"Il manifesto", 1 dicembre 2010
Citato da Salvatore Settis, "Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l´ambiente contro il degrado civile" (Einaudi, pagg. 326, euro 19). L'icona è tratta da La morte di Seneca, di Rubens.
Passione civile, consapevolezza del valore del bene comune costituito dal paesaggio, rispetto della Costituzione e delle priorità che essa stabilisce: questi sono i presupposti del recentissimo Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica di Italia Nostra, curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, vicedirettori di questo sito oltre che consiglieri nazionali dell’associazione. Sarà utile ragionare sui moltissimi spunti che ne emergono, ma voglio subito sottolinearne alcuni elementi.
Il rapporto colma un vuoto informativo e di analisi che risale almeno alla fine degli anni Ottanta: dalla legge Galasso in poi, infatti, nulla è stato fatto da chi avrebbe dovuto per verificare gli esiti di quella legge in termini di efficacia del governo del territorio; e nulla, a maggior ragione, si conosce, a quasi tre anni dall’approvazione del Codice dei beni culturali sull’efficacia del nostro sistema della tutela del paesaggio.
Esso costituisce il primo organico tentativo di uscire da questa situazione di omertà informativa. Questo obiettivo di per sè, oltre a costituire un sicuro pregio di questa iniziativa, evidenzia quella che rimane una delle tragiche carenze del nostro apparato normativo. Le leggi spesso sono eccellenti, come del resto lo stesso Codice, sotto il profilo della costruzione giuridica, ma incapace di presidiare la propria efficacia attraverso i necessari strumenti: tra questi, un sistema di monitoraggi indipendenti. A chi ricorda il passato, lo stesso avvenne per la legge dell’equo canone, che completò nel 1978 il disegno dell’intervento pubblico nel settore della casa, e che avrebbe dovuto essere sottoposto a una verifica annuale da parte del governo e del parlamento nazionali.
“Elusione” è il termine che meglio di ogni altro sintetizza la vicenda della pianificazione paesaggistica in Italia. Salvo rarissime eccezioni (il rapporto non ne enumera più di due) le regioni o non si sono dotate affatto di piani paesaggistici, oppure si sono limitate a piani a carattere prevalentemente descrittivo, rinunciando alle proprie competenze di programmazione su area vasta per demandarle ai livelli amministrativi inferiori, praticamente senza controlli. Anche quelle (Emilia Romagna, Marche, Umbria) che si erano dotate, in adeguamento alla Galasso, di una pianificazione efficace e prescrittiva, ne hanno via via “ammorbidito” l’impianto, talora fino a stravolgerlo.
Né le cose sono andate meglio per quanto riguarda l’altro attore coinvolto, lo Stato. Questo, attraverso il Ministero beni culturali, era chiamato dal Codice a un rilancio della pianificazione che, per la prima volta nella storia legislativa italiana, coinvolgeva direttamente nel governo del territorio i rappresentanti della tutela. Eppure, come il rapporto testimonia, è questo attore che sta sostanzialmente affossando l’operazione di copianificazione. Ciò accade sia per un’intrinseca debolezza politica e culturale del ministero, certamente non adeguato a svolgere i compiti cui lo chiamava il Codice, ma soprattutto perchè (come testimoniano gli ultimi documenti ufficiali richiamati nel rapporto) è stata dichiaratamente ribaltata la gerarchia costituzionale sancita dall’art. 9, che proclamava la prevalenza delle ragioni delle tutela del patrimonio culturale e del paesaggio su qualsiasi altra: ha prevalso invece il “contemperamento” di tali ragioni con quelle dello “sviluppo”, e di quel particolare “sviluppo” teso alla devastazione del territorio..
Il guaio è che su questa di elusione eversiva, i cui passaggi sono lucidamente indicati nel rapporto, Stato e regioni stanno trovando una convergenza viziosa che mina la pianificazione del paesaggio in Italia non solo nei tempi e nei metodi, ma negli stessi contenuti.
Il documento di Italia nostra non è solo una denuncia pessimistica: come affermano gli autori, indicando alcuni percorsi sui quali lavorare, “la vicenda della copianificazione paesaggistica non può essere abbandonata nel novero delle battaglie perdute”. Anche perché la devastazione raggiunge livelli incredibili. Mentre rileggo queste pagine, giungono le notizie di una vera e propria guerra in Campania. Drammatiche, ancor più delle immagini degli scontri, le dichiarazioni delle popolazioni di Terzigno e dei paesi vicini: “Essere civili non serve”. A quei cittadini che lottano per preservare il loro territorio, sconvolto anche perchè Stato ed enti locali assieme hanno, per primi, tradito l’art. 9 della Costituzione, si rivolge innanzi tutto l’appello contenuto in questo primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica: sasso di civiltà lanciato contro l’illegalità che ci governa.
Il mio compito in questa giornata è delineare un “ritratto” di Luigi Scano, l’uomo del quale ci proponiamo di utilizzare l’insegnamento e di proseguire l’azione anche utilizzando le carte che ci ha lasciato, e che mi sembra trovino la sede ideale qui, nella bella Casa della memoria e della storia dell’”Istituto veneto della storia della resistenza e della città contemporanea”, dove Mario Isnenghi e Marco Borghi, presidente e direttore dell’Iveser, li hanno accolti scongiurandone la dispersione.
Per cercare alcuni lineamenti della sua persona non affidandomi solo ai miei ricordi, ho riletto ciò che è stato detto e scritto su Gigi, dopo la sua morte, e che è raccolto in eddyburg. Parto da un pensiero di Montesquieu, che credo proprio Gigi mi abbia segnalato: «La virtù politica è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua dell'interesse pubblico agli interessi propri». Con questa frase ricordammo Gigi su eddyburg, all’indomani della sua scomparsa.
Antonio Casellati, lo stesso triste giorno, nell’esprimere la sua commozione affermava che quella di Gigi era stata «una vita per la politica intesa nel suo significato più puro, dedicata disinteressatamente alla polis come servizio laico alla comunità civile».
Anche Vezio De Lucia, nella breve orazione che la commozione gli impedì di esporre al funerale, ricordava la «sua prepotente passione politica», tradottasi nella «collaborazione alle associazioni culturali, ai movimenti, a Italia nostra, al No Mose, al comitato di Fiesole», e sottolineava come Scano fosse «disposto a ogni rinuncia, sacrificando all’interesse pubblico le proprie più elementari necessità» e commentava: «è morto povero».
Anna Renzini, nell’incontro nell’aula consiliare del Comune di Venezia dedicato al ricordo di Gigi poche settimane dopo la sua morte, riferendosi alla scomparsa dalla politica della «dimensione della scelta e dell’impegno», per ridursi alla frivolezza e all’indecenza, sospettava che «l’allontanarsi di Gigi, ma non solo di Gigi, dalla politica abbia probabilmente a che fare con qualcosa del genere». E poiché per Gigi «la politica e la vita in qualche modo coincidevano», si chiedeva «se qualcosa del genere non abbia a che fare con il progressivo allontanamento di Gigi anche dalla vita».
In ciascuno di noi c’è una dimensione che – nei casi migliori - non prevarica sulle altre, non le schiaccia e le annulla, ma le guida e ispira. Questa era per Gigi la politica.
Una dimensione politica molto distante da quella che oggi prevale. Basata, in Gigi, sulla verità, non sul successo. Sulla visione ampia, non sulla miopia. Sulla ragione, non sull’emozione. Sul sacrificio personale, non sulla gratificazione.
Era ovviamente consapevole che la politica doveva condurre a risultati concreti; di conseguenza aborriva una politica affidata ai “profeti disarmati”, ma sapeva che i compromessi necessari non possono negare i principi per i quali si combatte né appannarli. Così come sapeva che le conquiste parziali che si raggiungevano dovevano essere viste e gestite non come traguardi sui quali arrestarsi, ma come tappe in un percorso. Una visione riformatrice, potremmo dire, e non “riformista”.
Esemplare a questo proposito fu il primo “compromesso” sul quale ci incontrammo. Si trattava dell’approvazione dei cosiddetti “piani particolareggiato” della città storica di Venezia. Erano piani estremamente difettosi e pieni di errori, che peraltro si volevano a ogni costo approvare (correva l’anno 1974), perché solo con la loro approvazione si sarebbero potuti ottenere i finanziamenti della legge speciale di Venezia e avviare così il risanamento della città. Il suo partito, il PRI, era nettamente contrario, per ottime ragioni. E infatti, nel passaggio da una maggioranza di centro a una maggioranza di sinistra il PRI, che apparteneva a quest’area, si pose all’opposizione. Ma Gigi – che di quel partito era un leader e il rappresentante in Comune - lavorò tenacemente alle controdeduzioni che avrebbero dovuto concludere l’iter di quei piani e ne approvò il risultato.
In effetti non solo si era riusciti a introdurre modifiche significative, che cancellavano numerosi errori, ma si erano poste alcune premesse par la formazione di uno strumento di pianificazione più maturo ed efficace, si era cominciato a definirne criteri, metodi e strumenti.
Si era insomma iniziato il percorso della formazione di quel piano regolatore della città storica di Venezia, definitivamente approvato nel 1990, di cui a Gigi e a Edgarda Feletti spetta la parte largamente più consistente di paternità. Quel piano che fu il coronamento del pluridecennale lavoro di Gigi per la città storica di Venezia, e insieme un robusto contributo all’innovazione della pianificazione urbanistica. Ma su questo si tornerà più avanti.
L’altra dimensione che dominava negli interessi, nell’azione e nelle competenze di Gigi era del resto l’urbanistica. Credo che la passione per questo campo venisse a Gigi dalla consapevolezza dell’importanza del territorio e della sua organizzazione nella vita degli uomini e della società, dalla constatazione dei danni che al territorio e alle sue qualità apportavano le azioni sconsiderate degli uomini, dalla necessità di un governo del territorio che avesse nella pianificazione urbanistica il suo strumento essenziale.
Attenzione per il territorio, per la sua consistenza e forma fisica, la sua natura di habitat dell’uomo, in ragione della ricchezza che esso nasconde e rivela, dei rischi e i guasti che lo minacciano; e insieme attenzione per le istituzioni, per la capacità degli uomini di foggiare e utilizzare gli strumenti mediante quali il territorio e la società che lo abita vengono governati. Quindi, di nuovo, rinvio alla politica.
La sua formazione giuridica era il trait d‘union pratico tra quelle due competenze: la politica e l’urbanistica. Le regole, che il diritto aiuta a formulare, sono infatti il modo nel quale l’urbanistica diventa efficace in un mondo – quale quello che viviamo - dominato dalla dialettica tra il privatismo proprietario e l’interesse comune, nella quale il primo è divenuto di gran lunga prevalente. E la formazione e gestione delle regole sono amministrate dalla politica.
