loader
menu
© 2024 Eddyburg

Venezia, 28 novembre 1998

Caro Piero, sono rimasto molto deluso dalla tavola rotonda di presentazione del tuo libro, ieri sera. L’ho seguita con l’attenzione di chi, immobilizzato a letto da una nevrite alla caviglia, puo’ dedicarsi interamente all’ascolto. L’ho trovata molto più farcita da affermazioni frettolose e fuorvianti che di riflessioni stimolanti. Il tuo bellissimo libro avrebbe meritato di meglio.

Permettimi di esporti alcune mie idee a proposito di un punto centrale della proposta culturale che emerge dai tuoi scritti (la “modernità” che oggi bisogna perseguire), e di due questioni che, quasi a corollario, da quel punto discendono, e che sono centrali per il futuro di Venezia (le difese mobili alle bocche di porto e il sistema veneziano dei trasporti: vulgo, il Mose e la Sublagunare).

Venezia e la “modernità”

È un tema che bisogna prendere un po’ da lontano. Riprenderò alcuni temi che ho esposto l’anno scorso in un dibattito su un “parco della laguna”.

Partirei da una constatazione. Lo sviluppo delle forze produttive ha provocato benefici immensi al genere umano, nell’epoca del sistema capitalistico-borghese. Ma anche enormi danni. Tra questi, una rottura dell’equilibrato rapporto tra produzione e natura che aveva contrassegnato millenni della nostra storia. Negli ultimi secoli la natura è stata negata nella sua personalità, ridotta a mero oggetto manipolabile e mercificabile: è stata cancellata e sostituita dalla tecnologia. Quest’ultima non è stata più indirizzata a guidare la natura, rispettandone leggi e ritmi, a foggiarne le forme costruendo con lei paesaggi amici dell’uomo. E l’economia non ha più considerato la natura come un insieme di risorse da impiegare con parsimonia: l’ha trattata come un giacimento da cui estrarre distruggendo, senza risparmio né attenzione al futuro.

Oggi i danni di quest'atteggiamento appaiono in tutta la loro evidenza. Proseguire in questo modo dissennato significa destinare il genere umano alla scomparsa, il nostro pianeta alla morte prematura. Molti sono d’accordo sul fatto che occorre invertire la tendenza. Molti si dicono convinti che occorre individuare, sperimentare e praticare un modo di produrre che foggi la natura rispettandola, che utilizzi le risorse che la natura ancora offre accrescendone le qualità. Questo – ne sono fortemente convinto - è il compito che spetta alla nostra generazione e a quelle che ci seguiranno, se vogliamo che un giorno il sole non tramonti in un immenso deserto.

Come accingersi però a questa memorabile impresa? Da dove partire? Saremmo davvero spreconi (e non avremmo capito nulla di ciò che ci hai narrato del rapporto tra “Natura e Storia”) se non pensassimo di mettere a frutto le risorse di cui disponiamo. Da questo punto di vista sembra a me evidente che Venezia e la sua laguna siano una risorsa preziosa. Essa testimonia, e può insegnare, un rapporto tra lavoro e cultura dell’uomo, e forze della natura, sapiente come pochi altri.

Qui l’uomo (il tuo libro su “Venezia e le acque” lo racconta in modo magistrale) ha saputo guidare l’evoluzione della natura, giorno dopo giorno e stagione dopo stagione, per arricchire le risorse del sito: perché le une e l’altro, le risorse e il sito, servissero meglio, il più durevolmente possibile, la sopravvivenza e lo sviluppo degli uomini e della società e il loro costante arricchimento. La scienza e la tecnica delle costruzioni, dei materiali, dell’architettura, dell’urbanistica; la pesca e la coltivazione delle acque e la conservazione dei suoi prodotti; il disegno e la produzione delle imbarcazioni e di tutte le loro componenti; l’esplorazione, il rilevamento, il disegno del mondo e delle sue parti vicine e lontane; l’arte del governo della società e dei rapporti tra le persone e tra i popoli: tutto ciò i veneziani hanno elaborato in forza e in virtù dell’esigenza di convivere con la natura, trasformandola senza distruggerla e rispettandola senza imbalsamarla.

Due destini possibiliper un’oasi di saggezza

Vedo insomma Venezia come un’oasi nella quale è depositata una saggezza che il mondo contemporaneo ha dimenticato. Un’oasi che può essere considerata in due modi.

Può essere considerata una anacronistica sacca di resistenza di un passato che non può più insegnare nulla, e che va eliminata, nei due modi possibili: alla Marinetti, sosituendola fisicamente con una nuova realtà di cemento e acciaio, oppure cristallizzandola nella sterilità di un museo o di una “riserva indiana”. Sono in realtà due modi complementari di omologare Venezia ai modelli di consumo e di produzione, di vita e di lavoro ormai dominanti - e dovunque in crisi

Oppure, viceversa, Venezia può essere considerata e governata come una scuola di modernità: come un luogo che può consentire di sperimentare, a vantaggio di tutto il mondo, un modo rinnovato di produrre. Rinnovato rispetto a quello che vogliamo lasciarci dietro le spalle, perché non distruttivo delle risorse e realmente “sostenibile”. E rinnovato rispetto a quello che due secoli fa la Repubblica Serenissima ci lasciò perché capace di utilizzare, in una prospettiva non più “industrialista”, le innovazioni che la scienza di questi ultimi secoli ha messo a disposizione del genere umano.

Non era questa, del resto, l’ispirazione che stava dietro alla proposta, culturale prima che politica, che vide Massimo Cacciari assumere per la prima volta il ruolo di Sindaco di Venezia, nel 1992?

Il Mose: tre ragioni di preoccupazione

Ma veniamo adesso alle due questioni di merito: il Mose e la Sublagunare. Se il Mose mi preoccupa non è perché sia una “grande opera”. Non mi preoccupa cioè per la ragione opposta e simmetrica rispetto a quella per cui piace a De Michelis. Non sono insomma contrario ideologicamente, né in linea di principio, alle grandi opere: in fondo l’editore Laterza ha pubblicato il mio libro nella collana “Grandi opere”, e non mi è dispiaciuto affatto. Venezia ha conosciuto del resto altre “grandi opere”, alle quali deve la sua sopravvivenza: dalla grandiosa diversione dei fiumi, su cui si azzannarono Sabbadino e Cornaro, ai settecenteschi Murazzi di pietra d’Istria progettati dal matematico Zendrini.

Questa “grande opera”, il progetto Mose, ha però tre particolarità preoccupanti:

(a) comporta l’artificializzazione permanente degli unici tre collegamenti residui tra mare e laguna (non è infatti costituita soltanto, come dice Francesco Indovina, da una serie di cassoni sommersi, ma anche, e irreversibilmente, da tre immani cordoni di calcestruzzo armato che collegano le due sponde d’ogni bocca, e interrompono definitivamente la continuità naturale del fondale della laguna con quello marino);

(b) a differenza dagli interventi di qualche secolo fa, è pensata con tecnologie e materiali che non hanno nulla a che fare con quelli “naturali” che per secoli sono stati adoperati: non voglio dire che questa sia una ragione dirimente, ma certo dovrebbe indurre a una maggiore cautela nel decidere;

(c) è un’opera di cui a mio parere i benefici non sono commisurati ai costi, davvero straordinari: se il loro elevato ammontare è un atout del progetto per Indovina (che vede in questo grandi possibilità di occupazione di forza lavoro) e per De Michelis (che si anima pensando al fervere delle attività delle imprese), a me, che forse in Laguna ho compreso l’importanza della parsimonia nell’impiego delle risorse, a me sembra un argomento sul quale riflettere a fondo.

Intendiamoci. Se il Mose fosse davvero necessario per salvare la laguna e Venezia, Chioggia, Murano, Burano e le altre perle disseminate dalla natura e dalla storia, pas de problèmes anche se la spesa fosse rilevante. Il punto è che non mi sembra affatto dimostrato che quell’intervento sia davvero necessario. Questa, a mio parere, è la ragione decisiva per non schierarsi con il nutrito plotone di sostenitori del Mose in nome della salvaguardia di Venezia e, soprattutto, dell’ideologico entusiasmo per le “magnifiche sorti e progressive” della modernità e della tecnologia tardo-industriale.

Il Mose è necessario?

Come sai, gli studi che sorreggono la proposta del Mose (lo Studio di impatto ambientale, redatto dal Consorzio Venezia Nuova) formulano tre scenari, corrispondenti ad altrettante ipotesi di innalzamento del livello delle acque. In relazione a ciascuno scenario è stato calcolato il numero di chiusure delle paratie mobili nel corso di un anno per evitare che Venezia (e gli altri centri) siano invasi dalle acque.

Il terzo scenario, corrispondente all’ipotesi più alta, è quello al quale alludeva Enzo Tiezzi quando, per tagliar corto con le querimonie dei dubbiosi, ha sparato la battuta arrogante: “Non è più tempo di raccogliere l’acqua con i secchi e le spugne, è tempo di decidersi a chiudere i rubinetti”. In questo scenario, per il congiunto effetto dei fenomeni già in atto e dell’aumento dei livelli oceanici causato dell’aumento della temperatura terrestre, bisognerebbe (secondo le analisi previsive dell’Ufficio Maree del Comune, che da anni segue il fenomeno) chiudere le bocche quasi 400 volte all’anno!

La laguna, insomma, sarebbe sempre chiusa. Il ricambio d’acqua sarebbe impedito, e così ogni attività portuale. Se allora si volesse assumere questo scenario come attendibile, e non solo come un manganello dialettico da agitare nelle polemiche e nel lobbying, le ipotesi operative sarebbero soltanto due: o chiudere definitivamente la laguna chiudendo definitivamente le tre bocche con solide dighe di cemento e pietrame: ridurre cioè la laguna a uno stagno, la cui depurazione dovrebbe essere tutta artrificiakle e il cui ambiente naturale sarebbe radicalmente modificato; oppure collocare i “rubinetti Tiezzi” sul Canale d’Otranto (o alle Colonne d’Ercole). Del resto, se il livello dell’Adriatico (e magari del Mediterraneo) crescesse tanto da superare il livello di un metro sul livello medio del mare 400 volte all’anno, bisognerebbe domandarsi quali provvedimenti dovrebbero esser presi a Spalato e Ancona, a Brindisi e a Rovigno, e nei numerosissimi altri centri grandi e piccoli dell’Adriatico (e magari del Mediterraneo) che vivono a contatto col mare.

Comunque una cosa è certa: se si manifestasse lo scenario collegato alla permanenza dell’effetto serra nelle dimensioni previste, il Mose applicato alle porte della laguna non servirebbe affatto.

Meno drammatici sono gli altri due scenari, che comporterebbero la necessità di intervenire con le chiusure da 10 a 70 volte all’anno. Ma qui vale la pena di soffermarsi sulla famosa questione degli “interventi diffusi” (riapertura delle parti della laguna occluse, rimodellamento dei fondali e ricostituzione del tessuto canalizio naturale, prudente sollevamento delle pavimentazioni stradali là dove sono a livelli inferiori a 120 cm sul livello medio del mare, ripulitura dei canali cittadini ecc.). Lo Studio d’impatto ambientale del Consorzio Venezia Nuova produce dati e simulazioni dai quali risulterebbe un’influenza del tutto marginale degli “interventi diffusi”. Il Comitato dei cinque esperti “di fama mondiale” prende per buoni i dati del Consorzio, e le conclusioni che esso ne trae. Ma il Laboratorio Grandi Masse del Consiglio Nazionale delle Ricerche dimostra che la riduzione dei “picchi”, cioè delle punte massime di marea, provocherebbero riduzioni consistenti, dell’ordine di 20-25 cm. Ciò significherebbe che, se quegli interventi si facessero, la frequenza delle acque alte si ridurrebbe a pochi giorni all’anno: così come è sempre stato, da quando Venezia è Venezia.

La convivenza quotidiana con l’acqua, il ricorso sistematico alla manutenzione, ai piccoli assestamenti, al “cuci e scuci”, non fanno del resto parte della cultura della città ben più delle eccezionali “grandi opere”? E’ difficile che tu non ne convenga, caro Piero. Non è casuale, del resto, che chi sostiene l’assoluta necessità del Mose sono proprio quelli dalle cui parole emerge con chiarezza il pensiero remoto: Venezia deve diventare come tutte le altre città del mondo. La mia ipotesi è invece l’opposta: tutte le altre città del mondo devono diventare Venezia, imparare come qui si è fatto per secoli a convivere con gli eventi naturali, a governarli senza cancellali e, anzi, arricchendone le proprie esperienze di vita.

E infine, vediamo le cose dal punto di vista dell’occupazione operaia. Certo, i mirabolanti investimenti per il Mose (secondo le stime di oggi del Consorzio, 4.440 miliardi di lire) provocherebbero un forte afflusso di imprese, materiali e prodotti, lavoratori, in gran parte da fuori dell’area veneziana. Il che non è certamente male. Ma non credo che si sia riflettuto abbastanza sul grande e durevole contributo che potrebbe dare alle forze di lavoro e alle imprese locali una dispiegata azione di “manutenzione ordinaria e straordinaria” della città e della laguna.

Quella manutenzione alla quale tu stesso, Piero, richiamavi nell’intervento conclusivo alla tavola rotonda, come grande insegnamento della Repubblica Serenissima da riprendere oggi. Quella manutenzione che oggi, a causa dell’abbandono in cui è stato lasciato l’intervento quotidiano sulla città negli ultimi due secoli, richiederebbe (se lo si assumesse come asse portante di un nuovo sviluppo) l’avvio di una gigantesca opera di ripristino dell’ambiente lagunare, di rimodellamento dei suoi fondali e di restauro delle sue rive, di ricostituzione delle sue difese e dei suoi ecotopi, di restauro e ripristino e adeguamento delle pavimentazioni e degli arredi urbani, di manutenzione straordinaria dei canali e delle barene.

Quanto le chiacchiere sul mirabolante “FARE Grande, Moderno e Progressista”, sul Mose e sulla Sublagunare distraggono oggi di attenzione, risorse, energie intellettuali, attenzione dell’opinione pubblica, spinta sindacale, dalla enorme massa di interventi diffusi su tutta l’area della laguna, che pure sono previsti e in parte già progettati?

…e la Sublagunare

Mi ha meravigliato molto che l’ex ministro per i Lavori pubblici, Paolo Costa, abbia ripreso l’ipotesi della “metropolitana sublagunare”, e che alla cosa abbia dato credito il nuovo Segretario della Camera del lavoro di Venezia. A me quella proposta è sempre sembrata una grande sciocchezza.

Intanto sono fra i molti che sono convinti che Venezia è massacrata dal turismo “mordi e fuggi”. Poiché la metropolitana si giustifica solo con flussi di massa, la Sublagunare non potrebbe non produrre l’effetto di drenare ulteriori flussi di visitatori a Piazza San Marco e negli altri siti, già resi invivibili dal turismo attuale. Negli anni in cui si cercava di ragionare e non ci si faceva sedurre dall’ideologia del progresso, si era convinti che il turismo dovesse essere “governato”, e che a questo fine fosse utile e opportuno arrestare i flussi ai terminali di terraferma (Fusina e Tronchetto), e da lì farli proseguire in battello per Venezia.

Se si vuole facilitare l’accessibilità alle funzioni direzionali di Venezia, allora la soluzione è stata indicata da molti anni, proprio a partire dai sindacati veneziani. Basterebbe riorganizzare l’attuale rete del ferro in Terraferma e utilizzare l’imponente asta ferroviaria del Ponte della Libertà per portare i pendolari a Santa Lucia e alla Marittima: luoghi dai quali, come a tutti è noto, si giunge facilmente e piacevolmente in ogni parte della città a piedi o con i civilissimi vaporetti.

Un’ultima annotazione a questo proposito. Della qualità di Venezia, del suo insegnamento terribilmente moderno, fanno parte integrante il tempo e il modo dei percorsi. Venezia è bella anche perché ti permette di vivere il tempo dei percorsi, a piedi o in vaporetto, come degli spazi nei quali ti distendi e ti arricchisci godendo la visione della città, delle sua case, i suoi spazi, i suoi abitanti. Il tempo del percorso non è a Venezia, come è nelle metropoli contemporanee, una sofferenza la cui durata va minimizzata, ma un piacere che s’inserisce nella giornata come una pausa naturale e gioiosa. Vogliamo eliminare anche questo?

Tuo

Edoardo Salzano

Caro Eddy,

grazie per la tua lunga e bellissima lettera: ma è un saggio! Ieri sera, tornato a casa abbastanza stanco, ho tirato fuori dalla borsa la solita montagna di carta, ( lettere, fax, dattiloscritti da leggere, ecc.) e stavo per poggiarli in un angolo per affrontarli in tempi migliori... Poi mi sono ricordato che doveva esserci la tua lettera, l'ho cercata e trovata, mi sono messo a leggerla e la concentrazione e la lucidità sono ritornate come per incanto. Dopo un paio di pagine mi sono accorto che sorridevo, per una curiosa e strana sensazione, che non avevo mai percepito prima: l'accordo era così pieno con le cose che leggevo da avere l'impressione che quella lettera me la fossi scritta io.

Sono dunque assolutamente d'accordo con te, su tutti i punti che hai toccato e non è il caso che ripercorra quanto tu hai già detto così bene. Sì anch'io avrei desiderato che si approfondissero di più certi temi contenuti nel mio libro. Ma, sai, a queste cose sono rassegnato: la presentazione serve a fare la pubblicità: e di questi tempi è già tanto avere una discussione pubblica, per giunta trasmessa per radio.

Sulla modernità di Venezia, alle cose giustissime che dici vorrei aggiungere un'ulteriore considerazione. Anche molti dei nostri amici intellettuali, persone spesso generosamente impegnate a tener viva la fiammella dell'impegno civile, sono in molti casi intrappolati nel sortilegio del “progressismo”. Ancora non si sono accorti di quale sia la tendenza profonda del nostro tempo, che trascina ogni cosa verso l'abisso della esemplificazione funzionale. Eppure basterebbe aprire gli occhi e leggere il mondo così com' è per capire i segnali quotidiani inequivocabili che esso ci manda. Ma proprio tale comprensione dovrebbe vivamente consigliarci di scorgere in Venezia un tesoro di diversità da conservare proprio per la sua irriducibile alterità. Non si riesce ancora a capire che la riccezza inestimabile del nostro tempo è tutto ciò che si sottrae alle logiche del nostro tempo... Tutto ciò che fa eccezione, che non è producibile industrialmente, che non ubbidisce a criteri rigidi di razionalità: starei per dire, tutto cio “che non funziona”. Il silenzio dei campi e delle calli, il poter andare a piedi ( o in barca come tu ricordi ) con i tempi lenti di un antico e ormai perduto rapporto fra cittadino e spazio urbano: dovrebbero costituire non un impaccio del vivere a Venezia, ma uno dei suoi ineguagliabili privilegi nel mondo presente. Certo, c'è il problema di farla vivere.Occorre una grande e originale progettualità politica per rendere viva la città in un modo che è diverso dalle altre. Ma prima di ogni cosa esiste un gigantesco problema culturale: la rivalutazione della modernità di Venezia, contenuta nella sua estraneità alla civiltà capitalistica di massa, all'eta fordista peraltro ormai tramontata.

E vengo brevemente al MOSE. Ho ritegno a intervenire sul tema, perché su di esso non posso vantare le competenze che invece mi permettono di giudicare dei fatti del passato. Sono molto sensibile a tutte le sensate obiezioni che tu muovi al progetto. La mia preoccupazione principale, espressa molto succintamente, è tuttavia la seguente. Io temo che il ripetersi sempre più frequente delle acque alte - a parte la minaccia incombente di episodi estremi come l'alluvione del 1966 - possa rendere progressivamente così disagevole vivere a Venezia da avviarne il declino definitivo. Per tacere del fatto che una città frequentemente allagata, alla fin fine ostile alla vita quotidiana dei suoi cittadini, costituirebbe un argomento inoppugnabile contro le nostre idee, contro la tesi di una modernità di Venezia fondata sulla sua refrattarietà agli “agi” della città capitalistica. Le nostre voci reclamerebbero nel deserto.

Tu aggiungi, fra le varie altre considerazioni, che un innalzamento generale dei mari per fenomeni globali renderebbe inutile il MOSE. E' quanto ho già scritto anch'io nel libro. E tuttavia io credo che occorre essere un pò più duttili e accogliere molte variabili possibili quando si proietta lo sguardo verso il futuro. Siamo proprio sicuri che nel momento in cui i segnali dell'innalzamento dei mari diventassero allarmanti le popolazioni della terra continuerebbero a consentire l'attuale modo dissennato di produrre ? Non c'é una sottovalutazione della possibilità di una correzione dovuta alla pressione dei gruppi intellettuali, degli ambientalisti, dei cittadini, ecc. Certo, non è detto che succeda. Questo ottimismo progressista lo lasciamo agli sciocchi, e a chi vuole continuare a farsi gli affari suoi. Ma noi dobbiamo credere che esso possa verificarsi. Su cosa, altrimenti, si fonderebbero le ragioni della nostra lotta?

Un caro saluto

dal tuo Piero.

P.S. A proposito di grandi opere. Hai trovato il mio messaggio telefonico nel quale ti dicevo quanto è bella la tua “grande opera” urbanistica pubblicata da Laterza ?

Franco Cordero, la Repubblica, 17 luglio 2008

Stanno distruggendo tutto. Dai valori fondanti del nostro Stato al ruolo del lavoro, dai bilanci delle famiglie alla solidarietà. Operano modificando il modo in cui le persone pensano, giudicano, valutano, scelgono, e le abitudine quotidiane, ciò che si compra, si mangia, si indossa, si guarda. Non ci sarebbe nulla di male, se distruggessero ciò che non serve più. Invece no. Stanno distruggendo tutto quello che conta, tutto quello che è stato costruito in un faticoso processo di sviluppo: quello vero, quello che migliora le persone e il loro modo di vivere con gli altri, di essere e di sentirsi uguali e ugualmente degni di rispetto, non quello consistente nel’aumento della produzione di merci utili, inutili o dannose.

Stiamo parlando dei nuovi barbari, quelli che sono rappresentati e conquistati da Silvio Berlusconi. Ma in realtà dovremmo parlare, più che di Berlusconi, del “berlusconismo”: quella ideologia che pervade larghissimo parte dello schieramento politico, che nacque con le “modernizzazioni” di Bettino Craxi e con l’insofferenza delle regole comuni, che ha la sua cornice mondiale in ciò che Oltralpe e Oltreoceano si chiama “neoliberalismo”. È un’ideologia che ha il suo centro nella affermazione più piena, sfrenata, “libera” dell’individuo, il cui metro di misura è costituito unicamente dalla ricchezza e dal potere che è in grado di accumulare, quali che siano i mezzi impiegati. L’unico strumento valido per misurare le cose (tutte le cose, dalle merci ai sentimenti) è il mercato; l’unica dimensione della vita sociale che conti è quella economica (e dell’economia data, dell’economia capitalistico-borghese).

Molti hanno compreso e denunciano numerosi aspetti di questa ideologia, e delle pratiche sociali che ne conseguono: nella sinistra “radicale”, nei gruppi intellettuali e sociali che criticano la globalizzazione neoliberista, in parti consistenti del mondo dell’ambientalismo e di quello cattolico. Molto scarsa è invece la consapevolezza del danno enorme che i barbari stanno apportando nel campo dell’organizzazione dell’habitat dell’uomo: nella città e nel territorio.

Qui, nella città e nel territorio la devastazione che sta avvenendo è immane. E che il grosso dell’opinione pubblica (a partire dai politici) non se ne accorga rende il danno ancora più preoccupante. Riflettiamo su alcuni aspetti di ciò che sta avvenendo.

Gli spazi pubblici

Gli spazi e gli edifici destinati alla vita e alle funzioni sociali (dalle piazze alle scuole, dai parchi agli ospedali) sono spazi pubblici per definizione, e aperti alla pubblica fruizione: tali sono stati da quando la città esiste (la nostra città, la città europea, la città come luogo del municipio e della libertà, dell’autogoverno e della cittadinanza). Il loro peso nella città è cresciuto, nella storia, man mano che si sono sviluppate le funzioni legate alla solidarietà, alla diffusione della cultura, alla cura della salute, agli impieghi del tempo libero. Sono stati una componente di rilevo del welfare state. In Italia la loro conquista è stato il risultato di una lunga lotta del movimento delle donne, del sindacato dei lavoratori, della cultura progressista, dei partiti della sinistra. Si era ottenuto che nei piani urbanistici venissero riservati a queste necessità aree di dimensioni adeguate, da acquisire alla proprietà pubblica e alla pubblica gestione (gli standard urbanistici, con una legge del 1967). Si era ottenuto poi che ogni intervento edilizio dovesse destinare una quota del maggior valore ottenuto dai proprietari alla realizzazione delle previsioni pubbliche dei piani (gli oneri di urbanizzazione, con una legge del 1977).

