenza e partecipazione”. L’accento posto al risparmio di suolo suona come una novità nei documenti politici degli ultimi decenni. E così può leggersi una certa contrapposizione tra la manutenzione del territorio, che “è la più importante opera pubblica”, e l’ideologia delle Grandi Opere. (Ma perché due giorni dopo Prodi ha annunciato che la TAC in Val di Susa si farà “senza si e senza ma”?). Insomma, c’è qualche segno di speranza e d’inversione di tendenza, al confronto con l’imperante “lupismo”.
Su un punto mi sembra perciò ragionevole richiamare l’attenzione. A una prima lettura del documento, e in particolare della parte relativa alle politiche territoriali, si ha l’impressione che i diversi provvedimenti necessari al suo governo siano visti con un’ottica settoriale. Anche quando si richiama – opportunamente – la necessità di “realizzare una gestione integrata che tenga conto della biodiversità, della qualità ambientale, culturale e paesistica, del ruolo multifunzionale dell’agricoltura e insieme della qualità sociale e urbana”, si trascura ogni cenno (non vorrei per ignoranza) al fatto che gli strumenti inventati per realizzare una “gestione integrata” delle trasformazioni territoriali e urbane sono quelli della pianificazione: proprio quelli che sono stati smantellati dalle pratiche e dalle teorie del “lupismo” d’ogni colore, non solo nell’ultima stagione berlusconiana. Strumenti che da tempo meritano di essere adeguati, migliorati, perfezionati, resi aderenti alle nuove esigenze e possibilità (come molte regioni e molti enti locali si erano apprestati a fare tra il 1990 e il 2000), ma certo in primo luogo conosciuti e praticati come elementi cardine del governo pubblico del territorio.
Forse c’è un primo passo da fare - al di là delle opportune dichiarazioni di volontà e d’intenti sul terreno dei principi - per avviare una fuoriuscita dalla stagione che si vorrebbe consegnata alla storia,. Partire cioè dalla consapevolezza, e dalla ricognizione, di ciò che nel sistema giuridico italiano si è consolidato, secondo un percorso che è iniziato con Giolitti all’inizio del secolo, si è sviluppato con Bottai e Gorla nel rovinoso e tragico declinare del regime fascista, si è sviluppato (ministri sono stati Sullo, Mancini, Bucalossi, Galasso) nella stagione delle “riforme di struttura” degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso,.
Innestare insomma il nuovo nel tessuto intrecciato nei decenni in cui la preoccupazione per gli interessi generali e la tutela dei valori comuni erano più vivi e diffusi che negli anni di Berlusconi. E se proprio si vuole che il legislatore non trascuri i prodotti del Parlamento che è stato appena sciolto, invece che dalla Legge Lupi e dalle squallide e approssimative elaborazioni che sono alla sua base, sarebbe meglio, molto meglio, partire da quella diligente ricostruzione delle regole vigenti nell’ordinamento italiano in materia di governo del territorio, contenute nello “schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali nella materia governo del territorio”, il quale con grande modestia e con grandissima utilità si adopera nell’individuazione “dei principi fondamentali in materia di governo del territorio di cui all’articolo 117, terzo comma della Costituzione, che si desumono dalle leggi vigenti”.
Lo schema di decreto legislativo, sottoposto all’attenzione delle regioni nel gennaio scorso, è stato formato ai sensi della legge 5 giugno 2003, n. 131, articolo 1, comma 4, ed è scaricabile qui.
Anche a destra lo si è capito. L’avevano compreso subito uomini come Giovanni Sartori, Franco Cordero, Oscar Luigi Scalfaro, nessuno dei quali appartiene alla sinistra radicale. Lo hanno compreso altri, dopo il colpo di maggioranza che ha distrutto la Costituzione: Giulio Andreotti, Domenico Fisichella ed Ernesto Galli Della Loggia, per citare i tre che hanno colpito di più l’opinione pubblica.
La sua strategia è chiara, ed è evidente il sistema di valori cui essa si ispira. L’interesse privato come molla esclusiva d’ogni evoluzione sociale, senza temperamenti se non quelli della “carità” (non quella cristiana, quella perbenista). Il ruolo servile dello Stato nei confronti degli interessi privati più forti, e quindi il drenaggio sistematico di risorse dal lavoro alla rendita, dal povero al ricco, dal passato al presente. L’assunzione dell’Azienda come modello di ogni possibile organizzazione, e quindi il primato esclusivo del Padrone e dell’efficienza in termini di massimo sfruttamento di tutte le occasioni e risorse. La rottura di ogni solidarietà che abbia fondamento nella giustizia e non nell’interesse privato. Quindi riduzione d’ogni dimensione al proprio orticello: la miopia trasfigurata da patologia a fisiologia, la patria ridotta al paesello, l’idioma al posto della lingua e l’abbandono d’ogni koinè.
In questo quadro, la democrazia non è più l’attento equilibrio tra i diversi interessi espressi dalle diverse aggregazioni di cittadini, tra le diverse opzioni culturali, ideali, politiche. Non è più la garanzia per tutti che la responsabilità del governo spetta a chi esprime di più, ma la responsabilità altrettanto decisiva del controllo spetta a chi domani potrà sostituirlo. Non è più la ricerca continua di un consenso attraverso la libera espressione di tutte le opzioni presenti. No. Democrazia diventa la conquista, con tutti i mezzi, del consenso: con l’ipnosi dei media, l’acquisto, la menzogna, la corruzione. Di Machiavelli si conosce solo la lettura da Bar dello Sport, “ogni mezzo è lecito per raggiungere qualsivoglia fine”, non quella autentica, “il mezzo sia commisurato al fine”.
Se questi sono i valori, allora diventa evidente la ragione e la logica di tutti i passi compiuti sulla via della distruzione: sono tasselli d’un ordinato mosaico. Che importa se l’economia creativa, le cartolarizzazioni, le una tantum, i condoni rastrellano risorse distruggendo il futuro? Solo il presente, il MIO presente vale. Che importa se i miei ministri (da Lunardi a Moratti, da Matteoli a Urbani) distruggono il paesaggio, dissipano i beni culturali, la nostra eredità, il passato che serve ai posteri? Il passato non serve a ME, il futuro nemmeno. E se l’onorevole Lupi, riesce a imporre la supremazia dell’interesse privato dei potenti perfino nel governo delle città e dei territori, se riesce ad eliminare quei balzelli (spazi pubblici, verde pubblico, scuole pubbliche) che ostacolano la rendita fondiaria, se riesce ad abolire le procedure garantiste degli interessi comuni espresse dal sistema della pianificazione, allora la prossima volta lo faremo dirigente (pardon, ministro).