Un politico davvero singolare, Gigi Scano, se lo confrontiamo con quelli di adesso. Un politico che studia, che approfondisce le questioni nelle quali è chiamato a operare. Mi veniva di pensare a Gigi e a quelli che erano politici come lui quando, qualche giorno fa, ho letto (e ho riportato su eddyburg) questa frase di Achille Occhetto: «Quello che rimpiango più di tutto del PCI è l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare …». Altri tempi
Gigi offriva le sue competenze a chi prometteva di utilizzarle: e moltissimi sono quelli che – come amministratori o come legislatori, ai vari livelli del governo della Repubblica - le hanno utilizzate. Questa sua disponibilità al servizio pubblico gli procurò anche battute che, sebbene non gli abbiano nuociuto, lo infastidivano. Come quando Massimo Cacciari, riferendosi alla sua continua attività di sostegno culturale al governo cittadino egemonizzato da Gianni Pellicani, definiva il piccolo partito di Gigi, il PRI veneziano, «il centro studio del PCI». Come gli procurò qualche fastidio qualcuno che tentò di ostacolare la sua collaborazione a un comune col pretesto che non era laureato – come non lo erano, del resto, Benedetto Croce, Carlo Scarpa e Claudio Napoleoni, ciascuno dei quali eccellente nel suo ambito molto più di molti accademici. E devo ricordare che se non giunse alla laurea fu perché lo inducemmo (io per primo) a utilizzare la sua splendida tesi di laurea, già pronta per la discussione, per farne un libro su Venezia da “spendere”in una campagna elettorale che speravamo intelligente.
Se la politica e l’urbanistica erano i fuochi della sua azione, la sua attenzione si estendeva a numerosi campi dai quali i suoi interessi principali traevano alimento: come – oltre al diritto – la filosofia, l’economia, la storia. La storia soprattutto. Direi che la sua attenzione al territorio – il suo amore per il territorio e le città – aveva nella storia la sua radice.
Era dalla ricerca del modo in cui la collaborazione tra natura e storia aveva foggiato i beni del paesaggio, della cultura, della città che Gigi cercava di trarre le regole – e i criteri, gli indirizzi, i metodi – che consentissero di trasformare conservando.
Questo vale soprattutto (ma non esclusivamente) per gli ambiti principali della sua attenzione: la città storica e la Laguna. Per quest’ultima (di cui parlerà più diffusamente Flavio Cogo) aveva esplorato a fondo i modi tecnici, amministrativi e politici, mediante i quali la Serenissima aveva assicurato la sopravvivenza dell’equilibrio tra natura e storia che il bacino lagunare rappresenta. E si deve a lui il recupero, nella legge speciale per Venezia del 1984, ancor oggi vigente, dei famosi tre requisiti che ieri la Repubblica Serenissima (oggi, ma solo a chiacchiere, la Repubblica italiana) si impegnavano ad assicurare a ogni intervento in Laguna: sperimentalità, gradualità, reversibilità.
Per la città storica Gigi contribuì moltissimo a mettere a punto un procedimento di pianificazione che consentisse, appunto, di partire dalla lettura della formazione storica dell’edilizia veneziana (e di qualunque altra area geografica in qualche modo segnata dalla storia) per individuare regole capaci di guidare le trasformazioni lasciando intatta l’essenza del messaggio del passato: le regole capaci di consentire alla società, oggi diversa da quella di ieri, di conservare trasformando, evitando sia l’imbalsamazione delle forme sia la distruzione della memoria.
La strada che percorremmo insieme partiva – soprattutto grazie all’apporto decisivo di Gigi e di Edgarda Feletti – dall’elaborazione di una scuola di pensiero che aveva in Saverio Muratori il suo maestro, e negli studi su Venezia anche di Gianfranco Caniggia e Paolo Maretto alcuni dei suoi più rilevanti prosecutori. Era una linea di ricerca che permise di giungere, nel 1990 e nel succedersi di più d’una giunta e una maggioranza, a un piano urbanistico che avrebbe consentito di guidare e controllare le trasformazioni della città con rigore e flessibilità, solo che fosse stato gestito da una intelligente volontà politica. Questa purtroppo mancò – come del resto in tutto il paese – quando, incapaci di utilizzare le regole nelle loro potenzialità di governare con rigore e flessibilità, si preferì abbatterle.
In realtà, l’applicazione di quel metodo alle trasformazioni fisiche e funzionali dell’edilizia storica aveva un difetto notevole per i politici d’oggi: evitava la discrezionalità delle decisioni. Stabiliva con precisione quali elementi dell’edilizia storica dovevano essere conservati e quali trasformati, e a quali condizioni. Consentiva – nell’ambito delle invarianti – modifiche anche consistenti, ma non le affidava alla discrezionalità dell’ufficio o dell’assessore, poiché imponeva invece una procedura trasparente. Per la discrezionalità del politico di turno esprimeva insomma un lacciuolo del quale era meglio liberarsi. E infatti, se ne liberarono.
Al modo in cui questo avvenne rinvio, chi voglia approfondire la questione, all’ultimo ponderoso scritto di Gigi, in appendice al suo libro Venezia: Terra e acqua. Oppure allo scritto che Edgarda Feletti, impossibilitata per un improvviso malore a raggiungerci oggi, ha promesso di inviarmi, e che pubblicherò in eddyburg. Oppure ancora, per comprendere e verificare in modo ancora più compiuto, allo studio sulle carte del Fondo Luigi Scano che è depositato qui, nella Casa della memoria e della storia.
Quel piano della città storica - avviato alla fine degli anni 70, adottato nel 1990 e demolito negli anni successivi - fu la matrice (una delle matrici) di un’innovazione a mio parere di grande rilevanza nei metodi di pianificazione in Italia. Fu infatti in quel piano che iniziammo a sperimentare due innovazioni che da allora trovarono applicazione (per la verità, spesso approssimativa e a volte distorta) in molte successive applicazioni, sia legislative che amministrative. Mi riferisco alle “invarianti strutturali” e alla distinzione tra “componente strutturale” e “componente operativa” della pianificazione.
Con la prima espressione si indica il fatto che, nell’ambito delle scelte territoriali finalizzate prioritariamente alla tutela delle qualità ambientali, culturali e paesaggistiche, non si procede a un vincolo generalizzato, da superare mediante un procedimento di solito aperto al compromesso discrezionale, ma si individua con la massima precisione possibile quali elementi devono essere conservati, e quali invece possono essere trasformati e secondo quali regole.
Con la seconda espressione si stabilisce una differenza tra una componente del piano che contiene le scelte fondamentali, valide nel lungo e nel lunghissimo periodo, riguardanti le invarianti strutturali e le scelte strategiche (intendendo la strategia come il lungo periodo), mentre le seconde, che non possono contraddire le prime, ne costituiscono in qualche modo l’attuazione e l’elemento di flessibilità.
Nel ricordare Gigi Scano nei giorni immediatamente successivi alla sua scomparsa Massimo Cacciari ricordava come i temi delle battaglie di Gigi costituissero ancora problemi irrisolti per la città. Il fatto è che per ciascuno di quei temi c’era non solo l’analisi e – dove necessario – la denuncia e la protesta, ma anche la proposta. Il più delle volte le sue proposte non sono state accolte. Ecco alcuni, di quei temi.
Il rapporto tra Venezia, la Laguna, l’area intercomunale gravitante su l’una e sull’altra. Gigi (lo ricorderanno certamente Toni Casellati e Cino Casson nel loro intervento) fu tra i propugnatori della dimensione dell’area vasta come nuova entità di governo di quella che fu poi chiamata “città metropolitana”. La prima sperimentazione di un governo esteso a quest’area fu il piano comprensoriale, previsto dalla legge speciale del 1973, al quale lavorò prima con Vezio De Lucia, e poi formulando una robusta osservazione integrativa presentata dal comune di Venezia. Ma il piano non fu mai definitivamente approvato, per colpa del boicottaggio della Regione, che pure del consiglio di comprensorio faceva parte (ma ne era anche il controllore).
Quell’esperienza influì sulla più matura formulazione del problema dell’area vasta nella legge 142 del 1985, in cui fu essenziale il contributo dei parlamentari veneti Lucio Strumendo e Adriana Vigneri. Ma in nessuna regione d’Italia le “nuove ragioni” della politica consentirono di avviare la formazione delle “città metropolitane”, strumento essenziale per il governo dei fenomeni che si verificano e si controllano solo sull’area vasta (la mobilità, il consumo di suolo, l’ambiente naturale, i servizi sovralocali, la politica della casa).
Il turismo divoratore della bellezza e della società. La forma del turismo che sta divorando Venezia (come molti altri luoghi belli d’Italia e del mondo) ha rivelato la sua natura nefasta da alcuni decenni. Ed è almeno dal 1990 che Gigi fu tra quelli che avviarono un ragionamento propositivo sul tema. Fu dopo l’esperienza del tentativodi far svolgere a Venezia l’Expo 2000 - fallito grazie al movimento di quegli anni - che Gigi elaborò quel metodo che definì “governo programmato dell’offerta turistica”; un approccio al problema che avrebbe consentito non solo di contenere l’entità dei flussi turistici, ma soprattutto di indirizzarlo (con un mix sapiente di politiche nei vari settori) verso le forme di visita dalla città indirizzate a conoscerla e a goderla nelle sue qualità e nel suo insegnamento, scoraggiando quelle che si riducono a “mordere e fuggire”.
Del resto, le stesse norme di controllo delle destinazioni d’uso residenziali e commerciali del piano regolatore del 1990 erano indirizzate a tutelare le residenze e il commercio quotidiano dall’invasione barbarica del turismo mordi e fuggi. Furono le prime regole a essere smantellate.
Antonio Casellati e Cino Casson ci parleranno del ruolo di Gigi e del “suo” PRI nella politica veneziana; Vezio De Lucia ci illustrerà più ampiamente il ruolo che Gigi svolse come urbanista a livello nazionale; Alessandra Bonesini racconterà del fondo costituito dalle sue carte – il cui deposito in questa sede è la ragione primaria di questo incontro; Flavio Cogo del rapporto di Gigi con la Laguna e con i movimenti che la difendono oggi. Io vorrei concludere tornando per un attimo su quei due fuochi del lavoro di Gigi (la politica e l’urbanistica) dai quali sono partito.
Il nesso tra questi due fuochi – quelle due dimensioni – è strettissimo. Afferma Francesco Indovina che «il piano è un atto politico tecnicamente assistito»; dice Leonardo Benevolo che «l’urbanistica è una parte della politica». Ciò rende facile a chi abbia entrambe le passioni di passare dall’una all’altra: come è accaduto a Gigi, il quale è stato per molti anni essenzialmente un uomo della politica (senza mai perdere le sue competenze e capacità di urbanista) e si è dedicato in altri anni quasi esclusivamente all’attività di urbanista (senza mai perdere lo sguardo politico sulla realtà). A questo punto mi pongo due domande.
La prima: esiste un’autonomia dell’urbanista dal politico, quando queste due figure sono distinte? E se c’è, dove risiede? De Lucia, proprio parlando di Gigi, dà la sua risposta, che condivido:
«L’unica garanzia, per evitare il naufragio sugli scogli dell’eccesso di disponibilità oppure su quelli opposti della malintesa autonomia, sta nell’essere portatori e garanti di una propria concezione etica, estetica e culturale, politica, se si vuole […]. Una condizione rara […] che si realizza solo quando la committenza pubblica è animata dalle stesse concezioni dei tecnici chiamati a collaborare».
La seconda domanda, conclusiva di questo mio intervento. Se il legame tra urbanistica e politica è così stretto, che cosa fa l’urbanista quando – come oggi – la politica è in crisi, oppure quando la committenza pubblica è animata da concezioni diverse? Ed ecco la mia risposta. La politica non si riduce a quella delle formazioni politiche della Seconda Repubblica né a ciò che oggi le istituzioni sono diventate. Aver disgregato la dimensione partito, aver lasciato deperire le istituzioni, sono stati perdite gravi.
