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Proviamo a crederci: il 2010 sarà "l’anno delle riforme", come annunciato solennemente dal nostro Presidente del Consiglio. Ma quali? Uscendo dalla crisi più dura del Dopoguerra non si può che pensare prioritariamente all’economia.

Sin qui le uniche misure economiche calendarizzate dall’esecutivo sono quelle rimaste fuori dalla Finanziaria, gli incentivi per i consumi e i bonus per la rottamazione di automobili, elettrodomestici e cucine. Per chiamarle riforme ci vuole, Ninetta mia, tanto, troppo coraggio. Prima della pausa natalizia, il ministro Tremonti ha tuttavia annunciato che «è arrivato il tempo di pensare alla riforma fiscale». Evviva.

Vuol dire che non è più tempo di interventi estemporanei e fra di loro contraddittori sul nostro sistema tributario, è finita l’era in cui si cambiano solo i nomi delle imposte (dall’Irpef all’Ire, dall’Irpeg all’Ires) e in cui le tasse si moltiplicano, di legislatura in legislatura. Nell’attesa di conoscere il progetto del Ministro, vorrei proporre un criterio molto semplice cui ispirare la riforma: bisogna tassare di più i più ricchi e meno chi lavora a bassi salari. È un principio, quello della progressività del sistema fiscale, scolpito nella nostra Costituzione, ma sin qui largamente inapplicato. Non è gradito al Ministro (che nel Libro Bianco del 1994 sosteneva che «la progressività ha effetti negativi sull’offerta di lavoro e causa la propensione ad evadere»). Quindi bene spendere due parole sul perché è giusto farlo e poi interrogarsi sul come farlo.

Negli ultimi trent’anni le disuguaglianze dei redditi in Italia sono aumentate soprattutto ai piani più alti. Si è parlato spesso (sovente a sproposito) di impoverimento, ma il fatto di gran lunga più marcato e rilevante accaduto alla distribuzione dei redditi in Italia è l’esplosione delle disuguaglianze fra la parte più ricca della popolazione. La quota di reddito detenuta dallo 0,1 per cento di persone più ricche è quasi raddoppiata dagli inizi degli anni ‘80 al 2004, l’ultimo anno per cui si hanno informazioni, grazie al paziente lavoro di ricostruzione di fonti sui redditi più elevati svolto da Elena Pisano, che ha appena conseguito un dottorato alla Sapienza.

Soprattutto nel nuovo Millennio la bassa crescita del Paese è stata appannaggio quasi esclusivo dei piani alti della distribuzione: nel 2004 il millesimo di popolazione più ricco, si tratta di circa 4500 persone, guadagnava in media il 20 per cento in più di solo 4 anni prima, circa il tre per cento del reddito nazionale, mentre il resto degli italiani era al palo. Questa crescente concentrazione delle risorse è andata di pari passo a una riduzione delle tasse per i più ricchi: l’aliquota più alta dell’Irpef è scesa dal 72 al 45 per cento negli ultimi trent’anni, il cuneo fiscale complessivo più elevato (tasse più contributi sociali a carico del lavoratore) è diminuito anch’esso di un terzo, dal 91 al 63 per cento, proprio mentre saliva quello dei salari più bassi.

La riduzione delle imposte sui più ricchi non è un fenomeno solo italiano. Al contrario, è comune a tutta l’Europa continentale. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito è addirittura iniziata prima, nella seconda metà degli anni ‘70, sotto Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Come si spiega questo fenomeno generalizzato? Non solo con il crescente potere politico di questa fascia di popolazione. Il fatto è che si temeva, non sempre a torto, che tasse alte per queste fasce di popolazione avrebbero finito per ridurre il gettito fiscale. Per due motivi: primo, queste persone possono trasferirsi altrove; secondo, quando non possono trasferirsi altrove, possono comunque spostare altrove i propri capitali in modo più o meno legale. Un esempio fra tutti. Tra i plurimiliardiari ci sono molti calciatori ed è stato documentato come il regime fiscale di vantaggio istituito in Spagna per attrarre campioni stranieri (la famosa legge Beckham) abbia in effetti indotto una consistente migrazione di star calcistiche verso la penisola iberica. A parte la delusione dei tifosi, questa migrazione ha portato con sé decine (se non centinaia) di milioni di tasse da lì in poi pagate altrove.

Ma oggi la Spagna, il cui disavanzo fiscale è esploso durante la recessione, è stata costretta ad abolire la legge Beckham. E il Regno Unito porterà nel 2010 l’aliquota più alta sui redditi dal 40 al 50 per cento mentre gli Stati Uniti, su cui grava anche il debito futuro, legato alla riforma sanitaria di Obama, non potranno che seguire a ruota passando dal 35 al 50 per cento nel giro di pochi anni. Il clima è cambiato anche per quanto riguarda i paradisi fiscali. La lotta contro di loro è stata un diversivo di governi incapaci di affrontare alla radice i problemi da cui è scaturita la crisi. Ma servirà ora a rendere efficaci tasse più alte per i più ricchi, volte a ridurre l’enorme debito pubblico accumulato nella recessione. Quindi oggi, a differenza anche di soli due anni fa, è possibile tassare di più i più ricchi aumentando il gettito.

Posto che sia giusto, nel senso di equo, tassare di più i più ricchi, come farlo? Al Ministro non piace la progressività delle tasse perché ritiene che riduca l’offerta di lavoro. Si sbaglia perché in un paese come il nostro, dove molti non lavorano, tasse più basse per i poveri e tasse più alte per i ricchi aumentano la quantità di persone che lavorano. Le tasse più alte sui redditi da lavoro dei ricchi possono, tuttavia, ridurre la quantità di ore lavorate da ciascuno di loro. Ma non c’è nessun bisogno di tassare di più il lavoro dei ricchi per tassarli di più. Teniamo pure le aliquote Irpef al 45 per cento, ma aumentiamo la tassazione dei redditi non da lavoro, portandola almeno al livello dell’aliquota Irpef più bassa, vale a dire al 23 per cento.

