Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
A Firenze, nell'estate del 1984, vengono resi pubblici due progetti d'investimento immobiliare, l'uno della Fiat, nell'area di Novoli, l'altro della Fondiaria. La prima era già proprietaria dell'area, sulla quale sorgeva lo stabilimento fiorentino dell'azienda, e voleva “valorizzarla”. La Fondiaria aveva comprato in vista dell'operazione un vasto compendio di aree nella piana a nord-est della città, lungo una direttrice considerata strategica per la riorganizzazione dell'intera area metropolitana ma destinata dal Prg vigente a “parco territoriale”. L'insieme dei due progetti comportava la costruzione di 4,2 milioni di metri cubi, su 228 ettari, e un investimento valutato in 2 mila miliardi.
Il Comune aveva avviato la redazione del nuovo piano regolatore. Attendere la formazione di questo (affidato a due consulenti di grande prestigio e affidabilità culturale, Giovanni Astengo e Giuseppe Campos Venuti) avrebbe permesso di compiere le scelte sulle aree interessate dall'operazione nel quadro, ed in funzione, delle scelte più complessive sulla città, finalizzando gli interventi nell'area nord-est a un progetto di riqualificazione ambientale, all'esigenza di decongestionare il centro storico, all'obiettivo di una più corretta localizzazione metropolitana delle attrezzature urbane. È quello che suggerisce, ad esempio, la sezione toscana dell'Istituto nazionale di urbanistica.
Ma le esigenze di “valorizzazione immobiliare” non possono attendere. Gli investitori fremono. Acquisiscono le necessarie comprensioni politiche e amministrative, e ottengono dal comune l'approvazione di una variante ad hoc al piano regolatore vigente. Questa viene adottata dal Consiglio comunale (a maggioranza di centro sinistra) nel marzo 1985. La maggioranza (di sinistra), che subentra dopo le elezioni amministrative conferma le decisioni. La variante prosegue il suo iter, tra le polemiche più aspre e la crescente opposizione di un fronte composito e ampio (cui partecipano insieme componenti culturali conservazioniste, associazioni ambientaliste, versi, demoproletari e parte dei comunisti del Pci). Un fronte sostanzialmente “di sinistra”, indebolito dalla posizione defilata, ma favorevole alla variante Fiat-Fondiaria, della maggioranza del Pci.
Prima che la variante giunga alla sua conclusione, un colpo di scena. Nel giugno del 1989 il Segretario del Pci, Achille Occhetto, intima l'altolà. In una riunione del Comitato federale di Firenze, piena di tensione, giungono una telefonata e due messi del Segretario: i comunisti non possono ulteriormente avallare le scelte della Fondiaria e della Fiat per l'area nord-est, il cui destino deve essere tracciato da un vero piano regolatore generale.
La componente comunista della Giunta decide di lasciar ferme le cose, senza revocare gli atti ma senza neppure sollecitarne il completamento. Dc e Psi, da sempre favorevoli all'operazione immobiliare e anzi responsabili del governo cittadino quando essa era stata concepita, sono sconcertati ma non insistono per la ripresa dell'iter. Il Pci, a Firenze e non solo a Firenze, è diviso. Anche chi non era convinto dell'operazione Fiat-Fondiaria esprime preoccupazione per il fatto che sia stata necessaria la “telefonata di un segretario di partito” per correggere scelte sbagliate. Il punto è che non si trattava solo di correggere le decisioni di una federazione o di una giunta. Si trattava anche e soprattutto di indicare, con un gesto forte e chiaro, che l'andazzo seguito per oltre un decennio non era compatibile con il nuovo corso del Pci. Un trauma quindi, certamente, ma un trauma necessario: poiché bisognava superare un vuoto che per troppi anni aveva caratterizzato la politica del Pci nei confronti dell'urbanistica: nei confronti dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio.
Due arresti per il sacco urbanistico di Casalnuovo. Alle sette di ieri sera i carabinieri hanno eseguito le ordinanze di custodia cautelare emesse dalla Procura di Nola nei confronti del costruttore Domenico Pelliccia e di Giovanni Raduazzo, un tecnico di sua fiducia.
I due sono ora agli arresti domiciliari nelle rispettive abitazioni. Il gip ha ritenuto quest´ultima una misura cautelare adeguata, respingendo la richiesta di reclusione avanzata dai giudici.
I due sono accusati di falso per soppressione di atti pubblici: secondo l´accusa avrebbero fatto sparire i documenti che riguardano 38 domande di condono edilizio per poi farle ricomparire, a tempo debito, profondamente modificate nella sostanza, così da ottenere la sanatoria.
E ancora: secondo la Procura di Nola - l´indagine è condotta dai pm Giuseppe Visone e Carmine Renzulli, ma è l´intera struttura guidata dal procuratore capo Adolfo Izzo e dal suo vice, il procuratore aggiunto Francesco Greco, a seguire molto da vicino una faccenda che hanno definito scandalosa - si sarebbero macchiati anche di falso in atto pubblico falsificando numerosi bollettini di versamento dell´oblazione e degli oneri concessori che si versano nelle casse del Municipio quando si richiede un condono.
Nei confronti di Pelliccia e Raduazzo si procede anche per reati edilizi, truffa aggravata ai danni degli acquirenti e per falsità ideologiche in atti pubblici.
Pelliccia è il legale rappresentante della società "Vi. Sa. Gi.", l´impresa edile che ha realizzato i 47 alloggi di via Filichito, villette a schiera completamente abusive e vendute, quasi tutte, a ignari acquirenti. Un affare da otto milioni di euro.
«Siamo solo all´inizio di una inchiesta che, speriamo, porterà numerosi sviluppi», commentano nel palazzo di giustizia di Nola. E c´è da giurarci che scoperchiata la pentola degli abusi nelle prossime ore giungeranno importanti novità.
I giudici credono che dietro il sacco urbanistico di Casalnuovo ci sia una regia all´insegna del malaffare. Nessuno pronuncia chiaramente la parola "camorra" ma è ovvio che le indagini puntano a smascherare eventuali connivenze con i clan che operano nella zona.
Un business milionario per trentotto compravendite realizzate in maniera spudorata: le foto degli immobili fuorilegge erano esposte nelle vetrine di alcune agenzie immobiliari della zona, le visite dei probabili compratori avvenivano senza premure. Vendite garantite da atti apparentemente ineccepibili: i notai hanno eseguito i rogiti senza obiezioni e le banche hanno concesso i mutui con altrettanta facilità.
Come sia stato possibile tutto ciò lo racconta proprio l´impianto accusatorio della Procura di Nola: i giudici hanno svelato il sofisticato meccanismo messo in atto dai due con la complicità, forse, di altre persone. Nel dettaglio: in vista del condono edilizio del 2003 avrebbero depositato pratiche edilizie per sanare la costruzione dei 47 appartamenti di via Filichito attestando che i lavori, così come previsto dalle norme per accedere alla sanatoria, erano stati completati entro il 31 marzo di quell´anno. Non era così, le costruzioni erano poco più che scheletri di cemento armato, e l´indagine della Procura di Nola li ha smascherati.
Per capire come, bisogna ricordare un episodio del dicembre 2005 che all´epoca non guadagnò neanche un titolo sui giornali locali. Un curioso furto, la sparizione dal Municipio di Casalnuovo di 132 domande di condono.
Tra queste c´erano anche quelle di via Filichito. Perché? Facendo sparire i documenti, il costruttore e il suo tecnico di fiducia, si sarebbero riservati la possibilità di riconsegnare la documentazione integrata delle foto "aggiornate" con la conclusione dei lavori che avrebbero mostrato palazzine completamente rifinite. Lavori eseguiti dopo il 31 marzo del 2003 e dunque fuorilegge.
«Per quanto riguarda gli abusi edilizi il mio cliente è reo confesso - ammette Filippo Trofino, legale di Domenico Pelliccia - per quanto riguarda le accuse più pesanti, per le quali è previsto l´arresto, mi riservo di valutare l´ordinanza prima di esprimermi».
Attendismo, dunque, in vista degli interrogatori. Parole rispettose nei confronti della Procura senza rinunciare, però, a un po´ di ironia: «Il mio cliente è tranquillo, gli arresti domiciliari gli garantiranno un po´ di riposo dopo la frenetica attività di costruzione degli ultimi anni. Ha evidentemente lavorato notte e giorno e giustamente gli tocca un po´ di riposo».
Conferma la disponibilità già espressa a risarcire gli acquirenti? «Certamente - dice l´avvocato - ma da quello che sappiamo noi non vogliono il risarcimento del denaro ma le case. Pelliccia è un ottimo costruttore, lavora con scrupolo e le sue costruzioni sono realizzate ad opera d´arte e dunque molto richieste».
Peccato siano abusive. «Sì, però sono realizzate con scrupolo».
Nel silenzio assoluto della stampa (con l’eccezione del Sole 24 Ore) e nel balbettio penoso dell’opposizione, la Camera dei Deputati ha approvato la cosiddetta legge Lupi sul “governo del territorio”. Già da quel che se ne sapeva era giustificato il più vivo allarme (si veda, per una documentazione completa e continuamente aggiornata, il sito di E. Salzano, www.eddyburg.it, insieme all’altro ugualmente benemerito www.patrimoniosos.it). Ma una lettura attenta del testo appena votato lascia senza parole. Non mi riferisco tanto alle prevedibili goffaggini degli articoli “ideologici”, come l’art. 2, dove vengono chiariti gli obiettivi di tale “governo”, vale a dire prima di tutto lo “sviluppo” del territorio e, “altresì” (!), “l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, la tutela della concorrenza”, ecc. E nemmeno alle continue manifestazioni di barbarie giuridica, come quando per es. (art. 4) si prevede la possibilità per lo stato di definire “prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata” interventi di riqualificazione delle aree depresse (evidentemente in deroga alla pianificazione ordinaria, i famosi “accordi di programma”, i “poli turistici” e simili porcate). O si veda il combinato disposto, micidiale, degli art. 6 comma 5 (destinazione d’uso) e 9 comma 3 (perequazione, la quale tuttavia si attua “indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”). Come sempre, la parte più insidiosa è la meno visibile, mi riferisco al lungo elenco di articoli abrogati della Legge Urbanistica, quella vera: si va dai contenuti del Prg (art. 7) alle modalità di pubblicazione (art. 9), al venir meno della competenza dei consigli comunali nell’approvare i piani di lottizzazione, agli standard urbanistici. Un disastro. E del resto, cosa aspettarsi dal governo di un tizio che si è arricchito riciclando denaro in speculazioni edilizie, girando “con l’assegno in bocca” e comprandosi i permessi e le licenze?
Basta, io non sono addetto ai lavori, non ne capisco, e va bene. Ma dove diamine sono andati a finire gli addetti ai lavori? Se ancora ce n’è qualcuno in giro, che si faccia vivo, questo è il momento. Non importa se scrivendo un articolo o andando davanti al Senato con un cartello in mano. Forse prima dell’approvazione definitiva si può ancora salvare qualcosa.
Perequazione. L’esigenza di una equità nelle scelte della pianificazione del territorio è da tempo presente. Ma equità tra chi e per che cosa? Non in termini di giustizia sociale, non tra gli abitanti, cittadini o aspiranti tali: tra i proprietari di suolo urbano. Nella versione nobile voleva significare “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani” (Aldo Moro, 1964). Ma era già stata condotta al fallimento la proposta di legge del ministro Fiorentino Sullo, e dopo i crolli e le alluvioni del 1966 si tornò a una perequazione parziale dei valori immobiliari, già in atto con la legge urbanistica del 1942: si decise che negli strumenti urbanistici attuativi, a partire dai piani di lottizzazione (legge 765/1967), tutti i proprietari inclusi dovessero ripartire tra loro, equamente, oneri e vantaggi dell’urbanizzazione ed edificazione.
Poi , la svolta. Si cominciò a parlarne negli anni che prepararono il declino dell’urbanistica italiana e videro esplodere quella che poi fu battezzata Tangentopoli. I piani urbanistici venivano redatti, adottati, approvati ma poi non erano attuati: in molte parti d’Italia (non in tutte però) la città s’ingrandiva e trasformava secondo altri disordinati disegni, sotto la spinta di altri interessi: quelli del mercato immobiliare (che gli incorreggibili continuavano a chiamare “speculazione urbanistica”). Alcuni nodi oggettivi c’erano: la disciplina del diritto sui suoli urbani non era stata riformata come la Corte costituzionale avrebbe preteso, e la situazione normativa era molto pasticciata; le amministrazioni pubbliche, salvo eccezioni, non erano attrezzate per pianificare con la tempestività che la velocità delle trasformazioni richiedeva.
Gli urbanisti e gli amministratori cercarono nuove strade. Si manifestò un accordo largo sulla articolazione dei piani in due componenti: una strutturale e strategica e una operativa. Sui contenuti dell’una e dell’altra componente c’era confusione, l’introduzione di quella distinzione nelle legislazioni regionali e nelle prassi di pianificazione la aumentò. Una “corrente di pensiero”, che aveva preso la maggioranza nell’Istituto nazionale di urbanistica, propose una nuova prassi per raggiungere la “indifferenza dei proprietari alle previsioni dei piani” e soprattutto per evitare di espropriare le aree necessarie per gli spazi pubblici. Strano che la proposta venisse proprio da quella Emilia Romagna nella quale era chiaro da tempo che l’espansione urbana era terminata, e dove si era riusciti a superare brillantemente il traguardo degli standard urbanistici non solo in termini quantitativi (30 mq ad abitante, invece dei 18 ex lege nazionale), ma anche acquisendo praticamente tutte le aree individuate. E strano che la proposta venisse avanzata proprio mentre in Francia si stava abbandonando l’analogo sistema dell’attribuzione ai suoli di un plafond de densitè.
Ecco la proposta dell’INU. Spalmiamo una cubatura (tot metri cubi di edifici per ogni mq di terreno) su tutta l’area che vogliamo urbanizzare: volumi teorici ugualmente spalmati sulle aree sulle quali sorgeranno quartieri e lottizzazioni, fabbriche, servizi e spazi pubblici urbani e territoriali. Se ci serve un’area per fare un parco o una scuola consentiamo al proprietario di tenersi stretti i suoi volumi teorici spostandoli su un altro suolo, e ci facciamo dare gratis l’area che ci serve per gli usi pubblici. Naturalmente, più estendiamo le aree urbanizzabili più aree per servizi riusciamo a ottenere. Quindi dimensioniamo il piano non sulla base dei fabbisogni effettivi, ma inseguendo le spinte della proprietà immobiliare: in quel mercato nel quale (come gli economisti liberali seri hanno dimostrato) la concorrenza non c’è.
La questione è strettamente legata a un’altra: quella dei cosiddetti “diritti edificatori”: quella bizzarra teoria secondo la quale se un PRG ha attribuito una capacità edificatoria a un’area questo “regalo” non può essere tolto al proprietario senza indennizzarlo adeguatamente. Ma di questo termine abbiamo già scritto qui altre volte, e rinviamo ad altri articoli.
L’esempio eccellente (si fa per dire) di questa teoria e di questa prassi è stato il nuovo PRG di Roma, che ha confermato e aggravato il consumo di suolo autorizzato rendendo edificabili ulteriori 14mila ettari dell’Agro romano. Sindaci pro tempore Rutelli e Veltroni, consulente generale il presidente onorario dell’INU, Giuseppe Campos Venuti.
Indennità d’esproprio. E’ indubbiamente un nodo irrisolto. Se ne è discusso ampiamente, a partire dagli anni 60 del secolo scorso. La Corte costituzionale è intervenuta più volte, criticando norme che consentivano ad alcuni di guadagnare grazie alle scelte del piano, e ad altri di non guadagnare perché remunerati, nel caso di espropriazione, da un’indennità d’esproprio di entità molto più modesta. La Corte indicò anche una delle strade percorribili per sciogliere il nodo: decida il legislatore che il valore che deve essere riconosciuto al proprietario non deve compensare l’edificabilità, e iil problema è risolto. Il Parlamento tentò, ma la forza degli interessi contrari prevalse e il principio fu introdotto (con la legge Bucalossi del 1977) ma in modo debole, contraddittorio e, per così dire, sterilizzato.
Da allora è stato un declino continuo. La proprietà immobiliare, invece di essere ricondotta a una sua “funzione sociale” (come la Costituzione, articolo 42, vorrebbe), è stata assunta come “motore dello sviluppo”: più il suo valore economico aumenta, più l’economia va. Guai a ridurre il prezzo degli espropri: alla proprietà immobiliare deve essere riconosciuto tutto il valore che il “mercato” (quel mercato) gli riconosce.
Ecco allora che i comuni non espropriano più. Adesso hanno un alibi per preferire di spendere in opere inutili ma di prestigio (eccelle l’architetto Calatrava con le sue opere) e nell’allestimento di eventi che mettano in competizione una città contro un'altra: queste sono considerate le spese indispensabili, per le quali si può rinunciare a realizzare asili e parchi, o espropriare aree in cui localizzare un’edilizia abitativa depurata da una parte almeno della rendita.
Rendita. Eccoci alla terza parola, al terzo nodo che strozza la buona urbanistica. Che cos’è la rendita? Secondo l’economia classica, quella fondata su un’analisi del ruolo sociale e umano dell’economia, la rendita è una delle tre componenti del reddito: il salario, che corrisponde all’impiego, da parte del lavoratore, del suo tempo di lavoro; il profitto, che secondo alcuni è l’appropriazione di una parte del valore creato dal lavoro, secondo altri la remunerazione corrispondente al ruolo imprenditivo; la rendita, che è la quota del reddito della quale si appropria il proprietario di un bene necessario alla produzione, per il solo privilegio di esserne proprietario. Ora è chiaro che mentre al salario e al profitto corrisponde un preciso ruolo sociale, finalizzato alla produzione di merci, anche all’interno di una logica capitalistica alla rendita corrisponde un ruolo meramente parassitario.