Ma la politica come dimensione della vita dell’uomo non è scomparsa. Essa (per citare una frase di don Lorenzo Milani) è là dove più persone riconoscono che i loro problemi sono anche i problemi degli altri, e s’incontrano e lavorano insieme per affrontarli e risolverli insieme.
Qui è la politica oggi, e qui Gigi l’ha incontrata di nuovo quando ha contribuito al nascere e al crescere di movimenti, associazioni, comitati – come quelli per la Laguna e per Venezia, con i quali avremmo dovuto ragionare oggi pomeriggio per comprendere meglio che cosa fare oggi, qui a Venezia, per proseguire la lotta di Gigi. Ci incontreremo con loro, per proseguire i discorsi iniziati oggi, in una prossima occasione, in questa bellissima sede.
Di seguito l’indice del saggio e il testo del terzo capitolo. In calce è scaricabile il testo integrale in formato .pdf
INDICE
1. Ieri. Nasce il “diritto alla città” nell’Italia post-fascista
Il dopoguerra
L’Italia alle soglie degli anni 60
Lotte sociali e disastri territoriali
Un biennio decisivo: 1968-1969
Quale idea di città
2. Oggi. Forma e sostanza della città del neoliberalismo
Il contesto, nel mondo e in Italia
La città del neoliberalismo
Le piazze e gli spazi pubblici
Lo spazio pubblico e la democrazia
3. Domani. Una nuova ideologia: La città come bene comune
La speranza dei movimenti
Città come bene comune
Quali soggetti nella “città globale”
Riconquistare la storia e lo spazio pubblico
Il compito dell’urbanista
3. DOMANI
UNA NUOVA IDEOLOGIA: LA CITTÀ COME BENE COMUNE
La speranza dei movimenti
Come riprendere oggi un cammino che consenta di restituire al popolo qualcosa che abbia la dignità di essere definito “diritto alla città”? E quale idea di città, esprimibile in una frase semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti di quel “diritto”? Questa è l’ultima parte – la più difficile – del mio intervento.
Partiamo dalle cose. Se si conviene che l’idea di città proposta e praticata dal neoliberismo sia insoddisfacente, che l’ideologia che la sorregge debba essere contrastata e sostituita, che per l’habitat dell’uomo (perché a questo ci riferiamo quando parliamo di “città” al di là degli esempi consegnatici dalla storia) debba essere individuato un diverso futuro, allora dobbiamo riferirci a ciò che resiste alle attuali tendenze e cerca di opporsi e di proporre delle alternative. Guardando alla società possiamo dire che il punto di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, che esprimono sofferenze individuali che però appartengono a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta). “Dentro queste nuove esperienze – ha scritto un uomo che viene dalla letteratura e dalla politica e che si è immerso nel movimento ambientalista - circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili” .
Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti. Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità. La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche. Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro. La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale. La privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.
Questi temi toccano direttamente l’esperienza di vita dei cittadini. Meno direttamente la toccano altri temi, che pure hanno sollecitato un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva. Mi riferisco al movimento che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo. Il consumo di suolo è molto esteso in Italia. Esso è considerato particolarmente grave perchè in Italia, a differenza che in altri paesi europei, le aree pianeggianti e di fondo valle (che sono quelle più interessate dalla trasformazione in cemento e asfalto) sono una porzione molto limitata del territorio nazionale, perché il territorio è ricchissimo di testimonianze storiche disperse per ogni doive, e perché sono del tutto assenti politiche governative e regionali tendenti a contrastarlo. Fino a pochi anni fa la stessa cultura accademica ignorava il fenomeno e la sua entità. Oggi, a parole, il consumo di suolo è criticato da tutti, ma solo un ampio movimento popolare ha intrapreso una lotta conseguente .
E insieme a questi temi, direttamente legati al territorio e ai beni comuni materiali, quelli dei diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.
Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana, nelle colline tra Firenze e Bologna, quando disse che aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» . É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi l’habitat dell’uomo è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione.
C’è un concetto allora, al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città (e per estensione l’intero habitat dell’uomo) sia considerato un bene comune. Ma su questa parole converrà soffermarsi.
Città come bene comune
Per comprendere il significato dell’espressione “città bene comune” è utile riflettere su ciascuna delle tre parole che la compongono.
Città
Nell’esperienza europea (ma probabilmente nell’esperienza storica di tutte le civiltà del mondo) la città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città non è un aggregato di case, è la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
Bene
Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Un bene, invece, è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Il termine “comune” presenta peraltro una possibile declinazione negativa, più esplicito nel termine derivato “comunità”. Una comunità è una figura sociale che include (i membri di quell’organismo comune) ma contemporaneamente esclude (gli altri). Né questa declinazione può essere risolta sostituendo a “comune” il termine “collettivo”. É opportuno allora precisare il termine comune” (e “comunità”) con una ulteriore precisazione. Nell’esperienza della vita contemporanea ogni persona appartiene, di fatto, a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera quotidianamente. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo, cittadino del mondo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
Quali soggetti nella “città globale”
Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.
Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.
É probabile che questo obiettivo non sia mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni. Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più.
La tendenza generale sembra infatti quella di un’accentuazione di tutti gli squilibri tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Tra i due estremi dell’opulenza e della miseria aumenta la casistica delle differenze con una forte propensione al moltiplicarsi di enclaves e recinti, ciascuno dei quali racchiude gruppi sociali diversamente dotati di accesso ai beni ma ugualmente rinchiusi nella loro incapacità di comunicare con gli altri in termini di comprensione, condivisione, cooperazione.
Essi sono però uniti da un comune destino costituito da due elementi. Da un lato, dal fatto di appartenere tutti al medesimo pianeta, le cui risorse appaiono sempre più limitate, e sono contese tra utilizzazioni alternative, dove prevalgono quelle che privatizzano e commercializzano i beni comuni. Dall’altro lato, dal fatto di appartenere a un habitat (e a un’economia) nel quale la tradizionale dimensione del “locale” è sempre più integrata da una dimensione “globale”, che lega tra loro i diversi “locali” in un sistema sempre più governato da attori lontani e irraggiungibili: da un pugno di uomini dotati di poteri invincibili.
L’habitat dell’uomo appare insomma sempre più caratterizzato dalla integrazione di differenti luoghi, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie peculiarità, i propri conflitti, ma tutti legati tra loro dall’essere funzionali a un unico processo di sfruttamento economico e a un unico sistema territoriale. Un sistema territoriale che Saskia Sassen ha definito “città globale” , del quale due elementi essenziali garantiscono la sopravvivenza e la funzionalità. Da un lato, “l’infrastruttura globale”, cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere. Dall’altro lato, i flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.
Tra gli uni e gli altri, tra gli abitanti della “infrastruttura globale” e quelli del “pianeta degli slums ”, vive e consuma la massa del “terzo strato”: di quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla cultura dei padroni, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi anche loro al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo una promozione o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione nei confronti della moltitudine dei più deboli e più sfruttati, dai quali è sempre possibile aspettare l’insorgenza.
Se questa rappresentazione della città di domani (che è già presente tra noi) è condivisibile, allora il concetto di “diritto alla città”, così com’è stato elaborato nel corso del secolo scorso, richiede oggi un impegno del tutto particolare, poiché sollecita ad affrontare la questione nel quadro della globalità che oggi la caratterizza. Oggi non è più sufficiente perseguire l’equità all’interno di una delle numerose “città”, o tipi di città, della tradizione, ma occorre cercarla nell’insieme dell’habitat dell’uomo, rompere le barriere tra i diversi strati che lo compongono la “città globale. E il tentativo di perseguire l’equità a questo livello non potrà condurre a risultati soddisfacenti se non si terrà conto, insieme a ciò che unisce, anche di ciò che divide: della grande diversità delle condizioni culturali e materiali tra le varie realtà locali che compongono il “globale”.
Non è insomma in un archetipo della vita urbana che si potranno trovare i riferimenti esclusivi di un nuovo paradigma, ma solo nell’attenta ricerca di ciò che – all’interno di tutte le storie, le culture, le tradizioni che hanno caratterizzato i popoli e i luoghi del mondo – costituisce un insegnamento da applicare per costruire, utilizzando le rovine delle vecchie, una nuova città pienamente umana.
Riconquistare la storia e lo spazio pubblico
La città della tradizione non è ancora scomparsa. Sul terreno non sono rimaste solo rovine. C’è anche vita, speranza, e quindi germi di un possibile futuro. Ne ho indicati i segni nelle tensioni sociali che nascono un po’ dappertutto per resistere alla dilapidazione del beni comuni, nelle vertenze aperte per difendere lo spazio e gli spazi pubblici che la globalizzazione neoliberista sta divorando, nei tentativi di ricostruire una nuova socialità – e una nuova politica – dal basso. É da qui bisogna partire.
Beni e valori comuni, spazi e spazio pubblico, funzioni collettive: questo è il punto di partenza segnalato da ciò che si muove nella società. Ed è questo, in definitiva, che la storia ci indica.
Se si vuole costruire un futuro diverso dal presente è dalla storia che bisogna partire. “Historia magistra vitae”, la storia è maestra della vita. Proprio per questo quei poteri che vogliono che le cose rimangano come sono hanno tentato di cancellare la storia (la consapevolezza del nostro passato, delle radici di ciò che siamo e quindi dei germi di ciò che saremo) dalla nostra memoria. Recuperare la memoria, recuperare la storia: questo è ciò che è innanzitutto necessario per contrastare chi vuole appiattire l’uomo sul suo presente, per inculcargli la convinzione che nulla è modificabile, perché tutto ciò che è stato è quello che sarà, ed è tutto già cristallizzato in un presente immodificabile.
La storia – e le lotte di oggi – ci danno un’indicazione precisa: partire dalla difesa e dalla riconquista dello spazio pubblico. In tutti i suoi aspetti. Poiché è spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico le aree destinate alle funzioni collettive, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane e la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.
Il compito dell’urbanista
Per un urbanista l’obiettivo della difesa e riconquista dello spazio pubblico pone una molteplicità d’impegni. Il primo , nella situazione di oggi, è quello della difesa del metodo e dello strumento della pianificazione in quanto tale. Senza una visione olistica e di lungo periodo del territorio e delle sue trasformazioni non è possibile realizzare una città equa e umana: non è possibile garantire un futuro nel quale il diritto alla città sia realizzato.
Non basta però una qualsiasi pianificazione. É necessaria una pianificazione che abbia come suoi obiettivi non il privilegio degli interessi immobiliari, né la crescente “valorizzazione economica” del territorio, né lo “sviluppo dell’urbanizzazione” indipendentemente dalle sue finalità, ma il benessere delle popolazioni presenti e future in termini di salute, di accesso alle risorse e a tutti i beni comuni sia naturali che storici. Una pianificazione che assuma tra i suoi compiti principali (se vogliamo contrastare ciò di più negativo oggi accade) il contrasto al consumo di suolo e delle altre risorse naturali limitate, e il soddisfacimento, nell’organizzazione della città e del territorio, delle esigenze collettive dell’abitazione, dei servizi, della mobilità in condizioni di equità per tutti gli abitanti. Una pianificazione che abbia al suo centro la ricerca dell’equità nella dotazione dei servizi , nella libertà dell’uso e dell’accesso agli spazi della vita e delle funzioni collettive indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, economiche, della razionalità nella disposizione delle cose sul territorio, della bellezza nella definizione dei nuovi paesaggi e nella conservazione di quelli esistenti.
