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Dall'intervista a Elio Germano, Corriere della Sera, 25 maggio 2010

Difficile oggi ricordare il clima nel quale l’attenzione dei lavoratori e delle loro organizzazioni economiche uscì dalla fabbrica e si estese alla città e al territorio. Accadde in anni dei quali, come numerosi storici cominciano a testimoniare, si è cancellata la memoria. Il revisionismo, guidato dalla cattiva politica, ha manipolato la memoria degli eventi che accaddero negli anni Sessanta e Settanta nel nostro paese e ne ha lasciato sopravvivere solo alcuni aspetti: quelli più truci e negativi. Tra l’altro, ribaltandone il senso. Così gli anni Settanta sono gli “anni di piombo”: gli anni del terrore e delle bombe, senza ricordare che i primi attentati, i primi morti (e le congiure avvenute nel Palazzo) furono di destra e che l’impronta antioperaia e fascista guidò a lungo il terrorismo e lo utilizzò pienamente. E così si è nascosto, e si continua a nascondere, che gli “anni di piombo” furono la risposta di destra agli anni della speranza, e si intrecciarono – opponendovisi – agli anni delle riforme.

Se vogliamo interrompere il declino dell’Italia di oggi è utile ricordare che cosa accadde allora: ciò che allora abbiamo conquistato, e oggi stiamo ci stanno togliendo. Non per piangere, ma per comprendere bene che cosa abbiamo perso e stiamo perdendo, e soprattutto per ricordare che, come fu allora, la storia non è già scritta: siamo noi che possiamo farla, se sappiamo quali sono gli obiettivi che dobbiamo assumere e quali le forze che possiamo coinvolgere nella nostra lotta.

Ricordiamo allora quali furono le grandi riforme di quegli anni (tutt’altro che il borbottìo “riformista” dei nostri anni). Si chiamavano statuto dei diritti dei lavoratori, servizio sanitario nazionale, scala mobile, libertà per le donne di interrompere la gravidanza e libertà per tutti di divorziare, istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato e il tempo pieno nella scuola elementare, il voto ai diciottenni e l’estensione della democrazia con i consigli di quartiere e nel sindacato dei lavoratori, dei consigli di zona. E si chiamavano diritto alla casa e diritto alla città, servizi e verde in tutti i quartieri della città, abitazioni a prezzi contenuti per tutti, trasporti collettivi per rebdere più agevole la mobilità tra casa, lavoro, servizi.

In questi anni in cui si blatera di “piani casa” finalizzati a rendere più ricco il patrimonio immobiliare di chi la casa ce l’ha già (o ha il capannone, o l’albergo, o il villaggio turistico), ricordiamo che cosa si era raggiunto in quegli anni proprio in relazione alla casa, soprattutto in quelli successivi al grande sciopero nazionale per la casa, i trasporti, i servizi e il Mezzogiorno del 19 novembre 1969.

Sono gli anni in cui s’incontrano due grandi correnti che aspirano a un rinnovamento profondo della società: il movimento dei lavoratori e il movimento degli studenti, Accanto ad esse, e in qualche modo precorrendole nel tempo, concorre con esse il movimento per l’emancipazione delle ddonne. Temi come “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale” diventano slogan popolari, che alimentano vertenze diffuse sul territorio. Con il primo termine si intende chiedere democrazia e partecipazione nelle decisioni urbanistiche, e si chiedono quartieri ricchi di tutto cià che serve a una vita nellaa quale il privato si prolunghi nel pubblico e il pubblico serva al privato: servizi, verde, luoghi d’incontro, facilità di vivere e d’incontrarsi. Con lo slogan riferito alla casa si chiede che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Dal punto di vista di un urbanista devo dire che in quegli anni si raggiunsero traguardi notevoli, non solo sul terreno delle conquiste legislative, in particolare a proposito della questione delle abitazioni. Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottenne in Italia la generalizzazione della pianificazione urbanistica, il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio, l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici. Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo, di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città, di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.

Già l’ho accennato. Le conquiste raggiunte generarono reazioni violentissime: al movimento riformatore si oppose la “strategia della tensione”, che trovò complicità inaspettate ai piani alti del Palazzo. A leggerli con attenzione gli anni Settanta appaiono come gli anni di uno scontro continuo, quotidiano, aspro sebbene non sempre visibili a sguardi disattenti, tra una corrente riformatrice, che mirava ad conquistare tutti i cittadini diritti e condizioni idonei al piego dispiegamento dei valori della Resistenza e della Costituzione (diritti e condizioni che già erano presenti in altri paesi europei), e una corrente pesantemente reazionaria.

L’utilizzazione del territorio urbano ed extraurbano era una delle poste in gioco: città come casa della società, oppure città come macchina per produrre ricchezza alla proprietà immobiliare? L’altra grande posta era costituita dal ruolo del lavoro: diritto e dovere dell’uomo che vuole concorrere a conoscere e trasformare il mondo, oppure strumento per l’aumento della ricchezza e del potere di chi è in grado di comprarlo e impiegarlo nel processo della produzione di merci? Si può dire che la contrattazione territoriale, l’uscita del sindacato dalla fabbrica, la rivendicazione di condizioni migliori (e di un penetrante controllo) non solo nel momento della erogazione della forza lavoro ma anche in quello della sua riproduzione e formazione, furono strumenti importanti per raggiungere i risultati positivi.

Lo saranno anche domani? Ancora una volta, dipenderà dal consenso che si riuscirà a mobilitare nella società. Oltre alle nuove figure sociali che si sono rafforzate o costituite ex novo nel mondo del lavoro (i pensionati, i precari, i migranti) credo che un’attenzione particolare vada dimostrata nei confronti dei movimenti nei quali si esprimono oggi il disagio, la protesta e la volontà di cambiamento nel campo del governo della città, del territorio, dell’ambiente. I riferisco ai comitati, alle associazioni, ai gruppi di cittadini che affiorano nella società e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Potrà costituirsi un nuovo blocco di forze che sappia intraprendere una strada di riforme che riprenda (certamente mutatis mutandis) la traccia delle speranze maturate pochi decenni fa? Dipende aanche, in larga misura, dalla risposta che sapranno dare – prima ancora che nuove forze della società – la cultura, nell’indicare gli obiettivi proponibili le strade percorribili, e la politica, nel rimettersi al servizio degli interessi, delle speranze, delle rivendicazioni della stragrande maggioranza della popolazione.

«L’urbanistica è in crisi perché è in crisi la politica. Un tempo i sindaci avevano una prospettiva di lavoro di lunga durata e le loro azioni erano dettate delle strategie progettuali. Il piano regolatore era l’’azione massima e principale che un sindaco poteva offrire ai propri concittadini e su questa era poi giudicato dagli elettori. Oggi non è più così. I politici ragionano con tempi molto stretti e lo fanno assecondando le richieste delle lobby e dei privati. Non c’’è visione né strategia nel loro operare e per questo gli urbanisti non servono più. Ma non è detto che questo sistema sia di lunga durata e forse il futuro può offrire ancora una chance all’’urbanistica. Non si può mai dire: la storia inventa».

Sono parole di Edoardo Salzano, urbanista, amministratore pubblico, docente universitario e giornalista che commenta così il ruolo dell’’urbanistica nella società moderna. Un ruolo fortemente in crisi ma che potrebbe riservare, in futuro, nuove occasioni di rivincita. Salzano ha pubblicato recentemente un interessante volume che raccoglie tutta la sua esperienza biografica di urbanista militante: “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”. Si tratta di un libro in bilico tra l’esperienza professionale e la storia d’’Italia vista dalla prospettiva privilegiata della politica urbanistica. In occasione di questa uscita abbiamo rivolto a Salzano alcune domande per i lettori di Sentieri Urbani.

Professor Salzano, come è cambiata la disciplina nel corso di questi cinquant’’anni? «È cambiata radicalmente. Durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta l’’urbanistica è una cultura dotata di una grande identità che si esprime con grande forza propositiva nei confronti della società civile. È un punto di riferimento chiaro per la politica che vede nell’’urbanista l’’interlocutore privilegiato per decidere le sorti del territorio e delle città. Non a caso in quegli anni nascono delle leggi fondamentali –– nate grazie anche alla imprescindibile forza propulsiva dell’’Inu –– di cui oggi anche gli storici iniziano a riconoscerne l’’importanza. Con l’’inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con la fortuna dell’’urbanistica accademica inaugurata dalla Scuola di Milano, l’’urbanistica abdica al suo ruolo di pianificazione per approdare a quello del progetto. Dietro questa parola, però, si cela una vittoria degli interessi economici ed immobiliari dei privati sull’’interesse pubblico».

Sono gli anni del “riflusso”, del “craxismo”, del consumismo selvaggio. La crisi dell’’urbanistica è coincisa con una crisi della cultura? «La cultura viene sempre prima di ogni altra cosa. È lei che guida i cambiamenti nella società. È lei che può contrastare le derive o gettare le premesse per i grandi progressi. Per l’’urbanista la cosa si fa complessa. La sua inevitabile dipendenza dal committente lo rende una figura fragile in balia della cultura imperante. Invece è necessario che l’’urbanista si faccia promotore di cultura per essere, nei confronti del committente, non solo un consulente tecnico ma un riferimento tout-court».

Questo a prescindere dall’orientamento politico della politica? «Credo sia un problema di sensibilità. Ricordo un’esperienza fatta a Foggia, nella redazione del Piano regolatore comunale. L’’interlocutore era una giunta di sinistra che non aveva mai il coraggio di arrivare in fondo. Poi ci fu un “ribaltone” e ci trovammo con una giunta di destra con un assessore fascista. Per me, comunista, questo sembrava significare la fine dell’’esperienza di Piano. Invece il nuovo assessore ci ascoltò attentamente e poi fece sue le argomentazioni del nuovo piano che fu approvato in tempi rapidissimi».

Lei ha avuto una carriera da amministratore e da urbanista davvero invidiabile. Qual è stata la soddisfazione più grande? «Ho avuto moltissime soddisfazioni. Ieri la più grande fu quella di vedere, a Giulianova dopo quindici anni dall’’approvazione del Piano regolatore, la realizzazione del disegno urbanistico pensato vent’’anni prima. Oggi di aver collaborato con una rete di comitati e associazioni a fermare le devastazioni territoriali previste dal Piano Territoriale Regionale del Veneto grazie a 15000 osservazioni prodotte con l’’aiuto di 150 gruppi di cittadini in tutto il territorio veneto».

L’urbanistica oggi è in crisi? «L’urbanistica è in crisi perché non sventola più le proprie bandiere. Anche sull’’ultimo Piano-casa varato dal Governo Berlusconi: è stato abbracciato da tutti gli urbanisti e da tutte le giunte italiane, a prescindere dal colore politico. Non c’è stata nessuna voce di dissenso, di indignazione per questa legge che penalizza l’’interesse comune per favorire quello di una parte dei privati».

Cosa si dovrebbe fare? «Alla base del nostro agire c’’è sempre una opzione morale che noi, consciamente o inconsciamente facciamo. Anche oggi l’’urbanista può scegliere di praticare un’urbanistica corretta. Andando a guardare quello che realmente si muove sul territorio. Paradossalmente chi oggi si batte per il territorio (sia esso un parco urbano, una scuola, l’accesso all’’acqua potabile) sono i comitati, i gruppi spontanei di cittadini che si riuniscono per condurre una battaglia in difesa del territorio. Si tratta di volontari che non hanno, spesso, delle capacità tecniche. Ecco, l’urbanista può servire il territorio offrendo le sue conoscenze a questi comitati».

Nel libro lei si scaglia contro la perequazione. Ci può spiegare perché? «Possiamo declinare il termine perequazione in due modi: il primo è quello della legge 765 del ’67 che disciplina l’’uso di meccanismi di scambio tra pubblico e privato nei piani attuativi. Si tratta di un modo sano di intendere la perequazione e che potrebbe essere esteso anche dove è già edificato. Altra cosa è l’’accezione contemporanea che viene data a questo termine per giustificare una incapacità espropriativa dell’’ente pubblico. Quando si tratta di dotare le città di servizi si ricorre alla perequazione dando ai privati terreni nuovi in cambio di aree edificate collocate in punti strategici. Il risultato è solo un inutile consumo di suolo».

Lei ha lavorato molto con il progetto ma soprattutto con la scrittura. «Ho sempre creduto nella forza della parola. Il nostro mestiere ha come unica arma quella del convincimento. E la parola è uno strumento indispensabile per far capire a cittadini, agli amministratori e ai politici le conseguenze delle scelte urbanistiche. Il territorio va governato come fosse un sistema complesso. E l’urbanista deve essere un supporto per far comprendere la complessità di questo sistema. In fondo questo dovrebbe essere il nostro orgoglio e la nostra missione».

"Force Blue", la barca di Franco Briatore seqestrata per contrabbando, la Repubblica, 22 maggio 2010. Sans toit ni loi.

La Repubblica, 20 maggio 2010

il manifesto, 15 marzo 2010

E un mare di piccole resistenze e reazioni nei luoghi più sensibili della società, ancora divise e ciascuna chiusa in se stessa. Unico segno d’una possibile reazione di massa, virtualmente capace di contare là dove si decide e di spostare equilibri di potere, è oggi il movimento per la restituzione dell’acqua alla collettività. Ma non basta. E domani è troppo tardi.

Non da oggi è iniziata la privatizzazione dei beni comuni. Come rivelano le analisi di Stefano Rodotà e di Ugo Mattei essa è il portato storico del sistema capitalistico-borghese. É stata frenata nel Nord del mondo, nel corso del “secolo breve”, dai mutati equilibri di potere tra possessori dei mezzi di produzione e possessori della forza lavoro: il welfare state ha introdotto anzi nuovi pezzi di beni comuni. Ma la fase più recente della nostra storia ha visto riprendere aggressivamente lo slancio all’appropriazione privata di ogni specie di bene comune: dal processo delle decisioni all’energia, dalla formazione dell’uomo alla sua salute, dalla conoscenza all’arte e alla cultura, dal paesaggio all’acqua. In Italia, sul terreno specifico dell’urbanistica e della politica, la ripresa della privatizzazione dei beni comuni ha avuto il suo inizio negli anni del doroteismo e del craxismo, con l’affermazione dell’”urbanistica contrattata” contro l’urbanistica democratica – dell’urbanistica degli interessi privati contro l’urbanistica delle decisioni pubbliche.

Nei lunghi anni del berlusconismo il processo ha raggiunto un’accelerazione vistosa, e ancora più rapido prosegue in questa stagione di crisi. Si approfitta anzi della crisi per afferrare quanto più è possibile dei patrimoni pubblici ereditati dalla storia, e insieme quelli costruiti nei decenni appena trascorsi con il contributo di tutti. Non è solo una rapina ad personam, causata dall’avidità personale e diretta ad accrescere il potere di questo o quell’altro dei soggetti che la promuovono e la attuano. É una rapina ideologica: si vuole accrescere la quantità di beni che, essendo comunque sottratti alla collettività, di questa diminuisce il potere. Meno Stato, e più potere per ciascun proprietario: la moltitudine dei piccoli proprietari è utile per proteggere i più grandi e potenti, per metterli al riparo dall’eventuale ripresa di uno Stato garante degli interessi collettivi.

Le iniziative del governo per l’attuazione del “federalismo” costituiscono un passo gigantesco di questo processo. Non si sa precisamente in che cosa consistano, quale o quali provvedimenti sono stati stilati e saranno approvati (ad occhi chiusi) dagli organi legislativi. Esistono indiscrezioni, testi di “letteratura grigia” ma non privi di ufficialità cui si può fare riferimento. É tipico dei regimi totalitari che la prima risorsa a essere negata sia l’informazione, formita prima che si decida?

In nessun altro paese del mondo sarebbe stato possibile pensarè ciò cui si riferiscono gli articoli che raccogliamo dalla stampa e inseriamo in eddyburg (per esempio, quelli di Sensini, di Settis, di Emiliani). Nessun altro gruppo dirigente minimamente capace di guardare appena al di là del più stretto e immediato interesse dei suoi membri (dei membri della cricca) avrebbe potuto proporlo. Si vogliono mettere in vendita, consentendone lo spezzettamento, i beni che costituiscono (che dovrebbero costituire) il più geloso patrimonio della collettività e dello Stato, l’espressione fisica della sua identità e sovranità: i beni demaniali. Perfino le coste e le sponde dei corsi d’acqua, le foreste, beni indivisibili per definizione; perfino le caserme e i demani militari, spesso parti strategiche delle città e dei loro centri, essenziali per un loro futuro migliore; perfino le aree e gli edifici resi pubblici dopo lunghe e faticose vertenze popolari, acquisiti e e realizzati con il contributo di tutti i lavoratori.

La “valorizzazione” è a senso unico: significa solo aumento del valore commerciale. Per raggiungere questo risultato si utilizza perfidamente ogni disgrazia, come il dissesto delle finanze comunali provocato dagli anni craxiani della dissipazione dei bilanci pubblici e da quelli berlusconiani dello strangolamento dei trasferimenti. L’invito ai comuni è di partecipare al saccheggio: se modificheranno le previsioni dei piani urbanistici rendendo possibili più ricche speculazioni, potranno prenderne una quota (così prevede il provvedimento annunciato dal ministro della difesa).

Oltre alle voci cui abbiamo accennato all’inizio non vediamo altri segnali forti di preoccupazione attiva. Né da parte dei sindacati dei lavoratori; il più antico e responsabile è affannato da mesi a risolvere i suoi problemi interni, degli altri non parliamo. Né da parte dei “saperi costituiti”: silenzio dalle università, silenzio dagli istituti culturali. Meno che meno dai partiti dell’opposizione. Drammatico il silenzio del maggiore di essi, quello che si presenta come l’erede principale del Pci, il partito “a vocazione maggioritaria”, il Partito democratico.

In questo cataclisma che stiamo vivendo, nel quale stanno precipitando una nazione e una storia, l’atteggiamento del Pd è sintetizzato nel refrain del bellissimo film di Sabina Guzzanti sulla tragedia del dopo terremoto dell’Aquila. L’obiettivo della regista torna reiteratamente sulla tenda del Pd: ma è chiusa, è sempre chiusa. Né apre spazio alla speranza l’atteggiamento dei vertici di quel partito sulla battaglia per la rivendicazione dell’acqua come bene comune. Il rifiuto ad aderire alla mobilitazione in corso per i referendum, alla quale pur partecipano numerosi iscritti, è un segnale preoccupante per quanti ritengono che senza le forze oggi racchiuse in quel partito nessuna vittoria sia possibile.

La responsabilità di tenere aperta la strada della speranza spetta allora a quanti vedono lucidamente quanto sia nefasto il percorso della liquidazione dei beni comuni, che distrugge insieme il nostro territorio e la nostra società, e si impegnano ad agire insieme perché la discesa nell’abisso finalmente si arresti. Nell’immediato, aderendo alla richiesta dei referendum per impedire la privatizzazione dell’acqua, che costituisce il primo tentativo di opporre un’iniziativa di massa alla rapina di un bene comune. La speranza è che abbia la stessa ampiezza dell’Onda che si levò dal mondo della scuola, una capacità di mobilitazione altrettanto e più estesa, e una maggiore capacità di durare. Per dopodomani, vedremo.

Tutti coloro che vogliono comprendere le motivazioni della inarrestabile cancellazione delle regole urbanistiche nel nostro paese dovranno leggere l’ultimo volume scritto da Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista, l’Italia che ho vissuto, edito dal piccolo e prezioso editore La Corte del Fontego di Venezia (20 euro). Eddy Salzano, come noto, è uno dei grandi urbanisti italiani e una buona parte del libro narra proprio la stagione delle speranze degli anni ’70, quando all’interno del Ministero dei Lavori pubblici sotto la direzione di Michele Martuscelli furono insieme a lui coinvolti i migliori urbanisti e intellettuali dell’epoca, da Giovanni Astengo a Luigi Piccinato, da Antonio Cederna a Fabrizio Giovenale, da Marcello Vittorini a Vezio De Lucia.

Erano i primi anni del centro sinistra e fu l’epoca in cui furono portate in approvazione le principali leggi che formano ancora validi strumenti per il governo del territorio. La legge “ponte” del 1967 che scongiurò la manomissione dei centri storici. Il decreto sugli standard urbanistici del 1968 che sanciva il diritto di ciascun cittadino ad avere spazi per il verde e i servizi pubblici. Baluardi di una stagione riformista che si credeva definitiva. E furono anni davvero straordinari, perché il clima culturale favorito dall’azione statale aveva creato una feconda stagione di attenzioni verso il governo delle città, dai progetti di salvaguardia ai tanti piani regolatori che venivano redatti in quegli stessi anni. Lo stesso Salzano sarà in quegli anni chiamato a svolgere il ruolo di assessore all’urbanistica a Venezia. E lì inizia il lungo sodalizio con il giurista Gigi Scano con cui redige tra l’altro il piano regolatore della città storica.

Da questo apice, e cioè dalla metà degli anni ’80 inizia la fase della restaurazione. Il primo atto che inaugura l’involuzione culturale che ha imposto nel paese il rifiuto delle regole urbane è il condono edilizio del 1985. L’offensiva dei chierici si concentrò nella dimostrazione di un teorema tanto assurdo quanto vergognoso: l’abusivismo era figlio della “rigidità” delle regole urbanistiche che non permetteva la soluzione di problemi importanti come quello della casa. Invece di prendere a modello l’Europa civile dove, come noto, non esiste la cultura della trasgressione delle regole pubbliche, si strizzò l’occhio ai più primordiali istinti, come quello di poter disporre a piacere del proprio terreno, di essere, come avverrà con la nascita di Forza Italia, padroni a casa propria.