Ha allora ben ragione Romano Prodi a chiamare al “serrate le file”. Hanno ragione quanti invitano ad assumere la difesa dei valori e della strategia della Costituzione repubblicana e antifascista come l’estrema difesa contro il prevalere definitivo d’un disegno dello stato e della società compatto, coeso, determinato, che ha già mietuto molti successi e sgretolato molte conquiste di civiltà.
C’è un abisso tra i nostri anni e quelli nei quali la Costituzione firmata da Enrico De Nicola, Umberto Terracini e Alcide De Gasperi vide la luce. Allora esisteva un nucleo di valori comuni sui quali costruire le regole d’una dialettica democratica tra posizioni diverse. Oggi il conflitto è tra due sistemi di valori, l’uno irriducibile all’altro e con esso incomponibile.
Lo si fosse compreso prima, non si sarebbero compiuti gli errori (dalla Bicamerale, al conflitto d’interessi, alla revisione del Titolo V della Costituzione…) che hanno portato Silvio Berlusconi al comando dell’Azienda Italia. Ma ancora non è troppo tardi. Dalle prossime elezioni regionali può venire un segnale di speranza, può iniziare un percorso che conduca il Paese fuori dalla spirale di distruzione e degrado nella quale si dibatte.
Ricordiamo gli eventi, sconosciuti a molti. Nel 1967 una legge dello stato, le “legge ponte” urbanistica, decretò che a ogni cittadino deve essere riconosciuto quel diritto con la previsione, nei piani urbanistici, di una determinata quantità di aree per “spazi pubblici e d’uso pubblico”. Un anno dopo un decreto interministeriale precisò tecnicamente quel diritto in un certo numero di metri quadrati ad abitante, al di sotto dei quali le previsioni dei piani non potevano scendere.
Tre circostanze spinsero in quella direzione. Un ruolo svolse certamente la cultura urbanistica, allora attenta ai contenuti sociali della disciplina. Un ruolo altrettanto incisivo svolsero le esperienze di alcuni comuni (in particolare quelli dell’Emilia-Romagna e della volontaria Consulta urbanistica presente in quella regione). Ma il ruolo più rilevante lo giocarono il movimento organizzato delle donne e le alleanze sociali e culturali che si costituì attorno alla sua organizzazione, l’Unione Donne Italiane (UDI).
Alcuni anni prima della legge, nel 1963, l’UDI (un'associazione militante di donne, in prevalenza aderenti ai partiti della sinistra) aveva avviato una iniziativa sociale di massa mossa da una consapevolezza e animata da un obiettivo. La consapevolezza: l’entrata delle donne nel mondo del lavoro socialmente riconosciuto (nella fabbrica e nell’ufficio) aveva reso insopportabile per le donne il peso del lavoro casalingo. L’obiettivo: ottenere che la società si facesse carico del problema, organizzando reti di servizi sociali e altre attrezzature che liberassero le donne di una parte almeno del lavoro casalingo.
Le prime tappe furono individuate nella programmazione e nel finanziamento di una rete di asili nido e nell’obbligo della previsione di spazi necessari per il verde e i servizi collettivi nei piani urbanistici. Nell’ambito di questa azione l’UDI organizzò, nel dicembre 1963, un convegno sul tema “l'obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico", nel quale tre delle quattro relazioni introduttive furono svolte da qualificati urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti, Alberto Todros. L’iniziativa dava l’avvio alla raccolta di firme per una proposta di legge d'iniziativa popolare, che ne raccolse molte decine di migliaia.
Fu uno dei momenti nei quali gli urbanisti non solo furono in sintonia con la società, ma l’aiutarono ad esprimere le aspirazioni al progresso nel segno dei valori e dei beni comuni. Il decreto sugli standard urbanistici, e la conseguente pratica della previsione di aree in quantità adeguate nei piani, furono i frutti di quell’incontro. (Un altro momento simile fu il movimento sindacale del 1968-69, quando esplose il movimento per “la casa come servizio sociale”, che diede vita alle leggi di riforma del settore degli anni Settanta. E non a caso la proposta legislativa degli amici di eddyburg salda le due questioni, aggiungendovi quella della mobilità)
L’onorevole Lupi, e i suoi numerosi alleati di destra, di centro e di sinistra, volevano gettare tra le ortiche il diritto nazionale agli spazi pubblici e d’uso pubblico. Quella posizione sembra ormai ridotta ai margini delle proposte parlamentari: le leggi per il governo del territorio già presentate, e quelle in corso di presentazione, restituiscono agli standard il loro ruolo. Le regioni, che nelle loro legislazioni più recenti, sembravano aver dimenticato gli standard (e, in generale, il dimensionamento dei piani), sembrano oggi volerli riprendere e sviluppare nei modi in cui da decenni si sa che è necessario: cioè completando la previsione quantitativa nella prescrizione di adeguati requisiti di qualità sia dei servizi che dell’organizzazione della città. Più d’un segno fa quindi sperare che la fase più cupa sia in via di superamento. Terremo informati i nostri frequentatori. Intanto, nel segno di questa speranza salutiamo l’8 marzo.
Quelle tre opere sono simili per alcune ragioni sostanziali: sono di utilità dubbia o nulla; il loro costo è incerto, e comunque enorme; produrranno arricchimento privato e indebitamento pubblico; comportano rischi e danni immediati all’ambiente.
Il Ponte sullo Stretto. Dovrebbe servire allo sviluppo della Sicilia: ma c’è ancora qualche balordo che pensa che basti collegare un’area con una infrastruttura per portarvi duratura ricchezza? Non sembra che la Calabria abbia cambiato faccia quando l’autostrada del sole l’ha collegata al resto dell’Italia, e alle ricche regioni del Nord.
Per affrontare sul serio il problema delle connessioni e del ruolo dell’Isola occorrerebbe lavorare sui collegamenti tra il Continente e le altre sponde del Mediterraneo, quindi sulle “autostrade del mare” e le loro connessioni con la rete delle comunicazioni terrestri. Ma è più facile proporre (quanto a realizzare, è un altro discorso) una grande opera d’ingegneria o d’architettura che lavorare seriamente a un serio programma nazionale dei trasporti.