Si tratta allora per gli urbanisti – almeno in Italia - di cambiare molto rispetto alle attuali tendenze culturali. Più che tecnici al servizio degli interessi attuali e futuri della maggioranza della popolazione gli urbanisti sono oggi ridotti alla condizione di “facilitatori” degli interessi immobiliari, di “negoziatori” tra le aspettative dei proprietari e utilizzatori di aree da “sviluppare” con l’urbanizzazione indipendentemente dalle priorità sociali, di operatori abili a “perequare” gli interessi dei proprietari immobiliari e del tutto indifferenti alle ben più gravi sperequazioni tra persone, gruppi sociali e classi che abitano la città.
Ma pianificazione significa anche partecipazione dei cittadini al governo del territorio, alle decisioni che concorrono a realizzare le condizioni della vita futura. Perciò lavorare in questa direzione significa anche impegnarsi nel tentativo di espandere le democrazia (la capacità e possibilità di tutti di concorrere alla costruzione del bene comune) al di là dei limiti della democrazia rappresentativa e dell’istituto della delega permanente. Significa allora dare a tutti la possibilità concreta di essere liberi di partecipare alla vita pubblica, rendendo indipendente la libertà dalla proprietà . Significa perciò anche costruire una nuova economia, nella quale il lavoro non sia alienazione (nel senso di ordinamento ad altro da sé) e riduzione dell’attività dell’uomo a merce, ma sia “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” . Ma qui si apre un discorso che andrebbe ben al di là del tema di questo contributo, e di questo stesso fascicolo.
Non conoscevo Giorgio Todde quando Renato Soru mi chiese di far parte del comitato scientifico per il piano paesaggistico regionale. Mi colpì molto il clima che respirai già al primo incontro. Oltre ai miei amici urbanisti c’era un gruppo di persone che esprimeva altri saperi e altri punti di vista sulla Sardegna: l’antropologo Giulio Angioni, il botanico Ignazio Camarda, il naturalista Helmut Schenk, l’archeologo Raimondo Zucca e lo scrittore Giorgio Todde. Avevano un pensiero in comune, che fu espresso da Renato Soru con parole che ancora ricordo:
«Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. La “valorizzazione” non ci interessa affatto. Il primo principio è: non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati: abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano; abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo resi fantasmi i villaggi vivi».
Parole che mi colpirono. Erano il frutto di una cultura fondata sulla consapevolezza dello spessore e del valore della propria storia e del proprio territorio. Di quella cultura Giorgio Todde è apparso ai miei occhi l’espressione più limpida, quando, stimolato dall’urbanista Filippo Ciccone, cominciai a leggere i suoi pezzi fulminanti su la Nuova Sardegna. Eccoli qui raccolti in un libro, aperto da una stimolante introduzione dell’autoree concluso dal racconto dell’Affaire Tuvixeddu: documenti impervi (tra i quali Todde aiuta a districarsi) d’un conflitto che è la metafora delle vicende dalle quali è tessuta la storia contemporanea dei “paesaggi rinnegati”.
Il conflitto nel quale vive la bellissima Isola (e la Penisola di cui è regione) potrebbe apparire a prima vista quello tra passato e futuro, tra conservazione e trasformazione, tra nostalgia e speranza. Todde rivela subito come stano le cose per lui. Il movente della sua scrittura è il dolore per una condizione molto concreta: noi siamo lo spazio che occupiamo, «e se lo spazio nel quale ci muoviamo si ammala, ci ammaliamo anche noi». Il dolore «non nasce da una nostalgia lacrimosa del “come eravamo” senza azioni e pensiero conseguenti […] ma dalla rabbia e dal dispetto per ciò che abbiamo perduto e dall’angoscia di perdere il bello che ci resta». Nasce dalla consapevolezza piena del valore delle qualità di bellezza, armonia, equilibrio che natura e storia hanno costruito nei millenni in quei paesaggi, e dall’acuta percezione del danno che il prevalere di logiche diverse hanno imposto con le loro trasformazioni.
«Non abbiamo nostalgia del pozzo nero o dell’asinello in cucina. No. É che per costruire in cesso in casa abbiamo distrutto la casa», dice Todde riprendendo le parole che pronunziava «nei primi anni sessanta il vecchio capomastro di un paesino mentre demoliva una bella e grande abitazione di paglia e fango per erigerne un’altra di “blocchetti”. E per non avere l’asino in cucina abbiamo abolito anche gli asini». Altri asini sono subentrati e altri cessi più grandi e diffusi hanno costruito, ma su questo torneremo.
Ci sono parole che ritornano nelle pagine del libro. Sassolini in un percorso nel bosco. La prima è bellezza. É la bellezza del creato, la natura intatta, il segno del divino nella forma del territorio (nei suoi colori, i suoi suoni e i suoi silenzi), il primo e primordiale dei beni che all’uomo sono concessi nell’Isola. Anzi, erano concessi, prima che gli alieni la colonizzassero. Prima che fosse travolta e cancellata quella «filosofia del costruire» che esisteva nell’isola, grazie alla quale «i paesi erano in equilibrio con la terra, erano costruiti con i materiali della terra su cui sorgevano e perciò assomigliavano alla terra, ne riproducevano i colori e perfino l’odore».
A quella filosofia un’altra si è sostituita: quella che Todde definisce sviluppismo (ecco un’altra parola chiave). Lo sviluppismo è «una forma malata dello sviluppo economico», «una forma degenerativa della modernizzazione», la «frangia guasta dello sviluppo». Utilizza speciali operatori, che a un certo punto della storia dell’Isola «sono apparsi in giacca e cravatta: gli sviluppisti». Per essi, «le due parole “intatto” e “arretrato” significano la stessa cosa. Ciò che è intatto è superato, vecchio. Per loro la civilizzazione consiste nel consumare il creato immacolato che è solo uno strumento della crescita, la loro».
La sviluppite è una malattia contagiosa: un’epidemia. E come molte malattie «è democratica e non fa distinzioni. Così colpisce maschi e femmine, ricchi e poveri, individui di destra e di sinistra senza dimenticare quelli di centro».
Todde ama in modo particolarmente intenso la sua isola. Questo lo induce a compiere qualche errore. Sostiene che «ogni società ha un suo sviluppismo endemico più o meno silente» e attribuisce solo alla Sardegna «uno sviluppismo maligno: una forma di autolesionismo grave che arriva alla svendita di sé e del proprio mondo». Non è così purtroppo. Lo sviluppismo maligno un male che sta soffocando l’Italia, che ha invaso ogni regione e ogni città e paese perché ha invaso – prima dei territori – le teste degli italiani. Se c’è anzi una particolarità della Sardegna è che qui la peste dello sviluppismo, e la constatazione dei danni che esso provoca, ha generato una reazione più forte che in altre parti d’Italia. Se è vero che dall’iniziativa di un gruppo di persone che sapevano alzare i propri occhi dall’orrendo pasto che gli alieni stavano compiendo sulle loro coste ha potuto iniziare, con Renato Soru, una riscossa, e produrre quella politica di salvaguardia delle coste (le più minacciate e corrose) che doveva, e dovrà, estendersi all’intero territorio isolano.
La parola sviluppismo si collega ad altre due sulle quali è utile richiamare l’attenzione: valorizzazione e metro cubismo.
La valorizzazione, sostiene Todde, ha un effetto distruttivo, perché consiste «nel togliere il sangue al territorio sino a renderlo esausto e privo di ogni valore». Come tante altre parole, anche “valorizzazione” è stata deformata e piegata, dal suo significato originario e utilizzata a un unico fine: quello economico. Poiché valore, in sé, è una parola ricchissima di significati: esprime l’insieme delle qualità positive di un soggetto o un oggetto. Hanno valore l’amicizia e l’amore, ha valore la nostra storia e il nostro futuro di esseri umani, ha valore il sacrificarsi per qualcosa in cui si crede e per qualcuno che si ama, hanno valore la poesia e la pittura come espressione della propria anima e comunicazione dei propri sentimenti.
Valorizzare significa dunque mettere in luce l’uno o l’altro di questi “valori”. Oggi significa invece unicamente “attribuire valore economico a qualcosa”, cioè trasformare in merce (ossia qualcosa di fungibile, scambiabile, monetizzabile, distruggibile per farne un’altra merce) un bene (ossia qualcosa che ha un valore di per sé, per l’uso che ne può fare l’uomo). Il fatto è che dalla testa degli economisti, e dal funzionamento del sistema economico-sociale, è scomparso il valor d’uso, che vorrebbe esprimere l’utilità di un bene per il soggetto che lo adopera, e tutto si è ridotto al valore di scambio.
Il territorio può essere ridotto a “merce” (da quel “bene” che è) mediante l’operazione implicita nell’altra delle due parole tra loro connesse: metrocubismo. Il metrocubo di cemento e mattoni, il volume edilizio è infatti l’unico valore che l’ideologia corrente riconosce al territorio. Altro che paesaggio, che intreccio di storia e natura, altro che identità e bellezza, ciò che conta è attribuirgli una capacità edificatoria. Si arriva al punto di parlare di “vocazione edificatoria” del suolo, come che la crosta del nostro pianeta avesse come destino intrinsecamente legato alla sua essenza quello di essere maneggiato dai cementifica tori, dagli “operatori immobiliari”.
Già, ecco apparire i colpevoli della valorizzazione metro cubica. Gli “operatori immobiliari”, quelli che stanno seppellendo sotto la “repellente crosta di cemento e asfalto”, direbbe Antonio Cederna, gran parte delle coste intatte della Sardegna prima della “legge salva coste” di Soru e, ancora oggi, i luoghi più belli e sacri, patrimoni storici tramandati nei secoli: come il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, amorosamente difeso e rigorosamente documentato nelle tappe della sua vicenda negli scritti raccolti alla fine del libro.
Alle parole del disastro non può mancare la parola turismo. Riecheggia spesso nelle pagine del libro. Il turista, generalmente visibile in branchi, è un agente della distruzione ma ne è anche la l’alibi e la vittima. É il veicolo della nuova identità finta che si sostituisce a quella vera: è fatta di plastica, non di pietre e di sangue. Il suo habitat è rappresentato dall’hotel Cala di Volpe; un monumento che ancora pochi riescono a individuare come il più ributtante degli ecomostri. «Il ponticello irreale, il canale veneziano, le acque ferme, lo stile falso “rustico”, la patina di “anticatura”, il prato e molte altre caratteristiche costruttive, grandi e minuscole», ecco alcuni degli elementi che fanno di Cala di Volpe una testimonianza utile. «Cala di Volpe è un “falso naturale”, una simulazione. E la sua artificialità ne fa un luogo simbolico della finzione. Rappresenta bene la vicenda melanconica di una nuova Disneyland». Cala di Volpe rappresenta splendidamente la mostruosa idea di bellezza “ispirata” al passato che domina nel mondo degli “uomini impagliati” e li induce a cancellare la natura sotto una coltre di camere d’albergo e di annessi.
Come hanno fatto i cementificatori dell’immobiliarismo a sbarcare sulle coste dell’Isola, ad arrampicarsi sui suoi costoni, a far scempio degli antichi paesaggi trasformando la ricchezza della natura e della storia in soldi da esportare nelle loro banche? I traditori stavano dentro le mura. Chi ha aperto le porte ai barbari sono stati quelli che avrebbero dovuto, per loro missione, capeggiare i difensori assediati. Gli accenti più feroci (e al tempo stesso più addolorati) Todde li rivolge ai sindaci.