Il libro di Salzano racconta nel capitolo Verso il buio, tangentopoli e mani pulite di come si affermò questa involuzione culturale che in origine collocata esclusivamente all’interno dello schieramento politico e intellettuale conservatore, iniziò a far proseliti anche nel mondo progressista. Di quella stagione Eddy era un osservatore privilegiato, in quanto presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica. Di fronte alla sistematica demolizione delle prerogative della pubblica amministrazione, Salzano propose come tema per lo svolgimento del XIX congresso dell’istituto, alcune “tesi” su cui doveva rinnovarsi il ruolo di governo delle città e del territorio. Un lavoro ambizioso che aveva coinvolto centinaia di urbanisti ma che fu gettato alle ortiche dai pasdaran della restaurazione raccolti intorno a Giuseppe Campos Venuti.

E qui avvenne uno dei fatti cruciali della vita di Salzano e dell’urbanistica italiana. Non contenti di aver cancellato l’intero gruppo che ruotava intorno a lui, i fondamentalisti dell’urbanistica contrattata lo esautorarono anche dalla direzione del periodico dell’istituto, Urbanistica informazioni da lui fondata nel 1972 e che in tanti anni aveva saputo tenere insieme la denuncia civile dei misfatti perpetrati conto le città e il paesaggio e la riflessione sul rinnovamento della disciplina urbanistica. Era questo ruolo che evidentemente dava fastidio e così da un giorno all’altro Eddy fu costretto a lasciare la rivista. E’ ampiamente noto che i fondatori di uno strumento culturale anche in presenza di fisiologici cambi di direzione di testata vengono lasciati liberi di esprimersi ancora proprio in virtù dell’autorevolezza conseguita. In questo caso no. I nemici dell’urbanistica pubblica volevano soltanto impedire l’espressione di una voce libera.

Ma siccome spesso la tracotanza si accompagna alla miopia, fu questo gesto ad aver generato l’inaspettata diffusione della cultura urbanistica alternativa in tante pieghe della società: se infatti Urbanistica informazioni era limitata al mondo degli specialisti, la nuova avventura salzaniana avrebbe permeato pezzi importanti della società italiana.

Dopo la defenestrazione, Eddy ideò e costruì nella splendida solitudine veneziana Eddyburg, un sito che inizialmente (2003) conteneva –oltre alla prima sintetica documentazione in materia urbanistica- anche le foto delle età della sua vita, le ricette culinarie preferite e tante altre stupende cose. Impostazione questa che alle prime cavie costrette a frequentare il sito appariva al più come un geniale passatempo. Come si poteva coniugare infatti l’urbanistica con la ricetta della marmellata di arance?

Sbagliavano di grosso quelle prime incolpevoli vittime del sito: da lì a qualche anno Eddyburg sarebbe diventato il sito più visitato e autorevole dell’urbanistica italiana. Oggi non c’è amministratore, tecnico delle amministrazioni pubbliche, giornalista o uomo di cultura che non tragga da quel prezioso giacimento ispirazione per le proprie azioni quotidiane o per la maturazione di una autonoma posizione culturale in materia. E in questo periodo caratterizzato dal crollo della rappresentanza politica, Eddyburg è diventato anche uno dei principali punti di riferimento della rete del vasto mondo dei comitati che nascono in ogni luogo d’Italia contro il saccheggio del territorio e delle associazioni che portano avanti rivendicazioni di grande importanza.

Mi riferisco ad esempio a Stop al consumo di suolo, l’associazione guidata dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra, che associa i comuni che hanno deciso di dire basta alla fase dell’espansione urbana, alla Rete toscana per la difesa del territorio guidata da Alberto Asor Rosa, all’Arcipelago Napoli e tante altre meritorie associazioni che sarebbe lungo elencare. Insomma, in una fase ancora segnata dalla cultura neoliberista –in questi giorni il governo Berlusconi sta varando il quarto condono edilizio che rende sanabili anche gli abusi compiuti in aree sottoposte a vincolo paesistico e ambientale- Eddyburg è una grande officina di formazione di una nuova cultura di governo del territorio che non tarderà ad affermarsi nel nostro paese. Una cultura che individua nella città uno straordinario bene comune il cui destino deve essere affidato nelle mani della società civile e non della speculazione.

E, dopo i tanti meriti acquisiti nel corso degli anni - puntualmente elencati nel bel libro-, sarà questo il più importante successo di Edoardo Salzano.

Eddyburg ha raccolto la documentazione della vicenda in una ricca cartella di notizie e commenti (“ La barbara edilizia di Berlusconi”) e nell’archivio di legislazione (“ Le leggi del piano-casa del Presidente”) . Vogliamo aggiungere un’ulteriore riflessione, trascurando il fatto che non sembra aver avuto alcuna incidenza positiva sulla crisi economica. Prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, dell’assoluta inefficienza del governo ispirato ai criteri della managerialità aziendale.

Ciò che a noi più colpisce nella vicenda del berlusconiano “piano-casa” non è la proposta in sè, ma ciò che ha rivelato. Colpisce la smemoratezza, l’ignoranza, la superficialità testimoniata da quasi tutti: giornalisti e politici, popolo e intellettuali, gente di destra e gente di “sinistra”. Soprattutto colpisce la diffusa subalternità culturale all’ideologia sottesa a quella proposta, la generale indifferenza al modo in cui realmente si pone oggi in Italia (e non solo) il problema della casa, la supina accettazione del fatto che “politica” significa ormai solo non correre il rischio di perdere pezzi di consenso anche al prezzo di negare la verità dei fatti.

Abbiamo lanciato un’accusa grave; dovremo argomentarla. Riflettiamo sui fatti. Il premier propone una legge che affronta il problema della casa consentendo a chi ce l’ha già di ampliarla in deroga agli strumenti di pianificazione: in contrasto con le regole mediante le quali si vorrebbero rendere le città meno caotiche e meno brutte, il territorio meno devastato e più ordinato, le aree fragili per le loro condizioni naturali più meno rischiose per gli uomini, le aree belle per il paesaggio e la storia che rappresentano più protette. In deroga a tutto questo – e quindi modificando sostanzialmente le leggi che disciplinano l’utrbanistica e che sono di competenza delle regioni – vuole rilanciare il “fai da te” nel settore delle costruzioni. Dimenticando che già si era seguita questa strada, in Italia, nell’immediato dopoguerra, alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Con ben altre motivazioni: allora le case erano state distrutte, e la ppopolazione cresceva, gli abitanti si spostavano dalle zone interne alle coste, dalle campagne alle città. Eppure si sono visti gli effetti di quel modo di costruire, interamente affidato alla spontaneità. Il Paese era stato devastato, il suo territorio distrutto, i suoi paesaggi guastati, le città rese invivibili e rischiose (per la congestione del traffico, per l’assenza di spazi verdi e degli spazi pubblici, per le minacce delle alluvioni e delle frane). Dimenticando tutto ciò che era successo e contro cui si era voluto correre ai ripari modernizzando l’Italia e generalizzando la pianificazione urbanistica, oggi di nuovo si vuole rilanciare quello spontaneismo degli interessi edilizi cui ci si era affidati allora.

Poiché non si può dire “vogliamo che chi sta già bene stia meglio a discapito degli altri”, poiché non si può dire “a noi il cittadino non interessa, nostro amico è solo il proprietario edilizio”, allora ci si copre con un alibi. Dicono il premier e i suoi supporters: vogliasmo affrontare il problema della casa. É un problema che certamente esiste. Ma è il problema di chi la casa non ce l’ha, di chi non trova un alloggio decente, in un luogo adeguato, a un prezzo commisurato alla sua capacità di spesa. É il problema del giovane lavoratore pendolare o precario, dello studente fuori sede, dell’immigrato, della famiglia disagiata, dell’anziano solo. Invece no, nulla per questi: invece di costruire abitazioni a prezzi bassi per chi ha bisogno di alloggio e non lo trova, aiutiamo chi la casa ce l’ha già (e magari ha il capannone industriale vuoto, o l’albergo che potrebbe rendere di più se avere più stanze).

E qualche imbecille paragona il piano-casa di Berlusconi al piano INA Casa del Fanfani degli anni Cinquanta, o addirittura con quelli degli anni successivi: dei gloriosi anni Sessanta e Settanta, quando si raggiunsero traguardi altissimi rapidamente dimenticati. Quando si raggiunse, con la legge dei Piani per l’edilizia economica e popolare, con la programmazione decennale dell’edilizia abitativa pubblica, con il recupero dell’edilizia esistente, con l’equo canone, il risultato di poter costruire casa a basso costo (depurate dall’incremento della rendita fondiaria) in quartieri civili. Certo, le controriforme messe in atto negli anni delle stragi di stato e della strategia della tensione hanno tentato di cancellare quelle conquiste. Ma oggi, invece di riprendere il cammino da lì, invece di affrontare il problema della casa nei suoi contenuti reali, si fanno dieci passi indietro: si ritorna a premiare il proprietario contro il cittadino, il ricco contro il povero, chi possiede contro chi non ha nulla.

Tutti dietro a Berlusconi. La prima regione che ha applicato la sua strategia è stata una regione “rossa”, la Toscana. Quella che ha fatto la legge peggiore è stata un’altra regione amministrata da ex comunisti, la Campania. E le critiche che si sono sentite da parte delle opposizioni parlamentari (e da quelle stesse extraparlamentari) sono state flebili e impacciate, del tutto inferiori al necessario. Hanno tentato di de-peggiorare uno scempio culturale prima che urbanistico, invece di denunciarlo e contrastarlo.

E la cultura, l’accademia, gli intellettuali? Si contano sulle dita di un paio di mani quelli che hanno denunciato con forza, che hanno protestato, che hanno organizzato assemblee e levato forte la voce di “quelli che sanno”. Che hanno ricordato le conquiste degli anni del “welfare urbano” e rivendicato le pratiche di pianificazione e programmazione abbandonate. Ciascuno è restato chiuso nel suo guscio, nella sua torre d’avorio sempre più lontana dai problemi reali. É come se gli intellettuali avessero perso del tutto le coordinate di una corretta gestione del territorio, delle sue trasformazioni, dei poteri che su di essi incidono, di ciò che bisogna fare perché serve ai bisogni reali dei cittadini (e non alle attese dei proprietari immobiliari). É come se, per tutti, l’uomo che interessa non è il cittadino o l’abitante, ma il proprietario e il cliente.

Morale della favola: se la strategia di Berlusconi verrà effettivamente praticata dal “mercato”, se le leggi delle regioni verranno applicate nella realtà, avremo città più caotiche e disordinate, più terreno sottratto alla natura e all’agricoltura, meno spazi per tutti. E nessuna abitazione in più per le centinaia di migliaia di persone che ne hanno davvero bisogno (se non quelle che erano già state finanziate dal governo Prodi, e che il governo Berlusconi ha semplicemente riciclato… riducendone la quantità!). Inoltre, una forte disfatta culturale: l’ulteriore conferma del dominio di quell’ideologia per la quale non ci sono, non ci sono mai state e non ci saranno mai alternative all’individualismo più sfrenato, al neoliberismo più distante dal liberalismo vero, al ripiegamento nel passato più lontano dalla modernità. Quell’ideologia per la quale il privato vale più del pubblico, il mercato più dello stato, il proprietario più dell’abitante, il cliente più del cittadino, il prepotente più del mite, l’arrogante più del solidale.

Che fare, in questa situazione? In primo luogo una battaglia culturale: raccontare, spiegare, denunciare, richiamare i principi e dimostrare chi guadagna e chi perde quando i principi del buongoverno vengono traditi, informare correttamente e svelare le mille menzogne ammucchiate ogni giorno nella coscienza (e nel subconscio) degli spettatori passivi delle potenze mediatiche. Difendere quindi le poche voci libere, che informano e formano raccontando ciò che i potenti tentano in tutti i modi di dissimulare.

Ma al di là di questo, ci sono compiti specifici da affrontare, obiettivi misurabili da proporsi: compiti e obiettivi per i quali migliaia di comitati, associazioni, gruppi di cittadinanza attiva si battono da tempo. Resistere al consumo di territorio provocato dalla corsa forsennata alla “valorizzazione immobiliare”. Resistere al continuo processo di privatizzazione d’ogni bene e ogni spazio pubblico: dall’acqua alla scuola, dalla scuola alla sanità, dalle piazze e ai luoghi d’incontro aperti a tutti. E poi (non “dopo”) poiché i problemi da risolvere ci sono, misurare quanti spazi sono necessari per le abitazioni a buon mercato, per nuove attività della produzione di beni e di merci, per i servizi alle persone e alle imprese. Ma soddisfarli recuperando per le utilizzazioni socialmente rilevanti – e non per la “valorizzazione” dei patrimoni privati – le numerosissime aree ed edifici inutilizzati o scarsamente utilizzati, disponibili in ogni realtà del nostro paese.

Parte di questo articolo sarà pubblicato nel libro Piano casa e territori resistenti, a cura di Antonello Sotgia, in corso di stampa nelle edizioni di Carta

Di quale città parliamo

Dobbiamo precisare innanzitutto che cosa intendiamo per “città”, l’oggetto attorno al quale ragioniamo in questa giornata.

Possiamo intendere per “città” quella realtà cui si riferiscono le statistiche internazionali, quando affermano che la grande maggioranza della popolazione del nostro pianeta vive ormai in condizione urbana. Possiamo intendere quindi per “città” ogni agglomerazione di popolazione in spazi relativamente limitati, ciascuno dei quali caratterizzato da alte densità, fitte relazioni tra le persone e le attività, prevalenza di artificialità nei materiali presenti, alto livello di trasformazione rispetto al dato naturale.

Possiamo intendere invece per “città” quella particolare forma dell’habitat dell’uomo che si è manifestata nella vicenda storica della civiltà europea, che ha la sua matrice nella polis greca e nell’urbs romana, che ha conosciuto il suo massimo significato nella città del Medioevo e il suo massimo splendore in quella del Rinascimento, il suo sviluppo più esteso e la sua affermazione piena nella città della borghesia capitalistica, e il suo momento estremo nella città dell’egemonia operaia.

La città delle statistiche mondiali sembra tutt’altro che in declino. Non è certo priva di aspetti critici - e ad essi accenneremo più avanti - ma essi sembrano a prima vista quelli tipici di una fase di tumultuosa e disordinata crescita. Ci riferiamo perciò, nel ragionare sulla crisi o morte della città, a quella europea, così come la storia l’ha inventata e trasformata.

Mi domanderò allora innanzitutto che cosa (quali valori, principi, qualità) caratterizzino la città europea, per interrogarmi poi se essi stiano attraversando una fase di declino o di scomparsa, e se ad essi si possa – e a quali condizioni – ritornare. Ovviamente, mutandi mutandis.

Non parliamo di “Babilonia”

La distinzione da cui sono partito riecheggia in qualche modo quella di Carlo Cattaneo. Nel suo celebre testo Cattaneo distingue le città vere e proprie dalle “Babilonie”:

[…] quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii basterebbe a fondere nell'India decrepita un principio di nuova vita [1].

Ciò che infatti in primo luogo caratterizza la città è la presenza in essa di ciò che Cattaneo definisce “ordine municipale”, “diritto”, “dignità”. Luogo dei liberi e degli uguali quindi, dove l’assegnazione degli attributi di “libero” ed “eguale” ai membri delle diverse classi sociali caratterizza differentemente i regimi che via via si sono succeduti, dall’antichità al sistema capitalistico-borghese.

Diritto, dignità, ordine municipale: termini che ci riconducono alla società, come comunità che costruisce la città in relazione ai suoi bisogni e che in essa vive, e alla politica, nel senso più ampio del termine, come governo che garantisce a tutti i cittadini (ai liberi e agli eguali) diritto, dignità, ordine. Ritroviamo così, nell’antico scritto del Cattaneo, due delle tre facce, dei tre aspetti che caratterizzano la città: civitas, la società; polis, la politica; urbs, lo spazio fisico.

La città come spazio fisico

Lo spazio fisico è quello che più direttamente appartiene alla cultura degli urbanisti italiani. Questa cultura nasce infatti – a differenza che in altri paesi – dalle discipline dell’architettura e dell’ingegneria civile: molto attenta al fisico, al costruito e al costruire, al “tecnico”. Essa consente di cogliere, di quella realtà complessa che è la città, aspetti importanti, ma tutt’altro che esclusivi. La città, l’habitat del’uomo, è una realtà così complessa che rende indispensabile, per comprenderla e per governarla efficacemente, un approccio multidisciplinare.

Tanto più complessa essa è diventata negli ultimi secoli, in cui tra l’altro si è dissolto il confine tra città e territorio, tra urbano ed extraurbano e l’habitat dell’uomo si esteso all’insieme dei vasti spazi del pianeta, tutti in qualche modo coinvolti nella vita e nelle atttività della civiltà urbana.

Lo sguardo dell’urbanista, nonostante i suoi limiti disciplinari, è in grado di cogliere meglio di altri uno dei principali aspetti della città europea: l’elemento che – forse più d’ogni altro – la caratterizza. Mi riferisco agli spazi pubblici, che della città quale la intendo costituiscono certamente l’espressione più originale e – meglio di qualsiasi altra – ne esprimono l’essenza.

Gli spazi pubblici nella storia della città europea

Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, il ruolo delle piazze è stato decisivo: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.

Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un allarme, una festa, un giudizio.

Tutti i cittadini possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E fin dalla piazza primigenia – il mercato – esse sono il luogo dell’incontro con lo straniero: sono la cerniera tra il dentro e il fuori, il luogo dove la città – tramite l’incontro con il “diverso” – si apre al mondo, lo conosce e ne diviene parte: esce dell’idiotismo della comunità ristretta.

Dove la città è organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere ha la sua piazza, ma sono tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del sistema di piazze) cittadine.

Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.

Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. Più tardi, nella città del capitalismo, le fabbriche diventano i luoghi della socializzazione dei lavoratori. Gli spazi comuni della città restano il luogo della socializzazione di tutti, ma si accentua fortemente la specializzazione sociale delle varie parti della città. Qui i quartieri e il luogo del comando, della ricchezza, dei valori (economici, politici, religiosi) della città, là i quartieri via via più estesi, e gli spazi comuni via via più angusti, dei proletari. La città si frammenta in “zone”, caratterizzate da valori economici, da qualità urbana, da condizioni sociali fortemente differenziate.

Poco più tardi, nel XIX e XX secolo, dalla solidarietà di fabbrica nasce il movimento di emancipazione del lavoro, che via via si estende a tutta la città. Il governo della città non è più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci, nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso.

L’emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. Al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell’ufficio, nasce una forte e vittoriosa tensione per ottenere spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini

Nella città moderna anche l’abitazione - anche le parti della città destinate all’uso privato - diventa un problema che non può essere abbandonato alle soluzioni individuali. C’è (c’è sempre stata) l’esigenza di assicurare all’insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso da un’accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia. Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e servizi. L’aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita) va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni.

Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan “la casa come servizio sociale”. Con questa parola d’ordine non si chiede che l’abitazione venga offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

La città del welfare in Italia

Gli storici cominciano a riflettere sui decenni 60 e 70 del XX secolo. In Italia ebbero, per più d’un aspetto, un carattere diverso che altrove. Furono anni di notevoli cambiamenti e di grandi progressi, e anche di fortissime tensioni. Dal punto di vista di un urbanista devo dire che in quegli anni si raggiunsero traguardi insospettabili, non solo sul terreno delle conquiste legislative.

Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1968 si ottenne in Italia quello che già era consolidato patrimonio amministrativo in altri stati europei, cioè la generalizzazione della pianificazione urbanistica, il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio, l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici. Con le leggi per la casa del 1962, 1967, 1971, 1977 e 1978 si ottenne la possibilità di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo, di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città, di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.

Questi risultati furono raggiunti per il concorrere di molti attori. Un ruolo rilevante svolse il movimento di emancipazione delle donne (in particolare l’azione dell’Unione Donne Italiane), che pose al centro dell’attenzione della politica e della cultura l’esigenza di arricchire la città di dotazioni che consentissero di alleggerire il lavoro casalingo. Un ruolo decisivo svolsero le organizzazioni economiche e politiche delle classi lavoratrici. Grazie al movimento sindacale, e al congiungersi delle lotte operaie e di quelle studentesche negli anni 1968 e 1969, si ottennero i notevoli successi in merito alla casa e alle espropriazioni per pubblica utilità; e grazie alla sostanziale collaborazione tra le sinistre (comunista, socialista e democristiana) al di là delle divisioni parlamentari, si dovettero i principali risultati sul terreno legislativo e su quello di molte amministrazioni locali – come del resto si ottennero l’istituzione delle regioni e i primi episodi di decentramento amministrativo.

Queste conquiste si collocarono in un quadro più ampio di progressi sul terreno sociale ed economico: il riconoscimento del diritto al divorzio e all’aborto, lo statuto dei diritti dei lavoratori, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e l’abolizione delle strutture manicomiali, l’introduzione del tempo pieno nella scuola elementare, l’istituzione della scuola materna statale, l’estensione del voto ai diciotto anni. Ma esse provocarono anche fortissimi contrasti: una reazione che si scatenò subito, agli albori degli anni 70, con la “strategia della tensione” e con gli attentati bombaroli, che proseguirono fino all’assassinio di Aldo Moro.

Gli anni 80 del XIX secolo sono quelli che gli storici dell’Italia dei nostri anni (e quelli che cercano di viverli con gli occhi aperti) indicano come gli anni della svolta, del regresso, dell’inizio del declino che ancora oggi caratterizza il nostro paese. Ma concordo con quanti ne vedono il germe già nei decenni precedenti: decenni nei quali probabilmente si intrecciarono le pulsioni verso il rinnovamento civile del nostro paese e quelle verso una utilizzazione meramente egoistica e individualistica dei successi economico ottenuti dal boom degli anni 50, chiudendo gli occhi di fronte ai danni provocati dalle pratiche insieme liberiste e assistenzialistiche adottate in quegli anni.