Oggi è in marcia la loro demolizione, adoperando tre strumenti. (1) La riduzione delle risorse destinate alla loro acquisizione, realizzazione, gestione: quegli “oneri di urbanizzazione” che erano destinati a ciò sono utilizzati dai comuni per coprire i loro deficit di bilancio, per pagare stipendi e altre spese correnti. (2) La progressiva privatizzazione degli spazi pubblici: il percorso era stato avviato trasformando le piazze in parcheggi, prosegue oggi sollecitando i comuni a “valorizzare” le proprietà pubbliche (venderle o trasformarle in utilizzazioni commerciali), e proponendo di utilizzare le aree vincolate a spazi pubblici per realizzarvi edilizia residenziale solo provvisoriamente “sociale”, poi utilizzabile dagli immobiliaristi più o meno “furbetti”. (3) l’abolizione dell’obbligo di rispettare gli standard urbanistici, prevista da una legge bloccata in extremis nella scorsa legislatura e ripresentata in quella attuale, ma già anticipata in alcune regioni.

Il diritto alla casa a un prezzo equo

La rivendicazione popolare della “casa come servizio sociale” era stata tradotta, negli anni Settanta, in una strategia che prevedeva la programmazione decennale dell’intervento pubblico nel settore (con l’edilizia pubblica per i ceti meno abbienti e quella privata convenzionata e agevolata, l’una e l’altra su aree parzialmente depurate degli incrementi della rendita fondiaria) e il controllo dei prezzi del mercato edilizio esterno all’area dell’intervento pubblico (l’equo canone), Tutto ciò è stato smantellato. Non solo: fedeli al principio di utilizzare anche la povertà per arricchire i già ricchi, prevedono di finanziare interventi immobiliari privati, agevolati dal contributo pubblico, con il solo vincolo di affittare le case a prezzi contenuti ai meno abbienti.

Tutto ciò costituisce la sostanza della politica aggressiva della destra al potere. Ma è stato avviato per più d’un aspetto nella politica del centrosinistra, ogni volta che si è dimenticato che il mercato, se è utile per misurare il valore delle merci, non serve né a comprendere né a governare qualcosa che merce non è: come la città e il territorio. La speranza di arrestare la privatizzazione dell’habitat dell’uomo è affidata soprattutto alla resistenza di chi ha compreso ciò che sta accadendo, e sa unirsi agli altri per difendere ciò che fa della città un bene comune: a partire dagli spazi pubblici.

Ha ragione Salvatore Settis a criticare i governi (e soprattutto quello attuale) per la loro disattenzione ai problemi della tutela dei beni culturali e del paesaggio, nei confronti dei quali tutte le istituzioni della Repubblica - e quindi in primo luogo lo Stato - hanno rilevanti responsabilità costituzionali. E ha ragione a criticare, in particolare, il decreto legge 112/2008, che il Parlamento dovrà convertire fra poco. E si deve essere lieti che la stampa, grazie al contrasto tra Settis e gli uomini di Bondi, abbia dato rilievo alla sua critica. Preoccupa però il silenzio non solo dei media, ma anche della politica d'opposizione nei confronti di altri pesantissimi guasti provocati dalla linea di governo cui quel decreto dà le gambe. In particolare, dalle scelte di politica urbanistica che ne emergono. Due sono i binari sui quali corre il treno del berlusconismo urbanistico: libertà di costruire ovunque infrangendo ogni regola, e privatizzazione dei patrimoni pubblici territoriali.

Due obiettivi, due pratiche che costituiscono un dispositivo con pericolosi elementi di trasversalità partitica, testimoniato se non altro dall'indifferenza con la quale le opposizioni guardano a ciò che sta accadendo. Nella XIV legislatura si era riusciti a fermare la Legge Lupi, che privatizzava la pianificazione urbanistica e la consegnava ai promotori immobiliari. Nella XV, grazie ai parlamentari della sinistra e dei Ds si stava approdando a un risultato condiviso e convincente La XVI appare come quella che rende concreti - surrettiziamente - i progetti di sregolazione del territorio e privatizzazione dei beni pubblici teorizzato e avviato in Lombardia e abbracciato dal neoliberalismo all'italiana.

Che prevede in materia il decreto? Quattro articoli almeno incidono pesantemente sul territorio e sui beni comuni. Ne riassumo i contenuti. Il patrimonio di edilizia abitativa degli istituti delle case popolari deve essere venduto a prezzi stracciati: prioritariamente agli attuali inquilini, ma poi sul mercato libero (articolo 13). Comuni, province e regioni sono stimolati a redigere il Piano delle alienazioni immobiliari: per sopperire alle decrescenti risorse concesse dalla fiscalità statale sono sollecitati a vendere suoli ed edifici, modificando le destinazioni d'uso se serve ad accrescerne il valore di mercato: naturalmente, in deroga alla pianificazione urbanistica (articolo 58). Ma le deroghe sono ancora più consistenti per interventi ancora più suscettibili di indurre trasformazioni sull'assetto delle città e dei territori: chi vuole costruire una fabbrica o un albergo - o una pluralità di fabbriche e di alberghi - su una parte del territorio dove la pianificazione urbanistica prevede altre utilizzazioni, e magari la presenza di beni culturali e paesaggistici e le condizioni di rischio prescrivano tutele, può farlo con procedure acceleratissime e senza praticamente la possibilità di interferire nel processo della decisione, sostanzialmente affidata all'autocertificazione (articolo 38). Ulteriori deroghe e ulteriori trasferimenti di risorse dal pubblico al privato promuove il "piano casa": per realizzare edilizia sociale i comuni sono sollecitati a cedere suoli (magari destinati a spazi pubblici o al verde o all'agricoltura) a imprese private che si impegnino a realizzare edilizia residenziale da assegnare a determinate categorie di utenti a prezzi concordati; trascorso un decennio, entreranno in pieno possesso degli immobili realizzati con le aree, le edificabilità e le risorse finanziarie della collettività (articolo 11).

Qual è il significato di queste norme? E' lo stravolgimento di regole, procedure e pratiche che furono avviate nell'ambito dello stato liberale tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, con i primi piani regolatori, gli espropri per pubblica utilità, la realizzazione di edilizia residenziale pubblica, i primi vagiti della tutela de beni culturali e del paesaggio. L'evoluzione proseguì nell'epoca fascista, con l'ampliamento degli interventi di edilizia sociale, le leggi di tutela dei beni artistici e storici e del paesaggio, una più matura disciplina urbanistica. Si sviluppò - conclusa la fase anch'essa per altri versi devastatrice della ricostruzione postbellica - nel nuovo clima della democrazia popolare e di massa con il consolidamento e la generalizzazione della pianificazione urbanistica, un coerente dispositivo di intervento pubblico nell'edilizia abitativa finalizzato a soddisfare in modo differenziato le diverse fasce di esigenze, l'introduzione generalizzata delle tutele tra le componenti prioritarie dell'uso programmato del territorio.

Un'evoluzione che non aveva condotto ancora a un quadro privo di contraddizioni e di carenze. Non era stato risolto il nodo dell'appropriazione privata delle rendite causate dalle scelte e dagli investimenti pubblici. Si erano comunque tenuti fermi, e anzi consolidati, due cardini: il primato delle decisioni e degli interessi pubblici nel governo delle trasformazioni del territorio e nella garanzia, attraverso la pianificazione, di una sua visione sistemica, la presenza e l'allargamento di una quota del patrimonio immobiliare di proprietà collettiva. Sono questi due cardini che la politica urbanistica promossa del governo Berlusconi IV sta precipitosamente smantellando. Esistono nella maggioranza parlamentare e di governo spazi che possano far pensare a correzioni di questa linea? Francamente non se ne vedono. Lo stesso Bondi, cui Settis sembra dare un qualche credito, non ha mancato occasione per rilasciare dichiarazioni da cui emerge che per lui i beni culturali vanno difesi solo perché producono reddito, che il ricorso agli operatori privati è visto come la soluzione d'ogni problema, che il ruolo di presidi territoriali svolto dalla gestione pubblica del patrimonio culturale per lui è del tutto irrilevante, e che alle regole di un'urbanistica volta alla tutela dei beni comuni e alla vivibilità per tutti bisogna preferire, e sostituire, la creatività degli architetti capaci di colpire l'immaginazione con la gestualità dell'oggetto bizzarro.

Come si può reagire a questa deriva? Il clima è pesantissimo. Regioni, province, comuni, cui è affidata la gestione delle norme perverse del decreto, potrebbero limitarne i danni. Ma le prime si battono per strappare allo Stato pezzi di autonomia che poi, in materia di governo del territorio, subdlegano ai comuni o addirittura alle imprese, rinunciando alla pratica politica della pianificazione del territorio. Le province vivacchiano nell'incertezza del loro destino. I comuni sono abbandonati alla contraddizione tra lo strangolamento finanziario e le aspettative della popolazione in materia di welfare, oggettivamente sollecitati a svendere il territorio agli interessi della rendita per ottenere un po' d'ossigeno. Su tutto grava la pesante nuvola di un'ideologia, largamente condivisa, che vede nella crescita del PIL l'unica speranza di salvezza e nel mercato l'unico regolatore di ogni attività sociale.

Se la reazione non comincia dalla politica il malessere popolare assumerà sempre di più le forme dell'antipolitica: per colpa non di chi protesta, ma di chi alle proteste si rivela incapace di rispondere.

Vedi anche l’eddytoriale n. 116

Werner Vontobel, La macchina del benessere. Il disastro del neoliberismo, 1998, Edizioni Dedalo, p.20

Ma che cosa intendiamo con questa espressione? È utile fornire qualche precisazione. I frequentatori di eddyburg sanno che per noi le parole sono molto importanti. Le parole sono le pietre con le quali si costruiscono i discorsi, le ideologie, le opinioni correnti. Con le parole si possono generare movimenti, azioni, politiche; si possono determinare credenze e comportamenti, valutazioni, esclusioni e inclusioni.

Affermare che la città è un bene comune significa in primo luogo riconoscere che essa è un bene, non una merce; qualcosa che vale di per sè, non in quanto può essere scambiato con altri beni o con la moneta. Comune, quindi non individuale: un insieme di elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.

Il nocciolo della definizione sta nel processo stesso di formazione (di invenzione) della città: nel suo essere nata in funzione del soddisfacimento di esigenze che i singoli individui, famiglie, tribù non erano in grado di soddisfare senza unirsi, collaborare, condividere. E infatti la città, nei suoi più alti momenti fondativi, si organizza e diventa forma compiuta attorno ai luoghi delle attività e delle funzioni comuni. La piazza, il luogo dello scambio e del rito, dell’incontro e della rappresentazione,della concentrazione degli edifici e dei servizi pubblici, è l’essenza e il simbolo della città.

Da qui, dalla storia stessa della città, il ruolo determinante degli spazi pubblici, della loro fruizione aperta, della loro appartenenza pubblica, della loro gestione condivisa. Lo si comprese lungo quel percorso culturale, sociale e politico che condusse agli “standard urbanistici”. E da qui, dalla perdita di un simile ruolo, dalla negazione e dalla privatizzazione degli spazi pubblici, la testimonianza e, al tempo stesso, una causa rilevante della crisi della città e della società.

Negli stessi anni in cui si raggiunse l’obiettivo degli standard urbanistici si inventò un’espressione nuova per un’altra rivendicazione sociale, che si apparenta a quella per gli spazi pubblici: la casa come servizio sociale. Con questa espressione non si affermava che si dovesse provvedere a soddisfare gratuitamente, o a un prezzo “politico”, alla casa per tutti, ma che il soddisfacimento dell’esigenza di un’abitazione inserita in un complesso di opportunità e servizi urbani era un diritto per ogni cittadino, qualunque fosse il suo reddito, e che toccava al governo pubblico provvedervi, sia regolando il mercato privato sia impegnandosi in provvedimenti specifici per chi ne avesse maggior bisogno. Quella rivendicazione (è il caso di ricordarlo) gradualmente condusse a una politica della casa molto articolata, che partiva da una consistente riduzione del peso della rendita fondiaria sul costo degli alloggi, alla programmazione dell’intervento pubblico di sostegno all’edilizia a particolari condizioni d’accesso, alla regolazione infine del prezzi nello stesso mercato privato.

Affermare che la città è un bene comune significa quindi riallacciarsi a questi due temi: la centralità degli spazi pubblici e il carattere sociale della residenza. E significa anche collegarsi a un altro rilevante principio, presente da tempo nella letteratura mondiale: il diritto alla città. Se quest’ultima espressione si riferisce principalmente ai soggetti – ai cittadini – si può dire che la città come bene comune rappresenta lo stesso concetto dal punto di vista dell’oggetto – la città - che al soddisfacimento di quel diritto è ordinato. Pensare e organizzare la città come bene comune è un modo (l'unico modo) di garantire a tutti il diritto alla città.

È facile comprendere quanto oggi i principi espressi da quei termini siano minacciati.

Lo si coglie dalle parole stesse che sono divenute di moda nel parlare delle città, e nelle pratiche che a quelle parole fanno seguito. Si rifletta alla parola competizione, che sembra dover costituire il perno delle politiche urbane di questi anni. Ogni città deve competere con tutte le altre, deve accrescere le sue “qualità” e le sue “prestazioni” non per accrescere il benessere dei suoi cittadini ma per attirare meglio delle altre i suoi acquirenti: gli investitori, i turisti, i finanziatori di eventi. La povertà non va sconfitta nelle sue cause, va nascosta per tenere alto il “decoro” della città. È, insomma, la città che diventa merce, che si offre sul mercato gareggiando con le altre per sconfiggere la concorrenza. Avete mai riflettuto che dei due significati di questo termine, “correre insieme” e “correre l’uno contro l’altro”. ha nettamente prevalso il secondo?

E lo si coglie nei fatti. Ma di questi ci siamo occupati a lungo nei precedenti eddytoriali, e nell’articolo scritto in questi giorni per la rivista Left, ad essi rinviamo i lettori.

Alcuni approfondimenti sugli standard urbanistici li trovate nel’edditoriale n. 101 e nell’articolo su Carta, 30/2008; sulla politica della casa nella cartella Abitare è difficile; sulle riforme degli anni 70 nello stralcio da Fondamenti di urbanistica.

Sulle parole trovate qualche articolo di carattere generale nella cartella Le parole, alcune definizioni nella cartella Glossario. Sul mercato potete leggere l’eddytoriale n.105, e sui fatti che stanno avvenendo l’eddytoriale n.116.

L'immagine rappresenta una piazza di Carloforte, fotografata da Gianni Berengo Gardin

Da la Repubblica, 28 luglio 2008

Zygmunt Baumann, Il disagio della postmodernità, 2002, Mondadori

Il testo originale del paragrafo 3, che contiene la definizione del termine “sviluppo sostenibile”, in due pagine del rapporto From One Earth to One World (Rapporto Brundtland) della World “Commission on Environment and Development”, pubblicato nel 1997 con il titolo Our Common Future, approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1989. Trad italiana da Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano 1988

L umanita ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ailoro. Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensl imposti dall'attuale stato delta tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attivita umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono pero essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica

La Commissione e del parere che la diffusa povertà non sia piu inevitabile. La povertà non e soltanto un male in sè, ma lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilitè di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi ecologiche e d'altro genere. Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali.

Lo sviluppo globale sostenibile esige che i piu ricchi facciano `ropri stili di vita in sintonia con i mezzi ecologici del pianeta, per rsempio per quanto riguarda 1'uso dell'energia. Inoltre, gli incrementi demografici possono aumentare la pressione sulle risorse e rallentare il miglioramento dei livelli di vita; sicchè, uno.sviluppo sostenibile puo essere perseguito solo se I'entita della popolazione e 1'incremento demografico sono in armonia pm il mutevole potenziale produttivo dell'ecosistema.

In ultima analisi, però, lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definita condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento di risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali. Noi non affermiamo certo che il processo sia facile o rettilineo. Bisogna compiere difficili scelte. Sicchè, a conti fatti, lo sviluppo sostenibile non puo che fondarsi sulla volonta politica.

Postilla

Qualcuno ne ha parlato come di una "definizione di compromesso". In effetti, sebbene sia certamente un compromesso molto avanzato e una definizione molto severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo caputalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.

Quanto quel compromesso sia avanzato è testimoniato dal fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland.

Qui sotto è scaricabile il paragrafo sopra tradotto, nel testo integrale in lingua inglese del rapporto. E' tratto da questo sito web.

Dall'intervento alla manifestazione di Piazza Navona, Roma, il 7 luglio 2008. Qui sotto potete scaricare la registrazione audio

Due obiettivi, due pratiche che costituiscono un dispositivo con pericolosi elementi di trasversalità partitica, testimoniata se non altro dall’indifferenza con la quale le opposizioni guardano a ciò che sta accadendo.

Sul terreno delle norme nazionali, nella XIV legislatura si era riusciti a fermare la Legge Lupi; nella XV si stava approdando a un risultato condiviso e convincente, la XVI appare come quella che rende concreti – surrettiziamente – i progetti di sregolazione del territorio e privatizzazione dei beni pubblici teorizzato e avviato in Lombardia e abbracciato dal neoliberalismo all’italiana.

Sul terreno dell’azione politica e amministrativa le regioni sembrano scivolare, in forme diverse ma confluenti, verso le pratiche sregolative e privatizzatrici; tentano di strappare allo Stato pezzi di autonomia e poi la subdelegano ai comuni o, nei casi peggiori, alle imprese, rinunciando comunque ad esprimere i propri interessi territoriali mediante la pianificazione. Le province boccheggiano tra l’abulia e l’attesa del loro scioglimento. I comuni sono abbandonati alla contraddizione tra lo strangolamento finanziario e le aspettative della popolazione in materia di welfare, oggettivamente sollecitati a svendere il territorio agli interessi della rendita per ottenere un po’ d’ossigeno..

Sul terreno della cultura l’accademia di affanna a conservare i propri privilegi e gli esperti si occupano d’altro.

Naturalmente, in tutti i campi, salvo rare eccezioni. Ma su tutto grava la pesante nuvola di un’ideologia, largamente condivisa, che vede nella crescita del PIL l’unica speranza di salvezza e nel mercato l’unico regolatore di ogni attività sociale.

Soffermiamoci su un evento, pernicioso di per se e tappa di un processo in corso: il decreto legge 112 del 25 giugno 2008, che nel pieno delle ferie agostane dovrà essere ratificato dal Parlamento. Il titolo è “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Quattro articoli almeno incidono pesantemente sul territorio e sui beni comuni. Siamo stati i soli a segnalarli, ma l’eco è stata debolissima. Riassumiamo i contenuti.

Il patrimonio di edilizia abitativa degli istituti delle case popolari deve essere venduto a prezzi stracciati: prioritariamente agli attuali inquilini, ma poi sul mercato libero (articolo 13).

Comuni, province e regioni sono stimolati a redigere il Piano delle valorizzazioni immobiliari: per sopperire alle decrescenti risorse concesse dalla fiscalità statale sono sollecitati a vendere suoli ed edifici, modificando le destinazioni d’uso se serve ad accrescerne il valore di mercato: naturalmente, in deroga alla pianificazione urbanistica (articolo 58).

Ma le deroghe sono ancora più consistenti per interventi ancora più suscettibili di indurre trasformazioni sull’assetto delle città e dei territori: la norma che a suo tempo tentò di introdurre l’on. Capezzone quando militava nel centro-sinistra, e che era stata fortunatamente bloccata in extremis, viene riproposta ora che l’on. Capezzone ha mutato schieramento, ma ancora peggiorata: chi vuole costruire una fabbrica o un albergo – o una pluralità di fabbriche e di alberghi – su una parte del territorio dove la pianificazione urbanistica prevede altre utilizzazioni, e dmagari la presenza di beni culturali e paesaggistici e le condizioni di rischio prescrivano tutele, può farlo con procedure acceleratissime e senza praticamente la possibilità di interferire nel processo della decisione, sostanzialmente affidata all’autocertificazione (articolo 38).

Ulteriori deroghe e ulteriori trasferimenti di risorse dal pubblico al privato promuove il “piano casa”: per realizzare edilizia sociale i comuni sono sollecitati a cedere suoli (magari destinati a spazi pubblici o al verde o all’agricoltura) a imprese private che si impegnino a realizzare edilizia residenziale da assegnare a determinate categorie di utenti a prezzi concordati; trascorso un decennio, entreranno in pieno possesso degli immobili realizzati sulle aree, con le edificabilità e le risorse finanziarie della collettività (articolo 11).

È lo stravolgimento di regole, procedure e pratiche che furono avviate nell’ambito dello stato liberale tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, con i primi piani regolatori, gli espropri per pubblica utilità, la realizzazione di edilizia residenziale pubblica, i primi vagiti della tutela de beni culturali e del paesaggio. L’evoluzione proseguì nell’epoca fascista, con l’ampliamento degli interventi di edilizia sociale, le leggi di tutela dei beni artistici e storici e del paesaggio, una più matura disciplina urbanistica. Si sviluppò – conclusa la fase anch’essa per altri versi devastatrice della ricostruzione postbellica – nel nuovo clima della democrazia popolare e di massa con il consolidamento e la generalizzazione della pianificazione urbanistica, un coerente dispositivo di intervento pubblico nell’edilizia abitativa finalizzato a soddisfare in modo differenziato le diverse fasce di esigenze, l’introduzione generalizzata delle tutele tra le componenti prioritarie dell’uso programmato del territorio.

Un’evoluzione che non aveva condotto ancora a un quadro privo di contraddizioni e di carenze. Non era stato risolto il nodo dell’appropriazione privata delle rendite causate dalle scelte e dagli investimenti pubblici: solo limitatamente e temporaneamente si era riusciti a incidere su di esso, con l’estensione delle aree destinate a essere rese pubbliche per la realizzazione della residenza (1962) e di spazi pubblici (1967). Si erano comunque tenuti fermi, e anzi consolidati, due cardini: il primato delle decisioni e degli interessi pubblici nel governo delle trasformazioni del territorio e nella garanzia di una sua visione sistemica, la presenza e l’allargamento di una quota del patrimonio immobiliare di proprietà collettiva. Sono questi due cardini che la politica urbanistica promossa del governo Berlusconi IV sta precipitosamente smantellando.

Chi può opporsi? In teoria molti soggetti.

In primo luogo i partiti dell’opposizione, dentro e fuori il Parlamento. Ma di tutto sembrano occuparsi, salvo che dello stato delle città e del territorio, e quindi della vita della società attuale e futura.

Poi gli altri livelli delle istituzioni repubblicane: le regioni, le province, i comuni, cui è affidata gran parte della gestione di quelle norme eversive che abbiamo segnalato. Ma essi, salvo rarissime eccezioni, sembrano affannarsi nel tentativo di impadronirsi delle briciole di uno “sviluppo” che, a voler essere ottimisti, non porta lontano (e a essere realisti porta alle catstrofi).

Resterebbe il popolo, ma questo è in largissimo misura conquistato dall’ideologia dominante (che in Italia ha rivelato perfino pesanti risvolti razzisti), propagandata da quel potentissimo strumento di formazione del pensiero che è il duopolio Mediaset-Rai (in ordine d’importanza). Quando esprime la sua protesta, la mancanza di risposte da parte della politica lo induce a gettarsi nella sterilità dell’antipolitica.

Per chi ha conservato lucidità e spirito critico, per chi non si è lasciato conquistare dall’ideologia corrente e ha conservato la memoria, o la speranza, d’una città e una società più giusta, l’imperativo è uno soltanto: resistere. Come però? Si deve sviluppare un’inventiva durevole, e si deve manifestare uno spirito pratico alimentato dalla consapevolezza della posta in gioco e dalla disponibilità a pagare qualche prezzo di persona.

Intanto bisogna convincersi che non ci si salva da soli. Nessuna associazione, nessun gruppo, nessun comitato o aggregazione di comitati, di gruppi, di associazioni si può salvare da solo e può salvare da solo il territorio dalla devastazione in corso. Occorre abituarsi a lavorare insieme, a superare ogni residuo di pratiche egoistiche o corporative.

Ci sembrano urgenti due piani di lavoro: la comunicazione, il monitoraggio della legislazione.