Quanto raccoglieremmo in questo modo? Purtroppo è impossibile stabilirlo con precisione perché gli unici dati disponibili sui redditi dell’un per cento più ricco della popolazione sono di proprietà esclusiva del Ministro dell’Economia che farebbe molto bene, nell’avviare il confronto, a renderli pubblici. Ma una cosa è certa sin d’ora: l’innalzamento della tassazione delle rendite finanziarie renderebbe il sistema più progressivo perché tasserebbe soprattutto i più ricchi: almeno un terzo dei redditi dichiarati dallo 0,01 per cento più ricco proviene da redditi da capitale (la quota è molto più alta, dato che è possibile solo risalire a quelli dichiarati con l’Irpef nel 2004 che includevano al massimo il 40 per cento dei dividendi). Sappiamo anche che il 90 per cento delle azioni è detenuto in Italia dal 7 per cento più ricco, nelle cui mani si trova quasi un terzo del reddito nazionale.

Quindi aumentando anche solo del 5 per cento il prelievo su questa fascia di popolazione, si farebbe affluire all’erario circa 25 miliardi. Che potrebbero essere utilizzati per aumentare le detrazioni sul lavoro dipendente o fiscalizzare i contributi sociali a carico di chi guadagna appena al di sopra del salario minimo. Una ragione in più per istituire anche da noi una paga oraria al di sotto della quale non si può andare. È un principio quello di tassare di più i più ricchi che dovrebbe prevalere anche nel disegnare il fisco federale, ripristinando l’imposta sulla prima casa, almeno al di sopra di un certo livello di patrimonio, ricordandosi che la distribuzione delle case di proprietà è ancora più diseguale di quella dei redditi. Insomma, ci sono molti dettagli da discutere. Ma prima bisogna accordarsi sui principi. Cosa ne pensa il Ministro dell´Economia? E cosa ne pensa l´opposizione?

O fortes peioraque passi

mecum saepe, nunc vino pellite curas:

cras ingens iterabimus aequor

Orazio, Carmina, I, 7. Segnalato da Paolo Grassi.

SICUREZZA

Per stare tranquilli e al sicuro

non serve una porta né un muro,

ma un mondo pulito e migliore,

un mondo di pace e di amore.

Non servon fucili e pistole,

ma abbracci, carezze e parole

che faccian capire alla gente

che l’odio non serve a un bel niente.

Per render la vita sicura

c’è solo un rimedio, una cura:

non viver con rabbia e divisi,

ma insieme, tra mille sorrisi.

Se vivi tremando di rabbia

la vita diventa una gabbia.

Le sbarre non dan protezione,

ma chiudono il cuore in prigione.

Vivendo in pace e armonia

la rabbia scompare, va via:

se ti serve più sicurezza,

trasforma il tuo pugno in carezza!

DIVERSO

Parola che scotta la lingua: egoismo.

Parola che brucia la bocca: razzismo.

Tra tante parole simpatiche e belle

razzismo e egoismo son certo sorelle.

Due brevi parole, due squallidi mali:

voler che i diversi diventino uguali.

“Diversa cultura, diverso colore,

diversa la razza, diverso l’odore…

Mi danno fastidio, cacciateli via:

la terra che pestano, in fondo, è la mia

e se c’è qualcuno che stare qui osa

deve essere uguale!” - Ma uguale a che cosa?

Diverso è ricchezza, non certo un delitto:

la terra è di tutti, l’ho detto e l’ho scritto.

“Non ho mai sentito una cosa più sciocca:

non dire scemenze e chiudi la bocca!”

L’assurda pretesa che tutto sia uguale

vi rende la vita noiosa e banale.

Aprite le porte, aprite la mente:

diverso è più allegro, è più divertente!

Volete che il mondo sia senza colori,

sia grigio di dentro e grigio di fuori,

perciò io concludo con l’ultimo verso:

evviva i colori, evviva il diverso!

PREMESSA

Adoperiamo normalmente arance siciliane, l’importante è che non siano trattate in alcun modo, meglio se da coltivazione biologica, e siano sane e succose.

INGREDIENTI

Arance: 3 kg

Zucchero: 2 Kg (anche sino a 700-800 gr di zucchero di canna grezzo: dà un aroma particolare alla marmellata, potete scegliere tra quelli dal sapore più intenso, gli integrali – panela o mascavo – oppure dall’aroma meno pronunciato come i cristallini - demerara o raw cane)

Aromi (a scelta): zenzero fresco gratugiato, rhum, anice stellata, cordomomo…

PREPARAZIONE

Lavare le arance e metterle in una pentola con acqua fredda. Bollirle per circa 15 minuti a fuoco non troppo vivace.

Cambiare l’acqua e ripetere la bollitura.

Lasciarle raffreddare, poi tagliatele prima a metà in senso longitudinale, togliete gli eventuali semi, tagliate poi ciascuna metà in tre spicchi.

Togliete la polpa e sminuzzatela.

Tagliate la buccia a strisce più o meno sottili ( a seconda dei gusti) e mettete tutto in pentola insieme allo zucchero e alle spezie se gradite.

Lasciate cuocere a fuoco lento per circa 1- 2 ore, finchè la marmellata non comincia ad addensarsi (dipende molto dalla sugosità delle arance); verso la fine della cottura potete aggiungete il rum se vi piace (circa 1/3 di bicchiere).

Versate nei barattoli, tappate e rovesciateli; teneteli così finché non si raffreddano. Se consumate entro 6 mesi non c’è bisogno di sterilizzare, oltre non possiamo garantire al 100%.