Negli anni 60 e 70 questa verità era chiara alla parte stragrande dello schieramento politico, nel parlamento e nelle amministrazioni locali, e alla cultura specializzata. Era la tesi comune alla sinistra, ma non solo a questa: lo testimoniano dibattiti, tentativi legislativi ed esperienze amministrative nell’area del “centrismo” a guida DC. Perfino gli esponenti dell’industria moderna, del “capitalismo avanzato”, se ne convinsero, e compresero (1970-71) che se non si fosse contenuta la rendita (in particolare quella urbana) le condizioni di vita dei lavoratori (affitto, trasporti, servizi) sarebbero divenute più costose, e quindi la pressione sindacale sarebbe cresciuta e avrebbe costretto a cedere al salario quote di profitto. Oggi no: la rendita immobiliare, componente essenziale della proprietà immobiliare, è considerata il “motore dello sviluppo”.
Che fare? Eccoci all’ultimo passaggio di questo lungo eddytoriale, che compensa del lungo silenzio. Molti (i cittadini che si mobilitano per una città migliore, i lavoratori che chiedono abitazioni meglio accessibili, meno costose, più decentemente servite, i gruppi di abitanti minacciati dallo sfratto per fine contratto o per “rigenerazione urbana”, e i loro comitati, associazioni, sindacati), quando ascoltano questa analisi, pongono questa domanda: che fare oggi? Raramente trovano risposte nel mondo degli esperti, che non siano quelle comprese negli slogan perequazione allargata (definiamola così per distinguerla da quella tradizionale, quella dei “comparti” della legge del 1942 e dei “piani di lottizzazione” della legge del 1967), rendita motore dello sviluppo, vocazione edificatoria del suolo. Proviamo a dare qualche risposta. Non sarà organica, ma tenteremo di indicare alcune possibili strade.
Il primo passo da compiere è assumere consapevolezza. Bisogna convincersi che la perequazione, nei termini in cui viene proposta e praticata, è un’imbecillità perniciosa. É un’imbecillità perché, seppure poteva avere un senso nell’età dell’espansione, non ne ha certamente nessuno oggi. É un’imbecillità perché non tiene conto che – come gli eventi recentissimi dimostrano – l’attività immobiliare non è più il motore di nessuno “sviluppo”, neppure il meno sostenibile: è solo un fattore di crisi. Ed è perniciosa perché non comporta altro che l’espansione generalizzata delle “capacità edificatorie”, comunque travestite. Predicare e praticare la perequazione allargata significa soltanto incentivare la piaga italiana dell’aberrante consumo di suolo. Criticare il consumo di suolo e continuare a difendere la perequazione è segno di ipocrisia, oppure testimonianza di schizofrenia. E infine, parlare di equità solo a proposito dei valori immobiliari e utilizzare la perequazione come strumento della pianificazione significa perpetuare ed accrescere la profonda iniquità nell’uso della città-
Ugualmente, è pernicioso continuare ad adoperare l’espressione “diritti edificatori” senza ricordare che questi vengono attribuito solo con l’atto abilitativo: non dalle decisioni del piano urbanistico generale, e neppure da quello attuativo. É sempre possibile revocare una decisione urbanistica se questa non ha ancora ottenuto effetti concreti, se non ha comportato spese per opere legittimamente e documentatamente sostenute. Il territorio non ha alcuna “vocazione edificatoria”, ove operatori e amministratori rozzi o complici della speculazione immobiliare non gliela concedano.
Resta il problema della rendita immobiliare. È un problema che richiede attenzione e, soprattutto, determinato impegno politico. Anche qui, la premessa necessaria è che si restauri il principio, mai smentito dalla teoria e continuamente confermato dalla pratica, che la rendita immobiliare è una componente parassitaria della vita economica della società: è un mero pedaggio che si paga al privilegio proprietario. La rendita immobiliare va ridotta quanto è possibile farlo, e va “tosata” a favore del potere pubblico, che è quello che la determina: è quello che, con le scelte dei piani e gli investimenti dell’urbanizzazione, storica e attuale, è produttore delle differenze e delle convenienze che la determinano.
Ridurre la rendita si può, anche con i piani urbanistici. A Napoli, quando la giunta del primo Bassolino varò con De Lucia i primi atti della nuova pianificazione (la variante di salvaguardia e quella di Bagnoli), accaddero due serie di eventi. Le pendici che dal Vomero scendono verso la città greco-romana si coprirono di vigne e orti: terreni in attesa di edificazione, restituiti in modo irrevocabile alla naturalità, ritrovarono una funzione (e un valore) di suolo agricolo. E l’IRI, proprietaria dell’area Italsider di Bagnoli, ridusse nei suoi libri contabili il valore del suolo, che aveva perduto l’edificabilità prevista.
Si può poi, e si deve, battersi per ottenere una definizione legislativa che definisca che cosa fa parte del “valore venale” dei suoli in qualsiasi negozio nel quale intervenga la pubblica amministrazione. La determinazione del “valore venale” a cui si commisura l’indennità espropriativa non è misurato dal mercato, ma dalle stime che ne fanno le strutture a ciò adibite. Non sembra affatto insensato (ed è invece del tutto coerente con le indicazioni che più volte la Corte costituzionale ha suggerito) precisare che l’utilizzabilità di tipo urbano di un suolo non va considerata tra i parametri che determinano il “valore venale” dell’area: né in caso di acquisizione pubblica, né di imposizione fiscale o tributaria.
É difficile ottenere una simile definizione normativa? Probabilmente si, ma se nessuno la propone con forza, se comuni, province, regioni, partiti e raggruppamenti politici, organi di formazione dell’opinione pubblica, università e associazioni culturali non si muovono, non propongono, non sollevano il problema (e quindi, ripetiamolo ancora una volta, non mostrano di aver assunto consapevolezza del problema) nulla potrà accadere. E allora sarà inutile meravigliarsi e lamentarsi e piangere quando l’ennesima alluvione avrà distrutto case e campi, avrà travolto persone e automobili, quando le città saranno diventate sempre più invivibili, il territorio e le sue urbanizzazioni sempre più inefficaci ai fini di una vita dignitosa, le abitazioni sempre più care, gli abitati più poveri espulsi sempre più lontano, gli spazi pubblici sempre più negletti.
E nel frattempo? Si ricominci con la pianificazione prudente. Si riparta dal calcolo dei fabbisogni reali, certi nelle esigenze e nelle disponibilità a operare, per quanto riguarda le abitazioni necessarie, e le nuove attività realmente utili per la produzione (di commercio e di “non luoghi” ce ne sono gìà troppi, meglio lasciarne deperire i sacrari e far rivivere il commercio nelle città). Si sottraggano dai fabbisogni calcolati di nuovi volumi e superfici quelli oggi inutilizzati, e si ricominci da quelli, dalla loro trasformazione e riutilizzazione. Si misuri con parsimonia quali e quante nuove aree sono necessarie per nuove attrezzature, per raggiungere standard ragionevoli, e si vincolino e acquisiscano quando si hanno le risorse per farlo. Si ripristini l’impegno (legislativo e amministrativo) di far pagare a ogni nuovo intervento gli oneri necessari per le opere di urbanizzazione connesse a quell’intervento, e li si utilizzi davvero (come prescrive la legge del 1977) per acquisire, realizzare, far funzionare le attrezzature necessarie. Si utilizzino saggiamente le vaste aree vincolabili nelle loro caratteristiche di natura e paesaggio che la legislazione consente di conservare nel loro stato senza bisogno di indennizzare il vincolo, consentendone l’utilizzazione agli abitanti delle aree limitrofe.
E si impari a fare i conti in tasca a chi compie operazioni immobiliari, ponendo a carico dei suoi oneri quote consistenti del valore dovuto all’incremento della rendita. In questa logica, come qualche comune sta iniziando a fare, si può rendere attuale un’antica intuizione di un grande esperto di diritto amministrativo, Alberto Predieri, che – a proposito della pianificazione veneziana – propose oltre trent’anni fa di inserire l’edilizia sociale tra le urbanizzazioni necessarie, da porre a carico degli standard urbanistici e dei relativi oneri. E dare così un contributo serio al problema della casa in affitto a canone sociale, di un’edilizia abitativa che resti pubblica e in affitto per sempre.
Giuseppe D’Avanzo, la Repubblica, 18 dicembre 2008
Tratto dall'articolo del 1994, inserito qui in eddyburg
Dalla fine degli anni Sessanta Edoardo Salzano ha incarnato e praticato l’urbanistica in tutte le sue forme: come intellettuale, professionista, politico, amministratore e professore. Napoletano d’origine, consigliere a Roma, assessore a Venezia dal 1975 all’85, preside allo IUAV, autore di moltissimi libri e piani, l’ultima sua creatura è il sito Eddyburg.it, un sito frequentatissimo di urbanistica e molto altro.
Perché ritieni che quello dell'urbanista sia un mestiere?
Dire che è un “mestiere”, e non un’”arte” o una “scienza”, significa mettere in evidenza l’aspetto dell’utilità dell’urbanistica. Quello che mi interessa sottolineare è che urbanistica ha senso se è qualcosa che serve. Chi fa quel mestiere non è – non deve essere – interessato a esprimere se stesso, o a proclamare verità assolute: deve contribuire a costruire una società più equa. Poi, naturalmente, l’urbanistica ha anche la sua verità, la sua componente di scienza e arte, legata alla comprensione della città e del territorio e dei modi di governare le sue trasformazioni.
Perché oggi si chiede agli architetti più che agli urbanisti di pronunciarsi sulla città?
Perché l’ideologia dominante è schiacciata sul presente e non riesce ad avere una visione d’insieme: e allora è più semplice rivolgersi all’architettura, che realizza degli oggetti singoli in tempi relativamente brevi, che all’urbanistica, che si occupa della città come sistema di elementi, in cui il tutto è più importante delle sue parti, e che soprattutto richiede tempi lunghi. Ma se una volta il sindaco era espressione di un partito che aveva un progetto di società, di cui la città doveva essere un’espressione coerente, oggi invece è dominato dall’ansia di essere riconfermato alle elezioni. Il tempo del suo “fare” è due o tre anni, i risultati deve vederli subito. Allora una torre o un ponte o un palazzo che “buca lo schermo” è più funzionale alla vittoria e anche alla competizione tra città: il mio grattacielo è più lungo del tuo, la mia città è più importante, più turisti più investitori più clienti la affolleranno.
Tu hai sempre considerato l'urbanistica indissociabile dalla politica, mentre si diffonde sempre di più un'idea della disciplina come una tecnica "neutrale". Quanto è credibile questa idea?
L’urbanistica è indissociabile dalla politica perché è indissociabile dalla società. La politica è l’arte, o la scienza (o il mestiere) del governo della società. In qualche modo si può dire (Leonardo Benevolo lo dice) che l’urbanistica è una parte della politica. Io dico che ne è uno strumento tecnico. Dire questo significa anche dire che l’urbanistica è non neutrale, ma partigiana. L’urbanistica può essere di destra o di sinistra, può aiutare la politica ad accentuare le differenze di classe, o a privilegiare una classe su un’altra. L’urbanistica, come la politica, può anteporre l’interesse della maggioranza a quello dei pochi, o viceversa.
L’urbanistica moderna nasce all’inizio del XIX secolo, quando si comprende che il mercato risolve un sacco di problemi ma ne genera altri, che la spontaneità delle forze in gioco non sa risolvere e anzi peggiora. Da qui l’urbanistica come visione d’insieme delle trasformazioni del territorio, come attenzione a quello che nel territorio c’è e non si vede se non con uno sguardo esperto: anzi, con l’aiuto di più discipline. Perché l’urbanistica è anche questo: il prodotto della collaborazione di molte discipline. Senza il sociologo e il geologo, lo storico e l’economista, senza il giurista e l’architetto, l’urbanista è cieco e monco.
Quali sono state le battaglie più importanti della tua vita? le rifaresti?
Non contano le singole battaglie. Le fai non perché le scegli, ma perché ti trovi in quel luogo, sai quelle cose, vedi quello che sta succedendo e ti sembra giusto o ingiusto, ti sembra che vada favorito od ostacolato e lo fai. Mi sono trovato a essere consigliere comunale d’opposizione a Roma mentre stavano per attuare una previsione del piano regolatore che mi sembrava folle, costruire 5000 ville nella foresta di Capocotta; con Piero Della Seta riuscimmo a bloccare quello scempio. Mi sono trovato nel comitato scientifico per il piano paesaggistico regionale della Sardegna, ho aiutato il presidente Renato Soru e i suoi uffici a fare un piano che tutelasse il grande patrimonio mondiale della costa, in parte deturpata da realizzazioni e progetti nefasti, e sono contento del risultato. Adesso sto cercando di aiutarli a difendere una straordinaria ricchezza unica al mondo, la grande necropoli fenicia di Tuvixeddu, a Cagliari, che dissennate scelte del passato sacrificano alla costruzione di 400000 metri cubi di palazzoni: è una questione che dovrebbe interessare tutto il mondo, e che invece sembra interamente gettata sulle spalle di Soru e dei sardi che hanno buonsenso.
Ti sembra che la situazione italiana conservi ancora una specificità rispetto all'Europa o al resto del mondo?
Una specificità negativa. In Italia gli interessi che cospirano contro la città sono diventati negli ultimi decenni più forti che altrove. Mi riferisco soprattutto a una forza e a una debolezza. La forza negativa è nel peso straordinario che ha in Italia la rendita fondiaria, e la connessa speculazione urbanistica. Negli altri paesi europei la rendita urbana viene “tosata”, se ne impiega parti più o meno consistenti per finanziare l’attrezzatura del territorio e i servizi urbani, e in ogni caso non è così onnipotente sulle decisioni che riguardano lo sviluppo della città. La debolezza negativa è quella dell’amministrazione pubblica, ora debole, screditata, mal pagata, sempre meno autorevole e quindi inefficace a difendere il bene comune dal prevalere degli interessi individuali.
Sembra che in questo momento storico l'attenzione delle persone comuni nei confronti della città e della sua organizzazione sia interamente assorbita dal problema della sicurezza, mentre tutto il resto passa in secondo piano. Quali sono le ragioni di questo indebolimento?
La politica non ha saputo affrontare decentemente i problemi nati dalla globalizzazione, in primo luogo l’accoglienza di tutti i migranti che arrivano perché sono strettamente necessari alla sopravvivenza della nostra economia. Invece di moltiplicare i luoghi e le occasioni d’incontro, si è gonfiata artificialmente la sensazione di insicurezza. Le piazze e gli altri spazi pubblici sono stati sostituiti dagli outlet, dai mall, dai centri commerciali, luoghi finalizzati a racchiudere persone capaci di spendere: clienti, non cittadini. E nella città è aumentata la segregazione. Sempre più forte la zonizzazione sociale: qui i poveri, lì i ricchi, racchiusi nei cancelli virtuali o – sempre più spesso – concreti. Vogliamo stupirci se cresce il potenziale di ribellione? L’uomo sopporta l’ingiustizia sociale fino a un certo punto, poi, se è sano, esplode.
Come ti è venuto in mente di mettere in piedi un sito come eddyburg?
La consapevolezza che da soli non si combina niente, che un primo passo per lavorare con gli altri è condividere. Considero eddyburg un po’ come l’espansione del lavoro che ho fatto come docente e come pubblicista: divulgare senza troppa presunzione, consapevole della mia verità ma disposto a discuterla con gli altri. È stato un successo che ha condizionato moltissimo la mia vita: dedico gran parte della giornata a selezionare e inserire nel sito le decine di suggerimenti che mi arrivano ogni giorno da amici e collaboratori, ma anche da persone che non conosco affatto. Mi sento responsabile verso questi lettori sempre più numerosi.
Il 1° marzo, rispondendo a una interrogazione dei consiglieri comunali comunisti, socialisti e democristiani, l'assessore al lavoro del Comune di Torino confermava la voce secondo cui la Fiat aveva intenzione di assumere 15mila nuovi addetti negli stabilimenti di Rivalta Torinese, reclutando forza-lavoro nelle regioni meridionali. Il giornale della Fiat, nel riportare la notizia, affermava che l'irrisoria aliquota di forza-lavoro locale disoccupata è “il motivo che spinge le industrie a cercarsi mano d'opera nel Sud”. (la Stampa, 19 marzo, 1969).
Le reazioni della stampa è dei partiti
Preoccupazione e allarme suscitava l'autorevole conferma dell'iniziativa del monopolio torinese in alcuni organi di stampa. L'Avanti (19 marzo) poneva in evidenza, nel sommario del “pezzo” dedicato alle 15mila nuove assunzioni, “i problemi non facili da risolversi”, e, “pur non sottovalutando gli aspetti positivi della questione”, criticava il fatto che, “anche in questo caso, le decisioni di uno dei gruppi importanti della economia italiana fossero state presesenza cercare una preventiva consonanza con gli indirizzi della Programmazione”.
Riassumendo e sintetizzando “l'atteggiamento dei partiti politici di fronte a questo nuovo fatto che investe l'economia torinese e nazionale”, l'organo socialista affermava che “i socialisti, nel prendere atto di questo fatto, ritengono necessario affrontare il problema delle infrastrutture inserendolo in un contesto di programmazione serio e concreto”, mentre i democristiani avrebbero sostenuto“ che, prima di tutto, si imponeva la occupazione delle forze esistenti sul mercato torinese”. Viceversa - sempre secondo l'organo del PSI - per i comunisti “il discorso si pone nel contesto del fallimento della politica meridionalistica”.
