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Il primo è la speranza. Il declino di tutto ciò che vale, dintutto ciò che rende la vita degna d’essere vissuta, sembrava accentuarsi ad ogni azione del governo. Sgretolati da un inesorabile degrado sembravano la democrazia e la giustizia, la bellezza dei territori e la vivibilità delle città, il lavoro e le condizioni economiche delle persone, la salute e la cultura, la scuola e la ricerca, la solidarietà e la virtù civile. Troppo blandamente gli autori del declino e del degrado sembravano ostacolati da chi aveva la responsabilità di farlo: la politica dei partiti e, con qualche lodevole eccezione, le istituzioni repubblicane. Il pluridecennale lavorio compiuto dai massmedia per inculcare nelle teste degli italiani un’ideologia antitetica a quella nata nella Resistenza e codificata nella Costituzione sembrava aver trasformato la maggioranza degli italiani, da persone dotate di spirito critico, in spettatori passivi di dementi spettacoli, e da cittadini in clienti. L’ideologia dominante sembrava non avere alternative, poiché le sue parole d’ordine erano accettate su ogni versante dello schieramento politico, e da gran parte delle stesse istituzioni della cultura.

Insomma, la speranza era diventata (là dove, come in questo sito, resisteva) una pallida fiaccola destinata a spegnersi. La forza della volontà alternativa che si è esressa nelle vicende del maggio e del giugno le ha ridato fiato e alimento. Ed è il primo risultato positivo dei tre pronunciamenti popolari; forse il più rilevante.

Il secondo elemento è la rinascita della politica. Non la politica del “palazzo”. Questa ha fornito un ulteriore segno della sua decrepita vecchiezza, della sua distanza dalla società. Non parliamo solo della politica della destra: la miserabile destra italiana, così lontana da quella del resto del mondo atlantico e da quella stessa che costruito lo stato unitario, ha dato nelle vicende dei referendum un’immagine grottesca di sé. Parliamo anche della politica delle sinistre. Innanzitutto di quella del PD, saltato sul carro di una vittoria che solo nelle ultime settimane aveva concorso a costruire, mentre per molti mesi aveva ignorato, a volte sbeffeggiato, spesso ostacolato quelli che i referendum avevano promosso e ottenuto. Ma parliamo anche della politica delle altre sinistre, incapaci di fornire un quadro di riferimento unitario alle tensioni che si rivelavano nella società.

Non è quindi la politica dei partiti che ha iniziato a rinascere, ma quella che (come ha scritto don Lorenzo Milani) si manifesta quando più persone riconoscono che un problema che soffrono è comune, coinvolge molti, e chi ne patisce si mette insieme per affrontarlo insieme. «Compresi che il mio problema era il problema di tutti, e che affrontarlo da soli è l’avarizia, affrontarlo insieme è la politica», fa dire Milani a uno dei ragazzi della Scuola di Barbiana.

Questa rinascente politica si è manifestata ed espressa – e ha raggiunto un risultato sperato solo dai più audaci – perché ha saputo intrecciare “intellettuali” e “popolo”. Perché hanno saputo incontrarsi e lavorare insieme (nei comitati, nelle reti, nei forum) quanti avevano avuto la possibilità di conoscere, studiare, riflettere, approfondire, e insieme la capacità di adoperare parole semplici, e quanti erano disposti ad ascoltare, a comprendere, a condividere, e a far comprendere e condividere agli altri, avendo scoperto in sé l’indignazione per un modo sbagliato di affrontare questioni essenziali della vita: la voglia di rialzare il capo e di riscoprire le capacità di una critica che nasceva dal mondo delle emozioni e dei sentimenti.

Il terzo elemento che occorre sottolineare è l’obiettivo della protesta, ciò che con il voto amministrativo e con la plebiscitaria risposta ai referendum si è voluto colpire. Da un lato, soprattutto con l’adesione al referendum sul “legittimo impedimento” e con il clamoroso sostegno a candidati sindaci atipici come Pisapia, De Magistris, Zedda, si è voluto colpire il modo vecchio di fare politica: un modo che ha sacrificato la ricerca del bene comune agli interessi separati della conventicola , o addirittura del singolo potente. E il merito maggiore del raggruppamento di Di Pietro è stato dia aver compreso(e uno dei torti maggiori del PD è stato di non aver compreso) che Berlusconi non poteva essere un partner politico poiché era l’epitome di ciò che della vecchia politica era più stantio, putrido – e comunque era la smaccata espressione della distanza della “politica” dalle esigenze e dalle speranze del popolo. Con il SI clamoroso al referendum contro il nucleare si è voluto far prevalere il “principio di precauzione” su quelle che sono state percepite come le ragioni di un’economia che allo “sviluppo” sacrifica ogni altra realtà, dimensione, esigenza. Saggiamente i promotori di quel referendum hanno insistito sul SI a nuove forme di utilizzazione dell’energia disponibile nell’universo; c’è semmai da rilevare che e stato lasciato in ombra, almeno a livello di massa, il tema dell’eccesso di domanda di energia peculiare a un sistema economico basato sulla crescita indefinita della produzione e del consumo di merci.

Ma la risposta più interessante è stata quella del referendum sull’acqua pubblica. Grazie a una faticosissima e intelligente azione politica, che è partita da un’élite di intellettuali e si è propagata a livello di massa, con un impiego straordinario di lavoro volontario, di creatività, di capacità di relazione, di ascolto e di parola, si è ottenuto il radicamento - in una parte non più minoritaria di cittadine e cittadini - di alcune verità profondamente innovative, che vale la pena di sottolineare. La nozione di “bene comune”, come qualcosa che deve essere utilizzato da tutti senza discriminazione alcuna perché è un “diritto” per ogni persona umana. La consapevolezza dell’intollerabilità di un sistema economico-sociale, di un assetto della proprietà, delle appartenenze e del diritto che riduce ogni bene a merce, che spinge alla privatizzazione d’ogni bene comune, che sostituisce ogni “governo” (ogni finalizzazione degli strumenti a obiettivi trasparenti e condivisi) a gestione “aziendale”, che finalizza ogni intervento di uso delle risorse all’arricchimento dei soggetti privati che possono venirne in possesso. Ciò che molti economisti non hanno compreso è che la rivendicazione dell’acqua come bene comune non è valutabile mediante il paradigma dell’economia data (quella capitalistica, in sé e nella sua attuale configurazione), poiché pretende un suo superamento e la costruzione di una nuova economia, basata su un diverso paradigma.

Si può dire che la battaglia per l’acqua pubblica sia, proprio per queste ragioni, il possibile fondamento della costruzione di un nuovo paradigma, basato appunto sul concetto di bene comune. In questo senso si può dire della vertenza per l’acqua pubblica che ce n’est qu’un debut, non è che un inizio. Come molti hanno già rilevato (sulle pagine di eddyburg se ne trovano testimonianze numerose) altre vertenze si sono aperte negli ultimissimi anni per difendere dalla mercificazione e dalla liquidazione altri beni comuni, altrettanto importanti per la vita dell’umanità e per il suo futuro: dalla scuola al lavoro, dalla salute all’informazione, dalla formazione alla ricerca, dall’habitat dell’uomo al paesaggio, dalla cultura alla storia.

E’ in questo quadro che si pongono gli interessi specifici di eddyburg. La difesa della città e del territorio, del paesaggio e dei beni culturali come beni non riducibili a merci, come patrimoni dell’umanità di oggi e di quella di domani è parte di un’azione più generale, che esige una costante attenzione alle tre dimensioni della realtà fisica e funzionale dell’habitat dell’uomo (l’urbs), di quella sociale (la civitas) e di quella politica (la polis). Molto cammino resta da compiere perché queste tre dimensioni trovino una sintesi. In particolare, perché la nuova politica, espressa degli eventi recenti, si consolidi in nuove forme capaci di durare nel tempo portando a sintesi, e finalizzando a obiettivi generali, l’insieme delle esigenze di cambiamento profondo di cui gli italiani hanno dimostrato consapevolezza inaspettata.

E’ un cammino difficile e lungo. Con lo sgretolamento del regime di Berlusconi è iniziato: il masso che ostruiva il tunnel nel quale siamo immersi ha cominciato a disgregarsi, si vede la luce. Ma dal tunnel non siamo ancora fuori. E al di là, il panorama che troveremo non sarà dei più allettanti. Molto ci sarà da costruire e ricostruire, con pazienza. Ma la speranze è rinata.

i.

Lectio brevis tenuta nella Adunanza dell’11 marzo 2011 della Classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei. È tratta dal saggio di G. Lunghini e E. Vesentini, La teoria economica e il suo linguaggio, in: “XXI Secolo”, opera diretta da T. Gregory, vol. 1, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009. Dal sito web www.apertacontrada.it

Indirizzo questa lezione breve ai non economisti di questa classe: e soprattutto ai letterati, che da tempo hanno smesso di leggere scritti di economia.


Stendhal raccomandava alla amatissima sorella Pauline, per la sua felicità, di leggere Smith e Say (al quale faceva inviare le proprie opere) e riteneva che la conoscenza approfondita di Malthus, Say e Ricardo fosse titolo per diventare un ministro delle finanze eccellente. L’allora Henri Beyle aveva letto gli economisti nel 1810, con l’amico Crozet, e addirittura aveva progettato un Boock dal titolo Influence de la Richesse sur la population et le bonheur.