In compenso, non c’è nessuna garanzia seria sulla sicurezza sismica, c’è la certezza del guasto a un sito che affonda le radici del suo valore nella profondità del mito e offre occasioni eccezionali alla vita della natura e alla ricchezza delle specie. Il suo costo è gigantesco, e altrettanto grandi sono i profitti di chi lo studia, progetta, promuove, realizza; ma non è il mercato che lo misura: il deficit lo paga Pantalone.
Il Treno ad alta velocità in Val di Susa. Anzi, non è più ad alta velocità, ma ad alta capacità: trasporterà le merci, perchè per i passeggeri non conviene. Però il tracciato è rimasto lo stesso: forse un treno che trasporti lentamente grandi quantità di merci richiede le stesse caratteristiche geometriche di una freccia lanciata nello spazio?
Chi ha spiegato a che cosa, a chi, perchè serve un “corridoio intermodale” tra Lisbona e Kiev, quali traffici debba smaltire lungo il suo percorso, come si connetta con il resto della rete delle comunicazioni? Qualcuno (che non sia un ambientalista estremista) ha riflettuto sull’utilità di trasportare patate, bottiglie e automobili da un punto nel quale queste merci vengono prodotte a un altro punto dove le medesime merci sono prodotte (magari dalle stesse holding)? Luciana Castellina ha ricordato di recente che il TIR che s’incendiò nella galleria del Frejus portava carta igienica dalla Francia all’Italia: non sappiamo produrla qui?
In compenso, gli economisti dei trasporti ci dicono che i conti economici sono del tutto inattendibili. Se l’opera si farà, verificheremo una volta ancora che il project financing è uno specchietto per le allodole: alla fine, viva il Mercato, ma il conto lo paga Pantalone. E magari Pantalone pagherà pure agli abitanti della Val di Susa qualcosa per il disturbo; la distruzione del paesaggio, lo sconquasso di un’economia locale, li pagheranno i figli e i nipoti di Pantalone.
Il MoSE nella Laguna di Venezia. Dovrebbe servire a tenere al riparo dalle “acque alte eccezionali” (prodotte delle maree marine e dell’esondazione dei fiumi) la città, che per un millennio è stata salvaguardata da un’intelligente e quotidiana opera di manutenzione del delicatissimo equilibrio ecologico. Lo fa con tecniche ingegneristiche devastanti, divenute rapidamente obsolete, che saranno sicuramente inefficaci se le modifiche planetarie saranno un po’ diverse dalle incerte previsioni.
In compenso, lo studio la progettazione la sperimentazione l’esecuzione sono state affidati da Nicolazzi (lo ricordate? è il primo ministro dei LLPP insignito del premio Attila) a un consorzio di imprese private, lucrosamente remunerate. In compenso, i lavori (che sono iniziati nonostante una relazione d’impatto ambientale negativa) devastano aree di grande pregio sia in sè sia in relazione all’intero ecosistema lagunare. Il costo della realizzazione è enorme, ma quello della gestione (che sarà gigantesco, trattandosi di enormi macchinari sommersi) ancora non è stato valutato, e non si sa neppure chi lo sosterrà. Pantalone sta già pagando, pagheranno figli e nipoti per molte generazioni.
Se mettiamo insieme i tre pannelli di questo trittico comprendiamo la strategia che c’è sotto. SI tratta di immagini potenti (l’ardita opera del genio ingegneristico che scavalca il mare tra Scilla e Cariddi, la grande direttrice dei movimenti delle persone, delle merci, dell’energia che collega l’Atlantico alle soglie dell’Asia, le geniali barriere d’acciaio che si ergono per proteggere la Perla della Laguna dall’irrompere minaccioso dei flutti marini), che trovano in se stesse la loro giustificazione.
Si tratta di mettere in moto grandi affari, rinviando al futuro i costi collettivi: e rinviando al futuro, quando gli improvvidi decisori non ci saranno più, anche la verifica della presunta utilità delle opere.
Si tratta di mobilitare il consenso di chi da opere faraoniche ha comunque da guadagnare: profitto, rendita, salario.
La sostenibilità? Ormai è un termine che ha perso la severità del significato originario: è stato ridotto a sinonimo di sopportabilità. E comunque chi sopporta è Pantalone, e i suoi figli e i figli dei loro figli.
Le 250 pagine del programma dell’Unione dicono qualcosa in proposito? Non sembra. Eppure, l’abrogazione esplicita di questo trittico, quale che sia il prezzo che occorrerò pagare, sarebbe comunque un grande risparmio per il futuro. E il segnale di una diversità dal berlusconismo che darebbe qualche speranza, e qualche ragione per votare non solo contro Berlusconi, ma anche per Prodi.
Da noi, per la verità, l’esempio viene dall’alto; è noto che l’attività dell’attuale presidente del consiglio ha come suo motore essenziale, fin dai tempi della “discesa in campo” del cavalier Berlusconi, la difesa, con gli strumenti dello Stato, di tutti i suoi numerosissimi interessi personali: da quelli finanziari a quelli processuali, da quelli del potere mediatico a quelli edilizi, da quelli dei suoi parenti a quelli dei suoi amici, collaboratori e accoliti. Restando nel palazzo della politica, se parte dell’opposizione tende a mitigare lo scandalo italiano e a smorzare le critiche più sincere (e perciò più aspre), per fortuna il suo leader sembra aver avvertito tutto il peso della “questione morale”, e del ruolo che essa in ha nelle coscienze di una parte non indifferente dell’elettorato. Chi ha sentito l’enfasi con la quale Romano Prodi, nel sostenere le ragioni di una nuova politica, ha sottolineato la necessità di una nuova dimensione etica, ha sentito rinverdire la speranza.
In altri palazzi la “questione morale” non sembra invece essere considerata più di un ferrovecchio. Così in settori importanti della cultura: e proprio di quella cultura urbanistica tradizionalmente legata, in Italia, alla politica democratica e progressista. Come se il clima generale lo giustificasse, anche esponenti della più aggiornata cultura urbanistica considerano così normale che un uomo rinviato in giudizio per favoreggiamento al peggiore nemico dello Stato - la mafia - resti al suo posto di presidente della Regione,che addirittura lo invitano a inaugurare la seduta conclusiva della loro assise.