In effetti, il collegamento tra l'iniziativa della FIAT è l'accentuarsi degli squilibri tra Settentrione e Mezzogiorno è al centro dei commenti riportati su L'Unità (20 marzo).Il quotidiano comunista ricordava, innanzitutto, come il gioco non fosse nuovo, ed abbia avuto “negli anni del boom la sua maggiore espressione: allora centinaia di migliaia di operai furono fatti affluire dal meridione e dalle isole” provocando costi sociali elevatissimi per cui gli industriali non hanno dovuto investire una lira. Il segretario regionale della CGIL, Garavini, sottolineava “il drammatico costo sociale” dei “trasferimenti massicci di forza-lavoro” provocati dalle “autonome iniziative della Fiat” e chiedeva quale fine avessero fatto i propositi e le promesse di investimenti nel Sud, strombazzati da Agnelli nel caldo della polemica per l'Alfa Sud.
Sulotto, segretario della Federazione torinese del PCI, denunziava il processo attraverso il quale, mentre “l'Italia del Nord si integra sempre più con i paesi del MEC, il Mezzogiorno diventa terra di abbandono, di emigrazione verso il Nord e verso l'estero”.
Nelle stesse pagine dell'Unità, in un commento redazionale dal titolo “Chi programma in Italia”, Ugo Pecchioli affermava a sua volta: “ecco gli effetti della programmazione del centro-sinistra: da un lato intere parti del territorio nazionale (nel Mezzogiorno prima di tutto, ma anche nelle campagne, nelle zone collinari e montuose del Nord) che degradano economicamente e socialmente. a livelli infimi, e dall'altro alcune zone settentrionali in cui cresce a dismisura una concentrazione di imprese industriali che rende l'esistenza degli uomini sempre più soggetta a difficoltà e asprezze, che comporta costi sociali elevatissimi che si scaricano su comuni in crisi, dissanguati, vessati da governo e prefetti”.
Una nota della CGIL
Il 21 marzo la stampa informava di una interpellanza rivolta al Ministro del Bilancio dall'on. Compagna, del PRI, e di una presa di posizione della CGIL. II primo, indicava nella possibilità di “realizzare una impegnativa operazione di trasferimento nel Mezzogiorno di aziende complementari dell'industria automobilistica uno dei provvedimenti da adottarsi per evitare che la mano d'opera disponibile nel Mezzogiorno sia utilizzata mediante l'emigrazione”. La CGIL, dal canto suo, affermava tra l'altro che “gli attuali programmi Fiat di espansione degli impianti e della occupazione, se confermati, aggravano la tendenza in atto alla emarginalizzazione industriale del Mezzogiorno depauperando ulteriormente le regioni meridionali dalla forza-lavoro più qualificata che dovrebbe costituire la base stessa dello sviluppo economico, mentre nel contempo acutizzano tutti i problemi sociali e aggravano i costi economici connessi alla emigrazione nelle zone del paese già ad alto sviluppo”.
Queste tempestive reazioni - in cui alle tradizionali impostazioni meridionalistiche e alle preoccupazioni municipali del comune torinese si affiancavano le esigenze dello sviluppo nazionale espresse dai portavoce organismi politici e sindacali del proletariato italiano provocavano, ad alcuni giorni di distanza, due ambigue “messe a punto”: l'una, del titolare del Ministero del bilancio e della prograrnmazione, Luigi Preti; l'altra della azienda automobilistica torinese.
La replica del programmatore
Il ministro Preti, in una dichiarazione pubblicata dalla stampa il 24 marzo, coglieva innanzitutto l'occasione per recitare. l'ennesima litania in gloria del centro-sinistra, ormai contestato autorevolmente anche dal suo interno. “Questa possibilità di nuova occupazione - affermava infatti il ministro - rappresenta un elemento positivo ed è il segno di un intensificarsi (il corsivo è nostro) del ritmo di sviluppo economico, conseguente all'azione del governo di centro-sinistra”. Il governo comunque, proseguiva il ministro, ha il compito di “indicare e promuovere, nel quadro della programmazione economica, l'espansione equilibrata della occupazione e una attenta localizzazione degli investimenti. tenendo particolarmente presente l'opportunità di evitare quelle negative conseguenze che non possono non derivare da emigrazioni di massa. Problemi di cosi rilevante portata non possono non essere esaminati (...) nella sede della contrattazione programmata che ha lo scopo di armonizzare gli interessi aziendali e gli interessi prevalenti dell'economia del paese”.
Dichiarazione assai cauta sul merito dell'iniziativa Fiat. come si vede, e palesemente corriva con la strategia sottesa a quella iniziativa. Non a caso infatti (la scelta delle parole ha sempre un senso) Preti inneggia all'intensificazione del ritmo di sviluppo economico. Ma non e proprio uno sviluppo esclusivamente intensivo quello in virtù del quale si accrescono continuamente i livelli accumulativi negli attuali poli dello sviluppo. a spese del resto del paese? Non sono forse inevitabili, nel quadro di uno sviluppo intensivo, l'aggravarsi degli squilibri territoriali e settoriali, l'abbandono del Mezzogiorno e dell'agricoltura la secca eliminazione della questione meridionale e di quella agraria attraverso il meccanismo spontaneistico dell'emigrazinne?
Quale “contrattazione programmata”?
Nè vale il proporre il ricorso a una “contrattazione programmata intesa” come armonizzazione degli interessi aziendali con quelli generali. Il problema non è quello di mediare tra le esigenze generali dello sviluppo del paese e gli interessi aziendali delle singole impre-e. E infatti, la stessa logica degli interessi aziendali è proprio quella che conduce all'accentuarsi di quegli squilibri che, viceversa, le esigenze generali dello sviluppo del paese impongono di superare e risolvere, sicché “armonizzare” o mediare gli uni c gli altri può voler dire soltanto ridurre la programmazione o alla mera registrazione delle decisioni aziendali o alla vacua esercitazione oratoria.
Il problema non è quello di “armonizzare” obiettivi della programrnazione e interessi aziendali nell'ambito del sistema di convenienze date. Il problema è, viceversa, quellodi modificare dalle radici l'attuale sistema di convenienze in funzione del quale le aziende, pubbliche e private, oggi agiscono; utilizzando a tal fine tutti gli strumenti di cui la mano pubblica dispone (e non sono pochi, nè di scarso rilievo), e “armonizzando” in tal modo, senza ambigue contrattazioni più o meno “programmate”, le politiche aziendali. Il problema, insomma, è stabilire che cosa deve essere prodotto, per chi e dove; e alle tre domande deve essere data una risposta unitaria e coerente. Chi potrà mai ragionevolmente impedire alla Fiat di ampliare i suoi impianti a Torino, finchè la Fiat produrrà per la motorizzazione privata? Che senso avrebbe produrre a Cosenza o a Trapani o a Nuoro automobili, se il mercato è essenzialmente nel triangolo industriale e nei “poli” maggiori? Una diversa politica di localizzazioni pretende la formazione di un mercato diverso da quello omogeneo alla spontaneità ciel sistema.
Risponde la Fiat: ragazzino, lasciami lavorare.
Di fronte al nullismo del ministro programmatore, di fronte alle proteste necessarie, ma in definitiva superficiali, delle sinistre la Fiat non ha avuto un gioco difficile. II monopolio dell'automobile ha replicato infatti, il 24 marzo, che “le assunzioni attualmente in corso non presentano alcun aspetto di eccezionalità”, poiché esse in parte corrispondono ad “un naturale avvicendamento delle maestranze occupate”, e in parte sono dovute «alla normale espansione della produzione”. Facciamo quello che abbiamo sempre fatto, risponde in sostanza la Fiat, e non intendiamo dar conto a nessuno.
Nè d'altronde, prosegue la nota dell'azienda torinese, “è stato predisposto alcun reclutamento specifico e diretto dimaestranzenel Sudd'Italia”: le “maestranze meridionali, i figli dei contadini immiseriti delle campagne del Mezzogiorno, dei pastori sardi o abruzzesi, i terremotati della Sicilia e i disoccupati cronici di Napoli o Palermo, saranno reclutati in modo “generico e indiretto”; affluiranno a Torino senza che nessuno debba spingersi a Foggia o a Crotone per ingaggiarli, come al solito; come al solito, caricheranno sui drammatici treni del Sud le loro famiglie, le loro masserizie, la loro miseria. Quanti hanno già racimolato i soldi per il biglietto, quanti hanno già venduto la casa e la terra, appena i giornali hanno scritto dei 15mila nuovi assunti a Torino?
Il Ministro è sodddisfatto, i torinesi meno
Le precisazioni della Fiat sono valse comunque a tranquillizzare il ministro cui è affidata la programmazione economica. Egli infatti, in una nuova dichiarazione del 27marzo, prende atto con soddisfazione delle opportune precisazioni della Fiat, e non aggiunge nulla di nuovo alle precedenti dichiarazioni.
Meno soddisfatta, e assai più attenta interprete delle “precisazioni della Fiat”, è invece la stampa moderata torinese. Questa comprende infatti che la Fiat non smentisce nulla, e si preoccupa del fatto che il governo, una volta di più tende ad assumere un atteggiamento neutrale (per non dire pilatesco). Così la Gazzetta del Popolo (27 marzo) chiede un intervento governativo; non nel senso. beninteso, di opporsi all'iniziativa del monopolio torinese, perchè “nessuno può essere contrario alle assunzioni e neppure a nuove iniziative industriali nell'area torinese, perchè in un'economia industriale ad alta tecnologia e produttività é antistorico pensare al blocco dello sviluppo. Nel senso, invece, di richiedere che vengano realizzali gli altri poli di sviluppo previsti nella regione piemontese, e che vengano compiuti quegli investimenti pubblici in strade, trasporti. infrastrutture, e abitazioni che sono necessarie a un tempo. per aumentare le “economie esterne per le aziende industriali nell'area torinese” e per prepararsi alla “nuova ondata di immigrati meridionali”.
Lungi dal considerare l'episodio dei 15mila nuovi addetti come il frutto di unequivoco, la stampa più vicina agli industriali torinesi rilancia la palla e gioca al rialzo. Essa così svela lucidamente la logica dei processi cumulativi, che invece. evidentemente sfugge al novello Candide che è il Ministro Preti.
Una programmazione che segue la spontaneità del mercato
E' facile comprendere, in conclusione, che l'episodio della Fiat è perfettamente coerente con la logica della programmazione, del centro-sinistra; più di un commentatore lo ha rilevato.
Tale programmazione, infatti. siriduce indubbiamente (secondo la definizione che ne ha dato Claudio Napoleoni su la Rivista Trimestrale. nell'ormai lontano 1962) a “un complesso di politiche le quali non soltanto non hanno lo scopo di porre il processo di sviluppo sotto una regola diversa da quella fornita dal puro meccanismo di mercato, ma hanno anzi il fine di accompagnare tale meccanismo (...) senza mutarne le caratteristiche essenziali”.
Se è così, poco vale evidentemente minacciare la Fiat col bau-bau della “contrattazione programmata”. Ne basta protestare, come fa Marcello Ferrara su L'Unità (5 aprile), perchè “Roma propone, Agnelli dispone”. o affermare soltanto che “la via è quella della lotta e che occorre passare decisamente al contrattacco”: bisogna sapere anche per che cosa lottare, quale programmazione sostituire a quella di Preti e del centro-sinistra, bisogna decidere che cosa la Fiat deve fare, e non solo che cosa non deve fare.
e.s.
Nota
L’articolo, siglato e.s., è stato scruitto per la rivista Polis, pubblicato sul n. 1, agosto 1969 (Napoli, tipografia Napoletana). La rivista era redatta da Giuseppe Basile, Alessandro Dal Piaz, Edoardo Del Gado, Vezio De Lucia, Raffaele Molino, Antonio Oliva, Edoardo Salzano (responsabile), Lucio Scandizzo.Della rivista uscirono due numeri.
L’episodio descritto aprì una stagione di vertenze sindacali che sfociarono nel grande sciopero generale nazionale del 19 novembre 1969 per la casa, i trasporti, i servizi sociali e la lotta agli squilibri territoriali. Fu la prima volta che in Italia le organizzazioni sindacali dei lavoratori scendevano in campo per affrontare i temi della città e del territorio. Il movimento per la riforma urbanistica, già in moto dall’inizio degli anni 60, ebbe un forte impulso sebbene si concentrasse su temi più limitati: in particolare, quello della casa, che però trascinava con se la questione degli espropri e della realizzazione dei quartieri per l’edilizia economica e popolare (il rafforzamento degli istituti e delle procedure avviate con la legge 167 del 1962). Al tentativo di attuare una politica della casa che limitasse il peso della rendita immobiliare er desse ai poteri pubblici gli strumenti necessari corrispose una stagione di attentati dinamitardi e di tentativi di colpi di stato. Sull’argomento vedi, in particolare, i libri di Vezio De Lucia, Se questa è una città, Donzelli, ed Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza.
"Mechanico quoque grandis columnas exigua impensa perducturum in Capitolium pollicenti praemium pro commento non mediocre optulit, operam remisit praefatus sineret se plebiculam pascere"
A leggere le cronache locali, a valutare le denunce degli ambientalisti, sembrerebbe proprio che la costa della Liguria stia conoscendo una nuova stagione, simile a quella che troviamo leggendo le pagine di Italo Calvino della fine degli anni Cinquanta (penso ovviamente a La speculazione edilizia).
Le forme sono certamente diverse, e anche i personaggi. Là dove una volta prevalevano rozzezza e incultura, approssimazione e meschinità, oggi non mancano raffinatezza di forme e di argomentazioni. Credo che valga la pena di domandarci che cosa è cambiato, da oggi ad allora: che cosa c’è di nuovo, e che cosa invece ci fa esclamare con apprensione – come nei titoli dei film sui mostri – “a volte ritornano”.
La devastazione del territorio non provocò danni solo in Liguria, ma quasi in ogni parte d’Italia. Erano gli anni dell’espansione e della crescita, i primi decenni del secondo dopoguerra. Espansione e crescita nelle quali le scelte di politica economica privilegiavano la crescita di alcuni settori al cui sviluppo venne sacrificata la pianificazione territoriale e urbanistica. Mi riferisco all’edilizia e alle attività immobiliari, e alla motorizzazione privata e alla conseguente realizzazione di strade sempre più numerose e più pesanti. Era facile prevedere che lo sviluppo incontrollato di quei settori avrebbe gravemente compromesso le condizioni delle città e del territorio: ciò che puntualmente avvenne.
Un ceto politico più avveduto di quello attuale, e qualche gruppo imprenditoriale meno miope e meno parassitario di quelli di oggi, compresero che bisognava modificare qualcosa: bisognava tornare alla pianificazione per ridare ordine al caos, e bisognava dare alla pianificazione contenuti nuovi.
Si rilanciò la pianificazione urbanistica, che divenne lo strumento primario del governo del territorio in gran parte d’Italia. Fu sostanzialmente in quegli anni che si posero le basi per il rafforzamento del primato della pianificazione generale (quella affidata ai comuni e agli altre istituzioni rappresentative dell’elettorato) sulle pianificazioni di settore, quale quella delle autorità portuali.
Si istituirono le Regioni, con poteri considerevoli nel campo dell’urbanistica e della programmazione economica. Si avviò faticosamente e contraddittoriamente una riforma del regime degli immobili, che peraltro non giunse a conclusione. E negli anni successivi, mentre per un verso iniziava lo smantellamento in chiave tatcheriana degli strumenti faticosamente conquistati, si arricchì la pianificazione di contenuti nuovi.
Fino ad allora, in Italia la pianificazione aveva riguardato soprattutto le città e la loro espansione, e l’assetto del territorio in quanto contenitore e supporto di strutture e infrastrutture necessarie alle crescenti attività dell’uomo: nei piani territoriali si dovevano decidere le localizzazioni delle aree e degli impianti necessari alla residenza e ai relativi servizi, alle attività produttive e a quelle commerciali, ai servizi di vario ordine e grado, alle connessioni tra di loro via terra e via acqua e alla loro alimentazione di energia, acqua, fluidi. La pianificazione, insomma, si occupava più delle trasformazioni e dell’artificio che della conservazione e della natura.
Negli anni 80 le cose cambiarono. Alle intuizioni e ai tentativi degli urbanisti (voglio ricordare Edoardo Detti, Giovanni Astengo, Luigi Piccinato), alle denunce e alle proposte di alcune benemerite associazioni (grandi furono i meriti di Italia Nostra), si aggiunse la spinta della nuova consapevolezza ambientalista e la constatazione dei gravissimi danni che il saccheggio delle risorse provocava ad alcune componenti fondamentali della ricchezza del paese: dalla sua stessa consistenza geofisicha, all’immenso patrimonio culturale in esso sedimentato. Tra i contenuti nuovi della pianificazione particolare evidenza venne data in quegli anni al paesaggio e all’ambiente.
Per il paesaggio si svilupparono antiche intuizioni (da quella lontana, 1922, del ministro dell’istruzione Benedetto Croce) e strumenti normativi egregi per l’epoca e il contesto politico nel quale erano stati formulati (le leggi di tutela del 1939), e si formularono regole nuove, del resto pretese dalla Costituzione e dalla sua solenne dichiarazione “la Repubblica tutela il paesaggio”. Mi riferisco in particolare alla cosiddetta Legge Galasso del 1985, che introdusse i cardini di una nuova disciplina del territorio.
Si stabilì che le coste e i monti, i corsi d’acqua e i ghiacciai, i boschi e le comunità agrarie costituivano i segni visibili dell’identità del Paese, e come tali andavano tutelati da tutti gli istituti che costituiscono la Repubblica: lo Stato, le regioni, le province, i comuni. Si dispose che la tutela avvenisse mediante la pianificazione del territorio, che poteva essere esercitata, per la responsabilità della regione, mediante piani paesaggistici oppure mediante piani territoriali che avessero tra i loro contenuti essenziali la tutela del paesaggio e dell’ambiente.
