da: Issa (Kobayashi Yotaro), Haiku scelti, a cura di Luigi Soletta, edizioni La Vita Felice, Milano 2001
Il convegno, dal titolo “Interpretare la neourbanità. Prospettive per l’organizzazione metropolitana. Dalla Città de-formata alla Città alleanza di città”, è stato organizzato dal Corso di laurea in Scienze geografiche dell’Università di Bologna, iretto da Pola Bonora. In calce la locandina scaricabile in .pdf
URBS, CIVITAS, POLIS
LE TRE FACCE DELL’URBANO
Per cominciare
Me sembra che non sia necessario discutere tra noi sulla realtà del territorio quale la viviamo e la conosciamo – sui caratteri e le conseguenze della crisi nella quale viviamo – e neppure ragionare troppo sulle sue cause. A proposito di queste vorrei dire soltanto si tratta, a mio parere, dell’estrema (fino adesso) manifestazione di quel “declino dell’uomo pubblico” di cui Richard Sennet ha illustrato il lungo percorso.
Oggi dobbiamo soprattutto di ragionare su ciò che è possibile fare. Su quali siano i punti di partenza su cui basarsi per uscire positivamente dalla crisi. Come diceva Cervellati “con l’ottimismo della disperazione”, possiamo forse cogliere la crisi come l’occasione di cambiare. Se è vero – come è vero – che crisi non significa necessariamente sconfitta, arretramento, regressione, catastrofe, ma semplicemente rottura d’una situazione apparentemente stabile: rottura, quindi, dalla quale si può uscire regredendo o progredendo, dirigendosi verso una situazione peggiore o una migliore.
Visto che ho adoperato questa parola, “migliore”, vorrei dichiarare subito che non sono un “migliorista”. Non ritengo sufficiente correggere, migliorare, depeggiorare, mitigare meccanismi in sé perversi, ma sono convinto che la svolta necessaria sia radicale, che debba tendere a un assetto (della cultura, dell’economia, della società) nettamente diverso e alternativo rispetto a quello esistente. Un assetto da costruire gradualmente e pazientemente, ma verso il quale orientare ciascuno dei passi che si compiono, delle azioni che si promuovono o alle quali si concorre.
E poiché sono convinto anche dell’intrinseca positività dell’uomo (del maschio e soprattutto della femmina) ho anche fiducia nel fatto che gli elementi positivi, quindi i germi di un possibile futuro, possiamo già scorgerli nel presente se guardiamo con sufficiente attenzione a ciò che accade nella società. Naturalmente, togliendoci i paraocchi del pensiero corrente, del “pensiero unico” che ci inducono a condividere, e utilizzando invece le lenti del nostro buonsenso, nutrito dei principi e delle convinzioni che liberamente ci siamo formati.
Critica ai miei colleghi, gli urbanisti
Vorrei partire da una critica ai miei colleghi urbanisti, perché mi sembra che nei decenni più vicini abbiamo perso una convinzione, che alimentava il meglio della cultura urbanistica non solo italiana.
Mi riferisco al titolo di questo mio intervento, cioè alla consapevolezza profonda del fatto che la città, l’oggetto della nostra operazione di urbanisti, è costituita dall’insieme dei tre elementi rintracciabili nella sua stessa denominazione: la città come struttura fisica, la città come società, la città come governo.
Dimenticare la necessità di un continuo intreccio tra questi tre elementi, occuparsi della città (e più largamente del mondo urbano) solo sul versante della sua architettura, o solo su quello della società che la abita, o solo su quello della politica è causa di necessari fallimenti e non conduce a nessun risultato positivo. Può solo fornire contributi parziali (e perciò di necessità viziati) a chi tenta di fare una sintesi.
Da questo punto di vista vorrei citare un brano molto bello, scritto da uno storico ed economista francese, membro dell'Assemblea legislativa alla fine del XVIII secolo, che ho trovato molti anni fa citato nella Miseria della filosofia di Karl Marx. Il suo nome è Pierre-Edouard Lemontay:
“Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce”[1].
Penso che oggi il campo di ciascuno di noi non possa allargarsi per diventare grande come i campi che già Lemontay, due secoli fa, rimpiangeva. Dobbiamo perciò cercare di ragionare insieme, di costruire poco per volta quell’”intellettuale collettivo” che è necessario per comprendere il mondo di oggi. Perciò sono particolarmente contento di occasioni come quella di oggi, e perciò mi sembra perversa e controproducente la tendenza prevalente nel mondo degli urbanisti di rinchiudersi di ciascuno nel campo della propria certezza, della propria disciplina, del proprio brandello di verità che possiede.
La città
Ma torniamo al punto. La domanda che vorrei pormi è la seguente. Che cos’è che non ci piace nel modo in cui oggi l’urbano si è trasformato /si sta trasformando? Evidentemente ci riferiamo a un’idea di città che vediamo stravolta nell’insediamento di oggi. Ci riferiamo a un “immaginario” che non riconosciamo nella realtà.
Può essere che il nostro immaginario sia sbagliato, che non abbia qualità e caratteristiche oggi accettabili, e che quindi sarebbe giusto per noi rinunciare a esso, alla nostra idea di città, e accettarne un’altra. É quello che fanno – mi sembra – nostri illustri, intelligenti, onesti colleghi, che difendono questo insediamento che a noi sembraa disfatto e invivibile, inumano. Lo considerano come un segno dei tempi mutati, in un mutamento nel quale occorre adeguarsi. Può essere che abbiano ragione loro. Ma io oggi non ne sono affatto convinto. Perciò riparto dalla mia idea di città: un’idea di città che ha alla sua radice una cultura che mi sembra ancora viva, sebbene da molti ignorata.
La mia idea di città
Nella mia idea di città gli spazi pubblici hanno un ruolo primario. Parlo di spazi pubblici in un senso molto ampio: spazi fisici e spazi virtuali, spazi dell’urbs e spazi della civitas e della polis. La piazza, l’asilo nido e la scuola, la biblioteca pubblica e il parco fanno parte dello stesso universo del diritto di sciopero e di quello di riunione.
Per me la città nasce con gli spazi pubblici. L’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, ha generato quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.
È questa la ragione di fondo per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti i classici spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.
Non credo che sia necessario in questa sede soffermarmi su questo punto. Mi limiterò ad aggiungere che nella nozione di spazio pubblico della città sono entrate a far parte due componenti rilevanti:
- il carattere pubblico dell’esigenza che la città offra un’abitazione a tutti, a condizioni correlate alle capacità di spesa dei cittadini;
- il carattere pubblico delle regole che governano l’assetto fisico e funzionale della città nel suo insieme.
Dobbiamo vedere gli spazi pubblici come l’insieme dei luoghi – materiali e immateriali – nei quali si manifesta il momento comune, collettivo, sociale della vita di ciascuno. E allora, in questo senso credo che dobbiamo inserire, accanto ai luoghi della comunità cittadina, anche i luoghi della comunità di classe: anche la fabbrica capitalista, come il luogo nel quale – come necessario antidoto alla proprietà del capitale – si costituisce la solidarietà del proprietari della forza-lavoro.
Oggi
La mera elencazione degli elementi che costituiscono la vita urbana ci fa comprendere facilemente come tutto questo sia in profonda crisi perché investito da un processo di dissoluzione di tutto ciò che vive nella dimensione del pubblico, del comune, del collettivo, del sociale.
Gli spazi pubblici classici, tradizionali, sono privatizzati e commercializzati: dalla piazza alla scuola, dalla sanità all’università. Gli standard urbanistici, come garanzia di un livello minimo di aree da utilizzare per le attrezzature e i servizi pubblici, garantito a tutti i cittadini della Repubblica, aboliti e sostituiti da “prestazioni” erogate da porivati. La casa, interamente abbandonata al mercato e alle sue follie.
Il legame di continuità tra spazio privato e spazio pubblico egualitario (apero al ricco e al povero, al cittadino e al foresto, al giovane e al vecchio) , già messo in crisi dalla zonizzazione sociale del razionalismo, definitivamente spezzato dalla segregazione delle gated communities e del emarginazione dei diversi. Le regole, scavalcate dalle deregulation progressivamente estesa a ogni dimensione della pianificazione. La fabbrica, devastata dal ricorso sempre più massiccio ed esclusivo al lavoro precario.
Orfani della politica
É possibile opporsi a questo trend e concorrere a un’uscita diversa dalla crisi attuale?. Io penso che, poiché è necessario, è anche possibile.
Trenta o quarant’anni fa la risposta l’avremmo cercata nella politica. Ma oggi la politica non c’è più: quella dei partiti si è ridotta alla mera conquista e conservazione del potere, indipendentemente da ogni finalizzazione a un progetto di società ispirato a principi di equità, solidarietà e libertà. Conta solo il risultato elettorale, il successo raggiungibile nel breve periodo. L’unico traguardo è la scadenza del mandato elettorale.
Se i partiti sono oggi caratterizzati da una visione miope, nella quale è solo l’oggi che conta e il futuro è il contenitore di promesse dimenticate il giorno stesso in cui vengono pronunciate, allora è inutile chiedere a questi partiti di farsi carico degli interessi della città, del territorio, della collettività in quanto tale: interessi che richiedono obbligatoriamente una visione di lungo periodo, una prospettiva ampia, uno sforzo prolungato nel tempo.
Oggi siamo orfani della politica: dovremmo portare tutti la fascia nera al braccio. Non per piangere, ma per ricordare che la politica dobbiamo riconquistarla.
Un filo di speranza
La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata – secondo me - a un filo molto tenue che tuttavia esiste. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.
Mi riferisco ai movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società, espressiva di principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, sia rappresentata dall’Onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario.
Le istituzioni
Assumere ciò che si muove nella società come il principale punto di riferimento non deve farci trascurare l’altro interlocutore essenziale: le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Domenico Finiguerra, il sindaco di quel piccolo comune del milanese che ha avviato con l’esempio il movimento “Stop al consumo di suolo” ha scritto parole molto benne e giuste sulla necessità di “occupare le istituzioni”, di espugnarle pacificamente, con gli strumenti della democrazia.
Le istituzioni: tutte, ma con maggiore attenzione per la prima, per il comune, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti. Tuttavia non dobbiamo dimenticare mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia.
Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, alla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.
Quattro obiettivi
Si può reagire al mainstream e navigare controcorrente a condizione che si assumano quattro obiettivi, che sono anche quattro impegni.
Bisogna resistere. La difesa degli spazi pubblici deve essere al centro dell’ attenzione. Non devo insistere sul fatto che mi riferisco allo spazio pubblico in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme.
Bisogna far crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali. Un esempio vistoso è il termine “vincolo”: si intende per tale qualunque destinazione del suolo che non consenta l’edificabilità di tipo urbano: è un vincolo la destinazione a una utilizzazione agricola, o all’inpianto o la conservazione di una forseta, alla ricerca in un’area archeologica, nella costituzione di un’area di libera visione di un monumento o al godimentoi di un paesaggio. “Voncolo” è tutto ciò che contrasta con l’uso mercantile, venale del suolo.
Terzo obiettivo e terzo impegno: bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.
E infine, bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più si allargherà il campo di quanti occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.
Dove sono gli intellettuali?
Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetterebbe agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Gli intellettuali, sono depositari d’un sapere che dovrebbero amministrare al servizio della società. Dovrebbero saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dovrebbero saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.
Mi sembra invece che gli intellettuali (almeno, quelli che praticano professionalmente e accademicamente la pianificazione territoriale e urbanistica) siano del tutto assenti da quello che accade nella società.
Quando se ne occupano, nel migliore dei casi (e naturalmente salve le dovute eccezioni) è per moderare, mitigare, addolcire le devastazioni più gravi. Si veda il caso dello sprawl, di questa cancrena del territorio e dell’idea stessa di civiltà urbana. C’è chi afferma che non si può che prendere atto di ciò che è stato e continua a essere, che le “villette” piacciono agli italiani e quindi bisogna incentivarne l’espansione. E che le aree devastate devono essere oggetto di razionalizzazione, adeguamento dei servizi, riprogettazione. Non si comprende che il primo obiettivo in assenza del quale qualunque intervento diventa stimolo all’ulteriore espansione della devastazione, è contrastare il fenomeno, bloccarlo, impedire che venga sottratto alla naturalità dello spazio rurale, un solo metro quadrato che non sia socialmente necessario. Solo dopo si potrà procedere a rendere civilmente abitabili le aree devastate.
[1]Citato in Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115
Non si possono variare automaticamente i piani urbanistici comunali, né derogare dalle norme dei piani provinciali e regionali, per privatizzare (“alienare” e “valorizzare”) aree ed edifici del patrimonio pubblico. Così ha stabilito la Corte costituzionale bocciando (con sentenza 340 del 16 dicembre 2009) una parte del decreto legislativo col quale il governo disponeva la “ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni e altri enti locali” mediante la redazione del “piano delle alienazioni immobiliari” (Dlgs 112/2008).
Per alienare il patrimonio immobiliare pubblico il governo aveva stabilito una procedura particolare. Regioni, comuni e altri enti locali devono individuare i singoli beni immobili “non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni” (per esempio, escludendo il municipio o il mercato comunale), suscettibili invece di vendita o “valorizzazione”. L’elenco di questi immobili costituisce il “piano delle alienazioni immobiliari”. L’inserimento nell’elenco provoca due effetti: il bene viene trasferito al “patrimonio disponibile” (quindi diventa vendibile), e cambia la sua “destinazione urbanistica”. Fermiamoci su quest’ultimo aspetto.
La norma del decreto governativo disponeva che questa modifica della destinazione urbanistica (per esempio, la decisione di destinare un museo in un albergo, o un ospedale in un residence, o una duna in un villaggio turistico) avesse a sua volta due effetti: costituiva variante automatica del piano urbanistico comunale, e non era subordinata alla verifica di conformità con le disposizioni dei piani provinciali e regionali, cioè al rispetto di questi.
Effetti gravissimi sia il primo che il secondo.
Per i piani comunali, come è noto, le leggi urbanistiche regionali stabiliscono contenuti precisi (che cosa i piani devono stabilire, su quali studi devono essere basati ecc.) e proceduredi garanzia (che consentano, tra l’altro, pubblicità delle scelte e partecipazione dei cittadini). Ovviamente anche le varianti ai piani devono seguire queste regole. Disporre perciò che l’inclusione di un immobile nel “piano delle alienazioni” equivalga a variante automatica significa autorizzare scelte non fondate e procedure non trasparenti.
Altrettanto grave il secondo effetto. I piani comunali sono subordinati alle scelte della pianificazione “sovraordinata”: alle prescrizioni dei piani provinciali e regionali: a quei piani che, tra l’altro, prescrivono – quando sono fatti correttamente - le tutele dei beni culturali e i vincoli paesaggistici, confermano le decisioni relative alla difesa del suolo e delle acque, dettano norme per ridurre il consumo di suolo. Decidere perciò che le “varianti automatiche” derivanti dall’inclusione del “piano delle alienazioni” non debbano rispettare la pianificazione sovraordinata significa consentire pesanti devastazioni del territorio e rischi per i suoi abitanti.
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittime proprio queste norme. Nell’inserire gli immobili nel “piano delle alienazioni” il comune può decidere qual è la nuova destinazione urbanistica, ma per renderla efficace deve in ogni caso seguire le regole che le leggi regionali stabiliscono: “la destinazione urbanistica – afferma la sentenza - va ovviamente determinata nel rispetto delle disposizioni e delle procedure stabilite dalle noirme vigenti”. E comunque non è ammissibile la deroga dalle disposizioni dei piani provinciali e regionali: la verifica di conformità va operata sempre e comunque.