La svolta

Si discute sul perché la svolta sia avvenuta, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Credo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, si possa collocare nella metà degli anni Ottanta il suo momento principale, perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.

Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. Nel 1984 in Italia un decreto del governo Craxi aveva aperto l’attacco alla scala mobile (al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto) e nell’anno successivo era fallito il referendum indetto dal PCI per difenderlo.

Siamo negli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi valori divengono vincenti nel pensiero comune. Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale.

Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva Paul Ginsborg

“crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti” (Ginsborg, 2007).

La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Raggiunge il massimo della sua esplicazione quel “declino dell’uomo pubblico” del quale Richard Sennett individua le antiche matrici e le attuali configurazioni. Tutto ciò non poteva mancar di trovare la sua espressione nel destino della città e del suo governo.

La città oggi

Certo è che oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diverse da quelle che la storia delle nostre città ci suggerisce, sia che le osserviamo alla luce del lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.

Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), e attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Oggi moltissimi, anche nell’area “riformista”, non si vergognano di parlare di “vocazione edificatoria” dei suoli, e di considerare perverso “vincolo” ogni destinazione del terreno che non sia quella edilizia. Oggi si sostituisce la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non prfesenti testimonianze molteplici di questa nuiova pratti di “urbanistica contrattata”. Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo.

Ma l’aspetto più emblematico è la progressiva mistificazione dello spazio pubblico. Nel rapido exursus storico abbiamo visto come gli spazi pubblici siano l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale nella quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi della crisi attuale è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.

Il rischio per lo spazio pubblico della città e il suo indebolimento nella vita della società urbana non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini, la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.

E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza degli spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città, costituendone la componente quantitativamente più importante.

Quando parlo di spazio pubblico della città non mi riferisco solo ai luoghi fisici dedicati alle funzioni collettive. Non mi riferisco solo alle piazze e alle scuole, ai municipi e ai mercati, alle chiese e alle biblioteche, ai parchi pubblici e alle palestre. Mi riferisco anche all’uso che di questi luoghi viene promosso e garantito.

Si pone qui una questione che non è solo di equità (la possibilità per tutti di avvalersi delle diverse funzioni collettive cui gli spazi pubblici sono adibiti), non è solo di accessibilità (la possibilità per tutti, anche i più deboli, di raggiungere agevolmente e comodamente i luoghi necessari alla vità urbana), ma anche una questione di agibilità politica. Quando vedo sindaci che emettono ordinanze che chiudono certe piazze alle manifestazioni di dissenso, che con il pretesto dell’ordine pubblico impediscono l’accesso di cortei o altre espressioni di presenze culturali o politiche, non vedo solo una minaccia per la democrazia, ma un attentato alla stessa natura della città.

Città e democrazia

La storia lega indissolubilmente città e democrazia. Non è un caso che – come ho ricordato - “polis” sia il nome della città primigenia e che l’”agorà”, il luogo del dibattito e della decisione, fosse il suo centro. Non è un caso se ho iniziato questo intervento ricordando come Carlo Cattaneo definisse “non città”, ma “pompose Babilonie” gli insediamenti delle tirannidi asiatiche. Non è un caso se il grande risveglio che ha ingioiellato di città storiche tutte le nostre regioni è associato alla lotta per l’autonomia dei “borghi” dai domini dei Signori. E non è un caso se la responsabilità della pianificazione urbanistica è, negli stati moderni, affidata alle mani delle istituzioni della democrazia.

Sia l’una che l’altra, città e democrazia, mutano nel tempo. Dalla democrazia oligarchica, la democrazia dei pochi, siamo giunti, attraverso un percorso faticoso e ancora incompiuto alla democrazia di tutti. Oggi tutti i cittadini hanno diritto a eleggere i propri rappresentanti nei luoghi ove si decide.

Nella nostra democrazia le decisioni le prende chi rappresenta la maggioranza. Una maggioranza che può avere varie ampiezze: può essere unanime, assoluta, relativa. In quest’ultimo caso essa è costituita dalla porzione dei cittadini più ampia tra quelle nelle quali si è suddiviso il corpo elettorale. É il caso della maggioranza di oggi: il raggruppamento che fa capo all’attuale premier rappresenta il 47 % dei voti validi e il 34 % degli elettori: meno della metà dei primi, un terzo del “popolo”.

Il maggiore contributo alla democrazia dei nostri tempi lo ha dato il pensiero liberale, un paio di secoli fa. I pensatori che hanno costruito le basi e i principi della democrazia hanno compreso subito che in essa il principio della maggioranza poteva condurre a effetti letali. L’influenza di un eletto o i suoi poteri occulti potevano trasformarlo in demagogo, capace di conquistare i cittadini sulla base non della ragione ma dell’emozione, magari sollecitata dall’istigazione ai sentimenti più bassi. Dalla democrazia alla tirannide il passo non è lungo: “La democrazia finisce subito se cade sotto la tirannia della maggioranza” ha scritto Alexander Hamilton, un politico ed economista statunitense vissuto alla fine del XVIII secolo. E della democrazia fa parte integrante il principio della possibilità di ricambio dei gruppi dirigenti: questo è impedito se la maggioranza spegne le voci alternative o impedisce loro di raggiungere le orecchie di tutti.

Proprio per queste ragioni la nostra democrazia (nella quale da noi si ha tanta fiducia da pensare di esportarla con le armi) è stata costruita con un attento sistema di contrappesi, che bilanciano quello della maggioranza con altri principi. Frenano la tendenza alla “tirannia della maggioranza” due principi: il diritto delle minoranze e la separazione dei poteri. Il primo comporta la garanzia che ogni gruppo d’interesse (sociale, economico, culturale) abbia la possibilità di essere rappresentato là dove si conosce e si dibatte per decidere, potendosi esprimere con la stessa libertà consentita alla maggioranza. Il secondo principio consiste nella rigorosa autonomia di ciascuno dei tre poteri fondamentali: legiferare(parlamento), applicare le leggi (governo), giudicare (magistratura).

Ciascuna di queste tre istanze ha eguale autorità rispetto alle altre. Sostenere che una di esse primeggia significa proporre una tesi eversiva della democrazia. Eppure, è quello che è avvenuto negli ultimi tempi, quando gran parte dei politici, e degli stessi giornalisti, che hanno scritto o parlato sul “conflitto” tra capo del governo e massima istanza della magistratura, hanno accreditato la tesi che solo chi è direttamente eletto dal popolo ha il potere di decidere, e se gli altri ostacolano la sua decisione sono rei di tradimento e vanno ricondotti all’ordine.

Un urbanista non avrebbe il compito di richiamare questi concetti, ad altri spetterebbe di farlo. Ma un urbanista – come ogni cittadino consapevole – sa che se essi vengono travisati, e i principi che li esprimono violati, per la città, luogo della società, non c’è speranza.

Crisi o morte della città?

Per molti aspetti l’interrogativo dal quale siamo partiti (se si debba parlare di crisi della città, oppure della sua morte) si accosta decisamente a un altro: crisi o morte della democrazia. In entrambi casi credo che la risposta sia soltanto una, ed è una risposta terribilmente aperta. Usciremo dalla situazione attuale, assisteremo alla ripresa di una vera città (e di una vera società democratica), raggiungendo traguardi più avanzati di quelli che l’esperienza storica ha conosciuto, a seconda che noi – che la società di cui siamo parte – vorremo farlo , e se saremo in grado di farlo.

Se vorremo farlo. Se le donne e gli uomini di questo XXI secolo riterranno che la vita nella città - in un habitat nel quale si vive insieme agli altri, si incontrano gli altri, si comunica con gli altri, si conoscono gli altri, si è solidali con gli altri, ci si aiuta con gli altri, ci si confronta e ci si misura con gli altri – e con altri diversi da ciò che noi stessi e i nostri congiunti sono, con altri portatori di altre storie, di altre culture, di altre credenze, di altre abitudini – se la maggioranza degli uomini e delle donne riterrà che è meglio vivere così che vivere da soli, chiusi nel proprio piccolo gruppo, spazio, orizzonte.

E se saremo in grado di farlo. Se ci metteremo all’altezza degli sforzi che sono necessari per concorrere aall’uscita della crisi della città. Dove mettersi all’altezza significa in primo luogo comprendere qual è la posta in gioco (che cosa noi stessi, e la civiltà umana nel suo insieme, pagherebbe se della città non vivessimo la crisi ma celebrassimo la morte e la scomparsa – possibili così come sono state possibili la morte e la scomparsa di intere civiltà.

Sento che mai come in questo momento la risposta, e il futuro, dipendano da noi: sebbene il percorso sia irto di difficoltà, sebbene la sua durata sia ignota e ugualmente ignoti siano i prezzi che dovremo pagare, non credo che siano possibili altre risposte.

Come uscire dalla crisi

Naturalmente, se alla domanda precedente si dà una risposta ottimista, se si tratta di crisi e di passaggio e non di declino e morte, bisogna domandarsi in che modo, partendo da quali inizi dalla crisi della città si possa cominciare a uscire.

Credo che il punto di partenza (o almeno, un punto di partenza) possa esser visto in una parte del titolo che abbiamo dato l’anno scorso alla quinta edizione della Scuola di eddyburg: una piccola scuola estiva di pianificazione che stiamo organizzando con le risorse del sito eddyburg.it. Il titolo era “Spazio pubblico: declino, difesa, riconquista”. Sul declino dello spazio pubblico abbiamo già ragionato. Per concludere vorrei avviare il ragionamento sugli altri termini: difesa, riconquista.

Avrete compreso che attribuisco all’espressione “spazio pubblico” un’accezione molto ampia. È spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico gli standard urbanistici, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.

Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e una politica di pianificazione del territorio, in tutte le sue componenti.

In questa sua accezione la conquista dello spazio pubblico è stata, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro.

Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile. Guai se pensassimo – come molti oggi pensano – che la storia è già scritta. La storia non è ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo inevitabilmente vittime passive e imbelli.

Collocarci nella storia significa saper individuare le ragioni per cui lo spazio pubblico è oggi a rischio, e già largamente compromesso. La ragione ideologica è in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. Ed è facile individuare la ragione strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia.

A questi rischi bisogna opporsi. Per farlo è necessaria la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa. Per dirla con Italo Calvino, per resistere all’inferno, dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Che cosa c’è nell’inferno “che non è inferno”?

Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica. Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo alla politica. È alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Io li ho vissuti.

Oggi non è più così. Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.

Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra

- i partiti che esprimono con pienezza e arroganza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,

- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo: per esempio, credono ancora che il Prodotto interno lordo sia l’unità di misura del livello di civiltà raggiunto, o che il termine “sviluppo” coincida con quello di continuo aumento della produzione e del consumo di merci indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale, oppure che la governabilità sia più importante della democrazia;

- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.

Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.

In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per i primi, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, alla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Le nostre istituzioni sono sempre più degradate e indeboliti dal modo in cui la politica dei partiti le ha asservite. É disarmante vedere come le istituzioni si siano rivelate – e si rivelino ogni giorno – incapaci di reagire al processo di vera e propria loro castrazione che sta procedendo ogni giorno di più. Il percorso del loro degrado è forse cominciato con lo spostamento dei poteri dagli organismi collegiali a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai governi, da questi ai presidenti e ai sindaci), quando si è privilegiata la governabilità sulla democrazia. Sta raggiungendo ora traguardi parossistici con l’estensione del potere dei commissari (Guido Bertolaso docet), esentati da ogni obbligo di trasparenza e correttezza, affrancati da ogni vigilanza e controllo, investiti direttamente di potere dai vertici massimi del potere.

E tuttavia, le istituzioni non possono essere lasciate al loro degrado. É forse dalla loro riconquista che una nuova politica delle città, nelle città e nelle piazze, deve ripartire.

Intervenire a Babilonia

Un’ultima questione vorrei porre al dibattito. Mi sono riferito fino ad ora alla città dell’esperienza storica europea. Ma in questa città – che noi ci proponiamo di riscattare dall’attuale situazione di degrado fisico e sociale – vive una porzione modestissima della popolazione del pianeta Terra. Miliardi di persone – di nostri simili – vivono in città “senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità”: nelle moderne Babilonie.

Una parte di questa realta appartiene alla “infrastruttura globale” analizzata da Saskia Sassen e raccontata da John Ballard: il ponte di comando del pianeta. É la parte di Babilonia (e della città europea) dove vive il potere globale, e i suoi servi più prossimi.

Un’altra parte appartiene al “pianeta degli slum”, studiato da David Harvey e dalle scuole marxiste e terzomondiste molto presenti al di là dell’Atlantico, dove si registrano i tassi più alti di miseria e disagio sociale. É la parte dell’habitat dell’uomo al quale si dirigono le attenzioni delle agenzie internazionali e delle ONG, nonché quelle delle forme contemporanee del colonialismo.

Un’altra parte, intermedia fra le due, è l’habitat di quei ceti sempre più sospinti verso la povertà e l’emarginazione ma ancora affascinati dal sogno del possibile approdo alla ricchezza dei consumi opulenti. É forse il mondo sempre più popolato dagli “uomini vuoti gli uomini impagliati, che appoggiano l'un l'altro La testa piena di paglia”, cantati da Thomas Stearns Eliot [2].

La domanda su cui voglio chiudere questo intervento è questa: che cosa dobbiamo proporci di chiedere e di fare per queste moderne Babilonie, in che modo possiamo proporci di intervenire, secondo crfiteri che non siano né l’imposizione del nostro irripetibile “modello” né l’acritica accettazione della realtà di questi disperati paesaggi neo-urbani?

Se è possibile nutrire ancora speranza nella capacità di riscatto e di progresso (progresso reale, non quello misurato dal PIL) del genere umano, forse è anche nell’universo delle nuove Babilonie che dobbiamo sforzarci di cogliere il germe di un futuro possibile: un futuro di una nuova civiltà urbana, che sia lo sviluppo di quella che abbiamo conosciuto ma non neghi – e anzi accolga e faccia germogliare – tutto ciò che di pienamente umano – e perciò anche pienamente sociale – lì si esprime e chiede ascolto e considerazione.

Magari cominciando a concentrare la nostra attenzione sui brandelli di nuova Babilonia che sono già tra noi, ai margini e negli interstizi delle nostre orgogliose città della plurimillenaria tradizione europea

[1]Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in: Carlo Cattaneo, “La città come principio”, a cura di Manlio Brusatin, Marsilio Editori, 19853, p. 18.

[2]Siamo gli uomini vuoti

Siamo gli uomini impagliati

Che appoggiano l'un l'altro

La testa piena di paglia. Ahimè!

Le nostre voci secche, quando noi

Insieme mormoriamo

Sono quiete e senza senso

Come vento nell'erba rinsecchita

O come zampe di topo sopra vetri infranti

Nella nostra arida cantina

«La figura dell´urbanista è simile a quella del diplomatico, nel senso che per nessuno dei due è pensabile un lavoro al servizio del privato». È questa la convinzione di Edoardo Salzano, ottant´anni appena compiuti, professore a Venezia, dove è stato anche assessore, artefice del piano paesaggistico della Sardegna consule Renato Soru e, ora che è in pensione, promotore di eddyburg.it diventato il più importante e consultato sito per chi si occupa di urbanistica e territorio. 
Salzano ha appena mandato in libreria Memorie di un urbanista. L´Italia che ho vissuto

. È un libro di politica e di storia intellettuale. Salzano, napoletano (nel lungo prologo compare il ricordo sorridente del nonno, Armando Diaz), appartiene alla stessa generazione di Italo Insolera, di poco più giovane di Leonardo Benevolo. D´accordo con loro, ma anche in dissenso, ha condiviso le aspettative dell´urbanistica italiana dopo la frana di Agrigento (1966), quando si scoprì - loro, però, lo sapevano - che il dissesto del paese non era frutto del caso o di una natura matrigna, ma del modo in cui si era costruito dopo la guerra e del modo d´essere del paese.

L´aver messo al centro dello sviluppo il mattone e l´edilizia era un´anomalia italiana e il prodotto di un´arretratezza imprenditoriale che si faceva forte più della rendita che non del profitto d´impresa. 
Salzano si è fatto promotore di riforme che al tempo si chiamavano "di struttura", perché incidevano nel corpo vivo dei rapporti economici e sociali. Si è impegnato nel Pci (la sua formazione avvenne con Franco Rodano e Claudio Napoleoni), nel consiglio comunale di Roma e poi, da assessore a Venezia, ha elaborato un piano per il centro storico della città lagunare attento a evitare che la città diventasse un suk per turisti. 


Ora Eddyburg raccoglie il lievito di queste esperienze e soprattutto le elaborazioni culturali che lì sono maturate. Ma continuamente le aggiorna, le confronta con le più avanzate realtà internazionali e ne fa la linfa per una scuola aperta a giovani pianificatori. Eddyburg si mette anche all´ascolto dei tanti comitati che sorgono in ogni parte del paese e che esprimono sofferenza per le vessazioni di un territorio, avanzando proposte che quasi mai trovano sbocco nella rappresentanza politica.

Il fulcro delle riflessioni, nel sito come nel libro, è l´idea che la città e il territorio sono un bene comune, a disposizione di interessi collettivi, e non sono merce, non si contrattano. Di questo è garante - dovrebbe essere garante - proprio l´urbanista. Non siamo "tecnici", dice congedandosi dai lettori, ma intellettuali, portatori di un sapere specialistico, che intreccia altri saperi, si proietta su uno sfondo ampio e sia capace di incidere e trasformare. 
In gioco c´è un territorio come quello italiano che versa in condizioni preoccupanti, molto più di altri territori europei, a causa, scrive Salzano, della fragilità morfologica e idrogeologica, della densità di testimonianze della storia, presenti nel paesaggio urbano e in quello inedificato, e a causa, ancora, della sregolata disseminazione di costruzioni cresciuta prepotentemente nell´incuria di governi nazionali e locali.

Prosegue il saccheggio dei patrimoni collettivi. Il quarto condono edilizio è alle porte, si aggiunge alle altre numerose imprese avviate, e in gran parte già effettuate, dai governi Berlusconi. Paolo Berdini, nel manifesto di ieri, ha inquadrato la sciagurata iniziativa dei due deputati campani del Pdl nella “politica della città e del territorio” della destra italiana di oggi. Una politica che non solo distrugge storia, memoria e beellezza, ma degrada l’habitat della vita delle generazioni future, aumenta il disagio di chi vivrà domani nella Penisola.

Come mai tutto ciò non genera una forte reazione di protesta e di contrasto? Come mai è così debole, incerta, contraddittoria la risposta dell’opposizione parlamentare, degli organi dell’opinione pubblica, delle stesse formazioni della “sinistra radicale”? Il cosiddetto “piano casa” è stato accettato dalle stesse regioni governate dal centrosinistra. La prassi di condizionare le decisioni sull’assetto del territorio agli interessi immobiliari è condivisa da amministrazioni di destra e di sinistra. L’abbandono delle procedure democratiche della pianificazione urbanistica per sostituirle con gli accordi diretti tra poteri pubblici e interessi privati forti è avvenuto nei comuni di tutti i colori.

Lo si comprende se si riflette sulle radici dalle quali nasce la proposta di condono edilizio. Demagogia e disinteresse per il futuro sono certamente due componenti della cultura politica d’oggi. In certe zone del paese gli abusivisti sono certamente molti, e allora raccattiamone il consenso, che ci interessa oggi, mentre a sanare i guasti nel futuro provvederanno altri. Ma al di là di questo, al di là della perdita della responsabilità verso il futuro di noi tutti, quindi al di là dello smarrimento della consapevolezza del ruolo della città e del territorio nella vita di ciascuno di noi, vi sono a mio parere tre elementi che caratterizzano l’ideologia oggi dominante. Primo, l’assunzione dello sviluppo dell’economia data come obiettivo primario: la crescita del PIL è diventato la misura del successo. Secondo, la progressiva riduzione degli spazi della democrazia a vantaggio dell’aumento della “governabilità”: la chiusura delle piazze alla manifestazione del dissenso ne è l’aspetto più emblematico (è successo ieri a Reggio Calabria), ma quello strutturale è lo spostamento della responsabilità delle decisioni dagli organismi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica ai “commissari”. Terzo, il crescente disprezzo per la legalità: le regole sono diventate un impaccio di cui liberarsi, l’eredità di un passato confuso di cui non si comprendono, e comunque non si condividono, le ragioni, sono solo ostacoli alla traduzione del desiderio (o della voglia, o dell’interesse) di un potente in un evento concreto.

Non si tratta di vizi che albergano solo nel costume del personale politico, né solo nell’ideologia della destra. A proposito di “legalità” basta ricordare l’episodio dell’auditorium di Ravello e leggere l’articolo di De Lucia su eddyburg; a proposito di “governabilità” i decreti Bassanini; e a proposito di “sviluppo”, non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari

e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,

ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,

e non c'era rimasto nessuno a protestare.

The morns are meeker than they were -

The nuts are getting brown -

The berry's cheek is plumper -

The Rose is out of town.

The Maple wears a gayer scarf -

The field a scarlet gown -

Lest I should be old fashioned

I'll put a trinket on.

Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del fòntego editore, Venezia 2010, 240+XLVII pagine, 20,00 €

Può essere acquistato in libreria oppure direttamente dall’editore, al seguente indirizzo: cortedelfontego@virgilio.it

In calce potete scaricare l’indice del libro e la scheda editoriale.

Più che il titolo, Memorie di un urbanista è il sottotitolo, L'Italia che ho vissuto, a descrivere meglio il nuovo libro di Edoardo Salzano, perché è nel suo modo di esercitare la professione di urbanista, come uno strumento «politico» nel senso più ampio della parola, e nella sua capacità di dare al proprio lavoro la pienezza di una scelta di vita, che la vicenda personale trova il respiro di un lungo tratto di storia, italiana e non solo. Mentre d'altronde la Storia, quella fatta e vissuta da tutti, non perde mai il tocco e il colore di un racconto saldamente agganciato agli accadimenti e agli umori dell'autore. Umori che, del resto, Salzano non solo non nasconde, ma sottolinea, dedicando non a caso ai suoi primi vent'anni un prologo, in cui racconta un affaccio all'esistenza di grande privilegio.