NOTA

Per i frequentatori di eddyburg ab antiquo questa ricetta è un consistente perfezionamento compiuto da Ilaria sulla ricetta di limoni, che trovate in questa stessa cartella. Come quella, anche questa è impiegabile anche per altri agrumi, naturalmente calibrando la quantità di zucchero e, forse, i tempi di cottura e ricottura.

L. MILANI, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.

L'Espresso, 18 dicembre 2009

Innanzitutto è necessario fare ricorso alla pianificazione territoriale e urbanistica: ha perso credibilità in Italia, dove è stata sommersa dalla de-regolazione e dalla sollecitazione all’edificazione selvaggia. In Europa stati, regioni e comuni adottano la pianificazione come strumento ordinario di governo del territorio, e le regole definite dai piani sono rispettate da tutti.

La pianificazione territoriale (regionale o provinciale) deve stabilire le quantità di ulteriore edificazione ammissibile in relazione a chiari parametri di necessità sociale, e limiti invalicabili all’espansione delle città. Di queste si deve promuovere la compattezza, ponendo limiti alla densità: densità troppo basse sono perniciose perché aumentano i costi, favoriscono la disgregazione sociale, aumentano lo spreco di energia e l’inquinamento, distruggono inutilmente la natura. Occorre favorire città compatte, dai margini definiti, servite e connesse tra loro da efficienti sistemi di trasporto collettivo. Occorre coordinare le previsioni delle diverse città in relazione alle attività produttive e commerciali e alle attrezzature comuni ad ampio bacino d’utenza(dall’istruzione superiore alla sanità, dalla gestione dei rifiuti all’approvvigionamento idrico, ecc.), che non possono essere disseminate nella logica di “uno per ogni comune”.

La pianificazione urbanistica a livello locale deve a sua volta, rispettando i limiti posti dalla pianificazione d’area vasta, tracciare sul territorio il limite che separa la città dalla campagna, l’urbano dal non urbano né urbanizzabile: un limite invalicabile, rigorosamente vigilato. Città compatta non significa città fatta solo di case e strade. Una densità ragionevole si può raggiungere senza la necessità di costruire grattacieli e riservando metà dell’area a verde e spazi aperti non asfaltati. Tra le ragioni che spingono i cittadini a cercare una sistemazione nella “villettopoli” c’è anche quella di avere un migliore rapporto con la natura. Riportare la natura in città non è quindi solo una misura essenziale per il benessere dei cittadini, è anche un modo concreto di lottare contro lo sprawl.

Ma i progetti e le regole della pianificazione non bastano ad affrontare il problema. Occorrono provvedimenti statali e regionali che, sulla base di chiari indirizzi politici volti a contrastare gli sprechi, finanzino i comuni virtuosi e disincentivino quelli che non accettino di contenere l’espansione edilizia e non riducono gli sprechi. Provvedimenti che, al tempo stesso, sostengano la riqualificazione della città esistente (dai centri storici alle periferire, dalle aree dismesse ai pubblici), aiutino i comuni a dotarsi delle risorse tecniche necessarie (personale, attrezzature, informazioni) e incentivino il coordinamento intercomunale, invece di stimolarne la competizione.

Lo slogan “no al consumo di suolo”, che costituisce il vessillo di un arco sempre più vasto di associazioni, comitati, gruppi di cittadinanza attiva, sindacati presenti in moltissime aree della Penisola, non deve rimanere isolato. Deve essere accompagnato da un altro: “riqualificare le nostre città per tutti i loro abitanti”.

Non è vero che non ci siano esigenze di nuovi interventi di trasformazione delle città e dei territori. Insieme a un serio programma di difesa del suolo e di ricostruzione di ambienti compromessi bisogna dedicare attenzione e risorse alle esigenze che richiedono trasformazioni di tipo urbano (soprattutto alloggi a condizioni accessibili alle fasce meno dotate della popolazione le attrezzature collettive necessarie e, dove serve, spazi per le nuove attività produttive).

Per queste esigenze esistono in ogni comune e in ogni territorio vaste aree urbanizzate e non utilizzate: dalle caserme alle zone industriali semivuote, alle fabbriche obsolete ai servizi trasferiti altrove, dalle zone urbane degradate o compromesse dall’abusivismo. Tutte possibilità di trasformazione e ri-utilizzazione su cui è possibile impegnare le intelligenze e le capacità professionali dei tecnici, e le risorse follemente impiegate nelle devastanti Grandi opere, inutili a tutti fuorché alla crescita dell’Ego dei promotori (primi ministri o sindaci che siano) e a quella del conto in banca di quanti approfittano del banchetto.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 14 dicembre 2009, e lì riceve numerosi commenti.

La superficie del pianeta Terra, luogo dove vive la specie umana, è suscettibile di molte utilizzazioni. Serve per l’alimentazione degli uomini e degli animali che vi abitano; per assicurare, tramite la vegetazione, un’aria salubre che gli abitanti della terra possano respirare; per raccogliere e filtrare l’acqua piovana e ricostituire le riserve di un liquido decisivo anch’esso per la vita dell’uomo; per consentire la biodiversità delle specie e la rigenerazione dello spirito dell’uomo. E serve infine per ospitare quei manufatti che servono all’uomo per abitare, produrre, conservare i prodotti del suo lavoro, usufruire di tutti i servizi necessari per la vita individuale e sociale, per muoversi e per spostare i beni che gli servono. Dove il suolo ha quest’ultima utilizzazione esso viene sottratto alle altre possibilità: è reso sterile. Le funzioni e utilizzazioni legate alla naturalità vengono impedite: si manifesta un potenziale conflitto.

Per millenni questo conflitto non è emerso: il territorio reso artificiale (una crosta di cemento e asfalto) era una porzione molto ridotta del totale. Improvvisamente, il consumo di suolo per usi urbani è cresciuto a dismisura. Il confronto tra le carte tecniche negli ultimi sessant’anni ci dice che, grosso modo, in Italia quella crosta è aumentata da uno a dieci.