Tra le regioni che rispettarono la legge attuandola come sarebbe stato doveroso per tutte vi fu la Liguria. Fece un Piano paesistico egregio sotto il profilo scientifico, forse non abbastanza perentorio dal punto di vista dell’incidenza sulla pianificazione comunale.
Nello stesso periodo della legge per la tutela del paesaggio altre disposizioni disciplinarono, mediante diversi apporti al sistema della pianificazione, altri elementi dell’ambiente e del paesaggio.
La legge per le aree protette estese la portata dei parchi (che comunque rimangono alcune isole nell’insieme del territorio nazionale) e ne disciplinò pianificazione e gestione, con qualche pasticcio nel rapporto tra pianificazione dei parchi e pianificazione territoriale e urbanistica (il “piano del parco” sostituisce ogni altro piano, come se ad esso dovessero far capo anche le decisioni sull’organizzazione dei centri abitati in essi compresi).
La legge per la difesa del suolo stabilì che tutte le misure, i provvedimenti, gli interventi e i vincoli relativi alla protezione delle acque e dalle acque avvenisse previa formazione di piani di bacino, formati sotto la responsabilità di una autorità pubblica inter-istituzionale, e che essi, per quanto riguarda strettamente gli aspetti connessi alla difesa del suolo, prevalessero su qualunque altro piano.
Negli stessi anni si chiarì un altro aspetto importante della pianificazione nelle aree costiere: a livello nazionale e, dove le regioni furono attente, al livello delle legislazioni regionali. Mi riferisco ai rapporti tra pianificazione ordinaria (regionale, provinciale, comunale) e pianificazione dei porti.
Una legge nazionale stabilì che il piano regolatore portuale delimita e disegna “l'ambito e l'assetto complessivo del porto, ivi comprese le aree destinate alla produzione industriale, all'attività cantieristica e alle infrastrutture stradali e ferroviarie”, ma che “le previsioni del piano regolatore portuale non possono contrastare con gli strumenti urbanistici vigenti”. Per di più, “il piano regolatore è adottato previa intesa con il comune o i comuni interessati” ed è approvato dalla Regione.(Legge 28.1.1984, n. 84, art.5).
La Regione Liguria, per conto suo, provvide ulteriormente a legiferare, stabilendo che il piano regolatore del porto è approvato non dalla Giunta, ma dal Consiglio regionale, il quale, addirittura, “apporta modifiche in relazione alle previsioni degli strumenti di pianificazione o di programmazione vigenti od adottati, nonché in relazione alle competenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente, con particolare riferimento alla sostenibilità e al bilancio ambientale delle relative scelte” (Legge Regione Liguria 12 marzo 2003, n. 9, art. 1).
Il carattere preminente della pianificazione urbanistica e territoriale, delle competenze del comune e della ragione, degli interessi della difesa del paesaggioo e dell’ambiente rispetto ai piani, alle competenze e agli interessi meramente economici e aziendali mi sembra perfettamente garantita.
Torniamo al paesaggio. Con la legge Legge Galasso, e con le successive edizioni del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, il ruolo del paesaggio e gli strumenti della sua tutela si affinarono, fino a giungere alle attuali disposizioni. La legislazione nazionale, e le diverse sentenze costituzionali che si sono occupate dell’argomento, hanno consentito di giungere a un approdo significativo di cui è utile ripercorrere i capisaldi, che sintetizzerò in sei punti:
1. la tutela del paesaggio è un prius rispetto alle trasformazioni del territorio; in tal senso, le disposizioni della pianificazione regionale concernenti la tutela del paesaggio sono vincolanti ope legis per la pianificazione successiva, sia di livello regionale che di livello provinciale e comunale;
2. la competenza nell’individuazione dei concreti beni da sottoporre a tutela, e in particolare dei “beni paesaggistici”, spetta alla Regione, nel rispetto delle categorie di beni individuate dalle leggi nazionali;
3. il paesaggio non è costituito unicamente dai “beni paesaggistici” appartenenti alle individuate categorie, ma è un connotato del territorio che ovunque va analizzato, valutato, protetto nelle sue qualità o ricostituito dove queste siano state dissolte;
4. la pianificazione territoriale delle province e quella urbanistica comunale, nel rispetto delle disposizioni della pianificazione paesaggistica, devono svilupparne le indicazioni approfondendo lo studio e la valutazione delle qualità del paesaggio e degli elementi di degrado in atto;
5. la responsabilità dell’azione di tutela è condivisa dall’insieme delle istituzioni che costituiscono la Repubblica, ma rimangono massimamente nell’ambito delle competenze dello Stato e delle regioni (con qualche pasticcio derivante dalle modifiche costituzionali introdotte nel 2001, che hanno artificiosamente separato la tutela della valorizzazione);
6. la formazione di piani paesaggistici regionali conformi alle prescrizioni del Codice e la conseguente redazione di piani urbanistici comunali a loro volta conformi ai piani paesaggistici può ridurre i poteri d’intervento ad hoc degli organi dello Stato per la tutela di beni minacciati di danno, e di conseguenza semplificare le procedure abilitative in tutte le vastissime aree vincolate ope legis.
Mi sembra che si possa dire che, sul terreno degli strumenti legislativi, le cose sono indubbiamente migliorate rispetto al passato. Non sono migliorate, e anzi a mio parere sono tornate al punto di partenza sotto altri profili. “A volte ritornano”.
Voglio soffermarmi molto brevemente su tre aspetti del peggioramento.
In primo luogo, credo che si debba parlare di una tendenza all’abdicazione dello Stato e delle Regioni nei confronti dei Comuni. Si è rotto nei comportamenti l’equilibrio tra le istituzioni previsto dalla Costituzione. L’errore grande è stato secondo me l’interpretazione estremistica che si è data al principio della sussidiarietà.
Nell’accezione della Comunità europea (dove l’espressione fu coniata ai tempi di Jacques Delors) il principio di sussidiarietà significa che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (la Regione nei confronti del Comune, o lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Nell’accezione italiana – fortemente condizionata dalle posizioni della Lega Nord di Bossi – sussidiarietà significa sostanzialmente “tutto il potere all’istanza più vicina al cittadino, a meno che proprio non sia insensato farlo”.
La formulazione legislativa, che costituisce il riferimento del nuovo testo costituzionale, si avvicina a questa interpretazione estremistica, ma non ci arriva (Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a). Ci arrivano però alcune interpretazioni e applicazioni autorevoli sul piano dei poteri reali, come quella prevalente nella Regione Toscana, dove si è arrivati ad affermare che tutti i livelli istituzionali sono da porsi sullo stesso piano, talché mai la Regione potrebbe impedire a un comune di fare, sul proprio territorio, “una schifezza”, sebbene questa “schifezza” insozzasse un bene di rilevanza regionale, o addirittura nazionale e universale.
Ora tutta la storia del nostro territorio nell’ultimo secolo dimostra che l’istanza più vicina al cittadino è anche quella più sensibile alle sollecitazioni per un uso immediato e privatistico del “bene comune” costituito dal territorio.
Nonostante le malefatte dello Stato e delle Regioni, è certo che i livelli sovraordinato del potere pubblico sono stati quelli meglio capaci di comprendere le ragioni e gli interessi della tutela del patrimonio culturale e paesaggistico. Gli unici, del resto, deputati dal nostro sistema legislativo a tutelare “anche gerarchicamente” (suggerisce la Corte costituzionale a proposito della pianificazione paesaggistica) il bene d’interesse nazionale costituito dal paesaggio.
Il secondo aspetto del peggioramento intercorso negli ultimi anni mi sembra sia costituito dall’accresciuto ruolo del settore immobiliare nell’economia e nella politica. E’ ormai consapevolezza comune che nel nostro paese le grandi aziende industriali hanno investito molto più nella rendita finanziaria e immobiliare, tra loro strettamente intrecciate, che sui terreni propri del capitalismo industriale: la ricerca, l’innovazione di processo e di prodotto, la concorrenza nella produzione di merci.
E registriamo tutti ogni giorno come le attività immobiliari e i loro promotori siano diventati, agli occhi di numerosi politici anche autorevoli, anche di sinistra, interlocutori privilegiati e operatori da difendere anche nel loro ruolo economico e sociale. Sembrano davvero lontani mille miglia gli anni in cui i dirigenti dei partiti di sinistra e gli esponenti del capitalismo avanzato potevano trovare un interesse comune nel combattere le posizioni di rendita – in particolare immobiliare – vedendole giustamente come un freno all’espansione dei profitti e dell’accumulazione da un lato, dei salari e del benessere delle famiglie dall’altro lato.
La cosa singolare, e che apre il cuore alla disperazione, è che la rinnovata fortuna delle forme più degradanti dell’attività economica, dei settori della produzione che l’economia classica ha considerato più intrisi di parassitismo, appaiono in auge proprio mentre nel mondo è aperta una riflessione generale sui limiti generali di un’economia basata sulla crescita indefinita della produzione di merci. Insomma, mentre stiamo ragionando con Jeremy Rifkin e con Serge Latouche, ci si vengono a riproporre come interlocutori privilegiati gli eredi dello speculatore de “Le mani sulla città”
Il terzo, e forse più grave aspetto del peggioramento, quello dal quale in definitiva anche gli altri derivano, è costituito a mio parere dalla crisi della politica. E’ una crisi grave, profonda, che ci coinvolge tutti, come cittadini e come persone. Ciascuno di noi può dire “ho una mia filosofia”, “ho una mia religione”; nessuno può dire altrettanto della dimensione politica. Se la politica non c’è, siamo tutti più poveri e più esposti, più infelici, meno padroni del nostro futuro.
Della crisi della politica ciò che più mi preoccupa è la sua attuale miopia. La politica non sembra più capace di indicare un progetto di società, un progetto di futuro: una prospettiva condivisa per il quale sacrificare qualcosa oggi e ciascuno, per avere qualcosa domani e tutti.
Gli orizzonti temporali richiesti dal territorio, dal paesaggio, dall’ambiente sono orizzonti lunghi; quelli sui quali si è appiattita la politica coincidono con il mandato elettorale. Tra gli uni e gli altri non c’è compatibilità.
Una volta un sindaco era orgoglioso se, nel corso del suo mandato, riusciva a concludere l’iter di un buon piano regolatore. Era capace di far comprendere ai cittadini (lui stesso, o i partiti politici cui si riferiva) che quel disegno della città futura era cosa buona, e sarebbe stato realizzata nei tempi anche lunghi necessari. E sapeva accompagnare questo progetto di futuro con atti amministrativi che andavano nella stessa direzione, che erano anticipazioni del progetto di città. Il progetto prevedeva ampi spazi per i bambini e i giovani, e mentre si discuteva il piano regolatore si apriva un asilo nido e si espropriava una villa.
Oggi, un buon sindaco è quello che, a metà del suo mandato, avvia la realizzazione di un grattacielo, magari più lungo di quello del suo vicino.
Difficile combattere il destino di “seconda rapallizzazione” che sembra abbattersi sulle nostre coste, in questa condizioni. Eppure, l’alternativa è possibile. Lo dimostra una terra non tanto lontana da qui, la Sardegna.
Ho avuto la fortuna di partecipare all’avventura iniziata, e finora condotta vittoriosamente, dalla Giunta guidata da Renato Soru. Ho potuto misurare l’entità del danno incombente, le decine di milioni di metri cubi di lottizzazioni turistiche approvate nei loro piani regolatori dai comuni della costa. Ho potuto ammirare la determinazione con la quale la Giunta ha provveduto ad attuare le leggi per la protezione del paesaggio analizzando il territorio, inventariandone e cartografandone le caratteristiche, catalogando le diverse tipologie di beni paesaggistici e individuando i riconoscibili ambiti di paesaggio. Ho potuto concorrere a definire criteri e regole per la tutela immediata e per la successiva ricognizione alla scala più minuta, per la definizione della azioni necessarie per sostenere e attuare le scelte della pianificazione.
Mi hanno soprattutto colpito il coraggio di andare controcorrente, con una determinazione straordinaria, in nome del futuro e dell’interesse collettivo. Mi ha colpito il rigore con il quale si è stati capaci di dare seguito concreto a motivazioni molto forti. E voglio ricordare le parole con le quali Soru investì del suo compito di consulenza il Comitato scientifico:
“Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale”.
La Sardegna indica una strada possibile. Ma la Sardegna da sola non ce la può fare a percorrerla tutta. Occorre che la possibilità di tutelare il paesaggio, offerta dalla legislazione vigente, sia colta in modo generalizzato, diventi pratica corrente in gran parte del nostro paese. Tenendo ovviamente conto delle diversità, ma assumendo dappertutto come dominanti gli interessi di tutti – ivi compresi i nostri posteri – rispetto a quelli di pochi, e non attribuendo al futuro un ruolo secondario rispetto al presente.
Che fare qui, a Savona, in Liguria?
Mi sembra che sul piano amministrativo si debbano adoperare fino in fondo gli strumenti disponibili, a partire dal Codice. Il piano paesaggistico del 1986 offre una buona base di partenza. Spero che il quadro conoscitivo allora costruito sia stato tenuto a giorno, che le fonti siano disponibili. Sono certo che non sarà difficile né lungo adeguare quel piano ai dettami del Codice del paesaggio, nella sua ultima versione del 2006.
Sono anche certo che i ministeri dei Beni e delle attività culturali e dell’Ambiente, della tutela del territorio e del mare vorranno concorrere a redigere un piano paesaggistico pienamente conforme alla lettera e allo spirito del Codice, così da avere anche gli effetti di alleggerire le procedure di ottenimento delle autorizzazioni.
Lavorare in questa direzione comporta indubbiamente che i due ministeri, che il Codice rende entrambi portatori degli interessi statali in materia di tutela del paesaggio, possano e sappiano attrezzarsi, ripristinando o costruendo ex novo strutture o task forces capaci di collaborare con sistematicità e competenza nel lavoro di pianificazione paesaggistica con le regioni: non solo qui in Liguria, ma anche in Toscana, in Friuli - Venezia Giulia e in tutte le altre regioni italiane che siano disposte ad attuare la legge.
Ma la strada da percorrere è questa. Altrimenti non si comprenderebbe perché, dall’antico Decreto Galasso del 1983 all’ultima versione del Codice del 2004 tante volontà e intelligenze di parlamentari, ministri e sottosegretari, funzionari dei beni culturali, amministratori regionali ed esperti di varie discipline abbiano lavorato, al fine di affinare le armi a disposizione della Pubblica amministrazione per tutelare con efficacia il lascito della natura e della storia costituito dai nostri paesaggi.
So bene che lavorare sul piano amministrativo, se è indispensabile e se costituisce probabilmente il primo passaggio necessario, non è sufficiente. Occorre che qualcosa si muova anche sul piano politico e culturale. Occorre soprattutto che la politica riprenda la capacità di guardare al futuro, e che la cultura l’aiuti in questa direzione. Molti esprimono questo desiderio, e tremano al pensiero che ciò possa non avvenire. Voglio riprendere le parole che ha scritto ieri su l’Unità il mio vecchio amico Diego Novelli, giornalista, parlamentare e sindaco di Torino in anni non meno difficili di questi. Scrive Novelli:
“Come sarebbe bello vedere i nostri ministri, i presidenti di regione, i sindaci delle grandi città accalorarsi per avere più strumenti per la difesa del suolo e per un programma serio per il recupero del grande patrimonio immobiliare fatiscente, abbandonato. Purtroppo non è così. Si continua a «mangiare», ogni giorno, fette di territorio soprattutto lungo le coste del Belpaese, ma anche nelle grandi città dove un certo tipo di processi di deindustrializzazione ha liberato milioni e milioni di metri quadrati di aree. Per le coste cito quella più vicina al mio Piemonte e che meglio conosco. Consiglio un viaggio da ponente a levante della Liguria, da Ventimiglia a La Spezia. Un vero saccheggio. La Regione, il mio amico e antico compagno Claudio Burlando (già ottimo sindaco di Genova) non vede, non sente, non parla. Così dicasi per le aree industriali dismesse. A Torino hanno realizzato la cosiddetta Spina3 (ex ferriere Fiat e altre fabbriche) che di fatto è un nuovo ghetto, di lusso, ma sempre ghetto. La densità consentita è da capogiro. È stata teorizzata e santificata la rendita sui suoli quale incentivo per gli investimenti e quindi per lo sviluppo tutto all'insegna della falsa modernità nuovo simbolo della cialtroneria politica, culturale e sociale”.
Di “falsa modernità” avete esempi e progetti autorevoli, in questo tratto di costa. Io spero che vedrete anche voi prevalere non una modernità basata sul saccheggio della ricchezza comune e sull’esibizione individualista di gesti in calcestruzzo e acciaio, ma una modernità che sappia conservare ciò che gli anni della devastazione ha lasciato intatto, recuperare ciò che è stato degradato, restituire l’antico valore d’uso (e non degradare in merce e trasformare in valore di scambio) ciò che di pregevole la collaborazione tra l’uomo e la natura ha saputo costruire.
La Sardegna ha seguito il percorso virtuoso suggerito dalla vicenda della Legge Galasso. Prima un vincolo indiscriminato e geometrico su tutta la costa, per 2.000 metri, bloccando così circa 70 milioni di metri cubi di lottizzazioni turistiche previste nei piani comunali. Poi, in tempi strettissimi, discussione e approvazione di un piano paesaggistico regionale su 27 ambiti di paesaggio che comprendono nel loro insieme il 15% del territorio regionale. Fra un paio di mesi si aprirà la discussione sul completamento del piano, e otterrà una disciplina ispirata alla tutela del paesaggio tutto il territorio della Sardegna.