De Quincey, il mangiatore d’oppio che in tal modo ne guarisce, scopre Ricardo: «Ecco l’uomo! Un’opera così profonda era veramente nata in Inghilterra, nel XIX secolo? Ricardo aveva d’un tratto trovato la legge, creato la base, aveva gettato un raggio di luce in tutto il tenebroso caos di materiali nel quale si erano perduti i suoi predecessori».
Intorno al 1830 Flaubert comincia a raccogliere le voci sulla bêtise; il Dizionario delle idee comuni prende forma, come parte di Bouvard e Pécuchet, nei primi anni settanta dell’Ottocento. Il 1830 e il 1870 sono gli anni cruciali nella storia del pensiero economico, segnano il periodo in cui l’economia politica progressivamente si riduce a economica. Flaubert, puntuale, nel Dizionario registra: «ÉCONOMIE POLITIQUE. Science sans entrailles». Da allora in poi saranno pochi gli scrittori che si occupano di teoria economica. Ricordo soltanto Ruskin con la sua Economia politica dell’arte, Pound con il suo ABC dell’economia. Tra gli italiani ricordo Dossi: «L’economia politica, questa matematica della Morale, che concilia i calcoli e l’interesse colle aspirazioni più sublimi del sentimento». E ricordo Gadda, con la sua favola brevissima: «Adamo Smith e Davide Ricardo erano economisti».


Si capisce perché i letterati oggi non ci leggano più: l’economia è diventata una scienza davvero triste. E la rivolgo, questa lezione, anche ai colleghi dell’altra classe: che credo scoprirebbero, in questa mia breve storia della “scienza economica”, un curiosum epistemologico.

***

La teoria economica oggi dominante – la teoria neoclassica – si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto della attività umana. Essa sembra essere riuscita in un’impresa che sinora la fisica ha mancato, la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza. Di certo essa è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche.
Tuttavia non esiste una sola teoria economica: a fianco della teoria dominante coesistono altre teorie, teorie che si possono definire eterodosse e che della teoria neoclassica mettono in discussione la rilevanza o la stessa coerenza. Ricordo, ad esempio, che negli anni sessanta del secolo scorso, sulla base del contributo di Sraffa di cui dirò, si svolse una memorabile controversia sul concetto di capitale tra la Cambridge inglese (‘neoricardiana’) e la Cambridge americana (neoclassica); dalla quale questa, per ammissione dei suoi maggiori esponenti, primo Samuelson, uscì sconfitta e alla quale non poté reagire che con la rimozione e la censura. D’altra parte è ancora vivace la tradizione marxista, al punto che in molte importanti università americane vengono impartiti corsi di teoria economica marxiana; e particolarmente fiorente è la scuola postkeynesiana, che trova le sue radici nelle opere di Keynes e dello stesso Sraffa. Chi fosse insoddisfatto della teoria neoclassica, o semplicemente curioso, potrà guardare in queste direzioni.

L’economia è una disciplina che non progredisce, o per lo meno non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, cioè con l’acquisizione di nuovi risultati sostanziali. Anche nelle scienze della natura coesistono teorie rivali, ma le scienze della natura dispongono, in generale, di criteri sufficientemente robusti per accertare lo statuto epistemologico delle diverse teorie. L’economia non si occupa di un oggetto naturale, bensì della società e di una società storicamente determinata; nel lavoro teorico, e nella competizione tra le diverse teorie economiche per l’egemonia culturale, l’elemento politico ha perciò un peso importante, talora determinante.


Bisogna allora chiedersi quali siano le caratteristiche della teoria neoclassica, quando e come questa teoria sia nata, e in che modo essa sia diventata e sia tuttora dominante; e ripercorrere poi le altre epoche della storia delle teorie economiche, per proiettare su uno sfondo questa teoria e così mettere in evidenza quei temi che essa ha rimosso, temi cruciali in questo inizio di secolo. «Lo studio della storia del pensiero», scrive Keynes, «è premessa necessaria alla emancipazione della mente. Non so che cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere niente altro che il presente, o niente altro che il passato».

La teoria neoclassica


Intorno al 1870, in curiosa coincidenza con l’inizio della Grande depressione, la teoria economica è travolta da una vera e propria rivoluzione (nel senso di Kuhn), da un radicale rovesciamento di prospettiva rispetto a quella dell’economia politica classica e della critica di questa da parte di Marx. Ne sono protagonisti studiosi di diversi paesi e di varia formazione. Il cambiamento più importante e vistoso, nella teoria neoclassica, è l’abbandono della teoria del valore-lavoro, su cui si fondavano le teorie dei classici e di Marx, e l’adozione di una teoria del valore-utilità, una teoria che pone come unico principio di tutta la teoria del valore di scambio la variabilità della stima soggettiva del valore. 
L’introduzione della categoria dell’utilità nel discorso economico, come nuovo fondamento della teoria del valore, si accompagna a un importante cambiamento metodologico. La meccanica razionale, e con essa il calcolo infinitesimale, viene assunta come paradigma teoretico. Un modello epistemologico, quello della fisica dell’Ottocento, del tutto inappropriato per una scienza sociale e però accademicamente seducente. La scientificità o meno di un ragionamento economico viene fatta dipendere dalla sua formalizzazione matematica, e la teoria del valore viene ridotta a un mero problema di calcolo: si tratta di calcolare, sulla base di determinate condizioni, quei prezzi che sul mercato assicurano l’equilibrio tra la domanda e l’offerta dei beni.


Nella teoria neoclassica, a differenza dell’economia politica classica, l’oggetto dell’analisi non sono più le classi sociali, definite sulla base delle loro relazioni con la produzione e la distribuzione del sovrappiù, ma è l’individuo con i suoi gusti, o preferenze, e i suoi bisogni. L’homo œconomicus è analogo a un punto materiale soggetto a vincoli nel mondo della meccanica razionale: egli si muoverà nello spazio del mercato, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dai comportamenti altrui, finché il sistema non avrà raggiunto un equilibrio statico.


Una impostazione simile ha conseguenze di grande portata circa la visione del processo economico. La teoria neoclassica è essenzialmente microeconomica, ma si pronuncia anche sul funzionamento del sistema economico nel complesso, funzionamento che viene concepito come esito aggregato dei comportamenti microeconomici. Se sul mercato del lavoro non vi sono attriti o rigidità artificiali, vi si determinerà un saggio di salario di equilibrio, nel senso che in corrispondenza a esso vi sarà piena occupazione. Dato il livello dell’occupazione di pieno impiego, l’intera capacità produttiva verrà utilizzata; e la produzione che ne risulterà verrà interamente venduta.


Infatti la teoria neoclassica fa propria la cosiddetta legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda. La moneta è presente soltanto come strumento utile per facilitare gli scambi, non anche come possibile riserva di valore: dunque non vi saranno problemi di realizzazione. Nel mondo neoclassico la moneta è neutrale, nel senso che la quantità di moneta non ha nessuna influenza sulle grandezze reali, cioè sul livello dell’occupazione e della produzione.


Quanto al modo in cui il prodotto sociale verrà distribuito nella forma di redditi, anch’esso sarebbe governato da un ordine naturale, anziché da un conflitto tra le parti. Se si concepisce e si legittima ciascuna quota distributiva come il corrispettivo per i servizi produttivi dei fattori della produzione, di cui ciascun soggetto è proprietario, la distribuzione del prodotto sociale non è determinata anche da un conflitto tra le classi, ma soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, condizioni che sono assunte come date.


La teoria economica, da indagine sistemica circa le cause e le leggi della ricchezza, della sua distribuzione e della sua accumulazione, quale era l’economia politica per i classici e per Marx, si riduce all’economica; economica che secondo la fortunata definizione di Robbins è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi.


Scienza che vorrebbe essere la scienza di un sistema economico in generale, di un sistema economico astratto; astratto non nel senso in cui lo è qualsiasi oggetto teorico, ma nel senso che non è soggetto a determinazioni storiche o istituzionali: nella teoria neoclassica, la storia non conta. È un sistema in cui vi sarebbero armonia, certezza e equilibrio, se il mercato fosse liberato da qualsiasi impedimento artificiale e da improvvidi interventi dello Stato. Per realizzare il migliore dei mondi possibili, sarebbe dunque necessaria e sufficiente la politica del laissez faire.

L’economia politica classica

La teoria economica si era costituita come disciplina autonoma, anziché come collezione di proposizioni su temi economici sparse in discipline diverse, etica diritto filosofia storia, con l’affermazione, a seguito della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, del modo di produzione capitalistico; ‘modo di produzione’ inteso come forma storicamente determinata di organizzazione dei rapporti materiali dell’esistenza. L’autonomia teoretica dell’economia politica corrisponde alla costituzione del processo economico come processo a sé stante, come processo circolare; come un processo che ha per scopo non il soddisfacimento dei bisogni umani, ma la realizzazione di un profitto in denaro e l’accumulazione del capitale. Si potrebbe dire, in breve, che l’economia politica nasce come scienza del capitalismo.


L’economia politica classica va dalla fine del Seicento a circa il 1830, e si occupa di produzione, distribuzione, impiego e crescita del prodotto sociale, nella prospettiva macroeconomica di un sistema economico nel suo complesso e diviso in classi. Come dirà Marx, essa indaga il nesso interno dei rapporti di produzione capitalistici. La categoria analitica centrale è qui il sovrappiù; e all’origine del sovrappiù sta il lavoro: per Smith «il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma». La centralità del lavoro, nell’economia politica classica, emerge anche nella teoria del valore che le è propria, che è una teoria del valore-lavoro. Secondo Ricardo, «Il valore di una merce, ovvero la quantità di ogni altra merce con la quale si scambierà, dipende dalla relativa quantità di lavoro necessaria alla sua produzione».
In una società divisa in classi il prodotto sociale non andrà tutto ai lavoratori, ma viene diviso tra i percettori di rendita, i capitalisti e i lavoratori stessi. Nella sfera della distribuzione, tra rentier, capitalisti e lavoratori non vi è armonia, come sosterrà la teoria neoclassica, ma vi è conflitto: tra i rentier e i capitalisti, e tra i capitalisti e i lavoratori. Sempre secondo Ricardo, molto semplicemente ma con una inconfutabile argomentazione analitica, i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari sono bassi o alti.