É un fenomeno che si è manifestato in molti paesi europei, con dimensioni a volte paragonabili a quelle italiane. La differenza tra l’Italia è gli altri stati è che da noi il fenomeno è più grave per la scarsità delle aree di pianura (dove si il consumo di suolo si concentra), che sono un quarto del totale, per la densità di testimonianze della storia e dell’arte, e per l’assoluta mancanza di iniziative: mancano perfino dati attendibili sulle dimensioni del consumo di suolo, se non per limitate parti del territorio. Mentre in Francia, Germania, Paesi Bassi, Gran Bretagna i governanti da anni hanno attivato politiche capaci di ridurre il fenomeno, in Italia non si fa nulla. Anzi, costruire nuove strade, nuove case, nuovi quartieri, incoraggiare la disseminazione di case e capannoni sul territorio è considerato un incentivo allo sviluppo: un fatto che si ritiene comunque positivo, indipendentemente dalla effettiva utilità di ciò che si costruisce.

Perciò cresce in Italia un vasto movimento che vuole spingere i governanti a lavorare per ridurre il consumo di suolo a ciò che è strettamente necessario. Il movimento è nato quando dal sito eddyburg.it è emersa una denuncia del fenomeno, un’analisi delle iniziative promosse da altri stati e una proposta legislativa. Un piccolo comune della periferia milanese, Cassinetta di Lugagnano, ha approvato negli stessi anni un piano regolatore “a consumo di suolo zero”, che è diventato un esempio significativo di ciò che si può fare. Su queste basi si è sviluppato un movimento popolare “Stop al consumo di territorio”, che ha già raccolto le adesioni di centinaia di comitati e gruppi di cittadini.

Combattere il consumo di suolo significa forse ridurre l’attività delle costruzioni? Tutt’altro. Esistono in tutte le città d’Italia grandi spazi vuoti, già urbanizzati, occupati da attività dismesse (come i grandi complessi militari e molte installazioni industriali obsolete), oppure da edilizia degradata spesso abusiva, che meritano di essere profondamente ristrutturate e rese più vivibili, oppure “aree di sviluppo industriale” asfaltate e inutilizzate. Sono aree “in attesa di speculazione”: potrebbero essere utilizzate invece per l’edilizia a basso costo, per i servizi e il verde essenziali per rendere le città migliori e più facile la vita, per ospitare le nuove attività economiche necessarie. Basterebbe quella determinata volontà politica che in altri paesi si è manifestata, e le leggi necessarie per privilegiare, nella gestione delle città, l’interesse della maggioranza dei cittadini su quello di chi vuole arricchirsi a spese della collettività.

Il consumo di suolo non preoccupa solo ambientalisti coerenti e urbanisti militanti, né solo chi vuole restituire salute e bellezza al territorio e ai suoi abitanti. Anche gli operatori più legati al territorio e alle sue qualità (naturali, paesaggistiche, storiche, artistiche) cominciano ad avvertire la gravità del trend sguaiatamente edificatorio che minaccia quelle qualità. É il caso recente dell’Agriturist, l’associazione degli operatori dell’agriturismo aderente alla Confagricoltura, il sindacato padronale degli agricoltori. Il convegno organizzato quest’anno nell’ambito del suo 7° Forum è stato dedicato all’argomento, e due delle relazioni si sono interrogate suelle conseguenze e le ragioni della morte del paesaggio italiano e su ciò che si può fare per evitare che la città cancelli la campagna. Il rischio è grande. Il geografo Massimo Quaini, che ha sviluppato il primo dei due temi suddetti, ha rilevato come gli effetti della globalizzazione capitalistica, aumentando a dismisura gli effetti della fase industrialista, stia cancellando i tratti del paesaggio costruito dall’applicazione saggia del lavoro dell’uomo alla natura, senza sostituire – come era successo nelle precedenti epoche – qualità comparabili a quelle distrutte. Il sottoscritto, invitato in quanto urbanista, ha affrontato il problema dal punto di vista della città e dei suoi abitanti, i quali sono anch’essi penalizzati dalla trasformazione dei paesaggi rurali nella “repellente crosta di cemento e asfalto” (per adoperare l’efficace espressione di Antonio Cederna) che sta seppellendo la campagna e il patrimonio naturale e storico che essa costituisce.

L’edificazione diffusa sul territorio - lo sprawl – che è l’aspetto principale del consumo di suolo, causa a sua volta (come l’Unione europea non si stanca di denunciare) gravissimi sprechi. Essa infatti rende obbligatorio l’impiego quotidiano dell’automobile, provoca un aumento parossistico del traffico, dei consumi energetici, della proliferazione di strade che a loro volta aumentano il consumo di suolo, aggrava l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, incide negativamente sui redditi e sull’impiego del tempo delle persone, riduce la coesione sociale, sopprime le produzioni agricole nelle aree più fertili, cancella la bellezza e la salubrità delle campagne. (Si vedano in proposito i rapporti 4/2006, 6/2006 e 10/2006 dell’ European Environment Agency, organo specializzato dell’Unione europea).

Non occorre soltanto difendere la campagna da un’espansione urbana irragionevole, priva di motivazioni socialmente rilevanti, dovuta solo alla confluenza della miopia dei pubblici amministratori e alla pressione degli interessi privati. La gigantesca espansione delle nostre città avvenuta nell’ultimo mezzo secolo (si calcola che in Italia il 90% delle aree attualmente urbanizzate sia stato realizzato dopo la fine della guerra) è stata guidata più dalla speculazione che da una corretta pianificazione urbanistica. Dalle vastissime periferie della maggior parte delle nostre città il verde è stato cancellato; adesso il processo prosegue cacciando l’agricoltura e degradando i poaesaggi anche al di là dei confini della città, oggi non più riconoscibili.