È ciò che è accaduto nel predisporre e nell’accettare il programma della IX Conferenza della Società italiana degli urbanisti, che si terrà a Palermo il 3-4- marzo prossimi. Essa si svolge in due giornate, entrambe dedicate al tema “Terre d’Europa e fronti Mediterranei, Il ruolo della pianificazione tra conservazione e trasformazione per il miglioramento della qualità della vita”. Vi parlano urbanisti di grande spessore culturale e civile, come Bernardo Secchi e Bruno Gabrielli, vi partecipano numerosi ospiti stranieri, si svolge nell’ambito della prestigiosa Facoltà di architettura palermitana: vi saranno perciò numerosi studenti. Ma alla tavola rotonda conclusiva, “Verso un’urbanistica dell’Europa mediterranea”, le prime parole saranno pronunciate da Salvatore Cuffaro, che la magistratura ha rinviato a giudizio ritenendo che lee prove fossero sufficienti per giudicarlo colpevole di aver venduto (o regalato) informazioni di Stato ai nemici dello Stato.
Sarà interessante conoscere le ragioni per le quali stimati (per la loro capacità e per la loro onestà) professionisti dell’urbanistica e dell’insegnamento non abbiano sentito imbarazzo in una simile, autorevole presenza. Ma ancora di più sarà utile ragionare su quest’episodio. Comprendere se c’è un nesso tra quello che accade alla SIU e quello che è accaduto all’INU, dove l’incontrastato gruppo dirigente ha sostenuto una legge che privatizza la pianificazione urbanistica e cancella le conquista dell’età delle riforme, e ne ha facilitato il cammino “coprendola a sinistra”.
C’è chi sostiene che le ragioni della professione (intesa come strumento di affermazione personale e di accresciuto potere accademico ed economico) hanno prevalso su quelle degli ideali: del servizio civile e della collaborazione alla costruzione di una città e una società migliori. Che questo sia avvenuto in Italia ma stia avvenendo anche altrove, e che sia il prodotto di un clima nel quale le ragioni della comunità sono diventate subalterne di quelle dell’individuo. Non so se sia davvero così, ma varrebbe la pena di ragionarne.
Post Scriptum (1 marzo 2005) - Domenica 27 febbraio, nel “pensiero del giorno”, registravo con amarezza la scelta della SIU di attribuire un ruolo di rilievo a Salvatore Cuffaro, presidente della regione Sicilia rinviato a giudizio per favoreggiamento alla mafia, e ciò nonostante rimasto al suo posto. Lunedì 28 ho commentato, in questo eddytoriale, l’evento. Oggi mi informano che la SIU ha modificato il suo programma riducendo la presenza di Cuffaro a un ruolo marginale. Di questo sono, naturalmente, molto soddisfatto, sia se il cambiamento di programma è stato favorito dalla tempestiva presa di posizione di questo sito, sia (a maggior ragione) se questo è avvenuto per autonoma decisione della SIU.
Il protocollo segna un punto di svolta. Uno dei due ministeri cui la legge affida la collaborazione alle regioni nell’attuazione dei piani paesaggistici sembra condividere l’impostazione che la Toscana ha dato a quella pianificazione, e comunque su questa base ha avviato un percorso di co-pianificazione. Non sappiamo ancora quale sia la posizione dell’altro ministero (quello per l’Ambiente e la tutela del territorio e del mare). Né sappiamo se la Corte costituzionale reitererà la sua dichiarazione d’incostituzionalità sulla procedura di pianificazione deliberata dalla Regione.
Si ricorderà infatti che la Corte aveva ritenuto che l’applicazione del codice del paesaggio comportava la necessità che, entro i termini temporali fissati dalla legge, le regioni dovessero redigere un unico piano paesaggistico esteso all’intero territorio regionale, con i contenuti stabiliti dal codice: quindi l’individuazione degli oggetti territoriali appartenenti alle categorie di beni paesaggistici tutelati ope legis, o per autonoma decisione della pianificazione regionale, nonché delle altre componenti stabilite dalla legge; e quindi la definizione per ciascuna di esse delle specifica disciplina e delle azioni necessarie per tutelare il paesaggio e, dove necessario, ricostituirlo o migliorarlo.
La Toscana ha scelto una soluzione diversa. Non avremo subito, nel giro di un anno o due, un piano analogo a quello che l’Emilia-Romagna, la Liguria, le Marche produssero nel 1986 sulla base della legge Galasso, né quello che la Sardegna sta completando sulla base del Codice. Quel prodotto – cioè un documento che per l’insieme del territorio regionale definisca con precisione le condizioni che l’esigenza di tutelare il paesaggio pone alle trasformazioni – lo avremo solo quando l’ultimo dei comuni avrà adeguato il suo piano comunale agli “indirizzi” nei quali si esaurisce il livello regionale della pianificazione, e se i comuni avranno volenterosamente rispettato quegli indirizzi.
La soluzione toscana suscita in noi profonde perplessità e preoccupazioni. Non perché non sia in sé giusto proporsi di associare profondamente le comunità locali nella tutela del paesaggio. Sappiamo bene che, finché il paesaggio non sarà sentito, vissuto e quindi gestito come un bene dalle comunità locali la sua protezione sarà sempre in pericolo, non sarà mai piena. Né perché ci sfugga che, in particolare in quella regione, la tutela del paesaggio è stata storicamente garantita più dai sindaci che, spesso, dalle stesse soprintendenze. Ma sappiamo anche altre due cose, che l’attuale dirigenza della Regione Toscana sembra ignorare.
1. Oggi la cultura politica è profondamente cambiata, anche a sinistra. Oggi lo “sviluppo economico”, obiettivo d’ogni azione e misura d’ogni successo, è affidato indiscriminatamente a ogni tipo di affare: al profitto e all’accumulazione derivanti dall’innovazione di prodotto e di processo, all’aumento di fatturato derivante dalla produzione e della commercializzazione di merci e di servizi inutili, come all’aumento di valore venale di un terreno per effetto della sua maggiore edificabilità. In questa logica il territorio è sempre più considerato una merce, la cui trasformazione è di per se un vantaggio. Che il Piano d’indirizzo territoriale della Toscana esprima in pieno questa concezione non stupisce, tanto essa è generalizzata.
2. Oggi le condizioni materiali dei comuni sono enormemente peggiori che nel passato. Le finanze comunali sono state strozzate dallo smantellamento del welfare state. Per di più, il rifiuto di distinguere, all’interno delle forme di reddito, quelle da promuovere e quelle da colpire ha portato a non compiere nessuna azione per spostare ricchezza dalla rendita agli impieghi sociali (per esempio adeguando agli incrementi della rendita gli oneri di costruzione e utilizzandoli per rendere vivibili le città). Si è arrivati al paradosso di rendere edificabili aree al di fuori di qualsiasi necessità oggettiva unicamente per rimpinguare le casse comunali.