Sul primo punto bisogna tener conto che l’impoverimento del linguaggio, la distrazione dei media, la scarsa cultura specifica dei decisori e dei comunicatori, la stessa complessità del glossario degli operatori del territorio (in primis degli urbanisti) richiede di compiere uno sforzo notevole di semplificazione del linguaggio, di esemplificazione pratica degli effetti delle scelte sbagliare e di quelle virtuose. Su questa base bisogna fare ogni sforzo per raggiungere l’opinione pubblica utilizzando gli strumenti più adatti a questo scopo.

Sul secondo punto, bisogna in qualche modo sopperire al lavoro che una volta facevano i partiti di massa, che oggi si potrebbe attendere dal “governo ombra”, ma che in realtà nessuno compie: monitorare il processo di produzione delle leggi in materia, divulgare la conoscenza e la valutazione dei loro contenuti ed effetti, aiutare ad opporsi e a gestirle quando entrino in vigore.

Parallelamente a tutto ciò, bisogna impegnarsi – in primo luogo chi dispone degli strumenti idonei allo scopo – a risvegliare nelle persone lo spirito critico, la capacità di leggere dietro le parole correnti e le loro mistificazioni. Come ha scritto Franco Cordero, nel suo articolo su la Repubblica di oggi, “nell’Italia rieducata da Mediaset parola e pensiero sono drasticamente ridotti: circola un italiano «basic», vocaboli combinati in sintagmi che l’utente trova prêts-à-dire, senza fatica mentale; glieli forniscono speaker, giornali, politicanti”. Come ha detto Moni Ovadia, nel suo bellissimo intervento alla manifestazione del 7 luglio a Piazza Navona (qui sotto potete scaricare l’audiovisivo), “la perversione comincia dal linguaggio”. Dobbiamo innanzitutto riappropriarci delle parole, costruire il senso di un’alternativa all’ideologia dominante.

Sul decreto 112/2008 abbiamo pubblicato un articolo di Edoardo Salzano, Continua il grande furto, uno di Giuseppe Palermo, Un decreto legge devastante, e uno di Gianfranco Cerea, Una casa popolare ma non per tutti, da Lavoce.info, con una postilla di eddyburg. In calce potete scaricare gli articoli 11, 13, 38 e 58 del decreto legge.

Citato da Patrice Rauszer

Agghiacciante. Mentre in Sicilia si decide di vendere (regalare) all’incanto il possesso e l'uso dei più preziosi beni culturali (si veda la postilla alla notizia di Maria Pia Guermandi), a Roma il governo, eletto dal 47% degli italiani ma che governa per tutti, avvia un ulteriore passo per imporre la privatizzazione dei beni comuni anche a chi non lo voglia. Ha ridotto i finanziamenti ai comuni? Ha ridotto ancora la possibilità di far funzionare asili nido e giardini, assistenza sociale e servizi alle residenze? Ha inciso anche così sui salari reali? Ha spinto i sindaci più sciocchi (e ce ne sono tanti!) ad aumentare lo spreco di territorio autorizzando espansioni ingiustificate per incassare gli oneri di urbanizzazione? Ebbene, permettiamo loro di allungare la loro agonia tagliandosi qualche altro pezzo di patrimonio pubblico.

Ecco il dettato del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, articolo 58. Introduce (l’obbligo? la facoltà?) della formazione del Piano delle Alienazioni Immobiliari. Questo deve contenere l’elenco dei “singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione”. L’inserimento dei beni nell’elenco ne determina la trasformazione in merci: “ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile”, e per di più, ma “ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale” Davvero incredibile. E naturalmente tale variante sfugge a qualsiasi controllo di merito: essa “non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni”.

Tragedia nella tragedia: nessuno ha reso pubblica questo ignobile provvedimento, benché dal 25 giugno scorso fosse noto al Palazzo (e quindi, si suppone, anche ai parlamentari d’opposizione, anche all’efficientissimo Governo Ombra del PD. Il potere degli Alienanti è diventato davvero egemonico, il loro governo un regime.

Ecco il testo dell’articolo

tratto dal DL 25 giugno 2008 n. 112

Articolo 58.

(Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali).

1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il Piano delle Alienazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione.

2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale. Tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni

3. Gli elenchi di cui ai commi 1 e 2, da pubblicare mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto.

4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura.

5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui ai commi 1 e 2, è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.

6. La procedura prevista dall'articolo 3-bis del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410, per la valorizzazione dei beni dello Stato si estende ai beni immobili inclusi negli elenchi di cui al presente articolo. In tal caso, la procedura prevista al comma 2 del suddetto articolo si applica solo per i soggetti diversi dai Comuni e l'iniziativa è rimessa all'Ente proprietario dei beni da valorizzare. I bandi previsti dal comma 5 sono predisposti dall'Ente proprietario dei beni da valorizzare.

7. I soggetti di cui all'articolo 1 possono in ogni caso individuare forme di valorizzazione alternative, nel rispetto dei principi di salvaguardia dell'interesse pubblico e mediante l'utilizzo di strumenti competitivi.

8. Gli enti proprietari degli immobili inseriti negli elenchi di cui al presente articolo possono conferire i propri beni immobili anche residenziali a fondi comuni di investimento immobiliare ovvero promuoverne la costituzione secondo le disposizioni degli articoli 4 e seguenti del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001, n. 410.

9. Ai conferimenti di cui al presente articolo, nonché alle dismissioni degli immobili inclusi negli elenchi di cui all'articolo 1, si applicano le disposizione dei commi 18 e 19 dell'articolo 3 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410.

In un’ampia intervista rilasciata a la Repubblica (1 novembre 2006) il Ministro per i beni e le attività culturali, cui spetta anche la competenza sul paesaggio, alla domanda “Lei pochi giorni fa è stato a Monticchiello, dove sindaci, cittadini, amministratori locali, hanno lanciato un grave allarme sul nuovo sacco edilizio. Cosa può fare il ministero?”, ha così risposto: “Il codice dei beni culturali prevede che ogni regione faccia i propri piani per il paesaggio, e che in questa fase vengano interpellate anche le soprintendenze. Alcune regioni sono già in regola, altre no. Quello che noi vorremmo è utilizzare proprio la Toscana come regione pilota di questa ‘collaborazione’. Per poter prevenire le brutture cementizie piuttosto che scoprire che è impossibile abbatterle dopo”.

Ottime intenzioni, quelle del Ministro. Ma non vorremmo che Rutelli avesse espresso (o che l’intervistatore avesse registrato) un’impressioni un po’ troppo superficiale della pianificazione paesaggistica così come disposta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.

E’ vero, il Codice prevede che ogni regione faccia il proprio “piano paesaggistico”. Ma ove la regione lo faccia (o voglia attribuire carattere ed efficacia di piano paesaggistico al suo piano territoriale regionale, comunque denominato), il codice prescrive molto esattamente quali devono essere: il contenuto del piano (molto definito e dettagliato, perché i beni tutelati devono essere precisamente individuati o individuabili), la sua precettività (molto cogente), la sua estensione (l’intero territorio della regione), la sua fonte (la regione in prima persona). La Corte costituzionale ha poi ribadito che il piano paesaggistico deve essere formato dalla regione, e non può essere un collage di piani comunali o provinciali, né può consistere in un mero rinvio a questi, se non per il recepimento e l’ulteriore specificazione delle norme di tutela.

Nella pianificazione paesaggistica regionale decisivo è il rapporto tra regioni e governo nazionale: non solo perché una malaugurata formulazione delle competenze attribuisce ai poteri esclusivi dello Stato la “tutela” e a quelli concorrenti di Stato e Regione la “valorizzazione”, ma anche e soprattutto perché la tutela del paesaggio è, per i principi stessi della Costituzione, preminente interesse della Repubblica, mentre la pianificazione del paesaggio è responsabilità della Regione. Perciò il Codice è molto attento alle modalità con le quali quel rapporto si esplica.

Si può dire che viene configurato una sorta di doppio regime. Nel regime separato la regione provvede alla “tutela e valorizzazione” dei beni mediante il piano paesaggistico, lo Stato li tutela mediante l’autorizzazione paesaggistica, e i due poteri si sovrappongono con distinti provvedimenti. Nel regime integrato invece il piano paesaggistico è redatto d’intesa tra Stato e Regione, e allora l’autorizzazione paesaggistica non è più necessaria. Ciò ovviamente accade solo se il piano ha i contenuti, la precettività, l’estensione, la fonte, la procedura di formazione prescritte dettagliatamente dal Codice, e quando le province e i comuni abbiano adeguato il loro strumenti al piano paesaggistico regionale.

Se il piano vuole avere gli effetti “liberatori” dell’autorizzazione paesaggistica, allora non basta che “in questa fase vengano interpellate le soprintendenze” (come un po’ burocraticamente si esprime il Ministro), ma che sempre il piano regionale, sia formato d’intesa con il ministero dei Beni e delle attività culturali e quello della Tutela dell’ambiente e del territorio. Ciò significa che non basta “interpellare” le soprintendenze, nè acquisire un loro formale parere, ma che i competenti uffici statali devono essere coinvolti nella formazione del piano, sì da poter essere d’accordo con ogni singola scelta del piano regionale.

“La Toscana come regione pilota” della collaborazione prevista dal Codice, auspica Rutelli. Ottima intenzione. La tutela del paesaggio ha, in quella regione, una tradizione che qualche malaugurato episodio non può cancellare. Tuttavia, per evitare equivoci, è lecito domandarsi se il PIT (piano d’inquadramento territoriale) che la Regione Toscana sta redigendo, avrà le caratteristiche prescritte dal Codice. Lo speriamo vivamente, ma dai documenti e dalle posizioni che conosciamo sembra che, per ora, tra la Toscana e il Codice la distanza sia molta: non sul terreno delle dichiarazioni d’intenti e degli obiettivi, ma certamente su quello della struttura, del contenuto e dell’efficacia. Non vorremmo che la distanza fosse superata non adeguando la pianificazione toscana alle regole stabilite dallo Stato, ma ammorbidendo il rigore del Codice. Come non vorremmo neppure che il ministero per i Beni e le attività culturali e quello per la Tutela dell’ambiente e del territorio, entrambi coinvolti nelle “intese” per la pianificazione paesaggistica, avessero sottovalutato le pesanti responsabilità che il Codice affida loro, e l’attrezzatura che è loro necessaria per adempiervi.

Il legislatore regionale non si muove nel vuoto. Egli è certo condizionato, in primo luogo, dalla situazione, dagli interessi, dalla cultura della sua regione. Ma la frenesia federalista non è giunta al punto di trasformare le regioni in isole segregate, in compartimenti stagni. Per ciò il legislatore regionale terrà conto anche del quadro nazionale, della cultura, degli interessi, della situazione che si esprimono nell’insieme della Repubblica di cui la Regione è parte.

Vorrei domandarmi, all’inizio di questo convegno di riflessione sulla legislazione della Regione Piemonte, quali sono i riferimenti che è possibile assumere e proporre a livello nazionale. Senza dimenticare il ruolo forte che, soprattutto in questa fase della vita del nostro paese, può essere svolto da questa regione: una Regione che ha nella sua storia una buona legge, forse il più compiuto prodotto della cultura urbanistica di quei decenni, che me è cara anche perchè è stata in larga parte il prodotto di due persone il cui ricordo e il cui insegnamento sono vivi in me: due persone come Givanni Astengo e Alberto Todros.

Domandiamoci in primo luogo a che punto stiamo

La legge Lupi e il lupismo

Il quadro nazionale non è incoraggiante. Ciò significa che è necessaria molta determinazione e molta lucidità per ricostruire strumenti positivi di governo del territorio: strumenti che consentano di utilizzare al meglio – oggi e domani, per noi e per i nostri posteri – le risorse di cui ancora disponiamo dopo la grande dilapidazione che è avvenuta soprattutto negli ultimi anni. Parlo di risorse culturali, ambientali, paesaggistiche, come delle risorse costituite dall’intelligenza, dalla capacità di lavoro, dalla sapienza amministrativa, e parlo dal patrimonio che mediante l’impiego di queste risorse è stato costituito nel territorio.

Il quadro non è incoraggiante. A meno di un colpo di mano ancora possibile, non dovrebbe giungere alla fine del suo percorso la legge denominata “Principi per il governo del territorio” che la Camera dei deputati ha approvato il 28 giugno 2005 e che è ancor oggi all’esame del Senato. Forse è un cadavere che sta alle nostre spalle. Ma la vicenda della sua gestazione rivela una situazione culturale e politica che a me sembra francamente allarmante.

Se la legge Lupi è morta, non è morto il “lupismo”: cioè quella ideologia così largamente condivisa che ha potuto far esclamare all’onorevole Lupi, all’indomani dell’approvazione della legge, che essa è il prodotto di un lavoro bipartisan.

Frase che non ha potuto essere contestata, poiché tutto il lavoro parlamentare testimonia il sostanziale accordo tra i parlamentari della destra e larga parte di quelli dell’opposizione su alcuni punti nodali del provvedimento.

Del resto, è largamente noto che nella formazione della Legge Lupi, e nella mediazione tra le proposte della destra e quelle di componenti rilevanti del centrosinistra ha svolto un ruolo rilevante la stessa cultura urbanistica ufficiale: quella rappresentata dall’Istituto nazionale di urbanistica. Un Istituto del quale sono stato presidente in tempi che mi sembrano lontani anni luce da quelli che abbiamo appena attraversato.

Una cultura ormai diffusa

La tesi che sostengo è che la legge Lupi esprime una cultura ormai diffusa, di cui si trovano tracce rilevanti in più d’una legislazione regionale e nel comportamento di molte amministrazioni locali di destra, di centro e di sinistra, la quale ha abbandonato alcuni principi cardine dell’urbanistica moderna e ha cercato:

- negli interessi immobiliari il protagonista delle trasformazioni territoriali, e quindi gli attori da promuovere e premiare

- nel potere pubblico uno strumento da trasformare da regista, arbitro e garante delle trasformazioni territoriali e urbane, a facilitatore degli interessi immobiliari,

- nel sistema delle regole (e perfino nei meccanismi della democrazia) un impaccio fastidioso da cui liberare i portatori di interessi privilegiati.

E’ del tutto evidente che da questa logica, nell’ambito di questa ideologia (e dei corposi interessi di cui è al servizio) derivano effetti molto gravi sotto due profili decisivi: quello della conservazione del patrimonio comune e quello della decadenza dell’economia.

L’aggressione al patrimonio comune

Il patrimonio comune (il territorio, l’ambiente, il paesaggio) diventa merce di scambio per consentire urbanizzazioni ed edificazioni. Le quantità dell’espansione urbana non sono più determinate sulla base delle necessità oggettive di nuove costruzioni per la residenza, per la produzione, per il commercio, per le attrezzature, ma dalla domanda degli investitori immobiliari.

Ogni nuova attività proposta, che richieda impiego di suolo e sua sottrazione al ciclo naturale (un porto turistico, un centro commerciale, una zona direzionale, un insediamento di case per vacanze), non viene valutata in relazione alla sua utilità sociale e alla sua fattibilità economica, ma semplicemente all’occupazione temporanea che può indurre (nel migliore dei casi) e dal giro di affari che promuove (nel peggiore).

E la sua localizzazione non discende da un’analisi sulla corretta disposizione degli elementi della struttura territoriale nello spazio, in relazione alle caratteristiche dei siti, all’accessibilità, alle esigenze della tutela, ma semplicemente dalla disponibilità dei proprietari a promuovere trasformazioni del loro patrimonio immobiliare (e magari delle sue esigenze di “valorizzazione”)

Non voglio dilungarmi nella descrizione dei danni che questa ideologia (e questa prassi) comportano sul patrimonio comune, sulla corretta organizzazione della città e del territorio, sulla loro vivibilità. Credo che esse siano evidenti a tutti i presenti. Vorrei invece accennare a un aspetto che troppo spesso viene trascurato: se non lo fosse, probabilmente l’attenzione delle foze sociali alla questione del governo del territorio sarebbe più vigile e continua.

Un contributo alla decadenza dell’economia italiana

Gli osservatori più attenti hanno ricordato l’estate scorsa il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Si è posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (F. Giavazzi, Corriere della sera, 9 agosto 2005 ). Si è osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (Galapagos, il manifesto, 6 agosto 2005).

E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice.

Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico? In questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale, sulla quale è utile riflettere. Il prevalere delle rendite nel nostro sistema - questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei - affonda infatti le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia: svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale.

Ma è una strada obbligata se si vuole evitare la decadenza irrimediabile. Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale: solo Bertinotti, Prodi, Epifani hanno segnalato, con parsimonia, la rilevanza di questo passaggio. E il “progetto dell’Italia” dell’Unione si limita ad affermare che “verranno assunte le iniziative necessarie a contrastare i privilegi legati alla rendita, le rendite di posizione e le distorsioni derivanti dai monopoli pubblici e privati” Ce n’est qu’un debut, piuttosto flebile in verità.

Vorrei domandarmi adesso che cosa dovrebbe stabilire una legge nazionale. L’ispirazione di una legge adeguata m sembra riassumibile in una convinzione e una consapevolezza. Vorrei esprimerle entrambe con parole non mie.

La convinzione l’hanno espressa molto bene Alberto Magnaghi e Anna Marson, nel loro contributo raccolto nel volumetto La controriforma urbanistica, a cura di Maria Cristina Gibelli, Alinea Editrice, che ieri abbiamo presentato al Politecnico:

“Il principio basilare dovrebbe affermare la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come “bene comune” [cioè non alienabile senza il consenso della comunità] essenziale al benessere delle comunità su di esso insediate.Questo principio si fonda sul presupposto che il territorio costituisca l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana, e al realizzarsi delle relazioni sociali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo”.

La consapevolezza che deve animarci la esprimo con le parole impiegate da Roberto Camagni, raccolte nello stesso volumetto:

“Il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro operare di rapporti di mercato [...]; esso richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa.

Come tradurre questa convinnzione e questa consapevolessa in precetti legislativi, in “principi” di una legge nazionale sul governo del territorio? Da tempo abbiamo proposto alcune idee.

Il comportamento generale del potere pubblico

Il primo principio non può che essere la prevalenza dell’interesse pubblico. La sua motivazione sta nel fatto che affermato da sempre come necessario nella stessa storia della pianificazione urbanistica e territoriale: questa infatti è caratterizzata, fin dalla sua nascita, dalla circostanza di essere uno strumento necessario per affrontare questioni che il mercato, di per se, non è in grado di affrontare. Tale rimane nella società di oggi. Essa consiste nel definire regole e promuovere azioni che consentano una utilizzazione del territorio coerentemente finalizzata a determinati obiettivi culturali, sociali e politici.

Accanto a questo principio ne porrei altri tre:

- il principio di pianificazione, ossia la regola che le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, sintetici (ossia comprendenti l’insieme delle scelte sul territorio che competono all’ente decisore), formati con procedure trasparenti che comprendano la partecipazione dei cittadini o delle loro rappresentanze; da tutti, a cominciare dallo Stato, le cui scelte non possono derivare da una serie di decisioni settoriali o, peggio ancora, da un “Contratto con gli italiani” disegnato sulla lavagna di Porta a porta;

.- il principio di competenza, ossia la prescrizione che la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune,

- il principio di sussidiarietà, non nella versione demagogica alla Bossi – che anche il centrosinistra ha assunto con la modifica al titolo V della Costituzione, nell’illusione fallace di tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega - ma come definito dai regolamenti europei, cioè senza nessun privilegio per i livelli sottordinati o per quelli sovraordinati, ma con riferimento al livello e alla scala degli oggetti e aspetti considerati.

I contenuti e le modalità della tutela dei beni pubblici d’interesse nazionale

Sostenibilità significa non lasciare ai posteri meno risorse di quante ne possiamo godere. Ciò impone di stabilire criteri di pianificazione che contribuiscano a controllare l’impiego di tutte le risorse e a individuare per ciascuna di esse il livello e l’autorità di pianificazione più idonei a tutelarle: ciò vale in primo luogo per le risorse basilari (acqua, aria, terra ed energia), sempre più sacrificate a una crescita della produzione di merci divenuta ormai, oltre che umanamente superflua, anche in violento contrasto, potenzialmente mortifero, con l’intrinseca limitatezza delle risorse.

Ma le risorse non sono soltanto le quattro fondamentali (acqua, aria, terra ed energia): massimo rilievo per la civiltà umana hanno cultura, storia e bellezza. Sembra allora maturo il momento per riprendere ed estendere la tutela dei valori che la natura e la storia hanno sedimentato nel territorio accrescendo la sua qualità.

Anche qui, si tratta di andare avanti lungo un percorso che è stato già avviato negli anni Settanta e Ottanta. Mi riferisco all’innovazione introdotta con la cosiddetta Legge Galasso del 1985, con la quale si sono affermati due principi.

Il primo è quello di superare la scissione tra paesaggio e urbanistica, e di attribuire la “considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” alla ordinaria pianificazione urbanistica e territoriale. Una scissione che ha provocato danni infiniti, contraddizioni, conflitti – naturalmente risolti sempre a danno della parte più debole, il paesaggio, sacrificato sistematicamente alla parte più forte, l’urbanistica intesa come edificazione e infrastrutturazione cementizia. Una scissione che l’ideologia sottesa alla Legge Lupi (e la stessa lettera della legge) sciaguratamente ripropongono.

Il secondo è quello di stabilire che l’individuazione delle qualità e dei valori del territorio meritevoli di tutela (come quella delle risorse non rinnovabili e dei rischi attuali e potenziali) sono oggetto di scelte di pianificazione che hanno la priorità rispetto alle scelte di trasformazione e urbanizzazione: sono invarianti che caratterizzano lo statuto del territorio, per riprendere i termini assunti nella legislazione della Regione Toscana.

In questo quadro, mi sembra che sia giunto il tempo di dichiarare che il territorio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. Il testo legislativo proposto da Italia Nostra nel corso della precedente gestione suggerisce appunto di introdurre questo principio aggiungendo una lettera (una categoria di beni) all’elenco dei beni da tutelare introdotto dalla Legge Galasso e ribadito dalle successive edizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

I diritti dei cittadini della repubblica italiana

Una ulteriore serie di principi dovrebbe regolare alcune questioni decisive del rapporto tra interessi privati e interessi collettivi nelle trasformazioni territoriali. Al vertice di questo gruppo di temi) ne porrei alcune che riguardano i diritti dei cittadini. Oltre alla questione dell’ambiente, della sua salubrità e della sua qualità – cui ho or ora accennato - si tratta di alcune questioni che, negli anni Sessanta e Settanta, furono al centro di un vasto movimento sociale e di un’intelligente lavoro politico e legislativo: la questione dei servizi sociali, quella della casa e quella della mobilità.

Sulla prima questione mi riferisco al movimento, e all’azione politica, che portarono anche il nostro paese a stabilire dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Questi devono certamente essere rivisti, aggiornati e integrati, tenendo conto delle nuove esigenze sociali e di antiche esigenze mai risolte (come quella alla casa), ma certamente alcuni “limiti non derogabili” di tali requisiti devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio.

Mi riferisco, in secondo luogo, all’azione per realizzare il principio della casa come servizio sociale. Fu un’azione che condusse a ottenere strumenti ricchi di potenzialità non del tutto utilizzate, sia sul versante della realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica e sociale, sia su qello del controllo del mercato privato. Un’azione che esigerebbe oggi strumenti nuovi, più adatti alle profonde modifiche che hanno distorto l’uso dello stock edilizio, ma che invece è stata sostituita dal semplice smantellamento degli strumenti faticosamente conquistati.

Mi riferisco infine alla questione della mobilità e all’angosciosa situazione del traffico, provocatrice di sprechi immani di risorse e di non misurabile malessere delle persone. E’ una questione che nasce da scelte di politica economica compiute nel dopoguerra, già allora segnalate come foriere di drammatiche conseguenze, che hanno sviluppato tutta la loro carica negativa. In pochi casi come questo la contraddizione tra carattere di massa delle esigenze e carattere indiividualistico delle soluzioni offerte ha rivelato la sua devastante portata.

Credo che su questi temi la Repubblica (che è costituita dai comuni, dalle province, dalle regioni e dallo Stato) non possa tacere lasciando a ogni regione di definire diversamente i diritti dei propri cittadini. La legislazione nazionale deve stabilire alcuni paletti, alcuni diritti che valgano per ogni cittadino italiano, dovunque abbia fissato la sua residenza. E ai principi che la legge nazionale deve stabilire devono accompagnarsi provvedimenti capaci di suscitare politiche, azioni, interventi concreti sui diversi settori coinvolti: a partire dall’economia.