«Nei nostri comuni con vista sul mare si moltiplicano piccoli sindaci manager. Se il sindaco di un paese concupito dai costruttori è, oppure è stato lui stesso costruttore, allora quel sindaco è in una condizione di conflitto. Diventa un sindaco ossimoro, un ossimoro che governa e contiene in sé due princìpi opposti. Deve, questo sindaco d’impresa, decidere cosa è meglio per il proprio paese. Però sentirà il richiamo della propria visione metrocubica del mondo. Se le cose stanno così, c’è poco da fare. E difatti «molti angoli della nostra isola non riescono più a proteggersi anche perché alcuni suoi borgomastri sviluppisti considerano l’attività politica molto simile a quella immobiliare, e le confondono. Tutt’e due attività lecite, s’intende. Lecite ma in conflitto».
Esemplare di ciò che è accaduto è un paese che rappresenta tutta la Sardegna dei paesaggi rinnegati: San Teodoro, sulla costa orientale, poco più a nord dell’ancora intatta Orosei. «San Teodoro, dati del 2001, era composto da 1260 famiglie e in un territorio piccolo possedeva 9587 case. Otto case circa per famiglia. Un mostro venuto su negli anni ’90. E in dieci anni abbiamo perso San Teodoro che non era solo dei santeodorini i quali hanno scelto di affogare se stessi, ma anche noi, nel cemento».
Insieme ai sindaci, i tecnici. Spesso coincidono. A San Teodoro, ad esempio, «il sindaco è geometra. Su quattro assessori che compongono la Giunta due sono geometri. Il candidato sindaco sconfitto alle elezioni di cinque anni fa era anche lui un geometra. Nel Consiglio comunale di San Teodoro, composto da quindici consiglieri, sedevano tre geometri. Nessuno che abbia alleggerito il carico di metri cubi sul sistema delle acque, anzi». Con i geometri, gli architetti, che troppo spesso «hanno prodotto segni che hanno contaminato la costa e lo hanno fatto con violenza e presunzione. Hanno ripetuto tardivamente errori già fatti nel costruire in natura. Hanno alterato il paesaggio nei suoi aspetti più fragili e sacri, hanno svillaneggiato il genio del luogo. Con l’aggravante che deriva dall’essere dotati di intelletto e sensibilità sufficienti per capire che l’unica soluzione per quei luoghi era il non fare».
Sviluppismo, valorizzazione, metricubi, turismo, sindaci: il disastro è fatto.
«Se il sindaco sviluppista di Olbia, quello di Teulada che conta nel suo astrolabio le stelle dei futuri alberghi, il sindaco edile di San Teodoro, quello di Arbus e della sua costa rosticceria, quello di Palau che, travolto dai metri cubi, murerà perfino se stesso, se il sindaco di Villasimius perso in un labirinto di mattoni, o se i nostri sindaci d’impresa utilizzano la parola “valore” allora la terra trema, la costa e le rive tremano e si sentono perdute. Addio pace e innocenza».
Tuttavia il male è più profondo, viene dalla società: «i sindaci sono scelti democraticamente e rappresentano, come un calco in gesso, le società che li esprimono e che, si vede, volevano proprio un governo dell’edilizia». Il punto è proprio questo. Viviamo in una società malata. Una società nella quale, secondo un percorso in atto da qualche secolo, l’io ha prevalso sul noi e lo ha schiacciato, il presente ha cancellato il futuro e il passato. Ciò che ha senso se vissuto come patrimonio di tutti (qualcosa di cui godere ma da tramandare ai posteri, così come lo si è ricevuto dagli avi) viene sistematicamente ridotto a merce: appropriato, recintato, iscritto al catasto come mio, soggetto alla mia jus utendi et abutendi.
É inevitabile che il territorio rappresenti questa sconfitta. É allora necessario che diventi anche il luogo nel quale si tenta la rivincita. Questa è possibile unicamente se qualcuno si rifiuta di entrare nel cerchio degli uomini impagliati, descritti da Thomas E. Eliot:
Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano l'un l'altro
La testa piena di paglia. Ahimè!
Le nostre voci secche, quando noi
Insieme mormoriamo
Sono quiete e senza senso
Come vento nell'erba rinsecchita
O come zampe di topo sopra vetri infranti
Nella nostra arida cantina.
Il libro di Giorgio Todde è rivolto a questi uomini, agli uomini (maschi e femmine) che abbiano resistito agli impagliatori di teste e vogliono restare lucidi per poter conservare la bellezza. Questi uomini stanno combattendo ancora. Un terreno di lotta è quella di cui parla l’ultima parte del libro, la vicenda del colle di Tuvixeddu-Tuvomannu. La grande necropoli dei fenici, dei punici e dei romani, inglobata nello sviluppo edilizio di Cagliari, è la metafora del conflitto tra chi vuole difendere ciò che vale e chi vuole impossessarsi dei patrimoni comuni per trasformarli in moneta. Un conflitto che è in corso in tutta l’Isola (e in tutt’Italia), ma qui emana un particolare sgradevole odore.
É una vicenda nella quale emergono, con forza scandalosa, l’incapacità della cultura accademica a comprendere e a contrastare i delitti contro il bene di tutti, la complicità del potere politico nei confronti degli interessi economici legati al mattone, la trepida acquiescenza di quegli stessi servitori pubblici cui la collettività ha assegnato il compito di difendere l’interesse generale.
Componenti rilevanti della cultura, della politica locale e dell’amministrazione statale hanno infatti dimostrato (le carte raccolte da Todde lo testimoniano) di voler favorire a ogni costo, anche a costo della menzogna, chi voleva distruggere storia e bellezza per costruire la propria ricchezza. Quando hanno voluto sembrare neutrali hanno scelto di patteggiare con chi voleva guastare irrimediabilmente quel monumento in un grande condominio edilizio anche quando era possibile vincere. Quando hanno rinunciato all’ipocrisia hanno brindato con l’autore della distruzione.
Fortunatamente è anche da quei medesimi corpi (la cultura, la politica, l’amministrazione pubblica) che sono nate le reazioni allo scempio: la sua denuncia, l’azione di vincolo, la resistenza nei fori del diritto e in quelli dell’opinione pubblica. É grazie a questa resistenza che possiamo parlare, ancora oggi, di un conflitto e non una guerra perduta. É ancora possibile salvare quel colle e farlo rinascere.
La vicenda di Tuvixeddu-Tuvumanno mi ricorda quella dell’Appia antica a Roma. Lì un vasto comprensorio, ricco di tombe, stadi e mausolei, ville e terme veniva dissipato giorno per giorno per effetto d’una strisciante privatizzazione, seguendo le classiche tappe della recinzione e dell’edificazione. La denuncia appassionata d’un archeologo divenuto urbanista, Antonio Cederna, raccolta da un’opinione pubblica vigile (anche lì, come a Tuvixeddu, c’era Italia Nostra), provocò la correzione di un piano regolatore ambiguo e permissivo da parte di un ministro avveduto, Giacomo Mancini. Fu apposto un vincolo, fu allertato l’interesse degli organismi della tutela, fu avviata la costituzione di un parco, furono cancellate le proposte d’infrastrutture che avrebbero snaturato il paesaggio.
La cultura urbanistica proseguì il ragionamento su quel patrimonio. Ne mise in evidenza la continuità con aree preziose che legavano quel comprensorio al centro della città, all’area dei Fori. Seppe proporre soluzioni intelligenti e ardite. Un sindaco intelligente e coraggioso, Luigi Petroselli, le raccolse. Ne nacque un grande progetto, che avrebbe condotto a ricostruire – più ancora che la forma – il funzionamento della città attorno a quei preziosi patrimoni dell’umanità. Il percorso era idealmente compiuto: dalla denuncia si arrivò al vincolo, dal vincolo si giunse al progetto di città. Poi i tempi cambiarono. Il progetto è rimasto fermo (con esso, fortunatamente, il vincolo), ma l’insegnamento è vivo, come la speranza.
Il percorso completo dovrebbe portare dalla denuncia di una manomissione alla realizzazione di un progetto che ponga in primo piano la riscoperta e il godimento rispettoso di un paesaggio che si vorrebbe distruggere. I passaggi necessari sono quelli del vincolo sul bene e del progetto urbanistico, dove per urbanistico non si intende solo il disegno della conformazione fisica, ma anche l’insieme delle scelte che determinano il ruolo del bene protetto nei confronti della città e del territorio, e della società che li abita della sua fruizione.
Io credo che è in questa direzione che il lavoro iniziato da Giorgio Todde con questo suo libro dovrebbe continuare. Se volessi proseguire la lettura de Il Noce ragionando sulle parole che indicano cose positive, oltre a “intatto” e “bellezza” ne troverei altre due: “conservazione” e “vincolo”.
Sono due parole decisive per chi soffre a causa di ciò vede quotidianamente: la distruzione di tutto ciò che vale in nome d’un solo “valore”, gli affari, la ricchezza individuale espressa in termini di moneta (l’unica “merce” che non è un “bene”: che non ha valore di per sé, ma solo per il potere che può procurare).
Ma la difesa di quello che c’è in nome del divieto di ogni trasformazione è un argine che non tiene a lungo. La trasformazione fa parte della vita. E per millenni si è trasformato il mondo migliorandolo (non sempre, ma spesso). E il paesaggio quale oggi lo ammiriamo e ne godiamo è il prodotto dell’applicazione del lavoro e della cultura dell’uomo alla natura: è il prodotto della collaborazione tra natura e storia (Emilio Sereni e Piero Bevilacqua sono due degli autori che a molti hanno insegnato parecchio a questo proposito.
Allora il problema non è quello di affermare “qui si conserva tutto quello che c’è”, “qui nessuna trasformazione è consentita”. E non è neppure quello di individuare alcune aree nelle quale quelle due parole, conservazione e vincolo, devono essere le uniche che valgono, recintarle e abbandonare tutto il testo alla trasformazione scriteriata. ma di seguire un percorso più difficile ma più efficace. La soluzione ragionevole, al tempo stesso tutelatrice ed efficace, è quella che la cultura italiana aveva individuato al tempo della “legge Galasso”.
Tutto il territorio è intriso di qualità: naturali, storiche, culturali. Queste qualità sono il prodotto della collaborazione tra natura e storia. In ogni brandello del territorio ci sono elementi da conservare ed elementi suscettibili (o bisognosi) d’essere trasformati. Anche un bosco richiede l’abbattimento di certi suoi alberi e il diradamento di certe sue essenze, e anche la necropoli richiede la manutenzione dei suoi elementi (quindi la trasformazione di ciò che gli eventi del tempo, se lasciati soli, provocherebbero). Anche l’edilizia storica, per rimanere viva, richiede trasformazioni, che siano però coerenti con le regole che hanno guidato nei secoli la sua formazione e le sue trasformazioni organiche.
Una cosa è importante stabilire senza equivoci. Le esigenze della tutela delle qualità (naturali, storiche, culturali) di ogni porzione di territorio hanno la priorità – in termini di valori, in termini di utilizzazioni, in termini di tempo – rispetto a ogni trasformazione. E finché regole saggiamente elaborate e rigorosamente amministrate non rendono possibile raggiungere questo status, difendiamo la conservazione anche generale (e generica), difendiamo il vincolo.