L’uomo non può vivere in modo adeguato se si taglia ogni possibilità di rapporti quotidiana con la natura. I grandi parchi urbani che la storia ci ha lasciato, quelli creati delle amministrazioni che hanno pianificato la città in modo ragionevole, i cunei di campagna che piani regolatori intelligenti hanno saputo inserire tra i quartieri urbani, non solo devono essere difesi contro ogni tentativo di cementificazione, ma devono costituire il modello da riprendere e sviluppare oggi. É necessario, ed è possibile. Come? Ne riparleremo.

Il testo riprende due articoli che sono stati messi online sul sito Tiscali il 25 novembre e il 3 dicembre.

Non bastano le Grandi opere avviate senza sapere se raggiungeranno lo sc opo (come il MoSE a Venezia e il Ponte sullo Stretto, dove i treni non passeranno mai), e intanto devastano il territorio e dilapidano le risorse finanziarie del paese (aumentando il debito di chi è appena nato o nascerà nei prossimi anni). Non basta la rinuncia a qualsiasi iniziativa che valga ad arrestare il consumo di suolo, particolarmente grave nel nostro paese grazie alla sua orografia, alla densità di lasciti della storia e al rifiuto dei governi nazionali e regionali di contrastarlo (a differenza di quanto avvieni negli altri paesi europei).

Tutto questo non basta. Ecco che arriva una vergognosa legge bipartisan che, col pretesto di costruire stadi, dà il via alla “più grande speculazione urbanistica nelle città italiane dal Dopoguerra”, come ha scritto Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente.

In Italia il pensiero prevalente ritiene che la pianificazione delle città e del territorio sia un optional: sembrano non sapere che in tutti i paesi liberali è una prassi, e un sistema di regole, praticate da due secoli, con continuità e serietà, per consentire che l’uomo, sul territorio e nelle città, viva bene, ordinatamente, senza subire il disordine, la congestione del traffico, il disagio urbano, la mancanza di servizi essenziali per la vita sociale e personale, la difficoltà di trovare alloggi a prezzi sopportabili.

In Italia solo in poche stagioni la pianificazione è stata praticata. Il suolo, la madre Terra, non è stato considerato dai più (e dai più potenti) come una risorsa scarsa da utilizzare con parsimonia, ma come una macchina per fare soldi trasformandola in terreno edificabile. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, fino a metà degli anni Ottanta, si è tentato di pianificare. I risultati devastanti del boom edilizio dei primi decenni del dopoguerra aveva fatto comprendere che bisognava cambiare strata, che il territorio va aministrato con saggezza: con la pianificazione. Negli ultimi vent’anni si è tornati al passato: via la pianificazione, ciascuno faccia del territorio ciò che vuole. Ed ecco le deroghe alla pianificazione, il condono dell’abusivismo, l’incoraggiamento al consumo di territorio, il via libera alle iniziative immobiliari.

L’ultimo colpo, l’orrenda legge, già approvata dalla commissione del Senato in sede deliberante, che sta passando adesso l’esame dell’altro ramo del Parlamento. Il titolo ipocrita è “disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione di impianti sportivi e stadi anche a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale”. Sembra una legge per favorire lo spettacolo sportivo, per ristrutturare e realizzare nuovi stadi. No. L’obiettivo della legge è consentire la realizzazione di “complessi multifunzionali”: insieme allo stadio si può costruire un nuovo quartiere, con centri commerciali, alberghi, attrezzature di svago, culturali e di servizio, insediamenti residenziali e direzionali, da realizzarsi attorno allo stadio o addirittura in aree ad esso non contigue.

Prima pesante infrazione alla legalità urbanistica e al buonsenso: si costruiscono nuove città e si cementificano centinaia di ettari al di fuori di ogni pianificazione del territorio, dell’ambiente, del paesaggio. Seconda infrazione: il potere di trasformare radicalmente l’assetto del territorio è sottratto alla pubblica amministrazione ed è attribuito a chi ha i soldi, puliti o sporchi che siano, al di fuori da qualunque interesse pubblico.

La cosa più allarmante è la scarsissima eco che questa folle iniziativa ha avuto. La proposta di legge è stata approvata all’unanimità nella commissione senatoriale. L’hanno criticata solo Legambiente, con un ottimo comunicato stampa che denuncia tutti gli aspetti devastanti del provvedimento, Roberto Musacchio e Mirko Lombardi sul quotidiano L’Altro, Vezio De Lucia su eddyburg.it. Ma i giochi non sono fatti. Non è ancora troppo tardi per bloccarla.

Questo articolo è stato postato su Tiscali l'11 novembre 2009, e lì riceve numerosi commenti. Suggerisco a frequentatori di eddyburg di andare a leggerli, perchè rivelano in modo inquietante come pensano moltissimi italiani.

il manifesto, 9 dicembre2009

La Repubblica, 5 dicembre 2009

La Repubblica, 5 dicembre 2009

da L'Italia scombinata, cit. in: Coraggio e viltà degli intellettuali, a cura di Domenico Porzio, Arnoldo Mondadori editore, Roma 1977

La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese.

Repubblica, 31 ottobre 2008. Naturalmente anche su eddyburg.

L'atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole. Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria.

Chiese a Marco Kublai: - Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.

- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo per pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto.