La teoria classica del valore e della distribuzione ha strette connessioni con la magnificent dynamics degli autori classici. La loro analisi del processo di accumulazione del capitale e del processo di riproduzione e crescita del sistema economico è di grande attualità, poiché porta alla conclusione che una crescita illimitata è impedita da fattori economici, a cominciare dallo stesso conflitto distributivo, e da fattori demografici, sociali e ambientali, fattori tutti che necessariamente conducono alla caduta del saggio dei profitti, all’arresto del processo di accumulazione, e infine allo stato stazionario.

La critica marxiana dell’economia politica classica

Il titolo vero dell’opera principale di K. Marx, Il Capitale, è il sottotitolo: Critica dell’economia politica. Il Capitale è critica, ora severa ora generosa, e insieme svolgimento, dell’economia politica classica. Anche in Marx le categorie centrali sono il lavoro e il sovrappiù. Il lavoro, nella forma di merce – la merce forza lavoro – che esso assume nel capitalismo. Il sovrappiù, nella forma capitalistica di profitto e la cui origine è individuata da Marx non nella produttività del capitale, come sarà per l’economia neoclassica, ma nel pluslavoro (dunque nel plusvalore), che nella attività lavorativa il lavoratore per contratto presta al di là di quanto ne occorra per la riproduzione della propria forza lavoro.
Il salario, d’altra parte, ha due aspetti, e ciò determina una contraddizione tra il livello microeconomico e il livello macroeconomico. Al singolo capitalista il salario appare come un costo di produzione, che come qualsiasi altro costo di produzione egli cercherà di minimizzare; ma per il sistema economico nel complesso i salari sono potere d’acquisto, anzi la parte più consistente del potere d’acquisto complessivo, potere d’acquisto mediante il quale le merci prodotte potranno, o non potranno, essere acquistate. Se i salari sono bassi, sarà possibile che non tutte le merci prodotte vengano vendute e vi saranno difficoltà nella realizzazione dei profitti.


Per Marx nel capitalismo le crisi non sono fatti eccezionali, determinati da fattori extraeconomici, ma sono fenomeni connaturati all’essenza stessa del capitalismo. Gli schemi marxiani di riproduzione mostrano che l’equilibrio capitalistico è possibile; e che tuttavia il processo di riproduzione normalmente si manifesta attraverso crisi; crisi nelle quali lo squilibrio tra produzione e consumo svolge un ruolo essenziale, poiché nel capitalismo lo scopo della produzione non è il consumo ma la valorizzazione del capitale.
All’origine delle crisi sta il fatto che la forza motrice della produzione capitalistica è costituita dal saggio dei profitti: viene prodotto solo ciò che può essere prodotto con profitto, e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. (L’economia capitalistica è concretamente irrazionale, secondo M. Weber, perché non soddisfa i bisogni in quanto tali, ma soltanto i bisogni dotati di capacità d’acquisto).


Anche per Marx è prevedibile una caduta del saggio dei profitti; tale caduta è però tendenziale, poiché dipende dalle alterne vicende del cambiamento tecnico e dei rapporti di forza tra capitalisti e lavoratori; e perché tale tendenza può essere contrastata da quelle che Marx chiama cause antagonistiche. Le più generali di queste cause antagonistiche, per Marx, sono l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario, la diminuzione di prezzo dei mezzi di produzione, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’accrescimento del capitale azionario. Anche a questo proposito, in un’epoca di globalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia, è superfluo sottolineare l’attualità di teorie che si vorrebbero morte e sepolte.

Le critiche di Keynes e Sraffa alla teoria neoclassica

Nel corso del Novecento alla teoria neoclassica sono state mosse due critiche radicali, da parte di Keynes e di Sraffa. Da parte di Keynes (con la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936) circa il ruolo della moneta nel processo economico e circa le determinanti del livello della produzione e dell’occupazione. Da parte di Sraffa (con Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica, 1960) circa la teoria del valore e della distribuzione.
Le strategie di Keynes e di Sraffa sono diverse. Keynes mette in discussione le premesse stesse della teoria neoclassica, e dunque le sue conclusioni. La critica di Sraffa mette in discussione la logica della teoria neoclassica, e ne mette in luce la mancanza di generalità. Le scelte di Keynes e di Sraffa sono diverse anche per quanto riguarda il linguaggio: Keynes sceglie il linguaggio ordinario, Sraffa il linguaggio matematico.

Keynes: l’incertezza

Per Keynes l’economia in cui viviamo non è un’economia cooperativa, come vorrebbe la teoria neoclassica; ma è una economia monetaria di produzione, un’economia in cui la moneta ha un ruolo essenziale. Keynes non era un bolscevico (come sostenne L. Einaudi), tuttavia, circa il ruolo della moneta, fa propria una tesi marxiana; secondo la quale la natura della produzione nel mondo reale non è – come gli economisti sembrano spesso supporre – un caso del tipo M – D – M′, cioè inteso a scambiare contro denaro una merce al fine di ottenere un’altra merce. Questa può essere la prospettiva del singolo consumatore, ma non è quella del mondo degli affari: che dal denaro si separa in cambio di una merce al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo D – M – D′.


Per Keynes l’importanza della moneta dipende essenzialmente dal fatto che le nostre decisioni sono prese in condizioni di conoscenza limitata e non di conoscenza perfetta, in condizioni di incertezza e non di certezza. In condizioni di conoscenza incerta, «per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo nostro atteggiamento verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso opera, per così dire, a un livello più profondo delle nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, instabili convenzioni si sono indebolite. Il possesso della moneta calma la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura dell’intensità della nostra inquietudine».


Di qui la possibilità che la moneta venga impiegata non soltanto come strumento utile per effettuare gli scambi, ma che venga domandata anche a fini speculativi. Ciò avrà conseguenze sul livello del tasso di interesse; e il tasso di interesse è una delle determinanti degli investimenti. L’altra determinante delle decisioni di investimento sono le aspettative, da parte degli imprenditori, circa la redditività futura dei nuovi investimenti che essi hanno in animo di fare; e anche tali decisioni vengono prese in condizioni di incertezza. Sarà dunque possibile che la domanda per investimenti non sia quella che sarebbe necessaria, al fine di determinare il pieno impiego della capacità produttiva disponibile nell’economia e dunque la piena occupazione.


Questa insufficienza di domanda, per Keynes, non è una possibilità remota; al contrario, gli animal spirits degli imprenditori possono far sì che il sistema economico in cui viviamo resti in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo: «una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale». Ecco il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza; e ecco la necessità di un intervento dello Stato, se del sistema economico in cui viviamo si vogliono eliminare i difetti principali, la disoccupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito.

Sraffa: il ritorno ai classici

Anche nel caso di Sraffa, è il sottotitolo che conta: Premesse a una critica della teoria economica. L’intento di Sraffa, e il suo risultato, è di emendare la teoria classica delle sue imperfezioni, così da farne fondamento inattaccabile di una critica della teoria moderna; una critica che perciò consenta di esibire la rinnovata teoria classica come la sola teoria analiticamente ineccepibile del valore e della distribuzione. Forse in nessun altra disciplina può capitare che vecchie teorie, sommerse e dimenticate, possano essere riproposte come più potenti e solide di quelle moderne.


A questo fine Sraffa riprende il punto di vista degli economisti classici, la loro rappresentazione del sistema della produzione e del consumo come processo circolare, in netto contrasto con l’immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a senso unico che porta dai ‘fattori della produzione’ ai ‘beni di consumo’. Su questa base Sraffa dimostra in maniera logicamente ineccepibile l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo.
L’armonia distributiva postulata dalla teoria neoclassica non è dimostrabile: non esiste nessun livello “naturale” del salario, e non esiste nessuna configurazione “di equilibrio” nella distribuzione del prodotto sociale. Le quote distributive non sono univocamente determinate, poiché non dipendono soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, ma anche dai rapporti di forza tra lavoratori e capitalisti e da circostanze esterne alla sfera della distribuzione, quali le variabili monetarie e finanziarie.

La neutralizzazione della critica

Keynes e Sraffa hanno mostrato e dimostrato che il sistema economico in cui viviamo normalmente non funziona al meglio, quanto a livello della produzione e dell’occupazione; e che nella distribuzione del prodotto sociale non vi è armonia ma conflitto. Le controversie teoriche non si dirimono con il buon senso, tuttavia il buon senso basta per convenire che il mondo è in verità abitato dal conflitto, dall’incertezza, dalle crisi – così come insegnano Ricardo e Sraffa, Marx e Keynes. Come è mai possibile che la teoria economica dominante possa sostenere che il mondo è invece governato dall’armonia, dalla certezza e dall’equilibrio? È questo un caso interessante, nella storia della scienza e delle rivoluzioni scientifiche: è come se in astronomia oggi si predicasse Tolomeo, anziché Copernico e Galileo.


La teoria neoclassica ha mantenuto la sua posizione di teoria dominante nell’accademia e tra i responsabili delle politiche economiche nazionali e internazionali con reazioni di grande efficacia. La critica keynesiana è stata riassorbita mediante la cosiddetta ‘sintesi neoclassica’, una sintesi in cui di genuinamente keynesiano vi è ben poco, intesa a dimostrare che la Teoria generale di Keynes non avrebbe affatto portata generale ma si riferirebbe a un caso particolare, all’economia della depressione. Quanto alla critica di Sraffa, per la quale una operazione analoga sarebbe stata impossibile, si è fatto ricorso alla damnatio memoriæ (un silenzio che però si accompagna a una ritirata strategica: la teoria neoclassica non si occupa più di teoria del valore e della distribuzione).


Riuscendo a imporsi come scienza normale, l’economica è riuscita a accreditarsi come la sola e vera scienza economica. La professione neoclassica è stata estremamente abile anche nella costruzione delle sue cinture protettive, non teoretiche ma politiche e di linguaggio: l’uso pressoché esclusivo della matematica e dell’econometria come tecniche di argomentazione e di convalida del ragionamento economico; l’impiego dei manuali, anziché dei testi, nella didattica dell’economia; l’imposizione di metodi bibliometrici come criterio di valutazione determinante per l’accesso alle posizioni accademiche, rendendolo così faticoso e improbabile per gli eterodossi.