Su questa linea, del resto, è stato elaborato il piano paesaggistico della Sardegna. E su questa linea, sulla base di questi principi dovrebbe lavorare una pianificazione della città e del territorio che sappia cogliere l’insegnamento delle migliori esperienze del passato. Dato il mestiere che faccio, vorrei dire anzi che questo è il terreno proprio dell’urbanistica. Se questo mestiere è diventato oggi, troppo spesso, lo strumento di chi vuole trasformare per cancellare quello che c’è e ridurlo a moneta sonante nelle sue tasche, è perché altrettanto spesso i suoi operatori hanno rinunciato allo spirito critico – che è la premessa di ogni lavoro intellettuale – e hanno subito le volontà di una committenza (i sindaci, quando non addirittura gli operatori immobiliari) orientata alla difesa di interessi privati in contrasto con l‘interesse comune. L’interesse della “comunità larga”, costituita da quanti sono oggi presenti nel pianeta Terra, e da quanti lo saranno in futuro.
TITOLO SU LA Repubblica online, 4 dicembre 2010
Nel loro soggiorno Bob e Mary stanno sorseggiando il loro tea, davanti al caminetto elettrico. Bob legge il giornale, Mary sferruzza, seguendo il filo di un pensiero che le fa increspare la fronte.
“Bob, ascoltami un momento…
“Si, cara – dice Bob abbassando il giornale.
“Vorrei parlarti un po’ del nostro Tom…
“Si, cara, capisco. Dimmi pure.
“Sai, Bob, Tom sta crescendo, ormai ha diciassette anni…
“Lo so bene, cara, ha compiuto diciassette anni proprio un paio di mesi fa.
“Ecco, sai, penso proprio che dovrebbe conoscere i fatti della vita: sai, come si nasce, perchè si nasce, che cosa vuol dire fare l’amore, gli uomini e le donne e i loro rapporti e così via…
“Si, cara, hai proprio ragione!
“Ma vedi, lui è così sensibile, timido, fragile. Bisognerebbe spiegarglielo con molta delicatezza. Per esempio, parlandogli della natura… Pensi che saresti capace di farlo?
“Hmm, si cara, penso che posso provarci.
“Oh grazie Bob, mi togli proprio una grande preoccupazione. Ma mi raccomando la delicatezza. Ecco, potresti parlargli con un linguaggio poetico. Che so, parlargli dei fiori, delle farfalle, delle api… sai che voglio dire.
“Si cara, capisco. Gli parlerò proprio così.
Passa qualche giorno. E’ sabato, il sole splende in un cielo azzurro solcato da qualche leggera nuvola, l’aria è tiepida. Bob esce percomprare i giornali, il cedro candito per il plumcake e le sigarette, chiede a Tom di accompagnarlo per fare due passi al sole.
“Bella giornata di sole, vero Tom?
“Si papà, proprio una bella giornata.
“Mi ricorda quelle belle giornate d’estate dell’anno scorso, quando tu ed io siamo andati in vacanza da François in Normandia. Ti ricordi?
“Si, papa, certo, quel tuo vecchio commilitone nella fattoria. Si stava proprio bene.
“Ecco, ricordi Tom che belle passeggiate facevamo, tra i prati e i boschi, tra fiori, api e farfalle?
“Si, papa, ricordo benissimo.
“Ricordi anche le due nipoti di François, Marlène e Michelle?
“Certo, papa, non potrei proprio dimenticarle.
“E ricordi che cosa facevamo con loro?
“Certamente. Era così bello!
“Ecco, figlio mio. Tua mamma vorrebbe che tu sapessi che anche le farfalle fanno la stessa cosa.
cit. da Salvatore Settis, la Repubblica, 11 novembre 2010
É una reazione che non nasce solo dal mondo degli apologeti del sistema dato come il migliore possibile, né da quello dei rassegnati all’esistente perché there is no alternatives, ma trova spazio anche tra quanti non sono succubi del sistema capitalistico. É il caso, ad esempio, della recente critica di Rossana Rossanda a una ragionevole proposta avanzata da Guido Viale alla crisi dell’automobile.
Ed è una reazione che è anche un indicatore delle difficoltà che incontra chi ritiene che una risposta adeguata al presente modello di sviluppo potrà aversi unicamente se si costituisce un’alleanza tra i gruppi sociali che sono più direttamente minacciati dalla sua egemonia, Nel Nord del mondo, a cominciare da quelli che soffrono e protestano per le condizioni delle risorse naturali, dei patrimoni culturali, delle conquiste sociali raggiunte negli anni del welfare, e quanti hanno perduto o rischiano di perdere la base stessa della loro esistenza sociale: il lavoro.
Credo che sia necessario affrontare il tema del lavoro in tutta la sua ampiezza, per comprendere non solo le ragioni per cui la difesa del lavoro è essenziale, ma anche quali sono le alternative possibili all’uso che attualmente il sistema economico ne fa. Per avviare una riflessione su questi temi conviene partire da un’affermazione di Nichi Vendola. Egli ha recentemente ricordato che, se «essere radicali significa andare alla radice delle cose, alla radice di ogni cosa c’è l’essere umano». Di ogni cosa, anche del lavoro.
Ecco allora la domanda: il lavoro è necessario all’uomo solo perché riceve in cambio una retribuzione che gli consente di sopravvivere e vivere, oppure il significato del lavoro, la sua utilità e necessità per l’uomo (e per la società) ha un’altra e più profonda (più radicale) ragione? Perché se così fosse, se il lavoro ha un significato per l’uomo al di là della sua attuale dimensione economica, allora si dovrebbe dire che il lavoro viene prima dell’economia, ed è l’economia che deve adeguarsi al fatto che il lavoro dell’uomo (di tutti gli uomini) è una realtà indispensabile allo sviluppo della ciiviltà umana: allo “sviluppo” vero, non solo a quello oggi socialmente riconosciuto come necessario al sistema, cioè asservito alla produzione di merci.
Un po’ di teoria...
Il lavoro non è solo il mezzo mediante il quale, in una società complessa, l’uomo ottiene un reddito idoneo a soddisfare la esigenze al livello storicamente dato. Esso è «per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (C. Napoleoni 1980, p.4 segg.). Esso peraltro, per poter essere erogato e socialmente utilizzato, ha bisogno di un riconoscimento di utilità sociale al quale corrisponda l’assegnazione al lavoratore di una quota di reddito commisurata alle sue esigenze.
Un mondo nel quale il lavoro venga reso inutile o impossibile è un mondo nel quale la civiltà è destinata a spegnersi. Eppure, tale è un mondo abbandonato al dominio dell’economia data, cioè ai meccanismi di produzione e consumo propri del capitalismo, ai connessi dispositivi proprietari, giuridici e ideologici. Non posso in questa sede argomentare adeguatamente questa affermazione; provo a farlo appena un po’ più ampiamente nel mio libro Memorie di un urbanista, al quale rinvio (E. Salzano, 2010, p. 26 segg). Sono convinto che è a partire da essa che si può dimostrare: 1) che il lavoro è un bene comune indispensabile per il progresso dell’umanità; 2) che occorre fondare un’economia, diversa da quella capitalistica, nella quale ogni tipo di produzione dei valore d’uso abbia un’adeguata remunerazione, e tutte le capacità lavorative siano impiegate con pienezza. Sono anche convinto che un simile orizzonte non è dietro l’angolo, e che il suo raggiungimento esige l’impiego di tutte le risorse disponibili: da quelle della riflessione e dello studio dell’insieme dei saperi necessari, a quelle sperimentazione delle forme di produzione e consumo che l’umana fantasia può escogitare.
Lasciando aperti problemi di preoccupante spessore vorrei arrivare a sostenere una proposta concreta e positiva che da varie parti è emersa, con particolare evidenza dopo il dibattito suscitato dalla decisione della Fiat di modificare sostanzialmente le condizioni di lavoro a Pomigliano d’Arco, e dalla conseguente resistenza a tali modifiche opposta da una parte consistente del mondo operaio.
…e un po’ di storia
Non è detto che l’economia debba comandare sulla politica. Non è detto che sia l’economia (le sue regole, i suoi decisori, i suoi strumenti) a stabilire per che cosa il lavoro debba essere impiegato. Meno che meno la scelta può essere affidata al “mercato”. Questo e infatti divenuto uno strumento che solo gli sciocchi o gli imbroglioni possono spacciare come il luogo dove si manifesta la “sovranità del consumatore”; dimenticando che viviamo orma in un mondo in cui le scelte di consumo sono la conseguenza di un possente meccanismo di coartazione fatto di ideologia, di propaganda, di induzione compiuto - con i mezzi più sofisticati - dai padroni e gestori della produzione.
Basta sollevarsi dall’ottica di un Marchionne a quella che dovrebbe essere propria di un uomo pensoso del bene comune (di un “cittadino governante”) per comprendere qual è oggi il lavoro necessario in Italia. Partiamo da qui per ragionare: non domandiamoci come bisogna fare per consentire alla Fiat di produrre automobili sempre più inutili e dannose, e neppure predichiamo l’inevitabilità che la fabbrica italiana di automobili chiuda. Domandiamoci invece quale possa essere l’incontro virtuoso tra la capacità produttiva dei lavoratori impiegati nei diversi settori della produzione materiale e immateriale, e la soluzione dei problemi reali (non quelli degli investitori, ma quelli dei cittadini) che si pongono oggi nel nostro paese.
Chi conosce un po’ la nostra storia, o l’ha vissuta, ricorderà un precedente significativo: l’iniziativa di proporre ai partiti e al governo un Piano del lavoro, avanzata nel 1949 dalla Cgil, allora guidata da Giuseppe Di Vittorio. Era un programma orientato a raggiungere due obiettivi convergenti: da un lato, dare una risposta alla forte offerta di lavoro manifestatasi nell’immediato dopoguerra, per effetto sia degli eventi bellici che dalla profonda miseria presente in molte zone del paese; dall’altro lato, affrontare alcuni problemi allora emergenti con un impiego mirato di tutte le risorse disponibili.
Si trattava di tre grandi progetti: «la nazionalizzazione dell’industria elettrica e la costruzione di nuove centrali e bacini idroelettrici […]; l’avvio di un programma di bonifica e irrigazione di vasti terreni;[…] un piano edilizio immediato a carattere nazionale per far fronte alla drammatica carenza di case, scuole e ospedali» (P. Ginsborg 1989, p. 283). Il finanziamento avrebbe dovuto avvenire «attraverso una tassazione fortemente progressiva, ma Di Vittorio annunciò che anche la classe operaia sarebbe stata pronta a nuovi sacrifici se il piano fosse stato accettato» (ibidem).
Il governo non accettò. Lo sviluppo dell’economia e la ristrutturazione del paese scelsero altre strade: edilizia a go go, autostrade, automobili e altri beni di consumo individuale durevoli, abbandono non governato dell’agricoltura e della cura del territorio. Si accumularono le cause dei danni e dei disagi dei nostri giorni. E forse è proprio dalla riparazione dei danni provocati dal non aver accettato allora il piano del lavoro della Cgil che si può partire per trovare una sintesi tra la difesa del lavoro e quella degli altri beni comuni.