Ottenere, nella società contemporanea, una effettiva partecipazione delle comunità locali alla tutela del paesaggio è sempre stato il traguardo di un lavoro di lunga lena. Oggi questo è più vero che mai, e il cammino si preannuncia particolarmente arduo perché è controcorrente. E nel frattempo? Continuiamo a lasciar dissipare, oppure giochiamo su tutta la tastiera dei poteri democratici sulla base di una corretta interpretazione del principio di sussidiarietà? Magari rispettando la Costituzione e le leggi ordinarie, e ricordando che la tutela è responsabilità anche delle comunità locali, ma non è una loro esclusiva.
Questa è la ragione di fondo delle perplessità, e delle preoccupazioni, sollevate dalla “via toscana alla tutela”. Gli attuali reggitori dell’ex stato mediceo non le condividono. Poiché sono loro che governano, dobbiamo augurarci che abbiano ragione. Ma poiché siamo anche noi cittadini di quella Repubblica che tutela il paesaggio, e anche componenti di quell’umanità che ha diritto di fruire di beni che non sono patrimonio esclusivo di quanti vi abitano, ci proponiamo di seguire con attenzione il percorso che Ministero e Regione hanno avviato. Chiederemo l’aiuto di chi dispone delle informazioni necessarie per valutare e informare a nostra volta del modo in cui, nella Toscana, Regione, province e comuni costruiranno uno “statuto del territorio” reso concreto da regole certe, chiare, efficaci, valide nei confronti di tutti, e da azioni finalizzate al miglioramento della qualità paesaggistica e ambientale del territorio, e alla sua fruizione da parte di tutti.
Un osservatore estraneo alla formazione diessina e alla sua eredità storica, ma certo benevolo verso il partito di Fassino e D’Alema, Eugenio Scalfari, ha rilevato, a proposito dell’aperta benevolenza espressa dai dirigenti DS nei confronti delle operazioni dell’Unipol, “che un dirigente politico deve osservare un rigoroso silenzio di fronte ad operazioni lanciate sul mercato e regolate da apposite norme, come è il caso di un’Opa. In questi casi la politica deve solo controllare che le norme in vigore siano rispettate e poi, come nelle gare di qualunque tipo, vinca il migliore scelto come tale dal mercato”. Non osservare rigorosamente questo metodo comporta “soltanto confusione e coinvolgimenti che (...) costituiscono inframmettenze e recano danni di sostanza e di immagine. Ciò vale per tutti i politici, per tutti i partiti. Non capisco perché – conclude Scalfari su questo punto - comportamenti così elementari siano troppe volte ignorati e contraddetti”. (la Repubblica, 18 dicembre 2005).
Ho vissuto per mezzo secolo accanto o dentro il PCI (e il suo primo erede, il PDS) con un impegno via via crescente. Forse questo mi dà titolo per azzardare una ipotesi.
Non mi sembra che ci siano stati mutamenti consistenti nella moralità personale dei dirigenti: i loro errori non derivano certo dal venir meno del disinteresse personale; sebbene sui costumi individuali qualche riflesso sia stato provocato da quella trasformazione più generale della concezione del mondo (meglio e più concretamente, della civiltà moderna e della società che è il suo prodotto) che è stato a mio parere il cambiamento più sostanziale.
La “vecchia sinistra” (raggruppo sotto questo termine il PCI e le formazioni socialiste fino alla mutazione craxiana) ha sempre avuto al centro delle sue convinzioni, e della sua politica, la consapevolezza dei limiti invalicabili del sistema capitalistico di produzione. Questo sistema, se da una parte aveva provocato una enorme espansione della produzione di beni materiali e aveva accompagnato una crescente affermazione dei diritti personali, aveva raggiunto questi traguardi pagando alcuni prezzi non sopportabili. Quello sul quale la tradizione marxista poneva soprattutto l’accento era l’alienazione del lavoro: la riduzione della primaria attività sociale dell’uomo ad “altro da sé”, a mero strumento di una produzione orientata a fini che i soggetti della produzione non controllavano. Non solo, ma era portatore d’una crisi interna alla quale non avrebbe potuto sottrarsi.
Alcuni dei limiti del capitalismo individuati dall’analisi marxiana sono stati sterilizzati e allontanati, anche per effetto della dialettica che quella stessa analisi ha alimentato. Ma nuovi limiti sono via via emersi: le crescenti disuguaglianze a scala mondiale, l’impossibile convivenza con i limiti naturali del pianeta Terra, la distruzione dei valori accumulati dalle civiltà non riducibili a merci. Soffermarci su questo ci porterebbe troppo lontano; essi costituiscono del resto materia di molti testi ospitati in questo sito. Il punto che vorrei sottolineare è più semplice.
Mi sembra che il cambiamento che vi è stato nella parte maggioritaria della sinistra (non solo italiana) sia proprio questo: aver perso la consapevolezza che il capitalismo è un sistema i cui limiti sono invalicabili, e che quindi postula necessariamente la capacità di costruire un sistema economico-sociale alternativo. A differenza della “vecchia sinistra”, che praticava le vie tattiche necessarie a rafforzare le proprie posizioni e gli spazi di manovra del suo sistema di alleanze sociali ma manteneva intatta la strategia della ricerca e della paziente costruzione di un diverso sistema economico sociale, praticabile a livello mondiale, la componente maggioritaria della “nuova sinistra” ha smarrito la strategia e si è ridotta a tattica: a gestire nel modo migliore il sistema economico-sociale dato. Si cerca di renderlo “migliore” e “più umano”, si diventa “miglioristi” o “buonisti”, o al massimo “riformisti” (dove le “riforme” sono aggiustamenti funzionali e non modificazioni della struttura economico-sociale), ma si è persa la consapevolezza della necessità di costruire un orizzonte diverso, e quindi anche la capacità di poter additare agli esclusi (in primo luogo ai giovani) un diverso destino. Non si è capaci di immaginare, per l’umanità, destini diversi da quelli disegnati dal sistema dato.