Al progressivo allargamento dei confini tradizionali della teoria economica ha dato un impulso decisivo Gary Becker, premio Nobel nel 1992 «per avere esteso il dominio dell’analisi microeconomica a una più ampia area del comportamento e dell’interazione umana, compresi i comportamenti non di mercato». Nella bibliografia di Becker, ma ormai su tutte le riviste di economia più reputate, si trovano articoli su temi suggestivi come il capitale umano, i rapporti tra concorrenza e democrazia, l’economia della discriminazione, l’economia dei delitti e delle pene, la teoria della tossicodipendenza razionale, l’analisi economica della fertilità, l’interazione tra la quantità e la qualità dei bambini, la teoria economica del matrimonio e della instabilità matrimoniale, ecc.


Così come il mercato, anche la teoria economica dominante si è globalizzata e sembra oggi capace di pronunciarsi su qualsiasi questione. Il mercato globalizzato non si comporta però secondo le sue parabole dell’armonia, della certezza e dell’equilibrio, e è agitato dal conflitto, dall’incertezza e dalla crisi.

Quando rivedrò Milano

spero di trovarla sveglia

spero di trovarla forte

come un granchio nella sabbia

Quando tornerò a Milano

con i fiori tra i capelli

spero di trovar lo spazio

per piantarli tra i ponteggi

Quando tornerò a Milano dimmi

che non si parlerà dell'aria

continuando a dare i soldi a chi

ci trascina nella sua miseria

Spero di trovarla disperata

come chi davvero non ha scelta

come chi non si rassegna

e anche quando tutto il mondo sbaglia

preferisce una vita amara

ma degna

Quando tornerò a Milano

spero di trovarla salva

e sfiancata dalla noia

di una libertà perfetta.

INGREDIENTI

sarde, mezzo kg

tutti gli odori che avete

uno spicchio d’aglio

olio extravergine d’oliva

aceto

sale

PREPARAZIONE

se non siete stati così fortunati da trovarle pulite, aprite le sarde, levate testa, interiora e spina, tenendo unite le due metà per la coda

tritate le erbe e lo spicchio d’aglio

riempite d’olio i fondo della padella

fate soffriggere a fuoco moderato il battuto di odori

disponete nella padella le sarde, col dorso in alto

fate cuocere, a fuoco moderato, per una decina di minuti

coprite con un po’ d’acqua mista ad aceto

lasciate quocere ancora qualche minuto

servite calde o tiepide


LA SCIENZA ECONOMICA

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La scienza economica studia, da un particolare punto di vista, le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni. L’inciso «da un particolare punto di vista» é essenziale in questa definizione, giacché le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni possono essere studiate non da un solo, ma da più punti di vista. Per esempio, si può studiare in qual modo, utilizzando certe leggi naturali (fisiche, chimiche o biologiche), sia possibile trasformare certi oggetti, non immediatamente utilizzabili per soddisfare bisogni umani, in altri oggetti che sono invece immediatamente utilizzabili a tale scopo. Cosi si può studiare attraverso quali procedimenti é possibile utilizzare un certo appezzamento di terra, certe sementi, certi concimi, ecc., nonché naturalmente una certa quantità di lavoro umano qualificato in un certo modo, per ottenere grano, e attraverso quali altri procedimenti sia possibile, dal grano, arrivare al pane, che e un oggetto capace di soddisfare immediatamente un certo bisogno umano. Oppure si può esaminare in qual modo dall’acciaio, dall’alluminio e da altre materie prime, utilizzando certi macchinari, il lavoro umano possa, alla line, ottenere un’automobile. Si possono fare, com’e chiaro, numerosissimi altri esempi, che il lettore certamente non farà fatica a immaginare. Ora studi di questo tipo hanno certo a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma il punto di vista che questi studi rappresentano non appartiene alla scienza economica, non é quello da cui la scienza economica risulta caratterizzata: questo punto di vista, come il lettore avrà probabilmente riconosciuto, é quello della tecnologia.

Altro esempio. Gli uomini, svolgendo le loro attività dirette alla produzione di oggetti che servono alla soddisfazione dei loro bisogni, entrano in certi rapporti reciproci, che, in ogni convivenza civile, sono regolati da leggi. Cosi, quando una persona prende in affitto un appartamento per soddisfare il proprio bisogno di abitazione, sa che deve sottoscrivere un contratto – il contratto d’affitto, appunto – il quale deve essere rispondente a certe norme che sono indicate nella legislazione del paese in cui tale contratto viene stilato. Analogamente, se più persone, ciascuna apportando un certo capitale, decidono di costituire una società, il cui scopo sia quello di esercitare una certa attività produttiva, esse sanno che la società deve essere costituita secondo certe regole e che la sua attività deve svolgersi secondo certe norme; regole e norme, che sono anch’esse indicate in una determinata legislazione. Esiste – com’e chiaro - lo studio di tale legislazione, e quindi di tutte le regole e norme da cui essa risulta costituita, e dei principii ai quali esse unitariamente si ispirano. Ora, anche uno studio siffatto ha a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma questo studio rappresenta un punto di vista che non è quello della scienza economica: esso rappresenta il punto di vista di un’altra disciplina, che, come il lettore avrà riconosciuto, é il diritto.

Un terzo esempio. I fini che gli uomini si propongono di raggiungere per soddisfare i loro bisogni, e i mezzi che essi impiegano per il conseguimento di tali fini, possono essere buoni o cattivi. C’e una considerazione dell’attività umana che ha lo scopo di valutare se essa sia, o non sia, buona. Neppure questa considerazione rappresenta, com’e chiaro, il punto di vista della scienza economica: si tratta, infatti, della considerazione propria della moralità.

Questi diversi punti di vista, questi vari modi di considerate l’attività umana, non sono dunque quelli propri della scienza economica, anche se, come risulterà chiaro nel corso di questa trattazione, nessuno di essi può considerarsi irrilevante per la scienza economica stessa: Per ora comunque il nostro compito consiste nel cercar di definire in che cosa consiste quel modo particolare di considerazione dell’attività umana, che é proprio della scienza economica.

A tal fine occorre tener presenti le due seguenti - e fondamentali - circostanze.

1) I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici é una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, cos1ì come essa si presenta in ogni momento dato. Gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, di vestirsi, di abitare in una casa, di costituire una famiglia, di istruirsi, di riposarsi, di divertirsi, ecc. Inoltre, nell’ambito di ciascuna di queste categorie di bisogni, è sempre possibile individuare bisogni più particolari e specifici. Cosi, non basta agli uomini di nutrirsi in un modo qualunque, ma, nel nutrimento, devono essere osservati certi requisiti, per quanto riguarda, ad esempio, la disponibilità di determinate quantità minime dei vari elementi nutritivi (calorie, vitamine ecc.). Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari d’un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore.

Un grande economista inglese che scrisse verso la fine del ’700, Adam Smith, dette questi esempi per mostrare l’evoluzione subita dai bisogni lungo il corso della storia: «Quello che una volta era un castello della famiglia di Seymour e ora una locanda nella strada di Bath. Il letto di nozze di Giacomo I, re di Gran Bretagna, che la regina sua moglie portò seco dalla Danimarca come dono degno d’esser fatto da un sovrano a un altro, era pochi anni fa l’ornamento d’una mescita di birra a Dunfermline» E ancora: in quale paese del mondo ci si accontenterebbe oggi di provvedere all’istruzione dei cittadini mediante libri scritti a mano, con tutte le limitazioni gravissime che ciò comporterebbe? La stampa é dunque diventata un bisogno, e, per giunta, un bisogno essenziale. E, nelle società più progredite, chi oggi penserebbe di poter viaggiare con mezzi la cui velocita dipenda dalla velocita di animali da tiro? La locomozione con mezzi meccanici è anch’essa diventata un bisogno. Ecco un altro argomento sul quale il lettore può sbizzarrirsi a trovare tutti gli esempi che vuole. Ma c’è un fatto che va tenuto ben presente: questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacché é il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni; l’uomo, insomma, non si ferma mai; se é riuscito a costruire delle case che, bene o male, lo difendono dal freddo e dal caldo, dal vento e dalla pioggia, non si accontenta più di questa protezione pura e semplice, e desidera che le sue case abbiano certe comodità, le quali, col trascorrere del tempo, Vengono poi ritenute sempre più importanti; se, più in generale, é riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli che dipendono dalla sua vita animale, vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più.

2) I mezzi con cui gli uomini soddisfano i propri bisogni possono essere resi via via disponibili soltanto in quantità limitate, cioè in quantità minori di quelle che occorrerebbero per conseguire la piena soddisfazione dei bisogni stessi. Ci possono essere dei mezzi, rispetto ai quali non si pone il problema di renderli disponibili, perché essi già lo sono immediatamente, e può darsi che, in tal caso, essi lo siano in quantità illimitata rispetto al bisogno che gli uomini ne hanno. L’aria atmosferica è uno di questi casi: essa è certo un mezzo per soddisfare un bisogno precisamente quello di respirare, che é, per di più, un bisogno assolutamente essenziale, ed essa, almeno in condizioni normali, e immediatamente disponibile in quantità illimitata rispetto al bisogno medesimo.

Ma, di regola, i mezzi occorrenti ai bisogni umani non sono disponibili immediatamente, e devono esser resi disponibili mediante un lavoro a ciò specificamente diretto. Ora, il lavoro che gli uomini possono svolgere per procurarsi la disponibilità di quei mezzi trova un limite nel fatto che l’uomo stesso e limitato: limitate sono le sue forze, fisiche e mentali, limitata e la sua volontà, limitato e il tempo a sua disposizione, limitato è lo spazio che egli può rendere teatro delle sue operazioni, limitate, infine, sono quelle risorse naturali che egli può porre sotto il proprio controllo. Lo stesso lavoro umano, dunque, in quanto incontra tutti questi limiti (che, è bene ripetere, non sono che altrettante manifestazioni di un unico limite di fondo, che e la limitatezza, la finitezza propria della natura umana), non può mai arrivare a procurarsi tutti i mezzi che occorrerebbero per una completa soddisfazione di tutti i bisogni possibili in un dato momento e di tutti quelli che si possono svlluppare in conseguenza dell’aver soddisfatti i primi.