Un nuovo “Piano del lavoro”
Su quattro grandi progetti sembra necessario oggi investire il massimo possibile di lavoro: (1) una nuova organizzazione della mobilità che sia sostenibile, efficiente, amichevole, equa e che si ponga l’obiettivo di ridurre la domanda di mobilità mediante una corretta localizzazione delle funzioni sul territorio e la promozione delle “filiere corte”; (2) nell’ambito di una decisa riduzione degli scarti del consumo e della dipendenza dall’energia, l’utilizzazione delle energie alternative con modalità, tecnologie e localizzazioni non configgenti con la tutela delle risorse e dei patrimoni comuni; (3) un risarcimento del territorio che lo riscatti dall’attuale degrado delle risorse fisiche e culturali che in esso storia e natura hanno investito, gli restituisca bellezza, sicurezza, fruibilità, elimini i generatori di rischio, di degrado e d’inquinamento, avvii un’opera di manutenzione sistematica e ordinaria; (4) un programma che si ponga l’obiettivo di garantire una residenza (abitazione più servizi) a tutti gli abitanti a condizioni adeguate alle loro necessità di vita e al loro reddito, mediante il recupero e la rigenerazione sociale del vastissimo stock edilizio accumulato.
Si tratta di progetti strettamente connessi tra loro, che singolarmente riecheggiano i temi del Piano del lavoro di Di Vittorio. Non a caso i problemi di allora (il lavoro, la casa, il territorio agricolo, l’energia) sono rimasti gli stessi. Oggi sono certamente, modificati nelle loro caratteristiche, ma spesso resi più gravi per le scelte allora compiute: in primo luogo per quella di privilegiare la spontaneità delle azioni, l’individualismo delle soluzioni, il privato tra gli attori.
Non è difficile, per un’equipe di volenterosi cittadini dotati dei saperi necessari, tradurre questi progetti in linee d’azione operative, e su questa base individuare la quantità, la qualificazione e l’attrezzatura tecnica e imprenditoriale necessarie, correlandola alle disponibilità attuali e alla loro riconversione. E non è neppure difficile individuare quali siano le risorse necessarie e dove sia possibile reperirle.
Per quanto riguarda quelle finanziarie c’è molto da tosare nei malfunzionamenti sostanziali del sistema vigente. Basterebbe partire dalla rinuncia alle Grandi opere inutili o dannose, dall’eliminazione dei fenomeni di spreco intollerabile legati al sistema corrotto degli affidamenti di opere, dalla riduzione delle rendite finanziarie e immobiliari e dalla loro tassazione, fino ad affrontare finalmente quello che si giustificherebbe da solo come una grande obiettivo di civiltà: la rinuncia agli armamenti militari e alle guerre, quali che siano i suoi travestimenti.
É chiaro che in questa prospettiva due altre grandi risorse, oggi lasciate al deperimento, diventerebbero decisive e richiederebbero un consistente rafforzamento: il governo pubblico del territorio, la formazione e la cultura. Il primo è indispensabile per fornire al nuovo “piano del lavoro” il quadro di partecipazione civile, di programmazione economica, di pianificazione territoriale e urbanistica, di gestione amministrativa, di monitoraggio che sono indispensabili per impiegare in modo efficacemente finalizzato il lavoro e le altre risorse. La formazione e la cultura sono essenziali perché costituiscono il campo nel quale si costruiscono le basi di ogni futuro che voglia superare il presente aumentando la consapevolezza , consolidando i principi della convivenza, costruendo le condizioni materiali e morali per lo sviluppo della civiltà umana.
Chi può essere il promotore di un simile piano? In una fase della nostra vita nella quale la politica delle decisioni (quella delle istituzione e dei partiti) è scandalosamente assente o distratta da altri interessi, e la politica delle esigenze e delle speranze (quella dei comitati, delle associazioni e degli altri gruppi di cittadini attivi) non riesce a costruire una strategia unitaria all’altezza del sistema, forse è dalla nostra storia che ci viene una risposta possibile: dal sindacato dei lavoratori, oggi guidato da Susanna Camusso, quindi dall’esponente di un genere, quello femminile, che oggi è particolarmente sacrificato su tutti i versanti della crisi – come lo era allora la classe del bracciantato agricolo, espresso da Giuseppe Di Vittorio.
Ginsborg, P. (1989), Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica, 1943-1988 Torino, Einaudi.
Napoleoni, C. (1980) Elementi di economia politica, Firenze, La Nuova Italia.
Salzano, E. (2010), Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Venezia, Corte del fòntego.
L'icona è lo stralcio di un'mmagine che illustra la partecipazione delle mondine allo sciopero generale nazionale dei lavoratori agricoli del 1949 37 giorni), da una pubblicazione della CGIL. Tratto dal blog di Laura E. Ruberto
Dall'intervista raccolta da Carla Ravaioli, il manifesto, 31 ottobre 2010
Bobo, l'Unità, 31 ottobre 2010
la vignetta è tratta da http://ilpunto-borsainvestimenti.blogspot.com/2010/02/italia-si-italia-no-crisis-what-crisis.html
La Repubblica, 25 maggio 2010
Esiste un bene comune che viene raramente considerato tale: il territorio, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.), né secondo approcci monodisciplinari che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo, ma come sistema nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo (Bevilacqua 2009).
É alla tutela e alla messa in valore di questo bene comune che sono volte le attenzioni dell’urbanistica: più precisamente, della sua migliore tradizione, oggi appannata dal prevalere di tendenze corrive al mainstream dell’immobiliarismo neoliberistico (Salzano 2010). É a quello stesso obiettivo (alla tutela del bene comune territorio) che è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei: l’azione di quella miriade di aggregazioni - temporanee o stabili - di persone che si incontrano per la difesa di questo o quell’altro spazio pubblico e destinato agli usi collettivi, per impedire interventi minacciosi per la salute degli abitanti, per contrastare la trasformazione di paesaggi godibili in distese di case e capannoni, per protestare contro i costi e i disagi della mobilità, per pretendere le attrezzature necessarie per sostenere la vita delle famiglie, per rivendicare l’accesso di tutti alle dotazioni comuni, per ottenere la soddisfazione del diritto a un’abitazione a condizioni sopportabili.
Alcune delle esperienze nelle quali sono coinvolto testimoniano come l’incontro tra queste due realtà (che potremmo definire il pensiero esperto e il pensiero militante) possano condurre a individuare alcune caratteristiche essenziali del bene comune territorio, e alcune modalità dell’aggressione di cui sono vittime. Mi riferisco alla partecipazione all’European Social Forum del 2008 a Malmö (Salzano 2009) e ad altre esperienze di collaborazione con la Cgil, alla conoscenza diretta delle attività della Rete toscana per la difesa del territorio fondata e guidata da Alberto Asor Rosa, dall’esperienza di costruzione di AltroVe, la rete veneta dei comitati e delle associazioni in cui sono personalmente coinvolto, e alle conoscenze che mi derivano dalla gestione di quel nodo di comunicazioni che è costituito ail sito eddyburg.it e dalla sua Scuola estiva di pianificazione territoriale.
L’insieme di queste esperienze mi ha convinto di due cose. Da una parte, della durezza, ampiezza e potenza dell’azione tesa a distruggere il bene comune territorio, e la grande fragilità delle risposte che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo. Dall’altra parte, della necessità – per poter resistere e passare al contrattacco – di riflettere su un momento storico che la cultura ufficiale tende a mistificare rimuovendo dalla memoria collettiva gli elementi positivi: mi riferisco ai decenni a cavallo del 1970.
Il saccheggio
Ho provato a riassumere fatti e valutazioni sull’azione distruttiva del territorio in una nota del sito eddyburg.it, di cui riprenderò alcune formulazioni. Ho definito quell’azione come il prodotto di una strategia chiaramente individuabile: quella del saccheggio del bene territorio.
L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere o divenire oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.
Per raggiungere quest’obiettivo il primo passaggio riguarda l’ideologia: precisamente, il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e ai saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati: sono ridotti, da Scienza, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.
Il secondo passaggio logico è la negazione dell’esistenza di beni non riducibili a merci: solo se ogni cosa è “merce”, tutto è soggetto al calcolo economico e il mercato può diventare la dimensione esclusiva delle scelte (e il mercato, nel frattempo, è stato ridoto a lla sua forma di monopolio od oligopolio collusivo: un ossimoro). Il terzo passaggio (e qui si passa decisamente dall’ideologia alla prassi) consiste nell’abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.
I beni che si vogliono ridurre a merci, i “commons” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg e con le sue attività registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, né rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’ acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Si tenta di cancellare o di privatizzare non solo i beni materiali, ma anche quelli che costituiscono la risposta storica alle esigenze che hanno prodotto nel territorio – nell’habitat dell’uomo – trasformazioni di tipo urbano: a cominciare dalle piazze, luogo aperto all’incontro di tutti gli abitanti, trasformate in parcheggi o svuotate da “non luoghi” alternativi (dove contano solo i “clienti”), proseguendo con le scuole, gli ospedali e alle altre attrezzature degli “standard urbanistici”, via via più trasferite dalla fruizione pubblica al servizio a pagamento, e per finire con i servizi per la mobilità, dove via via si squalifica e si riduce il trasporto collettivo (soprattutto quello per le piccole e le medie distanze) e si incentiva la motorizzazione privata. Insomma, tutti gli elementi del “welfare urbano” (possiamo definire così le conseguenze territoriali delle politiche del welfare state) che furono conquistati in due secoli di faticose vertenze sociali e politiche.
Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre all’habitat dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi). É un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Provoca disagi e sofferenze, quindi genera reazioni. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).
Ma l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra italiana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante.
Il diritto alla città
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate: le trasformazioni del territorio e la sua attrezzatura furono finalizzate non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogno che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare (che è certamente tra quelle primordiali nella trasformazione del pianeta in habitat dell’uomo) diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia, divenuta consapevole della sua forza costituita dalla solidarietà di fabbrica, riuscirono a strappare. (Il capitalismo recuperò terreno altrove, accrescendo lo sfruttamento nelle regioni colonizzate e negli ambiti della natura: ma questo è un altro discorso).
La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Levebvre (Lefebvre 1968), lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’ organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che si chiama pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).
Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchi i propri strumenti, fino alla deriva dei decenni a noi più vicini.
Credo che oggi si debbano riprendere i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” devono diventare parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni.
Ciò significa che oggi bisogna prendere coscienza dell’insieme delle aggressioni cui il territorio viene sottoposto: non solo di quelle che ne colpiscono una parte e di un aspetto (la consistenza fisica, la possibilità di fruizione e d’accesso, l’appartenenza collettiva o pubblica), ma anche quella che distrugge quel tanto di democrazia nel processo delle decisioni che è stato garantito dal sistema della pianificazione urbanistica. Un sistema nel quale la decisione sugli strumenti che definiscono le trasformazioni previste spetta agli enti elettivi di primo grado, espressione diretta (almeno nella Costituzione della Repubblica) della volontà dei cittadini; nel quale chi partecipa alla decisione è l’insieme dell’organo consiliare, quindi anche le minoranze; nel quale infine al cittadino è garantita la conoscenza del quadro delle decisioni (il piano) prima della sua definitiva approvazione, e quindi il diritto di osservare e opporsi.
Come aggrediscono la sostanza dei beni comuni territoriali così i saccheggiatori distruggono le modalità mediante le quali essi possono diventare oggetti del “diritto alla città”. Sostituiscono all’urbanistica democratica quella contrattata con la proprietà immobiliare; trasferiscono al competenza delle decisioni dagli organi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica a commissari ad hoc o alle stesse aziende private; riducono tutti gli spazi (gli spiragli) nei quali può manifestarsi la volontà dei cittadini. Negano il principio stesso della pianificazione, come formazione d’un quadro coerente e sistemico delle trasformazioni progettate per il futuro.