Le grandi questioni della nostra epoca (quelle dei limiti del pianeta, dell’impoverimento della parte maggioritaria dell’umanità, della perdita dei valori d’uso cancellati dai valori di scambio) sono ridotte a slogan da sventolare per catturare qualche porzione dell’elettorato. Non si coglie il fatto che quelle questioni sono il necessario corollario della riduzione di ogni bene (a cominciare dal lavoro) a fungibile merce, e dello sviluppo ad accrescimento parossisticamente continuo della produzione di merci.
Si accetta il sistema economico sociale senza mettere in discussione le sue regole di fondo. Ma lo si conosce meno bene di quanto non sappiano le vecchie volpi del moderatismo, che con il capitalismo hanno imparato a convivere da molti decenni; si sanno praticare perciò con minore accortezza quei comportamenti magari ipocriti (ma l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù) che hanno consentito ai vecchi DC di apparire più distaccati dalle recenti vicende dello squallido capitalismo italiano. Si imparasse almeno a prenderne le distanze in nome della laicità della politica, come suggerisce il vecchio liberale Eugenio Scalfari.
Partiamo dal corno più doloroso. La fabbriche italiane chiudono, gli imprenditori trasferiscono il loro know how (il loro capitale) all’estero. Le fabbriche si smobilitano da noi e si riaprono là dove il mercato offre condizioni più convenienti: sul versante delle domanda di merci, e sul versante dell’offerta di forza lavoro. Che cosa di più naturale e ragionevole, nell’economia capitalistica?
Da noi il mercato è saturo di merci, e la forza lavoro è costosa. Secoli di collaborazione fortemente dialettica tra capitale e lavoro (tra borghesia e proletariato) hanno aumentato il benessere e la democrazia: è cresciuta la capacità di spesa dei lavoratori, e il potere di incidere sulle regole della distribuzione del reddito. Il plusvalore non è andato tutto al profitto, una parte è tornata al salario (una bella quota, in Italia, se l’è presa la rendita, ma su questo tornerò dopo). Intanto, sono entrati nel ciclo della produzione capitalistica altri continenti: i mercati si sono allargati a tutto il mondo.
Che le leggi dell’economia (capitalistica) abbiano lo stesso carattere d’inevitabilità delle leggi fisiche non l’hanno riconosciuto solo i cantori della borghesia (cfr.: G. Stalin, Problemi economici del socialismo in URSS, 1952). Non ha molto senso scontrarsi con quelle leggi, soprattutto per chi accetta il sistema economico vigente come l’unico possibile. Può aver senso, invece, domandarsi se non sia possibile allargare l’orizzonte al di là delle categorie (e delle prassi) elaborate negli ultimi tre secoli.
È possibile pensare a una produzione che non sia solo quella di beni e servizi legati alle esigenze elementari (magari rese via via più complicate, per tentar d’allargare il loro mercato)? È possibile pensare ai “beni”, a oggetti e servizi e luoghi che valgano in sé, e non perché siano riproducibili e fabbricabili in quantità amplissime? Anzi, che abbiano un valore legato alla loro individualità e all’uso irripetibile che l’uomo (non il consumatore) ne può fare? È possibile riportare all’interno dell’economia (magari di una nuova economia, se parlare d’innovazione si può non solo per le tecnologie) “valori” che oggi ne sono esclusi, nel senso di rendere socialmente riconosciuta (e quindi retribuita) la loro produzione e somministrazione?
Se questo è possibile, allora certamente nel nostro paese la risorsa su cui far leva, su cui scommettere per il nostro futuro, non è né il petrolio né il riso, non è la produzione manifatturiera né l’agricoltura meccanizzata, ma è – oltre all’intelligenza e al gusto – il gigantesco, unico, irripetibile patrimonio depositato nel territorio da secoli di lavoro e di cultura: il paesaggio e le sue mille e mille componenti.
Di fronte al declino industriale (e alla crisi di una società che esso lascia intravedere) il Catalogo dei paesaggi italiani, proposto da Piero Bevilacqua e commentato da Carlo Blasi e Antonio di Gennaro al convegno di Italia Nostra, può essere il segno di una speranza di futuro. Realizzarlo significherebbe infatti individuare gli elementi di quella nostra risorsa (del nostro patrimonio comune), comprenderli e farli comprendere nel loro valore, definire le regole della loro conservazione e utilizzazione, mettere in modo i meccanismi per una valorizzazione.
A tre condizioni però. Che al termine valore si dia un significato del tutto diverso da quello attuale, dove valore significa guadagno economico per chi ne è possessore. Che diventasse evidente che questa valorizzazione del patrimonio comune richiede l’intervento massiccio del potere pubblico. Che quindi in primo luogo venisse sbarazzato il terreno da quelle leggi (e da quelle ideologie) che di quel patrimonio comune vogliono promuovere la massima privatizzazione, il massimo uso economico, e in definitiva la massima degradazione. A cominciare dalla legge dell’onorevole Maurizio Lupi e della Commissione da lui presieduta.
L'appello
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1. Perché la questione del condono edilizio ha aperto contraddizioni così clamorose? Le ragioni sono numerose, e sono state poste in evidenza (ora l'una, ora l'altra) dai molti che di quella contraddizione hanno commentato l'episodio più vistoso: la manifestazione - pacifica nella forma, venata di tensioni e slogan eversivi nella sostanza - dei quarantamila abusivi meridionali. Trascorso qualche giorno, diradatosi il polverone della polemica, è utile approfondire il ragionamento e tentar di rispondere a quell'interrogativo cercando di comprendere se, tra le numerose ragioni che hanno provocato e reso potenzialmente esplosiva quella contraddizione, ve ne sia una che prevalga sulle altre: che indichi perciò anche, per converso, il punto su cui è possibile far leva per risolverla.
Certo, le ragioni individuate esistono tutte: l'assenza, in numerosissimi comuni del Mezzogiorno, di strumenti urbanistici; l'assenza, da troppi anni, di una politica statale dell'abitazione; l'incertezza delle prospettive economiche e quindi la persistenza della concezione della casa come «bene rifugio»;l'atteggiamento di palese disprezzo delle leggi sul territorio dimostrato dalle autorità governative; l'abbandono di ogni tensione sui problemi complessivi dell'assetto del territorio (il regime dei suoli, la riforma urbanistica, la programmazione ecc.); l'oggettivo confluire delle tendenze alla deregulation con le tirate d'orecchio al giacobinismo degli urbanisti»; le interne, pesantissime contraddizioni della legge sull'abusivìsmo (viziate nella radice dall'impostazione fiscalistica), e il fatto che per due anni l'attività del Parlamento in materia di territorio si sia impantanata nella discussione delle mille versioni di tale legge.