Fortunati quindi quei territori nei quali regioni e province hanno approvato efficaci piani nei quali i patrimoni comuni (il paesaggio, la cultura, la storia, la salute, la sicurezza) sono protetti. Fortunati gli abitanti che vi vivono e i loro posteri, a maggior ragione se le norme regionali, e la buona volontà dei comuni, producono piani saggiamente elaborati e decisi mediante procedure trasparenti e partecipate. In quei territori e per quegli abitanti la tendenza alla privatizzazione e “valorizzazione” del beni collettivi può essere meno devastante che altrove.
La Repubblica,, 1° marzo 2010
L'immagine di Altan è un omaggio alla rivista "Carta" (è la copertina del n. 6/2010) e ai migranti in lotta il 1° marzo 2010
Il patrimonio diffuso è minacciato dalle città, e le città sono minacciate dalla scomparsa delle campagne. Questo l’argomento del mio intervento, che articolerò in quattro punti: 1. perché è bene che la campagna rimanga, o rientri, in città; 2. Che cosa ha cacciato e caccia la campagna dalla città; 3. l’irrefrenabile consumo di suolo; 4. quali spazi la campagna dovrebbe riconquistare nella città.
Perché è bene che la campagna rimanga, o rientri, in città
Le città sono oggi spesso diventate – in molti paesi, tra cui l’Italia –un luogo nel quale sono accatastate famiglie e attività, stipate in grandi involucri di cemento armato e mattoni, raccordati tra loro da nastri d’asfalto. Da moltissime città, soprattutto nelle periferie che sono state costruite nell’ultimo mezzo secolo e che costituiscono il 90% dell’urbanizzato attuale, la natura è scomparsa. Restano i giardini storici nei centri antichi, e quei pochi parchi urbani e spazi verdi ancora agricoli che qualche amministrazione comunale intelligente ha realizzato negli anni 70 e 80 del secolo scorso. Ma anche questi sono minacciati dall’espandersi dalla “repellente crosta di cemento e asfalto”, per adoperare le parole di Antonio Cederna.
La perdita che abbiamo subìto è gravissima. Perché la vita dell’uomo sia ragionevolmente vissuta, il rapporto immediato, quotidiano con la natura è essenziale. Non basta il verde dei balconi, né qualche striminzito alberello o qualche aiuola spartitraffico per farci vivere come abitanti del pianeta Terra. Il verde, la natura (sia quella selvatica che quella foggiata dal lavoro dell’uomo) è indispensabile alla nostra vita. Per ragioni che hanno a che fare con la nostra formazione, la consapevolezza del nostro ruolo nel pianeta che abitiamo, per la nostra cultura, il piacere, il benessere, la salute.
Oggi si è sempre più consapevoli della utilità del verde urbano alla fisiologia umana. Si considera in particolare essenziale il suo ruolo di moderazione microclimatica, di depurazione dell’aria, di attenuazione dei rumori, l’azione antisettica, il contributo alla difesa del suolo, alla depurazione idrica, alla conservazione della biodiversità.
É necessario che la città riprenda dentro di sé la campagna, che la campagna si re-impossessi della città. Così come era una volta, nei primi decenni della mia vita, quando le colline della mia città erano coltivate a vigne e a orti, quando bastava fare cinquecento passi per trovarsi in un bosco di castagni. Quando i prodotti dell’agricoltura che si mangiavano venivano da un paio di chilometri da casa, ed erano nutriti dallo stesso sole che entrava dalla mia finestra. Quando il sapore non era cancellato dalle lunghe soste negli armadi frigoriferi. Quando il latte che bevevo era prodotto dalle mucche che potevo vedere nella passeggiata fuoriporta, e il pesce che mangiavo veniva dal mare che vedevo dalla mia finestra. Per sapere che rapporto c’era tra la gallina, il pollo e le uova, e per sapere che i conigli mangiavano le carote, non dovevo guardare su un libro di zoologia. L’aria che respiravo era sana, era lavorata dalle foglie degli alberi che vedevo ovunque. E l’acqua minerale la bevevano solo i malati ricchi.
É stato inevitabile che questa perdita vi sia stata, che questo regresso sia avvenuto? Dobbiamo chiamarlo “inevitabile portato della modernità”? Lo escludo. Ci sono città, soprattutto fuori d’Italia, dove la campagna entra in città. Entra con il formato dei grandi parchi, i cui tentacoli verdi si spingono senza interruzioni nei quartieri vicini al centro e si collegano magari ai grandi parchi storici. Entra con gli orti urbani, lottizzati e assegnati agli abitanti dei quartieri nelle immediate adiacenze. Entra con dei cunei agricoli ancora coltivati dagli agricoltori, come hanno tentato di fare anche in qualche città italiana urbanisti intelligenti e amministrazioni sagge e civili.
Dobbiamo insomma recuperare la campagna in città, perché le cose belle, utili, sane che una volta caratterizzavano le città (insieme ad altre cose brutte, dannose e malsane, che siamo stati felici di perdere) tornino nelle nostre vite e in quelle dei nostri figli e nipoti. E perché quello che ancora c’è – i brandelli di verde, di natura – non siano anch’essi seppelliti sotto la “repellente crosta”. Come rischia di accadere.
Che cosa ha cacciato la campagna dalla città
Città e campagna sono due utilizzazioni che condividono il medesimo spazio: il territorio. A seconda della concezione che si ha del territorio la condivisione può assumere il carattere di una collaborazione o di una concorrenza, di una integrazione o di un conflitto.
Nel nostro mondo si manifestano di fatto due concezioni di territorio.
Secondo l’una il territorio è il contenitore neutrale di qualsiasi oggetto; è un insieme di risorse di cui ci si può appropriare per trasformarle; è un paesaggio da plasmare e riplasmare secondo il capriccio dell’operatore e l’interesse dell’utilizzatore.
Secondo l’altra concezione il territorio è un insieme di risorse finite, è un patrimonio, un insieme di patrimoni, depositati dall’opera congiunta della natura e del lavoro e la cultura dell’uomo; è un paesaggio - testimonianza anch’esso del lavorìo della natura e della storia - da custodire e manutenere e trasformare, comprendendone e rispettandone le regole formative.
Dobbiamo ammettere che nel nostro paese è la prima concezione quella dominante. Non si è cercato un equilibrio nell’uso del territorio. Non si è compreso che il territorio non urbanizzato, non trasformato in una “repellente crosta”, è una risorsa essenziale, e che quindi è lecito sottrarne parte solo se ciò è indispensabile per soddisfare esigenze che altrimenti sarebbero sacrificate. Non si è cercato di ridurre la sottrazione di suolo alla ruralità.
Ciò è dipeso in gran parte dal fatto che un’area utilizzabile per la costruzione di manufatti privati (abitazioni, uffici, fabbriche, capannoni) dà una rendita enormemente superiore a quella percepibile con gli usi rurali.
In altri paesi europei si è ovviato a questo squilibrio mediante la rigorosa imposizione di politiche e di regole, che le amministrazioni pubbliche hanno saputo far rispettare: l’acquisizione preventiva delle aree che saranno utilizzate per l’urbanizzazione, le regole della pianificazione, il prelievo – fiscale o contrattato – di quote consistenti della differenza tra rendita urbana e rendita agraria.
Perciò vediamo – in Germania, in Austria, in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi, in Francia, nei paesi scandinavi – ampi parchi e ampie zone agricole all’interno stesso delle città, e confini netti che separano città, paesi e villaggi dalla campagna circostante.
Perciò, in Italia, vediamo invece dilagare quel fenomeno – che negli altri paesi si cerca di contrastare– che si chiama “consumo di suolo”. Precisamente, una riduzione patologica dello spazio rurale ben al di là delle strette necessità di realizzare residenze, attrezzature produttive e commerciali e servizi urbani per le esigenze della società. Uno spreco di territorio, origine a sua volta di altri sprechi di risorse scarse e non riproducibili.
L’irrefrenabile consumo di suolo
L’Unione europea ha espresso da tempo preoccupazione per il crescente consumo di suolo, derivante soprattutto dal disordinato espandersi delle città in grandi aree invase da insediamenti a bassa densità dispersi su territori frammentati da strade e altre infrastrutture, largamente impermeabilizzati, in cui l’agricoltura viene ridotta in campi tagliuzzati, il paesaggio agrario viene cancellato – e con esso le testimonianze della storia e dell’arte, la gestione dei reflui e dei rifiuti viene resa più difficile e provoca un aumento dell’inquinamento[1].
I documenti dell’Unione europea sottolineano come lo spazio consumato per persona nelle città europee sia più che raddoppiato negli ultimi 50 anni. “Negli ultimi 20 anni, l’estensione delle aree edificate in molti paesi dell’Europa occidentale ed orientale è aumentata del 20 %, mentre la popolazione è cresciuta soltanto del 6 %”.
In particolare, si rileva come la dispersione degli insediamenti provochi l’irrefrenabile espansione della motorizzazione individuale, l’aumento dei costi, il coinsumo energetico, l’inquinamento. Inoltre – osserva l’Agenzia europea per l’ambiente – “le infrastrutture dei trasporti segnano profondamente il paesaggio, in diversi modi, basti pensare, ad esempio, all’impermeabilizzazione del suolo, che aumenta gli effetti delle inondazioni, o alla frammentazione delle aree naturali”.
Negli altri paesi europei il consumo di suolo ha spesso dimensioni comparabili a quelle nostrane, ma in Italia ci sono quattro differenze rilevanti.
(1) L’insieme del nostro territorio è caratterizzato da una grande fragilità per la sua struttura morfo-geologica e la sua pessima manutenzione.
(2) Le aree pianeggianti e fertili - che sono quelle dove il consumo di suolo si concentra – sono in Italia una frazione modesta del totale, circa un quarto del totale, mentre mancano le grandi pianure che caratterizzano Germania, Francia e i paesi dell’Est europeo.
(3) Il nostro territorio rurale è particolarmente dotato di testimonianze storiche e artistiche diffuse ovunque le quali, integrate alle ricchezze dei nostri paesaggi, costituiscono per la loro disseminazione una ricchezza che gli altri paesi ci invidiano.
(4) Infine – ed è forse la circostanza più preoccupante - in Italia nulla si fa per contrastare il consumo di suolo, a livello sia dello stato che delle regioni,. Anzi, soprattutto negli ultimi decenni (grosso modo a partire dalla metà degli anni 80) si sono via via abbandonate le pratiche di governo del territorio che nei due decenni precedenti erano state adottate in gran parte delle regioni del Nord e del Centro.
Non esiste nessuna ricerca seria, a livello nazionale, che abbia almeno quantificato, con criteri unitari che consentano confronti diacronici e sincronici, l’effettivo consumo di suolo, la sua dinamica, il suo effetto sull’ambiente e sulla vivibilità. I dati generali, di livello nazionale, che circolano sono totalmente inaffidabili. Essi si riferiscono o alla riduzione delle superfici agrarie (che non dipende solo dal consumo di suolo, ma anche dall’uscita dal mercato di aziende agricole e dalla rinaturalizzazione di aree marginali), oppure dalle rilevazioni satellitari. Queste si basano sull’impiego di un programma (Corine, COoRdination of INformation on the Environnement) , al quale sfuggono del tutto l’edificazione sparsa, i nuclei di abitazioni, le infrastrutture, le catene di capannoni e di casette[2].
La situazione è drammatica. E penso che cosa succederà quando misureremo l’effetto delle politiche più recenti, che continuano a stimolare un’attività edilizia completamente svincolata dai fabbisogni reali e finalizzata solo a valorizzate economicamente i terreni mediante l’impiego estensivo del mattone.
Quali spazi la campagna dovrebbe riconquistare nella città
Mi sembra che tre siano gli obiettivi più immediati, per chi voglia sperare che, anche in Italia, città e campagna ritrovino una convivenza e un’integrazione.
(1) Evitare l’ulteriore espansione delle città, combattere lo sprawl urbano (lo “sguaiato distendersi della città sulla campagna”). Altri paesi europei hanno adottato provvedimenti che vanno in questa direzione, e da cui si può imparare. Sono stati presentati in Parlamento italiano disegni di legge che vanno nella direzione giusta. Ma anche in assenza di leggi nazionali e regionali qualcosa si può fare. Comuni sensibili a questo tema possono imporre un limite rigoroso all’espansione urbana, tracciando confini rigorosi che separino città e campagna: come ha fatto lo stato del Washington negli Usa, e più d’un comune virtuoso in Italia. Le previsioni di piani regolatori vistosamente sovradimensionati si possono modificare senza dover pagare nessun indennizzo ai proprietari[3].
(2) Difendere gli spazi destinati a verde pubblico o verde agricolo nei piani regolatori vigenti. In moltissime città essi sono a rischio. Si tenta di sacrificarne un pezzo alla volta per ottenere qualche area per servizi. É un’operazione sbagliata. Se non ci sono risorse per acquisire aree per realizzare oggi un parco pubblico meglio destinare l’area a verde agricolo e stabilire regole che ne consentano l’uso ricreativo e produttivo insieme: sono attività che possono benissimo integrarsi.
(3) Chiedere che i grandi vuoti urbani siano in parte consistente destinati a verde. I vuoti che si formano per l’abbandono di installazioni industriali, militari o di servizi obsolete non devono essere adoperati solo per la realizzazione di edifici, ma che una parte consistente, almeno il 50%, deve venir restituito alla natura, e che devono essere utilizzate le vaste aree industriali nelle periferie urbane, soprattutto nel Mezzogiorno, urbanizzate per attività manifatturiere che non sono mai decollate.
Al di là e oltre iniziative in questa direzione – diciamo di carattere urbanistico –, credo che, per ottenere che la campagna riconquisti la città e i cittadini si giovino della campagna, e anche per ottenere un sostegno più largo alle attività di integrazione dell’agricoltura con tuti gli abitanti, residenti e viaggiatori, delle città sia utile dare risposte efficaci alle numerosissime sollecitazioni per un’alimentazione più sana, legata al territorio e alla cultura dei luoghi, per una formazione dei bambini più legata alla natura e alla conoscenza dei suoi cicli.
Mi riferisco alle pratiche per la formazione di “filiere brevi” tra il produttore e il consumatore, alla ristorazione con il Menu a km Zero, ai Gruppi di acquisto solidale, e alle molte altre forme nelle quali si esprime il desiderio di uscire da una vita sempre più omogeneizzata, artificializzata, in definitiva malsana per il fisico e alienante per lo spirito.
Per concludere
Nella sua bella relazione, che condivido integralmente, Massimo Quaini si è riferito alla battaglia in corso tra il globale dell’economia finanziaria, della “turbo capitalismo”, e il locale. Ci domandiamo: il globale, quel globale, ha ormai vinto?
Io non so se davvero, come afferma il titolo del libro di Giorgio Ruffolo, “il capitalismo ha i secoli contati”. Ruffolo scriveva quel libro prima della crisi dell’anno scorso, e del resto rivelava già, nel suo testo, la fragilità del capitalismo e le ragioni della necessità di superarlo. Quello che so, e di cui sono convinto, è che oggi occorre difendere il locale e tutto ciò che di buono la storia ci ha lasciato. E che però, contemporaneamente, si debbano cercare le strade che consentano di superare la contraddizione tra il globale e il locale, e soprattutto di costruire una società in cui il valor d’uso prevalga sul valore di scambio, la qualità sulla quantità.
[1]Si vedano in particolare i seguenti rapporti dell’European Environment Agengcy: EEA Report 03/2006 (The continuous degradation of Europe's coasts threatens European living standards), 04/2006 (Urban sprawl in Europe) e 10/2006 (Urban sprawl in Europe. The ignored challenge)
[2] L’unità minima di territorio omogeneo rilevato da Corine è 25 ha, pari a un quadrato di 500x500 m. Nella provincia di Lucca l’amministrazione ha fatto un confronto puntuale tra il consumo reale, misurato sulle mappe topografiche, e quello del Corine. Ebbene il consumo reale è di 17.000 ha, quello rilevato dal Corine è di 11.000 ha: il 50% in meno. Cfr M. Baioni, M.P Casini (a cura di), a cura di, Prospettive per il governo del territorio, Provincia di Lucca, 2006.