Dal vincolo temporaneo e di salvaguardia indiscriminata, al piano: anzi, alla pianificazione. Una pianificazione che tutela le qualità del territorio individuando con la massima precisione possibile a quella scala tutti i beni meritevoli d’essere protetti, definendo per ciascuna delle categorie in cui sono “tipizzati” le regole che le trasformazioni e gli usi devono rispettare. Una pianificazione che analizza le relazioni e connessioni tra i beni (le dune e le falesie, le foreste e i corsi d’acqua, i lasciti della storia e le forme che la geomorfologia ha disegnato, le specificità della geografia vegetale e le dinamiche dell’ecologia) e di questi con gli interventi, creativi o distruttivi, che l’uomo ha operato nel corso dei secoli. Una pianificazione che distingue le prescrizioni immediate, ossia le regole che l’esigenza di tutelare fin da subito beni d’interesse generale impone alla Regione, e gli indirizzi e le direttive che le comunità locali, con la pianificazione urbanistica, dovranno sviluppare nei diversi “ambiti di paesaggio” dove le differenti fisionomie del paesaggio diventano la testimonianza e l’espressione delle diverse identità dei territori e dei popoli.
Quali sono le premesse da cui si è partiti? Le aveva riassunte, con l’efficacia delle parole semplici e immediate, il presidente della Regione (ha sempre rifiutato di essere chiamato “governatore”) Renato Soru, nell’insediare, nel maggio 2005, il Comitato scientifico che ha affiancato l’Ufficio regionale che ha elaborato il piano.
Con il piano, ha detto Soru, “innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano”. Conservare quello che è bello e ha valore, per il valore intrinseco che ha, e non per quello meramente economico che i proprietari potrebbero ottenerne trasformandolo in merce, degradandolo e rendendolo irriconoscibile: “quella valorizzazione non ci interessa”.
Valore per tutta l’umanità, e valore perché esprime l’identità del popolo sardo: “Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola”.
Soru arriva al governo e alla politica partendo dall’economia e dall’impresa: la dimensione economica non gli sfugge; ma a lui e alla sua maggioranza non sfugge neppure la dimensione economica della ricchezza paesaggistica dell’Isola. Anzi. Se “non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale”, siamo interessati invece “a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo”. Un paesaggio che vogliamo difendere per due ragioni: sia perché pensiamo che sia necessario in se, “ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico”. La Sardegna, giustamente e con un’ottica capace di guardare al futuro, non vuole competere “con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre”.
Il piano paesaggistico è un programma d’azione di lunga durata, che si proietta nel futuro. Lo indicano con chiarezza la critica delle tendenze degli ultimi decenni, e le proposte alternative. Nel passato, “abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano; abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo resi fantasmi i villaggi vivi”. Nel futuro, innanzitutto “non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene”, poi “ripuliamo e correggiamo quello che non va bene”. Liberate dalla lottizzazioni degradanti l’ampia fascia costiera, determinata con criteri scientifici e non più meramente geometrici, proponiamoci di far rinascere i paesi e le aree dell’interno.
Spazi interessanti possono aprirsi così alle attività legate al territorio e alla sua trasformazione: dalla manutenzione del paesaggio dove merita di essere conservato, alla sua trasformazione dov’è degradato. Invece dei “villaggi fantasmi”, avviare con i piani comunali una vasta azione per riabilitare e risanare e completare i vecchi paesi all’interno e dietro la fascia costiera. Impiegare le risorse del territorio con saggezza e lungimiranza può produrre un ciclo virtuoso dell’economia, alternativo al ciclo “usa e getta”.
Una domanda mi è tornata alla mente, leggendo le pagine di Sandro Roggio, ripercorrendo con lui la vicenda del Piano paesaggistico regionale e, prima ancora, riflettendo sull’acuta analisi del turismo “industria pesante” e dei suoi effetti in Sardegna. Una domanda che mi si era già affacciata, sia leggendo gli antichi articoli di Antonio Cederna su Arzachena e la Costa Smeralda, sulla Sardegna “isola di cemento” e su “l’Aga Khan del cemento”, sia quando - nelle sale nelle quali decine di tecnici stavano redigendo il Piano paesaggistico - vedevo scorrere le immagini delle innumerevoli macchie rosacee (le famigerate “zone F”, gli insediamenti turistici contenuti nei piani regolatori comunali) che impestavano le coste della Sardegna. Come sarà mai possibile sconfiggere interessi così corposi e vasti, rovesciare abitudini così consolidate, affermare verità così forti ma così controcorrente come quelle che Renato Soru testardamente proclama e rende concrete con coerenti atti di governo?
Mi venivano in mente tentativi analoghi, speranze in altri tempi sollevate da interventi di amici e compagni sardi, conosciuti e ascoltati in riunioni di partito o di associazioni culturali: Gianni Mura, in una riunione del PCI a Palermo, nella quale si affrontavano quanti, in quel partito, erano tolleranti nei confronti dell’abusivismo e quanti si battevano per sconfiggerlo; e Luigi Cogodi, approdato a responsabilità di governo regionale mentre stendevamo a Roma e a Cagliari una prima valutazione della “Legge Galasso”, e Cogodi combatteva con nuova energia episodi di degradazione del bene comune delle coste dell’Isola. Nel succedersi conseguente degli atti legislativi e amministrativi del Presidente della Sardegna vedevo quei tentativi e quelle speranze diventar concrete: segni, durevolmente espressi nel territorio, di una nuova storia.
A quella storia sono stato poi chiamato a partecipare, come membro del Comitato scientifico incaricato di suggerire soluzioni culturali e tecniche ai progettisti del piano. Non conoscevo Soru, m’incuriosiva la determinazione che rivelava nei pochi incontri che ebbe con il comitato. Registrai le parole che pronunciò quanto aprì i nostri lavori, le pubblicai nel mio sito, eddyburg.it. Ne riporto gran parte, anche perché rimangano in un testo cartaceo:
“Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale.
”Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che va fatto, ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre”.
Quando si esprimeva con queste parole il suo viso rivelava una volontà cocciuta, le cui radici affondavano in esperienze lontane. “Presidente – gli domandai – quali sono le sue radici culturali, quali letture e quali persone hanno contribuito a formare le sue convinzioni?” Mi rispose che era nato in un piccolo paese dell’interno dell’Isola, e che tra le sue letture preferite c’erano le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Credo che senza quella volontà cocciuta, senza quella determinazione che veniva da antiche solitudini, non sarebbe stato capace di condurre all’attuale punto di approdo la vicenda che Sandro Roggio racconta. Un punto di approdo che non è definitivo, ma che segna un punto di svolta dal quale nessuno potrà prescindere nei prossimi anni. Né in Sardegna, né nel continente. Un punto d’approdo scandaloso. Costituisce infatti la testimonianza che, almeno in una parte dell’Italia, si è stati capaci di ribaltare il primato della merce sul bene, del valore di scambio sul valor d’uso, di sconfiggere lo sfruttamento miope del paesaggio mediante “valorizzazioni” cementizie che lo degradano e sostituirlo con decisioni e azioni che tendono alla messa in valore delle qualità costruite dalla natura e dalla storia.
Se si può farlo in Sardegna, si può farlo anche altrove. Anche altrove si può affermare, nei fatti, che la Regione assume in pieno il compito che la Costituzione affida all’intera Repubblica di tutelare il paesaggio. Anche altrove si possono utilizzare gli strumenti forniti dalle leggi degli ultimi decenni (dal decreto Galasso del 1985 fino all’ultima stesure del Codice del paesaggio) per affermare la priorità della tutela del bene comune del paesaggio su ogni sua trasformazione per le necessità dell’oggi. E’ questa, del resto, la verità profonda dello “sviluppo sostenibile”; un termine (sostenibile appunto) che in Italia tende a essere interpretato come sopportabile”, mentre nel resto del mondo è tradotto con durevole, e quindi indica in modo non equivoco la volontà di trasmettere alle generazioni future valori e qualità non inferiori a quelli che abbiamo a nostra volta ereditato.
L’azione di Soru non è priva di ombre e di errori, che Roggio non nasconde. E’ probabilmente un errore (e forse non è l’unico) il fatto che gli spazi e i patrimoni delle antiche testimonianze minerarie siano disponibili alla cessione in proprietà a operatori privati. Un errore non comprendere che il sacrosanto obiettivo di dare risposte positive al turismo dopo aver decretato la fine delle “seconde case”, di puntare sul recupero del patrimonio edilizio esistente dopo aver proibito l’ulteriore urbanizzazione della fascia costiera, può essere raggiunto anche concedendo agli utilizzatori il diritto di superficie di beni pubblici, anziché la loro proprietà. E che, come ha scritto Arnaldo (Bibo) Cecchini su eddyburg.it, “l’impronta del turismo di lusso è enorme e fetida” mentre una regione all’avanguardia può proporsi di promuovere e sperimentare forme innovative, socialmente aperte e consapevoli, di turismo diverso da quello allevato nel villaggi della Costa Smeralda.
Roggio afferma anche che ci sarà qualche ragione se “si è fatto strada il sospetto che il Ppr sia l’esito della visione illuminata di un uomo solo”, e aggiunge che:
“Si sa, è la democrazia, senza scorciatoie, che rende più difficile la pianificazione. Se è audacemente partecipata produce esiti mirabilmente imperfetti. Ma può valere la pena di rinunciare agli esiti perfetti: esponendo i progetti alla ricerca del consenso attraverso le pratiche faticose della mediazione, in quella selva di fantasie e di diritti che sono propri di una società molto complessa”.
Sono interrogativi che anch’io mi sono posto e mi pongo. Anch’io avrei preferito che il punto d’arrivo si fosse raggiunto mediante un’ampia partecipazione popolare, attraverso il consenso convinto di un arco vasto di forze politiche, consolidando e non impoverendo il gruppo dirigente che con Soru ha condiviso l’avvio della nuova Sardegna. Ma non so rispondere a due domande.
La prima: la relativa solitudine di Soru non è forse l’altra faccia di quella cocciuta determinazione che è stata decisiva nel raggiungere quel risultato, di sconfiggere i cementificatori delle coste sarde? Mi hanno sempre detto che, se si prende una medaglia, bisogna accettarne entrambe le facce.
La seconda: i processi di partecipazione che riescano ad attivare il consenso consapevole delle cittadine e dei cittadini (e non solo dei grandi e piccoli proprietari immobiliari e altri operatori della rendita) richiedono altissime professionalità e, soprattutto, percorsi di maturazione molto lunghi. Siamo certi che allungare di molto i tempi dell’approdo avrebbe consentito di salvare qualcosa dei territori coperte da quelle orribili macchie rossastre, le “zone F”, dei piani urbanistici comunali?
Del resto, ciò che si è visto nell’ampia discussione che sul PPR adottato vi è stata (con una disponibilità dei materiali che raramente si è registrata) rivela scenari scoraggianti. Se è vero che la maggior parte della discussione “politica” è stata sulle deroghe alla prosecuzione delle lottizzazioni turistiche, consentite dall’articolo 15 delle norme tecniche. Se è vero che si è contestata l’illegittimità di una modifica, già richiesta sul piano culturale dal Comitato scientifico, imposta sul piano della legge dal nuovo Codice del paesaggio. Se è vero che la richiesta di autonomia, invocata da ogni parte, mirava a scalzare un preciso dettato costituzionale (i beni paesaggistici non sono disponibili per una sola delle articolazioni della Repubblica), rendendo arbitri esclusivi quei comuni che hanno promosso, favorito o – nel migliore dei casi e salvo eccezioni – osservato in complice silenzio la distruzione delle coste più belle.
Se la politica territoriale di Renato Soru ha un torto è quella di essere tardiva; ma non è a lui che se ne può far colpa. Anzi, occorre dargli atto che è stato ben consigliato quando, delle due vie consentite dalle leggi vigenti, ha scelto quelle del piano paesaggistico rispetto a quella del piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”. Certo che la seconda via sarebbe stata preferibile in un territorio già saldo nelle sue regole e nelle prassi dominanti: un territorio in cui la salvaguardia delle risorse culturali e ambientali fosse stata pratica comune, in cui la mercificazione del bene comune fosse sentita come un’eresia. Ma è questa la Sardegna, è questa l’Italia dei nostri anni? Non mi risulta.
Voglio precisare: non sono tra quelli che ha consigliato l’Amministrazione di preferire un piano orientato alla tutela del paesaggio a un piano più compiutamente territoriale e urbanistico. Anzi, delle due formule è la seconda che mi sembra in generale preferibile. Ma alla condizione di formare, preliminarmente, una salvaguardia a tempo indeterminato dei beni paesaggistici individuati, o anche soltanto presunti. Il principio di precauzione deve essere adoperato soprattutto quando governiamo un bene che appartiene alle generazioni future, e della cui utilizzazione dobbiamo render conto all’umanità intera. E il primo atto di ogni pianificazione (questa è una verità che sembrava condivisa dalla cultura urbanistica fin dai tempi del decreto Galasso) è quello di procedere alla preliminare ricognizione e tutela delle risorse culturali e ambientali.
Nel presente clima e nel presente assetto giuridico è difficile che una salvaguardia a tempo indeterminato – o di portata sufficientemente ampia – possa essere tentata con speranze di successo. Se si voleva impedire la prosecuzione a tappeto di ciò che è già avvenuto in una parte del territorio sardo, la strada del piano centrato sulla tutela del paesaggio era obbligata. Il risultato che il PPR ha felicemente raggiunto è stato possibile anche in ragione della scelta di partenza sulla “forma” di piano.
Certo, i giochi non sono conclusi. Quelli che una volta si chiamavano “gli speculatori” stanno continuando a giocare le loro carte e ad adoperare i loro molteplici strumenti. Non mi preoccupano i ricorsi amministrativi nè quelli costituzionali. Mi preoccuperebbe invece se la perdita del senso delle proporzioni impedisse di attribuire il ruolo giusto al nucleo dell’impresa che Renato Soru e i suoi collaboratori hanno, per ora, vittoriosamente portato a un suo significativo approdo, ma che deve essere protetta, e prolungata nelle politiche urbanistiche comunali e in quelle più compiutamente territoriali, sociali ed economiche della Regione. Il rischio maggiore che vedo nell’immediato è che le critiche su punti non fondamentali appannino, e mettano in pericolo, il significato profondo, innovativo e controcorrente, della “nuova storia” della Sardegna.
Citato in: P. Bevilacqua, "Misera dello sviluppo", Laterza 2008
Il testo che segue è stato preparato per introdurre un convegno, organizzato a Nairobi il 22 gennaio 2007 dall’associazione ZONE onlus, sul tema “La città come bene comune. Quale futuro per i quartieri informali?”. Nell’ambito del World Social Forum 2007 il convegno in parte si è svolto nella sede del forum in parte è stato organizzato dalla comunita' di Toi market del grande slum di Kibera.
L’iniziativa è stata promossa per presentare un progetto di rigenerazione di una struttura collettiva informale, Toi Market, a Kibera, gestito dalle comunità locali con l’apporto di Zone onlus e Pamoja Trust, una ong locale che dal 2000 è attiva per fermare gli sfratti e dare supporto tecnico e legale alle comunità degli slum. (vai al postscriptum)
1. LA CITTÀ COME BENE COMUNE: CHE COS’È
In Europa cresce il movimento che rivendica la città come bene comune. Che cosa significa questa espressione? Interroghiamoci sulle tre parole che la compongono
Città
Nell’esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città à la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
Bene
La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.
Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Nell’esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia storia.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze è perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sennto le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
2. IL RUOLO DEGLI SPAZI COMUNI NELL’ESPERIENZA EUROPEA
Gli spazi comuni nella formazione della città europea
Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti.gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.
Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della pazza più grande, della piazza (o de sistema di piazze) cittadine.
Le piazze e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.
Gli spazi comuni nella città europea di oggi
Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità.
Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee; nel XIX secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.
Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato molto preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.
Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).
Movimenti per rivendicare gli spazi pubblici
Negli ultimi anni in molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo , le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.
In tutte le città d’Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d’America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo.
Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzate spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all’uso comune), sulle comodità e sugli arredi.
I campi di Venezia
La progettazione architettonica e urbanistica sono certamente necessarie per realizzare dei buoni spazi pubblici, piacevoli e utili. Sono necessarie, ma non bastano. La città e i suoi spazi non sono fatti solo di pietre e altri materiali inanimati: sono fatti soprattutto dalle relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi.
Ho la fortuna di abitare in una città in cui gli spazi pubblici si sono conservati intatti come erano secoli fa. Si sono conservati nelle loro forme, le loro architetture, e si sono conservati nel rapporto che lega spazi e persone. Sto parlando di Venezia e dei suoi campi: così si chiamano le piazze, e il nome ricorda quando erano spazi aperti, coperti d’erba e magari coltivati. Ne mostrerò alcune immagini, per sottoniarne alcuni aspetti:
- la varietà e l’armonia delle diverse dimensioni e forme degli edifici che racchiudono l’articolato spazio aperto;
- la dimensione degli spazi, appropriata alla scala dell’uomo e alle opportunità di incontri tra diversi gruppi di persone;
- l’integrazione tra funzioni private (le abitazioni che affacciano sul campo) e funzioni comuni (la chiesa, il palazzo con la scuola o l’ufficio, la bottega e il laboratorio artigiano);
- l’assenza di elementi di disturbo dei rapporti tra e persone, come automobili o altri elementi ingombranti o fastidiosi;
- la presenza di piccole utilità, come l’acqua della fontanella e del pozzo, e di elementi di architettura (gradini, muretti e balaustre, panche di pietra) utili per appoggiarsi o sedersi;
- l’apertura, sui bordi del campo, di numerosi piccoli passaggi coperti (“sottoporteghi”) dai quali le persone entrano nel campo o ne escono verso le loro case o gli altri luoghi e percorsi comuni, senza che mai il campo appaia come un incrocio di vie attraversate da un traffico noioso;
- l’animazione sociale costituita dalla presenza contemporanea di persone appartenenti a ceti, mestieri, età, condizioni personali diversi.