Ora, la compresenza delle due circostanze testé menzionate – e cioè, da un lato, il carattere illimitato dei bisogni, e, dall’altro lato, il carattere limitato dei mezzi che, mediante il lavoro, si possono rendere disponibili per la soddisfazione di quei bisogni - fa si che le azioni degli uomini comportino necessariamente delle scelte. Non essendo possibile, data la limitatezza dei mezzi, soddisfare compiutamente tutti i bisogni, l'uomo deve continuamente scegliere tra molte possibili linee di azione; scegliere l’una piuttosto che l’altra significa scegliere di conseguire certi fini piuttosto che certi altri, e di conseguirli in una certa misura, piuttosto che in una cert’altra, nonché di usare certi mezzi piuttosto che certi altri, e di usarli in una certa proporzione piuttosto che in un’altra.

2.

Per semplicità, é opportuno illustrare questa particolare caratteristica dell’azione umana - quella caratteristica cioè per cui essa é necessariamente una scelta - distinguendo due casi: nel primo caso, data una certa disponibilità di mezzi, si tratta di scegliere quali fini si intende conseguire con quei dati mezzi; nel secondo caso, dato un fine da raggiungere, si tratta di decidere con quali mezzi debba essere raggiunto.

Immaginiamo un uomo che viva isolato, un Robinson Crusoe, per esempio. Egli dispone di una certa quantità di lavoro, ovviamente limitata, con la quale si trova a dover soddisfare varie specie di bisogni: quello di nutrirsi, di vestirsi, di avere un riparo, di costruirsi degli attrezzi che rendano più efficace il suo lavoro, e cosi via: dovrà perciò decidere come suddividere la propria limitata disponibilità di lavoro tra le diverse operazioni adatte a procurargli i mezzi per il soddisfacimento di quei vari bisogni, e -quindi in tanto può agire in quanto effettui una scelta tra varie possibili alternative di azione.

In una società evoluta, nella quale, come diremo meglio in seguito, esiste la divisione del lavoro, e nella quale, quindi, ognuno si procura i mezzi di cui ha bisogno mediante lo scambio, possiamo immaginare un individuo, che, a compenso del proprio lavoro, abbia ricevuto un salario; questo salario gli dà una disponibilità, evidentemente limitata, sulle merci che si trovano in vendita nel mercato, ed egli dovrà decidere quali merci comprare, e in quali quantità, dovrà cioè esercitare un atto di scelta.

Quando si redige il bilancio pubblico preventivo di una nazione, il governo di questa nazione deve scegliere in qual modo debbano essere utilizzati i mezzi raccolti attraverso le imposte: le alternative sono molte; lavori pubblici, scuola, difesa, amministrazione della giustizia, sicurezza sociale, ecc., e per ciascuna di queste alternative si tratta di decidere se e in quale misura essa va perseguita.

In tutti questi casi, e in altri analoghi che si possono immaginare, ci troviamo in presenza di un soggetto, di un centro di decisioni, che può essere una singola persona o un organo collettivo, il quale, a partire da una certa disponibilità di mezzi, e di fronte a certi bisogni da lui sentiti, deve scegliere in qual modo quei mezzi vanno utilizzati per soddisfare quei bisogni nel miglior modo possibile. Si usa dire che, in tutte le situazioni del tipo or ora illustrato, gli uomini agiscono secondo il principio del massimo risultato.

Adesso consideriamo un soggetto che desideri conseguire un certo fine, ossia soddisfare un certo bisogno, e desideri soddisfarlo in una certa misura. Supponiamo poi che egli possa far uso di vari mezzi per pervenire a quella soddisfazione. Per esempio, possiamo pensare a un individuo che, per nutrirsi, possa rendersi disponibili vari generi alimentari, ognuno dei quali può essere ottenuto con un certo dispendio di lavoro, oppure con la spesa di una certa parte del suo reddito. Ovvero possiamo pensare a un individuo che debba spostarsi da una località a un’altra, e possa farlo mediante mezzi di trasporto diversi (treno, automobile, aereo), l’uso di ciascuno dei quali comporti una certa spesa; o ancora, a un individuo, che, avendo deciso di trascorrere un pomeriggio di svago, possa farlo in vari modi (recandosi al cinema, o al teatro, ol a una partita di calcio, e cosi via), ognuno dei quali implichi un certo costo.

Se, in tutti questi casi, le varie alternative soddisfano il bisogno nella medesima misura, la scelta verrà effettuata in modo che l’impiego dei mezzi - rappresentato dal dispendio di lavoro o dalla spesa del reddito a disposizione - sia il più piccolo possibile. Si usa dire, allora, che, in tutte le situazioni del tipo esaminato, gli uomini agiscono secondo il principio del minima mezzo.

Noti bene il lettore come tanto il principio del massimo risultato quanto ll principio del minimo mezzo costituiscono regole di comportamento, regole di azione, soltanto, e proprio perché, i mezzi sono limitati. Infatti: 1) non avrebbe senso proporsi di render massimo il risultato della propria azione, se i mezzi fossero illimitati rispetto ai bisogni e quindi consentissero di soddisfare i bisogni stessi in modo pieno e totale; 2) non avrebbe senso proporsi di render minimo l’impiego dei mezzi richiesti per il compimento di una certa azione, se la limitatezza dei mezzi rispetto ai bisogni non ponesse il problema di risparmiare i mezzi stessi per poterli dedicare, nella massima misura possibile, ad usi alternativi, cioè ad altre azioni dirette a soddisfare altri bisogni.

I due principi menzionati, dunque, quello cioè del massimo risultato e quello del minimo mezzo, non sono che due modi di esprimere la medesima realtà, ossia che, nelle azioni che gli uomini intraprendono per soddisfare i loro bisogni, essi devono scegliere tra varie possibili alternative affinché la limitata disponibilità di mezzi sia utilizzata per rendere la soddisfazione dei bisogni la migliore possibile.

Ciò detto, possiamo tornare al problema che ci aveva mossi a svolgere tutte queste considerazioni, il problema cioè della definizione della scienza economica, ossia, come già sappiamo, il problema della determinazione del punto di vista dal quale la scienza economica considera il processo di soddisfazione dei bisogni. Diremo allora che la scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i loro bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi.

É questa la definizione data dall’economista inglese Lionel Robbins nel 1932.

Come si vede, il punto di vista proprio della scienza economica e diverso dai punti di vista che abbiamo menzionati all’inizio di questo capitolo: é diverso da quello della tecnologia, da quello del diritto, da quello della moralità. Che tra questi vari punti di vista debbano esistere dei rapporti, risulta chiaro dalla semplice considerazione che, per diversi che possano essere, tuttavia essi si riferiscono alla medesima realtà, che è l’agire umano. Quali questi rapporti siano, o debbano essere, e un problema assai difficile, al quale potremo fare solo qualche accenno, e soltanto nel seguito di questa trattazione.

Qui vogliamo solo aggiungere che l’aspetto economico dell’agire umano viene generalmente esaminato, dalla scienza economica, prendendo in considerazione gli uomini in quanto membri di una società: di qui il nome di economia politica, con il quale assai spesso la scienza economica è pure designata.

Da Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.

Flessibilità a Milano

La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice [1].

Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese [2]. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante [3].

L’intreccio tra posizioni “di destra” e posizioni “di sinistra”, tra impostazioni aperte agli interessi privatistici più spinti e posizioni giacobine, è una caratteristica della cultura milanese che andrebbe indagata a fondo. Qui vorrei segnalare che in questi anni di nuovo Milano si presenta con un evento dello stesso segno. Una evento importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato: grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.

Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegneranno ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero [4]. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.

Una valutazione positivadel passato più recente

Il documento parte da una critica intelligente e serrata, e del tutto condivisibile nelle argomentazioni, della pianificazione tradizionale: è sempre da una critica della pianificazione vigente che muovono i tentativi di sua demolizione. Esso accompagna a questa critica una valutazione positiva delle modifiche legislative introdotte nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Di queste modifiche legislative (e in particolare degli “strumenti urbanistici anomali”[5] che la caratterizzano) il documento interpreta correttamente – a mio parere - il significato; vale la pena di seguire l’autore in quella che per lui è un’apoteosi e per me, invece, coincide con una critica profonda.

I provvedimenti più recenti hanno segnato un significativo mutamento della legislazione urbanistica rivolto a facilitare i processi di variante del piano regolatore generale, ad introdurre un ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale, e a sviluppare forme consensuali di decisione (p.3).

Sulla base di una puntuale analisi dei nuovi strumenti normativi introdotti a partire dal “decreto Nicolazzi” del 1982, gli autori affermano, con una valutazione complessiva incontestabile, che (i corsivi sono miei)

i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni ‘90 costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana (p.23).

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. E con quest’ultimo termine non si indica una periodo di particolare estensione e diffusione delle pratiche di corruzione (quelle pratiche, come molti giustificazionisti ricordano spesso, che “sempre ci sono state e sempre ci saranno”), ma una fase particolare della nostra storia: una fase nella quale la corruzione è divenuta chiave di volta di un sistema di potere e bussola accreditata delle decisioni politiche – in particolare di quelle relative al governo del territorio[6].

Certezze e incertezzenel piano regolatore generale

Per gli autori del documento per la Grande Milano le tendenze derogatorie e delegificatorie che si sono manifestate in quegli anni hanno la loro legittimazione nella scarsa rispondenza del piano regolatore generale rispetto alle esigenze degli operatori immobiliari. Il documento riprende e sviluppa con intelligenza le critiche alla vigente pianificazione urbanistica che sono state sviluppate negli ultimi decenni dalla cultura urbanistica italiana. Sviluppa in particolare un aspetto, che mi sembra esprimere con compiutezza il punto di vista dell’operatore immobiliare: un soggetto cui viene riconosciuta, nel documento milanese, nuova e trasparente centralità.