[3] Si vedano in proposito il parere pro veritate del prof. Vincenzo Cerulli Irelli e la relazione del sottoscritto.
Urbanistica e mercato
Il pensiero comune è abbastanza incerto su che cosa sia l’urbanistica. Le opinioni sono oscillanti. Prevalgono due interpretazioni. L’urbanistica è quel mestiere (scienza? arte?) che si preoccupa di rendere belle le città: roba da architetti. L’urbanistica è quel mestiere composto da regole, procedure, adempimenti: roba da burocrati. Nel sapere dell’urbanistica (nei saperi dell’urbanistica) c’è l’uno e c’è l’altro, ma anche altre cose, di cui quelle sono un riflesso.
Come al solito la storia aiuta a comprendere (“utilità della storia” è la ragione del nostro convegno). L’urbanistica moderna nasce, nell’ambito della società liberale e dell’economia capitalistica, per affrontare un problema che il mercato – che la spontaneità dei comportamenti individuali – non riusciva ad affrontare, ma anzi aggravava man mano che quella società e quella economia si affermavano e progredivano.
Si può dire che l’urbanistica è il primo rivelatore dell’insufficienza del mercato. Se si fosse lasciato a quest’ultimo il compito di organizzare l’insediamento dell’uomo sul territorio si sarebbero aggravati a dismisura le situazioni di confusione, disordine, malfunzionamento in molti decisivi aspetti della vita delle famiglie e delle aziende che già contrassegnavano la città. Insalubrità, disagio, caos del traffico, rischi per le persone, oscillazioni imprevedibili nei valori della rendita fondiaria.
Non a caso il primo piano regolatore fu preteso – a New York, nel 1811 – sia dai cittadini disturbati dall’improvviso sorgere di fabbriche e dall’affollarsi di carriaggi tra le abitazioni, sia dai mercanti di terreni che vedevano alterarsi i prezzi per l’inopinato insediamento di officine meccaniche o manifatture di attrezzi per il Far West nella aree lottizzate per la residenza. Il comune provvide, con un piano regolatore che determina ancor oggi la forma e il funzionamento di Manhattan.
Il compito dell’urbanistica
Compito dell’urbanistica è quello di adoperarsi perché la società possa utilizzare il proprio habitat per l’insieme delle sue esigenze che hanno un rapporto con lo spazio e con il suo uso.
Abitare, lavorare, alimentarsi, muoversi, spostare, incontrarsi, apprendere, scambiare, divertirsi, curarsi, gestire i propri rifiuti sono alcune delle attività che hanno bisogno di una organizzazione dello spazio. Hanno bisogno che le cose (gli oggetti, le funzioni) necessarie per soddisfare quelle esigenze siano correttamente collocate sul territorio, abbiano tra loro le relazioni (fisiche e funzionali) necessarie per non danneggiarsi reciprocamente e per non renderne difficile l’uso. Anzi, per renderne l’uso e la percezione (la funzionalità e la bellezza) i migliori possibile.
Se questo è il compito del’urbanistica, se questa è la domanda sociale che storicamente la rende necessaria, è facile comprendere che essa è un sapere (un insieme di saperi) eminentemente pratico, che ha un rapporto di particolare attenzione e legame con due realtà: il territorio, e la società. E a me sembra che l’attuale crisi dell’urbanistica sia strettamente correlata alla crisi dell’ambiente e alla crisi della politica. E che l’attuale deriva culturale nel quale versa oggi l’urbanistica ufficiale sia una espressione della più generale deriva dei saperi e dei sapienti nella “società montante”, per usare l’espressione di Alberto Asor Rosa[1].
Il territorio
Il territorio è il campo nel quale si svolge, e al quale si riferisce, il lavoro dell’urbanistica.
Il territorio come contenitore neutrale di qualsiasi oggetto, il territorio come insieme di risorse di cui ci si può appropriare per trasformarle, il territorio come paesaggio da plasmare e riplasmare secondo il capriccio dell’operatore.
Oppure il territorio come insieme di risorse finite e come patrimonio (insieme di patrimoni) depositati dall’opera congiunta della natura e del lavoro e la cultura dell’uomo, come paesaggio - testimonianza anch’esso del lavorìo della natura e della storia, da custodire e mantenere e trasformare comprendendone e rispettandone le regole formative.
L’opzione del tecnico è aperta tra queste due interpretazioni del territorio, sebbene si possa dire che la migliore tradizione della cultura urbanistica propende nettamente per la seconda, e i suoi esponenti condividerebbero oggi l’affermazione di Piero Bevilacqua quando ricorda che “non è il fondale inerte delle nostre attività, ma un campo di forze in movimento, talora collegate in forma di sistema”[2].
La società
La società, l’altro versante di attenzione dell’urbanistica è, per così dire, il committente del lavoro dell’urbanistica, poiché ne è il destinatario: è attraverso la mediazione dell’urbanista che la società costruisce il proprio spazio e gli conferisce la sua impronta. Non credo di aver bisogno di dimostrare questo assunto. Vorrei solo aggiungere una breve considerazione sulla politica.
Poiché l’urbanistica è finalizzata a un’attività pratica, operativa, e poiché ha il compito di stabilire regole che consentano di raggiungere un risultato che è la somma di interventi di una molteplicità di operatori, il legame tra urbanistica e società è costituita dal governo, cioè dalla politica.
Leonardo Benevolo arriva a dire che “l’urbanistica è parte della politica”. A mio parere il nesso è più complesso, ma comunque il legame tra i due aspetti è indubbio. La complessità di quel rapporto si comprende quando si riflette alla politica come è oggi.
Oggi (ma riprenderò il tema più avanti) la politica intesa come politica dei partiti non esprime compiutamente la società. Essa infatti non esprime le posizioni che manifestano dissenso e alternativa nei confronti della dell’ideologia e della politica dominanti. E allora nasce nell’urbanista che voglia rimanere fedele alla tradizione del suo mestiere la necessità di collegarsi direttamente alla società.
La pianificazione
Vorrei occuparmi adesso dello strumento che l’urbanistica adopera per determinare azioni sul territorio conformi alle esigenze della società. Parlo di strumento indipendentemente dalla sua tecnicità, ma con riferimento alla sua logica, al metodo che ne giustifica l’invenzione e ne dirige l’impiego.
Lo strumento dell’urbanistica è la pianificazione. Si parla di “pianificazione urbanistica” con riferimento alla fase nella quale l’habitat dell’uomo era ristretto sostanzialmente alla città; sarebbe forse più corretto parlare oggi di “pianificazione territoriale” oppure, con maggior precisione ma anche maggiore complessità, “pianificazione della città e del territorio”.
La pianificazione di cui parlo non ha a che fare con la “pianificazione economica”, tanto meno con la piatiletka sperimentata nel Secondo mondo - nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche e nei paesi satelliti - nel tentativo di uscire dall’economia capitalistica. Essa ha comunque sull’economia ricadute possibili, e per qualche aspetto rilevanti.
Mi riferisco in particolare alla questione della rendita fondiaria ed edilizia (rendita immobiliare), ricordando a questo proposito pochissime cose:
(1) che essa è stata definita dal pensiero liberale la componente parassitaria del reddito;
(2) che alla rendita non corrisponde alcun lavoro e alcuna attività imprenditiva, ma unicamente la proprietà di un bene scarso e utile;
(3) che la quantità di risorse che va alla rendita viene sottratta alle altre due componenti del reddito, il salario e il profitto d’impresa;
(4) che la rendita immobiliare urbana è determinata dalle decisioni e dalle opere della collettività, ma essa è percepita dal proprietario;
(5) infine, che in Italia la rendita ha un pesa molto maggiore che negli altri stati europei, e ciò soprattutto a causa dell’alleanza di classe che la borghesia liberale del Nord stipulò con la classe dei proprietari terrieri, soprattutto quelli del Mezzogiorno e del Centro.
Il piano urbanistico incide sulla rendita, nel senso di accrescerla più o meno. A seconda degli strumenti offerti dalle legislazioni e delle politiche urbane il piano può inoltre essere lo strumento mediante il quale la rendita viene ridotta, oppure trasferita dal privato al pubblico. Il rapporto tra pianificazione e rendita esprime solo la più classica delle modalità mediante le quali la pianificazione può incidere sull’economia: ve ne sono numerose altre cui non abbiamo qui il tempo di fare riferimento.
Due interpretazioni
Precisato che cosa la pianificazione non è, occorre ricordare che cosa invece essa è. Partirò dalle definizioni di due persone che esprimono altri saperi: l’archeologo Antonio Cederna e l’economista Giorgio Ruffolo.
Per Cederna
“La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese”[3].
Per Giorgio Ruffolo la pianificazione territoriale
“E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico”[4].
Cederna sottolinea il carattere etico e politico della pianificazione, Ruffolo quello estetico. Vorrei aggiungere una definizione mia, certamente più “tecnica” delle due che ho letto, quindi probabilmente più arida.
Una definizione
Per conto mio intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.
L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.
Naturalmente questa definizione va interpretata nel contesto delle premesse che ho posto al mio ragionamento, a proposito del territorio e a proposito della società.
É chiaro che gli effetti della pianificazione (la trasformazioni prescritte o previste) sono ben diverse a seconda che per territorio si intenda l’una o l’altra delle due ipotesi che ho formulato quella del territorio come contenitore neutro e quella del territorio come patrimonio.
A questo proposito occorre dire che, per il modo in cui in Italia l’urbanistica si è formata, si è partiti dall’urbano, dalla regolamentazione dell’edificazione e dalla sua espansione, quindi partecipando alla prima delle due concezioni. Fino alla legge Galasso del 1985 (tanto per fissare un punto di riferimento) la pianificazione corrente ha largamente trascurato il “non urbanizzato”, la naturalità, l’ambiente, il paesaggio. Grandeggiano perciò le figure dei nostri maestri (come Giovanni Astengo, Luigi Piccinato, Edoardo Detti) che hanno saputo fin dagli anni 60 del secolo scorso, fare della pianificazione uno strumento per la tutela della natura e della storia, dell’ambiente e del paesaggio.
La formazione del cittadino
Riprendendo il tema del rapporto tra urbanistica e società entrerò direttamente (e finalmente!) nel tema del mio intervento: l’urbanistica per la formazione del cittadino. La ragione per cui il cittadino è (dovrebbe essere) vitalmente interessato all’urbanistica è facilmente comprensibile. É attraverso l’urbanistica che il suo habitat viene organizzato, trasformato, gestito.
Solo se comprende il modo in cui queste operazioni vengono effettuate egli si pone nelle condizioni di poter concorrere alla formazione del proprio futuro (almeno, di quella parte del suo futuro che dipende dal suo habitat). Solo se comprende e conosce egli può partecipare alle scelte in cui la pianificazione urbanistica consiste.
Ma il cittadino oggi non è preparato a comprendere la città e le regole della sua trasformazione, perché nulla dell’urbanistica c’è nel suo processo di formazione, quindi nel suo bagaglio culturale. Eppure la conoscenza dell’habitat dell’uomo potrebbe essere uno strumento didattico formidabile per condurre la persona (a cominciare dal bambino e dall’adolescente) a comprendere, a partire dalla sua esistenza e dalle sue esigenze di individuo, le ragioni, le necessità e le opportunità della vita sociale.
Avviano un percorso di conoscenza che vorrei definire “urbanistico” quegli insegnanti delle elementari che cominciano a far descrivere, o a riconoscere su una mappa o un fotopiano, il percorso che il bambino compie dalla sua abitazione alla scuola, o al luogo dove gioca o dove incontra gli amici, e al luogo dove accompagna il genitore a comprare o a curarsi, e così via. Non credo che siano molti quelli che adoperano simili strumenti di lavoro, e ancora meno quelli che lo preseguono fino agli aspetti più riccjhi e completi della vita sociale urbana.
I canali della partecipazione
Forse tentano, tardivamente, un simile percorso conoscitivo quegli adulti che si organizzano per protestare contro scelte urbanistiche sbagliate che incidono sulla loro vita e quella dei loro vicini, e quindi avviano una protesta e promuovono un conflitto per partecipare alle decisioni sul territorio.
Ma dobbiamo domandarci allora – passando dal cittadino all’istituzione - quali spazi la pianificazione urbanistica offra alla partecipazione. Nell’urbanistica italiana rivisitata dopo la Liberazione erano previsti due canali.
Il primo era quello diretto, pensato soprattutto per il cittadino direttamente interessato: è l’istituto dela “osservazione”, un documento con il quale il cittadino può esprimere la sua critica e la sua proposta di correzione al piano prima che questo sia definitivamente approvato. Il secondo canale è rappresentato dal percorso cittadino>partito>elezione>comune (più generalmente, istituto della Repubblica).
Oggi il primo canale è considerato del tutto insufficiente a garantire una partecipazione significativa della cittadinanza alle scelte. Il secondo canale è reso difficilmente praticabile a causa di tre circostanze:
1) perché i partiti hanno perso credibilità, e quindi non sono più considerati espressione adeguata dei gruppi sociali;
2) perché all’interno dell’ordinamento delle istituzioni si sono affermati l’esautoramento degli organi collegiali, quindi pluralistici e una governante nella quale l’istituto è rappresentato solo dal suo vertice e gli altri interessi coinvolti sono quelli legati alle rendite;
3) perché la cultura dei partiti ha largamente abbandonato l’attenzione al territorio, e in prevalenza lo considera come un mero strumento per lo “sviluppo economico” (uno sviluppo economico dal quale è scomparsa la critica alla rendita e non è entrata la consapevolezza dei limiti del pianeta).
Il paradosso italiano
Che il ceto politico italiano abbia completamente trascurato le questioni della città e del territorio mi sembra un fatto assolutamente paradossale. In un mondo dominato, piaccia o non piaccia, dalla concorrenza, l’Italia ha un immenso patrimonio da mettere in gioco.
Pensiamo alle sue città e ai suoi paesi, ai centri storici e ai quartieri antichi e ai borghi disseminati nelle campagne, pensiamo alla loro bellezza, alla ricchezza dei beni che conservano ed esprimono, all’eccezionale insegnamento che offrono. E pensiamo ai paesaggi, alla loro varietà e alla loro bellezza, alle testimonianze dell’incontro tra natura e storia che in ogni luogo rivelano.
Nonostante le immani distruzioni che stiamo compiendo da mezzo secolo a questa parte mi sembra che ci sia ancora una ricchezza immensa, unica al mondo.
Che io sappia, negli ultimi decenni un suolo uomo di governo è riuscito a comprendere che questa ricchezza doveva essere tutelata per oggi e per domani e ad agire coerentemente ed efficacemente per farlo, raggiungendo risultati significativi. Finché le espressioni della politica miope e di quella rapace non lo hanno sconfitto. Mi riferisco a Renato Soru, già presidente della Regione Sardegna.
Il canale del conflitto
Oltre l’istituto delle “osservazioni”, oltre la politica dei partiti si è aperto un nuovo canale tra i cittadini e il governo del territorio: quello del conflitto. Di un conflitto diffuso sul territorio, generato da gruppi, comitati, movimenti che spesso partono da sollecitazioni anguste (espresse dall’acronimo Nimby), ma promuovono azioni che tendono ad allargarsi, a connettersi con altri gruppi e movimenti, a passare dalla critica degli effetti alla consapevolezza delle cause.
Sono centinaia e forse migliaia le iniziative che partono dalla difesa di uno spazio pubblico, o dall’opposizione a un intervento inquinante, o dalla protesta per un processo di espulsione dalle case e dai quartieri, o dallo scempio di un paesaggio amato.