Poi, inevitabilmente, la guerra, le bombe, lo sfollamento, fughe e macerie, racconti della resistenza, manifestazioni operaie, una cultura in grande fermento, il cinema. E, finalmente, il confronto ravvicinato con «una storia che si era svolta accanto alla mia vita». Comincia qui la partecipazione diretta e appassionata alla politica e appunto alla «storia», che però matura lentamente.

Negli anni Salzano va attrezzandosi per «affrontare l'analisi della città, nel tentativo di individuare le ragioni della sua crisi e le possibili vie di un suo rinnovamento»: non, come troppo sovente accade, isolando il problema, bensì partendo dalla conoscenza della società nel suo complesso, e dunque da quella solida consapevolezza politica che è imprescindibile premessa alla difesa del territorio, già aggredito da una speculazione che nell'arco di alcuni decenni avrebbe comportato incontrollate e gigantesche dilatazione dei complessi urbani, con un vero e proprio stravolgimento delle città.

Individuato l'oggetto centrale del suo impegno politico, Salzano lo traduce in una appassionata militanza, che passerà per una lunga serie di incarichi capaci di sfiorare tutti i principali accadimenti della storia italiana, senza mai abbandonare la propria battaglia contro il degrado urbano, via via alimentato dal crescente consumismo fine a se stesso, da un turismo privo di ogni controllo, dal pauroso aggravarsi della crisi ecologica, fenomeni sistematicamente ignorati dalle sinistre. Una battaglia che Salzano ha portato avanti anche attraverso incarichi di responsabilità e di prestigio, soprattutto a Venezia, in questa eccezionale e fragile città afflitta da problemi legati all'unicità del suo stesso ecosistema e aggravati da insensate pretese di «soluzione», da sconsiderate politiche del turismo, dal sempre più aggressivo assalto del cemento, dal pauroso squilibrio ambientale.

Ma il maggior fascino del libro sta nel rapporto dell'autore con la vita in sé, che gli ha consentito di affrontare il lavoro, la politica, gli impegni culturali, gli affetti, con una positività che non coincide con l'ottimismo di maniera bensì con la certezza della propria battaglia per «la città come bene comune», e «contro un'urbanistica omogenea e funzionale al neoliberismo». Il folto gruppo di collaboratori di grande livello che da sempre gli sono accanto ne è la migliore dimostrazione. Sempre nel segno di questa instancabile voglia di utilizzare al meglio la propria vita si colloca la nascita di «eddyburg.it», il sito web che Salzano ha fondato nel 2003 e che redige personalmente. Vi firma pregevoli scritti sulla propria materia, e vi pubblica contributi relativi alle più diverse problematiche della situazione sociale e politica mondiale: sempre nella consapevolezza che città, territorio, la loro pianificazione e il loro governo, non possano prescindere dalle logiche più generali e da proiezioni nel futuro. E in questa prospettiva è nata una Scuola di Eddyburg, che organizza seminari e incontri, allenando al meglio giovani cervelli e coscienze.

La recensione pubblicata sul manifesto è stata molto ridotta per esigenze editoriali. Grazie all’Autrice ne riportiamo qui il testo integrale.

Il titolo è: “Memorie di un urbanista”. Ma è il sottotitolo, “L’Italia che ho vissuto”, quello che descrive meglio il nuovo libro di Edoardo Salzano (Ed. Corte del Fontego”). Perché è nel modo di essere urbanista dell’autore, nella sua capacità di dare al proprio lavoro la pienezza di una scelta di vita, e di esercitare la professione come uno strumento “politico” nel senso più ampio della parola, che la vicenda personale trova il respiro di un lungo tratto di storia, italiana e non solo. Mentre d’altronde la Storia, quella con la maiuscola, quella fatta e vissuta da tutti - che del libro è parte integrante - non perde mai il tocco e il colore di un racconto saldamente agganciato agli accadimenti e agli umori dell’autore; perfino conservando un filo di elegantissimo snobismo che tradisce la sua origine di napoletano alto-borghese.

Cosa che d’altronde Salzano non solo non nasconde, ma sottolinea, non a caso proprio ai suoi primi vent’anni dedicando un prologo di una quarantina di pagine, intitolato “La lunga infanzia”: in cui ampiamente racconta un affaccio all’esistenza di grande privilegio, tra preziose dimore avite, cuochi di classe e governanti straniere, scuola dai Gesuiti, vacanze tra Capri e Cortina, feste con alta nobiltà (perfino con partecipazione di personaggi Savoia) ma anche di celebri intellettuali (basti ricordare Croce); il tutto dominato dalla figura del nonno, il Generale Armando Diaz, “Duca della Vittoria”, che il bambino Salzano amava molto, e ama ancora. Poi, inevitabilmente, la guerra, le bombe, lo sfollamento, fughe e macerie, e tra una vicenda e l’altra la perdita del patrimonio famigliare; e via via l’incontro con realtà fin’allora ignorate, racconti della resistenza, manifestazioni operaie, una cultura in grande fermento, il cinema italiano che parlando di tutto questo dava il meglio di sé: finalmente il confronto ravvicinato con “una storia che si era svolta accanto alla mia vita”.

E qua incomincia la partecipazione diretta e appassionata alla politica e appunto alla “storia”. Che però matura lentamente. Eddy si iscrive a Ingegneria (a Roma, dove frattanto si era trasferito), ma incomincia anche a frequentare ambienti di sinistra, incontrandone personaggi di massimo rilievo (Franco Rodano, Mario Melloni, Giuseppe Chiarante, Lucio Magri, Claudio Napoleoni, ecc.), collabora a numerose riviste (“Dibattito politico”, “Nord e sud”, “Il Contemporaneo”, “La Rivista Trimestrale”, ecc.); attivamente partecipa a vari lavori di gruppo. E’ così che via via, forse senza nemmeno avvertirlo, va attrezzandosi per “affrontare l’analisi della città, nel tentativo di individuare le ragioni della sua crisi e le possibili vie di un suo rinnovamento”. Non, come troppo sovente accade, isolando il problema ed eleggendolo a proprio unico oggetto di interesse e riflessione, bensì individuandone i modi e le cause, proprio a partire dalla conoscenza del sociale nel suo complesso, e dunque da una solida consapevolezza politica come imprescindibile premessa alla difesa del territorio, già aggredito da una speculazione che nell’arco di alcuni decenni avrebbe comportato una incontrollata gigantesca dilatazione dei complessi urbani: non solo con la moltiplicazione abusiva di lontane desolate periferie, ma con un vero e proprio stravolgimento di città tutte dotate di una loro fisionomia e un loro senso, testimoni di una storia, portatrici di valori e culture che andrebbero rispettati.

A questo punto Salzano, individuato l’oggetto centrale del suo impegno politico, ne fa una appassionata militanza che passerà attraverso una lunga serie di incarichi che è qui impossibile anche solamente citare, ma che in qualche misura attraversano o sfiorano tutti i principali eventi della storia italiana: dal Sessantotto, alla costante crescita del Pci a cui Eddy a un dato momento si iscrive, con entusiasmo sostenendo l’austerità berlingueriana; fino al craxismo e a Tangentopoli, e all’inarrestabile involuzione delle sinistre… Senza mai abbandonare la propria battaglia contro il degrado urbano, via via alimentato da un crescente consumismo fine a se stesso, da un turismo privo di ogni controllo, dal pauroso aggravarsi della crisi ecologica planetaria: tutti fenomeni dalle sinistre ahimé praticamente ignorati.

E’ una battaglia che Salzano ha portato avanti anche attraverso incarichi di responsabilità e prestigio: al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e alla Direzione Generale dell’Urbanistica; al Consiglio Comunale di Roma; nella Giunta Comunale e insieme all’Istituto di Architettura dell’Università di Venezia, dove si è trasferito sui primi anni Settanta, e dove tuttora risiede. Ed è qui (in questa eccezionale e fragile città, afflitta da problemi enormi legati all’unicità del suo stesso ecosistema, ma via via aggravati da insensate pretese “soluzioni”, da una sconsiderata politica del turismo di massa, dal sempre più vicino e aggressivo assalto del cemento, oltre che dal via via più pauroso squilibrio ambientale) che Eddy ha combattuto, e più volte vinto, le sue battaglie più impegnative e appassionanti. Mentre dalla cattedra di “Pianificazione del territorio” andava seducendo e allevando una convinta e combattiva schiera di allievi.

Una storia affascinante, come anche questa breve e incompleta notizia che ne ho dato credo lasci immaginare. Forse soprattutto però il fascino di questo libro è nel rapporto dell’autore con la vita in sé. Che gli ha consentito di attraversare positivamente anche periodi tutt’altro che facili; che, prima di aver individuato quello che sarebbe stato l’impegno centrale del suo futuro, lo ha indotto ad accettare una serie innumerevole di lavori non importa quali per tirare avanti, sempre però riuscendo a capovolgerne il senso e l’utilità, ricavandone momenti di soddisfazione e lezioni di vita; che da ogni situazione, incontro, confronto, lo portava a ricavare il meglio, in arricchimento mentale e affettivo; che anche nelle inevitabili sconfitte politiche (bocciature di sue proposte, prevalere di progetti da lui giudicati negativamente) prontamente gli suggeriva il modo di aggirare la situazione e riproporre le proprie idee. Di fatto senza mai arrendersi, vivendo lavoro, politica, cultura, affetti, con una positività che non è l’ottimismo di maniera del “bicchiere mezzo pieno”, ma la certezza della propria battaglia per “la città come bene comune”, e “contro un’urbanistica omogenea e funzionale al neoliberismo”. Il folto gruppo di collaboratori di grande livello che da sempre gli sono accanto (basti ricordare Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Lodo Meneghetti) ne è la migliore dimostrazione.

Sempre nel segno di questa instancabile voglia di utilizzare al meglio la propria vita si colloca la nascita di Eddyburg, il sito web che Salzano ha fondato nel 2003, al momento della pensione. Lo dirige personalmente, e non solo regolarmente vi firma pregevoli editoriali sulla propria materia, ma (e questo è il più insolito e a mio parere più qualificante carattere dell’iniziativa) pubblica contributi, sovente con firme di prestigio, relativi alle più diverse problematiche della situazione sociale e politica mondiale: sempre nella consapevolezza che città, territorio, la loro pianificazione e il loro governo, non possono prescindere dalle logiche che presiedono al mondo e al suo futuro. E in questa stessa linea che ha segnato tutta la vita e l’opera di Salzano, da diversi anni è nata anche una Scuola di Eddyburg, che organizza seminari, incontri, vacanze di studio, allenando al meglio giovani cervelli e coscienze.

Una vita da invidiare. Un libro da leggere.

Pubblichiamo di seguito il testo originale inviatoci dall'autore della recensione. E' stato pubblicato su la Nuova Sardegna con qualche taglio per ragioni di spazio (il testo pubblicato sul giornale è In calce). La recensione è stata pubblicata anche sul sito Sardegna democratica , dove ha avuto alcunicommenti alla recensione, al libro e adeddyburg.it

.Edoardo Salzano ha appena pubblicato Memorie di un urbanista, Corte del Fontego, Venezia, pp.240. Il volume esce in occasione dei suoi ottant'anni compiuti il mese scorso, festa a Ca' Tron, sede prestigiosa dello Iuav dove ha insegnato fino a pochi anni fa. Discorsi augurali di Paolo Cacciari e Amerigo Restucci, tantissimi gli amici arrivati da ogni parte d' Italia.

L'autobiografia è un genere letterario retrospettivo, la storia di una vita che rilegge le passate vicende personali in relazione al resto. E però in questo libro lo sguardo all'indietro è recalcitrante, esce dalle introspezioni e si sbilancia molto, anzi moltissimo in avanti. C'è il passato dell'urbanistica nel racconto di Salzano, ma molte vecchie questioni travalicano il loro tempo per agganciare il presente (spesso perché rimaste senza soluzione).

Si rivela lo stile di vita di Salzano, i modi del suo coinvolgimento, i tanti ruoli svolti: intellettuale-militante, docente, amministratore pubblico, progettista, soprattutto divulgatore appassionato. Impossibile, credo, un'ottica più privilegiata, difficile raccontare bene l'urbanistica italiana dell'ultimo mezzo secolo senza la conoscenza di ogni rotella del suo meccanismo. Senza il trasporto emotivo, senza quel sentimento tra rammarico e delusione, che ti tocca se non stai alla finestra – per ciò che non è stato e ciò che poteva essere – il libro perderebbe molto del suo fascino. Così le memorie di Salzano assumono una carica eloquente, “...con la vecchiaia i ricordi ritornano. E diventano importanti: non più aneddoti che racconti per fare sorridere gli amici ma ragioni di vita, possibili chiavi per comprendere te stesso”.

Ho conosciuto Salzano in occasione di una sua sconfitta: il congresso Inu di Milano del 1990, ( era all'epoca presidente dell'Istituto); una sconfitta bruciante, mai raccontata con iattanza, come poteva essere nel senno di poi. Era stato il principale bersaglio dei “modernizzatori” che alimentavano quel clima gelatinoso – come si dice oggi. Aveva offerto agli avversari il terreno del confronto, o dello scontro, su argomenti nodali, per fare chiarezza: l’efficacia del sistema di pianificazione e il rapporto pubblico -privato, l' “urbanistica contrattata”, insomma l'intrico di questioni che un paio di anni dopo risultarono centrali nell’inchiesta giudiziaria che svelò Tangentopoli. La maggioranza dell’Inu preferì sorvolare e la rottura con Salzano fu inevitabile.

Una fase importante della sua esperienza; illuminante per spiegare il gran daffare di certa politica per allentare le regole. La politica, con rare eccezioni, non ha mai posto adeguata attenzione ai temi del governo del territorio, e pure la sinistra (non mancarono avvisaglie nel Pci ) negli ultimi anni si è concessa troppe licenze trasversali. Così della debolezza dell'urbanistica – gli insuccessi che la legano a quelli della sinistra – si parla in varie parti del libro. Nello sfondo l'idea della “politica come attivazione morale”, probabilmente suscitata dalle frequentazioni con Franco Rodano, che si trasferisce nel progetto di buon governo della città.

I ricordi vanno dagli anni della infanzia a Napoli, con i richiami al lignaggio (è nipote del generalissimo Armando Diaz, duca della Vittoria), a quelli degli studi a Roma, all'impegno politico nella capitale, al trasferimento a Venezia, alle successive avventure tutte dense di implicazioni descritte con precisione nei quindici capitoli del libro; fino alla constatazione, ampiamente prevista, dei successi dell'urbanistica neoliberista, delle deleterie conseguenze sui beni comuni specialmente sul paesaggio del Belpaese.

Per contribuire ad arginare questo processo nel 2003 nasce eddyburg.it, un sito di successo che dirige e che prende grande buona parte del tempo di Salzano. Eddyburg “si occupa di urbanistica, società, politica (urbs, civitas, polis) e di argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita”; conta su un gruppo affiatato di collaboratori e su alcune migliaia di accessi al giorno che crescono continuamente, segnale di attenzione pure tra i non addetti ai lavori. E' il tratto più innovativo e dinamico dell'opera di Salzano che intuisce tempestivamente la sovranità di internet, in grado di fare interagire reti di comitati per la difesa del territorio in tempi tali da impensierire l'urbanistica mainstream.

Uno degli ultimi impegni di Salzano è stato dedicato alla Sardegna, al Piano paesaggistico voluto dal governo di Renato Soru che lo ha chiamato a fare parte del comitato scientifico incaricato di fornire indirizzi per la redazione dello strumento portato ad esempio in Europa. Al paesaggio sardo si è appassionato fino al punto di tornare in Sardegna, anche dopo l'impegno per il Ppr, per capire i rischi per l'isola, visti i programmi sempre più espliciti di rendere marginali gli effetti della pianificazione. Una ragione in più per fargli gli auguri da queste pagine.

Segue il testo da la Nuova Sardegna del 25 marzo 2010

Edoardo Salzano ha appena compiuto ottant’anni. E’ stato tra i protagonisti della storia dell’urbanistica in Italia. Storia che, nei suoi tratti essenziali, ritroviamo ora in un libro, « Memorie di un urbanista», appena pubblicato dalla veneziana Corte del Fontego.

C’è il passato dell’urbanistica nel racconto di Salzano, ma molte questioni di anni lontani travalicano il loro tempo per agganciare il presente. Si rivela lo stile di vita di Salzano, i modi del suo coinvolgimento, i tanti ruoli svolti: intellettuale-militante, docente, amministratore pubblico, progettista, soprattutto divulgatore appassionato. Impossibile, credo, un’ottica più privilegiata, difficile raccontare bene l’urbanistica italiana dell’ultimo mezzo secolo senza la conoscenza di ogni rotella del suo meccanismo. Senza il trasporto emotivo - senza quel sentimento tra rammarico e delusione per ciò che non è stato e ciò che poteva essere - il libro perderebbe molto del suo fascino.

Ho conosciuto Salzano in occasione di una sua sconfitta: il congresso Inu (Istituto nazionale di urbanistica) di Milano del 1990 (era all’epoca presidente dell’Istituto). Una sconfitta bruciante, mai raccontata con iattanza, come poteva essere nel senno di poi. Era stato il principale bersaglio dei «modernizzatori», che alimentavano quel clima gelatinoso, come si dice oggi. Aveva offerto agli avversari il terreno del confronto, o dello scontro, su argomenti nodali, per fare chiarezza: l’efficacia del sistema di pianificazione e il rapporto pubblico-privato, l’ «urbanistica contrattata», insomma l’intrico di questioni che un paio di anni dopo risultarono centrali nell’inchiesta giudiziaria che svelò Tangentopoli. La maggioranza dell’Inu preferì sorvolare e la rottura con Salzano fu inevitabile.

Una fase importante della sua esperienza; illuminante per spiegare il gran daffare di certa politica per allentare le regole. La politica, con rare eccezioni, non ha mai posto adeguata attenzione ai temi del governo del territorio, e pure la sinistra (non mancarono avvisaglie nel Pci) negli ultimi anni si è concessa troppe licenze trasversali. Così della debolezza dell’urbanistica - gli insuccessi che la legano a quelli della sinistra - si parla in varie parti del libro. Nello sfondo l’idea della «politica come attivazione morale», probabilmente suscitata dalle frequentazioni con Franco Rodano.

I ricordi vanno dagli anni della infanzia a Napoli - con i richiami al lignaggio (è nipote del generalissimo Armando Diaz, duca della Vittoria) a quelli degli studi a Roma, all’impegno politico nella capitale, al trasferimento a Venezia, alle successive avventure tutte dense di implicazioni descritte con precisione nei quindici capitoli del libro. Fino alla constatazione, ampiamente prevista, dei successi dell’urbanistica neoliberista, delle deleterie conseguenze sui beni comuni specialmente sul paesaggio del Belpaese.

Per contribuire ad arginare questo processo nel 2003 nasce «eddyburg.it», un sito web di successo che dirige e che grande parte del tempo di Salzano. Eddyburg «si occupa di urbanistica, società, politica (urbs, civitas, polis) e di argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita»; conta su un gruppo affiatato di collaboratori e su alcune migliaia di accessi al giorno che crescono continuamente, segnale incoraggiante di attenzione pure tra i non addetti ai lavori.

Uno degli ultimi impegni di Salzano è stato dedicato alla Sardegna, al Piano paesaggistico voluto dal governo di Renato Soru che lo ha chiamato a fare parte del comitato scientifico incaricato di fornire indirizzi per la redazione dello strumento portato ad esempio in Europa. Al paesaggio sardo si è appassionato fino al punto di tornare in Sardegna, anche dopo l’impegno per il Ppr, per capire i rischi per l’isola visti i programmi sempre più espliciti di rendere marginale e di attenuare gli effetti della pianificazione. Una ragione in più per fargli gli auguri.

L’Italia delle città e dei territori nella vita di Edoardo Salzano. I sogni e le lotte di un ribelle pragmatico

Qualche tempo fa Edoardo Salzano confidava che essere anziano é ricordare molte cose. Queste molte cose le racconta, ora, che ha raggiunto ottanta anni, in un volume. Sono così anche nostre. Il significato più vero di ogni autobiografia non sta, infatti, nel mettere in fila, un dopo l’altro, gli avvenimenti per rendercene partecipi? Lui li organizza e seleziona per continuare a porre domande che, da instancabile didatta, ha scoperto - ora sappiamo fin da giovanissimo - essere l’unico modo possibile di fornire qualche risposta.

“Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”si rivela subito per quello che è: una fila ininterrotta di questioni legate al nostro abitare; quindi alla nostra vita. Nel libro, la parola utopia che tanto ha affascinato e sedotto i suoi coetanei urbanisti compare solo nell’ultima pagina ricordando l’ammonizione di Claudio Napoleoni “Posti a un livello minore i problemi non hanno risposta”. Salzano ha definito da subito, questo livello: quello che coincide con l’esistente. La maggior forma di utopia è rappresentata dall’usare ciò che abbiamo in modo diverso. Credo sia questo il suo metodo, non solo disciplinare.

A Salzano è capitato, in aggiunta, il doversi confrontare con un esistente continuamente attaccato e contraddetto da chi, sempre ovviamente in nome delle magnifiche forme del progresso e dello sviluppo [struggenti sono le pagine in cui si scopre la deriva della sinistra in materia di incomprensione dei fenomeni urbani], vedeva nel territorio il luogo materiale e immateriale per organizzare le proprie scorribande immobiliari. Eddy, come lo chiamano gli amici, è tra i pochi che, nel raccontare l’Italia che ho vissuto, possa permettersi di chiedere al lettore non di condividere il suo pensiero, quanto piuttosto di chiedere subito come, allora a chi c’era, ha vissuto gli avvenimenti della sua narrazione e - questo vale per i più giovani - come, avendone l’età, si sarebbero comportati di fronte quei medesimi avvenimenti.