La mia impressione è però che queste ragioni, sebbene colgano ciascuna un importante aspetto del problema, non siano di per sé in grado di coglierne il centro, il nucleo essenziale. Non a caso, esse non spiegano una questione che è apparsa come fondamentale: perché il Mezzogiorno? E allora, bisogna provare a scavare più a fondo.
2. Perché è nel Mezzogiorno che la contraddizione tra abusivismo e rispetto della legge è esplosa? Perché è nel Mezzogiorno che la «cultura della pianificazione» si è manifestata più debole, e in larghe zone inesistente? Non credo che una risposta adeguata possa emergere dalla considerazione che le leggi urbanistiche sono costruite avendo quale riferimento le regioni più evolute, e precostituirebbero un «modello» non applicabile ad altre regioni. Chi propone questa tesi, non la argomenta: non spiega perché e in che cosa quelle leggi non sarebbero applicabili nel Mezzogiorno. E così, non mi convince la tesi secondo cui l'arretratezza urbanistica del Mezzogiorno deriverebbe, quasi immediatamente, dal colore politico delle maggioranze colà prevalente: questa tesi non spiega perché al Nord siano frequenti casi di «buongoverno urbanistico» anche in amministrazioni tradizionalmente «bianche», né perché la manifestazione dei 40mila abusivi sia stata guidata, fra gli altri, anche da un sindaco comunista.
C'è una considerazione, che a me sembra centrale, che può forse fornire un inizio di risposta più convincente. Ecco il punto. Il metodo capace di assicurare - nella società moderna - una sintesi trauso corretto della risorsa territorio e soddisfacimento dei bisogni sociali che richiedono, per essere soddisfatti, trasformazioni del territorio, è stato individuato, nelle società dell'Occidente europeo, nella pianificazione. Ma la pianificazione non si riduce alla elaborazione, una tantum, di un piano. Essa è un'attività continua, costante, sistematica di governo delle trasformazioni territoriali. Non è un evento straordinario, è un'attività ordinaria della pubblica amministrazione. Non è un'attività separata dalle altre sfere dell'azione pubblica (il bilancio, gli investimenti, i trasporti, il personale, il patrimonio), ma è componente e regola di tutta l'attività amministrativa: soprattutto a livello degli istituti cui la pianificazione è sostanzialmente affidata, gli enti locali.
Ma se è così (e io non ho dubbi su questo punto) allora è evidente che la pianificazione esige, quale sua condizione di fondo, più ancora che nuove leggi, nuovi strumenti, nuovi finanziamenti, la presenza di una efficace ed efficiente amministrazione pubblica, soprattutto a livello degli enti locali. Ed esige - dappertutto, ma soprattutto là dove questa presenza non c'è, o non è adeguata - un massimo di sforzo, di impegno politico, di tensione culturale volti a far sì che questa presenza vi sia, che questa condizione si realizzi.
3. Ebbene, che cosa si è costruito, dal dopoguerra a oggi, in tutto l'arco temporale della Repubblica, perché nel Mezzogiorno questa condizione vi fosse? Il ritardo è davvero gigantesco, ma è essenziale ed urgente colmarlo. E io credo che è a partire da questo punto che si debbano anche valutare alcune iniziative in atto nel Mezzogiorno: non foss'altro perché il giudizio politico sui fatti (e il segno, la direzione di questo giudizio) è ciò che può esprimere nell'immediato una linea politica, una strategia, più generali.
È nella chiave di questa valutazione, ad esempio, che si deve anche giudicare l'iniziativa per il Ponte sullo Stretto. Che è una iniziativa che va combattuta per molte ragioni; ma in primo luogo perché esprime il proseguire, rafforzato, della tendenza a risolvere il problema del Mezzogiorno in termini di interventi straordinari, di gestioni speciali, di opere faraoniche e prestigiose, anziché d'investimenti, magari eccezionali, nella soluzione di problemi ordinari con strumenti anche essi ordinari.
Ed è nella chiave di questa valutazione, per fare un altro esempio, che si è dato e che si deve consolidare un giudizio positivo sull'intervento straordinario per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto (mentre deve essere negativo, per le ragioni simmetriche il giudizio sulla ricostruzione di Pozzuoli). È infatti evidente scelta di atfidare la ricostrtirionc di Napoli alla struttura ordinaria del Comune e ai poteri del sindaco, l'una e l'altro rafforzati nella loro efficacia e nei loro poteri, facendone un momento dell'attuazione di scelte consolidate della politica urbanistica comunale, come il «piano delle periferie» (mentre per Pozzuoli 1'esautoramento del Comune, l'affidamento delle scelte alla Università di Napoli, la negazione di ogni politica urbanistica sono gli elementi a mio parere più criticabíli).
4. Per concludere questo invito a una riflessione collettiva su ciò che sta dietro la manifestazione dei 40mila, credo in sostanza che il punto su cui far leva, su cui quindi impiegare il massimo di risorse politiche, culturali, sociali, sia quello dell'amrnitnistrazione ordinaria della cosa pubblica, e in particolare del goverrno del territorio. Da questa punto di vista, mi sembra che anche all'interno del partito alcune modifiche sostanziali debbano essere introdotte, alcuni ritardi gravi debbano essere superati.
Ad esempio, non è forse indice di una sottovalutazione grave del problema cui ho accennato il fatto che mai, nei dieci anni in cui abbiamo goveato le maggiori città italiane, non vi sia stata una riunione generale di partito nella quale amministratori e dirigenti abbiano discusso sul complesso dei problemi della pianificazione, del governo del territorio, della «amministrazione dell’urbanistica»?
Sono convinto che limitarsí ad affrontare i problemi dell'emergenza , delle «situazioni calde», degli eventi eccezionali, mentre da una parte indebolisce lo sforzo per realizzare le condizioni per un'azione ordinaria (e perciò continua, sistematica, capace di durare e di crescere), dall'altra cornsolida la convinzione diffusa che i problemi più scottanti possono risolversi soltanto sostituendo, con la soluzione eccezionale e straordinaria, magari con la geniale improvvisazione, quell'azione tenace di costruzione di un'azione pubblica capace di affrontare, e di risolvere, tutti i problemi che volta per volta si pongorno. Problemi che - come il caso dell'abtlsivìsmo nel Mezzogiorno dimostra - il più delle volte sono solo il risultato del lungo accumularsi di ritardi, inadempiernze, inefficacíe, pigrizie, nell'affrontare le questioni ordinarie del governo del territorio e dei bisogni che nel territorio devono essere soddisfatti.