Frammentare le scelte è un modo classico per eludere non solo la capacità d’incidere, ma perfino la conoscenza di ciò che si sta trasformando. E senza conoscenza l’azione di contrasto è cieca.
Note bibliografiche
Bevilacqua P., Che cos’è il territorio, relazione al Città Territorio Festival di Ferrara, 2009 [ qui in eddyburg ]
Salzano E., Urbanisti ieri e oggi, "AAA Italia" (Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea), Bollettino n. 9, 2010 [ qui in eddyburg]
Salzano E., Mancini O., Chiloiro. S. (a cura di), Città e lavoro. La città come diritto e bene comune, Ediesse, Roma 2009
Lefebvre H., Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)
la Repubblica, 6 ottobre 2010
La politica della Fiat nell’era di Marchionne ha colpito molto l’opinione pubblica italiana. Si tratta certamente di una politica fortemente innovativa, che si colloca con autorevolezza nel trend di quella “globalizzazione” che porta alle estreme conseguenze l’inumanità catastrofica raggiunta dal sistema economico-sociale nella sua fase estrema. La questione è stata esaminata da molteplici punti di vista. Ma mi sembra che nessuno abbia messo in rilievo il ruolo che ha svolto, nella crisi dell’industria italiana, quel trasferimento di interessi dalla politica industriale a quella del mattone, dal profitto alla rendita. Un osservatore che guardi alle cose con un po’ di consapevolezza sul ruolo della rendita urbana nelle dinamiche dell’economia e nelle trasformazioni del territorio rimane veramente colpito da alcune stranezze, che vorrei qui rapidamente elencare.
É davvero strano che nessuno, neppure gli analisti più attenti e intelligenti delle politiche sociali e di quelle economiche, si sia chiesto quanto pesi, sulla crisi dell’industria italiana, il fatto che, a partire dagli anni 70, le grandi industrie “moderne” abbiano dirottato le loro risorse dagli strumenti di una politica industriale avveduta e lungimirante (ricerca e innovazione, esplorazione delle nuove esigenze compatibili con i limiti delle risorse e con i nuovi possibili stili di vita e così via) verso l’investimento immobiliare.
É davvero strano che i comuni e le regioni, che piangono oggi per l’abbandono delle attività industriali nelle loro aree, non si domandino quanto sia grande la loro responsabilità, per aver consentito alle industrie di lucrare altissime rendite con le allagre modifiche delle destinazioni d’uso delle loro proprietà, e di abbandonare così le attività produttive a vantaggio della speculazione sul mattone.
É davvero strano che evitino qualsiasi accenno autocritico quegli urbanisti, convertiti al ruolo di facilitatori delle operazioni immobiliari, che hanno promosso o favorito l’applicazione degli strumenti perversi (dai “programmi urbani complessi” agli “accordi di programma”) adoperati dalle amministrazioni, miopi o asservite, per facilitare l’incremento della rendita fondiaria nelle aree ex industriali.
Ed è infine davvero strano che i politici, soprattutto quelli di centrosinistra e di sinistra, non diano segno d’aver compreso la loro responsabilità per aver abbandonato ogni attenzione per le regole elementari di utilizzazione del territorio, e aver lasciato così campo libero alle scorrerie dei “capitani coraggiosi” e degli affari immobiliari (o averle addirittura promosso e favorito), attribuendo agli incrementi della rendita e alla sua appropriazione privata un ruolo salvifico nella crescita del PIL.
É ingenuo sperare che chi ci governa oggi, in Italia e nelle sue città, o pretende di farlo domani, comprenda le proprie responsabilità per quanto è avvenuto, e assuma di conseguenza la difesa del territorio, e il ripristino delle regole di una pianificazione socialmente, culturalmente e ambientalmente orientata, come obiettivo politico primario per oggi e per domani?
A chiunque è consentito riprodurre l’articolo, citandone l’autore e indicando la fonte con la seguente dicitura: “tratto dal sito web http://eddyburg.it”.
Qui vari articoli sulla crisi della Fiat e sulla strategia di Margchionne, le sue cause, conseguenze e rimedi
la Repubblica, 25 settembre 2010
Alexis de Toqueville, 1847, cit. in S. Rodotà, la Repubblica 10 agosto 2010)
Novità certamente positive. In primo luogo perché dimostrano l’estensione e la molteplicità della resistenza al trend distruttivo. Ci si mobilita per la difesa di essenziali beni comuni che devono essere disponibili per tutti gli abitanti del pianeta, come per la quercia millenaria che si vuole abbattere per costruire un ponte inutile e dannoso. Si contesta alla speculazione immobiliare l’area sistemata a verde di vicinato, e ci si batte contro la riduzione della sfera pubblica come possibilità d’incontro per protestare e proporre. Si lotta per un apprendimento aperto a tutti, come per i diritti del lavoro duramente conquistati e pesantemente minacciati. Ci si oppone alla riduzione dei servizi del welfare, come all’erezione di monumenti utili solo agli affaristi (e spesso alle mafie).
Sono novità positive anche, e forse soprattutto, perché sottolineano la possibilità (oltre che la necessità) di aggregazione, in assenza della quale ogni solida affermazione di un’alternativa è negata. Frammentazione e dispersione condannano a restar subalterni al cospetto di forze e tendenze (quella della globalizzazione capitalista) che hanno un carattere generale, di sistema, e che dispongono di mezzi materiali e immateriali che consentono loro di esercitare il loro potere in modo estensivo e penetrante. Frammentazione e dispersioneendono particolarmente difficile far nascere, per contrastare l’ideologia prevalente, una contro-ideologia (per adoperare i termini di Antonio Gramsci, un italiano il cui pensiero è oggi più frequentato all’estero che nel suo paese).
Gli elementi positivi espressi dalle novità nascondono tuttavia un elemento problematico. Perché le differenti azioni di critica, di protesta e di contrasto, e le proposte alternative che ne scaturiscono, raggiungano una sufficiente unitarietà, occorre che entrino nella vertenza contro il saccheggio dei beni comuni due dimensioni: la politica e l’urbanistica. Vogliamo oggi soffermarci su quest’ultima, perché più peculiare a questa sede. Vogliamo sottolineare l’esigenza che la pianificazione urbanistica (più propriamente, la pianificazione delle città e dei territori) non venga più considerata come una congerie di adempimenti burocratici e di procedure incomprensibili, né come il luogo nel quale inevitabilmente prevalgano gli interessi dell’urbanizzazione intesa come cementificazione del territorio, ma venga considerata - e pienamente diventi - uno dei principali strumenti mediante il quale la collettività esprime il suo progetto di uso, conservazione e trasformazione della porzione del pianeta Terra che gli è dato di abitare.
Bisogna allora in primo luogo prendere consapevolezza di ciò che il territorio è. Esso non è la mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.). Di conseguenza non è comprensibile, e quindi neppure governabile, secondo approcci che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo. Il suo destino non è dominabile affrontando separatamente l’uno o l’altro degli elementi che lo compongono.
Il territorio è comprensibile, governabile, dominabile unicamente se lo si considera come sistema, nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo, per riprendere la definizione non di un urbanista, ma di uno storico dell’ambiente e della società, Piero Bevilacqua.
La pianificazione è lo strumento (più precisamente, il metodo e l’insieme degli strumenti) inventato per poter governare il territorio in modo coerente con il suo carattere sistemico.Programma le trasformazioni del territorio nel loro complesso, quindi tenendo conto delle reciproche interrelazioni tra le varie parti e funzioni. Definisce le regole delle trasformazioni, quindi è in grado di tener conto delle differenti esigenze di tutela espresse dalle qualità delle diverse parti del territorio. Dopo la “legge Galasso” del 1985 può assicurare la tutela delle qualità naturali e storiche del territorio su ogni altra trasformazione. Può stabilire i tempi e le priorità delle azioni, quindi controllare i loro effetti sulle condizioni di vita del territorio e della società che lo abita. Rende visibili, controllabili, criticabili e migliorabili le trasformazioni nel loro insieme. Può (se le procedure sono accortamente stabilite e rigorosamente rispettate) consentire un processo delle decisioni aperto e democratico.
Naturalmente, la pianificazione è anche la sede nella quale si esprimono i conflitti tra le diverse utilizzazioni del territorio. Poiché alcune di queste sono estremamente remunerative per i proprietari ma in contrasto con gli interessi della collettività (e in particolare delle sue componenti più deboli), essa è un terreno di scontro politico e sociale. O meglio, può esserlo se alla pianificazione viene assicurata la trasparenza che ne è parte costitutiva.
Raramente, in Italia, la pianificazione è stata applicata bene.
Lo è stata quando per la politica il territorio era importante (era la casa della società), e quindi lo era la pianificazione. Qualche tempo fa abbiamo sentito in una registrazione Renato Pollini, il mitico sindaco di Grosseto negli anni 50 e 60 del secolo scorso, ricordare che allora, per il partito maggioritario (era il PCI) la scelta politica più importante, che gli assicurò un lungo successo di consensi, fu la decisione di fare il piano regolatore, tra i primi nell’Italia del dopoguerra. Oggi per la politica il territorio esiste in ragione della sua “vocazione edilizia” (espressione che fa inorridire); è divenuto lo strumento dello “sviluppo”: del trionfo dell’immobiliarismo e dell’espansione della rendita urbana, componente parassitaria del reddito secondo la scienza e il pensiero liberale. Nella recente sessione della Scuola di eddyburg abbiamo ragionato a lungo su questo argomento.
Ed è stata applicata bene quando l’urbanistica era un mestiere del quale la prevalenza dell’interesse collettivo su quello individuale era la base di una deontologia non scritta né giurata, ma praticata fin dalle università. Oggi gli urbanisti si dividono in due grandi categorie: i “facilitatori” degli interessi immobiliari, e delle ambizioni dei sindaci che li favoriscono, e gli “urbanisti in trincea” nelle amministrazioni pubbliche, il più delle volte dominate da quegli stessi interessi, o, nel migliore dei casi, ridotte all’impotenza dalla scarsità delle risorse.
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate. La pianificazione fu finalizzata non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogni che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche delle classi lavoratrici riuscirono a strappare. La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Lefebvre, lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che chiamiamo pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).
Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchì i propri strumenti, finchè – negli orribili anni 80 – questa venne via via abbandonata.
Oggi stanno riemergendo i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” diventano parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni. Ciò può essere ottenuto solo da una politica che riprenda il suo ruolo di sintesi dei bisogni e delle soluzioni nell’interesse generale, e da una pianificazione delle città e dei territori guidata da quella politica, che sappia assumere come criterio di valutazione d’ogni la domanda: a chi giova, e chi ne paga il prezzo?
Questo sembra maturare nell’esperienza dei gruppi di cittadinanza attiva più sensibili alle esigenze generali di trasformazione della società, delle sue regole, del suo rapporto con il territorio, e con il futuro di noi tutti. Se quelle esperienze diventeranno il lievito del vasto mondo di associazioni, comitati, reti impegnati nella resistenza al saccheggio, si potrà avviare a una duratura inversione di tendenza.
La società civile esiste: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
il manifesto, 7 settembre 2010
Jean-Auguste-Dominique Ingres, Giove e Teti, 1811, Aix-en-Provence, Musée Granet
Da "La distruzione della natura in Italia", Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1975, [p. XII]