Il volume racconta l’Italia che ha incontrato e i numerosi territori attraversati come amministratore, come docente, come urbanista. Molteplici i mezzi usati per interrogarli, studiarli e, solo dopo, raccontarli. Prima ancora del progetto; non certo al posto del progetto. È chiaro leggendo queste pagine, che Eddy ha scelto di essere urbanista per prendere parola. Per confrontare il proprio pensiero, per ascoltare, per raccogliere le parole vere tra le tante che ci circondano, per valutarle tutte prima di escluderle e raggiungere l’indignazione per quello che i più, giorno dopo giorno, hanno reputato [reputano] se non proprio normale sicuramente inevitabile o come, usando il massimo dell’ipocrisia possibile, il male minore. Indignandosi Eddy è riuscito a tirarsi fuori da quella sindrome che spesso ci prende; che ci porta nell’ordine: prima a dire che dobbiamo reagire, quindi a bloccarci a lungo sul come fare per, poi, non combinare nulla e decidere così di lasciare gli altri andare avanti come se niente fosse.

Lui non ha mai mollato. Ma Eddy non è, ne è mai stato, un intransigente del no, perché ha sempre tentato con la parola, fino all’ultimo momento possibile, di rendere evidente quello che sarebbe potuto accadere. A far saltare fuori il punto esatto in cui veniva sferrato l’attacco al territorio, al corpo stesso della città, dalle campiture dei piani regolatori, dalle tavole degli architetti, dai disegni dei potenti di turno, dalle proposte della cosiddetta valorizzazione, dalla melina avvolgente dei media compiacenti, da ogni forma di ricatto, a partire da quello “occupazionale”, dalle imboscate delle e all’interno delle formazioni politiche. Sapendo bene che, se non estirpato in tempo, il bubbone - come è avvenuto - si sarebbe presto propagato. Il libro mette in fila tutti i devastanti bubboni esplosi a partire dal finire degli anni sessanta; ne misura le intensità; ne registra i motivi della nascita, il lavoro di chi ha voluto trasformare questi motivi in astratte ragioni, ne determina spietatamente le conseguenze.

Nel descrivere i reali, dirompenti esiti, l’ingegner Salzano, da allievo e collaboratore di Franco Rodano, non dimentica l’importanza di introdurre un nuovo punto di vista per controbattere l’avanzata della “società del superfluo”. Lo trova progettando la città come bene comune. È la leva su cui poggiare per una diversa narrazione del mondo che vorremmo abitare dove, come nella storia che racconta, la “sua” storia, debbono finalmente trovare posto le forme della produzione umana anche immateriali quali la creatività, i saperi, gli affetti, le relazioni sociali.

Eddy insiste sulla necessità di saper scegliere le parole. Sulla necessità del glossario. Per trovare le “parole per dirlo”. Per costruire città dove non ci sia esclusione né recinti, esaltando singole differenze e identità, alla ricerca continua della prossimità con gli atti della vita quotidiana. Al contrario,quando si vuole cancellare la vita di chi abita la città, si offrono sul mercato, privatizzandoli, proprio tutti quegli elementi di socialità che in precedenza erano stati tenacemente soppressi. Salzano mostra che nel tempo disastri epocali [non solo fisici, ma per questo non meno devastanti] si sono intrecciati con territori resistenti, e ci pone una domanda precisa: tu da che parte stai? Così ti ritrovi nel bel mezzo del golpe contro la riforma del regime dei suoli, alla frana di Agrigento, alla battaglia per il decreto sugli standard. O ancora ad affrontare la piaga dell’abusivismo, nei grandi scioperi che hanno posto la questione urbana del 1969. O a riproporre lo studio di una nuova forma urbis a Venezia e all’aver impedito la scomparsa della stessa città affossando l’Expò 2000. A combattere l’urbanistica liberista a sognare di fronte alle forme di resistenza dei movimenti.

Salzano, ricordandosi di essere maestro, ci indica una possibile sopravvivenza: scoprire nuovi interlocutori e il protagonismo sociale, che emerge dai territori. Per“farci riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno non è inferno” [Calvino]. È per questo, mi piace pensare, che nel suo glossario non compaia quale alternativa a “consumo di suolo” la parola - oggi must - “densificazione” o quella, ancor più pericolosa, “interventi su aree extra standard”. Salzano ci dice che la scommessa della sopravvivenza della stessa città risiede nel saper ancora legare gli spazi alle persone.

Buon compleanno Eddy.

Di solito il regalo lo si fa a chi compie gli anni, ma questa volta il dono è venuto dal festeggiato. In occasione dei suoi ottant’anni Edoardo Salzano ha pubblicato Memorie di un urbanista, Corte del Fontego, Venezia, pp.240. Un regalo a figli e nipoti, amici e discepoli, cultori della materia e storici ma anche a quanti volessero controllare la posizione del proprio “sestante ideologico”, strumento di navigazione inventato dall’autore per indicare la rotta politica tracciata dai propri pensieri.

Ho letto da qualche parte che l’autobiografia è un modo di andare verso sé stessi. Il racconto della propria vita (ed Eddy lo fa a partire dalla prima infanzia napoletana) è anche “ri-significazione della propria esperienza in una trama di relazioni e di genealogie” (Maria Annunziata Tentoni, L’ospitalità della scrittura, Teuth, Rimini, 2009) che, nel caso di Salzano, sono molte, calde e sapienti. Con la sua famosa ascendenza, Eddy, un po’ ci gioca, un po’ ci tiene. Un po’ dissacra i salotti domestici frequentati da principi, baroni, marchesi, cardinali e, soprattutto, generali (essendo il suo nonno materno nientepopodimeno che Armando Diaz, il Maresciallo d’Italia, il Duca della Vittoria che riscattò Cadorna, sebbene al prezzo di una spietata repressione dei disertori e dei soldati allo stremo), un po’ si compiace del suo carattere apparentemente distaccato e aristocratico. Ma chi scrive per raccontarsi - dicono sempre gli psicoanalisti – ripensa il proprio passato in chiave evolutiva.

In effetti, il “nuovo racconto” di Edoardo Salzano non è affatto né nostalgico, né celebrativo, ma è un ausilio a prendere le giuste distanze dal passato per ricominciare con nuovo slancio l’impegno della vita. Vale a dire che questo navigato cattedratico, affermato professionista, saggista di successo… continua in realtà ad essere fresco di testa come un ragazzino e a scoprire (venuto a meno ormai da tempo il suo antico amore – il Partito Comunista Italiano) l’antagonismo dei movimenti altermodialisti, i conflitti territoriali, i Social forum, la stretta collaborazione con Carta. (Nel corredo fotografico del libro c’è una foto che lo ritrae a Vicenza insieme ad Alberto Magnaghi a reggere uno striscione con su scritto: “Urbanisti contro la base Usa”. Va anche ricordato che nei giorni scorsi Salzano è stato eletto presidente della Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto).

La vita come l’ha vissuta Salzano è un processo di apprendimento continuo, un accumulo inesauribile di acquisizioni scientifiche e di esperienze. In questo senso, un modo di vivere e un saper vivere che ne fa un vero “docente”, accumunando studio e impegno civile. La sua vocazione pedagogica, una vera e propria passione per la divulgazione, è testimoniata da gran parte delle sue pubblicazioni (Ma dove vivi? La città raccontata, sempre per i titoli della Corte del Fontego, 2007), dei suoi “glossari”, del sito “eddyburg”, delle scuole estive di urbanistica. Le Memorie, quindi, non sono affatto un crogiolarsi nei ricordi, ma una nuova chiamata al confronto. I destinatari sono nominati, ricordati puntualmente lungo una fitta “carriera” scientifica e politica: il sodalizio riformatore al ministero ai Lavori pubblici (dove incontra l’inseparabile Vezio De Lucia), le grandi vertenze per le riforme, la stagione delle giunte di sinistra, l’Istituto nazionale di urbanistica con il suo Notiziario, i dipartimenti di urbanistica nelle università di architettura, la sperimentazione dei Piani regolatori e paesaggistici (l’ultimo con Soru in Sardegna), le battaglie sulle proposte di legge di riforma. Salzano non dimentica niente; propone e pretende bilanci. Cerca interlocutori tra i vecchi protagonisti, sfida i nuovi. Ne esce una storia vivissima dell’urbanistica italiana; un attraversamento guidato nell’Italia da prima delle “mani sulla città” allo “svillettamento” padano; dalla legge Sullo alla urbanistica contrattata; dall’idea di piano agli immobiliaristi.

Salzano è un intellettuale riformista intransigente (ammette di non essersi fatto coinvolgere troppo dal ’68), un impasto tra radicalismo civile ed slanci sentimentali. Un cattolico laico. Si forma politicamente frequentando Franco Rodano, Claudio Napoleoni e lavorando alla “Rivista Trimestrale”. Dice di aver avuto con la politica un approccio solidaristico: non gli interessava la “macchina della politica”, ma la “politica come attivazione morale” Le femministe direbbero oggi una “politica senza desiderio di dominio. A un certo punto dice che il mestiere dell’urbanista è come quello del diplomatico, non ammette l’esistenza di interessi privati. Ha un’idea precisa: la città, le decisioni sulle trasformazioni territoriali vanno sottoposte a processi decisionali pubblici. Non si limita a dirlo, ci prova chiudendosi per dieci anni nel “bunker” dell’assessorato all’urbanistica del Comune di Venezia. Produrrà un favoloso fotopiano e una metodologia innovativa per un recupero filologico della città storica (analisi tipologica per categorie edilizie). Ma il clima era già cambiato: dentro al comune (i piani verranno stravolti proprio dalle amministrazioni che lo stesso Salzano aveva contribuito a sostenere) e fuori, nella società in preda allo ubriacatura neoliberista. Lucio Libertini, il dirigente del Psiup, poi del Pci con venature popolar-populiste, dirà degli urbanisti e degli ambientalisti alla Cederna e alla Salzano: “giacobinismo illuminista”.

La militanza politica di Salzano si “dissolve” – scrive proprio così – con i democratici di sinistra, ma è la stessa idea della pianificazione urbanistica ad evaporare. Si può quindi dire che Salzano racconta una parabola, descrive una delle tante sconfitte culturali della sinistra. Se la “perequazione” è il simbolo dell’urbanistica neoliberista, altri grimaldelli sono stati usati per destrutturare altre discipline e altri settori pubblici: la “compensazione” in ecologia, la managerializzazione e l’aziendalizzazione nei servizi alla persona, la concertazione nella contrattazione del lavoro, la privatizzazione dei vari pezzi dello stato che in questi giorni è giunta all’apice con la trasformazione della Protezione civile e dell’Esercito in S.p.A.

Sarebbe interessante fare una lettura combinata con il libro di un altro vecchio saggio (quasi ottantenne), Lucio Magri (Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, il Saggiatore 2009), anche lui formatosi nei “cattolici comunisti”, per capire dove si sia perduta quella “grande speranza”, quel progetto di cambiamento radicale e di rivoluzione anticapitalista che pure ha animato un pezzo non piccolo della “sinistra comunista”. Magri ad un certo punto dice che il Pci entra nelle istituzioni e nel governo “disarmato” (cioè privo di una aggiornata teoria dello stato), confondendo il sistema liberale oligarchico con la democrazia stessa. Ecco, l’appunto che si può fare a Salzano è proprio questo: continuare ad affidare l’idea del pubblico, dei beni comuni e dell’interesse generale alle istituzioni statali come se fossero il luogo della sovranità democratica. Non è solo l’urbanistica pubblica ad essere regredita; è la stessa democrazia ad essere stata declassata al ruolo ancellare del mercato. Allora per uscire dalla demoralizzazione, bisognerebbe ripartire da un “oltre”, da quella “benedetta irrequietezza” (penso all’ultimo libro di Paul Hawken, Incontenibile moltitudine, Edizioni Ambiente 2009) che serpeggia appena sotto la crosta della rappresentazione che politica e mezzi di comunicazione di massa (oramai sono la stessa cosa) forniscono della società. Bisognerebbe pensare anche per l’urbanistica ad una “urbanistica scalza”, post-normale, disegnata direttamente dalle popolazioni, senza mediazioni. Salzano dice quale potrebbe essere il punto di partenza e di arrivo: “zero consumo di suolo”. Una specie di negazione dell’urbanistica main-strem al servizio della valorizzazione fondiaria dei suoli. Una urbanistica, all’opposto, al servizio delle politiche di riconversione generale degli apparati tecno-produttivi, della megamacchina termo-industtriale, in chiave della sostenibilità ambientale e sociale. Una urbanistica che prende in cura le risorse naturali, studia i bilanci dei flussi di materia e di energia impiegati nel “metabolismo sociale” (penso a Martinez Aliez, L’ecologia dei poveri, Jaca Book. 2009), rispetta e fa rispettare i cilci biologici della vita sulla terra.

Come scrive Salzano, quindi, una urbanistica non solo trans-disciplinare, ma democratica, nel senso che pone al centro della disciplina il diritto degli abitanti (di tutti i residenti, presenti e futuri) a vivere in città salubri, ordinate, di qualità.

Giacomo Becattini un economista studioso del territorio (questa volta un cattolico molto cattolico e poco comunista) ha scritto (Ritorno al territorio, il Mulino, 2009): “ciò che mi divide dal grosso degli economisti è, fondamentalmente, che io considero scopo unitario delle scienze sociali, economia politica inclusa, la promozione della joie de vivre della persona umana in carne ed ossa, quale l’ha fatta il passato nei luoghi in cui vive. Questo approccio mi separa da quella parte dei miei colleghi economisti che si abbandonano al sogno – che può facilmente trasformarsi in un incubo, come dimostra la crisi attuale – della promozione di una crescita sfrenata, comunque e dovunque, della giostra degli scambi, travestita da sviluppo delle ‘forze produttive’. Produttive di che cosa? Di lucro privato presumibilmente”.

Ma qui mi fermo, perché so che posso provare a spingere Eddy fino al “bien vivir” zapatista, ma non fino alla decrescita di Serge Latouche!

Auguri ancora.

«Mi piacerebbe che l'Urbanistica s'insegnasse nelle scuole elementari…», e la città dove ce n'è più bisogno è proprio Napoli. Il condivisibile desiderio è di Edoardo Salzano, napoletano trapiantato a Venezia, urbanista, docente universitario, giornalista, amministratore pubblico, autore di saggi e libri, maestro molto amato da molti allievi che, in tutta Italia, si sono assunti il compito di difendere e salvare il territorio. Un desiderio da cui è nato il suo ultimo libro Ma dove vivi? La città raccontata (Corte del Fontego, 120 pagine, 14,90 euro) che, non a caso, reca in appendice un brano di Matilde Serao, tratto dal celebre Il ventre di Napoli.

La domanda vuole indurre a prendere coscienza che «la città è la casa della società », che i cittadini, devono imparare a conoscere il luogo dove vivono e lavorano, a partecipare, a determinare le scelte che riguardano la loro vita. Ci sono molte risposte alle domande che tutti (o quasi) si pongono quando, per esempio, nel ventre di Napoli si verificano eventi disastrosi, ferite nell'abitato come crolli e le voragini. E che molti si pongono essendo vittime quotidiane della crisi urbana fatta di traffico paralizzato, di costi eccessivi delle case, di fitti impossibili. C'è la risposta anche al perché le nostre città antiche erano belle e vivibili, al perché nell'Europa del Nord tante città sono oggi ancora belle e vivibili, oggetto dell'ammirazione di quanti le visitano e si chiedono perché da noi non è possibile.

Salzano narra come la «proprietà indivisa » ossia pubblica dei suoli, concessi (non venduti) ai cittadini per costruire entro regole precise, abbia prodotto città belle e funzionali. E come con la rivoluzione industriale il suolo urbano sia diventato merce, oggetto di sfruttamento, e «rendita »: assume cioè valore solo perché appartiene a qualcuno in un certo posto senza che il proprietario abbia lavorato per produrre quel profitto.

La borghesia imprenditrice dell'800 (europea e americana) riuscì a togliere potere ai proprietari fondiari perché produrre e commerciare necessita di strutture e servizi, cosicché nacquero presto le leggi di esproprio per fare strade e ferrovie e impianti di utilità pubblica. In Italia invece la borghesia industriale del Nord (quella che volle l'unità nazionale) si alleò con la grande proprietà fondiaria del Centro-Sud, per cui la rendita immobiliare divenne componente fondamentale e condizionante dell'economia italiana. A New York il Piano regolatore venne disegnato nel 1811, quasi due secoli fa, quando la città aveva solo sessantamila abitanti; cinquanta anni dopo gli stessi residenti capiscono che non si può vivere solo fra strade e palazzi e impongono di annullare l'edificabilità nel centro di Manhattan, dove nasce il famoso Central Park. Le grandi città creano regole precise: a Parigi succede nel 1853, l'anno dopo a Barcellona, a Vienna nel 1859. In Italia per avere una legge urbanistica bisogna aspettare addirittura il 1942, legge che appena nata viene paralizzata dalla guerra fascista prima, dal dopoguerra democristiano poi, successivamente dalla egemonia di una Destra «purtroppo molto diversa da quella degli altri paesi europei ». È nostra storia recente l'obbrobrio della «urbanistica contrattata» fra imprenditori e amministratori e/o segreterie dei partiti, lo svuotamento dei poteri locali, il mercato come misura di tutto e produttore di spaventoso disordine: lo sdraiarsi sguaiato (sprawl) di case casette supermercati capannoni strade, alloggi scarsi e costosi dove servono, ma vuoti nei paesi mal collegati, fitti altissimi, un popolo erratico che ogni giorno corre fra casa e lavoro, costretto a sperperare e a inquinare con 59 auto ogni cento abitanti (in Europa appena 50, con uso molto minore), import/ export e globalizzazione senza freni inquinano e impoveriscono le colture locali. Nonostante tutto, Salzano crede fermamente che un giorno anche l'urbanistica possa essere patrimonio culturale condiviso ed espressione dei reali bisogni dei cittadini.

L'immagine è un dipinto di Antonello Schirru

Il libro di Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo, era stato illustrato dall’autore nelle sue linee generali e nella sua tesi di fondo, in un’intervista a Libero (24 aprile 2007). L’avevo pubblicata su eddyburg con una presentazione un po’ polemica. Affermavo che “la destra berlusconiana sembra aver trovato il teorico di riferimento per la sua urbanistica neo-liberista: un tuffo verso il passato più lontano, quello antecedente alla rivoluzione liberale”.

Moroni mi scrisse sostenendo che con quella destra lui non aveva niente a che fare, e che invece si richiamava a “una tradizione liberale (classica, continentale) che non coincide con le posizioni di certa destra (e, nemmeno, con quelle di certa sinistra), tradizione che va ovviamente discussa e criticata severamente, ma senza ridurla a ciò che non è e non può essere”. Nel replicargli prendevo atto del suo desiderio di distinguersi dalla destra cialtrona italiana, ma sostenevo che la tesi e le proposte formulate nella sua intervista erano singolarmente omogenee a quella prassi (e alla conseguente ideologia) che l’analisi politica internazionale definisce “neoliberismo”, e che non ha più niente da fare con quella “tradizione liberale (classica, continentale)” cui Moroni ama riferirsi [qui la nota di S.M. e la mia replica]

Ciò cui mi riferivo era qualcosa di certamente più ampio e più serio (e ben più pericoloso) della destra italiana, la quale ne è comunque al servizio. Mi riferivo a un sistema di potere che, per dirla con Giorgio Ruffolo, “respinge nettamente l'interferenza dello Stato nel Mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella sua capacità di autoregolazione” (G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo, Torino 2006, p. 110).

Mi riferivo, per adoperare i termini di David Harvey, al neoliberismo come un ”progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite economiche” (D. Harvey, Breve storia del neoliberalismo, Milano 2007); un progetto che “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe” (p. 229).

Non è detto che ciascuno di noi – per adoperare ancora le parole di Harvey - debba “decidere se rassegnarci alla traiettoria storica e geografica definita da un potere schiacciante e sempre crescente delle classi alte oppure rispondere in termini di classe” (p. 229), ma ciò di cui dovremmo essere consapevoli che “liberalismo significa piena libertà per coloro che non hanno bisogno di vedere accrescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di fare uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà” (K. Polanyi, cit in D. Harvey, cit. p. 49 ).

La lettura del libro mi ha pienamente confermato in quel mio iniziale giudizio: la piena coincidenza delle tesi espresse da Moroni con quelle del neoliberalismo descritto da Ruffolo, da Harvey e dagli altri studiosi che non hanno accettato il proteiforme capitalismo come l’unico orizzonte possibile. Anzi, mi ha rivelato risvolti e conseguenze inquietanti. Non tanto nelle affermazioni positive del libro, quanto nella filigrana che da esso traluce, nel modo in cui descrive la realtà, disegna la scena e concepisce i soggetti che la animano.

L’elemento più significativo mi sembra nella individuazione del protagonista cui la sua costruzione, la sua “città”, si riferisce: l’individuo, la tutela della cui “libertà” deve essere il preminente, e quasi esclusivo, compito delle istituzioni. Questo “individuo” non è un qualsiasi cittadino del mondo. Non è neppure un qualsiasi cittadino della città occidentale, suo esclusivo ambito di riferimento: è il proprietario immobiliare.

Lo si comprende in ogni passaggio del testo. E non a caso, quando esemplifica la sua nozione di “libertà negativa” afferma che essa, “interpretata soprattutto in termini di non-impedimento e non-interferenza […] ricomprende le libertà di esprimersi, associarsi, detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare, ecc. “. Delle cinque azioni cui esemplificativamente riferisce la libertà individuale dominano quelle connesse alle attività immobiliari: “detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare”, mentre sono del tutto assenti altre forse più fondamentali quali lavorare, apprendere, comunicare ecc. (p. 15-16).