Lo testimonia limpidamente la legge per il governo del territorio che la Regione Friuli-Venezia Giulia si appresta ad approvare. Ed è significativo che il segno più evidente del disastro nazionale venga da una regione nella quale plurisecolari tradizioni di saggio governo imperiale sembravano essersi reincarnate in un nuovo tessuto culturale.
La legge della giunta Illy non entrerà probabilmente mai in vigore, tanti sono i motivi di illegittimità costituzionale di cui è intrisa (si veda in proposito l’arduo ma precisissimo documento in proposito di Luigi Scano). Conviene comunque segnalarne alcuni aspetti più gravi perché sono l’espressione estrema, e più scollacciata e rozza, di posizioni e atteggiamenti che sono abbastanza diffusi.
La legge in corso di approvazione dichiara che, per quella regione, sono sullo stesso piano “finalità strategiche” cui viceversa la Costituzione, l’ordinamento giuridico della Repubblica e la coscienza civile attribuiscono ben differenti gerarchie e priorità. Per i governanti del Friuli-Venezia Giulia sono sullo stesso piano (“equiordinate”) “la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico, ecc.” e “le migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitività del sistema regionale”.
In altri termini, l’interesse della tutela di un bosco, di una falda idrica, di un paesaggio agrario, di un corso d’acqua, di un centro storico, di un terreno franoso o carsico, di una zona archeologica è del tutto equivalente all’interesse per la realizzazione di una nuova zona industriale o la costruzione di un’autostrada o l’escavo di un porto o l’edificazione di un villaggio turistico, se questi contribuiscono alla “crescita economica” (per l’amor di Dio “sostenibile”) e della “competitività regionale”.
Questa affermazione di principio trova fedele traduzione in tutto l’impianto della legge: nella definizione dei contenuti della pianificazione ai differenti livelli, nei rapporti tra questi, nelle procedure confuse e opache.
Prime vittime della nascente legge friulano-giuliana il paesaggio e i beni culturali, e l’intera legislazione statale che, dalla legge Galasso al testo unico Melandri al Codice Urbani-Buttiglione, li tutela.
Il contrasto con il Codice spira da ogni articolo del rozzo testo. Come accade anche in altri contesti regionali (ad esempio in Toscana) si capovolge il rapporto tra legge statale e legge regionale.
Così, ad esempio, la legge statale dice che un piano territoriale regionale, per avere valore di piano paesaggistico, deve disciplinare sia gli immobili vincolati o con specifici provvedimenti amministrativi, oppure ope legis, sia ogni altro immobile, compresi quelli ricadenti nelle aree gravemente compromesse o degradate. Precisa che il piano paesaggistico deve riferire le sue regole sia a elementi territoriali, individuati in base ai loro caratteri identitari distintivi (boschi, praterie, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, paludi, ecc. ecc.) che ad ambiti (definiti in relazione ai profili fisiografici, vegetazionali, di sistemazione colturale, di modello insediativo, e simili, valutati anche in relazione alle dinamiche).
Invece di specificare, dettagliare, o almeno riprendere tali formulazioni, la legge regionale si limita a dichiarare che “il PTR esprime altresì la valenza paesaggistica di cui all’articolo 135 del decreto legislativo 42/2004 e successive modifiche, e contiene prescrizioni finalizzate alla tutela delle aree di interesse naturalistico e paesaggistico di cui alle direttive comunitarie e relativi atti di recepimento, nonché alle norme di legge nazionale e regionale”.
Per la Regione Friuli - Venezia Giulia le leggi dello Stato, anche in materie che sono costituzionalmente di competenza e responsabilità del livello più alto della Repubblica, anziché rigorosi argini che fondano l’autonomia e la responsabilità regionali, sono considerate unicamente musica di sottofondo. Così come l’intesa tra Regione e ministeri competenti non è lo svolgimento di un lavoro comune di definizione delle regole e delle attività più idonee a tutelare i valori d’interesse nazionale presenti nel territorio della regione, ma semplicemente l’apposizione di qualche firma rituale su un protocollo generico.
Lo Stato non conta, conta solo la Regione. Analogamente, non conta la Provincia: questa si occupi solo di strategie e quadri conoscitivi, che sono – nella logica friulano-giuliana – argomenti che poco incidono sulle concrete trasformazioni territoriali. Per Illy, il suo team e la sua maggioranza la pianificazione d’area vasta non esiste: non deve esistere. Spazzando via d’un sol colpo decenni di elaborazione e sperimentazione (cui in anni lontanissimi la regione aveva fruttuosamente concorso), dimenticando le mille ragioni che militano a favore della necessità di disporre di un definito livello di pianificazione intermedio tra quello regionale e quello comunale, il legislatore ha infilato una delle sue perle più preziose.
Ha affermato che la pianificazione sovracomunale la possono fare tutti: i comuni capoluoghi (bella, questa, che la pianificazione sovracomunale la fanno i comuni!), le città metropolitane, le comunità montane, le unioni di comuni, le neonascenti “associazioni comunali di pianificazione”. Senza stabilire criteri, procedure, garanzie, contenuti.
Il disegno complessivo è chiarissimo.
Lo stato non esiste, e con esso liquidiamo anche paesaggio e ambiente e teniamoci le mani libere per costruire autostrade, ferrovie, viadotti, tunnel, porticcioli, impianti di degassificazione, villaggi turistici e quant’altro, per ogni dove.
Chi comanda è la regione, che all’interno del suo dominio non vuole concorrenti. Via quindi le province.
Restino solo i comuni: a questi le spoglie succose della gestione dei “diritti edificatori” (un’altra aberrazione giuridica introdotta a piene mani nel testo legislativo), e in cambio ci lascino fare senza proteste (e magari reprimendo gli eventuali protestatari) tutto ciò che discrezionalmente riterremo “di interesse regionale”. Così abbiamo regolato i conti con il sistema dei poteri democratici.
La fortuna è che il testo è così sgrammaticato, confuso, farcito di grossolanità e illegittimità che difficilmente sarà vitale.
La sfortuna è che molte delle posizioni espresse sono condivise in porzioni consistenti del mondo politico: in una logica bipolare, tant’è che Forza Italia ha espresso interesse per il prodotto del team del presidente Illy.