Gli esempi più significativi e rilevanti mi sembrano quello della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio, il cui promotore e portavoce è Alberto Asor Rosa, e il movimento Stop al consumo di territorio, che è partito dalle valli dell’Astigiano e del Cuneese e si è sviluppato in molte regioni.
Ma io collegherei questi movimenti a quelli che esprimono altre tensioni e altre sofferenze, che protestano per altri soprusi che minacciano beni e diritti pubblici: come l’Onda che si è sollevata nella scuola contro la privatizzazione, come il movimento contro la privatizzazione dell’acqua, e come i movimenti per i diritti del lavoro, e per quelli delle minoranze e delle maggioranze misconosciute, come le donne.
Forse è da qui che riparte la politica. Se politica non è solo quelle che si esprime con i partiti, ma è una dimensione della vita dell’uomo sociale. Una dimensione che nasce dalla percezione di un limite, di un’ingiustizia, di un torto subito o minacciato; che si sviluppa nella constatazione che quel limite, ingiustizia, torto colpisce anche altri; che si espande nella ricerca delle cause, delle connessioni con altre situazioni simili, che si interroga sui rimedi possibili.
Ecco che piano piano può trasformarsi – attraverso il dibattito pubblico, il confronto, il conflitto – in partecipazione dialettica al governo della cosa pubblica: in politica nel senso più ampio e più compiuto del termine.
Sottolinea come questo sia un problema (e una speranza) per oggi l’insigne costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. In una recente occasione ha affermato che oggi “la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino ‘visioni del mondo’, che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica”. E ha proseguito ricordando le “tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre”, ed dichiarando, con l’autorità che gli viene dal ruolo che ha esercitato, che “la formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro”, è per “le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale” e che“la sua difesa è nell’interesse comune”[5].
Ricostituire l’unità del campo
Ho sostenuto, all’inizio di questo intervento, che l'urbanistica è un mestiere finalizzata all’agire su una realtà complessa. La complessità del campo in cui agisce l’urbanistica impone la collaborazione con altri saperi, nei campi sia delle scienze positive che di quelle umanistiche. Perciò, oggi, contribuisce pesantemente alla crisi dell’urbanistica la segregazione dei saperi ciascuno nel proprio campo e nel proprio settore.Perciò anche il nostro mestiere patisce la “subordinazione agli imperativi della competizione economica, che emargina le culture umanistiche, esalta i saperi strumentali, che divide la scienza in discipline sempre più separate e in comunicanti”, e produce “una conoscenza sempre meno capace di cogliere quella verità che soggiace alle minacce che ci sovrastano: la complessa indivisibilità del vivente”.
Occorre essere consapevoli che la segregazione dei saperi è funzionale all’ideologia dominante. Se non ci vergogniamo di adoperare parole quali quelle che sto adoperando, oggi l’intellettuale può ritrovare un proprio ruolo non servile se pone il suo sapere al servizio della contro-ideologia, là dove questa si manifesta. Deve essere capace di indicare le alternative possibili fuori da quelle fornite dal pensiero dominante. Con un’altra consapevolezza ancora: quella che nessuno dei saperi nei quali si è articolato e suddiviso e frammentato il campo della conoscenza è di per sé sufficiente di comprendere e di indicare.
Lemontey scriveva:
“Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce”[6].
Nessun sapiente potrà, da solo, eguagliare oggi quelli che, sul finire del XVIII secolo, colpivano d’ammirazione Lemontey. Possiamo aiutarci a comprendere e ad agire solo se abbattiamo i recinti tra i saperi e lavoriamo insieme.
[1]A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Inchiesta sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Laterza, Bari-Roma 2009
[2] P. Bevilacqua, importanza della storia del territorio in italia, Lezione al Città Territorio Festival, Ferrara, aprile 2008. In eddyburg.it, http://eddyburg.it/article/articleview/11266/0/304/
[3] A. Cederna, Brandelli d’Italia. Come distruggere il Belpaese, Newton Compton, Roma 1991, pp. 44-45
[4] G. Ruffolo, Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.
[5] G. Zagrebelsky, Democrazia in crisi, società civile anche. «La Repubblica», 7 novembre 2009. Anche in eddyburg.it, http://eddyburg.it/article/articleview/14143/0/351/.
[6] P.-E. Lemontey, citato in K. Marx,Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115
Qui il link alla segnalazione del coonvegno e al programma
Il convegno è stato organizzato dell’European Spatial Development Planning Network e si è svollto all’Universidade de Aveiro (Portogallo)
1. DUE CONDIZIONAMENTI DELLA STORIA
Il mestiere dell’urbanista nell’ Italia di oggi è condizionato da due circostanze del passato. La prima è il ruolo economicamente e socialmente rilevante della rendita fondiaria. La seconda è il fatto che la figura dell’urbanista nasce in Italia dalla figura dell’architetto.
Il peso della rendita fondiaria
A differenza che in altri paesi europei in Italia l’unità nazionale e l’affermazione del sistema capitalistico-borghese non avvennero con la vittoria della nuova classe sull’ancien régime, ma con un compromesso tra la borghesia capitalista, promotrice dell’unificazione e della costruzione di uno stato unitario, presente soprattutto nelle regioni settentrionali, e la nobiltà feudale presente soprattutto nell’Italia centrale e in quella meridionale (nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato Vaticano). Secondo l’analisi di Antonio Gramsci (1952) e di Emilio Sereni (1980) le forze che esprimevano le componenti radicali (Mazzini, Garibaldi) della borghesia del Nord rinunciarono a sollevare contro i nemici esterni e interni le masse contadine e il mondo rurale, e furono quindi costrette a subire l’egemonia di quelle moderate (Cavour) e a consentire che si formasse un’alleanza tra la borghesia capitalistica e l’ancien régime.
I gruppi sociali il cui potere era assicurato dalla rendita fondiaria agraria (i grandi proprietari del Sud e la nobiltà vaticana) ebbero perciò assicurato il permanere della loro posizione di privilegio. La rendita fondiaria agraria si traformò rapidamente nella rendita fondiaria urbana, man mano che le città si svilupparono. Italo Insolera ha raccontato questa storia a proposito della capitale del nuovo stato, Roma, documentando il passaggio dei latifondi dalle mani della nobiltà papalina ai “mercanti di campagna” e poi da questi alle neonate società immobiliari:
“E c'erano soprattutto i ‘mercanti di campagna’, costituenti l'unico nucleo di industriali, di borghesi in quella che stava diventando la capitale di uno stato borghese, aperto verso la futura industrializzazione. I mercanti di campagna si insediarono subito in Campidoglio [sede del comune – ndr], come era logico, trattandosi dell'unica élite di borghesi, non compromessa con ‘radicali’ e ‘repubblicani’. Purtroppo in loro le caratteristiche negative della borghesia erano ben più importanti di quelle positive […] I mercanti di campagna diventarono mercanti di terreni fabbricabili e impresari edili. In mancanza di una qualsiasi riforma agraria, una nuova più promettente attività lucrativa era nata: si trattava di fabbricare la nuova Roma" (Insolera, 1971)
Dal latifondo rurale al latifondo urbano: a Roma, nel 1907, il 55% dei terreni che il piano regolatore aveva reso edificabili appartenevano a solo 8 proprietari (Insolera, 1971, p. 95) . I tentativi, nel primo decennio del secolo scorso, di ridurre il peso della rendita urbana con sistemi di tassazione ed espropriazione per pubblica utilità non ebbero successo (Insolera, 1971, p. 87 segg.).
Ancora oggi la rendita fondiaria (e in generale la rendita immobiliare) è molto forte. Ma questo lo vedremo più avanti.
L’urbanista nasce dall’architetto
Le prime esperienze italiane di pianificazione nell’età contemporanea, negli anni tra l’Unità d’Italia e la prima guerra mondiale, videro come protagonisti gli uffici municipali spesso assistiti da consulenti tecnici dagli studi di ingegneria o di architettura. Una discussione sulla formazione dell’urbanista, e prima ancora sulla sua natura, si sviluppò in Italia negli anni Venti del secolo scorso, sotto l’influenza delle proposte e delle iniziative in Gran Bretagna e soprattutto in Francia. Si manifestarono due posizioni molto diverse.
Secondo la prima (Silvio Ardy, 1926) si doveva formare una figura di “urbanista pubblico”: un civil servant formato “soprattutto sul modello francese delle alte scuole amministrative. […] È un approccio complesso, e per molti versi sorprendente nell’accostare competenze che per il lettore di oggi appaiono difficilmente conciliabili” (Bottini, 2004). Storia, demografia, gestione municipale, edilizia, infrastrutture avrebbero dovuto essere le materie di base, premesse per una specializzazione in due rami: l’uno tecnico e l’altro amministrativo. L’altra proposta (Alberto Calza Bini, 1929) propone il mestiere dell’urbanista come articolazione di quella dell’architetto
La proposta di Ardy si infrange contro la logica del regime fascista (Mussolini si è impadronito dello stato nel 1922 e lo mantiene fino al 1943). Contro la formazione di un planner formato ad hoc per le politiche pubbliche urbane prevale la posizione degli architetti, rappresentata da Alberto Calza Bini, influente esponente dell’accademia romana molto vicino al regime fascista (Calza Bini, 1928). Nelle scuole di architettura si era cominciato a insegnare l’urbanistica (a partire dai primi anni Venti), e questo tipo di formazione era più vicino sia al contesto economico, dove l’attività edilizia aveva un ruolo rilevante, sia alla propaganda del regime. Afferma uno studioso di quel periodo, Paolo Nicoloso:
“La ragione del fallimento della proposta di Ardy –- va colta anche nell’aver voluto egli privilegiare il buon governo della città a discapito della rappresentazione della forma. Viceversa la politica degli architetti, sostiene Calza Bini, considera preponderanti proprio i valori estetici. All’efficienza della forma il regime preferirà la realizzazione di opere auto celebrative più consone alla promozione del consenso” (Nicoloso, 1999, p. 69)
Fabrizio Bottini precisa il riferimento al contesto:
Per Calza Bini l’urbanistica è “il midollo spinale delle applicazioni di edilizia cittadina”. E la nuova figura professionale è ben diversa da quella dell’ “eletto funzionario comunale” che l’Ardy proponeva a Torino: è un “architetto-urbanista”, un professionista solidamente legato ai diversi interessi (amministrativi, ma anche finanziari, imprenditoriali, proprietari) la cui sinergia caratterizzava il regime corporativo fascista. Una concezione, quindi, omogenea sia al Regime, sia ad alcune modalità italiane di produzione e funzionamento della città, ciò che indubbiamente giovò al suo successo e durata nel tempo (Bottini, 2004).
Da allora e fino agli anni Settanta del secolo scorso l’urbanistica si insegna soprattutto nelle facoltà di architettura (più marginalmente in quelle d’ingegneria), con una spiccata tendenza per la figura del “libero professionista” più che per quella del civil servant.
2. GLI ANNI DELLE RIFORME, DELLE SPERANZE E DELLE BOMBE (1960-1979)
Emergono i guasti della ricostruzione
Nell’Italia del dopoguerra, passata la breve fase dell’unità dei partiti antifascisti, la maggioranza parlamentare era aggregata attorno alla democrazia cristiana (DC), un partito moderato su base popolare. A suo contrasto si era costituito un forte blocco di forze di sinistra, con una netta prevalenza del partito comunista (PCI), espressione degli strati operai e contadini e ampiamente egemonico negli strati intellettuali.
L’Italia era stata pesantemente distrutta dalla guerra. Scrive Vezio De Lucia:
“[…] più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; distrutti un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Particolarmente acuto il problema abitativo che già prima della guerra era assai grave (nel 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze). Mentre in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale, in Italia, viceversa, è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l’alibi – appunto – di «superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati» attraverso «dispositivi agili e di emergenza”(De Lucia, 2006IV, p. 5)
La ricostruzione è avvenuta nell’ambito di una politica economica che ha privilegiato soprattutto due settori economici. Da un lato l’attività edilizia privata, come tappa intermedia per il passaggio dall’agricoltura, fino ad allora dominante in Italia, all’ industria. Dall’altro lato l’industria manifatturiera, che già aveva solide basi nel capitale industriale del Nord e a cui era affidata la competizione sul mercato internazionale. In questo settore si puntava soprattutto sulla produzione di beni di consumo durevoli (l’automobile, ma anche elettrodomestici). L’agricoltura era stata lasciata, soprattutto nel Mezzogiorno, agli inefficienti rapporti di produzione del passato.
Lo sviluppo dell’industria manifatturiera si era concentrato nel nord-ovest. La sfrenata attività edilizia si era concentrata nelle maggiori città e lungo le coste. Tutto ciò aveva provocato vistosi squilibri territoriali : tra città e campagne, tra coste e regioni interne, tra regioni del nord e quelle del sud.
La scelta di politica economica, se aveva consentito l’ingresso dell’Italia nel mercato mondiale e un consistente aumento del benessere e della capacità di spesa delle famiglie, aveva quindi provocato anche una estesa devastazione del territorio e gravi fenomeni di congestione, sovraffollamento e disagio nelle città. Questi fenomeni, insieme a un logoramento della formula politica, erano venuti al pettine nella seconda metà degli anni Cinquanta e avevano provocato, da un lato, il formarsi di una nuova alleanza politica e, dall’altro lato, una presa di coscienza dei guasti provocati e il maturare della necessità di correre ai ripari.
Programmazione economica e pianificazione urbanistica
Programmazione economica per superare gli squilibri tra i settori economici e tra i territori; pianificazione urbanistica per collaborare a questa impresa e insieme ridurre il peso della rendita fondiaria e la congestione delle città: queste furono due delle principali riforme che la nuova alleanza del centro-sinistra – realizzata promuovendo il distacco del partito socialista da quello comunista –tentò dagli inizi degli anni Sessanta.
Strumento decisivo per la connessione tra programmazione economica e pianificazione urbanistica era stata considerata l’istituzione delle Regioni come anello intermedio tra lo stato nazionale e i poteri locali (soprattutto i comuni). Le regioni erano previste dalla Costituzione del 1948 come una delle quattro istituzioni della Repubblica (insieme a stato, provincia e comune), ma non erano mai state istituite dalla dai governi centristi per timore di ciò che poteva avvenire se le regioni del centro-nord avessero avuto un governo di sinistra, come era del tutto prevedibile.
La riforma urbanistica e il rilancio della pianificazione assumevano quindi un ruolo centrale nel dibattito politico e nelle speranze di trasformazione strutturale del paese. Nemico principale da sconfiggere apparvero subito le forze legate alla rendita fondiaria urbana. Un disegno di legge presentato dal ministro Fiorentino Sullo, che prevedeva l’esproprio preventivo delle aree interessate dai piani di espansione delle città, fu bocciato nel 1963, grazie a una violentissima campagna di stampa, cui DC e socialisti non reagirono. Ma alcuni disastri che si manifestarono a metà degli anni Sessanta, soprattutto nel 1966, ad Agrigento, Firenze, Venezia addebitabili al disordine urbanistico e territoriale, indussero a correre ai ripari: si approvò una legge, considerata come un ponte verso una più completa riforma urbanistica, che consentiva una migliore pianificazione delle città [1].
Si preparava intanto la formazione delle istituzioni regionali.
Un nuovo progetto e un nuovo ruolo per la formazione dell’urbanista
Nuovi orizzonti si aprivano per la professione dell’urbanista. Bisognava avviare un’estesa attività di pianificazione territoriale e urbanistica, nelle regioni e nei comuni cui la legislazione italiana attribuisce la competenza della pianificazione. Regioni e comuni non erano attrezzati, e non era più sufficiente il metodo di pianificazione applicato prima della guerra: nelle poche grandi città pianificate provvedevano generici uffici comunali assistiti da esperti specializzati soprattutto nel progetto urbano.