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

Dice: - Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: - L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

il manifesto, 1° novembre 2009

É il caso, per esempio, del Ponte sullo Stretto di Messina: non solo sorge in una delle aree a più alta sismicità in Italia, ma certamente non è prioritario visto che collega tra loro due zone nelle quali (soprattutto in Sicilia) tutta la infrastrutturazione interna, soprattutto quella ferroviaria, è assolutamente insufficiente rispetto alle esigenze attuali. Si fa riferimento al sistema del project financing (in italiano, finanza di progetto). Ma pochi sanno che i finanziatori privati non si assumono nessun rischio: guadagnano sull’investimento, perché in cambio del prestito lo Stato consente loro di lucrare con la gestione dell’opera (le concessioni autostradali, i servizi ospedalieri etc.) e, se vanno in rosso, lo Stato paga il loro deficit. Insomma, paga sempre Pantalone, cioè il cittadino rispettoso delle leggi che paga le tasse.

Negli ultimi tempi si vedono anche cose peggiori: si spendono soldi (di noi tutti) per cose che con ogni probabilità non si faranno. Tre esempi: ancora il Ponte sullo Stretto, il MoSE nella Laguna di Venezia, e la recente proposta di svolgere nell’area veneziana le Olimpiadi del 2020.

In quanto al Pontone, studi attendibili raccontano che mai una ferrovia potrà passare su un ponte con una campata così lunga. Ma è il collegamento ferroviario la ragione principale per cui è stato proposto, e le Ferrovie dovrebbero finanziarne una parte consistente. Intanto, fiumi di denaro sono stati spesi, e tra poco cominceranno le opere preliminari a terra. Ne hanno scritto recentemente Ivan Cicconi, tra i massimi esperti italiani di appalti e costi delle opere pubbliche, e l’unico che rende pubbliche le sue informazioni, su il manifesto e Mario Tozzi su la Stampa, che anche per questo chiede “una moratoria per il ponte sullo Stretto”.

Secondo caso. Il MoSE è una gigantesca opera, per la quale lo Stato (cioè noi) ha già speso 4,5 miliardi di euro. Un’opera secondo molti inutile e dannosa, certamente di concezione arcaica. Comunque, anche a volerla considerarla utile, essa è tutta basata su una settantina di giganteschi portelloni d’acciaio, incernierati in quattro piattaforme di calcestruzzo poste sott’acqua in corrispondenza dei quattro varchi tra la laguna e il mare. Tutto il sistema si basa sull’efficienza delle cerniere che connettono i portelloni al basamento. Ebbene, queste cerniere ancora non funzionano, tanto che il consorzio d’imprese che ha avuto la concessione dei lavori ha chiesto due anni di proroga. Allo stato degli atti non si sa se una cerniera efficiente sarà ottenuta o no. Comunque i soldi corrono, e le opere che sarebbero necessarie se i portelloni funzionassero intanto si fanno. A spese, come al solito, di Pantalone.

Terzo caso. La proposta di tenere a Venezia le Olimpiadi del 2020, che è stata avanzata dai comuni di Venezia e Treviso, dalla Regione Veneto e dalla Confindustria. Naturalmente i consigli comunali e regionale non sono stati interpellati: hanno deciso tutto i sindaci (uno del PD e uno della Lega) e il “governatore” della Regione (Popolo della libertà). É altamente improbabile che le Olimpiadi si facciano davvero a Venezia. Ma intanto, per ottenere la candidatura si sta spendendo qualche decina di milioni per pagare gli studi professionali che confezionano i costosi dossier richiesti per presentare ufficialmente la candidatura agli organismi internazionali. E intanto la prospettiva (inattendibile) delle Olimpiadi serve a legittimare operazioni di speculazione sulla città che altrimenti stenterebbero a decollare: come un immenso (e inutile) insediamento sul bordo della Laguna. Lo spiega molto bene Paolo Cacciari in un articolo su eddyburg.it. Anche qui, paga Pantalone.

La morale: i grandi affari non si fanno solo con le Grandi opere, risolvendo il concreto problema che sembra la loro missione. Per farli basta semplicemente il loro annuncio, e un po’ di battage pubblicitario.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 29 ottobre, e lì riceve numerosi commenti. Vedi anche in eddyburg.it le cartelle “ SOS - Il Ponte sullo stretto” e “ Venezia e la Laguna – MoSE

Sul piano del metodo. È incredibile che oggi (mentre scrivo è martedì sera) ancora né i consiglieri regionali né la stampa abbiano il testo di una legge che è stata approvata venerdì. Sembra che stiano scrivendo gli emendamenti, che sono stati presentati oralmente, oppure su manoscritti incomprensibili. Sono stato consigliere comunale a Roma e a Venezia, e consigliere regionale nel Veneto, ma non mi è mai capitato qualcosa di simile.

Sul piano del merito. Sembra (oggi posso dire solo “sembra”, dato che non c’è ancora un testo) che sia stato stralciato l’articolo 15 nelle norme del PPR, che rendeva alle sole lottizzazioni approvate dai comuni nelle quali fosse stata stipulata in data certa e anteriore al “decreto salva coste” la convenzione e fossero state legittimamente reralizzate le opere di lottizzazione. Cancellare questo articolo significherebbe autorizzate decine di migliaia di metri cubi nelle zone più belle e delicate della costa sarda.

Ciò che invece è certo è che la discussione in Consiglio si è svolta in gran parte sulla questione se autorizzare o no gli ampliamenti nella fascia di 300 m (trecento metri) dalla costa, dando per scontato che oltre quel limite si può fare qualsiasi ampliamento. Il limite di 300 m è un limite antichissimo: deriva dalla legge Galasso del 1985, ed è stato totalmente superato sia dal decreto di salvaguardia temporanea del novembre 2004, sia dal piano paesaggistico regionale redatto in conformità ai criteri e alle disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, chiamato Codice Urbani dal nome del ministro del governo Berlusconi che lo portò all’approvazione.