I limiti del diritto di proprietà

Le peggiori devastazioni del territorio (oltre a quelle derivate dalla miopia scriteriata di cui hanno dato spesso prova i promotori delle opere pubbliche) sono state indubbiamente provocate dal prevalere degli interessi della proprietà immobiliare, in particolare di quella fondiaria. E’ a questo prevalere che si deve anche l’0irrazionalità dell’assetto delle nostre città e dei nistri territori. Sono convinto che questo sia un punto notale di una buona legge per il governo del territorio. Non si tratta di innovare gran che sul terreno dei principi giuridici già presenti nel nostro diritto, quanto di definirli con maggiore chiarezza e perentorietà e di tradurli in istituti e procedure più chiari ed espliciti.

Occorre precisare che la facoltà di edificare (ciò che taluni chiamano “diritti edificatori”) si costituisce solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati. Non esiste alcun “diritto” del proprietario a costruire alcunchè sul terreno di sua proprietà, anche se un piano regolatore legittimamente approvato lo consentiva e una successiva variante riduce o elimina del tutto la prevista edificabilità. Perfino una lottizzazione convenzionata già stipulata può essere annullata dall’amministrazione, se la motivazione è adeguata e se i proprietari sono indennizzati delle spese documentatamente e legittimamente sostenute.

Occorre ribadire che i vincoli ricognitivi, quelli cioè che costituiscono la concreta individuazione sul territorio di beni appartenenti a categorie tutelate da leggi nazionali e regionali (beni architettonici, ambientali, storici, paesaggistici) non sono indennizzabili, come ha stabilito una costante giurisprudenza costituzionale, a partire dalle famose sentenze 55 e 56 del 1968, con una chiarezza e una perentorietà crescenti.

Occorre stabilire che i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree (diverse da quelle di cui al punto precedente) alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti. Che l’espropriazione deve avvenire entro termini temporali certi e che, in assenza. l’ente pubblico è tenuto a pagare l’indennizzo di legge e ad acquisire il bene al proprio patrimonio. L’articolazione della pianificazione in due componenti (una strutturale, che definisca i vincoli ricognitivi e lo “statuto dei luoghi”, una programmatica e operativa, che stabilisca che cosa, nel periodo di tempo considerato, si farà e si lascerà fare ai diversi soggetti interessati) può essere uno strumento utile per lavorare in questa direzione, sebbene non mi sembri opportuno che questa prassi tecnica venga stabilità da una legge nazionale.

Infine, occorre stabilire che la perequazione tra proprietari di immobili cui il piano attribuisce differenti possibilità di utilizzazione, può essere praticata solo nell’ambito di ciascun comparto d’intervento operativo, come era del resto previsto, sia pure con qualche ambiguità, dalla proposta che era stata presentata dai deputati della Margherita. Generalizzazione, in altri termini, delle tecniche di compensazione tra proprietari interessati dalla medesima operazione trasformativa (come previde la legge 1150/1942 con i comparti, e la legge 765/1967 con e lottizzazioni convenzionate), ma non spalmatura generalizzata di edificabilità sul territorio, che oltretutto sancirebbe un diritto dei proprietari a una qualche quota di edificazione che nulla, nel pur arcaico diritto italiano, ha finora riconosciuto.

Per concludere.

Il ruolo delle regioni

Non sono un federalista. In Italia il federalismo ha in significato opposto a quello che il vocabolario e la storia gli assegnano: il federalismo all’italiana è qualcosa che divide, mentre il federalismo è nato per unire. Sono invece un regionalista convinto. ma non nel senso che le regioni debbano chiudersi al loro interno, rivendicando poteri dallo Stato per gestirli in piena autonomia. Credo che tra le regioni e lo Stato ci debba essere un forte interrelazione, anche nel senso che le regioni più forti ed evolute devono, generalizzando a livello statale le loro conquiste, trascinare quelle meno fortunate. Fu così, del resto, che l’esperienza del buon governo del territorio in alcune regioni contribuì a formare la legislazione riformista degli anni Sessante e Settanta. Non posso mancar di ricordare, in questa sede, il ruolo che svolse Giovanni Astengo nei primi anni dell’entrata in vigore dell’ordinamento regionale.

Una corretta applicazione del principio di sussidiarietà (non alla Bossi, ma alla Delors) può essere d’aiuto nel determinare le reciproche competenze. Ma a me qui, in Piemonte, interessa più sottolineare la responsabilità nazionale che ciascuna regione deve cercar di assumere. E vorrei a questo proposito accennate a un ultimo tema, che non saprei in quale livello di legislazione urbanistica collocare (forse in nessuno), ma che permea tutta la tematica del governo del territorio: mi riferisco alla questione della partecipazione.

Partecipazione e democrazia

È un tema molto delicato. Si pone sulla cerniera di quel rapporto che legittima l’urbanistica: il rapporto con la politica e con la società. La questione che c’è sotto è globale: è la questione della democrazia.

In Italia il nodo è quello del rapporto tra società e politica. Questo rapporto si è rotto: la società non si sente più rappresentata dagli strumenti e dagli istituti della democrazia. I partiti, e di conseguenza le istituzioni non hanno più credito. Se la maggioranza dei cittadini li subisce (e comunque elude i valori che essi dovrebbero rappresentare, accettando il potere reale degli strumenti di comunicazione di massa), quella porzione che si rifiuta di sottomettersi chiede di rappresentarsi da sé: di decidere, o almeno di partecipare direttamente al processo delle decisioni.

Si forma così (caso per caso, episodio per episodio) una opposizione al “potere che decide” che vuole decidere in sua vece. Ma poiché non ha la forza per costruire, riesce solo a decidere ciò che non va fatto: riesce a bloccare le decisioni, a ritardarle. Magari a proporre una soluzione alternativa: mai a praticarla. Ecco che la partecipazione (questa partecipazione) diventa una forza di paralisi. Al tempo richiesto dal gioco di pesi e contrappesi della democrazia, che è nato per garantire interessi legittimi contro il decisionismo del tiranno, si aggiungono così i tempi degli arresti provocati dalla partecipazione. La crisi del sistema aumenta.

Il rapporto tra politica e società

Mi rendo conto di dare un’interpretazione che può apparire pessimistica della partecipazione. Allora cerco di domandarmi da dove nasce quella crisi del rapporto tra politica e società cui la partecipazione vuole dare una risposta “dal basso“.

La mia tesi è semplice, forse semplicistica. Quando la democrazia fu introdotta in Italia (dai comunisti, dai democristiani, dai socialisti, dai liberali), essa prevedeva una stretta relazione collaborativa tra i partiti e le istituzioni. Le istituzioni, gli strumenti della democrazia rappresentativa, erano nutrite dalla società attraverso i partiti: ben al di là del collegamento a lunga periodicità dei comizi elettorali. I partiti, e soprattutto i grandi partiti, esprimevano le diverse componenti della società: nei loro ideali e nei loro interessi, nei loro egoismi e nelle loro speranze. Davano ad esse un progetto di società, in nome del quale chiedevano l’adesione e fornivano soluzioni. Mediando tra loro, ricercando intese dove era possibile raggiungerle, e denunciando differenze dove queste restavano, governavano attraverso le istituzioni. Il rito pluriennale delle elezioni non era quindi che una verifica periodica della forza elettorale dei diversi partiti, ma ciascuno di questi era il tramite quotidiano tra la società (certo informalmente rappresentata) e le istituzioni.

Il problema allora cui la partecipazione allude è proprio questo: come ricostituire un legame tra società e istituzioni, che salvi queste dalla necrosi e restituisca alla società la possibilità di intervenire positivamente sul potere? Come sostituire (o ricostituire) i partiti, e il ruolo che essi svolgevano? Oppure, avvicinandoci a un livello più praticabile, come utilizzare la partecipazione nelle decisioni sul governo del territorio in modo da aiutare il superamento della crisi in atto?

Una risposta in due direzioni

A me sembra che la risposta vada cercata in due direzioni, che richiedono entrambe un impegno reciproco: da parte delle istituzioni, e da parte dei membri della società.

Innanzitutto bisogna ricordare che il primo requisito della partecipazione è la conoscenza esatta delle questioni su cui si decide. Garantire la conoscenza è compito impegnativo per le istituzioni. Richiede di ripensare compiutamente le procedure, e soprattutto la forma dei materiali, del processo di formazione degli atti in cui si esplicita la decisione. Richiede un investimento consistente di risorse: intelligenze, formazione, persone, mezzi finanziari. Ed è un compito impegnativo anche per l’altra parte, per i cittadini: richiede attenzione, studio, costanza, modestia nell’esprimere le proprie idee. Non è poco, rispetto ai modi in cui si esprime la partecipazione oggi.

In secondo luogo, bisogna ricordare la massima di Winston Churchill: “La democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più”. Ciò significa che alcune regole elementari della democrazia vanno rispettate, e vanno rispettati i suoi istituti. Rispettati, e adoperati, finché non se ne costruiscono di migliori.

Significa che la partecipazione deve passare attraverso le istituzioni, lottando per il loro corretto funzionamento. E significa che le istituzioni devono fare il massimo sforzo per aprirsi alla società, senza rinchiudersi nel rapporto (ormai divenuto sterile) con i partiti. Bisogna forse avere più coraggio nel praticare tutti i lati del triangolo costituito dal rapporto tra istituzioni, partiti e società. Senza cadere nell’errore della demagogia populistica, conservando tutto il rigore richiesto dalla missione di governo, ma evitando di ripiombare nelle pratiche del secolo scorso, divenute ormai sterile palude: come le vicende politiche di molte città italiane testimoniano.

Una buona legge, certo criticabile in più di un punto, ma migliore di tante altre che sono state approvate di recente dalle regioni, o che stanno per esserla. Una buona legge, sottoposta a un nutrito fuoco di critiche da parte delle associazioni ambientaliste soprattutto perché abrogherebbe i vincoli di tutela sulle coste e sugli altri elementi rilevanti del paesaggio e gli obblighi di prevedere nei piani determinate dotazioni di spazi pubblici e d’uso pubblico (standard urbanistici). Secondo le associazioni ambientaliste, in sostanza, la legge “appare censurabile sia per i suoi contenuti, sia perchè si pone quale norma eminentemente abrogativa dell’attuale sistema di regole di settore senza che di contro venga proposta una disciplina sostanziale e realmente sostitutiva”. Vale la pena di approfondire l’argomento.

Abrogate le tutele?

Se è vero che la legge abroga (con l’art. 56) le norme di tutela prescritte da alcune leggi regionali, è anche vero che essa prevede un sistema di pianificazione, fortemente incentrato sulla pianificazione regionale e provinciale (e questo della legge è indubbiamente un merito), alle quali viene attribuito il compito di individuare “la struttura delle invarianti territoriali, distinguendo tra aree indisponibili, quindi preposte alla conservazione di specifiche risorse e funzioni, e aree disponibili per la trasformazione richiesta dalle strategie di sviluppo” (art. 28), nonché i diversi elementi del paesaggio e dell’ambiente, adeguatamente elencati (art. 29), cartografati a una scala di sufficiente dettaglio (fino al 1:25.000 e al 1:10.000), e inseriti nel Sistema informativo territoriale regionale (art. 30). A differenza di molte altre leggi regionali recenti, la proposta siciliana prevede opportunamente che le scelte della pianificazione regionale e provinciale abbiano “efficacia prescrittiva e prevalente sugli strumenti urbanistici comunali”, siano cioè conformative della proprietà: veri piani, cioè, e non documenti strategici e d’indirizzo, o addirittura narrazioni e dichiarazioni d’intenti. Le determinazioni dei piani provinciali possono essere modificate dalla pianificazione comunale, ma la loro ammissibilità è soggetta all’approvazione provinciale.

Per questo aspetto, in definitiva, la proposta siciliana sembra del tutto coerente con la novità più profonda e positiva introdotta dalla legge Galasso (431/1985): quella cioè di affidare la tutela del paesaggio e dell’ambiente a tecniche e procedure di pianificazione, anziché soltanto all’arida geometria del vincolo quantitativo Certo, si tratta di piani da venire. Abrogare le norme di tutela (anche se solo procedimentali) in attesa di piani ancora da avviare sarebbe molto più di un’imprudenza: sarebbe un crimine, se si tiene conto degli interessi in gioco, della forza degli interessi immobiliari e della particolare coloritura mafiosa di cui quegli interessi sono tinti.

Ma la legge non termina con l’articolo delle abrogazioni. Essa prosegue, e prevede specifiche norme di salvaguardia (art. 60) in attesa della formazione dei nuovi piani. Nella sostanza, per due anni valgono le norme di vincolo oggi vigenti, e se alla scadenza del biennio i nuovi piani non fossero ancora vigenti le norme vincolistiche sarebbero ancora rafforzate: in particolare, per la fascia costiera il limite di inedificabulità verrebbe portato da 150 a300 metri.

Abrogati gli standard urbanistici?

Del tutto analogo è il ragionamento per quanto riguarda gli standard urbanistici. Il malfamato (giustamente) articolo 56 del disegno di legge siciliano abroga i provvedimenti regionali mediante i quali si era disciplinata per legge l’obbligo di prevedere determinate quantità di spazi pubblici o d’uso pubblico. Ma è sbagliato affermare che in tal modo la legge determina “lo scardinamento del sistema dei cosiddetti standard urbanistici inderogabili”. In realtà la legge stabilisce “la pianificazione territoriale e urbanistica definisce gli standard di qualità urbana e ambientale che si intendono perseguire, nel rispetto delle indicazioni contenute in specifici atti di indirizzo e coordinamento regionali che devono essere emanati dall’Assessorato regionale al territorio e all’ambiente con obbligo di dotazione quantitativa, anche differenziata in base a criteri di funzionalità prestazionale” (art.42). In altri termini, gli standard non sono stabiliti da un atto legislativo ma da un atto amministrativo. Ma non era così, del resto, nello stesso originario provvedimento nazionale? Gli standard furono infatti stabiliti con un decreto interministeriale (1444 del 2 aprile 1968), e non dalla legge (la 765/1967) che lo prevedeva.

E a me francamente non sembra un danno (e anzi) che dall’abrogazione degli standard urbanistici derivi l’impossibilitò di continuare ad adoperare le “zone territoriali omogenee” come metodo cardine della pianificazione comunale. Ho sempre ritenuto, e sostenuto, che le zone territoriali omogenee altro non erano che uno strumento di verifica dell’adeguatezza quantitativa degli standard, e che averle fatte divenire nella prassi (o nella legislazione regionale) strumento di progettazione del piano era stato un errore di burocratismo urbanistico e di pigrizia culturale: come sempre avviene quando si ipostatizza uno strumento al di là della necessità che lo ha originato.

Qui peraltro non sembra che si sia posta la stessa attenzione riservata al periodo transitorio nell’abrogazione delle tutele geometriche. Non è chiarito in che modo il diritto dei cittadini a veder riservate, nei piani urbanistici, determinate quantità di spazio alle esigenze sociali, verrà tenuto in considerazione nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge (e delle abrogazioni previste) e la definizione dei nuovi standard quantitativi e prestazionali che la legge stabilisce di definire. E neppure vi è cenno sul modo di valutare e di accollare agli operatori gli oneri necessari per pagare le opere di urbanizzazione e per ottenerne gratuitamente tutte le aree destinate a usi collettivi.

Non è una legge da buttare

Non sono solo queste le critiche mosse dalle associazioni ambientaliste. Alcune meritano certo d’essere raccolte, e anche altre di essere aggiunte. Per esempio, è criticabile la sottrazione al Consiglio regionale della responsabilità di approvare il Piano territoriale regionale; lo è l’insufficiente specificazione del carattere strutturale della pianificazione territoriale, il frequente ricorso a un concetto di “sostenibilità” più vicino a quello di “sopportabilità” che a quello di “durabilità” (ma non è forse divenuta questa, in Italia, l’accezione corrente di quel termine sfortunato?), l’ulteriore riduzione dei momenti di controllo esterno, la mancata considerazione della necessità dell’intesa con gli organi statali preposti alla tutela dei beni paesaggistici.

Ma se si considera la proposta nel quadro della legislazione urbanistica regionale di questi anni la legge non sembra peggiore di altre, anche considerate tra le migliori, come quella emiliano-romagnola o quella toscana. E’ peggiore per certi aspetti (per esempio il rigore della Toscana nella tutela dei territori rurali), è migliore per altri, come la precettività della pianificazione territoriale e la pulizia garantista del sistema procedurale (fatta salva l’aberrazione nell’approvazione del piano territoriale regionale cui facevo cenno). E’ certamente una legge migliorabile, ma rispettando la dignità e la coerenza della costruzione complessiva.

L’auspicio è che il dibattito faccia chiarezza e aiuti a comprendere e superare i limiti veri distinguendoli degli errori (e orrori) presunti.

Qui la relazione e il collegamento al file scaricabile del disegno di legge urbanistica regionale

Le critiche al disegno di legge cui mi riferisco sono raccolte nel sito di Legambiente Sicilia

A chiunque è consentito utilizzare questo articolo alla condizione di citarne la fonte

Lo sguardo di Edoardo Salzano sulle questioni urbanistiche di Napoli, che da decenni attendono una definitiva sistemazione, è quello complesso e articolato dello studioso; e, insieme, del cittadino part time. Salzano, benché di origini partenopee, vive a Venezia, dove insegna urbanistica al Dipartimento di pianificazione dell'Università Iuav.

Professore, trova corretto distinguere tra territorio ideale e reale nel discorso sulla riconversione di Bagnoli: un'area paesaggisticamente unica, ma destinata per tutto il Novecento a luogo di produzione industriale?

“L'urbanistica si occupa del territorio reale, tenendo conto che il territorio reale è come è, perché l'uomo nei secoli l'ha trasformato: alcune volte bene; altre volte male. C'è stata una lunga fase nella nostra storia in cui si è ritenuto che il territorio non avesse delle qualità proprie, valori proprî. E quindi: trasformare un pezzo del deserto più squallido del mondo e trasformare un pezzo della costa dei Campi Flegrei era indifferente”.”Oggi ci si rende conto che il territorio reale contiene una quantità enorme di cose. Perciò, si ripropone il problema di ricostituire la bellezza dove si è perduta”.

Ma come? Affidare il potere di decisione alla politica locale; o lasciare ai tempi lunghi della società il compito di modulare sui bisogni diffusi le future caratteristiche dell'area? L'onorevole Antonio Martusciello, coordinatore regionale di Forza Italia, ha proposto di attrarre investimenti esterni su Bagnoli, per creare “sviluppo e occupazione nel settore turistico » ( ma senza compromettere le superfici già destinate a verde).

“La democrazia moderna ha messo a punto degli strumenti per intervenire sul territorio, coerentemente con le leggi generali della democrazia stessa. Lo strumento che ha inventato per questo, a partire dagli inizi dell' 800, è stata la pianificazione urbanistica. Che cosa fare di quest'area è stato deciso dal Piano regolatore [approvato] dal Consiglio comunale: lungamente discusso e aperto a tutti i miglioramenti apportati; o che erano comunque apportabili nella fase delle osservazioni.

Adesso, si tratta di attuare quelle scelte: perché se una volta che la democrazia ha scelto cominciamo a cambiare, entriamo in quella spirale perversa in cui l'ultimo che parla ha ragione, e distrugge tutto quello che si è accumulato nel tempo. Non conosco nel merito le proposte di Forza Italia, ma se significano cambiare ciò che si è democraticamente deciso, allora direi che sono proposte non accettabili. Il Piano regolatore di Napoli, mi sembra che sia una miniera di occasioni di riqualificazione e di vita migliore per la città. Si tratta di utilizzarle».

Si direbbe che per lei il Piano urbanistico di Napoli sia perfetto e non richieda alcuna messa a punto.

“È un piano ottimo. E non solo a parere mio. È noto che è uno dei migliori piani italiani dell'ultimo decennio”.

In verità, sarebbe pronta un'altra proposta di integrazione. Si tratta di un progetto firmato da una équipe di architetti, coordinati da Vito Capiello, che prevede la pedonalizzazione di un'area di 5000 metri quadri, a cavallo tra la Galleria Principe di Napoli e il Museo Nazionale.

“Non conosco il progetto, ma le finalità mi sembrano giustissime. Non vorrei però che cadessimo nel vizio tutto italiano di non realizzare i progetti che abbiamo costruito, per inventarne ogni volta altri. Vorrei ricordare che ci sono degli interventi essenziali da fare per Napoli, già previsti dal Piano regolatore. In città, mancano dodici milioni di metri quadri di attrezzature; siamo molto al di sotto dello standard di venti metri quadri per abitante. Manca, insomma, quello che serve ad una città per dirsi civile — la cui carenza la rende un mero agglomerato di case e di automobili”.

Può fare un esempio di progetto contenuto nel Piano regolatore che si potrebbe attuare a breve termine?

“C'è un gigantesco progetto di istituzione del Parco della collina e del sistema del verde di Napoli.

C'è, poi, l'altro prodigio napoletano che è il piano della metropolitana urbana: formare un'unica rete mettendo insieme decine di segmenti e spezzoni di ferrovie, funicolari ecc. Sono entrambi progetti che è bene che vadano avanti.

Queste, e molte altre, sono le cose che potrebbero cambiare la faccia della città. E che fanno parte di un disegno organico. La città è un organismo complesso: si riesce a governare bene se si riesce a dominare la complessità. Se si sbrindella il disegno complessivo e si va pezzo per pezzo, elemento per elemento, la città non funziona più, decade”.

Quale ruolo potrebbero ricoprire i poteri pubblici nella trasformazione della città?

“Il primo piano regolatore moderno è nato a New York nel 1811: perché i cittadini e gli imprenditori, indignati che la città si sviluppasse caoticamente hanno chiesto al Comune di fare un piano che regolasse l'espansione della città stessa. Una richiesta all'autorità pubblica nata " dal basso". Il messaggio che è venuto dal mondo dell'individualismo e del mercato, è che il mercato non sa risolvere alcune situazioni. Ci vuole l'autorità pubblica”.

Gli interventi pensati nel Piano regolatore per Napoli vanno in controtendenza rispetto all'uso rapace del territorio, caratteristica comune dell'intera regione Campania? Possono dare un segnale positivo?

“Certamente. Lo possono dare e l'hanno già dato. A me sembra che il Piano regolatore sia ormai entrato nella consapevolezza comune. Meno in quella degli intellettuali, se vuole. Nella vicenda del Piano regolatore, c'è un episodio che mi ha colpito moltissimo. Quando sulle aree libere delle pendici del Vomero, in direzione di Chiaia, è stato posto con la variante di salvaguardia un vincolo di inedificabilità; e quando l'assessore Vezio De Lucia e l'allora sindaco Antonio Bassolino hanno dichiarato che su quelle aree non si sarebbe costruito né ora né mai, ebbene da quel momento gli abitanti hanno cominciato a ripiantare le vigne. Voglio dire che la città — anche gli interessi apparentemente più lontani da una logica di pianificazione e di primato del pubblico nelle decisioni sul territorio — si accorge quando c'è una volontà chiara di procedere.

Mi sembra che anche l'attuale amministrazione sia molto determinata nel difendere il Piano. Vorrei, però, che il Piano fosse inteso non solo come un insieme di regole, ma come un programma di interventi per riqualificare la città, per renderla moderna. Non nel senso di costruire piramidi di cristallo, ma nel senso di avere giardini, parchi, scuole e tutto quello che serve perché una città sia tale”.

Perché gli intellettuali non sarebbero d'accordo con quanto previsto nel Piano?

“Perché noto una certa tendenza all'accademismo. In una civiltà diversa dalla nostra si sarebbe levato un movimento guidato dagli intellettuali per la difesa del Piano regolatore”.

E, invece, cosa è successo?

“È successo che a Napoli esprimiamo vizi e virtù del popolo italiano. E l'individualismo è certamente uno dei nostri vizi peggiori”.

Lunedì alle 17, si svolgerà all'Istituto italiano per gli studi Filosofici un forum dal titolo “Pianificazione, ambiente, sviluppo”.Parteciperanno: Mauro Agnoletti, Piero Bevilacqua, Donato Ceglie, Pasquale Coppola, Vezio De Lucia, Antonio Di Gennaro, Maurizio Franzini, Edoardo Salzano. Coordinerà: Gabriella Corona.