Bisognava procedere alla formazione di massa di nuovi tecnici, capaci di assistere le amministrazioni pubbliche in tutti gli aspetti connessi alla pianificazione: le competenze dell’architetto-urbanista non bastavano più. Il planner doveva essere dotato di competenze sia nei campi delle nuove tecniche del planning sia nell’economia, nel diritto, nell’amministrazione, nella sociologia.
Giovanni Astengo era un urbanista che aveva già svolto, con la rivista Urbanistica [2], un lavoro di ampliamento della cultura urbanistica italiana alle esperienze e conoscenze elaborate dalla cultura internazionale. Era vicino ai politici socialisti e aveva concorso alla definizione dei programmi del centro-sinistra. Era professore nel prestigioso Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV), forse all’epoca la migliore scuola di architettura italiana. Lì ottenne, con molta fatica, l’istituzione di un corso di laurea in urbanistica, basato su criteri molto vicini a quelli che, trent’anni prima, aveva proposto Silvio Ardy: la formazione di un urbanista che, pur non rinnegando la componente compositiva del progetto urbano, si preparasse a un’attività di planning molto integrata nelle politiche della pubblica amministrazione. Dopo l’esperienza di Venezia analoghi corsi di laurea si costituirono nell’ambito della facoltà di Architettura di Reggio Calabria; più tardi anche nel Politecnico di Milano e, nel corso degli anni Novanta, in molte altre facoltà di architettura. Il corso di laurea di Venezia si è trasformato, nel 2001, in facoltà di Pianificazione del territorio, ma l’esempio non è stato seguito.
Pochi anni dopo, le elezioni amministrative del 1975 e 1976 videro una forte avanzata dal PCI[3], che condusse alla formazione di amministrazioni di sinistra in molte città; tra le altre, Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Genova, Perugia Ancona, Roma, Napoli, Cagliari. Giunte regionali di sinistra si formavano, oltre che in Emilia-Romagna, Liguria ed Umbria, anche in Piemonte, Liguria, Lazio, e nel 45% delle province. Un grande entusiasmo riempì di speranza il “popolo di sinistra”, cui apparteneva gran parte del mondo degli urbanisti. E un grande campo di lavoro si apriva, dove l’impegno tecnico e culturale si sposava a un impegno politico volto a giocare un ruolo – sia pure piccolo – a partire dalle trincee delle istituzioni democratiche. Un numero consistente di giovani esperti formati nei corsi quinquennali di pianificazione di queste facoltà ha alimentato gli uffici dei comuni, province e regioni, soprattutto nell’Italia del nord e del centro, dove la gestione urbanistica era più consolidata. Numerosi urbanisti assunsero cariche elettive di rilievo in molte città e regioni.
Riforme e controriforme
Il processo di riforme del governo del territorio avviato dall’inizio degli anni Sessanta proseguì soprattutto dopo il biennio 1968-1969. In quegli anni ci furono, insieme, l’esplosione del movimento studentesco e il divampare di numerose proteste sindacali. Queste ultime ebbero il momento più alto in un grande sciopero generale nazionale. Per la prima volta in Italia l’argomento dello sciopero non era negli aspetti salariali o normativi del rapporto di lavoro, ma sulle questioni della casa, dei trasporti, degli squilibri territoriali e dei servizi: questioni che incidevano tutte sul salario reale e sulle condizioni di vita dei lavoratori.
Si aprì una vertenza dei sindacati, appoggiati da entrambi i partiti di sinistra, il comunista e il socialista, con il governo. I temi centrali furono quelli della casa e, in relazione a questo e ai servizi pubblici, del costo degli espropri. La trattativa tra sindacati e governo ottenne dei risultati positivi, nell’ambito di una dialettica che vedeva succedersi le minacce di sciopero e le crisi di governo[4]. Il tentativo di approdare a riforme serie del governo del territorio aveva in quegli anni basi più solide che nel passato. Scrive in proposito Paul Ginsborg:
“Negli anni 1969-71, le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centro-sinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva, ora, del movimento operaio. Come si è già visto (cfr. p. 43) la parte più ambiziosa della strategia sindacale mirava a usare il diffuso attivismo di questi anni come leva per ottenere riforme fondamentali. I riformisti, dunque, non erano più un gruppo di politici relativamente isolati. Erano invece appoggiati da un forte movimento di massa” (Ginsborg, 1989, p. 445)
Ma alle rivendicazioni sociali delle organizzazioni del movimento operaio rispondevano tentativi occulti di arrestare il processo di riforme con metodi violenti. Scrive Vezio De Lucia a proposito dello sciopero generale del 1969:
“L’indiscutibile successo dello sciopero contribuisce certo ad accelerare le manovre dei poteri più o meno occulti che governano la strategia della tensione. E infatti le bombe di Milano e Roma dei 12 dicembre distraggono l’opinione pubblica dal problema della casa, ma solo per qualche settimana. I primi mesi del 1970 sono di nuovo punteggiati da numerosi dibattiti e i sindacati riprendono l’iniziativa (De Lucia, 2006IV, p. 75)
Con la complicità dei servizi segreti (i “servizi deviati”) gli attentati dinamitardi furono organizzati anche negli anni successivi in numerose città, alternandosi con le azioni dimostrative del terrorismo di sinistra[5]. Essi provocarono morti e feriti, e soprattutto l’impaurirsi dell’opinione pubblica e il rafforzarsi nella maggioranza parlamentare delle forz che volevano interrompere il cammino delle riforme.
L’intero corso degli anni Settanta può essere definito come il conflitto tra i tentativi di riforma e quelli di controriforma. Ma negli anni Ottanta tutto cambiò. Non in meglio.
3. DENTRO UN NUOVO REGIME
La svolta
Siamo oggi in un mondo molto lontano da quello nel quale il mestiere del planner era socialmente importante, e la formazione universitaria aveva un obiettivo chiaro e definito cui orientarsi. Non c’è una interpretazione largamente condivisa del perché questo è accaduto, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Credo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, si possa collocare nella metà degli anni Ottanta il momento principale della svolta., perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.
Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi, il quale mantenne il suo ruolo fino all'aprile del 1987. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. In Italia un decreto del governo Craxi (14 febbraio 1984) aveva aperto l’attacco alla scala mobile: cioè al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto. Il PCI promosse, nel 1985, un referendum per difenderlo, ma non raggiunse la maggioranza dei votii[6]. Nello stesso anno si svolgono in Italia le elezioni amministrative: cadono quasi tutte le maggioranze di sinistra che erano al governo nelle grandi città.
Sono gli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi valori divengono vincenti nel pensiero comune.
“Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale. A Tokio, il 4 maggio 1986, Craxi riesce ad ottenere l'ammissione dell'Italia in quello che era allora il Club dei Cinque, organismo di concertazione della politica economica formato dalle maggiori potenze industriali del pianeta” (Della Seta and Salzano, 1993).
Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva Paul Ginsborg
“crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti” (Ginsborg, 2007).
La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali di affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato.
Berlusconi e il berlusconismo
L’ideologia di cui Craxi fu il veicolo politico ha trovato la sua più piena e devastante espressione nel nuovo premier italiano, Silvio Berlusconi. Spiace che il discredito internazionale che avvolge il nostro premier sia causato più dagli incredibili aspetti del suo comportamento personale che dalla conoscenza della reale sostanza della sua politica.
Dire soltanto che quella di Berlusconi è una politica di classe significherebbe nobilitarla. In realtà essa esprime al massimo grado la volontà proterva di far trionfare gli interessi personali e quelli dei gruppi di potere che è riuscito ad aggregare attorno a sé contro tutti gli altri, calpestando gli strumenti della democrazia (dalla legalità alle procedure di garanzia degli interessi pubblici, dalla libertà d’informazione alla pianificazione del territorio, dal rispetto delle minoranze a quello della verità dei fatti.
Per raggiungere il consenso popolare, il premier ha saputo utilizzare i vizi nascosti nell’ animus dell’italiano medio: la difesa del privatismo individuale e familiare contro la comunità più larga e lo stato, la diffidenza nei confronti delle autorità costituite, la forte propensione a non pagare le tasse e ad eludere o evadere dagli obblighi sociali. Vizi che hanno probabilmente fondamenti anche nella storia del paese, ma che il grande potere mediatico di Berlusconi ha sapientemente provveduto a legittimare fino a renderli pensiero comune.
In ciò Berlusconi è stato indubbiamente aiutato dall’appannarsi della coscienza critica nelle altre componenti culturali e politiche. Non c’è oggi, in Italia, un’alternativa credibile sul terreno politico, e sullo stesso piano della cultura allo sgretolamento delle ideologie della sinistra ha corrisposto una pesantissima azione di corruzione nei confronti di larghe porzioni dell’intellettualità. Accanto a Berlusconi si è sviluppata una nuvola di quasi-berlusconismo, o di “berlusconismo ben temperato“, che condivide alcuni pilastri della sua ideologia. La stessa sinistra ancora comunista aveva del resto cominciato, fin dagli anni Ottanta, a utilizzare slogan come “meno stato e più mercato”, “privato è bello”, “via i lacci e lacciuoli che ostacolano la libertà d’iniziativa economica”. Anche nella sinistra (o almeno nella sua area maggioritaria) si era privilegiata di fatto la governabilità alla democrazia.
L’urbanistica del berlusconismo
Tre sono i binari sui quali corre il treno del berlusconismo urbanistico: programma di grandi opere infrastrutturali, spesso prive di qualsiasi utilità, a volte pericolose, e comunque non prioritarie; libertà per i privati di costruire ovunque infrangendo ogni regola; privatizzazione dei patrimoni pubblici territoriali.
Tra le Grandi opere vorrei segnalare:
- il Ponte sullo stretto di Messina, che tra l’altro sorge in un sito soggetto ad altissimo rischio sismico, e che è alternativo al rafforzamento dei traffici marittimi (la Sicilia come cul de sac del sistema traportistico italiano invece che come cerniera tra l’Europa e la sponda sud del Mediterraneo);
- il MoSE, un gigantesco e pericoloso sistema di opere fisse e dighe mobili tra la Laguna di Venezia e il mare, già in corso di realizzazione benché non sia stato sperimentato e non siano neanche redatti i progetti esecutivi delle componenti più delicate e incerte;
- la realizzazione di una serie di autostrade e altre arterie stradali, soprattutto al nord, realizzate mistificando la strategia europea dei “corridoi”, che dovrebbero avere come asse linee ferroviarie e trasporti acquei, e sono ridotti in Italia a grovigli di.
Oltre a quelle decise dal governo, anche ogni comune cerca di inventare (e pagare) una Grande opera, affidata a una firma dell’architettura internazionale, che renda più dfamosa la sua città rispetto alle concorrenti. E queste grandi opere (anche quelle utili, come gli ospadali) sono realizzate con il sistema del project financing all’italiana, che affida la gestione delle opere agli stessi finanziatori/realizzatori, scaricando così i debiti contratti oggi sulle generazioni futuri.
A proposito della liberalizzazione dell’attività edilizia dalle regole della pianificazione voglio ricordare il cosiddetto “piano casa” di Berlusconi. Con esso si utilizza l’alibi della domanda di case in affitto a prezzi ragionevole (in Italia da dieci anni non c’è una politica per la residenza sociale) non per realizzare edilizia sociale, ma per disporre che ogni proprietario possa ampliare il proprio edificio (residenza, capannone industriale, albergo o centro commerciale che sia) in deroga alle regole della pianificazione e della tutela del paesaggio.
Una nuova ondata di cemento minaccia la penisola, ancora peggiore di quella che devastò città e coste negli anni Cinquanta. Le poche regioni ragionevoli sono riuscite a introdurre (basandosi sulle loro competenze costituzionali) dei limitati miglioramenti, ma le regioni dominate dalla destra stanno peggiorando ancora, con le loro leggi, l’impostazione di Berlusconi.
Infine, la spinta alla valorizzazione economica, all’alienazione del patrimonio pubblico, alla trasformazione del cittadino in cliente, congiunte all’appello alla sicurezza contro i diversi, stanno producendo la riduzione degli spazi pubblici e la loro privatizzazione.
Sta scomparendo dalle legislazioni nazionale e regionali l’obbligo di provvedere a realizzare servizi sociali e attrezzature pubbliche insieme alle costruzioni. Sempre più forti sono le spinte verso privatizzazione delle istituzioni collettive pubbliche (dalla scuola alla sanità). Nella stessa gestione dell’università prevalgono sempre più concezioni e pratiche aziendalistiche.
Conseguenze della strategia berlusconiana
Nel quadro di questa strategia il ruolo del planner diventa sempre più marginale: quasi scompare al cospetto del ruolo delle Star dell’architettura, cui spesso i sindaci affidano le strategie urbane (e le grandi realizzazioni celebrative). La pianificazione territoriale e urbanistica viene emarginata: è concepita come un ostacolo agli interessi di “fare affari” con le trasformazioni territoriali, alla discrezionalità del potere politico e amministrativo, alla miopia che caratterizza le nostre attuali classi dirigenti, alle improvvisazioni dell’oggettistica degli Architetti.
I saperi accademici, che governano i processi formativi, si rivelano incapaci di offrire agli studenti prospettive diverse, e perfino di stimolarli ad esercitare un pensiero critico. Del resto, gran parte dei nostri professori sono anche professionisti. Una buona parte dei loro introiti viene dai compensi che percepiscono dalle amministrazioni pubbliche e dalle aziende private, e questo incide sui loro comportamenti. Raramente nelle università, e nelle stesse istituzioni culturali come l’INU, si discute criticamente della politica urbanistica di Berlusconi. Nella mia università, nella recente elezione del rettore, ha avuto un inaspettato successo un candidato che denunciava il fatto che nella passata gestione non si era mai aperto un dibattito critico sui peggiori provvedimenti del goveno, come il “piano casa” di Berlusconi, il MoSE o le autostrade.
Ma l’aggressione agli spazi pubblici e la devastazione dei paesaggi e dell’ambiente, provocati dalle grandi opere e dall’ondata di cemento, insieme all’irrisolta questione della casa, stanno suscitando molte reazioni di gruppi di cittadini, comitati, associazioni. Interessanti episodi di protesta e resistenza si sono manifestati soprattutto in Toscana, in Lombardia, in Piemonte, nel Veneto, In queste regioni il movimento si sta organizzando in “reti” che, spesso partendo da logiche Nimby, tentano di contrastare la strategia della destra a livelli più alti e cominciano a svolgere un ruolo politico.
Quale formazione per una nuova speranza
In che direzione muoversi in una situazione quale quella che si è determinata in Italia? In particolare, che ruolo può svolgere la formazione per contribuire a uscire dalla situazione attuale? Le risposte sono già implicite nell’analisi che ho tentato di fare. Sarò perciò molto schematico.
Bisogna prendere atto che la politica dei partiti è oggi del tutto inefficace: una parte consistente dei partiti (sostanzialmente tutti quelli rappresentati in Parlamento) sono subalterni rispetto alla visione della destra e condividono, più o meno pienamente e consapevolmente, il “pensiero unico”. I gruppi residui della grande sinistra del PCI non riescono a trovare una convergenza tra loro, e neppure con i gruppi che esprimono posizioni critiche nei confronti del neoliberalismo (verdi, ecologisti ecc.) o dell’immoralità pubblica e privata di Berlusconi (parti del mondo cattolico e di quello liberale).
Bisogna ugualmente prendere atto che la destra ha il consenso di una parte molto ampia dell’elettorato[7]. Il lavoro fatto nei decenni scorsi con i mass media (soprattutto con la televisione e la pubblicità) ha esaltato i vizi e depresso le virtù di grandissima parte della popolazione italiana e creato un pensiero comune che si accontenta delle prospettive indicate dal Potere. Neppure la crisi economica ha modificato questo orientamento, e forse lo ha invece accentuato.