La vigente tutela della costa sarda è ben più estesa e articolata del limite geometrico dei 300 m. La aree da tutelare (anche con l'esclusione di nuove cubature e di infrastrutture) non solo è generalmente molto più ampia, (mediamente 2.000 metri, con punte fino agli 8-10mila), ma è accuratamente studiata analizzando le caratteristiche paesaggistiche (visuali, ambientali, ecologiche, funzionali) di tutti gli ambiti costieri. I limiti solo geometrici (quali i 300 m della legge Galasso 431/1985 e della successiva legge regionale 45/1989, e i 2.000 m della legge regionale 8/2004) costituiscono una salvaguardia transitoria assolutamente grossolana ("colpi di sciabola", li definiva il grande amministrativista Alberto Predieri a proposito dei vincoli della Galasso), in attesa delle più accurate determinazioni della pianificazione paesaggistica.

Sono veramente curioso di sapere se i consiglieri regionali hanno tenuto conto queste cose, oppure se hanno disgregato le norme di difesa del paesaggio costiero con una vero colpo di mano: quale quello che si perpetrerebbe se col "piano-casa" se si volesse rispettare solo il miserevole limite dei 300 metri, e per di più autorizzare le decine di milioni di metricubi di lottizzazioni costiere che nel 2004 si sono fortunatamente bloccate, salvando paesaggi che non meritano la distruzione.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 21 ottobre, e lì riceve numerosi commenti. Domani 23 sembra che la legge sarà pubblicata. Anche su eddyburg.

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C'e' una meta

per il vento dell'inverno

il rumore del mare

Anonimo

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Se manca il sake

velata

è la bellezza dei ciliegi in fiore …

Anonimo

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Oh, mondine -

di non fangoso

c'è solo il vostro canto

Raizan (1654-1716)

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Passerotti -

Sui pannelli di carta

delle porte scorrevoli,

l’ombra di foglie di bambù

Takarai Kikaku (1661-1707)

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Simile a pianta che non ha più fiori,

ormai tronco, posso contorcermi.

- Salici piangenti –

Chiyojo (1703-1775)

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Dallo zefiro

sospinta è la fanciulla…

irata beltà –

Kato Kyotai (1732-1792)

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Il sole dell’occaso

se ne sarà andato a gonfiare

le acque di primavera?

Takai Kito (1741-1789)

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Nebbie della sera.

Assorto il pensiero indugia

sui ricordi indistinti di un tempo –

Takai Kito (1741-1789)

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Alla stagione delle piogge,

leva il capo

un’erba senza radici

Muratami Kijo (1865-1938)

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Stupore:

una margherita si frange,

suono di mezzanotte

Shiki (1867-1902)

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Raggi scarlatti

È come se ci fossero

- cielo d’autunno

Kyoshi (1874-1959)

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Soffioni,

occhi di primavera ridenti

sul litorale sabbioso.

Ah, soffioni!

Ogivara Seisensui (1884-1976)

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Peonia

petalo a petalo

palpiti,

ti apri,

ti ricomponi

Ogiwara Seisensui (1884-1976)

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La sera, borsa di ghiaccio

bianco

il silenzio tra noi

Ogiwara Seisensui (1884-1976)

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Minuscolo, un fazzoletto di giardino:

malata, vi cade,

immensa,

una foglia

Tomiyasu Fusei (1885-1979)

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Mezzodì di piena estate:

la morte ci spia,

gli occhi socchiusi

Iida Dakotsu (1885-1962)

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Sotto i miei passi

Solo il fruscio si sente

Di foglie secche.

Hisajo (1890-1946)

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Nell’ombra del verde fogliame,

pagliuzze d’oro sinistro:

gli occhi di un gatto tutto inchiostro

Kawataba Bosha (1900-1941)

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Non c’è mia moglie

Per due notti –e due notti

La via lattea

Kusatao (1901-1983)

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Chiudo gli occhi

al tepore della fiamma

lontana

di un antico amore

Hino Soio (1901-1956)

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xChe cosa sono gli haiku


Non a caso Carlo Cattaneo definiva “non città”, ma “pompose Babilonie” gli insediamenti delle tirannidi asiatiche. Non a caso il grande risveglio che ha ingioiellato di città storiche tutte le nostre regioni è associato alla lotta per l’autonomia dei “borghi” dai domini dei Signori. E non a caso la responsabilità della pianificazione urbanistica è nelle mani delle istituzioni della Repubblica.

Sia l’una che l’altra, città e democrazia, mutano nel tempo. Dalla democrazia oligarchica, la democrazia dei pochi, siamo giunti, attraverso un percorso faticoso e ancora incompiuto alla democrazia di tutti. Oggi tutti i cittadini hanno diritto a eleggere i propri rappresentanti nei luoghi ove si decide.

Nella nostra democrazia le decisioni le prende chi rappresenta la maggioranza. Una maggioranza che può avere varie ampiezze: può essere unanime, assoluta, relativa. In quest’ultimo caso essa è costituita dalla porzione dei cittadini più ampia tra quelle nelle quali si è suddiviso il corpo elettorale. É il caso della maggioranza di oggi: il raggruppamento che fa capo all’attuale premier rappresenta il 47 % dei voti validi e il 34 % degli elettori: meno della metà dei primi, un terzo del “popolo”.

Il maggiore contributo alla democrazia dei nostri tempi lo ha dato il pensiero liberale, un paio di secoli fa. I pensatori che hanno costruito le basi e i principi della democrazia hanno compreso subito che in essa il principio della maggioranza poteva condurre a effetti letali. L’influenza di un eletto o i suoi poteri occulti potevano trasformarlo in demagogo, capace di conquistare i cittadini sulla base non della ragione ma dell’emozione, magari sollecitata dall’istigazione ai sentimenti più bassi. Dalla democrazia alla tirannide il passo non è lungo: “La democrazia finisce subito se cade sotto la tirannia della maggioranza” ha scritto Alexander Hamilton, un politico ed economista statunitense vissuto alla fine del XVIII secolo. E della democrazia fa parte integrante il principio della possibilità di ricambio dei gruppi dirigenti: questo è impedito se la maggioranza spegne le voci alternative o impedisce loro di raggiungere le orecchie di tutti.