Mi riferisco alla questione delle “certezze e incertezze” del piano regolatore. Il documento osserva a questo proposito che il piano regolatore generale, se “produce due tipi di certezza: la certezza dei diritti esistenti, che il piano conferma, e la certezza dei diritti legati alle trasformazioni prescritte dal piano”, produce anche “due forme di incertezza, dovute alla possibile inadeguatezza delle norme nei confronti delle variabili aspettative del mercato e al possibile mutamento delle norme nel tempo. Inoltre, il processo di pianificazione aggiunge due altre forme di incertezza che riguardano il contenuto e il tempo delle decisioni” (p.29).

Su questo punto conviene soffermarsi perché nella formazione della proposta degli autori gioca un ruolo essenziale. Secondo le categorie adoperate,

”il riconoscimento degli usi esistenti costituisce la certezza dei diritti d’uso in atto e dei valori corrispondenti. La disposizione delle trasformazioni degli usi esistenti e la definizione di nuovi diritti d’uso è anch’essa una certezza — è una certezza giuridica perché il piano è una legge —, ma la prospezione dei nuovi valori legati ai nuovi diritti costituisce […] solo una certezza ipotetica. L’espressione suona come un bisticcio, ma cerca di esprimere il fatto che la prescrizione da parte del piano delle trasformazioni degli usi esistenti è in realtà una disposizione ipotetica o condizionale, in quanto la prescrizione di un nuovo uso del suolo equivale ad un’affermazione del tipo ‘se … allora’. Solo se la prescrizione del piano viene rispettata , allora i nuovi usi verranno posti in atto e si produrranno i nuovi valori” (p. 29).

Di fronte a questo sistema di certezze e incertezze del piano regolatore generale da parte degli operatori viene “una richiesta contraddittoria: da un lato si esprime la domanda di certezze che garantiscano gli investimenti, dall’altro la domanda di flessibilità per permettere di adeguare norme e programmi di investimento alle dinamiche del mercato”.

In definitiva, secondo gli autori del documento, certezze e incertezze “presentano vantaggi e svantaggi, ma le certezze legate alle trasformazioni prescritte dal piano — indicate come certezze ipotetiche — si rivelano un inutile elemento di rigidità del sistema e, per introdurre elementi di flessibilità nel sistema, la loro scomparsa risulta necessaria”.

Modello continentale e modello britannico

Il ragionamento di fondo del documento è sorretto da una valutazione più generale, che costituisce in qualche modo il punto d’avvio dell’intera argomentazione (e della proposta di cui essa costituisce l’abito). Esso ha la sua premessa in una valutazione, a mio parere corretta e condivisibile, delle differenze nelle pratiche e nelle culture della pianificazione presenti in Europa. Nel documento si osserva infatti che:

“la rigidità di sistema non è una caratteristica specifica dell’urbanistica italiana ma di tutta l’urbanistica europea, ad eccezione di quella britannica. La coppia certezza/flessibilità assume caratteri molto diversi nella tradizione urbanistica continentale e in quella britannica. Il confronto tra piano regolatore e piano di struttura britannico permette di capire come il prezzo della flessibilità sia la discrezionalità amministrativa, e come la flessibilità incida sul rapporto tra piano e progetti, e quindi tra amministrazione e operatori, pubblici e privati”.

In che modo differisce questo rapporto nel modello continentale e in quello britannico?

Nel modello continentale il rapporto tra piano e progetti è regolato dal controllo di conformità, mentre nel modello britannico prevale il controllo di prestazione. Nel modello continentale le norme preesistono al progetto e formalmente sono un vincolo-risorsa per l’investitore, nel modello britannico le norme sono, almeno in parte, il frutto di un rapporto negoziale tra l’amministrazione e l’investitore.

Nello svolgere il loro ragionamento agli autori non sfugge la ragione della differenza tra l’impostazione continentale e quella britannica. La “profonda diversità” tra i due sistemi è “dovuta soprattutto al fatto che nella tradizione britannica i diritti di trasformazione urbana sono dello Stato” (p.5).

E la maggiore discrezionalità del modello britannico poggia proprio sulla circostanza “che i diritti di trasformazione degli usi del suolo sono di proprietà dello stato e ciò garantisce al modello la sua flessibilità; al contrario, la mancanza di discrezionalità che caratterizza il modello italiano e continentale è dovuta alla necessità di rispettare i diritti soggettivi di trasformazione degli usi del suolo e ciò determina le certezze formali offerte dal modello”.

Non è certo una differenza da poco. La necessità di un forte e penetrante potere pubblico nel campo delle decisioni sull’uso del territorio, di una pervasiva capacità regolatrice dello Stato sull’esercizio dei diritti immobiliari, sta nel fatto che questi erano stati venduti ai proprietari privati: erano stati individualizzati. Basta rileggere le pagine di Hans Bernoulli[7] per averne un’illustrazione convincente.

È evidente che, là dove lo Stato dispone dei “diritti di trasformazione urbana” (dove cioè il controllo delle trasformazioni è strutturale e patrimoniale) gli interessi collettivi non hanno bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi per essere soddisfatti. Ma è vero anche il contrario: dove i “diritti di trasformazione urbana” appartengono ai privati la tutela degli interessi collettivi ha bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi. Non è anche in questo senso, forse, che può esser letta tutta la discussione sull’urbanistica che si è sviluppata in Italia particolarmente dagli anni 60? Si può dire che il tentativo perseguito prima attraverso l’esproprio generalizzato delle aree di trasformazione urbanistica[8], poi attraverso l’attribuzione allo stato dello jus aedificandi[9], esprimeva proprio l’intenzione di superare il controllo regolativi (sistema dell’Europa continentale) con il controllo strutturale (sistema britannico).

Gli autori del documento dimenticano la profonda differenza strutturale che è alla base dei due modelli. Essi, anzi, si compiacciono del fatto che “malgrado la profonda diversità dei due modelli […] si manifesta sempre più nelle pratiche una loro convergenza”.

Questa, con ogni evidenza, non si esplica nello svilupparsi, nelle società del Continente, della tendenza ad attribuire allo Stato maggiori “diritti di trasformazione urbana”, ma in quella di diminuire, a favore degli interessi immobiliari privati, la capacità regolativa dello Stato anche là dove questo non dispone dei diritti di trasformazione urbana, o ne dispone in misura limitata.

Il modello milaneseuna “convergenza verso il basso”

È proprio alla convergenza “verso il basso” del modello continentale con quello insulare che “fanno riferimento le nuove procedure proposte per Milano”. Si propone la sintesi tra i due modelli e la costruzione di un terzo modello:

È possibile comporre parte delle qualità dei due modelli in un terzo modello caratterizzato da un relativo indebolimento dei caratteri di entrambi, ad esempio, un modello di tipo italiano che acquista flessibilità rinunciando alle certezze ipotetiche. Il modello proposto può essere definito ‘certo e flessibile’, poiché è rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo (p.4).

In altri termini, il “modello milanese” si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato.

Una pianificazione asimmetrica

Ma vediamo più da vicino come si articola la proposta del “modello milanese”. Esso si basa sul presupposto (sulla scelta) che “in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore — ad esclusione di particolari salvaguardie —, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi”.

Quest’affermazione può sembrare abbastanza generica. Ma essa viene subito precisata e chiarita:

“In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate” (p.47)

In sostanza, la pianificazione comunale si limiti a definire la disciplina delle parti della città già conformate, delle quali si intende conservare la stabilità dell’assetto raggiunto, e dei connessi valori immobiliari. Lì il piano sia certo e inequivocabile.

Dove viceversa si prevedono trasformazioni negli assetti (e nei valori immobiliari), lì la pianificazione sia generale, generica, “strategica”: indichi scenari, obiettivi, indirizzi. Si esprima non in un “piano” (in un documento impegnativo, specificamente riferito al territorio e opposable aux tiers), ma in un “documento”: un documento che peraltro non sia in alcun modo cogente, ma sia continuamente modificabile dai progetti e programmi presentati dagli operatori, purché adeguatamente motivati e argomentati.

In altri termini, la pianificazione dovrebbe essere “certa e flessibile” in modo profondamente asimmetrico. Nelle aree dove i valori immobiliare sono già consolidati, dovrebbe garantire (ai titolari dei valori immobiliari) la certezza della loro stabilità nel tempo. Nelle zone dove invece si possono prevedere trasformazioni, il pubblico sostituisca la certezza delle sue determinazioni con una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle “convenienze”) degli operatori privati. Quando questi ultimi si manifestassero e divenissero maturi, l’amministrazione dovrebbe tradurli in certezze.

Non sembra che ci sia molto da aggiungere. Del resto, il documento lo afferma già nelle prime pagine: il piano deve essere “rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo”.

Gli autori del documento si rendono conto di alcune delle più immediate conseguenze della loro proposta: Essi scrivono infatti:

“È evidente che l’aumento di flessibilità e di discrezionalità comporta maggiori opportunità per gli interessi individuali di accesso al piano e al mercato urbano, ma il rischio che interessi individuali prevalgano sull’interesse generale non dipende dal tipo di strumenti tecnico-giuridici disponibili quanto dalla volontà e dalla capacità politica di resistere a pressioni che sono in contrasto con l’interesse generale”.

È un’osservazione giusta, ma le conseguenze possono essere molto preoccupanti. Gli strumenti tecnico-giuridici sono un sistema di garanzie la cui ratio sta nell’assicurare che gli interessi collettivi, e quelli strutturalmente meno protetti, siano adeguatamente posti al riparo dagli errori e dalle debolezze degli uomini, e dalla partigianeria degli interessi specifici. Rinunciare a quelle garanzie, senza sostituirle con altre, significa trasformare la società in una giungla in cui solo i più forti sopravvivono[10].