E quando si impegna nel chiarire la distinzione tra il suo liberalismo e il liberismo precisa che “il liberalismo non è certo ‘mero’ liberismo, ma è ‘anche’ liberismo” (p. 26). Del liberismo, delle “libertà cosiddette economiche”, quelle che soprattutto gli interessano sono quelle che hanno a che fare con gli interessi immobiliari: “la libertà di acquisire, detenere e vendere proprietà privata, la libertà di intrapresa e contratto, ecc.” Queste non sono altro, aggiunge, “che una delle specificazioni dell'idea più generale di libertà negativa come spazio protetto d'azione; e, tuttavia, ne sono una componente incancellabile, tanto che, eliminarle, comprometterebbe seriamente il significato stesso della libertà individuale” (p. 26).

Coerente con questa impostazione è ovviamente l’apologia sfrenata del mercato. Moroni non intende quest’ultimo come mero strumento adatto, più di altri, a misurare il costo delle merci e a determinare la configurazione più efficiente dell’allocazione delle risorse riducibili a merci, ma “come ordine spontaneo dinamico”, condizione indispensabile perché la libertà di ciascuno possa esplicarsi al massimo grado (p. 9).

Individualismo (proprietario) e mercato sono le due divinità cui tutto è subordinato. Al dominio di queste divinità sono ordinate le istituzioni: le regole e lo stato. Per la società e per la città bisogna stabilire “poche regole, le più astratte e generali possibile, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinchè non siano lesi i diritti di alcuno” mentre il resto deve essere “lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato” (intervista a Libero).

Compito dello stato, in piena coerenza con il credo neoliberista dei poteri forti della globalizzazione, è esclusivamente quello di impedire che alcunché turbi il pieno dispiegamento del mercato. Questo compito comprende anche la possibilità che lo stato si faccia carico, in qualche modo, di esigenze nei “limitati casi” in il mercato non riesca a soddisfarle.

Soffermiamoci su questo punto. Moroni ammette che “debba essere garantita a tutti i cittadini non solo la libertà negativa, ma, anche, la possibilità di condurre una vita almeno decente. In altri termini – sostiene - a tutti i cittadini va garantita una giusta condizione di base: questo può avvenire fornendo ad essi buoni e risorse spendibili sul mercato per accedere a beni eservizi primari (certi buoni potrebbero essere assicurati a tutti, mentre determinate risorse monetarie aggiuntive solo a chi è in una situazione di deprivazione grave) e, nei limitati casi in cui il mercato non è in grado di operare, garantendo direttamente la disponibilità per tutti di alcuni servizi e infrastrutture” (p. 17-18).

Certo, poiché nella sua immaginazione un mercato pienamente concorrenziale è un meccanismo perfetto, a Moroni non viene in mente che certi prezzi possono, nella concretezza delle realtà economiche date, essere viziati da posizioni di monopolio o di oligopolio collusivo. Se c’è qualcuno che non è in grado di pagare l’affitto di una casa perché la speculazione porta i prezzi al di sopra della capacità di spesa degli “individui” allora intervenga lo stato per assicurare l’utile allo speculatore.

Ma in che modo si interviene, e chi interviene, per stabilire quale sostegno debbano avere i cittadini non proprietari per accedere al mercato? Qui l’ideologia di Moroni rivela aspetti inquietanti. È ovviamente lo stato che deve definire la “soglia di decenza” di ogni vita. Ma, precisa l’autore, “l’idea di garantire a tutti una vita decente deve avere di mira unicamente la lotta alla povertà assoluta, e non la riduzione della disuguaglianza materiale relativa; in altre parole l’obiettivo è di impedire che ci siano individui che si trovano al di sotto di una determinata soglia di decenza e non diminuire le differenze contingenti tra individui” (p. 17-18). Insomma, se si accetta che della “soglia di decenza” faccia parte il disporre di un tetto sotto cui ripararsi, ciascuno deve poter godere di un tetto, ma non pretenda di averlo a 100 metri o a 100 chilometri da dove lavora e dove stanno gli amici!

Esclusivamente preoccupato di assicurare la “libertà” (quella libertà) all’individuo in quanto proprietario, Moroni dimentica che esiste anche la libertà del cittadino in quanto tale: in quanto fruitore (non necessariamente proprietario) di un bene pubblico, quale la città (il territorio urbanizzato) indubbiamente è. Dimentica che ci sono diritti comuni, e non solo diritti individuali. Dimentica che tra questi diritti ci sono anche quelli di poter godere di una città ordinata, funzionale, bella, resa tale indipendentemente dagli interessi materiali di un gruppo di cittadini (i proprietari immobiliari). Dimentica che questo diritto deve essere attribuito a tutti, quale che sia il patrimonio di cui dispone (o il genere, l’occupazione, il reddito, il colore della pelle, l’orientamento religioso o spirituale, la lingua, l’etnia, l’età, la condizione sociale).

Poiché Moroni non si rivolge a questo soggetto (ma, lo ripeto ancora una volta, al proprietario immobiliare) ecco che la pianificazione della città e del territorio non gli interessa. Poco importa che essa sia l’unico strumento capace, ove correttamente impiegato da chi governa, di raggiungere quegli obiettivi d’interesse comune di cui si è detto. Per il proprietario immobiliare è un intralcio, è uno dei “lacci e laccioli” di cui occorre liberarsi. La critica di Moroni alla pianificazione, che vorrebbe essere una critica alla pianificazione in quanto tale, si riduce alla denuncia delle imperfezioni, degli anacronismi, delle insufficienze degli strumenti attualmente impiegati e dei modi in cui essi sono impiegati.

La sua critica alla pianificazione non è rivolta al miglioramento dei modi nei quali la società, nelle sue espressioni politiche, governa le trasformazioni e le utilizzazioni del territorio perchè i diritti comuni siano rispettati. La radice della sua critica, e la ragione della sua faticosa ricerca di un improbabile succedaneo ad essa, è meramente ideologica.

Il teatrino immaginato da Moroni è spoglio, nitido, astratto; sul proscenio si agita una folla di figure che, nella sua narrazione, sono indifferenziate e inoffensive: definiti “cittadini”, si tratta in realtà di individui, per i quali la libertà consiste nell’usare e commerciare con la massima discrezionalità i propri patrimoni (immobiliari). Il resto non esiste.

Esistono le città e le regioni dove il neoliberismo ha vinto, non esiste il resto del mondo, non esistono le città e le regioni le cui risorse sono state espropriate (come continuano ad esserlo) per aumentare la ricchezza delle classi “alte” e “medie” del mondo affluente. Non esistono le crescenti sacche di povertà e di emarginazione all’interno stesso dei paesi e delle città privilegiate dallo sviluppo. Non esistono il lavoro, l’apprendimento, l’incontro. Esistono i cittadini cui bisogna garantire la libertà “di acquisire, detenere e vendere proprietà privata”.

Non esistono gli esclusi, i diversi, gli espulsi dallo “sviluppo” e dalla “concorrenza”. Non esistono gli sfruttati, i saccheggiati, i colonizzati, né come soggetti né come popoli. Non esistono rendite, e se esistono, non ha nessuna connotazione negativa la loro privatizzazione (che è anzi un obiettivo). Non esistono i monopoli: né quello immobiliare (il che per uno studioso che si occupi di città è davvero singolare), né quello dell’informazione, né quello del potere.

Potere, ecco un termine, e una dimensione, del tutto assenti. Come, et pour cause, è assente la politica. Ed è ben strano che Moroni, come del resto altri studiosi italiani critici della pianificazione urbanistica, limiti la sua analisi di questa allo strumentario tecnico, dimenticando del tutto che “l’urbanistica è una parte della politica”, e che nella crisi della politica va forse individuato qualcosa di più che la radice della crisi della pianificazione urbanistica.

Sono assenti il potere e la politica, così come sono assenti i diversi interessi che oppongono certi gruppi sociali ad altri, certe figure e certi concreti soggetti ad altri: quali più forti, quali più deboli, quali destinati a vincere, quali a perdere. Tutti sono uguali, nell’empireo luminoso disegnato da Moroni. Basta far finta che siano tutti proprietari. Oppure, basta convincerli che gli altri non contano: non hanno “diritti”, ma solo la legittima aspettativa a una “soglia di decenza” che un buon Leviatano gli accorderà, forse, se vorrà.

Edoardo Salzano, 10 gennaio 2008

La legge urbanistica del 1942

Una buona legge urbanistica, quella che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni approvò nel luglio del 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale[i]. A rileggerla oggi così come allora fu approvata, sfrondata cioè dalle integrazioni e superfetazioni che la imbarocchirono, essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile e implementabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti: come del resto è necessario che una buona legge sia.

E’ questa legge che costituisce il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente (sia quelle nazionali fino al 1970, sia quelle emanate dalle regioni dopo la loro istituzione) hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte (soprattutto nell’immediato dopoguerra e nel corso degli anni ‘80) hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Conviene perciò ricordare gli elementi essenziali lella “legge madre” dell’urbanistica italiana.

Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.

Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio. A ben vedere, il rapporto tra PRG e PPE prefigura la distinzione tra due componenti della pianificazione, quella “strutturale” valida a tempo indeterminato, e quella “programmatica” riferita al tempo del mandato amministrativo, che è da qualche anno al centro del dibattito sull’urbanistica[ii].

.La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Essa prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare,”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG, “le aree inedificate e quelle su cui insistano costruzioni che siano in contrasto con le destinazioni di zona ovvero abbiano carattere provvisorio”. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica fu adoperata, nell’immediato dopoguerra, dal Comune di Grosseto e da un piccolo comune in provincia di Roma, Vicovaro[iii].

Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi di “area vasta”. Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.

Una buona legge quindi, quella del 1942, una legge moderna. Afferma l’urbanista Vezio De Lucia,

“La nuova legge era stata preceduta da lunghi studi e non può essere liquidata tout court come una legge fascista. Nelle commissioni legislative del Senato e della Camera dei fasci e delle corporazioni si scontrarono i difensori ad oltranza della proprietà privata con quelli che alla proprietà intendevano porre dei limiti. Intervenne anche l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) che aveva elaborato una proposta basata sull'esproprio preventivo delle aree urbane. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva comunque dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”[iv].

E il giurista Gianni Lanzinger:

“La legge urbanistica approvata nell’agosto 1942 confermava e sistemava definitivamente non solo la destinazione delle aree ad opera dei pubblici poteri, ma conteneva anche una nuova conformazione della proprietà edilizia tale da superarne la concezione antistorica di inviolabilità. Ne veniva cioè cambiato regime e struttura senza cambiarne l’appartenenza. (...) La legge 1150/1942 è dunque un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio”[v]

La ricostruzione postbellica: nasce il primato

dell’emergenza e del settore edilizio

La legge urbanistica del 1942 aveva posto le premesse per un possibile razionale governo del territorio e dell’attività edilizia. Come mai i suoi esiti sono stati così deludenti? La risposta è negli avvenimenti della guerra e del dopoguerra. Negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione, fino al 1945, gli eventi bellici non permisero di applicarla, e - più sostanzialmente - provocarono distruzioni ingenti e diffuse. E’ poi nell’immediato dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà (a volte contraddetto e contrastato, a volte sviluppando una piena e dispiegata egemonia) nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.

I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. È colpito il patrimonio abitativo, le infrastrutture: sono distrutti più di tre milioni di vani, un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono accentuati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Drammatico il problema della casa; già prima della guerra la siduazione era pesante: nel censimento del 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze.

In molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione[vi]: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto: qualche macchia di colore su di una carta per indicare le zone d’espansione, qualche segno nella città edificata per indicare i nuovi allineamenti.

Finalità dei piani di ricostruzione doveva essere di “contemperare le esigenze inerenti ai più urgenti lavori edilizi con la necessità di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati, e ciò attraverso soprattutto una procedura più semplice di quella prevista per i piani regolatori”[vii]. In realtà la logica dei Prg fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.

La legislazione speciale per l’”emergenza” della ricostruzione fu impiegata per molti anni, ben al di là del cessare dell’esigenza che l’aveva giustificata: i piani particolareggiati del centro storico di Venezia adottati nel 1974, trent’anni dopo la fine della guerra, furono formati sulla base di quelle semplificate disposizioni. In realtà la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni (a differenza che in altri paesi europei) fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.

Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.

Da una parte, su terreno strettamente economico, a differenza dell’industria, “iI settore edilizio si prestava ottimamente al ruolo trainante, o quanto meno di collaborazione” alla ripresa economica, “sia perché non richiedeva in partenza né impianti costosi, né imprenditori particolarmente esperti, né mano d'opera qualificata, né materiali di importazione. sia perché rispondeva ad una esigenza sociale sentitissima che era quella della ricostruzione fisica delle città e della dotazione individuale di una dimora sicura come bisogno primordiale”[viii]. E del resto, in una fase in cui l’ingresso dell’economia italiana nel mercato internazionale cominciava a svelare la marginalità di parti consistenti del settore agricolo (artificiosamente gonfiato dalla politica fascista dell’autarchia), e si manifestavano i primi segni di quel drammatico esodo dalle campagne che caratterizzò gli anni ‘50 e ‘60, il settore delle costruzioni si dimostrava particolarmente idoneo a svolgere una funzione di volano nel passaggio della mano d’opera dall’agricoltura all’industria. Per un contadino, il passaggio a manovale e poi a muratore era l’inizio di un’apprendistato che lo avrebbe reso idoneo alla “moderna” catena di montaggio dell’industria.

Dall’altra parte, il ruolo socialmente stabilizzatore della proprietà della casa contribuiva a rinsaldare ed estendere il consenso attorno al blocco politico aggregato attorno alla Democrazia cristiana. Era un ruolo, insomma, in piena sintonia con le politiche di consolidamento ed espansione della piccola proprietà contadina, e di forte sostegno allo sviluppo della motorizzazione individuale di cui in quei medesimi anni si ponevano le basi.

Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.

Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, come osserva AlessandroTutino

“richiede che non si pianifichi: per molto tempo infatti, dal dopoguerra fino praticamente agli anni '60, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o apertamente boicottata dagli organi più politicizzati del governo, cioè soprattutto dal ministero dell'interno tramite le prefetture. Per questo preciso scopo dunque dal 1945 al 1964 circa i comuni sono stati assiduamente educati a non pianificare: quelli che, ribelli all'autorità educatrice, hanno voluto farlo a tutti i costi, si sono trovati in pratica a operare come isole di difficile penetrazione dell'iniziativa privata in un mare aperto dove viceversa tutto era possibile, e si sono trovati perciò rapidamente in oggettiva difficoltà di fronte ai loro stessi elettori”[ix].

E mentre su un versante si ostacola l’impiego degli strumenti della legge urbanistica del 1942, dall’altro lato si avvia un’azione di smantellamento del patrimonio abitativo pubblico. Come affermavano allora i governanti, bisognava sostenere la proprietà privata a spese del denaro pubblico: occorreva dare “a riscatto” agli assegnatari le case costruite dallo Stato:

l'assegnazione di case a riscatto non soltanto fa fare notevoli economie sulle spese di manutenzione e di amministrazione, ma influisce moltissimo sulla psicologia morale e politica dell'assegnatario (...). Sul piano sociale, su quello politico, su quello morale ritengo che accrescere le garanzie delle libertà degli italiani, costituendo per ciascuno di essi un patrimonio (mobiliare o immobiliare), sia una buona cosa”[x].

Con quest’obiettivo, poco prima delle elezioni politiche del 1958[xi], il Parlamento approva una legge-delega, che demanda al governo la formulazione di norme per la “cessione in proprietà a favore degli assegnatari degli alloggi di tipo popolare ed economico costruiti o da costruire a totale carico dello stato, ovvero con il suo concorso o contributo”; di tutte le abitazioni, cioè, di proprietà pubblica. Carlo Melograni, Aldo Natoli e Franco Berlanda furono tra i pochissimi che presero una posizione decisamente contraria.

“Così, a conclusione di un dibattito evidentemente troppo affrettato, si e deciso di liquidare un grande patrimonio pubblico, risultato di un’attività di più di cinquant'anni (...). La nuova legge segue un indirizzo, oggi in voga, da combattere: quello di rifiutare le soluzioni di fondo ricorrendo ad accomodamenti caso per caso; di far tacere una parte di coloro che reclamano un giusto diritto, come quello di avere un alloggio con una pigione non alta, dando loro un singolare vantaggio: quello di poter acquistare un alloggio a condizioni special”i[xii].

Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.

Le trasformazioni territoriali

negli anni del “grande esodo”

All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola. Nel 1951 l'agricoltura assorbe il 42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali. Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel decennio 1961-1971 il processo continua: malgrado il raddoppio degli investimenti industriali nel sud, gli addetti all'industria crescono solo di 80 mila unità mentre al nord salgono di 350 mila unità. Contemporaneamente il meridione perde altri 900 mila addetti al settore agricolo. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6%[xiii].

Accanto a questa trasformazione, un’altra se ne registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Come afferma lo storico Paul Ginsborg

“nel ventennio 1951-1971 la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963 (...).In tutto, fra il 1955 e il 1971, 9.140.000 italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali”[xiv]

La coesistenza di un accentuato processo di urbanizzazione e di un forte esodo, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese. determinano due fondamentali ordini di problemi. Nelle zone di esodo, la scarsità di popolazione in ampie zone del territorio nazionale da luogo a gravissimi danni economici e compromette l’equilibrio ecologico e ambientale (mancanza di presidio fisico del territorio, sottoutilizzazione del “patrimonio fisso sociale” rappresentato dai centri urbani. dalle infrastrutture ecc.). Nelle zone di concentrazione, all'opposto. l’eccessiva “presenza” di abitanti negli spazi urbani genera notevoli inconvenienti che si ripercuotono sulle condizioni di vita nelle grandi città (carenza di alloggi a basso costo, di servizi, di trasporti pubblici, alto costo della vita, inquinamento, ecc.). Questi inconvenienti non dipendono tanto dalle dimensioni assolute delle maggiori città italiane (dimensioni che potrebbero apparire relativamente modeste se confrontate con quelle delle maggiori metropoli mondiali), quanto piuttosto dal modo disordinato con cui tali dimensioni sono state raggiunte.

Quello che comincia a delinearsi nella prima metà degli anni ‘60 è una crisi del modello di sviluppo economico-sociale che aveva prevalso negli anni precedenti. In effetti, all'inizio degli anni '60 lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica.

È l’Inu[xv] a rompere il ghiaccio. All'VIII congresso, nel dicembre del 1960, viene presentata una proposta di riforma: è il cosiddetto Codice dell'urbanistica. L’Inu auspica l'istituzione delle Regioni e tenta di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica (di cui si comincia a parlare), attraverso l'istituzione di un Comitato nazionale di pianificazione (formato da ministri e presidenti delle regioni) e di un Consiglio tecnico centrale (a livello di alta burocrazia e di esperti urbanisti ) .

Il “codice” dell’Inu del 1960, a differenza delle proposte formulate nel corso della formazione della legge urbanistica del 1942, non prevede l'esproprio generalizzato dei suoli destinati all'edificazione, se non in casi eccezionali e territorialmente limitati. Per pubblicizzare, sia pure parzialmente, gli incrementi di valore delle aree urbane, e per stabilire, entro certi limiti, una perequazione di trattamento tra i diversi proprietari, viene proposto il meccanismo del comparto[xvi], oppure l’obbligo ai proprietari di cedere gratuitamente al comune, nelle zone di espansione, una quota del 30 per cento dell'area totale da destinare ad attrezzature pubbliche e di sostenere le spese di urbanizzazione primaria. Per incidere sulla rendita fondiaria è previsto anche un più deciso ricorso agli strumenti fiscali.

La proposta dell’Inu si inquadra nel cambiamento politico in corso, che vede spostarsi la DC, dall’alleanza con i partiti “minori” del centro (repubblicani, liberali e socialdemocratici), spesso aperta verso le formazioni della destra, all’alleanza con il Partito socialista italiano (PSI), in quegli anni ancora solidamente legato al PCI. La programmazione economica, la riforma urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica sono alcuni dei temi sui quali si polarizza il dibattito politico in vista della partecipazione dei socialisti al governo. Di riforma urbanistica si comincia a parlare concretamente anche in sede ministeriale. Ministro dei Lavori Pubblici del governo Fanfani è Benigno Zaccagnini, che insedia nel 1961 una commissione per la riforma urbanistica[xvii]. La proposta è resa pubblica nel settembre del 1961: resta sostanzialmente nel solco dei princìpi della legge del 1942, pur contenendo perfezionamenti di carattere tecnico e procedurale. Anche questa proposta non risolve il problema dell'acquisizione, a favore della collettività, della plusvalenza delle aree e della disparità di trattamento fra i proprietari immobiliari in relazione alle destinazioni d'uso stabilite dai piani.

La proposta del ministro Sullo

Autore della proposta più innovativa e coraggiosa è Fiorentino Sullo ministro dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962, esponente dell’ala riformista della DC. Preso atto che “la stragrande maggioranza degli urbanisti non si dichiarava d'accordo” con lo schema elaborato dalla commissione insediata da Zaccagnini, ricostituisce la stessa commissione, integrandola con giuristi, economisti, sociologi[xviii].

La riforma è impostata su basi completamente nuove. Il progetto stabilisce che l'indirizzo e il coordinamento della pianificazione urbanistica debbono attuarsi nel quadro della programmazione economica nazionale ed in riferimento agli obiettivi fissati da questa. La pianificazione urbanistica si articola, sia nella fase regionale che statale, agli stessi livelli previsti dal progetto Zaccagnini: piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato.