3. LA CITTÀ COME BENE COMUNE: CHE FARE?
I campi di Venezia e la festa dell’Unità del 1973
Venezia è una città molto antica (ha più di 1000 anni di vita) che nell’ultimo secolo è stata abbandonata dalla popolazione e ha cominciato a rinascere negli ultimi decenni. Un evento che contribuì alla sua riscoperta – da parte degli stessi veneziani e da tutti i cittadini dell’Italia e dell’Europa – è stata costituita da un grande evento che si svolse nel 1973.
In quell’anno si organizzò a Venezia la Festa nazionale dell’Unità, una grande kermesse politica che raduna ogni anno decine di migliaia di persone da tutt’Italia. In genere si organizzava in grandi spazi alla periferia delle grandi città. Quell’anno si decise di organizzarla a Venezia, nei suoi campi. Almeno 15-20 campi furono coinvolti nell’evento. In ciascuno si svolgevano spettacoli di musica, di teatro, di giocolieri, dibattiti, in ognuno c’era ila cucina all’aperto con le pietanze d’una città italiana o di un paese ospite. La città per una settimana cambiò faccia. Tutti riscoprirono la bellezza degli spazi occupati dalle persone, dai loro incontri, diventati vivi come non mai.
Da allora, abitanti e turisti abitano ogni giorno i campi: sono il soggiorno all’aperto di tutte le case della città, il luogo dove si incontrano gli amici e si conoscono persone nuove. I luoghi dove batte il cuore della città.
Il centro di Roma occupato dagli abitanti delle periferie
Un episodio molto significativo dell’importanza degli spazi pubblici per ristabilire il rapporto tra la società e la città è avvenuto a Roma, la capitale d’Italia, a partire dal 1976. Roma è una città molto grande. Allora aveva oltre due milioni di abitanti.
Un centro storico molto bello e famoso, estesissime periferie sempre più povere e degradate man mano che ci si allontanava dal centro verso l’hinterland. Il centro era occupato dai ricchi e dai turisti, le periferie dai ceti più poveri. Gli slum delle periferie più lontane erano diventati luoghi dove cresceva la delinquenza, gruppi di giovani erravano senza avere alternative ai giochi di prepotenza e sopraffazione. Erano anni nei quali l’Italia era ancora percorsa dal terrorismo, gli “anni di piombo” di quella società.
Un intelligente sindaco, il cui nome era Giulio Carlo Argan, e un geniale giovane assessore, Renato Nicolini, cambiarono radicalmente il clima sociale della città modificando il rapporto tra abitanti e spazi. Le attività culturali furono tirate fuori dalle ristrette sale dei teatri, dei concerti e dei musei. Grandi manifestazioni di massa (maratone cinematografiche di film popolari, teatro e “teatro di strada”, musica di tutti i generi – da Bach al pop – danze e altre manifestazioni) furono organizzati nei luoghi centrali della città.
I giovani la sera e i giorni di festa abbandonavano i loro slum e accorrevano nel centro della città, nelle sue piazze e nei luoghi famosi dell’archeologia. Le famiglie portavono le loro cene negli spazi dove si proiettavano all’aperto i film più amati e gli spettacoli più popolari. I cittadini riconquistarono di nuovo (forse conquistarono la prima volta) le parti più belle e più importanti della loro città: di una città dalla quale fino ad allora erano stati esclusi.
Che fare?
Questi due esempi indicano alcune possibilità di ricostruire un ruolo comune degli spazi pubblici attraverso un intelligente intervento che contrasti le tendenze individualistiche, prevalenti in una società disgregata. In Europa si può far leva sul patrimonio della storia rappresentato dalle città antiche e dai loro spazi. In altre parti del mondo, come in Africa, si può e si deve far leva su altri valori.
Per esempio, sulla presenza di una tradizione ancora viva di vita e di interessi comuni: le famiglie e le aggregazioni di famiglie, i villaggi, le lingue e i dialetti, le abitudini dei diversi gruppi sociali testimoniano la vitalità di valori comuni. Per esempio, sulla mancanza di una concezione della terra come un bene che possa essere privatizzato, frammentato, sottratto all’uso comune. L’individualizzazione del suolo urbano è stato in Europa una delle cause principali del degrado delle città. Partire dagli interessi comuni delle piccole comunità locali, arricchire la loro vita di spazi comuni ben funzionanti e attraenti è un buon punto di partenza. Perciò il progetto di Toi Market mi sembra particolarmente interessante, e spero vivamente che le comunità di Kimbera lo prendano nelle loro mani e lo sviluppino sotto la loro responsabilità.
Ma fare un passo non significa compiere tutto il percorso che quel passo preannuncia. L’obiettivo deve essere – come insegna l’esperienza di Roma che ho ricordato – impadronirsi di tutta la città. Ogni comunità, ogni villaggio, ogni quartiere è una parte di un organismo più vasto: la città.
Come in molte parti del mondo – dall’Asia all’Europa, dall’Africa all’America del Sud e del Nord – la città è divisa in parti rigidamente separate, che non comunicano tra loro, spesso ostili le une alle altre. È una situazione disumana, che viene vissuta con sofferenza (certo diversa) sia nei ghetti dei poveri che nei ghetti dei ricchi.
A partire dagli spazi pubblici, occorre porsi l’obiettivo di rendere davvero comune la città nel suo insieme: renderla finalmente la casa di una società dove le diverse parti (distinte per lingua, origine, tradizione, etnia, condizione sociale, religione) non solo si rispettino ma comprendano che ciascuna di esse è una ricchezza per ciascuna delle altre, e nel loro insieme costituiscano una ricchezza che è maggiore della somma delle singole ricchezze.
P.S. - Un malanno di stagione mi ha impedito di andare a Nairobi e svolgere la relazione. Essa è stata tradotta in inglese e letta in mia vece da Ilaria Boniburini, che aveva concorso a redigerla. (e.s.)
Werner Vontobel, La macchina del benessere. Il disastro del neoliberismo, 1998, Edizioni dedalo, pp.21.22
1. Il primo obiettivo della gestione territoriale dev’essere quello di conservare e migliorare il funzionamento ecologico della matrice territoriale intesa come un tutto e non unicamente quello di conservare una serie di spazi naturali isolati o di specie singolari ed emblematiche. Questo principio, che dovrebbe condizionare tutti gli altri usi delle risorse naturali al mantenimento del suo buon stato ecologico, è già stato accettato, almeno sulla carta, dalla Direttiva quadro per l’azione comunitaria in materia di acqua dell’Unione Europea nel 2000. Sebbene nello stesso anno sia stata lanciata a Firenze la “Convenzione Europea del Paesaggio”, ispiratrice in alcuni paesi o regioni europee delle prime leggi sul Paesaggio, come per esempio quella approvata nel 2005 dal Parlamento della Catalogna, questo criterio non è riuscito tuttavia ad aprirsi una strada nella gestione e ordinamento del territorio. Affinché ciò accada bisogna spingersi molto più in là di una mera condizionalità paesaggistica superficiale, situando la salute degli ecosistemi come priorità reale di tutte le decisioni che riguardano il territorio (dai piani di bacino idrografico,con la delimitazione e l’inventario delle masse d’acqua, ai piani di portata della nuova politica idrologica; dai piani quadro di politica forestale, con le direttrici di connettività ecologica, le strategie di salvaguardia della biodiversità o la rete Natura 2000, passando per una politica globale dell’agricoltura e della pastorizia, per la progettazione delle infrastrutture e di qualsiasi altro provvedimento della pianificazione territoriale: dalle politiche abitative fino ai Piani Regolatori o alla valutazione ambientale strategica dei piani e dei programmi urbanistici). Dobbiamo renderci conto che le risorse e i servizi territoriali sono un patrimonio comune insostituibile, con una capacità limitata che non potrà mai sostenere una crescita illimitata, né tantomeno venire rimpiazzata una volta subiti danni irreversibili.
2. Così come afferma la “Convenzione Europea del Paesaggio” del 2000, da cui deriva la legge catalana recentemente approvata, tutto il territorio è paesaggio: dagli spazi urbani e periurbani, ai poligoni industriali e le infrastrutture, fino agli spazi naturali protetti, passando per i mosaici agricoli, orticoli e forestali. Gli uni e gli altri devono potersi combinare e convivere secondo una scala diversificata della presenza e dell’intervento umano, mantenendo il funzionamento dei sistemi naturali di tutto il territorio in un buon stato ecologico al fine di garantire la continuità dei servizi ambientali che ci forniscono. Perciò qualsiasi azione settoriale che concerne il territorio deve porsi come primo obiettivo il mantenimento e la miglioria del suo buon stato ecologico (includendo sia gli aspetti intangibili, come per esempio la bellezza, sia quelli più materiali e tangibili).
3. Le politiche dirette alla conservazione della natura sviluppate nell’ultimo mezzo secolo in tutto il mondo sono giunte a un vicolo cieco. Questo cul de sac obbliga a mettere in discussione due idee fondamentali, una implicita e l’altra esplicita alla filosofia tradizionale della conservazione ambientale. La prima idea che bisogna abbandonare è la erronea convinzione secondo la quale la protezione degli spazi deve consistere nel ritiro di qualsiasi forma d’intervento o di presenza umana negli stessi, col fine di restituirli a un ipotetico stato “naturale” primogenito. La seconda è un effetto perverso, e chiaramente non desiderato da chi durante molti anni ha abbracciato onestamente questa filosofia della conservazione: il presupposto che, oltre la frontiera degli spazi “naturali” protetti, le azioni umane sul resto del territorio possono svilupparsi senza limiti né precauzioni, dato che la “preservazione” della diversità biologica è già garantita. La Strategia Mondiale della Conservazione già dal 1980 fa distinzione tra un concetto di mera “preservazione” del tipo guardare ma non toccare e il vero concetto di conservazione che implica invece un uso sostenibile, prudente e responsabile delle risorse e dei servizi ambientali del territorio. Tuttavia questa filosofia della conservazione non è ancora giunta ad essere pienamente compresa da chi assume le decisioni politiche pubbliche dei paesi e delle regioni europee, e ancor meno ad essere messa in pratica come si dovrebbe. Il superamento di queste vecchie convinzioni che l’esperienza pratica della gestione ambientale, e l’elaborazione teorica dell’ecologia del paesaggio, hanno dimostrato essere profondamente erronee, ci porta a porre come nuovo obiettivo della conservazione il mantenimento e la miglioria del buon stato ecologico del territorio come un tutto.
4. L’indicatore più chiaro del buon stato del territorio è la salute dei suoi ecosistemi e la biodiversità che possono accogliere. Tuttavia non è facile capire che cos’è la biodiversità, troppo spesso confusa con una specie d’inventario patrimoniale ex situ della diversità biologica. Ciò che più importa non è solo quante specie diverse si trovano in uno spazio, ma come queste si combinano in diverso modo e interagiscono tra di loro in ogni luogo concreto. Così come la ricchezza della comunicazione non proviene solo dal numero di lettere dell’alfabeto ma dalla loro combinazione in parole diverse che acquisiscono significati diversi, la ricchezza della biodiversità sorge dalle combinazioni della diversità biologica che danno differenti espressioni al territorio, generando una gran varietà di paesaggi. È per questo che la biodiversità va strettamente correlata con la diversità dei biotopi o con la molteplicità di ecotoni. La chiave per favorire e conservare la biodiversità risiede nella struttura e nella connettività eco-paesaggistica dell’intera matrice territoriale. Per mantenere il buon stato ecologico del territorio è necessario che la struttura del suo mosaico di pezzi o tasselli diversi offra un habitat a un ampio ventaglio di specie animali e vegetali, e che la loro ricerca di opportunità alimentari e di interazione non venga ostacolata da barriere insormontabili che ne isolino le popolazioni.
5. Tra i due estremi rappresentati dalle zone urbane o industriali da un lato e gli spazi naturali protetti dall’altro, sono gli spazi agricoli e forestali a occupare una proporzione maggiore della matrice territoriale. La moltitudine di specie considerate emblematiche che trovano rifugio negli spazi protetti per nidificare e riprodursi sono responsabili di un intenso sfruttamento trofico degli spazi agricoli, orticoli e forestali umanizzati, dove vivono e si riproducono anche molte altre specie. Dallo stato dei mosaici agroforestali dipende pertanto la qualità ecologica della matrice territoriale come un tutto.
6. Una delle difficoltà più gravi per sviluppare una nuova cultura del territorio, orientata a mantenere e migliorare il suo buon stato ecologico, risiede nel fatto che l’agricoltura, la pastorizia e la silvicoltura sono diventate nei paesi sviluppati attività economiche sempre più residuali, che generano troppo poco valore aggiunto al mercato e che offrono una occupazione remunerata a una popolazione lavoratrice sempre più ridotta e invecchiata. Allo stesso tempo però lo stato attuale e futuro della maggior parte del territorio continua a dipendere da una popolazione attiva agraria rimpicciolita e impoverita. Non si tratta solo di una perdita di braccia o di “attivi”, ma del pericolo di estinzione di molte subculture agricole, pastorizie e forestali tradizionali, con una grande diversità di conoscenze empiriche e pratiche o di professioni che si svilupparono per tentativi ed errori durante la millenaria coevoluzione delle differenti agricolture nelle diverse bioregioni del pianeta. Ma proprio quando le vecchie culture contadine sono più necessarie a un mondo sottoposto a un cambiamento globale incerto, esse si trovano in serio pericolo d’estinzione. Questa è una delle contraddizioni più profonde di un mondo sottoposto a un processo di globalizzazione mercantile insostenibile, come denunciano le piattaforme delle organizzazioni rurali, recentemente anche in Spagna con la Declaración de Somiedo sobre culturas campesinas y biodiversidad (Dichiarazione di Somiedo sulle culture contadine e biodiversità). Nella Convenzione sulla Biodiversità e nella Convenzione dell’UNESCO del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale si parla della necessità di conservare le “conoscenze ecologiche tradizionali” delle vecchie pratiche e mestieri. Il World Heritage Center dell’UNESCO ha dato vita infatti a una Banca Mondiale dei Saperi Tradizionali (World Bank on Traditional Knowledge) per promuovere la preservazione e lo scambio fra quelle vecchie culture agrarie diventate sagge nella gestione ambientale del territorio. Parchi agricoli come quello approvato in Catalogna nel Baix Llobregat o quello del Gallecs nel Vallès (Barcellona) sono solo l’inizio di un gran movimento che dovrebbe abbracciare tutto lo spazio agricolo per dare futuro e vitalità al mondo rurale. I nuovi approcci della politica agraria e dello sviluppo rurale dell’Unione Europea potrebbero favorirlo sempreché vengano intesi come un vero cambiamento di paradigma e non solo come un mero complemento accessorio di certe pratiche agricolo-pastorizie insostenibili.
7. Il degrado delle qualità ambientali del territorio proviene da un lato dalle dinamiche che intensificano gli usi umani su una piccola parte dello stesso infarcendolo di spazi urbanizzati, attività industriali, infrastrutture e attività agricole e pastorali intensive fino a limiti insostenibili. Mentre dall’altro lato tale degrado è originato dalle dinamiche socio-ambientali derivate dall’abbandono del mondo rurale nella maggior parte del territorio. Il degrado ambientale proviene quindi sia dall’ecceso come dal ritiro dell’intervento umano nel territorio. Ciò è particolarmente rilevante per i paesaggi mediterranei.
8. Per gli effetti sugli accidentati rilievi di determinate precipitazioni e di certi corsi fluviali molto irregolari, combinati a una forte insolazione, i paesaggi mediterranei si caratterizzano in modo naturale per una elevata diversità di cellule territoriali ed ecotoni o zone di transizione differenti, sottoposte a forti variazioni nello spazio e nel tempo. Il solatìo contrasta con l’abacìo, le pianure con le montagne, i fiumi con i torrenti intermittenti, le piogge torrenziali e le grandi piene con i periodi di intensa siccità e così via. Questo è il segreto dell’elevata biodiversità di questa particolare regione della Terra. Nel corso dei millenni l’attività agraria tradizionale ha lavorato con questo tratto distintivo della matrice territoriale mediterranea, e ha imparato per tentativi ed errori a coevolvere con essa cercando diversi equilibri dinamici tra sfruttamento e conservazione attraverso la localizzazione nello spazio di anelli o tasselli di presenza e attività umane territorialmente diverse. Il risultato è stato la magnifica varietà di mosaici agro-forestali che hanno configurato i nostri paesaggi tradizionali nel Mediterraneo, in cui l’intervento umano nell’ambiente ha teso generalmente a incrementare o mantenere l’agrodiversità e la biodiversità come garanzia di stabilità.
9. Ma la grande trasformazione sperimentata dall’agricoltura con quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde”, diffusa su grande scala dopo il 1950, ha generato una gravissima scompensazione territoriale dell’attività agraria che ha portato alla fine della vecchia gestione integrata del territorio. L’allevamento intensivo ingrassa razze di animali allogene mediante mangimi importati e inquina gravemente molti dei paesi dalla Catalogna con un eccesso di escrementi. La produzione agricola e ortofrutticola si concentra in una parte limitata del territorio più facile da meccanizzare, dove l’applicazione massiva di fertilizzanti sintetici, irrigazione, pesticidi ed erbicidi, e certe sementi ad alta produttività, acquistati alle imprese multinazionali e funzionali allo sfruttamento monocolturale, ha trasformato l’agricoltura in una importante fonte d’inquinamento diffuso (mentre agricoltori e pastori si trovano sempre più prigionieri delle catene agro-alimentari industriali che accaparrano la maggior parte del valore aggiunto vandendo loro semi, fertilizzanti e agro-chimici da un lato e commerciando i loro prodotti dall’altro). Il resto dell’antico spazio agrario ha perso ogni tipo di funzione economica dando luogo a un processo di riforestazione frutto dell’abbandono delle antiche agricolture di versante. L’architettura del paesaggio pazientemente costruita dal lavoro contadino, con una infinità di terrazzamenti sostenuti da muri a secco e un esteso reticolo di sentieri di ogni lunghezza, spesso molto ben disegnati, dà forma a un patrimonio culturale che sembra condannato a sparire in un tempo così breve da non consentirne la mappatura, l’inventario e la catalogazione.