A me sembra molto più ragionevole, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che regole non ce ne devono essere più. Da questo punto di vista, mi sembra molto più convincente un’altra “terza via” che si sta tentando di percorrere.

Un’altra “terza via”

Nulla sarebbe più miope che reagire alle trasformazioni sbagliate del vigente sistema di pianificazione (o per meglio dire, del sistema di pianificazione “classico”, poiché quello vigente è già stato abbondantemente deformato) limitandosi a difendere il passato, e la lettera della tradizione. Che i metodi, gli strumenti, le tecniche della pianificazione vadano profondamente trasformati, è evidente a tutti. Strade di innovazione radicalmente differenti da quella proposte da Luigi Mazza – nel rispetto e nella continuità con i principi di fondo della tradizione – sono state percorse, sia pure in modo ancora insufficiente e parziale.

Mi riferisco, per esempio, a quel tentativo, che, con altri, ho cominciato a sperimentare a Venezia negli anni Ottanta, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni Novanta[11], che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali recenti[12], e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati[13].

È un tentativo che si basa anch’esso sulle critiche all’inefficacia della vigente strumentazione urbanistica, che tende anch’esso a introdurre elementi di flessibilità nella pianificazione e nel governo pubblico delle trasformazioni, che tende anch’esso a introdurre anche nella pianificazione italiana elementi di operatività, ma che – a differenza del “modello milanese” –conserva il primato del potere pubblico nel campo della trasformazioni urbane e territoriali.

Si tratta di quel modello basato sulla distinzione tra due tipi di “regole”:

1. quelle relative alle scelte strategiche e alle “condizioni alle trasformazioni” poste dalle esigenze di tutela delle qualità ambientali e storiche e di prevenzione dei rischi territoriali, da definire in relazione ai tempi lunghi e con prescrizioni “forti”, certe e non negoziabili;

2. e quelle relative alle concrete trasformazioni fisiche e funzionali, da decidere in relazione alle esigenze, alle opportunità, alle disponibilità di risorse e di attori, valutate nel breve-medio periodo e da definire con procedure caratterizzate da flessibilità e negoziabilità: nell’ambito, certamente (e questo è il punto fondamentale) di prestazioni preliminarmente definite.

La distinzione tra il primo tipo di regole (quelle strategiche e strutturali, valide a tempo indeterminato, formate in relazione ad esigenze permanenti o a scelte di lungo periodo) e il secondo (quelle programmatiche, legate alle esigenze, convenienze e previsioni di breve periodo, coincidenti con la durata del mandato amministrativo) consente di risolvere almeno i più rilevanti limiti di efficacia della pianificazione classica. Consente di ridurre consistentemente i tempi della formazione del piano (poiché la base informativa è costruita una volta per tutte, e sistematicamente aggiornata); consente di effettuare altrettanto sistematicamente il monitoraggio delle scelte e la valutazione dei loro effetti; e consente di distinguere molto più chiaramente di quanto oggi non sia l’ambito delle scelte tecniche e quello delle scelte politiche. Ma argomentare tutto questo richiederebbe uno spazio maggiore di quello di questo articolo.

Per concludere, alcuni principi

Intendiamoci, il modello che si esprime nelle proposte dell’INU, nelle leggi urbanistiche che ho citato, nel testo unificato della Camera dei Deputati non è certo – nelle sue differenti formulazioni – limpido e privo di errori. Io stesso ne ho in più occasioni criticato questa o quell’altra applicazione. Nella sua stessa logica di fondo, non è certamente l’unico modello proponibile, e non è neppure detto che sia il migliore.

In tutte le sue formulazioni esso peraltro resta fedele ad alcune prerogative, ad alcuni principi, che a me sembrano essenziali e che del resto appartengono alla tradizione e alla prassi europea. Proverò a enunciarli:

1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,

2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,

3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,

4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,

5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Mi sembra che è a questi principi che bisognerebbe riferirsi nell’esame di qualunque modello di nuova pianificazione, e che è sulla coerenza con essi che si dovrebbe misurarlo.

Così come si dovrebbe ragionare sugli effetti che rischia di avere, sul sistema economico nazionale, un approccio alle trasformazioni urbane che privilegi – come quello milanese - gli interessi degli operatori immobiliari, e che anzi assuma il loro punto di vista come centrale. Resto convinto che una delle radici dei mali del sistema economico italiano (e una delle anomalie italiane rispetto ad altri paesi europei) sia nell’incompiutezza della rivoluzione borghese, nel compromesso tra borghesia capitalistica e ancien régime che fu stipulato per costruire lo stato nazionale, sull’effetto deprimente che la facile percezione di rendite (spostando gli investimenti dalle attività imprenditoriali a quelle rent oriented) ha sempre avuto sul processo d’accumulazione e sulla conseguente tensione all’innovazione.

[1] Lo ha denunciato sistematicamente Giuseppe Campos Venuti, a partire dagli anni ’80. Si veda ad esempio: G. Campos Venuti, Deregulation urbanistica a Milano, introduzione al dossier Milano senza piano – Urbanistica milanese degli anni 80, a cura di V. Erba, “Urbanistica informazioni”, n. 107, anno XVIII, set.-ott.1990. Si veda anche G. Barbacetto, E. Veltri, Milano degli scandali, Laterza, Bari 1991 e, per gli anni più recenti, F. Pagano, In assenza di una nuova legge regionale, o in alternativa..., “Urbanistica informazioni”, n. 171, anno XXVIII, mag-giu 2000.

[2] La polemica tra due assessori, entrambi del PCI, Raffele Radicioni a Torino e Maurizio Mottini a Milano, fu resa esplicita in articoli molto chiari sulla stampa quotidiana di quegli anni. Mottini può essere considerato un anticipatore della linea che affida agli interessi degli operatori e dei proprietari privati l’egemonia nella gestione dell’urbanistica. Si veda, su “L’Unità”, la posizione di Mottini il 18 agosto 1982 e la replica di Radicioni il 2 settembre 1982.

[3] Suscitò reazioni contrastanti un editoriale di “Urbanistica informazioni” (n. 60, anno X, nov.-dic. 1981) in cui criticavo le “complicità oggettive” degli atteggiamenti accademici e neutrali di parte della cultura urbanistica dell’epoca nei confronti di una linea politica emergente, che tendeva a incrinare il principio della funzione pubblica dell’urbanistica.

[4] Il pensiero e la proposta espressi nel documento della giunta milanese erano stati elaborati ed esposti da Luigi Mazza in molti dei suoi scritti: si veda, tra gli altri, Piani ordinativi e piani strategici, “CRU – Critica alla razionalità urbanistica” n. 3, 1995; Difficoltà della pianificazione strategica, “Territorio” n. 2, 1996; Il tempo del piano, “Urbanistica” n. 109, 1996; Certezza e flessibilità, “Urbanistica” n.111, 1999.

[5]Adopero l’espressione impiegata, e sviluppata, nella ricerca Murst 40%, coordinata da F. Indovina, dal titolo Meccanismi economici, procedure e regole finalizzate a indebolire il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali. Un'alternativa, e in particolare nella parte curata da I. Apreda ( Analisi degli strumenti anomali, rispetto alla strumentazione tradizionale, che sono stati introdotti nel recente passato, sia attraverso la legislazione che per iniziativa amministrativa). La ricerca è in corso di pubblicazione presso l’editore Franco Angeli.

[6] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

[7] Hans Bernoulli è un autore oggi poco noto. Nacque a Basilea il 12 febbraio 1876, svolse attività professionale e di studio a Berlino e a Basilea. Docente di pianificazione urbana, fu titolare di cattedra alla Scuola politecnica federale di Zurigo fino al 1939, quando perse l’incarico per la sua attività politica. È morto nel 1959. Autore di numerosi scritti (di urbanistica, architettura, poesia. letteratura), il suo interesse principale è per la città. L’unico suo libro tradotto (in italiano e in francese) è Die Stadt und ihr Boden ( La città e il suolo urbano) la cui prima edizione è a Zurigo, 1945. In Italia, è stato pubblicata da Antonio Vallardi Editore nel 1951. È esaurito da tempo; ampi stralci ne sono stati pubblicati su “Urbanistica informazioni”, n.79, gennaio-febbraio 1985. Inspiegabilmente poco citato nella letteratura urbanistica italiana, un’ampia bio/bibliografia di Bernoulli è in Kunstler Lexikon der Schweiz XX Jahrhundert, ed.Huber & Co. Aktiengesellschaft, Frauenfeld 1958/1961.

[8] La proposta dell’esproprio generalizzato fu avanzata dal ministro democristiano ai Lavori pubblici Fiorentino Sullo nel 1962. Essa consisteva nel prevedere che, nell’attuazione dei piani regolatori comunali, i comuni acquisissero le aree destinate all’espansione, le urbanizzassero e le cedessero agli utilizzatori. Si tratta di un modello largamente adoperato nelle socialdemocrazie dell’Europa centro-settentrionale. Sulla proposta di Sullo, oltre alla stampa dell’epoca, vedi: F. Sullo, Lo scandalo urbanistico, Vallecchi, Firenze 1965; V De Lucia, Se questa è una città, Editori Riuniti, Roma 19922; A. Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998.

[9] Nel 1968 la Corte costituzionale (sentenza n. 55 , del 9 maggio 1968, depositata in Cancelleria il 29 maggio) dichiarò l’incostituzionalità degli articoli della legge urbanistica del 1942 che sottoponeva gli immobili destinati a spazi pubblici a vincolo a tempo indeterminato e non indennizzato (l’acquisizione pubblica, e quindi l’indennità, erano incerti e non definiti nel tempo). Tra le proposte che emersero nel dibattito giuridico per superare l’impasse acquistò particolare rilievo quella avanzata dal presidente della Corte costituzionale, il moderato Sandulli. Questi (e con lui numerosi giuristi) sosteneva la legittimità costituzionale di una legge che avesse stabilito, in linea generale ed applicata erga omnes, che l’edificabilità è un requisito che non appartiene al proprietario, ma alla collettività. La proposta apparve la prima volta in: E. Capocelatro, Intervista con il presidente della Corte costituzionale, in “L’astrolabio”, n. 27, luglio 1968, ora in “Urbanistica”, n. 53, p. 101-102. Si veda anche: V. De Lucia, E. Salzano, F. Strobbe, Riforma urbanistica 1973; E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Giuseppe Laterza editori, Roma-Bari, 1999.