Il piano regolatore generale e quello comprensoriale sono obbligatoriamente attuati per mezzo di piani particolareggiati, nel cui ambito il comune promuove l'espropriazione di tutte le aree inedificate e delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato, nonché delle aree che successivamente all'approvazione del piano particolareggiato vengano a rendersi edificabili per qualsiasi causa. E’, in sostanza, una ripresa e, soprattutto, una generalizzazione della facoltà ammessa dall’articolo 18 della legge urbanistica del 1942.

Acquisite le aree, il comune provvede alle opere di urbanizzazione primaria e cede, con il mezzo dell'asta pubblica, il diritto di superficie sulle aree destinate ad edilizia residenziale, che restano di proprietà del comune. A base d'asta viene assunto un prezzo pari all'indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione e di una quota per spese generali. L'indennità di espropriazione è determinata, per i terreni non edificati e non aventi destinazione urbana prima dell'approvazione del piano, in base al prezzo agricolo; per i terreni non edificati, ma aventi già destinazione urbana, in base al prezzo dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione, aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo fissato da un comitato di ministri, e infine, per i terreni edificati, in base al valore di mercato della costruzione.

Lo schema Sullo modifica profondamente il regime proprietario delle aree: di proprietà privata resta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree - edificate o edificabili - passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani. In un primo momento sembra che la proposta sia destinata a passare. Ma nell’aprile 1963 (le elezioni sono fissate per il 28 aprile) si scatena “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa contro il Ministro dei lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. È lo stesso Sullo che racconta:

“A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa. (...) Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento, nell'ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si sarebbe potuto fare a meno. Non c'era che una strada: spiegare al video a milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito dalle mie. Fui sbalordito per l'oggettiva ingiustizia morale verso di me”[xix].

Con una “dolorosa nota” del 13 aprile Il Popolo comunica che la DC dissocia la propria responsabilità dall'operato del suo ministro. “Sullo era stato piantato in asso, e così ogni prospettiva di una reale pianificazione urbanistica in Italia”, commenta Paul Ginsborg[xx].

Sullo resta ministro dei Lavori pubblici nel “governo ponte” presieduto da Leone nell'estate del 1963, ma alla costituzione del primo governo organico di centro sinistra, nel dicembre 1963, viene sostituito dal socialista Pieraccini.. Negli accordi interpartitici per la formazione del governo Moro, viene concordato che la riforma urbanistica deve assicurare la preminenza dell'interesse pubblico, attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie e la posizione di “indifferenza” dei proprietari rispetto alle scelte di piano. Su queste basi viene elaborato il disegno di legge Pieraccini: si conserva il principio dell'esproprio generalizzato, l'indennizzo però non è pari al prezzo agricolo ma è rapportato al valore di mercato del 1958. Il diritto di superficie è abolito e sono esonerati dall'esproprio le aree interessate da progetti presentati prima del 12 dicembre 1963. Mentre la proposta di legge cade insieme al governo, in tutta Italia vengono rilasciate una valanga di licenze edilizie.

Nella vicenda della riforma urbanistica aveva vinto in definitiva quello che Valentino Parlato, qualche anno dopo, definirà “il blocco edilizio”: un blocco sociale ed economico nel quale, attorno agli stati maggiori della proprietà fondiaria urbana, della grande proprietà immobiliare e del capitale imprenditoriale e finanziario (volta a volta alleati alle forze della rendita o in timido conflitto con loro), si aggregano le “fanterie” dei piccoli proprietari di case o aspiranti tali, dei risparmiatori, degli artigiani e dei lavoratori legati alla produzione edilizia[xxi]. L’asprezza dello scontro, e quindi il peso politico del “blocco edilizio”, è rivelato pienamente da un retroscena che emerse alcuni anni dopo, quando si scoprì che parte determinante nel convincere i leader del centro-sinistra ad abbandonare ogni ipotesi di riforma urbanistica ebbero le voci, rivelatesi fondate, di una minaccia di colpo di Stato guidata dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo[xxii]

La legge 167 del 1962: un sottoprodotto

del dibattito sulla riforma urbanistica

A Sullo Ministro dei lavori pubblici si deve l'approvazione della legge n. 167 del 1962 “per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare”, i cui studi preparatori erano stati avviati fin dal 1951[xxiii].

La “167” è una legge di settore. Essa si propone in primo luogo di porre fine alla prassi seguita fino ad allora nella localizzazione degli insediamenti di edilizia economica e popolare da parte dei comuni, degli Istituti autonomi per le case popolari e dalla miriade di enti che erano stati via via beneficiari di provvedimenti per la costruzione di edilizia a basso costo. Le aree venivano scelte infatti là dove il loro costo era più basso, o magari dove apparenti benefattori le cedevano sottocosto per ottenere la valorizzazione dei terreni circostanti[xxiv]. Ciò provocava effetti distorcenti sull’assetto urbano, ed era una delle cause della vanificazione dei piani regolatori. La legge prescrive preciò che le aree per l’edilizia economica e popolare siano scelte all’interno di quelle destinate dai piani all’espansione.

I quartieri di edilizia economica e popolare avevano dato luogo, negli anni del dopoguerra, alla formazione di quartieri caratterizzati da una forte segregazione sociale. Ciò dipendeva dal fatto che ciascun ente operava in modo del tutto separato dagli altri, ogni intervento era un episodio a se stante. E poiché ogni intervento era finalizzato e riservato a una determinata categoria di cittadini (impiegati dello Stato, o sfrattati, o cittadini appartenenti a categorie particolarmente disagiate e così via), ecco che ogni quartiere era abitato da una sola categoria di inquilini, e generalmente del tutto privo di servizi sociali. La legge prescrive invece che nelle aree individuate dai piani per l’edilizia economica e popolare (PEEP) si inseriscano non solo tutti gli interventi programmati dai vari enti ma anche (per assicurare una composizione sociale più ricca e complessa) una quota significativa di interventi privati non finanziati, diretti cioè al “mercato libero”.

Ma la finalità primaria della legge è l’agevolazione dell’acquisizione, da parte dei comuni, delle aree da destinare all’edilizia economica e popolare, soprattutto al fine di renderne più agevole l’acquisizione e di ridurre l’incidenza della rendita fondiaria sul costo finale dell’alloggio. La legge stimola perciò i comuni a costituirsi patrimoni di aree da urbanizzare e rivendere ai privati per lo svolgimento di attività edilizia di tipo economico e popolare. Ai comuni viene data la possibilità di acquisire le aree mediante esproprio attraverso un meccanismo che avrebbe dovuto assicurare una consistente riduzione delle plusvalenze formatesi in dipendenza dell'espansione delle città ed un'azione calmieratrice sul mercato dei suoli: l’indennità veniva infatti commisurata non al valore delle aree nel momento dell’espropriazione, ma a quello che esse avevano due anni prima della formazione del piano.

Il meccanismo previsto per l'acquisizione delle aree veniva però dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 22 del 1965) in quanto la dissociazione del momento in cui viene determinata la indennità da quello dell'espropriazione, può condurre ad una liquidazione dell'indennità in misura solo simbolica; ad avviso della Corte l'indennità deve costituire invece un “serio ristoro” del danno patrimoniale subìto dall'espropriato. In sostituzione degli articoli dichiarati illegittimi fu promulgata la legge n. 904 del luglio 1965 con la quale, per la determinazione dell'indennità di espropriazione, si fa ricorso alla legge di Napoli del 1885, cioè, sostanzialmente, alla media tra il valore venale e la capitalizzazione del reddito catastale.

Nel 1964 la crisi edilizia, che ciclicamente riaffiora, è decisiva. La parola d'ordine prevalente è che prima di porre mano alla riforma bisogna tornare alla “normalità”. La riforma urbanistica esce di scena.

Le lottizzazioni, la frana di Agrigento

e la “legge ponte”

Il suolo italiano, intanto, viene riempito di lottizzazioni edilizie. Da una inchiesta del Ministero dei lavori pubblici si desume che solo in un quarto dei Comuni italiani (poco più di 2 mila) sono state autorizzate lottizzazioni per circa 115 mila ettari, per oltre 18 milioni di vani, quanti sarebbero sufficienti a colmare l'intero fabbisogno nazionale di alloggi fino al 1980[xxv]. Le zone investite dalle lottizzazioni sono il triangolo industriale, la pianura veneta, l'area romana e napoletana, nonché quelle di maggior pregio paesaggistico, come le coste. La localizzazione degli insediamenti e l'utilizzazione del suolo ubbidiscono esclusivamente alla convenienza dei proprietari, i quali accollano alle finanze comunali le spese per le opere di urbanizzazione. “Il lottizzatore italiano - scrive Michele Martuscelli, che ha diretto l'inchiesta - non è nemmeno un imprenditore, ma un semplice mercante dei terreni; il suo interesse per il completamento dell'iniziativa cade non appena la maggior parte dei lotti è stata venduta ed è stata intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario”[xxvi].

L’episodio che riapre il dibattito sulla legislazione urbanistica, riportando al centro dell’attenzione il modo in cui avviene l’urbanizzazione del territorio, è la frana di Agrigento, che il 19 luglio 1966 fa crollare centinaia di alloggi e getta sulla strada migliaia di persone, miiracolosamente senza provocare vittime. La frana è stata causata dall'enorme sovraccarico edilizio: ben 8.500 vani costruiti negli ultimi anni, in contrasto con tutte le norme esistenti. Mancini, Ministro dei lavori pubblici, nomina una commissione d'inchiesta, presieduta da Michele Martuscelli. Nel settembre la “relazione Martuscelli” è resa pubblica. Un passo della relazione (che fu stesa da Giovanni Astengo) merita di essere ricordata:

Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l'aspetto sociale, civile ed umano[xxvii].

L'impressione nel paese è enorme. Si apre un’aspro dibattito politico. Mentre una parte della stampa propaganda la tesi dell’imprevedibilità e della “naturalità” dell’evento, l’opinione prevalente è quella che viene efficacemente espressa nella lettera di trasmissione della Relazione Martuscelli, nella quale si sottolinea “la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite”, e si esprime l’augurio “che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Il problema, conclude la Commissione Martuscelli,

non può ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica - la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata - ; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l'adozione - eventualmente anche nella forma del decreto-legge - di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione[xxviii].

Pochi mesi dopo, viene presentata al Parlamento la “legge ponte”: un simbolico ponte tra la situazione attuale (i guasti provocati dall’assenza di un ragionevole governo del territorio erano stati svelati all’opinione pubblica, oltre che dalla frana di Agrigento, anche dalle quasi contemporanee alluvioni di Firenze e acqua alta eccezionale di Venezia) e la riforma urbanistica, di nuovo desiderata e attesa.

Il 1° settembre 1967 viene emanata la “legge ponte”[xxix]. Essa limita le possibilità di edificazione nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici (che sono la grande maggioranza) e cerca di incentivare la formazione dei piani, anche con la previsione dell'intervento sostitutivo degli organi dello Stato in caso di inerzia dei comuni. L'intervento sostitutivo dello Stato e più rigide sanzioni sono previste anche per punire le illegittimità e gli abusi edilizi.

Uno dei punti centrali della legge è la disciplina delle lottizzazioni edilizie. La legge stabilisce che sono proibite le lottizzazioni nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione ed accolla ai privati le spese per le opere di urbanizzazione primaria (strade, fognature, acqua, luce, verde di vicinato, ecc.), e per parte di quella secondaria (scuole, ambulatori, parchi, centri sociali, ecc.).

Ma l'innovazione fondamentale della legge riguarda i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano deve inderogabilmente riservare all'uso pubblico.

Gli standard urbanistici

Si intende per “standard urbanistici” la determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi.

Il concetto di standard urbanistici è, per la verità, più ampio. Luigi Falco, ad esempio, ricorda che

“la parola standard, parola inglese che aveva originariamente il significato di bandiera, di segno di riconoscimento dei cavalieri, si usa oggi nella lingua originaria per indicare qualcosa di noto, di non discutibile e che può essere usato come elemento di paragone in numerosi campi delle tecnologie e delle scienze. La caratteristica dello standard, di essere legato a una prestazione, ad un livello di funzionamento raggiunto e sperimentato, è evidente in numerosi ambiti disciplinari, nei quali il termine è appunto usato in questo significato”[xxx].

E un significato ancora diverso del termine - non contraddittorio con i precedenti - è quello sottolineato da Alessandro Tutino:

“lo standard deve essere una bandiera (stendardo, simbolo) ed una bandiera che ad ogni traguardo va rinnovata perchè mantenga il suo valore”[xxxi]

La storia dell’introduzione degli standard urbanistici in Italia dà ragione di entrambe queste interpretazioni: quella quantitativa e normativa, e quella dinamica. In Italia gli standard urbanistici erano noti (negli anni ‘50) alla cultura specializzata. Ad essi faceva riferimento Il Manuale dell'architetto, mitico strumento di lavoro razionalista di generazioni di architetti, urbanisti e ingegneri, prodotto per la prima volta da un ufficio di promozione culturale statunitense (l’Usis, nel 1945), poi aggiornato a cura del Consiglio nazionale delle ricerche nel 1953 e nel 1962.

Si cominciò ad applicare gli standard urbanistici (cioè a riservare, nei piani per le città e in quelle per i quartieri, determinate quantità di aree per spazi pubblici in proporzione agli abitanti previsti) all’inizio degli anni 60. I quartieri popolari dell'Ina-casa e della Gescal, i piani regolatori di Roma, di Torino, di Modena costituiscono in quegli anni le prime esperienze di definizione concreta delle quantità di aree da riservare agli spazi pubblici.

Ma è più tardi, è appunto con la “legge ponte”, che in Italia si vara una normativa nazionale sugli standard urbanistici. Questa normativa, prescritta dalla legge, viene definita tecnicamente in un decreto ministeriale emanato un anno dopo: il decreto n. 1444 del 4 aprile 1968. Il decreto prevedeva standard riferiti a diversi tipi di attrezzature: alcune “d’interesse locale”, cioé tali da dover essere direttamente accessibili dagli utenti con percorsi pedonali o comunque superabili in archi di tempo brevi (non superiori ai 20-25 minuti primi); altre “d’interesse generale”, o “territoriale”, le quali, per la loro natura o per la dimensione funzionale richiesta, dovevano essere localizzate in relazione a bacini d’utenza più vasti.

Il decreto sugli standard è stato successivamente accusato di una certa rozzezza. e in effetti, esso è molto più schematico di quelli adoperati negli stessi anni in altri paesi europei. Non tiene conto dei tempi e dei modi dell’accessibilità, del rapporto tra attrezzatura e sito, delle dimensioni conformi di ogni attrezzatura, delle opportunità di integrazione tra attrezzature diverse ma complementari, della opportunità di diversificare le stesse dotazioni ad abitante in relazione a diverse situazioni demografiche e sociali. Ciò nonostante, come vedremo al prossimo capitolo, esso ebbe un effetto sconvolgente: per la prima volta nella redazione dei piani, e quindi poi nelle politiche di governo del territorio, si doveva destinare agli usi collettivi una consistente e non eludibile quantità di aree.

Ma più che la rozzezza del testo normativo, si deve criticare la superficialità della sua applicazione nella maggior parte della pratica professionale, e nella stessa successiva legislazione regionale di recepimento di quel decreto. Un caso esemplare di questa superficialità è costituito dal modo in cui sono state utilizzate le “zone omogenee” previste dal decreto. Il decreto prevede diverse zone, e per ciascuna di queste prevede norme diverse in relazione al conteggio degli standard e ad altre prescrizioni della legge. Nella volontà del legislatore, insomma, le zone omogenee sono sostanzialmente uno strumento di verifica dell’applicazione degli standard. Nella prassi corrente, invece, sono diventate una tecnica di progettazione della città, consolidando una concezione del disegno urbano basato sulla rigida monofunzionalità delle diverse parti e sulla negazione del carattere complesso tipico e caratterizzante dell’organismo urbano.

C’é da aggiungere, comunque, che la legislazione regionale, che subentrerà negli anni 70, si limiterà a ritoccare (generalmente in aumento) le quantità degli standard fissati nel 1968, ma non modificherà nella sostanza l’impostazione del legislatore nazionale: non ne supererà quindi neppure i limiti culturali. Ciò avviene in molti altri campi. Benché la Costituzione attribuisca alle regioni piena potestà in materia di legislazione urbanistica, nell’ambito dei soli “principi” fissati dalla legislazione nazionale o da essa desumibili, nella realtà le regioni si sono limitate a precisare, commentare, ulteriormente articolare la legislazione nazionale, nell’alveo della “vecchia” legge urbanistica del 1942.

Reazione e svelamento:

le sentenze costituzionali

Il decreto sugli standard ha una immediata ripercussione al livello della suprema magistratura. Meno di un mese dopo il decreto, meno di un anno dopo la legge ponte, la Corte costituzionale dichiara illegittimi parte dell'articolo 7 e l'articolo 40 della legge urbanistica del 1942[xxxii].

La tesi della Corte è la seguente. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli che destinano determinate aree ad usi pubblici (strade, scuole, verde ecc.) sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Ma questo vero e proprio vincolo non viene indennizzato: l’indennità sarà corrisposta al proprietario solo se e quando l’esproprio avverrà. Questa situazione, sostiene la Corte, è in contrasto con la costituzione, perché

“un vincolo immediatamente operativo, ma il cui indennizzo è rinviato nel tempo, deve ritenersi di carattere espropriativo” [xxxiii].

Sviluppando il suo ragionamento la Corte (e le successive interpretazioni della sentenza, in particolare ad opera del suo Presidente Aldo Sandulli[xxxiv]) sostiene la seguente tesi. Il legislatore ha la facoltà di stabilire che determinati beni (per esempio l’edificabilità) non appartengono al proprietario fondiario. Ma nell’attuale sistema giuridico italiano ciò non è stabilito. Non è allora oggi costituzionalmente legittimo comprimere lo jus aedificandi al di là di un limite ragionevole senza indennizzarlo, o senza almeno stabilire una data certa e vicina nella quale certamente l’indennità verrà pagata.

Se la sentenza per un verso suonava come una campana a morto per quanti erano impegnati nel tentativo di razionalizzazione dell’uso del suolo, per un altro verso indicava una possibile soluzione del problema del regime immobiliare. Nel dibattito che allora si aprì, mentre da una parte venivano proposte soluzioni volte a riconoscere per legge a tutte le proprietà fondiarie un valore minimo (“plafond”) di edificabilità, si avanzava dall’altra parte la proposta di stabilire, sulla base dell’indicazione di Sandulli, che l’edificabilità non apparteneva alla proprietà, ma era il prodotto di una concessione dell’ente pubblico attribuita ai proprietari sulla base dei piani urbanistici.

Si sceglie la soluzione più semplice ed indolore: quella del rinvio. Viene cosi approvata la legge 13 novembre 1968, n. 1187 (subito definita “legge tappo”), con la quale si stabilisce che le previsioni di piano regolatore generale, che comportano vincoli nei confronti dei diritti reali, aventi contenuto espropriativo, cessano di avere vigore qualora entro cinque anni dall'approvazione del piano regolatore medesimo, non siano approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionata.

Le tensioni sociali del 1968-69

e la legge per la casa

Gli anni ‘60 si erano aperti con la speranza di una riforma profonda dei modi in cui si esercitava il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Gli anni ‘70 si aprono senza che quest’obiettivo sia stato raggiunto, ma in un clima di grande sommovimento su tutti i terreni Si aprono infatti con le grandi tensioni del Sessantotto studentesco e operaio, si sviluppano, attraverso una serie di crisi politiche e di attentati dinamitardi, attorno ai temi dell’intervento pubblico nel settore della casa, degli espropri, dell’attuazione dell’ordinamento regionale, dei tentativi di programmazione economica.

Il quadro istituzionale dell’urbanistica cambia considerevolmente. La drammaticità degli scontri sociali sulle questioni del territorio e della città sembrano ridare fiato alla riforma urbanistica. La politica della casa entra a far parte dell’armamentario della pianificazione. L’istituzione delle regioni introduce un soggetto pubblico potenzialmente decisivo. Sebbene non si raggiunga una vera riforma del regime dei suoli, vengono introdotte alcune significative innovazioni, in parte vanificate dalle sentenze della Corte costituzionale. Mentre da un lato sembra procedere, attraverso tappe parziali, un disegno di riforma, dall’altro lato si mettono in moto forze controriformatrici, le quali agiscono a volte con gli attentati terroristici, a volte con sottili tattiche di svuotamento delle leggi innovative.

La questione della casa era stata al centro delle lotte sociali. Per la prima volta dalla rinascita della democrazia uno sciopero generale (il 19 novembre 1969) aveva avuto per oggetto una serie di questioni (casa, servizi, trasporti, squilibri territoriali) che esulavano dallo stretto terreno contrattuale. Il confronto tra sindacati e movimenti spontanei da un lato, Governo e parlamento dall’altro, si svilupparono per alcuni anni, punteggiati da attentati dinamitardi e crisi di governo. Un primo risultato si raggiunse nell’autunno del 1971, con una nuova legge per la casa[xxxv].

La legge affronta quattro questioni: la programmazione e il coordinamento dell’edilizia pubblica, le espropriazioni, le modifiche alla legge 167/1962 e il finanziamento di alcuni primi programmi d’intervento. Quest’ultima parte ha carattere dichiaratamente transitorio; più rilevanti e strutturali le altre.

La legge innova profondamente i meccanismi della programmazione pubblica dell’edilizia. Anzichè una miriade di enti, ciascuno caratterizzato da regole, soggetti e procedure diversi (unificati solo “a valle”, a partire dal 1962, da una politica urbanistica unitariamente costituita dai PEEP), la legge prefigura un sistema secondo il quale: spetta allo Strato l’allocazione di tutte le risorse pubbliche nazionali destinate alla residenza nei diversi settori e tipologie d’intervento e nelle diverse regioni, in funzione dei fabbisogni regionali; spetta alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l'edilizia all’interno dei loro territorio; spetta ai comuni la programmazione locale, e spetta ai comuni e agli Istituti per le case popolari la realizzazione e le gestione degli interventi.