Bisogna perciò in primo luogo comprendere che il lavoro da fare è di lunga lena, che deve proporsi dal modificare la testa degli italiani e far nascere in loro la capacità di guardare criticamente la realtà. Bisogna convincerli – a partire dalle generazioni più giovani – che il mondo così non va bene, che le tendenze sono preoccupanti, ma che la storia non è ancora scritta e spetta a loro farlo.
Bisogna ugualmente comprendere che l’unica realtà sociale che mostra dinamismo e capacità di opposizione è costituita dai movimenti di protesta per le condizioni della città, del territorio, dell’ambiente, per una condizione sempre più precaria e incerta del lavoro, per la privatizzazione del processo formativo e al degrado della scuola pubblica.
Bisogna infine comprendere che i movimenti rimangono sterili se non trovano delle ragioni comuni, se non assumono consapevolezza dei caratteri generali del disagio che vivono, se non diventano capaci di generare una nuova politica. Questa non può nascere che da uno sforzo di analisi e di organizzazione nel quale i saperi esperti si mescolino a quelli che nascono dalla società.
La formazione dell’urbanista deve perciò essere finalizzata a far assumere (o riassumere) all’urbanista due nuove connotazioni:
1. la capacità di analizzare il trend culturale, sociale e politico, di criticarlo nel suo immediato e nelle sue prospettiva, di diffondere la sua critica negli strati che subiscono il potere dominante;
2. la capacità di aiutare, con il loro sapere e con la loro umiltà, i movimenti che tendono a contrastare la tendenza in atto e a costruire un’alternativa.
Questa non può nascere da chi ha un’esperienza limitata alla propria esperienza “locale”, ma ha bisogno dello sguardo largo dell’intellettuale: sempre che questo sia realmente tale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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P. DELLA SETA, and E. SALZANO, L'Italia a sacco. Come, negli incredibili anni '80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Roma, Editori riuniti, 1993
P. GINSBORG, L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Statio 1980-1996, Torino, Einaudi, 2007
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P. NICOLOSO, Gli architetti di Mussolini. Scuola e sindacato, architetti e massoni, professori e politici negli anni del regime, Milano, Franco Angeli, 1999
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E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino, Einaudi, 1980 (tit.orig.:1947)
[1] Legge 765/1967. La legge prevedeva tra l’altro: la generalizzazione a tutti i comuni dell’obbligo di formare un Piano regolatore generale; l’obbligo di prevedere nei piani urbanistici determinate dotazioni minime di spazi pubblici o d’uso pubblico (standard urbanistici); una disciplina dei piani di lottizzazione privati, che garantissero la presenza di dotazioni urbanistiche adeguate.
[2]Urbanistica era la rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica, un’associazione che raggruppava gli urbanisti italiani. Astengo la diresse dal 1952 al 1978 e ne fece uno strumento importantissimo eper la formazione della cultura urbanistica. I fascicoli della rivista, dotati di un ricchissimo apparato di immagini, dedicava ampi dossier alla documentazione di importanti eventi o luoghi concernenti soprattutto progetti di piani urbanistici e territorialio, ma non mancava l’attenzione ad altri aspetti del planning e degli studi urbani. Era ben conoscita negli ambienti specializzati anche all’estero; mi è capitato di vederne una copia, negli anni Sessanta, sul tavolo dell’ufficio tecnico di Costanza, in Romania.
[3] Il dato elettoralmente più significativo delle elezioni amministrative fu la crescita del Pci, che passò dal 27,9% delle precedenti elezioni regionali al 33,4, guadagnando 5,5 punti in percentuale, mentre anche il Psi cresceva dell’1,6% e la Dc perdeva il 2,5%.
[4] Con la legge 22 ottobre 1971, n. 865 si ottennero un rafforzamento della legge 167/1962, che sollecitava i comuni (obbligandone alcuni) a realizzare quartieri di edilizia residenziale pubblica e privata convenzionata, dotata di tutti i necessari servizi, forte riduzione delle indennità d’esproprio, che assumevano come valore di riferimento quello legato all’utilizzazione agricola. Leggi successive disposero il controllo dei canoni di locazione del patrimonio edilizio privato (legge 29 luglio 1978 n. 392) e la programmazione decennale dell’intervento finanziario dello stato per l’edilizia residenziale, comprendente la possibilità di realizzare interventi per il recupero dell’edilizia esistente (legge 5 agosto 1978 n. 457). Cfr Edoardo Salzano, Fondamenti Di Urbanistica. La Storia E La Norma, IV ed., Grandi Opere (Roma-Bari: Editori Laterza, 2007IV), 171-85.
[5]Gli attentati principali avvennero nelle seguenti date: 12 dicembre 1969, Milano, Piazza Fontana; 8 agosto 1969, otto città; 22 luglio 1970, Gioia Tauro, deragliamento del treno Nord-Sud; 31 maggio 1972, Peteano (Gorizia); 17 maggio 1973, Milano, Questura; 28 maggio 1974, Brescia, Piazza della Loggia; 4 agosto 1974, treno Italicus; 16 marzo 1978, Roma, Via Fani, rapimento del premier Aldo Moro; 2 agosto 1980, Bologna, stazione ferroviaria. La maggior parte di essi sono attribuibili a organizzazioni legate alla destra. Come si vede, particolarmente intenso fu il periodo 1969-1972, mentre si discutevano le leggi di riforma.
[6] A favore dell’abrogazione del decreto Craxi il Pci, il Psiup e i Verdi, che raggiunsero il 46%; contrari il Psi, la Dc, il Pri, il Psdi e i liberali. Si scoprirà più tardi che la campagna referendaria era stata pagata da Craxi con i soldi delle tangenti. Pochi anni dopo la scala mobile viene completamente abrogata.
[7] Il consenso reale è molto minore di quanto la destra voglia far credere. Si basa largamente su una legge elettorale truffaldina (il parlamentare che le ha dato il suo nome l’ha definita “una porcata”), e su un astensionismo molto più ampio del solito, generato da una sfiducia generale per la politica e in particolare per l’impotenza della sinistra.
Su Tangentopoi vedi, su eddyburg, alcuni capitoli da P. Della Seta, E. Salzano, "L'Italia a sacco. Come nei terribili anni 80 è nata e si è diffusa Tangentopoli", qui
La Repubblica, 25 giugno 2009
Testo tratto dal sito www.positanonews.it,,che a sua volta l'aveva ripreso dal sito www.domusweb.it
Ravello, costiera amalfitana. A pochi giorni dalla fine dei lavori e a poco
più di un mese, mentre si discute sulla gestione della principale opera
della costa d'Amalfi, continuano a girare articoli su riviste di
architettura sull'auditorium. In questo ci si chiede se l'auditorium
potrebbe essere riconosciuto da Niemeyer...
Dipende dai punti di vista. Se il Maestro brasiliano avrà modo di osservare
l'opera dallo stesso punto in cui Gabriella e Mattia hanno scattato la
foto domenica scorsa, forse ci penserà un po' su.
Mumble Mumble.. Il linguaggio fumettistico è d'obbligo dal momento che
proprio Mattia - piccolo grande amico di 9 anni - ha ritenuto di trovarsi
di fronte ad un "grande rotolo di carta igienica" (forse meglio di uno
"scottex casa" n.d.t.) piazzato proprio lì, sul declivio della Costiera
Amalfitana. «Mamma! Sembra un rotolone regina!». Quale messaggio viaggia
(direi rotola) inconsapevole, con quell'immagine? Trasferita a Londra da
circa un anno, abitavo proprio lì, in Costiera Amalfitana - e lì tuttora
conservo gelosamente casa. Gabriella e Mattia pensavano di farmi cosa
gradita inviandomene uno scorcio "importante", un pezzo dell'Italia di
Qualità come la definisce il sociologo De Masi (cfr. G. Valentini, Ravello
città della musica, in Eddyburg.it). Ciò che invece si è impresso allo
scatto ha svelato la barriera che sussiste - impenetrabile ma trasparente
- fra il Mondo delle Idee e i tentativi di realizzarle; ha svelato
l'incapacità di segnare un limite fra il tratto leggero, sapiente, che
intride l'immagine visionaria dello schizzo (un plastico e 10 tavole di
progetto) regalato a Ravello dall'ultra centenario Oscar Niemeyer, e le
sfide dell'im-possibile che da quello in poi si sono innescate. A cosa
servono leggi e norme per la tutela del territorio se puntualmente facciamo
a gara tra chi è piu' bravo a contravvenirle? Una palificazione di 14mila
metri e una parete rinforzata con paratie d'acciaio per agganciare un
cilindro bianco al costone di una delle aree a più alto rischio
idrogeologico in Campania, e far sedere 400 persone ad ascoltare la musica
più bella del mondo, sembrano dati un po' sconnessi per spiegare ad un
bambino che quello NON è un "rotolante rotolo di carta igienica".
Emilia Antonia De Vivo
Non c’è infatti mese che non porti il racconto di frane ed alluvioni, smottamenti di terre ed esondazione di torrenti, eventi “naturali” che portano al rovinìo di paesi e pezzi di città, allo sgretolamento di case e fabbriche, all’esodo forzoso di abitanti e troppo spesso a morti di innocenti.
Riprendiamo su eddyburg alcuni degli episodi che lo raccontano: non tutti e non sempre, sono troppi. E succede dappertutto, al Nord come al Sud e nelle Isole. Si lamenta l’assenza dei miliardi che servirebbero per sanare, senza preoccuparsi di mettere in moto ciò che servirebbe per prevenire.
Coccodrilli. Oogni volta si piange, e magari si punta il dito nella direzione giusta. Si dice: si è costruito poco accortamente, là dove non si sarebbe dovuto. Si dice: non si è tenuto conto del sovraccarico dei terreni, della precarietà delle fondazioni, dei ritmi naturali delle acque di superficie e di quelle di falda. Si dice: non si è badato, nel costruire strade e ferrovie, alle pendici tagliate, alle pianure alluvionali interrotte, al disegno dei deflussi improvvidamente interrotto. Per qualche attimo ci si rende conto che si è trasformato il territorio senza tener conto delle regole di cui l’esigenza di salvaguardarne l’integrità fisica avrebbe preteso il rispetto.
Un po’ meno si piange quando per garantire (ad alcuni) i benefici dello “sviluppo del territorio” si prevedono espansioni urbane non necessarie a soddisfare la domanda di abitazioni a basso costo ma utili ad accrescere lo sviluppo dell’attività edilizia e, soprattutto, ad aumentare il valore dei patrimoni fondiari di pochi potenti proprietari (o di una moltitudine di piccoli proprietari diventati potenti per il loro numero). Un po’ meno si piange quando queste espansioni cancellano gli antichi tracciati di filari e di strade disegnati nella storia dei nostri territori dai lontani progenitori etruschi o romani, o seppelliscono sotto una pappa di villette le colline accortamente disegnate dalle vigne e dagli oliveti dei saggi agricoltori, o annullano sotto una repellente crosta di cemento e asfalto casali medioevali e ville romane, masserie fortificate e paesaggi costieri terrazzati.
Anche in quei casi,si sa comunque che ciò dipende dal fatto (inevitabile?) che l’interesse economico dei proprietari prevale sull’interesse di tutti a godere della bellezza. Si piangerà più tardi, quando l’Italia e i suoi paesaggi saranno diventati ancora più repellenti di quanto spesso già oggi siano: quando il Belpaese si sarà trasformato in “un unico tavoliere di cemento, uno stomachevole, soffocante magma di palazzine e di intensivi”, e dove gli stessi centri storici saranno divenuti degradate e impraticabili incrostazioni “in mezzo a un’immensa, informe agglomerazione, squallida e sterminata periferia, sorta nel segno della violenza privata e della complicità pubblica”, come già la vedeva de-formarsi mezzo secolo fa Antonio Cederna. Sarà scomparsa la bellezza, saranno scomparsi i turisti alle cui risorse tanto affidiamo del nostro futuro.
Oggi e domani, lacrime di coccodrillo. Siamo noi stessi che abbiamo provocato i danni inferti al territorio, alla sue fragilità, alle sue ricchezze. Lo abbiamo fatto quando abbiamo plaudito all’abbandono dei lacci e lacciuoli della pianificazione urbanistica, quando abbiamo considerato un contributo allo “sviluppo”, e quindi benemerito, qualsiasi “snellimento” capace di scatenare l’ansia di costruire dappertutto a chi ne aveva i mezzi, quando abbiamo teorizzato che esiste una “vocazione edilizia” del territorio di cui poteva impadronirsi chiunque ne fosse proprietario. Quando abbiamo irriso alla pianificazione urbanistica e quella territoriale e paesaggistica, alla quale saggi legislatori d’ogni obbedienza politica ci avevano richiamato: dal democristiano Fiorentino Sullo al socialista Giacomo Mancini al repubblicano Giuseppe Galasso, giù giù fino al berlusconiano Giuliano Urbani. Siamo un paese di coccodrilli.
Questo articolo riprende quello pubblicato sul sito web Tiscali il 18 febbraio 2010
Abbiamo compreso che i sentimenti di paura, disprezzo e arroganza per chi è diverso (perché è povero, ha la pelle di un altro colore, parla un’altra lingua) nutrono l’anima di molti italiani e conducono troppo spesso ad atti barbarici. Abbiamo compreso che razzismo, xenofobia, insofferenza per il povero, paura per lo sconosciuto sono sentimenti diffusi, che rendono più inospitale la città, più piccolo, insicuro, misero il mondo di ciascuno di noi. É anche per questo che mi hanno colpito due episodi avvenuti in Africa, che hanno a che fare col mio mestiere di urbanista e che in queste settimane sono stati riportati alla mia attenzione. Mi riferisco a due strutture sanitarie realizzate da italiani l’una a Ovest l’altra a Est nel Continente nero.
Un ospedale in Senegal, a Kaedi. Costruito secondo un modello completamente diverso da quello occidentale, dove le degenze sono realizzate per ospitare solo il paziente e consentire pochi visitatori. Lì hanno constatato che la malattia è vissuta in modo molto diverso che in Europa. Se un membro della famiglia si ammala tutta la famiglia lo segue, lo assiste, cucina per lui, gli fa costantemente compagnia. Allora a Kaedi l’architetto Fabrizio Carola e i sanitari hanno organizzato una serie di padiglioni circolari, realizzati con materiali poveri e locali e maestranze del posto, disposti secondo tre anelli concentrici. Nei padiglioni dell’anello centrale, tutti i servizi sanitari: le sale operatorie, quelle per le medicazioni, i medici e gli infermieri, i laboratori ecc.; nell’anello intermedio le degenze, destinate ai pazienti; quelli esterni sono per le famiglie. Dei collegamenti tra i padiglioni dei diversi anelli costituiscono le comunicazioni senza interferenze tra i percorsi del personale sanitario e quello delle famiglie. Convivenza e assistenza da un lato, igiene e presenza sanitaria dall’altro sono entrambe garantite. Il rispetto per una cultura diversa e l’attenzione alle risorse locali e a possibilità innovative del loro uso hanno sostituito l’imposizione di modelli calati dall’alto.
Altrettanto significativo l’altro esempio: la realizzazione di un Centro Salam di cardiochirurgia, di elevatissimo livello specialistico, nel deserto del Sudan vicino a Khartoum, realizzato da Emergency con un’equipe di medici e architetti italiani. Anche qui, nella progettazione del complesso, massima attenzione alle risorse e alle abitudini locali: un’architettura solidamente legata al luogo, realizzata con materiali semplici e con largo impiego delle tradizioni e dei materiali locali. E la formazione di personale medico e infermieristico locale, capace di insegnare a sua volta.
Ma anche qualcosa in più: una grande lezione di uguaglianza. Essa emerge dalle parole d Gino Strada (nella prefazione del libro dedicato dall’architetto, Raul Pantaleo, al diario dell’esperienza di cantiere: “Attenti all’uomo bianco”, edizioni Eleuthera, Milano 2007). Qualcuno ha definito il centro Salam una “cattedrale nel deserto”, perché si tratta “di una struttura di assoluta eccellenza, perfino innovativa per molti aspetti, dove praticare una medicina difficile e complessa, che richiede grande impegno di risorse umane ed economiche”. Meglio costruire strutture elementari, ambulatori e dispensari, cliniche di base.