10. Lo scompenso territoriale dei flussi materiali ed energetici che muove questa attività agraria sempre più insostenibile, ecologicamente ed economicamente, e che nonostante tutto continua a occupare la maggior parte del territorio, ha originato una drastica semplificazione dei paesaggi agricoli e forestali. L’antico mosaico agro-forestale mediterraneo è stato sostituito nelle pianure da appezzamenti sempre più grandi ed uniformi di monocoltivi intensivi, dove appaiono fattorie industriali d’allevamento all’ingrasso territorialmente disintegrate, mentre lungo le pendenti dei versanti proliferano masse continue e uniformi di boschi giovani, monospecie, eccessivamente densi, molto vulnerabili e non sfruttati.
11. Questa duplice dinamica di intensificazione e abbandono è all’origine di due delle tre patologie ambientali più gravi del nostro territorio: il degrado in quantità e qualità delle acque superficiali e sotterranee —che in Catalogna per esempio riguarda l’insieme dei bacini interni e il tratto finale del bacino dell’Ebro— da un lato, e dall’altro la crescente diffusione di incendi forestali che —di nuovo in Catalogna ma come in tanti altri luoghi d’Europa e del Mediterraneo— hanno la loro principale origine nel fatto che attualmente ci sono quasi più boschi che in qualsiasi altro periodo del millennio precedente, ma si tratta tuttavia di un bosco lasciato a se stesso per la sua mancanza di redditività economica, poiché quasi tutti gli usi legati alla raccolta multipla tradizionale sono spariti (l’unica rilevante eccezione in Catalogna è costituita dai funghi, in quanto il valore economico di quelli che crescono nelle superfici forestali supera il valore della vendita del legname e della legna da ardere, senza che i proprietari o i comuni ne ricevano alcun beneficio). I pochi boschi cedui maturi che restano alla Catalogna si sono trasformati nell’unica fonte di reddito, anche se il loro sfruttamento può comportare una grave perdita della biodiversità che custodiscono.
12. Molta gente continua a credere erroneamente che il bosco aumenta la disponibilità d’acqua, senza rendersi conto che pure ne consuma. I boschi hanno certamente un ruolo importante nella protezione del suolo, nella stabilità dei versanti, nella regolazione dei bilanci idrici e nella riduzione dei rischi idro-geologici delle piene (che costituiscono di gran lunga il primo rischio naturale del nostro paese). In questo senso, molti boschi di montagna sono protettori nel senso più letterale del termine. Però è altrettanto vero che in molti casi l’aumento della evapotraspirazione cui dà origine la crescita del bosco può eguagliare o superare gli effetti che ha sull’incremento delle precipitazioni e sulla regolarizzazione del corso d’acqua nel bacino. Perciò, —e specialmente nella bioregione mediterranea— avere più boschi può voler dire, molto spesso, avere meno acqua. Parte della perdita di molte delle antiche fonti ha infatti questa origine, così come la riduzione della capacità di molti fiumi e torrenti (in Catalogna parte di questa perdita nel Delta del Ebro non può essere imputata all’incremento delle estrazioni dei poligoni di irrigazione, alle città o agli usi industriali lungo il corso del fiume).
13. Lo stress idrico che caratterizza la bioregione mediterranea implica inoltre che a causa della mancanza di umidità le popolazioni di microrganismi o di insetti saprofiti non possono scomporre tutta la biomassa morta che genera la crescita del bosco. Le parti legnose secche con maggior contenuto di legnina tendono infatti ad accumularsi nelle superfici forestali, finché un lampo, o qualsiasi altra fonte incendiaria, provoca la loro scomposizione attraverso il fuoco. Questa è la ragione ambientale per cui il fuoco è sempre stato un fattore della dinamica evolutiva dei boschi mediterranei ed anche delle forme tradizionali di adattamento umano a questo ambiente. Le culture contadine tradizionali della Catalogna hanno fatto per esempio un ampio uso della pratica dei «formiguers» e delle «boïgues». Con i «formiguers» si raccoglieva nei boschi le frasche per bruciarle nei campi in pile ricoperte di terra per poi fertilizzarli con le ceneri ottenute. Le «boïgues» catalane, o «rotes» di Maiorca, aprivano invece nei boschi delle radure in cui venivano piantati vigneti o seminati cereali come coltivazioni temporanee e, una volta completato il ciclo, il terreno veniva restituito al bosco. I fitti boschi attuali sono farciti di «sitges» o «places» (NdT piazze da carbone o ial) dove nel corso dei secoli erano bruciate svariate carbonaie. Si è dato anche un abbondante consumo del sottobosco o strato arbustivo specialmente in forma di fascine d’erica arborea e corbezzolo, e di «costals de brancada» chiamati anche «torrat de pi», (NdT fascine di rami e tronchi di pino) che per la loro forte infiammibilità costituivano gli acciarini abituali di tutti i focolari domestici e di tutti i forni: quelli per il pane, le ceramiche, le terracotte, le tegole e piastrelle, ecc. Inoltre lo sfruttamento dei pascoli naturali per il bestiame locale o transumante e l’uso dei tratturi mantenevano aperte molte radure in spazi forestali non sempre a forestati.
14. Per molti secoli i boschi mediterranei sono coevoluti con le pratiche delle «boïgues» e dei «formiguers» catalani, con il taglio del legname o la fabbricazione di carbone, la raccolta di fascine, la pastura di ghiande, l’estrazione del sughero e la raccolta della legna, delle castagne e delle pigne, delle piante medicinali, degli asparagi selvatici, dei funghi o del fogliame impiegato come fertilizzante, oltre a tutti gli altri molteplici usi che la cultura contadina faceva del bosco e che richiedeva il mantenimento di una infinità di sentieri aperti. Questi usi agro-forestali e pastorizi includevano anche un certo ricorso selettivo e puntuale al fuoco per mantenere la frontiera tra lo spazio forestato e il pascolo. L’origine del carattere epidemico degli incendi forestali è quindi la combinazione dell’abbandono di tutti quegli usi multifunzionali del bosco della cultura contadina tradizionale, con una crescita disordinata delle masse boscose sempre più grandi, uniformi e abbandonate a loro stesse. Sempre più esperti affermano che l’alternativa ai fuochi incontrollati è il ritorno al “fuoco verde”, controllato e diretto a riaprire radureper stabilirci uno sfruttamento pastorizio estensivo che aiuterebbe inoltre allo sviluppo della biodiversità (così come ha già cominciato a fare il Centre de la Propriété Forestière nella zona mediterranea della Francia e come raccomanda il Nuovo Piano Direttivo di Politica Forestale della Generalitat de Catalunya).
15. L’agricoltura e la pastorizia ecologica sono i primi grandi alleati della nuova cultura del territorio, che deve trovare soluzioni integrali alle gravi disfunzioni ambientali di un modello agro-pastorale diventato totalmente estraneo all’ambiente che utilizza e che è ecologicamente ed economicamente insostenibile. Le tecnologie agricole di quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde” hanno fatto il loro corso e il loro superamento ci conduce a un punto di svolta decisivo. Le “soluzioni” transgeniche che vogliono imporre le stesse imprese multinazionali, che già controllano una gran parte della catena alimentare mondiale, non presuppongono altra cosa che dare un altro giro di vite a un modello agro-pastorale insostenibile, indifferente nei confronti del territorio, tale da distruggere la diversità agraria e minare la biodiversità. Se la volontà democratica della cittadinanza e la ribellione dei consumatori e consumatrici consapevoli non sbarra il passo all’imposizione dei prodotti transgenici, non ci potrà essere futuro nemmeno per una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche che ritornino a lavorare con la natura attraverso sistemi territorialmente integrati.
16. Le disfunzioni ambientali che il territorio soffre e la risoluzione dei conflitti che esse generano richiedono soluzioni integrali. Se non apriamo la strada a opzioni territorialmente sinergetiche, ogni problema parziale trattato in modo isolato non potrà trovare valide vie d’uscita. Mentre sussiste ancora un discorso che afferma che il Mediterraneo in generale, e la Catalogna in particolare, è un paese povero in risorse energetiche, e che per tanto è necessario importare elettricità nucleare francese o prolungare la vita utile delle centrali nucleari del nostro territorio, la maggior parte dei boschi che crescono negli antichi spazi agrari abbandonati rimangono senza nessun tipo di sfruttamento e mantenimento. Una buona gestione ambientale del territorio, orientata a migliorarne lo stato ecologico e a fomentarne la biodiversità, reclama recuperare la vecchia pratica della «boïga» riaprendo radure e cammini di accesso al bosco, e approfittare del disboscamento selettivo come una fonte addizionale di energia rinnovabile attraverso piccole piante di biomassa integrate con i paesi vicini. Quando il discorso ufficiale afferma ancora adesso che non esistono alternative a una pastorizia intensiva scollegata funzionalmente dallo spazio coltivato, e che solo ricerca soluzioni in extremis al problema dell’accumulo d’escrementi, quegli spazi del bosco selettivamente aperti potrebbero accogliere una nuova pastorizia ecologica estensiva che offrra al mondo rurale nuove opportunità per generare valore aggiunto fornendo alimenti di qualità insieme al miglioramento dello stato ambientale del territorio. Mentre le politiche agrarie ignorano ancora l’immenso patrimonio dei versanti terrazzati a fasce e ronchi, o affermano che il loro mantenimento è economicamente insostenibile, un buon ordinamento del territorio dovrebbe aprire prioritariamente radure proprio dove si trovano le terrazze e i sentieri da recuperare. Quando molta gente identifica ancora lo sviluppo eolico o lo sviluppo degli orti solari con il degrado del paesaggio, una ricerca di soluzioni territorialmente sinergetiche può trovare nelle zone ventose un luogo adeguato per gli aereogeneratori e per i pannelli fotovoltaici in molti di quei nuovi spazi dediti alla pastorizia o agro-forestali diradati dove si dovrebbero aprire nuove vie d’accesso o, ancora meglio, recuperare quelle antiche andate perse. Sbloccare questo falso conflitto tra lo sviluppo delle energie rinnovabili e il mantenimento di un buon stato ecologico dev’essere una priorità della nuova cultura del territorio. Dobbiamo trovare soluzioni integrali basate nella sinergia territoriale.
17. Le masserie e le comunità rurali hanno portato avanti per molti secoli una accurata gestione integrata del territorio indotta dalla necessità: dipendevano dagli animali per ottenere concime e forza da traino, e solo attraverso una ragionevole integrazione dell’allevamento del bestiame con gli altri usi agricoli e forestali del territorio era possibile contrarrestare la considerabile perdita energetica che comportava la loro alimentazione. Facevano un uso efficiente del territorio proprio perché erano poveri di energia e di materiali di origine inorganica. Con l’arrivo del consumo di massa di combustibile fossile e di fertilizzanti chimici, la gestione integrata del territorio ha smesso di essere una necessità. Ma la fine di quella necessità doveva essere anche la fine delle sue virtù? La risposta è: non necessariamente. Una pianificazione e gestione ordinata del territorio avrebbe potuto rilevarla.
18. Non è un caso che la pianificazione regionale e urbana sia stata una scoperta che si è avuta, in Catalogna come in tutta Europa, nello stesso momento storico in cui le vecchie culture agrarie cominciavano a perdere la loro millenaria capacità di gestire il territorio in modo integrato. Se nel nostro paese abbiamo patito fino a oggi un vuoto così grande nella pianificazione territoriale e un eccesso così sproporzionato nello sfruttamento del suolo a fini speculativi, tutto ciò ha molto a che fare con la mancanza di democrazia o con il basso livello di quella che abbiamo conosciuto realmente. Per rendersene conto basta attraversare i Pirenei e confrontare i paesaggi rurali e urbani che troviamo in direzione nord con il grave disordine del nostro territorio. Dai grandi e innovatori urbanisti come Ildefons Cerdà (1815-1876) e Cebrià de Montoliu (1873-1923), fino a Nicolau Rubió i Tudurí (1891-1981) e Santiago Rubió i Tudurí (1892-1980) o il GATCPAC (1928-1939) (NdT gruppo d’archittetti della Barcellona repubblicana ispirato ai principi di Gropius e Le Corbusier), in Catalogna circolavano proposte molto chiaroveggenti e innovatrici circa la pianificazione urbana e l’ordinamento territoriale. È stata proprio la mancanza delle libertà politiche e l’enorme impoverimento culturale durante la dittatura di Franco a creare un gravissimo vuoto di pianificazione, tale da lasciare una impronta molto visibile nel degrado di tutto il litorale, delle città, dei quartieri, dei poligoni industriali, delle zone turistiche o delle aree rurali abbandonate. È ora ormai che i piani territoriali parziali e i piani direttivi urbanistici integrino tutte le richieste e i condizionanti di una valutazione ambientale strategica rigorosa.
19. Dopo tre decenni di istituzioni democratiche, l’ordinamento territoriale è ancora una questione irrisolta e lo sfruttamento del suolo a fini speculativi continua a imporsi troppo spesso sulla volontà cittadina e sugli interessi generali del paese. Il vuoto di pianificazione territoriale ha ancora molto a che fare con il basso livello di democrazia derivante da una transizione politica post franchista niente affatto esemplare. L’avanzata di una nuova cultura del territorio, che ponga il mantenimento del buon stato ecologico al centro dell’ordinamento degli usi del suolo, ha bisogno di una democrazia più partecipativa e di maggior qualità deliberativa di quella attuale.
20. Il compito più urgente dei movimenti sociali che si sono sollevati contro la speculazione privata del suolo e la mancanza per molti anni di politiche pubbliche di regolazione del territorio all’altezza delle circostanze è stato ed è ancora quello di bloccare i nuovi progetti di edilizia residenziale e turistica nelle zone del litorale già saturate fino a estremi assurdi, di nuove autostrade e strade in aree già circondate da grandi arterie al servizio del trasporto motorizzato, di campi da golf, di linee d’alta tensione o di altre infrastrutture aggressive, spesso innecessarie o persino controproducenti per il nuovo modello territoriale di cui abbiamo bisogno. La cultura del “qui no”, di cui si lamentano molti poteri di fatto, non è altra cosa che la reazione a questa mancanza di deliberazione, partecipazione e pianificazione democratica del territorio. Allo stesso tempo, per avanzare realmente verso un nuovo modello territoriale che mantenga in buono stato il suo funzionamento ecologico è necessario che la protesta venga accompagnata alla proposta di soluzioni innovatrici e coerenti del problema dal punto di vista socio-ambientalmente a tutti livelli (locale, regionale, nazionale, statale, europeo e globale). Queste soluzioni devono essere territorialmente sinergetiche. Cioè devono contemplare allo stesso tempo tutti i versanti correlati della questione (rurale e urbana, energetica ed eco-paessagistica, materiale e culturale, tangibile e intangibiile, ecc.).
21. La terza gran patologia ambientale del nostro territorio è fatta di cemento e asfalto e consiste nell’avanzata forsennata di una urbanizzazione speculativa. Per effetto della moltiplicazione della rete viaria pubblica al servizio di automobili e camion privati, le regioni metropolitane di Barcellona, Girona e Tarragona stanno sperimentando un processo di conurbanizzazione dispersa che invade alcuni dei migliori terreni del territorio annullandone le funzioni ambientali, distrugge spazi liberi e possibili connettori biologici, tende a segregare socialmente le persone nello spazio a seconda dei livelli di reddito e/o dell’origine sociale o culturale, incrementa la distanza tra luogo di residenza e lavoro o servizi, e moltiplica esponenzialmente la dipendenza dall’automobile, la produzione di residui urbani, la spesa energetica, il consumo d’acqua e le emissioni disperse di gas serra per abitante. Una nuova cultura del territorio deve avere come massima priorità frenare questa febbre costruttrice di suburbi dispersi, e riorientare la crescita urbana verso un altro modello basato su una rete di città e centri più densi, misti e polifunzionali, socialmente integratrori, dove diventi possibile far la pace con la natura.
22. In molte province ha preso piede un discorso sommamente ambiguo che attribuisce “alla città” o “a Barcellona” tutti i mali di cui soffre il territorio. Questo discorso mette sotto silenzio, in primo luogo, le patologie ambientali originate da un modello agricolo e pastorale insostenibile, che è divenuto una delle principali fonti del degrado paesaggistico e dell’inquinamento diffuso. In secondo luogo, nasconde che anche nelle altre province non barcellonesi la maggior parte della popolazione vive e lavora in città e centri dove il consumo di energia e di acqua per abitante e le emissioni di gas serra sono uguali o spesso superiori a quelle degli abitanti delle regioni metropolitane. Tuttavia l’errore più grave di questo discorso è non capire che la città dev’essere una parte sostanziale delle soluzioni alle disfunzioni ambientali che soffriamo. Solo l’alleanza tra una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche, e una rete di città, villaggi e paesi realmente impegnati nella sostenibilità, potrà rendere fattibile una nuova cultura del territorio.