Foto Pozzuoli bay (Napoli - Italy), © 2003 Carlotta Perazzi

La pianificazione spaziale cui si riferisce lo scritto di Parr è quella finalizzata alla «predisposizione di cornici generali e principi a orientare la localizzazione dello sviluppo e delle infrastrutture fisiche» e a ottenere «il coordinamento strategico di varie decisioni pubbliche e private (di solito decisioni di investimento) in un dato spazio entro un determinato periodo di tempo». È qualcosa di simile quella a cui si lavorò in Italia quando Antonio Giolitti era Ministro per il Bilancio e la programmazione economica (Progetto 80: la proiezione territoriale della programmazione economica. A mio parere non ha molto senso interrogarsi «sulle situazioni in cui la pianificazione spaziale è pericolosa»: come gli esempi illustrati dall’autore a questo proposito dimostrano, non è pericoloso lo strumento (la pianificazione), ma l’uso che se ne è fatto (le scelte dei decisori).

Quel particolare tipo di pianificazione (la proiezione sul territorio della politica economica) mi sembra patisca peraltro un grave limite, al quale Parr allude quando afferma che le definizioni correnti «non spiegano che cosa si intenda come “spaziale” nella definizione di “pianificazione spaziale”». La mia impressione è che la pianificazione spaziale che, per così dire, “nasce dall’economia”, si riferisce a uno spazio astratto, non molto diverso da quello praticato da Walter Christaller. Ancor oggi lo spazio al quale ci si riferisce è quello nel quale le decisioni possono essere rappresentate con «strumenti come i colori, elaborate ombreggiature, grosse linee con frecce che indicano le future aree di comunicazione».

A me sembra che una simile concezione dello spazio (e quindi del rapporto tra politiche territoriali e spazio) poteva essere comprensibile cinquant’anni fa, oggi molto meno. Cercherò di argomentarlo, partendo proprio da una delle definizioni della pianificazione spaziale cui Parr si riferisce.

Uno degli obiettivi della pianificazione spaziale, ricorda Parr, è il coordinamento delle azioni pubbliche. Ma da almeno un paio di decenni a questa parte tra le azioni pubbliche hanno assunto un peso crescente quelle orientate alla tutela e all’impiego sapiente delle risorse territoriali: dalle diverse componenti dell’ambiente (suolo, acqua, energia) a quelle del paesaggio e del patrimonio culturale e storico. Coordinare questo “settore” delle politiche pubbliche con quelli orientati alla trasformazione del territorio (infrastrutture, zone industriali, edilizia, turismo di massa, agricoltura intensiva ecc.) non determina forse conflitti che il “coordinamento” dovrebbe proprio sforzarsi di risolvere? Ma le tutele e l’impiego sapiente delle risorse territoriali esigono una rappresentazione del territorio (e, prima di questo, una “considerazione” del territorio, per adoperare il termine della legge Galasso) enormemente più corposo e “realistico” di quello impiegato della pianificazione spaziale di matrice economica.

Il fatto è che nell’ultimo mezzo secolo vi sono stati due movimenti convergenti, entrambi orientati a riconoscere nel territorio (quello fatto di suolo stabile o soggetto a dinamismi, di vegetazione allevata e brada e selvatica, di centri e manufatti e percorsi storici, di morfologie differenziate e di identità culturali diverse, di acque superficiali e profonde, correnti e ferme e stagnanti, e soprattutto di intricati intrecci tra queste diverse componenti dello spazio reale) un soggetto di diritti. Da una parte, infatti, si è compreso che le dimensioni delle trasformazioni provocate dai benefici dello sviluppo capitalistico incontravano un limite non valicabile nella scarsità e nella irriproducibilità di talune risorse naturali, costitutive del territorio. Dall’altro lato, si è generalizzata (almeno in una parte del mondo) la consapevolezza del fatto che la forma del territorio (ciò che può essere sintetizzato nel termine “paesaggio”) esprime qualità e valori che costituiscono una risorsa di cui non si può fare a meno.

A mio parere la scienza economica non si è ancora fatta carico né dell’una che dell’altra di queste componenti dell’odierna consapevolezza comune. Che non abbia compreso il concetto di limite è stato colto con spietata ironia da Kenneth Boulding, quando ha scritto che «chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista». Che trovi difficoltà ad attribuire valore alle qualità che non siano riconducibili a merci (e quindi trasformabili, fungibili, omogeneizzabili, standardizzabili) è testimoniato dal fatto che, dopo aver sapientemente distinto il valore di scambio dal valor d’uso, ha ridotto quest’ultimo a mero e generico supporto del primo.

Lo scritto di Parr sollecita quindi a riflessioni che forse legano tra loro linguaggi e punti di vista di discipline e mestieri diversi e, oggi, scioccamente lontani: le scienze del territorio da un lato, quelle dell’economia dall’altra. Ma c’è un altro versante dei saperi oggi rilevanti verso il quale Parr implicitamente invita e riflettere: quello della politica.

In tutte le definizioni di pianificazione spaziale assume rilievo il termine “pubblico”. Parr sembra condividere (giustamente) l’opinione secondo la quale la pianificazione (almeno quella spaziale) sia un’attività di competenza delle pubbliche amministrazioni. Ha consapevolezza del fatto che esistono diversi livelli territoriali di competenza delle amministrazioni pubbliche (sebbene la sua lettura si limiti a quelle nazionale e regionale). Non si pone però il problema del modo in cui il “coordinamento” possa risolvere i conflitti tra i diversi livelli di governo.

Nel sollevare questo problema forse mi lascio condizionare troppo dalla situazione italiana, dove le competenze in materia di territorio (di scelte che provocano o postulano impiego o trasformazione di risorse del territorio) sono ripartite tra molte autorità elettive di primo grado (governo nazionale, regione, provincia e area metropolitana, comune). Ma a me sembra che questo sia un problema cruciale per l’efficacia della pianificazione: non risolverlo correttamente significa aumentare considerevolmente quelli che Parr chiama «i rischi della pianificazione spaziale» (e che io, come ho detto, definirei i rischi della cattiva applicazione della pianificazione spaziale). Riferirsi al coordinamento, e in particolare a quello “verticale”, è certo opportuno; è quello, del resto, che hanno previsto numerose regioni nelle nuove leggi urbanistiche (dal 1995 in poi), e che alcune di loro stanno attuando da anni. Mi riferisco alla prassi delle “conferenze di pianificazione”, che sono la struttura decisiva, per esempio in Toscana, quando nella pianificazione territoriale si devono assumere decisioni la cui portata travalica i confini di competenza dell’una o dell’altra struttura amministrativa.

E tuttavia, ogni volta che una pluralità di soggetti deve decidere insieme, è certo importante l’individuazioni di sedi dove il confronto possa svolgersi e l’accordo maturare, ma è almeno altrettanto importante sapere a quale soggetto spetterà la responsabilità della decisione nel caso che l’accordo non si trovi. Può aiutare a individuare soluzioni corrette a questo proposito una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, nell’accezione europea e nel filone culturale aperto da Jacques Delors (a ogni livello la responsabilità delle scelte che a quel livello possono essere governate con maggiore efficacia), meglio che in quella italiana, nel filone culturale aperto da Umberto Bossi (tutto il potere al basso).

Di nuovo oggi i giornali ci informano che la gente è tornata ad occupare le strade e i binari, nei paesi tra Napoli e Salerno, per protestare contro la riapertura di una discarica. Protestano perché quella discarica aveva già portato pestilenza, malattia e morte. Ma in Campania non sanno dove collocare i rifiuti: le città ne scoppiano. Ho accennato alla questione nel mio intervento di ieri. Vorrei riprenderla oggi, plerchè mi sembra emblematica.

Il punto di partenza: si producono troppi rifiuti. Questo ci ricorda la centralità di temi come “la riconversione ecologica dell’economia”: riconversione ecologica, ristrutturazione profonda, dei modi di produrre, di confezionare le merci, di consumare.

Ma un passaggio ulteriore è necessario: i rifiuti, comunque, oggi e domani, molti o pochi, bisogna smaltirli. Esistono tecnologie,m esistono parametri di localizzazione degli impianti, esistono procedure che consentono di informare, discutere, decidere insieme le localizzazioni più giuste. Ma questo richiede una forte capacità di governo pubblico del territorio. Invece in Campania, dove sarebbe servita una pianificazione efficace e democratica, hanno scelto al suo posto il project financing: l’appalto ai privati di scelte delicatissime.

L’origine dell’errore: non aver voluto affrontare per tempo un problema certamente complesso, con l’unico strumento che consente di affrontare problemi territoriali complessi – la pianificazione – e con l’unica autorità che è competente – quella eletta dai cittadini e responsabile nei loro confronti.

Ma le discariche e gli inbceneritori sono solo uno degli aspetti di un uso sbagliato del territorio e del potere pubblico. Un altro aspetto lo abbiamo sotto gli occhi: la “ dispersione insediativa”, quella sequela di casette, ville e villette (le abitazioni dei “tavernicoli”, come li ha battezzati Marco Paolini), capannoni e capannoncini, depositi, piazzali, strade, autostrade, svincoli . che hanno cancellato le campagne, distrutto i paesaggi, provocato l’inquinbamento delle falde idriche, sottratto suolo prezioso al ciclo biologico essenziale per la vita dell’uomo.

Questo aspetto è stato sottolineato da molrti interventi, soprattutto stamattina. Condivido in particolare l’intervento del sindaco di Arzignano, Fracasso, anche per la forza con la quale ha posto il problema di far comprendere a tutti i cittadini la gravutà e l’entità del danno, individuanto gli appropriati modi di comunicare una visione efficace della realtà che è sotto i loro occhi ma che non vedono, con strumenti quali quelli multimediali adoperati dalla Compagnia dei Celestini.

La dispersione insediativa è uno degli aspetti più gravi dell’attuale uso del territorio, del potere e delle risorse:

Del territorio: adoperato come un mero contenitore di ogni possibile manufatto, con la completa indifferenza per i valori del territorio. La terra impermeabiulizzata, la vegetazione estirpata, i fossi trasformati in fogne, i paesaggi lontani cancellati alla vista dei passanti. Mentre vaste estebnzioni di terreni già urbanizzati giacciono inutilizzati.

Del potere, adoperato per consentire ai proprietari immobiliari di accrescere la loro rendita trasformando gli annessi rustici in capannoncini e questi in capannoni e fabbriche, i campi in piazzali o in lottizzazioni. Il potere, adoparato per seguire e incoraggiare lo spontaneismo – 200 anni dopo che, nell’America dell’iniziatiova privata e dell’intrapresa, si era scoperto che lo spontaneismo è deleterio per la città e per l’economia.

Delle risorse economiche, dilapidate incoraggiando il modello di urbanizzazione più costoso in termini di distruzione dell’agricoltura, di aumento delle spese di energia, di tempo, d’investimento derivanti dall’irrazionale aumento della domanda di moobilità (si veda il lavoro di R. Camagni, M.C.Gibelli, P. Rigamonti , I costi collettivi della città dispersa, Alinea, Firenze 2003).

Il teritorio, insomma, viene devastato provocando il degrado di risorse preziose oer la vita e per l’economia. Ma ciò che soprattutto iundigna è che esistono gli strumenti per evitare questa dissipazione.

Alcuni casi concreti.

A Salerno, nell’ambito della progettazione del Piano territoriale di coordinamento provinciale si erano compite una serie di analisi territoriali su tutti i principali aspetti della sua struttura fisica e sociale, e su questa base si era costruito un sistema informnativo territoriale che consentiva l’0interrogazione istantanea e simultanea di tutte le basi di dati raccolti e territorializzati. Quando da una commissione regionale si definirono i parametri di sicurezza ai quali doveva rispondere la localizzazione di un impianto di smaltimento dei rifiuti, fu immediata la risposta che si diede, segnalando tutte le precise localizzazioni che rispondevano a quei criteri. Gli strumenti della pianificazione, con l’impiego delle tecnologie attualmente disponibili, consentono di individuare la gamma delle risposte ottimali a qualunque quesito territoriale.

Negli USA e nei Paesi Bassi ci si sta ponendo il problema fi frenate la dispersione urbana tracciando dei confini invalicabili al di là dei quali qualsiasi costruzione è impedita. Ho personalmente partecipato anche in Italia (nel comune di Sesto Fiorentino) a un’esperienza del genere, che è stata richiesta dagli stessi amministratori e adottata nella pianificazione urbanistica senza sollevare alcun problema sociale.

Ho accennato agli aspetti economici di un uso corretto del territorio. Poiché vi sto parlando di esperienze positive, vorrei accennarne a una che mi sembra significativa: l’Emscher Park nella Ruhr.

La crisi della produzione dell’acciaio stava portando l’intero land della Westfalia-Renania alla crisi. I tentativi di diversificare la produzione e attirare investitori erano falliti. Ciò che si comprese era che gli investitori erano dissuasi dalle pesanti coindizioni ambientali: la Ruhr dava un’immagine di fumo, grigio, sporco. Willy Brand, leader del partito socialdemocratico che era egemone nella regione, lanciò lo slogan “Cielo azzurro sulla Ruhr” e una iniziativa politica molto forte e di lunga durata. Nel giro di qualche decina di anni riuscirono a trasformare il paesaggio di una vasta zona: fiumiciattoli, diventati scarichi industriali , sono stati trasformati in fiumi azzurri tra rive boscose, dove si va a pescare e a remare; gli altissimi mucchi di residui carboniosi, più alti delle caìse dei villaggi operai, sono diventate colline divestite da foreste planiziali; i villaggi sono stati restaurati, le minieri e le industrie trasformate in musei, sedi di associazioni culturali e sportive e luoghi di manifestazioni creative e di loisir. Picole e medie inbdustrie “pulite” e attività direzionali si sono installate: si è avviato un altro sviluppo.

Questo esempio mi sembra che insegni due cose:

La prima. La qualità del territorio, della città, dell’ambiente è di per sé un valore economico. Infatti, man mano che procede la trasformazione delle attività produttive (dal semplice al complesso, dal grezzo al sofisticato, dal chiodo al microchip) aumenta la rischiesta di mano d’opera qualificata. Ma questa nbon chiede solo retribuzioni elevate: a un determinato livello di reddito, più che uno stpendio più alto conta un quadro di vita più piacevole: la bellezza del paesaggio, la ricchezza di occasioni culturali, il bun funziona,ento dei servizi colelttivi sono le carte che valgono di più.

Nopn a caso la sede europea della IBM è in un grande bosco alla periferia di Bruixelles, e quella della Hewlett Pacvkard è nella verde Irlanda, nei pressi della bella Dublino.

La seconda.Le trasformnazioni del’ambiente, anche le più radicali, possono essere effettuate, a condizione che ci sia un progetto definito e una forte, costante, coesa volontà politica, capace di costruire e attuare senza oscillazioni un progetto a lungo termine: una strategia. E vorrei osservare qui che il termine “piano strategico” (che in questi anni ha una certa fortuna in Italia) può significare due cose. Può essere, appunto, la delineazione e la condivisione di un progetto a lungo ternmone, “strategico” appunti, che poi trova nei piabni urbanistici, nei programmi di amministrazione, nei bilanci, negli accordi i suoi molteplici strumenti. Oppure può ridursi (come purtroppo spesso avviene) nella mera accettazione di una lista di cose da fare, di progetti da finanziare, di deroghe da ammettere.

Per concludere. I problemi ci sono. Gli strumenti ci sono. I poteri ci sono. E tra i poteri vorrei sottolineare il possibile ruolo della Provincia che, soprattutto in una situazione come quella del Vicentino, potrebbe svolgere un decisivo ruolo di promozione e di coordinamento, come del resto la legge le imporrebbe.

La responsabilità prima delle situazioni di disagio e inefficienza è indubbiamente attribuibile ai poteri, che non danno priorità ai problemi giusti né li affrontano con gli strumenti giusti. Ma io credo che granbde potrebbe essere il ruolo (e quindi grande è la responsabilità) delle forze sociali. In, primo luogo, di quelle che rappresentano il lavoro. Esse potrebbero, e perciò dovrebbero, porre all’attenzione dei poteri i problemi reali e le soluzioni giuste e possibili.

In altri tempi, questo è successo. Molti di noi hanno ricordato le lotte degli anni Sessanta e Settanta, e i loro risultati sul terreno degli strumenti. Oggi può succedere di nuovo. Il sindacato può riprendere la battaglia per questi aspetti della difesa del lavoro.

L’iniziativa che oggi si conclude, e quella di cui ci ha parlato il segretario della Camera del lavoro di Bologna, inducono a sperare che a Vicenza, e non solo a Vicenza, si riprenderà a lavorare per “un’altra idea di città”.

La relazione introduttiva di Oscar Mancini, Segretario della Camera del lavoro di Vicenza

I dare to say that the city is the square.

I dare to say that a city without squares (without a square) is not a city.

Of course, I speak about one kind of city, not about any present city. I speak about the good European city: the city as the history of our civilisation built it, and as we want preserve it and restore it and build it today: for the people of today and for the people of tomorrow.

But what is the European City? That "uniquely European invention, intimately connected to the development of democratic and representative self-government" as Suzanne defined it this morning.

1. The City is a product, a creation, an invention of man, when he reached a certain degree of development of his needs, possibilities, culture, relationship, and when he conquered the will to free himself from the power of the landlords. It is a product of the application of work and culture to transforming the rough (but wise) resources and rhythms of nature. Then the City has a good relationship with its site and with the environment. It is part of the balance between nature and history, between the action and culture of man and the forces and rhythms of nature. The design of the Good City demonstrates the respect and value of the characteristics of sites and illustrates care for the environment.

2. The City is not a mere concentration and agglomeration of houses and streets. The City is the home of the community. So the City has an identity that is not the sum of the identities present among its walls. Then, in the best ages of its millenary history, the identity of the City is directly linked to the prevalence of the interests of the whole community over the interests of groups and individuals.

3. The City is marked by complexity, by the richness of its functions and of the interpersonal exchanges it fosters. The City was born, - was invented - as the site of exchanges and of increased opportunities. The actual historical centres tell us how liveable the City is when different functions live together: housing, working, shopping, meeting, recreation, health care.

This is the City. But the Spirit of the City, or the Genius of City as Suzanne called it – doesn’t exist everywhere with the same density and intensity. The Spirit of the City lives mainly in the public spaces, and it is emphasised in public opens paces.

The French historian Marcel Aymard described this reality well, in an essay on the Piazza in the Mediterranean city.

The public space of the city, where the man is held to appear, has a double identity. On one hand it is different from the home from the site of rest and sleep, from closed space, private space, feminine space, space defended and to be defended. On the other hand, it is different from the flat country, from the empty country, an open space but the space of work and of nature.

The public space of the city imposes itself as the space of action without work : the site of ceremonies and festivals, of gestures and of games, of leisure and of jokes. The city is organized for exchanges between men: exchanges of signs and symbols more than of goods.

The real centre of social life is not in the roads, it is in the piazza, where all the confused and chaotic circulation of the narrow streets flows. More and more defended from the trespassing of the private individuals, the piazza is the public space par excellence, a constant rule for town designing. It is the site of encounters and gossips, of the citizen’s assembly and of mass manifestations, of solemn decisions as of capital punishments.

So wrote Marcel Aymard, that I dare translate into my very elementary English. This is the significance of the piazza : the site where the Spirit of the City reaches its greatest power. Then we can easily understand what the piazza can do for mankind.

The piazza is the catalyst for community involvement. The site where people recognise one another, were each citizen discovers that he has common interests with other citizens; we can even say, where the inhabitants becomes citizens, where the individuals become a community.

The piazza is a school for learning social behaviour, for preparing children and young people to live in an heterogeneous and diverse social world, as Henry Lennard wrote. Henry often says that to stay a day in a Venetian Campo in the fastest way to understand how babies and children and young people concretely learn to behave, and try to emulate the skill of their elders, in a melting pot where (if the city is not a segregating one) different uses open windows toward different habits, and classes, and civilisations.

The piazza is the symbol, and the site, of the representation of city identity. In many cities, the main square develops this function. In other cities such as Venice, public spaces have a larger function : each of them represents the identity of one of the parts, or the neighbourhoods, or the villages, that constitute the city, but all together they represent a system of public spaces that together constitute the identity of the city.

The piazza is the market where the goods of the citizen can be exchanged. The material, as well as the immaterial goods, whose importance increases more and more, as Marcel Aymard told us. Exchange inside the city, between the citizens, but also exchange between the city and the outdoor world. I think that we must look into this key to the reason for the existence of tourists : they are outdoors visitors, persons that come to learn from our identity, and that tell us something about their own identity. Tourists are visiting professors and visiting students, and not distributors of homogenisation.

The functions that public spaces can provide for human civilisation are therefore very important. They really constitute a European treasure, an important added value to its international balance. Some pictures (not as beautiful as those that Suzanne showed us) will help us remember this treasure. (See the Power Point presentation attached)

We must now ask : in what direction goes the state of the piazza today? How is the stream of the time working? In a word, what is the value of the open public spaces in Europe?

The question has two aspects. On one hand, what happens to squares where they were created and they were lived in as living and liveable parts of the city, first of all in the historic centres ? On one other hand, how are public spaces in the new parts of the cities, in the new settlements and in the new peripheries ?

I think we will have good answers to both the aspects of the questions at the end of this Conference. And in the exhibition I have seen some good examples of efforts that are made in the last years to give a new life to public open spaces.

Remembering the experience of Erlangen that our friend Dietmar Hallweg briefly illustrated yesterday morning, I will jump to the conclusion that the best examples are those in which restoring the social function of the piazza is part (an important part ) of a larger strategy, aiming at reorganising the distribution of functions in the whole urban territory, at reducing car traffic, at implementing pedestrian and bicycle mobility, at improving public facilities (such as bus, tramway and light railways), at fighting against pollution

But let us come back to general trends, against which valuable experiences conduct their struggle.

We can see several aspects of degradation of the squares in historical centres of many of our cities:

1. disfiguring by arrogant and incongruous architectures

2. invasion of car traffic and car parks

3. flooding by mass tourism

4. disappearance of normal functions

A few comments on each of these aspects.

Disfiguring by arrogant and incongruous architecture.

I think that the foremost real enemy of the contemporary city is the triumph of individualism. It is the denial of the essence of the city, and of the basic reason for its invention. In the shape of the city we can see two aspects of this enemy. On one hand, urban sprawl. On another hand, the appearance in the old city and in its historical centres of contemporary architecture totally indifferent to the context: often, not only indifferent, but totally in conflict with the rules of the old cities. I will show you two examples:

- the main place of Ulm, degraded many years ago by a nice object (a project of Richard Meyer) located in a space that rejects such objects as an intolerable intrusion,

- the Saint Stephan Platz in Vienna, where a sparkling architecture of Hans Hollein intrudes heavily and presumptuously into the delicate space between the Graben and the Cathedral.

invasion by car traffic and parking.

This is the third way in which individualism destroys the city. It basically destroys cities by invading and occupying the sites where the Spirit of city resides, the squares. Many public open spaces, in many cities are now quite far from what I tried to illustrate when I spoke of the nature of the piazza and of the task that it accomplishes for human development. Many public open spaces in many cities are no longer sites where people meet, and gather, and play, and exchange experiences, and walk, or rest, or learn, or applaud. Many squares are large deposits of cars, of big metallic self-moving boxes that have replaced human beings and there is there no longer space for people.

I think that the Campi of Venice are so celebrated and so beautiful to live in, essentially because Venice is a car-free city. And also I think that the best examples of urban policies for the restoration of squares are policies in which the goal of their strategy is eliminating, or considerably reducing, mechanical traffic from public squares.

Flooding by mass tourism.

Tourism can certainly bring large benefits to the cities. Tourism can be seen and managed (as I told you) as a new type of exchange between the world and the city, and between the city and the world. But this can happen only by respecting some conditions, and I must say that - unhappily – these conditions are rarely respected in the cities that attract the greatest number of tourists.

The first, and the main, condition is that there must be an appropriate balance between tourism and other activities. The particular kind of city user : the touring visitor; can neither be more numerous than the residents, nor even an important percentage of the number of residents. If tourism displaces the normal activities of the city (residence, shops for daily life, inhabitants that work in the city and their services), then public open spaces are destroyed not in their stones and shapes, but in their basic character : the mixed use of the building located on open space, and of space itself.

Disappearance of normal functions

The disappearance of normal functions is the result of all that I described above. Between the causes that allow this to happen, I think we must place foremost the incapacity of local government to control the level of rents. This suggests a larger reflection on the incapacity of «market laws» to bring satisfactory results to the organisation of the city and in his liveability.