“Noi ci siamo rifiutati di mettere le due scelte in alternativa”, risponde Strada. Alla periferia di Khartoum c’è un centro pediatrico di Emergency che già si occupa della medicina di base. “Ma abbiamo voluto andare oltre. Ci siamo convinti che anche in quei luoghi, dove le poche cure mediche disponibili sono solo a pagamento, sia necessario affermare il diritto a essere curati quando si è feriti o ammalati. Un diritto naturale prima ancora che un solenne principio […] Così si è radicata in noi la convinzione che curare gli esseri umani non possa essere un’attività discriminatoria, solo i neri e non i bianchi, solo le donne e non gli uomini, solo i poveri e non i ricchi”. Curare deve essere un gesto che riconosce a tutti i pazienti (pazienti, non clienti) eguaglianza in dignità e in diritti. “Non possono esistere, nella medicina, pazienti di prima e di seconda classe, cure per i ricchi e cure per i poveri del mondo. Tutti hanno diritto a cure di alto livello e gratuite”. Una lezione. Saremo capaci di seguirla nel nostro paese?
Questo articolo è stato postato suTiscali il 28 gennaio 2009, e lì riceve numerosi commenti, che invito a scorrere per comprendere come sono diventati gli italiani, nel bene e - purtroppo soprattutto – nel male.
Oggi la morte della città (almeno, della Venezia quale l’hanno conosciuta e amata chi davvero ha compreso le ragioni del suo fascino e del suo ammaestramento) è dovuta a un altro fattore: l’irruzione del cemento guidato dal trionfo delle privatizzazioni e degli affarismi. Non pretendo di fare un elenco compiuto degli eventi che, in questi ultimi anni, hanno segnato questo percorso. Annoto solo quattro episodi, tutti hard, che si aggiungono a quelli soft della mercantilizzazione invasiva e della svendita ai turisti d’ogni angolo della città.
In primo luogo, le gigantesche opere del progetto MoSE, che sono state realizzate ai varchi che legano la Laguna al mare. Opere utili solo ai cementieri e alle imprese che li realizzano, e al consorzio che li rappresenta operando come “concessionari unico dello Stato”: le barriere mobili non funzioneranno mai, e intanto le condizioni della Laguna stanno peggiorando.
Poi, le “valorizzazioni immobiliari” che avvengono al Lido di Venezia. Il pretesto di trovare finanziamenti per il nuovo Palazzo del cinema ha spinto un alacre ex assessore della giunta Cacciari a operazioni distruttive, tutte approvate dal Comune: come quella di trasformare lo spazio scoperto, circondato da mura antiche, di un forte ottocentesco tutelato (il forte di Malamocco) in un villaggio turistico, e quella di riempire di costruzioni gli spazi verdi dell’ex Ospedale al mare.
Ancora, l’avvio, di un pesante insediamento in margine alla Laguna, denominato Tessera City. È una vecchia idea di Gianni De Michelis, attivissimo colonnello di Benito Craxi, avanzata alla fine degli anni 80 nel quadro della proposta di realizzare a Venezia l’Expo 200. Questa proposta allora fu bocciata dai parlamenti europeo e italiano, che raccolsero l’allarme partito da Venezia. Oggi il progetto dell’insediamento sul margine della Laguna è stato ripreso e portato alla vittoria dalla coppia bipartisan Massimo Cacciari (sindaco di centrosinistra della città) e Giancarlo Galan (presidente di centrodestra della Regione).
Infine, una metropolitana sublagunare che dovrebbe legare Tessera City a Venezia e al Lido (scaricando altre migliaia di turisti nella città storica), per ricucire il tutto e agevolare la “valorizzazione immobiliare” degli antichi sestieri.
Questi sono gli elementi materiali del contesto nel quale Venezia corre verso la sua definitiva scomparsa. Allegramente, fra poco è carnevale.
La vicenda di Tessera City è esemplare. Essa testimonia l’arroganza e la presunzione d’impunità dei suoi protagonisti, e il disprezzo che i governanti dimostrano per la legalità. È una vicenda complessa, ma l’essenziale si comprende anche attraverso una rapida sintesi. Nel 2004 il comune di Venezia approvò una variante che raddoppiava i volumi già previsti dal vigente PRG per la realizzazione di uno stadio e numerosi annessi (commercio, ricreazione, ricettività, uffici ecc.) accanto all’aeroporto Marco Polo, a Tessera. Passarono gli anni: la Regione non approvò (come avrebbe dovuto entro tempi brevi), e il comune non sollecitò (come per suo conto sarebbe stato obbligato a fare). Nel frattempo si completavano transazioni immobiliari nelle aree circostanti, dove si comprava a prezzi agricoli. A un certo punto il maggiore proprietari (la Save s.p.a, che gestisce l’aeroporto), cui si accodò subito la società di proprietà comunale (ma il sindaco ha recentemente proposto di vole vendere parte consistente delle azioni a privati) che gestisce il casinò, presentarono alla Regione una ulteriore “osservazione” alla variante del 2004. Avvennero incontri pubblici tra i rappresentanti delle due società, il sindaco Cacciari e il presidente Galan, nei quali questi ultimi dichiararono trionfalmente di condividere il piano presentato dalle società.
Nel 2009 (cinque anni dopo!) la Regione restituisce la variante del 2004 al Comune e gli dice: te l’approvo, se tu accetti formalmente la nuova soluzione delle società. Una procedura mai vista: una osservazione presentata da enti d’interesse privato (perché tale è anche il casinò, benché oggi la proprietà sia ancora del comune) anni dopo l’approvazione della variante, che è fatta propria dai portatori d’interessi pubblici. Eppure si tratta di una modifica non marginale (si tratta del quadruplicamento della cubatura iniziale del Prg, e del raddoppio di quella della Variante), e una modifica non nell’interesse pubblico (i promotori dichiarano ufficialmente che la modifica serve perché “bisogna produrre risorse”), apportati a un piano con forzando le procedure di garanzia previste dalle leggi vigenti.
Tutto questo per collocare oltre un milione di metri cubi sul margine della Laguna, in una delle aree a più alto rischio idraulico dell’intero Veneto. Un mega-affare senza nessuna relazione con qualsiasi analisi dei fabbisogni locali. Una logica meramente affaristica: una gigantesca estensione della prassi di molti comuni di vendere pezzi di territorio per fare cassa, svolgendo il ruolo di apripista per gli interessi privati. Il sindaco-filosofo dichiara (vedi il Gazzettino del 16 gennaio) “è il giorno più bello della mia vita”. Anche per i proprietari delle azioni della società che gestisce il casinò: il loro valore è aumentato in poche ore del 20%.
Questo articolo è stato postato su Tiscali il 19 gennaio 2009, e lì riceve numerosi commenti, che testimoniano come il problema della Laguna di Venezia sia assolutamente sconosciuto agli italiani, sia nella sua reale sostanza sia nelle proposte che per il suo riequilibrio da oltre un trentennio sono state avanzate. I lettori di eddyburg sanno di poter attingere alle cartelle dedicata Venezia e in particolare a quella sul MoSE.
Quando ci avete incontrato la prima volta ci avete detto che dovevamo pregare il vostro Dio. Noi non riuscivamo a comprendere la vostra richiesta. Il vostro Dio non potrà mai essere il nostro. Vi è troppa differenza tra noi. Noi uccidiamo gli animali che ci servono e li mangiamo tutti. Voi uccidete senza motivo e abbandonate i corpi degli animali che avete abbattuto. Voi tagliate intere foreste e noi usiamo solo i rami caduti e gli alberi morti e abbiamo rispetto per ogni ago di pino. Voi spaccate le pietre, forate le montagne e non riuscite ad ascoltare lo spirito della terra che vi dice: “non fatelo. Non fatemi male” . Noi sentiamo lo spirito e il mistero della vita anche nelle ali delle libellule.
Voi siete ciechi e sordi di fronte alle cose che esistono e quando vi rivolgete a Dio, chiedete ricchezza, denaro e potere. Noi chiediamo al Grande Spirito di mostrarci la bellezza, la stranezza e la bontà della terra verdeggiante, l' unica Madre, e di svelarci le cose nella loro essenza e perfezione, così come solo in un unico Essere, che resta Uno anche se è Molti. Voi dimenticate i vostri morti, li seppellite e non vi curate di conservare le loro tombe e non vi sentite legati alla terra che custodisce le ossa dei vostri padri. Per noi un uomo che dimentica queste cose è peggio di una belva inferocita.
Per tutto questo voi riuscite a vendere la terra: mentre per noi la terra è come 1' aria che si respira, è il corpo di nostra madre e non possiamo neppure concepire che essa possa essere venduta, divisa e recintata.
Ora la mia gente è poca: noi sembriamo le foglie rimaste su un albero scosso dai venti invernali e non possiamo più difenderci. Ora voi ci assegnate una riserva in cui dobbiamo ritirarci. So bene che questa soluzione ci è imposta da una forza ineluttabile. Abbiamo cercato di sfuggirvi come la nebbia mattutina fugge ,avanti alla luce del sole nascente... Ora siamo pochi e non ci importa di sapere dove trascorreremo il resto dei nostri giorni. Il nostro popolo era un tempo forte e potente e ora poco a poco muore. Le nostre notti si fanno sempre più lunghe, buie e solitarie. Ovunque tentiamo di rifugiarci siamo inseguiti dal vostro passo sterminatore e non ci resta che sopportare il destino come un animale ferito e braccato dal cacciatore che vuole finirlo.
E tuttavia non mi lamento. Abbiamo per tanto tempo trascorso un'esistenza felice della quale siamo stati consapevoli e dalla quale abbiamo tratto gioia e ricchezza dell'animo. Ad una tribù segue un'altra e le nazioni seguono alle nazioni come una generazione succede ad un'altra. E un continuo nascere e morire e lamentarsi non serve a nulla. Forse anche il giorno del vostro tramonto non è lontano, ma e comunque certo che verrà. Allora, forse, potremo anche essere fratelli.
Ora è la vostra stagione tuttavia, e poiché ciò appare evidente, tagliate gli alberi, uccidete gli animali, domate i cavalli selvaggi, sterminate gli indiani. Io vedo bene, dai vostri occhi e dai vostri comportamenti, che la vostra città produce immondizie ed esse, un giorno, vi annegheranno.
Ma intanto consentitemi di ribadire che la terra che ci ordinate di abbandonare è sacra alla mia gente. Ogni collina, monte, bosco, lago, fiume o valle o pianura sono pieni di eventi tristi e lieti e di ricordi. I fili d'erba, i piccoli gigli lungo i fiumi d'argento, le fragole che crescono ai margini dei prati coperti di rugiada, persino le pietre che giacciono sorde e immobili nella quiete fresca della notte e nel calore diurno, hanno bevuto la vita del mio popolo e gliela hanno restituita. Anche la polvere è legata alle orme della nostra gente e i nostri piedi trovano in essa una familiarità che i vostri piedi non proveranno mai. Essa ha bevuto il sangue dei nostri padri, custodisce il sale delle loro lacrime, il grasso e la cenere dei fuochi da campo, il sudore del piacere e della paura. I nostri guerrieri scomparsi, le ragazze dal cuore gentile e dalle amabili forme, i bimbi che qui vissero e trovarono nutrimento, le nostre madri affettuose sono parte viva di questi luoghi ancora solitari che placano il cuore.
Ed essi ritornano sempre come marce dello spirito quando la Luna Nuova, piccola canoa d'argento, naviga fra le stelle circondata da una nebbia di volpi argentate. Essi continuano la vita senza il peso del corpo perché gli impulsi di un popolo seguitano ad esistere anche dopo la morte dei singoli e si concentrano sulla sua terra e la colmano di vita umana. E cosi, anche quando l'ultimo indiano sarà morto e il ricordo della mia gente sarà diventato per i bianchi una leggenda, questa terra ospiterà ancora le forme invisibili dei nostri morti. I figli dei vostri figli si crederanno soli nei campi, nelle case, sulle vie delle vostre città o nel silenzio dei boschi senza sentieri. Ma anche quando, di notte, le strade e le piazze saranno silenziose e deserte, ovunque si aggireranno gli spiriti di coloro che un tempo popolarono ed amarono questo meraviglioso paese. (...)
Voi non vi accorgete di tutto questo. Ma un giorno il nostro spirito riempirà di sé i vostri discendenti. Un giorno, ho detto , perché. vai ora apparite incapaci di un sentimento che non sia l'odio: Iodio e la paura, che vi spingono ad azioni che non hanno per fine solo la distruzione degli altri, ma anche la vostra. L'odio e la paura, che vi impediscono di capire che la stirpe umana è come il sole e che i popoli ne sono i raggi e che quando un popolo muore il sole comincia a morire e la terra diventa più fredda. L'odio e la paura che non vi danno coscienza del fatto che le specie animali sono le radici che uniscono il cielo alla terra e che l’uomo non può recidere se non vuole morire.
Noi speriamo che nel futuro lo spirito dell'uomo rosso, che con amore e venerazione rispetta tutto ciò che vive, si impossessi lentamente dei vostri figli e penetri lentamente in coloro che nulla sanno di lui. Cercate perciò di guardare alla nostra fine con rispetto e tolleranza. I nostri padri, noi stessi staremo sempre intorno a voi e attenderemo con pazienza fino a che non riusciamo a piantare nella vostra indole distruttiva un seme di amore per la vita. Se ciò accadrà. il vostro mondo sparirà e il nostro tornerà a vivere.
Ma forse non riusciremo a far ciò. E allora, quando una ragnatela di fili che sussurrano avrà circondato l'azzurro del cielo, quando il rondone sarà scomparso e la vita sarà diventata sopravvivenza, quando i fiumi saranno morti con i laghi e le montagne, quando il vostro folle modo di vivere avrà sommerso la terra, un grande fuoco simile ad un sole, che voi stessi avrete costruito nella vostra ansia di distruzione e di dominio, cadrà dal cielo e distruggerà ogni cosa. e la terra e gli uomini saranno pietra per sempre.
Vedi la presentazione, scritta per Urbanistica informazioni, qui in eddyburg.it
Come diceva già Scespir, l’inverno del nostro scontento prima o poi si fa gioiosa estate sotto il sole [1], ma in questa fine gennaio 2010 di sole se ne vede proprio pochino, la padania pullula ancora di cumuli nerastri gelati di neve, e ogni tanto la crosta si rinfresca con altri fiocchi.
È la vita, ma sono anche quei piedi gelati che sarebbe molto meglio godersi nello sfumato ricordo, in qualche appiccicosa sera di mezza estate piena di zanzare.
Per alleviare lo scontento da fine inverno, può essere utile qualcosa di caldo e pizzichino, pizzichino che prolunga la sensazione di caldo anche dopo la deglutizione e la lavatura piatti.
Ingredienti base semplici al limite della stupidità: farina 00, latte, cipolle, sale, pepe, un filo d’olio. Ingredienti complementari: inutili, o a piacere a seconda dei gusti e della voglia di cercare, vediamo poi. Ah: e la pentola, e il piatto (impossibile da preparare a cavallo, e nemmeno da infilare su un bastoncino attorno al fuoco da campo) ecc. con sottolineatura finale.
Dosi approssimative per ogni porzione: mezza cipolla, mezzo litro di latte, mezzo cucchiaio di farina, il resto q.b.