23. Per l’ecologia umana la città è stata una gran scoperta evolutiva poiché permette di moltiplicare le opportunità di interazione, riducendo al minimo possibile le necessità di trasporto e di consumo del suolo. Ampliando le capacità di scelta della gente, la città può diventare uno spazio molto importante per lo sviluppo umano. Le città vere, basate su una densità e mescolanza adeguate agli usi, possono venire anche concepite come una risorsa rinnovabile in cui la ristrutturazione dei tessuti già esistenti può diventare una alternativa al consumo orizzontale del territorio. Purtroppo però le nostre città attuali non realizzano questo sviluppo umano sostenibile. La prova più evidente di ciò è rappresentata dalle gravi difficoltà di accedere a un alloggio degno ed economico, che nell’attuale boom della speculazione immobiliaria pregiudicano gravemente un numero sempre più grande di giovani o di famiglie con lavori precari e bassi redditi. Questa privazione del diritto più elementare alla casa e alla città è uno degli ingranaggi dell’attuale esplosione metropolitana sotto forma di conurbazione dispersa, che segrega socialmente le persone nello spazio e moltiplica l’impronta ecologica del suo metabolismo sociale. Fermare la speculazione e garantire realmente il diritto costituzionale alla casa per tutti sono compiti urgenti e prioritari di una nuova cultura del territorio, che deve andare di pari passo con il cambiamento in direzione di tipologie costruttive di minor impatto ambientale. Né le città attuali né tantomeno i suburbi dispersi a bassa densità, sono in grado di soddisfare le necessità della gente in modo sostenibile: ovvero senza compromettere lo sviluppo umano delle altre persone o dei territori del presente o delle generazioni future. Ma il suo fallimeno circa la capacità di promuovere lo sviluppo umano o la sostenibilità ha a che vedere con il modello imperante di città. La conurbazione dispersa deteriora il funzionamento ecologico del territorio distruggendo allo stesso tempo la propria città. Non è quindi la città il problema ma il suo stesso fallimento.
24. Ben lungi dal comportare un qualche tipo di riequilibrio territoriale, l’attuale processo di dispersione della popolazione dalle attuali concentrazioni metropolitane fino ad anelli concentrici sempre più lontani moltiplica esponenzialmente tutti i problemi socio-ambientali del territorio. Il principale riequilibrio territoriale di cui ha bisogno adesso la Catalogna, come tante altre regioni dal Mediterraneo, riguarda la riduzione dei dislivelli dell’attuale gerarchia urbana all’interno della rete reale di città e paesi che inglobano tutto il territorio. Ciò significa incrementare il peso relativo delle città piccole e medie in detrimento dei grandi centri metropolitani di Barcellona, Girona e Tarragona già troppo saturate. Bisogna fare nuovi ampliamenti nelle città intermedie, come si fece un secolo e mezzo fa a Barcellona o Sabadell. L’alternativa a una estensione disordinata delle conurbazioni disperse è quella di costruire una rete basata sul reticolo urbano tradizionale che il territorio catalano ha ereditato dal passato di città e paesi densi, polifunzionali e socialmente integranti, uniti da un sistema efficiente di trasporto ferroviario o collettivo e separati da diversi cinturoni o anelli verdi di spazi orticoli, agricoli e forestali vivi che, insieme al sistema di spazi naturali protetti e uniti da corridoi biologici viabili, mantengano un buon funzionamento ecologico di tutta la matrice territoriale.
25. Per avanzare verso un modello territoriale che sia localmente e globalmente più sostenibile le città, cittadine e paesi della Catalogna —come di qualsiasi altro luogo del mondo sviluppato— devono ridurre significativamente l’impronta ecologica del loro metabolismo collettivo. Oggi tutte le città, cittadine e paesi del nostro paese devono importare materiali ed energia da luoghi molto lontani. Tutti vivono in un luogo del territorio, ma nessuno vive in modo esclusivo del piccolo territorio in cui abita. I criteri d’efficienza, sufficienza e giustizia ambientali devono applicarsi alla ricerca di soluzioni a tutto tondo tenendo conto della molteplice dimensione, locale, regionale, nazionale, statale, europea e internazionale del problema.
Queste 25 idee, e gli orientamenti e proposte che ne derivano, possono riassumersi in una sola nozione centrale: il paesaggio è la percezione umana del territorio, e la sua configurazione diviene l’espressione territoriale del nostro metabolismo sociale. Per una nuova cultura del territorio tutti i paesaggi devono venir intesi come uno specchio che riflette la gamma di relazioni che la nostra società mantiene con la natura. Se non ci piacciono i paesaggi che abbiamo, dobbiamo cambiare la nostra forma di vivere e convivere.
L’autore è direttore del Dipartimento di storia ed istituzioni economiche dell’Università di Barcellona, membro del Consiglio di redazione della rivista Global Environment
Cit. in: Gianni Biondillo, Metropoli per principianti, Guanda, Parma 2008.
In entrambe le occasioni la critica alla città del neoliberalismo (della fase attuale del capitalismo) è stata il punto d’avvio; l’assenza di attenzioni positive per la città da parte dell’establishment politico, e della stessa società egemonizzata dal “pensiero unico” è stata sottolineata quasi da tutti; sul “che fare” si è dato molto rilievo al ruolo attuale e potenziale dei movimenti popolari, che si manifestano in moltissime città europee, e non solo europee. Il “diritto alla città” come obiettivo, e “la città come bene comune” come risposta, stanno acquistando un rilievo sempre maggiore, e forse anche la capacità di costituire la base di una strategia comune e di una pratica di resistenza alle distruzioni, segregazioni, diseguaglianze, privatizzazioni che caratterizzano, ovunque nel mondo, la prospettiva della città del neoliberalismo.
È probabilmente utile riprendere qui alcune riflessioni, che si sono sviluppate particolarmente nella Scuola di eddyburg, su quelle tre parole, urbs, civitas e polis la città come struttura fisica e funzionale, la città come società che la abita e vive, la città come politica. Si è detto che la buona urbanistica funziona, i miglioramenti delle condizioni di vita nelle città e nei territori si manifestano, le buone leggi e le buone pratiche si sviluppano, quando quelle tre realtà s’incontrano, quando la città incontra la società e la politica. Oggi siamo indubbiamente in un momento difficile: quelle tre realtà si sono divaricate, l’urbanistica non è più compresa dalla società, la politica si è svuotata di contenuti positivi. Così è sembrato e sembra che l’unico elemento positivo a cui aggrapparsi sia costituito dalle iniziative di protesta contro le condizioni cui i poteri forti riducono l’habitat dell’uomo, che nascono dalla società e propongono soluzioni alternative. I comitati e i movimenti locali e settoriali (contro le Grandi opere, contro lo spreco del territorio, contro la privatizzazione degli spazi pubblici, contro la degradazione e la commercializzazione dei beni culturali, contro l’espulsione dalle abitazioni e dai quartieri delle città), e soprattutto le reti che si tenta di costituire tra loro, sembrano i luoghi dai quali ripartire per contrastare le tendenze prevalenti. In effetti, moltissimi frequentatori di eddyburg si ricollegano a quelle raltà sociali, vi partecipano o le appoggiano, mettono al loro servizio il loro sapere e le informazioni di cui dispongono.
Qual è però il contributo specifico che chi si chiede a ogni persona dotata di un sapere nelle materie che riguardano il territorio, e in modo particolare a chi occupa professionalmente della città? Riteniamo che esso risieda proprio in quello che è lo spirito informatore della città e costituisce la “missione” dellurbanista: la consapevolezza di due verità.
La prima. I problemi dell’habitat dell’uomo non si risolvono se non si agisce tenendo conto che esso è un sistema: è un insieme nel quale tutte la parti sono collegate tra loro: le diverse scale, i diversi luoghi, i diversi settori. E non solo nella loro fisicità, ma anche nel modo in cui lo spazio interagisce con la società. Aiutare i gruppi e le reti ad avere questa visione, quindi a saldare (e mediare) le proteste e le richieste dell’uno e dell’altro luogo, settore, scala con quelle di tutti gli altri è un compito di grande rilievo. Se raggiunge lo scopo, avrà aiutato i movimenti a passare dalla testimonianza all’efficacia.
La seconda. Unire urbs e civitas non è sufficiente. Occorre riconquistare la polis: occorre che, prima o poi, la politica ritrovi il suo ruolo di interprete degli interessi maggioritari e generali della società e di guida degli strumenti che alla società sono indispensabili. E qual è il primo luogo della politica, del suo incontro con la società? Oggi, le istituzioni della democrazia. Del resto, ogni uomo di cultura (e in particolare l’urbanista) sa che le lotte per la casa, per gli spazi pubblici, per un ambiente di vita sano e piacevole, per la tutela dei beni territoriali comuni, per la riduzione del consumo di suolo, raggiungono il loro scopo unicamente se si traducono in adeguati strumenti per il controllo e l’indirizzo alle trasformazioni del territorio. Strumenti che sono (e devono restare) nelle mani degli “enti territoriali a competenza generale elettivi di primo grado". Ecco allora un punto di riferimento obbligato per i movimenti: in primo luogo i comuni, il Municipio, e poi gli istituti di livello sovraordinato. Quando le azioni che nascono spontaneamente dalla società conquistano i municipi esse non solo raggiungono più facilemente i loro obiettivi, ma aiutano a ricostruire la politica.
In questo sito, e nelle attività che eddyburg promuove o organizza, ci proponiamo di lavorare in modo particolare in questa direzione. Sebbene, in questa fase terribile della nostra vita pubblica, la nostra attenzione - e il notro tremore - siano commossi soprattutto dalla devastazione in atto dei più fondamentali principi dell’etica sociale.
Qui trovate le conclusioni (in progress) della quarta edizione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg e il documento per la costituzione di un Forum permanente europeo per il "diritto alla città"
La Repubblica, 22 settembre 2008
Mario Tronti, "il manifesto", 26 giugno 2008
Il mandato ricevuto
Nel dare l’avvio al primo incontro pubblico programmato nell’ambito della ricerca, il sindaco di Asolo - Daniele Ferrazza - ha espresso con molta chiarezza le ragioni di una riflessione sul presente e sul futuro del centro storico di Asolo. Queste le sue considerazioni:
Da molti anni sentiamo parlare del futuro del centro storico. Nel frattempo, il futuro è arrivato e rischia di superarci. Appare a tutti evidente come il centro storico di Asolo rappresenti non solo uno dei borghi più belli d’Italia ma anche un esempio di straordinario pregio storico e architettonico. Il suo equilibrio è fragile, sospeso tra le sacrosante esigenze di coloro che vi abitano, i legittimi interessi di coloro che gestiscono un’attività e le naturali aspettative dei moltissimi visitatori. Quale futuro vogliamo per il centro storico? La risposta
dovrà raggiungere una sintesi di tutte le aspettative dei diversi attori: cittadini residenti, operatori economici, turisti e visitatori. Senza dimenticare che la piazza di Asolo rappresenta l’ombelico civile e sociale per tutti i cittadini del comune e un punto di riferimento importante per i paesi del circondario.
I contenuti della ricerca
La ricerca affronta il problema del recupero della vivibilità del centro storico. Con il termine vivibilità vogliamo riassumere quelle condizioni che fanno della città l’espressione più alta della vita sociale:
- mantenimento in buono stato delle testimonianze della storia più lontana (palazzi, case, chiese, segni del paesaggio) e di quella più vicina (i luoghi che si frequentavano nell’infanzia, le vecchie botteghe...);
- rapporto equilibrato con l’ambiente e l’assenza di inquinamento;
- presenza di molte funzioni – residenziali, produttive, ricreative – non
conflittuali tra loro;
- sufficiente dotazione di spazi pubblici, organizzati in modo da facilitare sia gli spostamenti sia l’incontro delle persone e presenza dei servizi essenziali per le persone e le famiglie (dalla scuola alla farmacia, dal panettiere all’edicola);
- buona integrazione tra persone appartenenti a diverse età, culture, condizioni sociali e professionali.
Il lavoro è stato condotto attraverso tre indagini parallele:
- aggiornamento e lettura critica delle conoscenze già disponibili sul centro storico, mettendo a fuoco problemi e opportunità;
- raccolta delle aspettative e dalle opinioni dei cittadini asolani in merito alla loro permanenza nel centro storico;
- analisi di alcune esperienze italiane che possano costituire un riferimento per la definizione delle iniziative da proporre.
I documenti
Sono disponibili qui di seguito i documenti integrali consegnati all'amministrazione comunale e presentati in Consiglio comunale nella seduta del 4 aprile 2008.
Nel 2000 la Regione Sardegna, il Comune di Cagliari e gli uffici dei Beni culturali fecero un clamoroso errore. Con un “accordo di programma” decisero di smembrare il sistema collinare che conteneva la più grande necropoli punico-fenicia e romana del Mediterraneo (cioè del mondo intero, e di edificarvi ulteriori 400mila metricubi di costruzioni. Nel frattempo un dissennato piano regolatore consentiva di costruire giganteschi palazzoni al piede e sulle prime pendici del colle, tagliando la storica visuale verso i luoghi del primo insediamento della città e demolendo 431 tombe puniche, fenicie e romane. Una piccola parte dell’area (22 ettari) era stata assoggettata dalla sovrintendenza nel 1996 al vincolo archeologico. Un successivo vincolo paesaggistico su tutto il colle era stato violato dalla stessa regione, che aveva dato il nulla osta paesaggistico agli interventi previsti dal nefasto “accordo di programma”.
Complici oggettivi del misfatto: il comune, la regione, la sovrintendenza ai beni culturali. Egemone e vincitore: un costruttore, proprietario dell’area. Il grimaldello: la perequazione, questa turpe invenzione dell’urbanistica mercificata. Vittima: una preziosa area archeologica, unica al mondo. Modalità del crimine: la divisione della necropoli in tre parti, una riempita da palazzi, una seconda coperta da un giardinetto alla Milano 2, una terza ceduta dai proprietari, bontà loro, alla pubblica amministrazione.
Cambia la maggioranza regionale: nasce la giunta presieduta da Renato Soru. Ma nel frattempo gli interessi dei costruttori si tramutano in progetti, che ottengono le prescritte autorizzazioni. Il silenzio è rotto da una provvida iniziativa: Italia nostra organizza un convegno, invita il presidente della Regione che va a visitare il luogo, ne comprende l’importanza e avvia un nuovo procedimento di vincolo. Mentre il Piano paesaggistico regionale riconosce l’intera area (corrispondente a circa … ettari) come meritevole di particolare tutela, Soru insedia una commissione invitandola a riprendere in esame il prezioso patrimonio e a individuare le modalità più opportune per assicurarne la conservazione e la contemplazione. La commissione opera, conclude i suoi lavori, specifica – in un’ampia relazione – le ragioni della tutela e le caratteristiche dei provvedimenti da assumere. Questi ovviamente comportano la revoca unilaterale dell’accordo di programma, consentito dalla legge che disciplina questo istitutose sussistono regioni d’interesse pubblico. Ma i costruttori, e i loro complici, naturalmente non si arrendono. Ricorrono alle giustizia amministrativa. Questa invalida, poche settimane or sono, le conclusioni della Regione per alcuni errori procedurali.
Tripudio dei costruttori. Angoscia e trepidazione da parte di chiunque conosca il complesso di Tuvixeddu-Tuvumannu e ne comprenda il valore. In Sardegna si è sollevato un vasto movimento di protesta contro la decisione di invalidare il vincolo. La Regione ha deciso di utilizzare ogni strumento disponibile per riproporre il vincolo e salvaguardare l’inestimabile patrimonio.
Chi scrive è stato cittadino romano. Ricorda quando un lungimirante ministro, Giacomo Mancini, con un atto di autorità impose la tutela del comprensorio dell’Appia Antica: un patrimonio dello stesso ordine di grandezza di quello di Tuvixeddu. Quella necropoli, quella collina, quel paesaggio non sono un patrimonio che appartenga solo alla Sardegna: è un patrimonio dell’Italia, dell’Europa, del Mondo. Non può essere abbandonato alle sole difese della Regione e degli abitanti. Per questo eddyburg.it e il manifesto sardo hanno lanciato un appello, e invitano tutti ad aderire.
Ingredienti
Per la pasta
farina, 200 gr
zucchero, 60 gr
burro, 100 gr
buccia di limone grattata, 1 cucchiaino
vaniglia
uova, 1 tuorlo
Per il ripieno
limoni non trattati, 2 ½
uova, 4 + 1 tuorlo
zucchero, 200 gr
panna da montare, 125 gr
Per la guarnizione
zucchero a velo, 1 cucchiaio
Preparazione
1. Mettere in una ciotola lo zucchero e la farina. Aggiungere il burro tagliato a pezzettini, la buccia di limone, la vaniglia e il tuorlo
2. Mescolare la pasta. Metterla in una teglia e lasciarla riposare per un’ora al fresco
3. Riscaldare il formo a 180°
4. Lavare i limoni e grattugiare la buccia; spremerne il succo. Sbattere le uova e il tuorlo con lo zucchero. Aggiungere la buccia di limone grattugiata e il succo. Montare la panna e aggiungerla al composto
5. infornare per 10’ la teglia con la pasta. Poi aggiungete il ripieno e fate cuocere per 50’ abbassando la temperatura a 150°
6. Lasciar raffreddare la torta. Prima di portarla in tavola copritela con lo zucchero a velo, fate arroventare il grill del forno e spingetevi sotto la torta,a non oltre 10 cm di distanza. Attenzione perché si caramella in un attimo!
Kathrin Melcher è una violinista; faceva parte del famoso Quartetto Melos.
Nell'immagine, scattata a un concerto al Cortilone di Sorano (Gr), suona la viola. Con lei suonavano Cynthia Treggor (violino), Judith Treggor (flauto) e Martin Osterman (violoncello)
Sullo sfondo un quadro di Paola Doglioni