I often remember in my university lessons the history of the plan of New York in 1811. The small colony of Dutch emigrants had become a city with 60,000 inhabitants: an important vertex to the fanning out of itineraries which led to the western territories. The dynamics of transformation were such that, in the span of a few years, the lots planned for housing were filled with factories and warehouses. The streets were commonly used both by pedestrians and by horse-drawn carriages which, leaving the textile factories, headed west. The real estate values were very unstable: the intrusion of factories in the once residential areas decreased their value, provoking disastrous effects on investors. This system was not working. In absence of a minimum of clear rules, the market would lose any control and the social-economic conditions would become unsustainable. Based on these needs, and with an active public participation, the government decided to draw up a regulatory plan. So we can state that the modern master plan, the limitation of free initiative that was necessary for the life of cities and for the activities in them - was born essentially because the market needed it.

Today perhaps more than in 1811 we need a stronger presence of public regulations, a stronger control by public government of the land market in cities.

Reverting to the central course of my speech, and before concluding it, I will consider a final issue. What should be the shape and the structure of open public spaces in the new settlements (unfortunately so rare!). I offer you some very simple goals that I have derived from the observation of the ancient and living piazza and from listening to the speeches and from reading the books of Henry and Suzanne.

I think we must first of all never forget that the stones are important, but if they are alone they will not make a square or a city.

Then we must know that in order to manage the relationship between shape and people we must be able to manage (to plan) the whole city, and its territory, in all their aspects: traffic and mobility as well as environment, land use as well as housing, tourist policies as well as commercial policies and so on.

Within this general concept, how can we imagine a good square? I offer you ten rules.

1. The squares must be partially closed and protected, but they must at the same time be opened on a perspective, on a panorama, on a flow; adequate openings for a partially closed open space can be a valley or a hill, a river or the sea, or a main road with its traffic.

2. The buildings that surround it must compose a chorus of background buildings, but at the same time we must have some soloist - some foreground buildings. At two or three sides you must have common houses, nor very tall and not very different one from the other, but on the fourth side, or in the middle, we must have a taller building, such as a church or a Civic building - or a tower, or a big tree.

3. The shape of the space must be regular, but also varied. Curved lines and straight ones can very well combine together, but playing with regular lines and figures you can also obtain both variety and regularity.

4. Urban furniture must encourage different uses from different kind of persons. I think it is better to have elements were you can sit or jump or walk or play, than to have different elements for seating, for jumping and for playing - and so on.

5. Open public spaces must be alive and animated at different moments of each day and every day of the week. So you must have different functions mixed together: surrounding it, private homes and shops, public utilities and cafes and restaurants, used for occasional events and festivals, and so on.

6. Very small utilities can help to make a public space live: a simple mail-box and a bancomat and some telephones can be very useful, if the neighborhood is not large enough to justify a bank or a post-office.

7. Open public spaces must be at the very centre of neighborhood. Several routes must cross in it or near it. Public spaces don’t live only as a scenario, but typically as a focus point for a community.

8. Open public spaces must also be the hinge between the neighborhood and the city - between indoors and outdoors. A hinge in two senses: the door through which you enter in the neighborhood and the door from which you go out from the neighborhood and you enter the city.

9. Open public spaces must be the sites where the events that can interest the community happen : festivals and music bands, but also small markets or sites were the mayor or the candidates for elections meet the citizens.

10. And finally, I think it is better if in public open spaces you sense the presence of nature. You can have a view of the sea - like in Piazza San Marco in Venice or in Praça do Comerço in Lisboa - or some trees were there was once the water of canals - like in Campo Santa Margherita and Campo San Polo, or simply birds - like in Piazza San Marco and in so many open public spaces in Venice.

As you can see, I haven’t mentioned in these ten points anything about the styles of architecture. A debate about this point could well fill an entire conference.

My bad english was gently correctet by Patrice Rauszer, a good friend, that read and appreciated this paper in Eddyburg

Una tesi e un corollario

La tesi che vorrei argomentare è la seguente. Il processo di spopolamento delle aree interne e di quelle collinari, a “vantaggio” della concentrazione della popolazione, delle attività, degli investimenti, degli interessi, dei flussi di persone e di cose sulle aree costiere, è stato un processo parallelo a quello di erosione e di dequalificazione – infine di degrado e di deperimento – d’ogni risorsa non riducibile a merce, quindi in definitiva non riducibile a quell’unica merce che è la dominatrice del nostro mondo, cioè il denaro.

Questa tesi ha un corollario. I due processi cui mi sono riferito (squilibri territoriali e de-valorizzazione di tutte le risorse fuorché una), e il loro intreccio, non riguardano solo questa parte della Sardegna, né solo la Sardegna nel suo insieme, ma anche l’Italia, l’Europa, e il mondo nel suo complesso.

Tre conseguenze

Se questa tesi è attendibile, allora ne scaturiscono alcune conseguenza rilevanti.

La prima. L’azione che è stata intrapresa qui nel Barigadu, cioè il tentativo di arrestare lo spopolamento mediante una capillare azione di valorizzazione di tutte le risorse locali (dal paesaggio ai mestieri, dalle tradizioni alle case, dalle acque agli alberi, dalle persone agli animali, dal clima alle architetture, dalla solidarietà alla lingua) è l’azione giusta per contrastare quel processo ed è l’unico modo per superarne gli immensi aspetti negativi.

La seconda. Quest’azione è un’azione pilota nei confronti della speranza dell’intera umanità di sottrarsi a una prospettiva catastrofica: quindi è un’azione pilota per la Sardegna, per l’italia, per l’Europa, per il mondo intero.

La terza. È nell’interesse dello Stato – in tutte le sue articolazioni locali, nazionali e sovranazionali, appoggiare questa azione e – ove dia risultati soddisfacenti – impiegare risorse economiche e politiche per promuovere la generalizzazione degli indirizzii applicati, dei i metodi sperimentati, dei modelli elaborati.

Lo spopolamento: dall’equilibrio…

Se guardiamo una carta antica del territorio italiano, diciamo del XVI secolo, vediamo campagne e colline oggi deserte punteggiate da casolari e masserie, chiesette e fontanili, borghi e paesi.

Se guardiamo una restituzione dei rilevamenti vaticani o napoleonici del XIX secolo, o anche un IGM di primo impianto, vediamo dei segni meno ingenui, ma una realtà molto simile.

Per secoli rapporto tra uomo e territorio è rimasto stabile: l’insediamento, in una forma o nell’altra, era diffuso su tutti i territori abitabili.

Certo, in forme diverse: dove aggregato in paesi, circondati da una campagna priva di stabili segni di presenza umana – come qui in Burigado, o in vaste zone del Mezzogiorno continentale – e dove invece più sparso nei nuclei delle masserie organizzate.

In ogni caso una presenza diffusa sul territorio, dove perfino i boschi erano segnati dalla presenza dell’uomo, che li manteneva asportando i rami e i tronchi secchi per farne legna da utilizzare per le travi o i fuochi. (Quei tronchi e quei rami che, se non fossero stati rimossi, avrebbero impedito, e più tardi impedirono, il deflusso delle acque dei torrenti, provocando inondazioni e danni sia a monte che a valle).

I nostri paesaggi, che hanno fatto innamorare dell’Italia i massimi esponenti della letteratura e dell’arte del Settecento e dell’Ottocento europei, sono nati grazie a questo equilibrio. Ne rappresentano la testimonianza e il lascito: la testimonianza, e quindi l’insegnamento; il lascito, e quindi la ricchezza.

E i nostri prodotti da quelli alimentari (le diverse carni e i modi di cucinarle, i mille formaggi tutti buoni e tutti diversi, i vini famosi fin dai tempi dei fenici e dei romani, gli oli spremuti a freddo, e le tante tantissime paste che in certe regioni si moltiplicano) a quelli di un artigianato che spesso è l’anticamera dell’espressione artistica, tutto questo ha potuto essere inventato e accumulato e reso disponibile grazie a quell’equilibrio del rapporto tra uomo e territorio.

…alla rottura

A un certo punto quell’equilibrio si è rotto. La popolazione, le attività, gli investimenti sono franati a valle: nelle pianure litoranee, verso le coste.

Tutto lo “sviluppo” (quello sviluppo che abbiamo di recente compreso essere malato) si è rivolto verso i luoghi esterni rispetto ai cuori delle regioni.

Si è concentrato là dove il terreno era pianeggiante e poteva facilmente essere percorso dalle infrastrutture, dove potevano scorrere le macchine che nell’agricoltura avevano sostituito il bove e il mulo e perfino la fatica dell’uomo, dove le zone industriali potevano svilupparsi attingendo fiumi d’acqua dalle nascoste riserve delle falde superficiali e profonde, dove i fiumi e il mare potevano smaltire i veleni prodotti nelle fabbriche, dove le città potevano espandersi a volontà in tutte le direzioni.

In Italia ciò è accaduto, drammaticamente e tumultuosamente, negli anni del dopoguerra: prevalentemente negli anni dai Cinquanta ai Settanta, ma con code che si sono prolungate fino agli ultimi decenni del secolo scorso.

Tra il 1961 e il 1971 la popolazione rurale, ha perduto quasi 5 milioni di unita. La popolazione residente dei Comuni costieri è aumentata del 12,4% tra il 1951 e il 1961 e del 14.2% tra il 1961 e il 1971. All’inizio degli anni Settanta la metà della popolazione viveva già nei comuni costieri

Al 1951 il 45% della popolazione risiedeva in comuni piccoli e territorialmente sparsi. Al 1971 i comuni inferiori ai 10.000 abitanti raccoglievano il 35% della popolazione.

Nel complesso, si calcola che nel ventennio 1951-1971 17 milioni di italiani hanno cambiato la residenza. Un fenomeno, quindi, di dimensioni gigantesche.

Ma un fenomeno che – in tempi diversi e in modi diversi – si è sviluppato e sta sviluppandosi in tutto il mondo.

Non so se avete avuto occasione di vedere quelle fotografie dal satellite che il sito web della NASA mette a nostra disposizione. Periodicamente inseriscono una immagine, ottenuta unendo tra loro una successioni di immagini scattate dal satellite, che restituisce la visione del nostro pianeta di notte. Potete vederlo andando qui: http://www.antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/

È un’immagine per me terrificante. Le zone illuminate sono tutte lungo le coste, in Europa come in Australia, in Asia come nelle Americhe. Le vaste plaghe prive di ogni lumicino danno un’idea fortissima dei giganteschi squilibri che caratterizzano la nostra terra.

Il deperimento delle risorse

Sappiamo quali fenomeni si accompagnino alla concentrazione della popolazione, Sappiamo quali sono i grandi problemi sociali, umani,m economici, urbanistici delle aree metropolitane, i conflitti d’ogni tipo – tra cui quello con un ambiente sempre più degradato, inquinato, avvelenato. Ma io vorrei porre l’accento sul prezzo che la collettività paga per il deperimento delle risorse che avviene là dove il peso della popolazione e delle attività di riduce: nelle zone di spopolamento e d’abbandono.

Ho già accennato all’inizio a ciò che ritengo costituisca risorsa, in un modo corretto di intendere questo termine. Ho parlato di paesaggio e di mestieri, di tradizioni e di case, di acque e di alberi, di persone e di animali, di clima e di architetture, di solidarietà e di lingua e cultura.

Vorrei soffermarmi su una risorsa che è di gigantesche dimensioni e che è abbastanza trascurata. La sua importanza mi è apparsa in tutta la sua evidenza in un convegno, organizzato a Roma da Italia nostra, cui ho partecipato la settimana scorsa. Mi riferisco al territorio rurale, questo elemento che qui è davvero dominante.

Una risorsa rilevante: il territorio rurale

Il territorio rurale – il contenitore e la matrice dei nostri paesi - è una risorsa importante per molte ragioni.

È una risorsa perché è un serbatoio di naturalità addomesticata, che racconta la storia del rapporto fecondo dell’uomo con la natura, che conserva quindi per noi e per i posteri la memoria della nostra civiltà. E senza memoria, senza consapevolezza della propria storia, una civiltà non esiste. (Vi consiglio molto caldamente, a questo proposito, di leggere il bellissimo libro di Piero Bevilacqua, Utilità della storia, Donzelli

È una risorsa perché è una riserva di natura viva, capace di restituire alla vita nostra (e dei nostri posteri) l’ossigeno, l’energia vivente, la ricreazione serena che sono gli indispensabili antidoti per i veleni che il nostro “sviluppo” produce. E sempre più l’importanza di questo antidoto appare evidente a gran parte degli abitanti della metropoli, se è vero – come è vero – che cresce ogni anno la quota di visitatori che, nei periodi delle vacanze dal lavoro, preferiscono la campagna, i monti e le colline, le piccole città e i paesi alle grandi concentrazioni vacanziere delle riviere marine, sovraffollate, metropolizzate e trasformate in divertimentifici.

Ed è una risorsa perché è la matrice di una produzione di beni i quali – se sottratti alle tendenze all’omologazione e alla mercificazione che li sta mano a mano privando di ogni individualità – possono costituire strumenti importanti sia di uno sviluppo economico sostenibile sia una vita la cui qualità non si riduca a quella degli hamburger, della coca cola e delle vitamine in pillole.

Su quest’ultimo punto vorrei un momento soffermarmi. Vorrei parlarvi dell’alimentazione del mondo.

L’alimentazione nel mondo

Mi riferisco alle analisi e alle proposte di Frances Moore-Lappe, e al suo libro ‘ Diet for a Small Planet’ La Moore-Lappe è fondatrice dell’Institute for Food and Development Food First. Sostiene, e dimostra, che nel mondo esiste cibo a sufficienza a sfamare tutti i suoi abitanti se si cambia il modo di produrre alimenti rispetto a quello tendenziale. Sostiene che oggi si è adottato un approccio di tipo industriale ed estrattivo verso l’agricoltura e che da questo approccio consegue il fatto che si sta cambiando l’abbondanza in penuria. In una parola, la produzione di proteine alimentari avviene attraverso uno spreco così sterminato di prodotti alimentari primarti da mettere a rischio la capacità di alimentazione della popolazione planetaria.

"Per comprendere come ci si sia arrivati– sostiene la Moore-Lappe in un’intervista all’Espresso - bisogna risalire al prezzo dei cereali negli anni Cinquanta. All’epoca il prezzo delle granaglie era al di sopra delle capacità d’acquisto di gran parte della popolazione mondiale, di conseguenza il mercato registrava una situazione di intasamento. Così, per stabilizzare i prezzi, i produttori decisero di dare da mangiare il surplus agli animali d’allevamento. Un’abitudine rimasta immutata: le quantità di cereali date in pasto agli animali da macello superano di gran lunga quelle che vengono consumate dalla popolazione mondiale".

Secondo la Moore-Lappe, cambiando abitudini alimentari si può modificare l’equilibrio economico mondiale. Introducendo e generalizzando una dieta basata non più sulle proteine prodotte attraverso la trasformazione dei cereali in carni nella catena industriale dell’allevamento, ma su una stretta integrazione tra cereali, verdure e carni allevate naturalmente. L’esempio è la dieta mediterranea.

"Una dieta basata sulle piante piuttosto che vegetariana. Una dieta nella quale ci siano cereali non raffinati coltivati quanto più possibile localmente e senza pesticidi o fertilizzanti chimici”. Per integrare le verdure, il grano e la frutta si usano legumi, noci e semi, carne e prodotti di animali che non siano stati stati alimentati con granaglie e siano cresciuti nei pascoli aperti.

“Questa – sostiene la Moore-Lappe - non solo è la dieta più salutare, ma anche quella che pesa di meno sulle risorse della Terra. Purtroppo lo stile alimentare che ha prevalso nel mondo è quello statunitense a base di proteine e grassi animali. In questo senso gli Stati Uniti rappresentano l’apoteosi dello spreco; in questo paese: ci vogliono otto chili di grano e soia per produrne mezzo di carne. E ora stiamo esportando questo modello nel mondo”.

La Moore-Lappe fa altre due riflessioni interessanti. “La prima: sicuramente è più efficiente mangiare direttamente quello che coltiviamo senza doverlo prima somministrare ad animali. La seconda: nel mondo molti si stanno rendendo conto che l’unica strada sensata è quella di crescere e consumare cibi prodotti localmente, mantenendo la presenza di piccole e medie aziende agricole senza permettere che le nostre coltivazioni finiscano col dipendere dai fertilizzanti chimici. Non c’è dubbio inoltre che è anche più efficiente, almeno in termini energetici e sanitari, non trasportare il cibo lungo grandi distanze”.

E fa una una riflessione che definirei culturale."Riprendersi la propria alimentazione è anche una maniera per ritrovare un senso di direzione nella vita e appagamento spirituale. Nelle culture tradizionali il cibo è un elemento centrale della socializzazione; è intorno al tavolo che si incontrano i vari membri di una famiglia, che si riconnettono i percorsi personali, si celebrano gli avvenimenti importanti, e quando il cibo proviene dalla stessa comunità in cui viviamo, il senso di completezza è ancora più grande. Uno degli effetti inaspettati di quest’opera di ricollegamento tra la città e la campagna è la rinascita spirituale e morale delle comunità che ne sono interessate".

Quando si parla di modelli di sviluppo, le chiede l’intervistatrice, si finisce sempre nella dicotomia progresso-globalizzazione contro il ritorno all’antico. Come si fa a evitare questa trappola? "La soluzione è nella convivenza di scienza e tradizioni popolari. Questa convergenza nel settore agricolo sta producendo risultati interessanti: penso all’agroecologia, all’agricoltura sostenibile. Ci hanno insegnato come coltivare senza fertilizzanti chimici e gli ultimi studi scientifici ci hanno dimostrato che questi metodi producono quanto se non di più del metodo industriale intensivo. Non si tratta quindi di tornare indietro nel tempo. Ma, consapevoli delle nostre tradizioni, di proiettarci nel futuro costruendo sulle conoscenze che abbiamo acquisito".

Una battaglia d’avanguardia

Ho voluto citare a lungo questa intervista, e le tesi della Moore-Lappe, per sottolineare un punto. Il tentativo di sperimentare un modello di sviluppo basato sull’uso intelligente e “moderno” delle risorse locali – di quelle stesse risorse che lo sviluppo contemporaneo tende a degradare e distruggere – non è un tentativo di resistere a una direzione di marcia inarrestabile. Non è una battaglia di retroguardia. Non è la difesa assistenzialistica di piccole comunità che vogliono vivere come hanno sempre vissuto.

No. È, invece, la sperimentazione di un modello che può risolvere una crisi mondiale, che può permettere al nostro pianeta di evitare la gigantesca trappola nella quale uno sviluppo finalizzato unicamente alla crescita di alcuni grandi patrimoni privati ci sta portando.

Difendere e sviluppare le produzioni locali, promuovere le produzioni “di nicchia”, legare tutto ciò al territorio, al paesaggio, al capitale fisso sociale, alla ricchezza delle risorse che infinite generazioni hanno sedimentato qui, in questo luogo, offrire queste viventi ricchezze in uso a quanto voglianoi venure qui a goderne e a imparare da esse. Questo è un programma che non solo evita lo spopolamento – e lo spereco di risorse che ciò comporta – ma che indica una strada che il mondo intero può percorrere, deve percorrere, se vuole evitare il suo deperimento e la sua crisi.

Il nocciolo del problema

C’è un punto sul quale occorre riflettere, un punto molto complicato, che ci indica quanto sia complesso il problema che sta dietro a tutto ciò intorno a cui ragioniamo.

Quando parliamo di territorio, di paesaggio, di campagna (e di centri storici di monumenti di casali e di filari di alberi, di colline e di terrazzamenti, e di prodotti artigianali, di tradizioni, di prodotti peculiari di certi luoghi, caratterizzati da certi particolare profumi e sapori), noi parliamo di “beni”: di oggetti che ci interessano in relazione all’uso (estetico, didattico, ricreativo, alimentare ecc.) che se ne può fare. Parliamo di qualità, di differenze, di individualità.

E in effetti l’economia classica (Adamo Smith, David Ricardo, Karl Marx) aveva individuato due valori (o due aspetti, due componenti del valore): il valore d’uso e il valore di scambio. Il primo, il valor d’uso, si riferiva proprio alla qualità e all’individualità degli oggetti in relazione all’uso che l’uomo ne può fare. Il secondo, il valore di scambio, si riferiva invece all’equivalenza tra gli oggetti, alla loro capacità di essere scambiati lì’uno per l’altro – e tutti al loro equivalente monetario.

Per il primo, il valor d’uso, ogni oggetto è un bene. Per il secondo, il valore di scambio, ogni oggetto è una merce, conta in quanto merce.

Se la teoria economica aveva individuato con precisione entrambi questi requisiti degli oggetti, e aveva dato ad entrambi l’attributo del valore, l’economia pratica del sistema capitalistico (l’unico vigente) si è polarizzata solo sul valore di scambio, la moneta, gli schei.

L’intera economia si è ridotta a questo, e il valore d’uso è scomparso dalla scena. Ogni bene è stato ridotto a merce, e il bene in quanto tale non ha più alcun riconoscimento. Questo è il punto, questo l’obiettivo da raggiungere nella riflessione teorica e nella pratica del sistema economico: restituire legittimità economica a realtà (i “beni”) che oggi hanno solo legittimità morale.

Io credo che lo sforzo di sperimentare un modello alternativo di sviluppo, basato sulle risorse in quanto beni, in quanto individualità, qualità, differenza, sia anche un modo di aprire la strada a una concezione diversa dell’economia, e quindi della società. O, almeno, a stimolare la riflessione su di essa, e la consapevolezza della sua esigenza.

Perché è solo dalla consapevolezza delle esigenze di cambiamento che nascono i cambiamenti nella realtà.

Premessa

Questa giornata è iniziata con un intervento di apertura, quello di Grazia Francescato, che ha illustrato una visione ampia, globale, ragionevolmente pessimistica del mondo di oggi. Una denuncia appassionata e convinta delle tendenze in atto, dei loro effetti perversi. Non voglio contestare niente dell’intervento di Francescato, poiché ne condivido tutto. Voglio però propormi (a differenza di altri) di riprendere l’indicazione che ha dato, verso la fine del suo intervento, a lavorare qui e ora per contrastare quella tendenza, e in particolare per evitare che il mondo si trasformi in quella “repellente crosta di cemento e asfalto” di cui così spesso parlava Antonio Cederna.

E vorrei partire proprio dal tema del nostro convegno (l’identità del territorio) e dal comprendere in che modo la pianificazione territoriale può contribuire a conservarla e confermarla.

Che cos’è l’identità del territorio

L’identità di un territorio è costituita da molte cose: la lingua, la cultura materiale e quella dei “mandarini”, la forma delle città, delle case e degli arredi, il paesaggio nelle sue diverse componenti, la memoria comune, i nomi e i patronimici delle persone, i sapori naturali e quelli delle composizioni culinarie, i materiali adoperati per vestirsi e per costruire…

Non credo affatto d’aver costruito un elenco completo, ma spero d’aver fatto comprendere che ho la consapevolezza della dimensione, dello spessore di ciò di cui stiamo parlando.

E però gli strumenti che adopero, il mestiere che pratico consentono di agire su alcuni soltanto di questi elementi. Prevalentemente, con quelli che hanno a che fare con la forma del territorio – il paesaggio, quindi – e col modo nel quale la società utilizza il territorio e le sue risorse.

Paesaggio

Dell’importanza del paesaggio nella determinazione (e nella tutela) dell’identità vi è consapevolezza da moltissimi anni. Vorrei ricordare un’espressione del ministro per la Pubblica istruzione dell’ultimo ministero Giolitti, Benedetto Croce, nel 1920.

Scriveva Croce:

Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” ( Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo [i].

Il paesaggio, quindi, come fisionomia, caratteristica, singolarità – come identità, insomma - per la quale una nazione (e una regione, una provincia, una città) si differenzia dall’altra.

Società

Ho parlato di paesaggio, e ho parlato – a proposito di ciò su cui la pianificazione può agire - del modo in cui lasocietà usa le risorse del territorio. Parlare di società impone però almeno una precisazione.

Di quale società parliamo quando parliamo di identità di un territorio?

Certo, parliamo della società di oggi: è questa la società in cui viviamo, con i cui occhi guardiamo, i cui gusti condividiamo (magari non tutti), i cui interessi cerchiamo di servire. Certo, parliamo di questa società frantumata, questa civitas che si esprime nelle forme di quella urbs dissolta e aberrante che ci ha illustrato poco fa Antonio Clemente. (Ma è anche, non dimentichiamolo, una civitas che ancora vive e ama le cento città che non sono ancora megalopoli né marmellata urbana).

Ma se parliamo di identità del territorio, e colleghiamo la nozione di identità a quella di memoria, di storia, di cultura (delle radici della società di oggi, del suo passato) non possiamo fare a meno di proiettarla anche nel futuro. Non possiamo fare a meno di riferirci anche alla società didomani, alle generazioni che ancora non sono nate.