Proprio per queste ragioni la nostra democrazia (nella quale da noi si ha tanta fiducia da pensare di esportarla con le armi) è stata costruita con un attento sistema di contrappesi, che bilanciano quello della maggioranza con altri principi. Frenano la tendenza alla “tirannia della maggioranza” due principi: il diritto delle minoranze e la separazione dei poteri. Il primo comporta la garanzia che ogni gruppo d’interesse (sociale, economico, culturale) abbia la possibilità di essere rappresentato là dove si conosce e si dibatte per decidere, potendosi esprimere con la stessa libertà consentita alla maggioranza. Il secondo principio consiste nella rigorosa autonomia di ciascuno dei tre poteri fondamentali: legiferare(parlamento), applicare le leggi (governo), giudicare (magistratura).

Ciascuna di queste tre istanze ha eguale autorità rispetto alle altre. Sostenere che una di esse primeggia significa proporre una tesi eversiva della democrazia. Eppure, è quello che è avvenuto negli ultimi giorni, quando gran parte dei politici, e degli stessi giornalisti, che hanno scritto o parlato sul “conflitto” tra capo del governo e massima istanza della magistratura, hanno accreditato la tesi che solo chi è direttamente eletto dal popolo ha il potere di decidere, e se gli altri ostacolano la sua decisione sono rei di tradimento e vanno ricondotti all’ordine.

Un urbanista non avrebbe il compito di richiamare questi concetti, ad altri spetterebbe di farlo. Ma un urbanista – come ogni cittadino consapevole – sa che se essi vengono travisati, e i principi che li esprimono violati, per la città, luogo della società, non c’è speranza.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 14 ottobre, e lì ricevve numerosi commenti. Era stato scritto il 10 ottobre, all'indomani delle dichiarazioni del premier e dei commenti sulla stampa.

Nei giorni successivi il tema è stato sviluppato in articoli sulla stampa, eddyburg ha ripreso quelli di Ilvo Diamanti e di Renato Mannheimer, su la Repubblica e Corriere della sera del 12 ottobre, e di Adriano Prosperi, su la Repubblica del 13 ottobre.

Sulla democrazia vedi, su eddyburg ,alcune delle parole raccolte nel Glossario (demagogia, democrazia, egemonia, governance, partecipazione, potere mediatico, tirannia), e gli articoli di Hobsbawm e di Cassano nella cartella Pensieri.

Politico ed economista, fondatore del Partito federalista (Usa)

Sofisma: Ragionamento capzioso, in apparenza logico ma sostanzialmente fallace.

Magari si comprenderà che rinunciare alla pianificazione urbanistica, o derogare ai suoi strumenti, puòcondurre alle stesse conseguenze di un omicidio o di una strage. Messina forse ha insegnato qualcosa.

Quarantatre anni fa successe, proprio in Sicilia, qualcosa di simile, ad Agrigento. Crollò un intero quartiere. Per fortuna l’immane crollo era stato preceduto da sinistri scricchiolii che avevano indotto gli abitanti a fuggire, così non ci furono morti. Allora l’opinione pubblica si scosse, il governo e il Parlamento reagirono. Il ministero del lavori pubblici svolse una rapida e accurata inchiesta, le cui conclusioni erano durissime nei confronti degli amministratori: “Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile ed umano”.

A quanti amministratori attuali potrebbero applicarsi quelle parole, se un ministro o un direttore generale volessero assumere lo stesso atteggiamento che allora assunsero il ministro Giacomo Mancini e il direttore generale dell’urbanistica Michele Martuscelli?

Allora il Parlamento corse ai ripari. La frana di allora, come quella di adesso, era stata determinata dall’abbandono della pianificazione urbanistica, dal prevalere degli interessi della speculazione immobiliare su quelli della tutela del territorio, dal primato dell’interesse economico sulla regola nel pubblico interesse. Si tentò di rilanciare la pianificazione urbanistica, rendendola obbligatoria per tutti i comuni. Il succedersi di frane e alluvioni insegnò che il territorio, in ogni parte d’Italia, era stato devastato dal boom edilizio e dalla mancanza di attenzione per la sua fragilità. Si arricchì il quadro legislativo, e la cassetta di attrezzi della pianificazione territoriale, con nuovi strumenti: per la difesa del suolo, per la tutela dell’ambiente e del paesaggio.

Ma i nuovi strumenti, le nuove regole, vennero applicati poco e, spesso, male. Non si è voluto comprendere che le regole per la difesa dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio devono venire prima della decisioni di trasformarlo e devono prevalere su di esse. Le regole poste dai piani per la tutela devono essere stabilite senza alcun patteggiamento con un presunto “sviluppo” basato sull’urbanizzazione. Esse devono comandare sulla costruzione delle strade e delle ferrovie, delle urbanizzazioni ed edificazioni. E nessun intervento abusivo o illegittimo deve essere consentito o condonato.

Si tratta di una norma dettata dal buonsenso, oltre che dall’esperienza. Dovrebbe provocare in primo luogo l’accantonamento dei “piani casa” derogatori, e il rafforzamento degli strumenti di tutela (e di vincolo: sì, pronunciamola questa parola che a troppi non piace) che difendono il territorio. Sarebbe bello se fosse compresa e applicata da chi ha il potere e il dovere di farlo. Se questo non accadrà, sarà chiaro chi sarà stato responsabile delle sciagure e delle loro vittime, e sarà bene ricordarne i nomi.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 4 ottobre 2009 con il titolo: "Messina: ora non si parlerà più di condoni", e lì raccoglie numerosi commenti.

In eddyburg anche una cartella sui crolli ad Agrigento, 1966

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