Preparazione: con un filo d’olio sul fondo di una pentola meglio se antiaderente, far appassire la cipolla a fettine leggermente salata, unire un po’ per volta la farina mescolando con un cucchiaio di legno, e poi versare il latte continuando a girare per evitare grumi. Salare ancora un po’, pepare o peperoncinare a seconda della scuola di riferimento. Coprire, e lasciar andare a fuoco MOLTO lento tre quarti d’ora o anche un’ora. Se non ci si fida troppo del fondo della pentola, della tenuta del coperchio, di quanto è bassa quella fiamma della cucina appena cambiata, si può provare naturalmente a abbondare col liquido, o a dare comunque un’occhiata ogni tanto. Superfluo aggiungere che non è il caso di partire per un fine settimana al caldo lasciando la pentola sul fuoco.
La sottolineatura finale di cui si parlava prima, è che il titolo recita Crema, non sbobba come quella che emerge alla fine della cottura. E per ottenere la crema entra in campo la tecnologia. Scegliete quella che più vi piace: personalmente in questi casi infilo il frullino a immersione direttamente nella pentola, magari partendo a velocità medio-bassa e schermandomi col coperchio. Per i teorici del bel tempo andato ci sono i passini della nonna metallici, e poi ogni altro genere di attrezzi in legno, pietra, zanne di mammut che possono venire in mente. Il risultato è lo stesso, salvo che poi occorre attraversare diversi livelli di purificazione, dal risciacquo del frullino sotto il rubinetto (9 secondi netti) al portare il mammut sulla sponda del fiume (a seconda dell’umore della bestiola). Evitate comunque di chiedere consigli pratici ai veri teorici del bel tempo andato, perché mangiano solo in trattoria e non si sono mai neppure fatti un caffè.
Per gli ingredienti complementari e creativi, con una base tanto semplice si può fare di tutto. Personalmente suggerisco cose altrettanto semplici, che si trovano magari in casa senza troppe storie, e possono aggiungersi all’effetto caldo pizzichino antiscontento invernale. A partire da un mezzo spicchio d’aglio aggiunto alla cipolla all’inizio, e a un paio di filetti d’acciuga prima di frullare, e che danno al tutto un’atmosfera da bagna caoda piemuntesa.
beh: that’s all folks!
[1]I know, I know, the Bard actually stuffed the "winter" thing inside the larger "discontent" feeling and not vice-versa, but that's only to introduce Italians to something familiar, you know ...
Da il Mondo, 24 ottobre 1961
L’aggregazione di 124 associazioni, comitati e gruppi di cittadinanza che si è attivata per contrastare il “Piano di cementificazione del Veneto”, ha costituito solo un bellissimo momento d’incontro, di conoscenza reciproca, di condivisione d’un timore e di resistenza contro un rischio, oppure è la premessa d’un lavoro che si svilupperà nel tempo e costituirà nella Rete una forza che conterà più delle singole forze che la compongono? É evidente che questa è la speranza comune. Ne testimonia la fondatezza la comune sottoscrizione d’una carta di principi (i “Diritti del territorio”): è da l’ che si deve partire se si vuole costruire insieme qualcosa che duri. Il cammino però non sarà facile, per molte ragioni; e molti sono i punti su cui bisogna ragionare insieme. Ogni segmento della rete è figlio di una vicenda che ha radici diverse da quelle d’ogni altro, ha le sue ragioni (il suo obiettivo, le sue controparti, i suoi soggetti) che sono simili forse a molti altri, ma non a tutti. L’autonomia di ciascuno deve essere rispettata al massimo, ma questo non può impedire che la Rete esista. Ogni segmento ha risorse scarse, la sua attività è basata sul volontariato e su contribuzioni limitate, eppure se si vuole un’attività di coordinamento e di servizio utilizzabili per tutti occorre rinunciare, per la Rete, ad una parte delle risorse di ciascuno. Ciò che vale per le risorse vale per i poteri: se la rete ha un potere (di rappresentanza, di comunicazione, di distribuzione delle risorse tra obiettivi alternativi), in che modo i diversi segmenti concorrono alla formazione di questo potere? Ognuno vale per uno, oppure vanno riconosciuti pesi diversi? E i rapporti con i partiti e con le istituzioni: occorre cercare il confronto e praticare il conflitto, oppure accettarne anche la collaborazione? E a quali condizioni?
Queste sono alcune delle riflessioni che si sono sviluppate durante e dopo le due giornate dell’incontro dei comitati, associazioni e gruppi che si è svolto a Forte Marghera, tra Mestre e Venezia, e che proseguiranno in vista dell’approvazione di uno statuto: di un sistema di regole (possibilmente essenziali e chiare) che garantiscano la collaborazione in vista d’un impegno di lunga lena. Ci si potrà giovare di quello che forse è il risultato più significativo dell’incontro: il prodotto delle discussioni nei numerosi workshop, autoproposti e autogestiti da quanti hanno partecipato alla manifestazione. Da ciascuno di essi sono emerse non slo valutazioni critiche sui diversi aspetti trattati (dal problema della casa a quello dei poteri sul territorio, dall’economia solidale al pendolarismo, dalla privatizzazione dell’acqua alla strumentalizzazione dell’insicurezza, dalla precarietà del lavoro al trionfo della speculazione), ma anche indicazioni sulle cose da fare e le nuove iniziative da porre in cantiere. Non facendo leva unicamente sulle forze, generose ma gracili di Cantieri sociali – Estnord, ma coinvolgendo tutti i segmenti della rete. Forse un passo necessario è la definizione di un programma di lavoro su una molteplicità di temi, per ciascuno dei quali più gruppi collaborino assumendosene la responsabilità della gestione.
Alcuni temi, del resto, sono già indicati nella carta di principi approvata da tutti.
Lo spazio pubblico è un bene comune. Ma il concetto di “bene comune” è un concetto che è bene spiegare, come tutti quelli che indicano significati e realtà controcorrente.
Il “bene” è qualcosa che vale di per sé, per la sua identità, per l’uso che ne possono fare le persone. Un bene può essere un oggetto (una spiaggia o una terra, una casa o una statua, un pezzo di pane o l’acqua limpida che sgorga dalla sorgente), o un sentimento (l’amicizia, l’amore, il rispetto), o una relazione con qualcos’altro (la conoscenza, la partecipazione, la cura della salute). Può avere un valore venale (il pane lo devo pagare a chi lo fa, così la statua o il libro), ma è una condizione accessoria. Insomma, il bene non è una “merce”.
Qualcosa che è “comune” (un’altra parola che si tende a cancellare) appartiene a più persone: a una comunità, o a un’intera società (locale, nazionale, mondiale). Nessuno può appropriarsene individualisticamente; tutti devono poterne godere, rispettando le regole che consentono a tutti di farlo.
Sono beni comuni l’acqua e l’aria, sono beni comuni la storia dell’umanità e il suo futuro, sono beni comuni gli spazi pubblici.
Un ruolo rilevantissimo nella vita della città e del territorio (e di tutti gli uomini che formano la società, e della società nel suo insieme) hanno gli spazi pubblici. Devo precisare che cosa intendo quando parlo di spazi pubblici.
Gli spazi pubblici sono l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione; sono il luogo nel quale nella quale società e città s’incontrano, nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato.
Lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, ma permea l’intera concezione della città come bene comune: la città come spazio fisico (urbs), la città come casa della società (civitas), la città come governo (polis). Ma lo spazio pubblico è costituito anche da tutti quegli elementi della città e del territorio che sono finalizzati allo svolgimento di funnzioni che non ha senso, o non è possibile, svolgere individualmente: dalla scuola all’ospedale, dalla biblioteca al tribunale, dal campo sportivo alla palestra.
La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha avuto un suo momento significativo, in Italia, negli anni Sessanta del secolo scorso, nella conquista degli “standard urbanistici”. Vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze. Del resto, fin dfa quegli anni la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”. Oggi ci può proporre di allargare l’attenzione e l‘obiettivo dalla conquista (dalla difesa) delle attrezzature e dei servizi di prossimità (dal quartiere alla città) all’intera gamma di esigenze dell’uomo che vive su territori più ampi: la ricreazione psico-fisica nei grandi spazi naturali dei monti, delle colline e delle coste, il godimento dei grandi patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta.
Non è spazio pubblico solo l’insieme dei luoghi fisici. É spazio pubblico anche l’uso che si fa dei suoi elementi. Non a caso nella civiltà greca e in quella romana lo spazio pubblico fisico (l’agorà e il foro) erano i luoghi della politica. Lì si discuteva e si dibatteva, lì avevano voce tutti quelli cui le regole di quella democrazia dava il diritto di parlare e di dissentire, lì quelli che gestivano il potere avevano il dovere di confrontarsi con chi li criticava.
Ai giorni nostri non difende gli spazi pubblici solo chi difende il parco dall’invasione del cemento, la piazza dalla sua trasformazione in parcheggio, l’edificio pubblico dall’alienazione al privato. Difende lo spazio pubblico anche chi, come l’Onda che si sollevò impetuosa dal mondo della scuola, difende il principio della scuola aperta a tutti, finanziata con i soldi di tutti, e amministrata e gestita nell’interesse generale: appunto, difende il carattere pubblico della scuola. E difende lo spazio pubblico chi si oppone alla norme che, con l’alibi della sicurezza, vietano l’accesso agli spazi pubblici a determinate categorie di abitanti (cittadini o forestieri che siano), o addirittura, come è accaduto perfino nella civilissima Reggio Emilia in attuazione di una circolare del ministro Maroni, impediscono in talune piazze la riunione di più persone.
Oggi gli spazi pubblici sono attaccati su più fronti, da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.
Sono attaccati là dove esistono: dove si trasforma un’area destinata dalle norme sugli “standard urbanistici” , o dalle scelte di piani regolatori lungimiranti, a un’utilizzazione edilizia privata. Come a successo (un esempio tra mille) a Padova con le iniziative di cancellare con l’edilizia i “cunei verdi” dalla campagna al centro città, che erano stati disegnati dal piano di Luigi Piccinato.
Sono attaccati dalla mancanza di previsione di spazi pubblici nei nuovi quartieri e nelle periferie delle città, oppure quando si spacciano per spazi pubblici aree destinate al verde e a qualche servizio, ma posti di fatto al servizio diretto degli abitabti dei condomini circostanti. Uno spazio pubblico, per essere tale, deve essere aperto a tutti e da tutti deve essere sentito tale, non deve essere occluso da recinzioni reali o virtuali
Cancellare o indebolire gli spazi pubblici, negarne le caratteristiche fondamentali, significa cancellare o indebolire la città come intreccio di urbs, civitas, polis: di luogo fisico, di società di politica. Significa commettere un “urbicidio”.
Atti che vanno in questa direzione non sono solo quelli che ho finora ricordato. Lo è anche il tentativo, in corso ormai da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici la loro scimmiottatura: i “non luoghi” (gli ipermercati e gli outlet, gli aeroporti e le stazioni ferroviarie) caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini; la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.
L’attacco agli spazi pubblici hanno la sua matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E hanno la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.
A questi rischi occorre opporsi. E in mille luoghi d’Italia ci si oppone, con l’iniziativa di comitati, associazioni, gruppi di cittadini e di abitanti che si mobilitano a difesa del loro territorio, delle loro città, dei loro quartieri. Fra qualche giorno, il 12 settembre, a Padova, a conclusione della Scuola estiva di eddyburg si terrà un convegno nazionale organizzato da Cgil, eddyburg e Legambiente proprio su questi argomenti. Il tema è: “Spazio pubblico: declino, difesa, riconquista”.
(2 settembre 2009)
Le catastrofi, sia naturali che storiche, strappano il velo delle consuetudini quotidiane e rivelano le realtà profonde della società che le subisce. Nel bene e nel male. Anche il terremoto dell’Abruzzo aquilano ha avuto questo effetto. Ha rivelato sprazzi di generosità nelle comunità locali e – a macchia di leopardo – in diversi ambiti della società italiana. Ma ha messo allo scoperto anche pesanti guasti nella cultura diffusa del paese. Soprattutto in due direzioni: il carattere e l’impostazione concettuale e pratica della gestione del dopo-terremoto, operata dal governo e tacitamente accettata dall’opposizione; la diffusa disinformazione operata non solo dalla televisione, ormai ridotta nella grandissima maggioranza al ruolo di amplificatore delle “verità” governative, ma anche della stampa d’informazione – con pochissime eccezioni. É capitato perfino dover leggere sulla Repubblica, giornale non benevolo nei confronti del premier, che i due titoli di merito di Berlusconi sono la soluzione del problema dei rifiuti in Campania e la gestione del dopo-terremoto in Abruzzo.
Quando la disinformazione parte dall’alto della grande stampa ed è avallata dal silenzio dell’opposizione essa si diffonde nell’opinione corrente come l’incendio in un campo di stoppie: le chiacchiere dei Bar Sport sono lì pronte a raccoglierla e propagarla. Lo testimonia anche la reazione subita da un articolo critico nei confronti dell’operato del governo in Abruzzo che avevo pubblicato nel sito web di Tiscali. In due giorni oltre seicento commenti online, la stragrande maggioranza dei quali contestavano la sfacciataggine di criticare quei due benefattori che avevano risolto tutti i problemi dei terremotati, cosa che mai i loro avversari politici sarebbero riusciti a fare.
Particolarmente utili sono i contributi come quello che ho l’onore di presentare. Il Dossier è stato diffuso, in una sua prima edizione con gli strumenti della rete. Già ha svolto un ruolo rilevante, perché è stato – insieme a pochi articoli di giornali non asserviti alle veline del governo – l’unica documentazione di ciò che stava succedendo. Spero che questo libro abbia una circolazione più ampia, convinca molti che ciò che si proclama dai megafoni del potere non è sempre vero. Anzi, spesso è menzognero. Come è apparso dalle prime battute e dalle prime informazioni che sono circolate già ad aprile e a maggio.
Allora, nei primi giorni del dopo-terremoto, a me e a un certo numero di persone abituate a guardare i fatti al di là della propaganda ufficiale, aveva colpito, all’inizio, il modo in cui il premier aveva afferrato l’occasione del terremoto per farsi propaganda. Ha colpito il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, più facili grazie alla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento che è stato adottato.
Ma a mio parere la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e, ripeto, sostanzialmente accettato, o almeno subito, dall’opposizione) di procedere alla ricostruzione. Mi riferisco a due scelte, tra loro strettamente collegate: la scelta dell’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la scelta della ricostruzione “altrove” delle case distrutte.
Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.
Con la seconda scelta si è deciso di sostituire, alla ricostruzione della città danneggiata dal sisma, venti lottizzazioni su aree scelte casualmente senza nessuna logica al di fuori dell’immediata disponibilità. Lottizzazioni, per di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: “con una cura maniacale dell’interno degli alloggi”, come scrivono gli attori del rapporto, che rivela come per l’ideologia di Berlusconi (e di chi lo fa lavorare in pace) le esigenze dell’uomo si riducono a quelle dell’individuo: la società cui appartiene non esiste e non interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo guscio, naturalmente alimentato da un televisore.
Con le scelte del dopo-terremoto si è colpita direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città, svuotata dalla società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive non è una città più di quanto non lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione), privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.
Questa, del resto, è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non ha promesso Berlusconi una “new town” per ogni capoluogo di provincia?
Che questo modo di governare sia volto all’arricchimento di qualche clan mi interesse francamente meno del fatto che questo modo uccide la città e la società. Rende vera e attuale nel nostro Abruzzo la frase di Naomi Klein: “le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case”.
Su eddyburg il dossier “Non si uccide così anche una città”
La Repubblica, 28 aprile 2009
Negli USA l'anniversario della nascita di Martin Luther King, convenzionalmente stabilito nel terzo lunedì di gennaio, è festa nazionale. Ulteriori informazioni sono disponibili qui in Wikipedia
Fra pochi giorni (dal 19 gennaio), negli USA, il Martin Luther King Long Day
Diciarazione dell'on. Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri; Dal giornale radio del 12 gennaio 2010, ore 6,45