Sostenibilità

Ecco allora che il concetto di identità, oltre che al concetto di paesaggio e a quello di società, si lega anche al concetto di sostenibilità. Perché parlare di sostenibilità, di sviluppo sostenibile, non significa parlare di uno sviluppo che risparmi, dove può e quando può, qualcosa dell’ambiente. Non significa alludere a mediazioni, a compromessi, tra un’esigenza (lo sviluppo) che di per sé consuma e distrugge risorse ambientali, e un’altra esigenza che viceversa quelle risorse vorrebbe conservare.

Sviluppo sostenibile significa invece “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri” [ii]. E’ una definizione ben più severa di quella della mediazione e del compromesso. Significa assumere, per la stessa valutazione dello sviluppo, parametri radicalmente diversi da quelli adoperati correntemente. E nella pratica significa a fare dei rigorosi bilanci tra le risorse che si impiegano per trasformare il territorio e dar luogo a nuove attività e le nuove risorse che si reimmettono nel ciclo vitale.

I compiti della pianificazione territoriale

Identità, paesaggio, società, sostenibilità. Stabiliti questi collegamenti mi resta da raccontare in che modo la pianificazione territoriale possa aiutare a conservare l’identità di un territorio.

Intanto, che cos’è un piano territoriale. Non voglio ripercorrere il faticoso percorso che ha portato anche l’Italia ad adottare la pianificazione d’area vasta. Voglio solo ricordare che la necessità della pianificazione territoriale è correlata a quel grandioso e terribile fenomeno per cui, con lo sviluppo del sistema capitalistico-borghese, il processo di “utilizzazione urbana” è esploso oltre i confini della città e ha investito l’intero territorio di vaste regioni del mondo.

E voglio soprattutto ricordare i tre compiti che, in Italia, si tende ad affidare alla pianificazione territoriale.

Un primo compito è quello di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società.

Un secondo compito è quello di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia.

Un terzo compito è quello di indirizzare a priori (anziché controllare a posteriori, come oggi avviene) le attività sul territorio degli enti sottordinati al comune in primo luogo i piani urbanistici dei comuni.

Vale la pena di soffermarsi sul secondo compito, quelle delle competenze proprie della provincia. Poiché oggi questa competenze non si limitano più soltanto alla viabilità infraregionale, all’istruzione superiore, alla caccia e pesca e a determinati rami dell’assistenza sanitaria, come una volta. Oggi alla provincia competono forti poteri in materia di ambiente, di paesaggio, di agricoltura, di uso e gestione delle risorse.

Questo a partire dagli anni Novanta: precisamente, da quella legge 142/1990 che attribuisce alla provincia nuovi e rilevanti compiti, riscattandola da quel destino di ente locale di serie B che aveva finito per assumere. Ed è interessante osservare che è proprio in quegli anni che il Parlamento approva le tre rilevanti leggi per la tutela delle risorse dell’ambiente quella per il paesaggio, la 431/1995, quella per la difesa del suolo e delle acque, la 183/1989, e quella per le aree protette, la 394/1991.

Nella stessa legislazione delle Regione Puglia (che a me sembra tra le più arretrate) si afferma che

il piano territoriale di coordinamento assume l’efficacia di piano di settore nell’ambito delle materie inerenti la protezione della natura, la tutela dell'ambiente, delle acque, della difesa del suolo, delle bellezze naturali, a condizione che la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intesa fra la Provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti. [iii]

Ma per renderci cono dell’evoluzione della cultura e della prassi della pianificazione territoriale nel nostro paese diamo un’occhiata a quanto hanno stabilito legislazioni regionali più avanzate.

La nuova legislazione regionale

Par due decenni le regioni sono rimaste paralizzate nell’obbedienza alla legge urbanistica del 1942, dimenticando che la Costituzione repubblicana attribuiva loro competenze primarie in materia di legislazione urbanistica, Dal 1990 hanno cominciato a muoversi, e hanno sfornato leggi interessanti e proposto meodi e strumenti innovativi nel governo del territorio. Varrà la pena di esaminarne sinteticamente qualche aspetto. Su due in particolare vorrei brevemente soffermarmi: l’ambiente e la conoscenza.

In tutte le leggi considerate la tutela e la riqualificazione dell’ambiente, la sostenibilità ambientale, le risorse naturali e storiche del territorio, la sua integrità fisica e identità culturale, l’ecologia – insomma, le diverse accezioni e definizioni e accentuazioni delle risorse territoriali – acquistano un peso rilevante nella indicazione dei contenuti, degli obiettivi e anche (nei casi più interessanti) nei procedimenti della pianificazione.

Tra le asserzioni di carattere generale merita di essere segnalato il testo della legge della Toscana[iv]:

Nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente. Le azioni di trasformazione del territorio sono soggette a procedure preventive di valutazione degli effetti ambientali previste dalla legge. Le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali del territorio.

Le dichiarazioni di volontà e d’intenti possono essere fuorvianti o ipocrite. Conviene allora verificare in che modo l’interesse per le risorse del territorio si esprime nei contenuti e nei meccanismi della pianificazione. Citando ancora la legge della Toscana, la conseguenza precettiva dell’asserzione ora citata è la seguente:

Tutti i livelli di piano previsti dalla presente legge inquadrano prioritariamente invarianti strutturali del territorio da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile nei termini e nei modi descritti dall'articolo 1 (articolo 5, comma 6).

Alcune regioni attribuiscono già al livello regionale la “attenta considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Così la legge dell’Umbria, quella dell’Emilia omagna, quella della Liguria. la legge della Basilicata dedica il più “solido” dei suoi atti di livello regionale (la “Carta dei suoli”), alla “la perimetrazione dei Sistemi (naturalistico-ambientale, insediativo, relazionale) che costituiscono il territorio regionale, individuandoli nelle loro relazioni e secondo la loro qualità ed il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità”.

Ma è nella pianificazione di livello provinciale il contenuto ambientale, è sempre indicato con particolare incisività, con efficacia precettiva diretta o almeno indiretta. Così:

in Toscana il piano territoriale provinciale contiene: “a) il quadro conoscitivo delle risorse essenziali del territorio e il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità in riferimento ai sistemi ambientali locali indicando, con particolare riferimento ai bacini idrografici, le relative condizioni d'uso, anche ai fini delle valutazioni di cui all'articolo 32 ; b) prescrizioni sull'articolazione e le linee di evoluzione dei sistemi territoriali, urbani, rurali e montani” (articolo 16).

In Umbria il piano urbanistico provinciale, tra l’altro: “a) sulla base delle caratteristiche geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio stabilisce le linee di intervento nelle aree oggetto di difesa del suolo e delle acque e per le attività estrattive; individua altresì le aree che richiedono ulteriori studi ed indagini a carattere particolare, ai fini della pianificazione comunale; provvede alla tutela ecologica del territorio anche mediante la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche ed alla prevenzione dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo; b) individua gli ambiti del territorio agricolo e boschivo che presentano caratteristiche omogenee e detta criteri per le relative discipline d'uso; detta altresì criteri per la localizzazione degli allevamenti agro-zootecnici con particolare riferimento a quelli che comportano particolare impatto ambientale; (…) e) individua le parti del territorio ed i beni di rilevante interesse paesaggistico, ambientale, naturalistico e storico-culturale, comprese le categorie di cui all'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, da sottoporre a specifica normativa d'uso per la loro tutela e valorizzazione; indica le aree da destinare a parco o a riserva naturale con particolare riferimento a quelle individuate dal Sistema parchi ambiente regionale; f) definisce le vocazioni prevalenti per ambiti del territorio provinciale con particolare riferimento a quelli nei quali sono necessari interventi di tutela, conservazione e ripristino ambientale, indicando le relative destinazioni di massima, i criteri e gli indirizzi, al fine di favorire l'uso integrato delle risorse territoriali;

In Liguria il piano provinciale, nella “struttura del piano”, tra l’altro: individua “le parti del territorio provinciale atte a conferire organicità e unitarietà, sotto il profilo della rigenerazione ecologica, al disegno di tutela e di conservazione ambientale delineato dalla pianificazione (…) c) integra e sviluppa gli elementi del PTR nella sua espressione paesistica, secondo le indicazioni contenute nel piano stesso, come stabilito dall’articolo 12, comma 3; d) definisce i criteri di identificazione delle risorse territoriali da destinare ad attività agricole e alla fruizione attiva, anche a fini di presidio ambientale e ricreativi; (…) f) definisce le azioni di tutela e di riqualificazione degli assetti idrogeologici del territorio, recepisce ed integra ove necessario, a norma della vigente legislazione in materia, le linee di intervento per la tutela della risorsa idrica, per la salvaguardia dell'intero ciclo delle acque, fermo restando il disposto di cui all’articolo 2, comma 5, e coordina gli effetti dei piani di bacino sulla pianificazione locale.

In Emilia Romagna il piano territoriale provinciale, tra l’altro: “c) definisce i criteri per la localizzazione e il dimensionamento di strutture e servizi di interesse provinciale e sovracomunale; d) definisce le caratteristiche di vulnerabilità, criticità e potenzialità delle singole parti e dei sistemi naturali ed antropici del territorio e le conseguenti tutele paesaggistico ambientali; e)definisce i bilanci delle risorse territoriali e ambientali, i criteri e le soglie del loro uso, stabilendo le condizioni e i limiti di sostenibilità territoriale e ambientale delle previsioni urbanistiche comunali che comportano rilevanti effetti che esulano dai confini amministrativi di ciascun ente” (articolo 26).

Infine, praticamente tutte le leggi regionali prescrivono che la base, il fondamento, il primo passo della pianificazione territoriale (e della pianificazione tout court) siano rappresentati da un sistema informativo territoriale. Un sistema in grado di connettere tra loro le numerosissime banche dati disponibili presso gli enti pubblici, nonché quelle da costituire ai fini specifici della pianificazione territoriale e urbanistica. Un sistema capace di essere sistematicamente aggiornato in relazione alla dinamica dei fenomeni, di essere precisamente riferito al territorio (“georeferenziata”), di essere consultato e utilizzato da una pluralità di soggetti: da quelli che hanno concorso a costruirla, a quelli che intendono utilizzarla per le loro azioni, e infine dai cittadini che vogliano conoscere il loro territorio e seguire le politiche.

I contenuti della pianificazione territoriale

Ritornando alla pianificazione territoriale, e al modo in cui la stiamo applicando nella Provincia di Foggia, possiamo allora tornare ai contenuti del piano per quanto concerne l’esplicazione sul territorio delle competenze provinciali.

Dobbiamo domandarci allora in primo luogo come distinguere le competenze della provincia da quelle degli altri enti locali a rappresentatività diretta, la Regione e il Comune?

Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Secondo il principio di sussidiarietà là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. La scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

Da questo punto di vista, applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree di competenza, che definiscono i contenuti del piano provinciale:

- la tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla sua capacità di sopportazione (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva.

- Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale, richiedono ugualmente un inquadramento, per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale.

- La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto vorrei svolgere una considerazione conclusiva, cioè rispondere a un’ultima domanda: esiste una identità della provincia?

L’identità della provincia

Perché un soggetto, un ente, possa avere un’identità è necessario che esso sia un organismo: che sia cioè un insieme di parti legate tra loro in modo che ciascuna di esse sia necessaria alle altre, tali cioè da essere caratterizzate da un’autonomia solo relativa. Così è l’uomo, così la città, così è la nazione. Possiamo dire che la Provincia sia un in tal senso organismo?

Molti possono sostenere il contrario. Possono ricordare l’arbitrarietà dei confini della provincia nati – nell’età napoleonica - in funzione del massimo percorso che poteva fare in un giorno il possidente che doveva pagare le imposte, o lo squadrone a cavallo dei gendarmi per sedare la sommossa nel paese più lontano. Possono ricordare la povertà dei poteri che le province hanno avuto fino a un decennio fa.

Io invece sono convinto che la Provincia è un organismo o, meglio, che può esserlo. E può esserlo proprio se affronta quella questione – la corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativi che hanno rilevanza sovracomunale - che costituisce uno dei contenuti essenziali del piano territoriale provinciale. Un organismo le cui parti (il Gargano e i Monti della Daunia, la città capoluogo e gli altri centri rilevanti della Capitanata, l’aeroporto e il porto e gli ospedali e l’università e le scuole superiori e i centri sportivi, e il sistema delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità delle persone e delle merci, siano tutti elementi legati dalla complementarietà dei ruoli, dalla integrazione delle funzioni, dalla reciprocità delle relazioni, dalla frequenza dei flussi.

E’ anche attraverso la vita in comune che questa organizzazione del territorio può determinare che può nascere, o può consolidarsi, quel comune sentire, quel partecipare a un comune destino e a una comune ricchezza, che sono i connotati più profondi dell’identità di un territorio.

Edoardo Salzano

[i] B. Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920. Il testo, sconosciuto ai più, mi è stato segnalato da Antonio Iannello, tenace e vigoroso organizzatore di memorabili vertenze contro la devastazione del paesaggio e dei beni culturali a Napoli e nella Penisola sorrentina e amalfitana.

[ii] Aa.vv, Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1989.

[iii] Comma 2 dell’articolo 6 della legge regionale 20/2001; riprende quanto già stabilito dal comma 2 dell’articolo 5 della legge regionale 25/2000, parafrasando, in ogni caso, l’articolo 57 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.

[iv] Legge regionale 5/1990, articolo 5 - Norme generali per la tutela e l'uso del territorio, comma 3

Caro Dino,

non ti nascondo il mio vivissimo stupore nel leggere le righe che Gigi Mazza ha dedicato al mio articolo su “Urbanistica” n. 118.

Anziché discutere, e magari contestare, le mie critiche alla sua proposta Mazza si dichiara offeso per le mie affermazioni calunniose contenute nelle seguenti righe: “La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che l’Autore del documento milanese dà a quelle pratiche è indice d’una rilevante linea di continuità degli indirizzi che, conclusa la stagione di Mani pulite, ora si (ri)propongono”. La sua indignazione per questa frase lo esime di fatto dall’entrare nel merito delle mie critiche al Documento.

Ora si dà il caso che:

  1. quelle affermazioni “calunniose” erano già presenti in una relazione che avevo svolto nell’ottobre 2000 in un convegno dell’associazione Polis, e il cui testo avevo consegnato personalmente a Mazza in un incontro all’Università Roma 3 nel giugno 2001 e inserito nel mio sito web;
  2. al mio testo Mazza aveva risposto con una lettera del settembre 2001: lettera civile, corretta, amichevole, nella quale difendeva il Documento dalle mie critiche (sebbene senza convincermi affatto); alla questione che lo ha offeso nel 2002 nel 2001 dedicava una marginale nota a piè di pagina;
  3. in un mio intervento scritto per un forum organizzato da “Urbanistica” nel novembre 2001 rispondevo puntualmente agli argomenti sollevati da Mazza nella sua lettera, precisando anche che cosa intendessi nel mio riferimento alla continuità della linea proposta dal Documento con l’ideologia sottesa a Tangentopoli.

Non solo. Come ben sai, nel testo del mio articolo pubblicato su “Urbanistica” non c’è più quella frase incriminata, che compariva nel testo inviato in precedenza e che (apprendo dall’articolo sulla tua rivista) aveva fatto retrospettivamente indignare Mazza. Come sai, non avendo la possibilità di svilupparne più ampiamente il significato e rendendomi conto che poteva, di per sé, suonare sgradevole per Mazza (che consideravo e considero un mio amico) con una lettera alla redazione avevo chiesto di sopprimerla. Cosa che naturalmente è stata fatta.

Immagino lo sconcerto del lettore diligente, che abbia voluto riscontrare sul mio testo le citazioni di Mazza! E permettimi di osservare che questo sconcerto (come la stizzita impennata di Mazza) avresti potuto evitarli se, come Direttore della rivista e amico di entrambi, avessi fatto presente a Luigi che esprimeva la sua indignazione per una frase che non c’era.

Ti sarò grato se vorrai pubblicare queste mie precisazioni nel numero di “Urbanistica” in corso di preparazione.

Relazione al Convegno PolisEboli, 14 ottobre 2000

(stralcio)

La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice.

Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante.

In questi anni di nuovo Milano si presenta con una novità dello stesso segno. Una novità importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato. Grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.

Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegnano ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.

[omissis]

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli [1]. La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che gli autori del documento milanese danno a quelle pratiche mi sembra significativa, e preoccupante.

Lettera di Luigi Mazza a Edoardo Salzano

5 settembre 2001

Caro Eddy,

mi scuso per non aver reagito al testo che mi avevi consegnato l’ultima volta che ci siamo visti a Roma. Vedo ora una stampa della tua relazione di Eboli (14/10/00), tratta dal sito IUAV. e colgo l’occasione per scriverti. Ho l’impressione che i tuoi necessari pregiudizi (chi potrebbe farne a meno) in questo caso siano particolarmente forti e mi piacerebbe provare a discutere con te con un po’ di calma, non durante le solite inconcludenti tavole rotonde. Le tue osservazioni sono molte (mi chiami anche “Autore”, una presa in giro in cui spero di poter cogliere anche una sfumatura affettuosa), più che riprenderle puntualmente — potrò se mai farlo in seguito, una volta chiarite alcune questioni di fondo — provo a procedere dalla considerazione dei cinque principi di buona pratica urbanistica che tu elenchi. Sui cinque principi è facile concordare, anche se ad una seconda lettura è possibile un’incertezza sul preciso significato del primo e del quinto principio; inizio di qui.

Il primo principio afferma “ Il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio”, il quinto “La garanzia degli interessi collettivi coinvolti”. Poiché ritengo che il primato del pubblico consista nel garantire gli interessi collettivi, mi chiedo per quale ragione tu separi e allontani i due principi. Due possibilità: (i) il quinto principio è una sottolineatura del primo, in quanto il “primato del pubblico” sta per il primato del pubblico interesse; (b) “il primato del pubblico” non indica il primato del pubblico interesse, ma il primato dello Stato, definito come attore che ha un primato su gli altri attori.

Nel caso in cui la prima interpretazione sia quella giusta — considererò poi la seconda — mi chiedo quale sia in urbanistica il modo migliore per l’attuazione pratica del primato del pubblico (interesse). La mia convinzione è che il piano regolatore — o altre forme di piano con valore giuridico impositivo — non siano più uno strumento efficace; lo sono stati, in qualche misura, quando il problema era l’espansione urbana, non lo sono più oggi. In ogni caso, sia o non sia il piano uno strumento efficace, quasi mezzo secolo di urbanistica insegna che, non solo a Milano, le scelte di piano sono attuate quando esiste un attore politico che ha la volontà e la forza politica per sostenere quelle scelte. Se viene meno il sostegno politico le scelte vengono variate e il piano modificato. Le varianti possono essere motivate da mutamenti del contesto e delle finalità perseguite, ma spesso accade che siano il risultato della pressione di interessi particolari, indifferenti all’interesse pubblico o in conflitto con esso, in questi casi l’esperienza insegna che il potere impositivo del piano non costituisce mai o quasi mai una difesa efficace; contro varianti che abbiano il sostegno, anche solo passivo, del potere politico non c’è legge o magistratura che tenga [2]. Il primato dell’interesse pubblico in urbanistica non credo sia mai garantito dalla legge [3], può essere garantito solo da una politica forte di un adeguato consenso. Se lo stesso adeguato consenso agisce contro l’interesse pubblico, la legge, come sappiamo, non sarà sufficiente ad impedirlo. In tutto ciò credo non ci sia nulla di sorprendente e scandaloso, a meno di ritenere che esista un ‘altrove’ — la scienza urbanistica? — in cui è possibile rintracciare un modello del bene e dell’interesse pubblico di cui il piano degli urbanisti costituisce la rappresentazione e a cui le pratiche politiche e tecniche devono conformarsi.

Molti anni fa Haar ha definito il piano urbanistico “una costituzione impermanente” intendendo con ciò, ritengo, un contratto sociale che può e deve essere modificato per adeguarlo ai possibili mutamenti di contesto e delle finalità della comunità, ovvero, deve essere modificato quando esistano ragioni sufficienti per farlo. E le ragioni non sono necessariamente degli interessi particolari in contrasto con l’interesse generale, anche perché l’interesse generale, come del resto il piano, non sono un dato, ma il prodotto di un progetto politico; un progetto che riesce a costruire una mediazione tra interessi particolari e intorno ad essa organizza un consenso sufficiente per perseguire gli obiettivi che si è proposto. Il piano è un contratto sociale proprio perché negozia e disegna una mediazione tra interessi; la mediazione non è neutrale ed equilibrata, è sempre orientata da una prospettiva ridistribuiva che premia alcuni interessi a scapito di altri, la scelta degli interessi dipende dal progetto politico, ovvero da chi e come è stato definito l’interesse pubblico; ancora una volta, com’è giusto, la scelta torna alla politica. Nelle pratiche l’urbanistica è sempre stata contrattata (nelle sacrestie, nelle sedi dei partiti, nei rotary, ecc.), se vogliamo usare un’espressione accademica, è sempre stata, come ogni decisione importante, il prodotto di una o più policy community che nelle occasioni migliori si assumevano il compito di strutturare il dibattito e preparare la discussione del consiglio comunale, nelle peggiori riducevano il consiglio ad una cassa di risonanza pubblica delle decisioni già assunte altrove. Il piano con valore impositivo ha sempre costituito una formidabile risorsa di scambio (e di corruzione) nei rapporti tra sistema politico ed economico e quindi all’interno dello stesso sistema politico; uno scambio che avveniva nell’ombra e si travestiva nel dibattito formale, quando spesso maggioranza e opposizione, avendo già raggiunto un accordo, recitavano in pubblico una falsa contrapposizione. Contrapporre un’urbanistica contrattata ad un’urbanistica non contrattata è un’ingenuità o un’ipocrisia. L’urbanistica — anche la più autoritaria — è nelle pratiche sempre contrattata, il problema è contrattarla bene e sottoporre la contrattazione ad un controllo trasparente, ovvero rendere esplicita la contrattazione che produce le scelte e comprensibili le ragioni che le giustificano, i nomi di coloro che le hanno assunte e sottoscritte, e non nascondere le scelte, come è sempre accaduto, dietro il velo anonimo del piano che tutto legittima perché, per definizione, è legge (ottima) dello Stato. È così, ritengo, che si realizza palesemente il primato del pubblico interesse.

Rimane da considerare la seconda possibilità interpretativa del primo principio, ovvero che il primato del pubblico debba essere inteso come primato dello Stato rispetto ad altri attori. Ancora volta è questione di intendersi; credo che lo Stato debba essere forte e autorevole, ma non dimentico che lo Stato siamo sempre ‘noi’ e che nello Stato si manifesta in modo estremo la nostra arroganza, incompetenza e irresponsabilità. Sono sorpreso nel vedere come molti dimentichino che l’azione dello Stato è il risultato combinato di burocrazie e sistema politico. Anche la polizia a Genova è Stato, e Genova insegna che non è possibile concedere a questo o ad un altro stato alcun primato preventivo, e lo insegnano quotidianamente il rapporto con il fisco o il lavoro nell’università. Ad esempio, ritengo che la riforma Berlinguer fosse indispensabile, ma ritengo che poche volte una buona riforma sia stata introdotta con tanta approssimazione, presunzione e forse involontaria arroganza, senza alcun tentativo di coinvolgimento reale di docenti e studenti, senza affrontare un aspetto centrale di tutta la riforma, il valore legale del titolo di studio, e senza chiarire che o la riforma fallisce o è destinata a produrre — come ritengo inevitabile al punto attuale di medio degrado dell’università italiana — una competizione tra sedi che rivelerà le differenze di qualità esistenti nella didattica e nella ricerca.. Sono molte le forme dello Stato italiano in cui non mi riconosco e a cui voglio resistere, sta a noi modificarle con un’azione politica più efficace di quella già svolta dal governo di centrosinistra, ma proprio per questo non sono disposto a firmare cambiali in bianco a nessuno, né a livello centrale, né a livello locale. Nessun primato ex-ante allo Stato, lo Stato proponga la sua autorevolezza argomentando le sue scelte e confrontandosi anche con l’ultimo e il più modesto dei suoi cittadini — gli altri avranno sempre avvocati e fiscalisti a tutelarli — e giustifichi la sua forza essendo soprattutto forte con i forti, e poi gli si potrà concedere una maggior, ma non illimitata, considerazione.