Le nuove norme espropriative unificano i procedimenti e i valori del’indennità per tutte le possibili finalità (dai PEEP ai parchi nazionali, dagli interventi nei centri storici alle opere di urbanizzazione). Ancorano tutte le indennità al valore agricolo: per i fondi aventi una effettiva utilizzazione agricola l’indennità è correlata alle colture e alle altre attività aziendali, per i terreni già urbanizzati l’indennità è fissata con un valore parametrico (correlato a quello della cultura più pregiata). Generalizzano la possibilità di assegnare le aree espropriate in concessione, come alternativa alla cessione in proprietà. Ribadiscono infine che l’indennità non deve in alcun modo tener conto dell’incremento di valore acquisito dall’area per effetto delle destinazioni di piano o dall’aspettativa della realizzazione delle opere.

Le modifiche alla legge 167/1962 tengono conto delle esigenze di correzione e miglioramento maturate in quasi un decennio d’applicazione. In particolare viene abolita la disposizione che consentiva ai proprietari di aree comprese nel PEEP di operare direttamente senza essere espropriati: norma che aveva provocato, in molte zone, un aumento consistente del prezzo delle aree comprese nei PEEP.

L'attuazione delle regioni a statuto ordinario

Secondo la Costituzione italiana la competenza legislativa in materia urbanistica è delle regioni. Questa indicazione si saldava, nel dibattito degli anni ’60, con l’esigenza, affiorata fin dagli anni ‘50 nella cultura urbanistica (e già contenuta in nuce nella legge urbanistica del 1942), di promuovere una pianificazione territoriale, strettamente connessa alla programmazione economica, a partire dal livello regionale. Ma per tutti gli anni ‘50 e ‘60 avevano visto la luce solo le regioni “a statuto speciale” (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Friuuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige), la cui formazione era dovuta più a esigenze d’ordine politico o diplomatico che alla volontà di realizzare il disegno costituzionale[xxxvi].

I quindici consigli regionali a statuto ordinario sono eletti per la prima volta nella primavera del 1970, e l'effettivo trasferimento dei poteri avviene nel febbraio del 1972, in base a decreti del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda l’urbanistica, accanto al potere di legiferare già attribuito dalla Costituzione, alle regioni vengono trasferite tutte le funzioni amministrative che la legge del 1942, e le successive leggi di modifica e di integrazione, affidavano agli organi centrali e periferici del Ministero dei lavori pubblici: l'approvazione degli strumenti urbanistici (piani territoriali di coordinamento, piani regolatori generali comunali e intercomunali, piani di ricostruzione, regolamenti edilizi e programmi di fabbricazione, piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate) e dei piani per l'edilizia economica e popolare; il controllo e la vigilanza sull'attività edilizia ed urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario viene anche trasferito il potere di redigere e di approvare i piani territoriali paesistici previsti dalla legge per la tutela delle bellezze naturali del 1939.

Agli organi centrali dello Stato è riservata la funzione di “indirizzo e coordinamento” delle attività amministrative regionali “che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”. Allo Stato sono riservate inoltre le competenze relative alla rete autostradale; alle costruzioni ferroviarie, ai porti, alle opere idrauliche e di navigazione interna di maggiore importanza; all'edilizia statale, demaniale e universitaria, ecc.

Al trasferimento delle materie stabilite dall'art. 117 della Costituzione si affianca la delega delle “funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate”. Viene istituita una commissione (presieduta da Massimo Severo Giannini) le cui proposte forniscono la base al decreto del presidente della repubblica n. 616 del luglio 1977, che chiude quasi un decennio di dibattiti e di produzione legislativa circa l'ordinamento regionale.

Secondo il decreto 616/1977, l'urbanistica è “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”: tutto ciò è di competenza regionale. Allo Stato resta affidata la “identificazione, nell'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento [...], delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”.

La legge Bucalossi sul regime dei suoli

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero inutilmente e si approvò un'altra proroga biennale; poi, ancora un rinvio di un anno, finalmente accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente viene approvato nel gennaio 1977. E’ la legge n. 10 del 1977, nota come legge Bucalossi, dal nome del ministro che ne fu l'autore[xxxvii].

Alla base della legge c'è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, proposta inizialmente (come mera ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa dalla parte maggioritaria della cultura urbanistica. L'intesa fra i partiti di governo si realizza, superando le esitazioni della DC, soprattutto grazie all'impegno di Bucalossi che minaccia le dimissioni e la crisi di governo in caso di mancata approvazione. Il principio della separazione viene però affermato in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile anche agli incerti e ai contrari: non costituirà argine sufficiente rispetto alle critiche della Corte costituzionale.

Gli elementi portanti della riforma sono l'istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell'edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.

Passare dalla “licenza edilizia” alla concessione, e per di più a una concessione onerosa, ha come presupposto l’aver ammesso, almeno implicitamente, che esiste una riserva pubblica del diritto di edificare. La concessione di questo diritto è accordato al proprietario dell'area, o a chi ne ha la legittima disponibilità, per edificare opere conformi agli strumenti urbanistici, contro un determinato onere. Questo dovrebbe, sul piano dei principi, essere commisurato al maggior valore all’area viene attribuito per il fatto che essa è divenuta edificabile. In realtà la legge, privilegiandoi anche qui il compromesso rispetto al rigore, stabilisce che il contributo di concessione è formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.

La legge prevede la possibilità di non pagare la parte di contributo concessorio corrispondente a una quota del costo di costruzione, a condizione che il proprietario si impegni a convenzionare il canone d’affitto e il prezzo di vendita dell’edificio realizzato. Si tratta di una innovazione interessante, già introdotta dalla legge per la casa del 1971 all’edilizia economica e popolare che la legge Bucalossi tenta di generalizzare; essa consentirebbe alla mano pubblica di controllare contrattualmente l’esito finale del processo di urbanizzazione e costruzione della città.

L’introduzione del programma poliennale d’attuazione è comunque il più importante contributo della legge allo sforzo di razionalizzare i modi e i tempi in cui avviene il processo di espansione e trasformazione della città, per tentare di ridurne i costi e accrescerne i benefici sociali. L’esigenza di governare nel tempo l’attuazione delle previsioni dei piani regolatori, correlando l’attuazione delle opere di competenza pubblica con quelle d’interesse privato era viva da tempo. Il primo tentativo di soddisfarla fu compiuto, sia pure solo parzialmente a causa delle difficoltà frapposte dal Consiglio di Stato, dal Piano regolatore di Rtoma del 1962.

La legge prescrive sostanzialmente che i comuni, ogni tre o quattro o cinque anni, provvedano a indicare quali saranno gli interventi, pubblici e privati, previsti o consentiti dal piano regolatore vigente, che saranno effettuati o autorizzati nel periodo considerato. Per gli interventi privati inclusi nel PPA ma no attivati alla scadenza del periodo, la legge prevedeva l’esproprio delle aree e l’intervento sostitutivo del comune.

A proposito dell’abusivismo, fenomeno che era già in forte espansione, soprattutto nell’area romana, nel Sud e lungo le coste, la legge prevede, nei casi di maggiore gravità, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva. La demolizione è l'unica sanzione prevista quando l'abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.

Nel dibattito parlamentare non viene chiarito il nodo di fondo, relativo al regime di proprietà delle aree edificabili. Resta l’ambiguità nelle formulazioni sulla separazione dello ius edificandi dalla proprietà. Puntualmente, nel gennaio 1980, la Corte costituzionale si pronuncia ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica. Nel frattempo, le regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione, e le norme contro l’abusivismo saranno rimaste inapplicate.

Nuove esigenze e nuove leggi

per la politica della casa

Nonostante le riforme legislative operate a partire dal 1962 la questione della casa era ben lontana dall’esser risolta. Il settore era, nel suo complesso, estremamente articolato e ricco di sperequazioni e differenze quasi patologiche. Oltre agli alloggi abitati direttamente dei proprietari, giunti a livelli sconosciuti negli altri paesi europei, vi erano: gli alloggi privati condotti in affitto libero, per i quali si pagavano prezzi crescenti; gli alloggi privati condotti a fitto “bloccato”, cioè ancorato al valore originario senza tener conto dell’aumento dell’inflazione, per effetto di una serie di leggi che, a partire dagli anni della guerra, avevano teso a proteggere gli inquilini dei ceti meno abbienti dai notevoli aumenti dei prezzi; gli alloggi privati realizzati in aree Peep, preventivamente espropriate e assegnati a fitti convenzionati; gli alloggi di proprietà pubblica, assegnati a canone “sociale”.

Gli inconvenienti e le sperequazioni di questa situazione erano notevoli. Particolarmente pesante era il blocco dei fitti. D’altra parte, lo stesso contenimento dei prezzi operato nelle aree Peep (per effetto della decurtazione iniziale della rendita fondiaria e del controllo sul prezzo finale operato con il convenzionamento) veniva vanificato dalla “concorrenza” provocata da un “mercato libero”, libero di spingere all’insù i prezzi degli alloggi. Né era possibile limitarsi a “sbloccare” la parte vincolata dello stock privato, ciò che avrebbe provocato tensioni sociali insostenibili.

Per affrontare la questione non bastava quindi più limitarsi a costruire abitazioni economiche per le fasce più disagiate, ne limitare l’intervento pubblico alla costruzione di nuove case. Del resto, in quegli anni erano emerse due consapevolezze nuove: da un lato, il fatto che l’età dell’espansione continua e indefinita era terminata, che “più case si fanno più ce ne vogliono”, e che non si poteva proseguire con “lo spreco edilizio” [xxxviii]; dall’altra parte, il fatto che l’esigenza di disporre di un alloggio ad un prezzo commisurato al reddito e alla conseguente capacità di spesa era un “diritto sociale”, che doveva essere garantito a tutti.

D’altra parte, le leggi per la casa avevano affrontato solo episodicamente il problema del finanziamento dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa. E non era stato affrontato (salvo che nella positiva eccezione del “Peep-centro storico” di Bologna, 1972) la questione di un intervento volto al recupero dell’edilizia esistente.

Ecco le ragioni per cui maturò la necessità di affrontare l’insieme della questione abitativa tenendo presente l’insieme dello stock edilizio. Si cercò allora di superare il blocco di una parte dello stock con una politica di “prezzi amministrati” (l’equo canone) e di definire una programmazione sistematica dell’intervento pubblico nell’edilizia che affrontasse anche il problema del recupero dell’edilizia esistente (programma decennale e “piani di recupero”).

La legge per l’equo canone[xxxix]

Spesso mi si chiede come sia possibile che delle parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti, capaci di contare su centinaia di uomini armati e su capitali forti. E come è possibile – questa domanda mi viene ripetuta spessissimo, soprattutto all´estero – che uno scrittore possa mettere in crisi organizzazioni capaci di fatturare miliardi di euro l´anno e di dominare territori vastissimi?

È complicato dare una sola risposta e, in verità, l´unica risposta che mi viene in mente, la più plausibile è che sia proprio la diffusione della parola a mettere paura. Non è lo scrittore, l´autore, non è neanche il libro in sé, né la parola da sola, che riesce ad accendere riflettori e per questo a mettere paura. Quello che realmente spaventa è che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e, soprattutto, che si possano finalmente intravedere i meccanismi che li hanno provocati. Quel che spaventa è che qualcuno possa d´improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che svelino quel che sta dietro. E soprattutto avere la possibilità di percepire determinate storie come le proprie storie. Non più come storie lontane, non più come vicende geograficamente distanti, ma come facenti parte della propria vita.

Qualcuno può credere che questa sia una visione troppo mediatica e quindi distante dalla realtà. Ma non è così. Molti episodi dimostrano che l´attenzione, anche degli intellettuali e degli artisti, data alle organizzazioni criminali e a quello che accade intorno a loro ha realmente cambiato le cose e il destino di molte persone. La storia di Giuseppe Impastato, giornalista ucciso a Cinisi in Sicilia nel 1978, ne è un esempio. Quando Impastato fu ucciso, l´opinione pubblica venne inconsapevolmente condizionata dalle dichiarazioni che provenivano da Cosa Nostra. Che si fosse suicidato in una sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un binario. Questa era la versione ufficiale, data anche dalle forze dell´ordine. Poi, dopo più di vent´anni, esce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato - ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello, dalla mamma - ma, addirittura, la rende a tutti, come un dono. Un dono allo stato di diritto e alla giustizia. Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all´epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un processo. Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista.

È successo per molte persone. Pippo Fava, giornalista de I Siciliani, una rivista che stava dando molto fastidio a Cosa Nostra, viene ucciso mentre sta andando a prendere la nipotina a teatro. Gli sparano in testa, lo sfregiano. Gli omicidi delle organizzazioni criminali hanno sempre una sintassi simbolica. Sparare in faccia, per esempio, ha un significato diverso rispetto a sparare al petto. A Pippo Fava lo sfregiano, gli sparano alla nuca e pochissime ore dopo iniziano a diffondere la notizia, che poi diventerà la versione ufficiale nella società civile catanese - o forse bisognerebbe definirla incivile - che era stato ucciso perché «puppo», ovvero omosessuale, come dicono in Sicilia. Perché aveva messo le mani addosso a dei ragazzini fuori dalla scuola. Si erano inventati questa balla per delegittimarlo, per suscitare fastidio al solo pronunciare il suo nome. Per suscitare quella sensazione di diffidenza nelle persone, che trova terreno fertile in simili circostanze.

Chiunque si occupi di mafie sente questa melma intorno a sé: la melma della diffidenza. Io ci convivo da anni; dal primo giorno. Va di pari passo con la mia quotidianità sentire diffidenza, soprattutto quella degli addetti ai lavori, infastiditi spesso per il solo fatto che sei arrivato a molte persone. Questo, soprattutto, a intellettuali e giornalisti non torna. «Come mai sei arrivato a tante persone?» In un Paese dove chi arriva a tanti spesso è sceso a patti con qualche potere o ha scelto di compromettere le proprie parole. «Dove hai tradito? Dove ti sei venduto? Con chi ti sei alleato?». Il cinismo degli addetti ai lavori è sempre questo: arrivare a un pubblico vasto di lettori, di ascoltatori, di osservatori, significa tutto sommato accettare i codici più bassi, più biechi della comunicazione.

Ebbene, le organizzazioni criminali non sono tanto diverse nel valutare e nel delegittimare i propri nemici. Le organizzazioni criminali hanno necessità di portare avanti un assioma: chi è contro di noi lo fa per interesse personale. Chi è contro di noi sta diffamando il territorio, perché noi non esistiamo come loro ci raccontano. Chi è contro di noi è pagato da qualcuno per essere contro di noi. E, nella migliore delle ipotesi, sta facendo carriera personale su di noi.

Le parole, quando arrivano a molte persone, quando raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose. Assai pericolose perché il rischio è che a difenderle debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa carne. È successo a moltissimi scrittori, a moltissimi giornalisti. L´Italia ha una caratteristica che in genere, quando raccontano di noi, non viene riportata: l´Italia è un Paese cattivo. Molto cattivo. Perché è un Paese dove è difficile realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio.

La storia dell´antimafia spesso è una storia di enormi cattiverie e quando me ne rendo conto non riesco a capire come sia possibile, di fronte a delle vicende tragiche e tutto sommato chiare. La morte di don Peppe Diana, per esempio. La morte di un uomo, un ragazzo, ammazzato poco più che trentenne, sul cui conto, per anni, si è detto di tutto. Che fosse stato ucciso per presunte relazioni con delle donne, che avesse collaborato con un clan. Che era morto perché anche lui colluso e non perché aveva scritto un documento, Per amore del mio popolo non tacerò, che aveva dato molto fastidio ai poteri criminali. In quel documento, don Diana, segnalava la strada che avrebbe seguito in quanto prete di Casal di Principe. Lì dichiarava quale fosse il compito di un prete in quelle terre, cioè raccontare, denunciare e, appunto, non tacere.

La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto sino in fondo. Questo mio è un ragionamento difficile da capire e mi rendo conto che chiedo uno sforzo enorme a chi mi sta leggendo. Però è uno sforzo che vale la pena fare per capire come funzioni il meccanismo della parola. Anna Politkovskaja, scrittrice e giornalista russa, viene uccisa e il giorno stesso della sua esecuzione il marito dichiara di provare, oltre a un profondo dolore, anche un sentimento di serenità, quasi di sollievo. Stupisce tutti. Perché serenità? Perché sollievo? Com´è possibile? «Perché so», spiega lui «che almeno con la morte non potrà più essere diffamata». Pochi giorni prima che Anna morisse, avevano tentato di sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche da diffondere sui giornali di gossip. Di fronte a una delegittimazione del genere puoi invocare solo la morte. Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non possono consentire che tu abbia contemporaneamente autorevolezza e vita. O l´una o l´altra. Se hai la vita non hai l´autorevolezza, se hai l´autorevolezza non hai la vita.

Tantissimi scrittori e magistrati si sono trovati nella necessità di dover scegliere. Io stesso ho avuto a che fare, in questi anni, con molti magistrati che hanno affrontato la paura, il terrore di dover morire ma ancor più di essere delegittimati. Come si può salvare la parola da questa terribile doppia condanna? Facendo sì che non appartenga più a una singola persona. La parola, se smette di essere mia, di altri dieci, di altri quindici, di altri venti e diventa di migliaia di persone, non si può più delegittimare, perché anche se si delegittima me quelle parole sono già diventate di altri. E se anche si dovesse eliminare fisicamente la persona che per prima le ha pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi.

So bene che si rischia di essere tacciati di eccessivo romanticismo se si pronunciano espressioni come «parola usata da molti», «parola contro il potere». Ma sono convinto che far diventare concreta una parola significhi innanzitutto consentirle una piena realizzazione nel quotidiano. E affinché la parola diventi realmente efficace contro le mafie non deve concedere tregua. Il grande sogno che hanno alcuni scrittori è quello che le loro parole possano mutare la realtà, che le loro parole, magari nel tempo, possano effettivamente indirizzare il percorso umano verso nuove strade. Certo mi rendo conto che nessuno può isolare il momento esatto in cui Dostoevskij o Tolstoj hanno modificato, indirizzato o semplicemente suggestionato il pensiero umano. Non è che un mese dopo l´uscita dei loro scritti qualcosa immediatamente sia cambiato. Nessuno può dire quale sia il peso reale della Metamorfosi di Kafka oppure delle parole di Ovidio. Nessuno può dire quanto abbiano reso migliori o peggiori o indifferenti gli esseri umani.

Ma chi ha la possibilità e lo strano e drammatico privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà, quando ancora è in vita, quando ancora il suo libro è caldo, allora questo scrittore può accorgersi di quanto effettivamente il peso specifico delle sue parole stia entrando nella quotidianità, contribuendo a modificare i comportamenti delle persone. Quando questo accade ti rendi conto che il potere reale che hanno le parole è davvero infinito, ancor di più perché è un potere anarchico. Un potere che si basa sulla condivisione e sulla persuasione non è più un potere e la parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e paura. E quando questo accade, significa che qualcosa sta cambiando, che qualcosa è già cambiato, che nessuno può più permettersi di ignorare certi argomenti, di relazionarsi a certi territori e a certe logiche.

Io vengo da una terra complicata dove ogni cosa è gestita dai poteri criminali. Tutto è a loro sottoposto e tutto è loro espressione, dalla sessualità alla cronaca locale. Ed è proprio partendo dalla cronaca locale che ho voluto raccontare il mio territorio per mostrare che esiste un modo di raccontare giorno per giorno la cronaca, nelle edicole, sui giornali che poi arriveranno nei bar, che circoleranno nelle salumerie, dai barbieri, che aderisce completamente al linguaggio e alle logiche delle organizzazioni criminali.

Si dirà che sono giornali che hanno tirature molto basse e diffusione limitata a quelle zone. Ma è esattamente in quelle zone che loro devono circolare. È lì che devono comunicare, costruire opinioni e far aderire il lettore alle logiche di camorra. È lì che deve essere considerato normale che un pentito venga definito infame. Che chi muore combattendo le organizzazioni criminali venga immediatamente riportato alla sua dimensione mediocre di uomo come tutti.

Perché chi si oppone - secondo la loro ottica - non si sta opponendo al sistema di cose, si sta opponendo perché vuole guadagnare di più, perché vuole spazio maggiore. Si è pentito perché non è diventato capo. Ci sta denunciando perché non l´abbiamo fatto guadagnare, perché vuole prendere il nostro posto. Ne sta scrivendo perché non ha il fegato o le capacità per diventare uno di noi e allora fa l´anticamorrista.

L´elemento fondamentale per questi poteri è dimostrare che tutti abbiamo vizi, tutti siamo sporchi, tutti seguiamo due cose: il potere, e dunque fama e denaro, e le donne. O gli uomini, naturalmente. Segnalare che si possa non essere santi o eroi, ma uomini diversi, con tutte le contraddizioni del caso, questo, invece, dà fastidio, mette paura, perché sarebbe come ammettere che si può cambiare anche senza dover compromettere la propria vita o dover raggiungere chissà quali gradi di perfezione o sacrificio. Che non si può essere, non si deve essere soltanto marci, soltanto disposti ad accettare il compromesso.

Molti chiedono a chi si pone contro le organizzazioni criminali perché lo faccia. C´è un corridore, un atleta, un recordman dei cento metri, a cui hanno chiesto una volta perché avesse deciso di correre. E la sua risposta è la risposta che io do a me stesso e a chi ogni volta mi chiede perché mi occupi di certi temi e perché continui a vivere questa vita infernale. A questo corridore chiesero: «Ma perché corri?» E lui rispose: «Perché io corro? … perché tu ti sei fermato?».

Anche a me piace rispondere così. Quando mi chiedono perché racconto, rispondo semplicemente: «… e perché tu non racconti?».

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