Infine, due parole su Milano, non certo come un paradigma, ma come un esperimento su cui discutere e da confrontare con i tuoi cinque principi. Una soluzione del tipo adottato a Milano ritengo abbia il pregio — che il piano tradizionale e le altre soluzioni da te citate non hanno — di rendere le contrattazioni esplicite e più esplicite le responsabilità di chi le assume. In questo modo una soluzione come quella milanese soddisfa il primo, il quinto e il quarto (“la trasparenza del processo di formazione delle scelte”) principio. La soluzione milanese soddisfa anche il secondo principio (“la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele”): (a) un intero capitolo del documento di Milano è costituito da regole inderogabili; (b) il piano regolatore tuttora vigente costituisce in molti casi un limite invalicabile per il decisore pubblico; (c) è in preparazione il “piano dei servizi” che definirà con uno spettro più ampio dei vincoli degli standard quali sono le esigenze pubbliche e di interesse collettivo che devono essere soddisfatte per procedere negli interventi di trasformazione. Il piano dei servizi è un tentativo di definire un sistema integrato e comprensivo di esigenze di interesse pubblico che non sono negoziabili in quanto prestazioni, anche se sono negoziabili le modalità secondo cui le prestazioni verranno fornite e le esigenze soddisfatte. Il rischio che non nascondo è che, per la nostra pochezza tecnica, il piano dei servizi possa reintrodurre molti elementi di rigidità che il documento di inquadramento ha cercato di indebolire. Rigidità che non costituisce — come continuo a sentir ripetere — garanzia per gli interessi pubblici, ma motivo di ritardo, impedimenti burocratici, e risorsa di scambio, nonché di ricatto e corruzione. Se la definizione del piano dei servizi potrà rispondere alle attese, la proposta milanese sarà completa e ordinata su tre strumenti: il documento di inquadramento che indica la volontà e la prospettiva politica e strategica dell’amministrazione; il piano dei servizi che definisce le scelte pubbliche specifiche; le rappresentazioni dell’esistente rispetto alle quali valutare i possibili effetti sulla realtà attuale delle proposte di trasformazione. Per questo brevissimo confronto della proposta milanese con i tuoi principi, rimane da considerare il terzo principio, “la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni”, si tratta di una capacità che soprattutto gli urbanisti dovrebbero mettere a disposizione del dibattito pubblico, o si pensa che possa essere disposta per legge? La soluzione milanese prevede che ogni proposta di trasformazione debba essere valutata da un organo tecnico dell’amministrazione che integra competenze tecniche, amministrative e giuridiche, e conduce autonomamente un’istruttoria e una valutazione delle proposte insieme ad un gruppo di tre consulenti esterni che hanno parere consultivo. Poiché sono uno dei tre consulenti non sta a me esprimere opinioni sul lavoro che abbiamo svolto in più di un anno e la cui qualità dipende dalla nostra competenza professionale; credo, comunque, di poter dire che, grazie ai nuovi modi di operare introdotti dalle riforme Bassanini, il lavoro svolto abbia caratteristiche diverse da quello previsto dalle procedure tradizionali per le modalità argomentative e per le tracce che esso lascia a disposizione del consiglio comunale e del pubblico [4]. Per concludere, è sin troppo evidente, salvo forse ai critici frettolosi, che in ogni caso le opportunità offerte dal documento milanese sono solo opportunità che il decisore pubblico può cogliere o respingere dal momento che gli impegni che ha assunto con il documento di inquadramento sono politico-programmatici e non giuridici.

Mi sono promesso di non intervenire sui tuoi commenti specifici, ma non riesco ad esimermi dal chiederti perché scrivi in neretto “rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato” (p.8)? In un sistema negoziato non c’è per definizione nulla di certo a cominciare dalle molte regole non negoziabili. O ancora: “una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle ‘convenienze’)” (p.9), la flessibilità è uno strumento, come lo zoning, lo puoi asservire tanto all’interesse pubblico come agli interessi privati, dipende solo da chi decide. “A me sembra molto più convincente, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che non ce ne devono essere più” (p.10), è proprio quello che è stato fatto a Milano, anche se credo che dovendo fare i conti con il piano regolatore esistente le regole in vigore siano ancora troppe e talora sembrano fatte a posta per sollecitare contratti poco trasparenti. Chiudo con un’ammissione di responsabilità, ho scritto contrapponendo la pianificazione britannica e quella continentale, invece di continentale avrei dovuto scrivere più esplicitamente italiana: gradi diversi di flessibilità sono stati introdotti in Francia sin dagli anni ottanta e in Spagna un poco più di recente, ma di questo so troppo poco per scriverne. Tanto per cambiare anche fra i paesi latini siamo ancora una volta gli ultimi.

Molti cordiali saluti, Gigi

Edoardo Salzano, Note per il forum di Milano

9 novembre 2001

La valutazione critica che esprimo a proposito del modello proposto dalla recente esperienza milanese è esposta, mi sembra con sufficiente chiarezza, nell’articolo per Urbanistica, di cui comunque allego il testo. Alla mia valutazione - che avevo già espresso in un seminario alla facoltà di architettura di Roma 3 (9.6.00) e in un successivo convegno dell’associazione Polis (14.10.00) - Gigi Mazza ha replicato inviandomi una nota (5.9.01), della quale gli sono grato anche perchè mi consente di precisare ulteriormente il mio punto di vista: ciò che faccio un po’ frettolosamente in questo testo, che mi riprometto di sviluppare e chiarire ulteriormente.

La nota di Gigi Mazza muove dai “cinque principi della buona pratica urbanistica”, che concludono la mia valutazione. Li riporto per esteso dal mio testo:

1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,

2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,

3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,

4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,

5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Mazza afferma che “sui cinque principi è facile concordare, anche se ad una seconda lettura è possibile un’incertezza sul preciso significato del primo e del quinto principio”: e comincia da qui. Premesso che “il primato del pubblico consista nel garantire gli interessi collettivi”, si chiede per quale ragione io separi e allontani i due principi. Configura “due possibilità: (a) il quinto principio è una sottolineatura del primo, in quanto il primato del pubblico sta per il primato del pubblico interesse; (b) il primato del pubblico non indica il primato del pubblico interesse, ma il primato dello Stato, definito come attore che ha un primato su gli altri attori”.

Per me “pubblico” e “collettivo” sono concetti e categorie distinti. Per “collettivo” intendo un insieme di individui, una comunità sociale, mentre per “pubblico” intendo le istituzioni, i soggetti, le regole mediante cui si governa e amministra la collettività. Distinguo il primo e il quinto “principio” anche per tener conto che, come la storia ci insegna, non sempre il “pubblico” garantisce gli interessi “collettivi”, neppure nei secoli successivi alla rivoluzione borghese. Ma lasciamo le definizioni terminologiche ed entriamo nel merito.

Assumendo la prima delle due possibilità interpretative, Mazza si domanda “quale sia in urbanistica il modo migliore per l’attuazione pratica del primato del pubblico (interesse)”. Egli esprime la convinzione che “il piano regolatore — o altre forme di piano con valore giuridico impositivo - non siano più uno strumento efficace”, e che in ogni caso “le scelte di piano sono attuate quando esiste un attore politico che ha la volontà e la forza politica per sostenere quelle scelte”.

Sono affermazioni che non ho nessuna intenzione di contestare, poiché sostengo da almeno vent’anni che la pianificazione è in crisi e i suoi strumenti obsoleti. Che la volontà politica sia decisiva perché un piano sia attuato è per me tanto vero che ho abbracciato con entusiasmo la definizione di Francesco Indovina, secondo la quale il piano urbanistico è “una scelta politica tecnicamente assistita”: è una definizione che potrà dispiacere a qualche clerc, ma che esprime icasticamente il carattere innanzitutto politico (della polis) del piano urbanistico.

Ma che c’entra questo con la trasformazione della pianificazione che propone Mazza? A mio parere, non la giustifica affatto. Indurrebbe invece ad aprire una riflessione ben più seria e severa di quella proposta da Mazza (e che in ultima analisi si riduce all’adeguamento del piano al mercato): una riflessione sulla crisi della politica.

E a me, a questo proposito, appare del tutto evidente: (a) che la politica è in una crisi profonda, dalla quale non si esce con Berlusconi né con Comunione e Liberazione, (b) che quando la politica è in una crisi siffatta la pianificazione urbanistica non può star bene.

Mazza prosegue affermando che “se viene meno il sostegno politico le scelte vengono variate e il piano modificato”, e analizza acutamente l’effetto irresistibilmente distruttivo delle “varianti” sul piano. Non avrei nulla da eccepire né sull’affermazione né sull’analisi. Ho da eccepire invece a proposito di un’osservazione in limine. Mazza, a proposito di Tangentopoli e Mani pulite, osserva che “Mani pulite è un’altra storia” rispetto a Milano, “perché la corruzione in urbanistica nasce anche prima degli anni sessanta, e si sviluppa senza scosse non solo nella Milano del rito ambrosiano”.

Nel formulare questa osservazione Mazza sembra credere (come peraltro gran parte della pubblicistica, non solo di destra) che il mostruoso fenomeno di Tangentopoli, nato a Milano all’inizio degli anni 80 e sviluppatosi in tutt’Italia all’ombra del craxismo, sia consistito semplicemente in una serie di episodi di corruzione. Sono convinto invece, e ho tentato di argomentarlo [5], che in quegli anni la società italiana ha patito il trasformarsi della corruzione, da una serie più o meno numerosa episodi isolati (e nascosti), a teorizzato sistema di governo e di regolazione generale del rapporto tra pubblico e privato.

Ridurre Tangentopoli a un mero fatto di corruzione (“quella c’è sempre stata, e sempre ci sarà”) significa non aver compreso la reale entità del problema, e quindi comporta l’abbassare la guardia rispetto a una teoria e una prassi che sono ancora vive e attive.

Ma torniamo al filone principale del ragionamento. Mazza afferma perentoriamente che “il primato dell’interesse pubblico in urbanistica” non è “mai garantito dalla legge, può essere garantito solo da una politica forte di un adeguato consenso”. Anch’io ho letto Gramsci, e so che forza e consenso sono le due componenti essenziali del governo (egemonia). Entrambe però: se si tralascia la forza (la legge) e ci si poggia solo sul consenso, l’unico che garantisce la permanenza al potere è quello dei più forti. Non a caso, l’abbandono della “urbanistica regolativa” (cioè di una urbanistica basata anche sulle regole) conduce Mazza ad assumere come polo d’orientamento della sua ricerca del consenso i poteri forti del blocco costituito attorno alla proprietà immobiliare milanese.

Richiamandosi a una definizione di Charles M. Haar (il piano urbanistico è “una costituzione impermanente”) Mazza ricorda che il piano è “un contratto sociale che può e deve essere modificato per adeguarlo ai possibili mutamenti di contesto e delle finalità della comunità, ovvero, deve essere modificato quando esistano ragioni sufficienti per farlo”. Come non essere d’accordo? Sostiene poi che “le ragioni non sono necessariamente degli interessi particolari in contrasto con l’interesse generale, anche perché l’interesse generale, come del resto il piano, non sono un dato, ma il prodotto di un progetto politico; un progetto che riesce a costruire una mediazione tra interessi particolari e intorno ad essa organizza un consenso sufficiente per perseguire gli obiettivi che si è proposto”. Anche qui, non potrei esprimere meglio un concetto che è anche mio.

Il punto è che la concreta procedura che Mazza propone per costruire un “contratto sociale” è quella della contrattazione con gli interessi immobiliari. Se è così (e nella mia critica del Documento milanese mi sembra di averlo messo abbastanza in evidenza) allora non si comprende proprio in che modo un progetto sociale costruito attorno agli interessi immobiliari (che a mio parere sono quelli più ostili agli “interessi cittadini”) possa esprimere le ragioni dei gruppi sociali più deboli, delle generazioni future, della tutela dell’ambiente (e degli stessi interessi dell’impresa capitalistica).

“Contrapporre un’urbanistica contrattata ad un’urbanistica non contrattata – sostiene Mazza - è un’ingenuità o un’ipocrisia”. Certo, ma il problema non è questo. E non è neppure solo quello di “sottoporre la contrattazione ad un controllo trasparente”.

A me sembra che il problema sia in primo luogo quello di comprendere su quali basi, su quale piattaforma, su quale “proposta di piano” si apre la contrattazione: E si tratta, in secondo luogo, di sapere chi è invitato alla contrattazione. Se la base della contrattazione è costituita dagli interessi della proprietà immpbiliare, e se dalla contrattazione vengono esclusi (nella prassi) tutti gli altri, allora la contrattazione ha un segno che è agli antipodi di tutta la faticosa costruzione dell’urbanistica (e della politica) moderna.

Il nodo di fondo del mio disaccordo con la proposta di Mazza sta insomma nel fatto che in questa si vuole sostituire una visione mercatistica dell’urbanistica a una visione sociale.

La distinzione e l’allontanamento tra il primo e il quinto dei “principi” che avevo esposto avevano indotto Mazza a configurare due ipotesi interpretative. Si sofferma anche sulla seconda, “ovvero che il primato del pubblico debba essere inteso come primato dello Stato rispetto ad altri attori”.

Dopo aver ricordato come lo stato, particolarmente in Italia, sia criticabile, Gigi Mazza non si dichiara disposto ad assicurare “nessun primato ex-ante allo Stato”. Lo Stato – prosegue – “proponga la sua autorevolezza argomentando le sue scelte e confrontandosi anche con l’ultimo e il più modesto dei suoi cittadini — gli altri avranno sempre avvocati e fiscalisti a tutelarli — e giustifichi la sua forza essendo soprattutto forte con i forti, e poi gli si potrà concedere una maggior, ma non illimitata, considerazione”.

Vorrei avere più tempo per affrontare il tema proposto, che mi sembra meritare un’attenzione particolare. Per ora mi limito a dire che io non mi sento affatto neutrale tra lo stato e gli altri: non mi sento di assumere la posizione dello spettatore attento al gioco che gli “attori” svolgono sul palcoscenico della società, e pronto a decretare il trionfo di quello degli “attori” che avrà saputo giocare meglio le sue carte.

Lungi dal sentirmi uno spettatore neutrale, mi sento membro di una collettività che ha scelto le forme della democrazia rappresentativa, nella consapevolezza che questa, pur essendo piena di difetti, ne ha comunque meno di tutte le altre che siano state inventate. So bene che questo stato, figlio di quella democrazia (e della sedimentazione storica accumulata nel mio paese, che è la mia ricchezza e la mia croce) è anch’esso pieno di difetti e di soperchierie, commette errori e provoca ingiustizie. Mi sforzo di contribuire al suo miglioramento, ma non mi sogno di porlo sullo stesso piano degli altri “attori”. So che il suo mestiere, in una democrazia rappresentativa, deve essere quello di lavorare per l’interesse della collettività. So anche che questo mestiere lo fa male, ma non accetterò di sostituirlo con “attori” che abbiano, come proprio mestiere, quello di perseguire interessi parziali.

Testo inviato a “Urbanistica”

12 gennaio 2001

(stralci)

La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice [6].

Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese [7]. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante [8].

L’intreccio tra posizioni “di destra” e posizioni “di sinistra”, tra impostazioni aperte agli interessi privatistici più spinti e posizioni giacobine, è una caratteristica della cultura milanese che andrebbe indagata a fondo. Qui vorrei segnalare che in questi anni di nuovo Milano si presenta con un evento dello stesso segno. Una evento importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato: grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.

Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegneranno ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero [9]. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.

[omissis]

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli [10]. La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che l’Autore del documento milanese dà a quelle pratiche è indice d’una rilevante linea di continuità degli indirizzi che, conclusa la stagione di Mani pulite, ora si (ri)propongono

Lettera alla redazione di “Urbanistica”

27 febbraio 2002

Prego sostituire il seguente capoverso:

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli [11]. La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che l’Autore del documento milanese dà a quelle pratiche è indice d’una rilevante linea di continuità degli indirizzi che, conclusa la stagione di Mani pulite, ora si (ri)propongono.

Con questo:

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. E con quest’ultimo termine non si indica una periodo di particolare estensione e diffusione delle pratiche di corruzione (quelle pratiche, come molti giustificazionisti ricordano spesso, che “sempre ci sono state e sempre ci saranno”), ma una fase particolare della nostra storia: una fase nella quale la corruzione è divenuta chiave di volta di un sistema di potere e bussola accreditata delle decisioni politiche – in particolare di quelle relative al governo del territorio [12].

[1] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla.

[2] Mani pulite è stata un’altra storia, per quanto ci riguarda in parte da scrivere perché la corruzione in urbanistica nasce anche prima degli anni sessanta, e si sviluppa senza scosse non solo nella Milano del rito ambrosiano, ricordiamo tutti Roma, a Torino le cose erano un po’ meno appariscenti, ma non per questo meno gravi, ricordi gli articoli di Novelli?

[3] E neppure dai magistrati che per quarant’anni non si sono accorti di quanto accadeva sotto gli occhi di tutti; certo, meglio tardi che mai, ma ho l’impressione che la stagione di mani pulite sia finita da un pezzo e credo che sarebbe ingiusto addossarne la colpa solo alla magistratura.

[4] Inoltre il lavoro svolto con le nuove regole ha prodotto una quantità di trasferimenti d’aree al demanio pubblico e di contributi finanziari oltre gli oneri obbligatori, sensibilmente superiori a quanto avvenisse con le procedure precedenti.

[5] Rinvio il curioso al libro che scrissi con Piero della Seta, L’Italia a sacco – Cme e perché nacque Tangentopoli, Editori riuniti, Roma 1993. È esaurito da tempo ma chi vuole leggerlo lo trova nel mio sito web.

[6] Lo ha denunciato sistematicamente Giuseppe Campos Venuti, a partire dagli anni ’80. Si veda ad esempio: G. Campos Venuti, Deregulation urbanistica a Milano, introduzione al dossier Milano senza piano – Urbanistica milanese degli anni 80, a cura di V. Erba, “Urbanistica informazioni”, n. 107, anno XVIII, set.-ott.1990. Si veda anche G. Barbacetto, E. Veltri, Milano degli scandali, Laterza, Bari 1991 e, per gli anni più recenti, F. Pagano, In assenza di una nuova legge regionale, o in alternativa..., “Urbanistica informazioni”, n. 171, anno XXVIII, mag-giu 2000.

[7] La polemica tra due assessori, entrambi del PCI, Raffele Radicioni a Torino e Maurizio Mottini a Milano, fu resa esplicita in articoli molto chiari sulla stampa quotidiana di quegli anni. Mottini può essere considerato un anticipatore della linea che affida agli interessi degli operatori e dei proprietari privati l’egemonia nella gestione dell’urbanistica. Si veda, su “L’Unità”, la posizione di Mottini il 18 agosto 1982 e la replica di Radicioni il 2 settembre 1982.

[8] Suscitò reazioni contrastanti un editoriale di “Urbanistica informazioni” (n. 60, anno X, nov.-dic. 1981) in cui criticavo le “complicità oggettive” degli atteggiamenti accademici e neutrali di parte della cultura urbanistica dell’epoca nei confronti di una linea politica emergente, che tendeva a incrinare il principio della funzione pubblica dell’urbanistica.

[9] Il pensiero e la proposta espressi nel documento della giunta milanese erano stati elaborati ed esposti da Luigi Mazza in molti dei suoi scritti: si veda, tra gli altri, Piani ordinativi e piani strategici, “CRU – Critica alla razionalità urbanistica” n. 3, 1995; Difficoltà della pianificazione strategica, “Territorio” n. 2, 1996; Il tempo del piano, “Urbanistica” n. 109, 1996; Certezza e flessibilità, “Urbanistica” n.111, 1999.

[10] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

[11] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

[12] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

1. La legge dovrebbe mirare al "governo del territorio": cioè al modo più ragionevole di far sì che le trasformazioni del territorio abbiano: (a) il massimo di efficacia rispetto agli obiettivi definiti; (b) il migliore impiego delle risorse (finanziarie, territoriali, culturali, ambientali).

2. La legge dovrebbe perciò avere un triplice carattere.

Dovrebbe essere una legge di principi, per costituire riferimento alla specifica disciplina urbanistica la cui competenza è affidata dalla Costituzione alle regioni.

Dovrebbe definire e organizzare le competenze che la Costituzione, e l'assunzione del "principio di sussidiarietà", affidano agli organi centrali dello Stato.

Dovrebbe regolamentare alcuni aspetti di riserva statale, quali quelli concernenti i rapporti proprietari e i diritti dei cittadini.

3. Sui principi cui ispirare la pianificazione territoriale e urbanistica negli anni 2000 c'è una letteraturavasta e condivisa. Essa è stata ultimamente arricchita da alcune leggi regionali interessanti, già vigenti o in corso di discussione, quali quelle della Toscana, Liguria, Lazio, Emilia Romagna.

La distinzione tra componente strutturale (le scelte non negoziabili e quelle strategiche) e componente programmatica (ciò che si farà nel corso del prossimo mandato amministrativo) dei piani dovrebbe valere a tutti i livelli di pianificazione (comunale, provinciale, regionale), così come la sostituzione dell'approvazione con la verifica di conformità alle prescrizioni del piano da parte del livello di governo sovraordinato, da effettuare entro termini perentori.

4. I tre principi cardine, da cui tutti gli altri in qualche modo discendono, sono stati definiti con una certa precisione nel ddl del PDS. Essi sono:

(a) il principio di pianificazione: ogni ente elettivo di primo grado avente competenza territoriale esprime la propria volontà e le proprie scelte mediante un "piano", ossia un insieme di precetti riferitio al territorio attraverso una cartografia di adeguata precisione;

(b) il principio di sussidiarietà, non nell'accezione corrente (tutto il potere al livello più basso), ma in quella della cultura europea (trattati di Mastricht e di Amsterdam);

(c) il principio di salvaguardia, secondo il quale il livello sovraordinato ha il diritto/dovere di intervenire se quello sottordinato è inadempiente.

A proposito del "principio di pianificazione", per evitare che esso resti un'affermazione meramente formale, sarebbe indispensabile abrogare tutte le numerosissime forme di deroga autorizzata alla pianificazione (quali quelle contenute negli accordi di programma, nelle conferenze di servizio, nei piani urbani integrati, nei Prusst ecc. ecc.) e inserire le norme sull'abusivismo annunciate dal Ministro Micheli.

E a proposito del "principio di sussidiarietà" occorrerebbe ricordare il testo del Trattato di Amsterdam: "La Comunità interviene entro i limiti dei poteri conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ivi assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità".

5. È evidente che, appunto in base al principio di sussidiarietà, come della vigente Costituzione, agli organi centrali dello Stato competano decisioni su tutti gli oggetti e aspetti per i quali, parafrasando Maastricht, "gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità". Sarebbe opportuno definire, in modo non tassonomico, tali oggetti e aspetti. Anche su ciò c'è letteratura e giurisprudenza cui attingere.

Sarebbe poi indispensabile prevedere anche a livello statale un meccanismo di pianificazione che dia unitarietà ai molti "piani" in materia di competenza statale (paesaggio, difesa del suolo, aree protette, trasporti ecc), e statuisca il rispetto, anche da parte dello Stato, del "principio di pianificazione".

Ciò varrebbe, tra l'altro, a evitare i conflitti tra i portatori di differenti interessi (es: la tutela dell'ambiente e l'efficacia del sistema dei trasporti).

Vale la pena di osservare in proposito che, se ci fosse una "pianificazione nazionale", ossia una sintesi a priori dei diversi interessi implicanti trasformazioni del territorio, episodi come quello della variante di Valico non potrebbero aver luogo. E se ci fosse una visione d'insieme delle necessità, opportunità e costi delle diverse esigenze di adeguamento dell'attrezzatura del Paese le affermazioni, opportunamente rese nelle ultime settimane dal ministro Micheli e dal presidente Ciampi, sulla centralità delle "autostrade del mare", non apparirebbero come coraggiose prese di posizione controcorrente, ma come ovvi postulati di una strategia di uso delle risorse date.

7. Sul punto relativo alle questioni di riserva statale vorrei limitarmi a due osservazioni.

(A) La soluzione cosiddetta della "perequazione" per il regime degli immobili non è in grado di risolvere la differenza di trattamento tra i proprietari interessati dalle trasformazioni previste dai piani e quelli esterni alla linea tracciata dal piano. Non risolve quindi nessun problema che non sia già risolto dalle norme sul comparto edificatorio (legge 1150/1942) o sulle lottizzazioni convenzionate (legge 765/1967).

(B) Tra le questioni di riserva statale devono esser poste anche quelle riguardanti i diritti dei cittadini: diritto a ottenere uguali dotazioni di servizi, diritto all'informazione sulle decisioni che interessano la collettività ecc.

© 2024 Eddyburg