[10] Quando ho mosso questa osservazione Luigi Mazza mi ha risposto, in pubblico, che la sua risposta si reggeva sul fatto che il gruppo di Comunione e Liberazione milanese (lui li definiva: i “Comunisti Leninisti”) cui faceva riferimento, e in funzione dei quali era stata calibrata la proposta, erano così convinti sostenitori del primato dell’interesse pubblico che si poteva stare tranquilli. Torniamo al cesarismo!

[11] Si veda, in particolare: L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in: Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana - 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.137-153.

[12] Le leggi urbanistiche che, in modo più o meno convincente, si rifanno ai nuovi principi sono quelle della Toscana, legge 5 del1995; Umbria, legge 28 del 1995 e legge 31 del 1997; Liguria, legge 36 del 1997; Basilicata, legge 23 del 1999; Lazio, legge 38 del 1999; Emilia Romagna, legge 217 del 2000. Una prima analisi dei loro contenuti innovativi è reperibile nel già citato sito internet.

[13] Si veda: Camera dei deputati - XIII legislatura, Resoconto della VIII Commissione permanente, (Ambiente, territorio e lavori pubblici), giovedì 11 gennaio 2001, Allegato 2, Norme in materia urbanistica. Sito internet: http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/bollet/frsmcdin.asp?percboll=/_dati/leg13/lavori/bollet/ 200101/0111/html/08/&pagpro=70n1&all=on&commis=08

TESI ALTERNATIVE ALLE TESI DA 7 A 12 E ALLA TESI 16

Premessa

Le tesi alternative qui allegate sostituiscono le tesi relative alla efficacia della pianificazione (dalla n. 7 alla n. 12) e le tesi relative al rapporto pubblico-privato.

Per quanto riguarda le prime (sostituite dalle tesi alternative dalla n. 6bis alla n. 12) esse erano stato già da me piu' volte annunciate nel corso finale dei lavori e costituiscono in parte una integrazione delle tesi licenziate dal Consiglio Direttivo Nazionale e in parte una impostazione nettamente diversa, sia per quanto riguarda la sistematica che per quanto riguarda i contenuti.

Lo sforzo di raggiungere chiarezza e sinteticità ha provocato forse qualche schematismo, ma credo che questo non ostacoli una fruttuosa discussione.

Per quanto riguarda l'ultimo gruppo di tesi (dalla n. 13 alla n. 20) esse in parte (tesi n. 16) costituiscono un ritorno e un rafforzamento della stesura che avevo inizialmente proposto, e che era stata modificata nel corso del lavoro di mediazione svolto nelle riunioni finali. Le modifiche alle altre tesi di questo gruppo costituiscono solo degli snellimenti e l'eliminazione di passaggi che risultano ripetitivi rispetto alle argomentazioni delle tesi alternative precedenti.

Tesi alternativa alla n. 6

Per individuare le caratteristiche che la pianificazione territoriale e urbana deve acquisire è necessario definire preliminarmente quali sono oggi, in Italia e in Europa gli obiettivi verso i quali la pianificazione, nell'ambito delle finalità generali del governo del territorio, deve tendere. Tali obiettivi consistono nel massimo risparmio delle risorse naturali e storiche sedimentate ed espresse nel territorio, e nel massimo miglioramento della qualità dell'ambiente nel quale si svolge la vita dell' uomo e della società.

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La dissipazione di risorse naturali è divenuta, a livello planetario, ragione di preoccupazione grave per la stessa sopravvivenza del genere umano. La degradazione, disgregazione, mercificazione del patrimonio culturale sedimentato sul territorio è divenuta, particolarmente in Italia, una delle forme più intollerabili di spreco di ricchezza comune della civiltà. L'ambiente urbano nel quale vive la grande maggioranza della popolazione italiana presenta crescenti caratteri di insopportabilità umana e sociale. Dalla consapevolezza di queste condizioni occorre partire anche per definire quali debbano essere, in una parte limitata del globo terracqueo, gli obiettivi dominanti che la pianificazione deve assumere e che devono condizionarne indirizzi, metodi, tempi.Il primo obiettivo è costituito dal massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e co sti elevati. Essenziali e vitali tra tali risorse sono ovviamente quellecostituite dai residui elementi di "naturalità": ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degra dato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggi bilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, a tutti i livelli, deve essere quindi quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" come so pra definita (a meno che non sia dimostrato in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che tale sottrazione è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie altrimenti non soddisfacibili), e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità".Di uguale rilievo si devono considerare le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'in treccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia (siano essi più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltrag gio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua) rappresenta parte sostanziale della civiltà cui apparteniamo. Indirizzo essenziale della pianificazione, a tutti i livelli, deve es sere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garan tire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le carat-teristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.Raggiungere l'obettivo suddetto in entrambe le sue componenti significa, in definitiva, tutelare due valori essenziali della civiltà e della sua sopravvivenza: l' integrità fisica e l'identità culturale del territorio. Esso allora già di per sè fornisce un contributo al raggiungimento dell'obbiettivo di un sostanziale miglioramento della qualità del l'ambiente della vita umana e sociale. Questo secondo obiettivo richiede però azioni specifiche, dirette a trasformare integralmente il volto delle gigantesche periferie realizzate nel corso dell'ultimo mezzo secolo nelle maggiori aree urbane, come nelle informi conurbazioni formatesi lungo le principali direttrici insediative e nei siti originariamente dotati di qualità naturale e paesaggistica devastati dalla speculazione e dall'abusivismo e resi anch'essi invivibili. Indirizzo della pianificazione e delle politiche territoriali e urbane, a ogni livello, deve essere quello di tendere alla umanizzazione e socializ zazione delle aree urbane, periurbane, suburbane e semiurba ne, mediante interventi di riqualificazione funzionale e di recupero urbano, edilizio, ambientale, estetico, culturale, sociale.

(La prima parte di ogni tesi, in grassetto, è l’enunciato; la seconda parte l’argomentazione)

Tesi alternativa alla n. 7

La pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa, non solo perchè deve applicarsi a una realtà che è essa stessa complessa, ma anche perchè si esplica necessariamente con il concorso dei diversi enti territoriali coinvolti nella formazione delle scelte. Ma la pianificazione dev'esser vista e gestita come un'attività unitaria: deve investire cioè in un'unica logica e in unico processo tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.

La pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa per più d'una ragione. In primo luogo perchè essa deve applicarsi, come strumento per la soluzione di determina ti problemi e per il raggiungimento di determinate finalità, a un territorio e a una società di cui la complessità è caratteristica sempre più marcata: illusorio sarebbe presumere di governare realtà siffatte con strumenti semplici e schematici, con risposte solo puntuali ed estemporanee, o con progetti e programmi limitati ad alcuni aspetti o setto ri o luoghi.Ma la pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa anche perchè essa, nell'assetto istituzionale ita liano, si esplica necessariamente come concorso dei diversi enti coinvolti nella formazione delle scelte: enti che devono potersi esprimere secondo modi e procedimenti tali da garantire la partecipazione degli interessi, di cui ciascuno di essi è portatore istituzionale, al processo di for mazione delle decisioni. L'adozione del metodo della pianificazione come criterio fondamentale di guida di tutte le azioni della pubblica amministrazione suscettibili di incidere sull'assetto del territorio ha anche il significato di garantire una partecipazione siffatta.La complessità tuttavia rischia di degenerare in complicazione, di provocare confusione e inefficienze, di vanificare infine la stessa attività di pianificazione, di rendere irraggiungibili i suoi obiettivi. Segni preoccupanti di que sta tendenza è il proliferare delle figure pianificatorie, il sovrapporsi di piani a tutti i livelli senza chiarezza sulle reciproche connessioni e gerarchie, la separatezza e, spesso, la contraddizione con le quale le esperienze di pia nificazione sono vissute. In questa situazione sarebbe sbagliato proporsi di riordina re i livelli di pianificazione (come pure è necessario) li-mitandosi a semplificare la congerie di piani esistenti. Ciò che è invece necessario è ritrovare una unitarietà di metodi, criteri e indirizzi per tutto il processo di pianificazione. Occorre cioè comprendere come deve svolgersi un' attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che investa in una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo: nazionale, regionale, provinciale e metropolitano, comu nale.

Tesi alternativa alla n. 8

Affinchè un'attività complessa e unitaria, quale la pianificazione deve essere, possa essere condotta con efficacia, è in primo luogo necessario chiarire in modo univoco e rigoroso quali sono gli elementi e gli aspetti territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende la possibilità di definire in modo convincente, da un lato, il contenuto degli atti di pianificazione a ciascun livello e, dall'altro lato, il potere che ciascun livello esercita.

L'efficacia del processo di pianificazione richiede che si chiarisca in modo univoco e rigoroso quali sono le competenze dei diversi livelli di governo. Il criterio oggi di fatto prevalente è quello di assicurare a ciascun livello di governo un ambito di "autonomia sorvegliata" all'interno di un determinato ritaglio territoriale, risolvendo i conflitti, inevitabili finchè la materia è"confusamente ordinata", con defatiganti procedure o con opachi scambi politici. Occorre invece, più produttivamente, partire dalla definizione di quali siano gli elementi e gli aspetti territoriali di competenza di ciascun livello di governo. Su questa base diviene anche possibile definire in modo convincente, da un lato, il contenuto dei piani ai differenti livelli e, dall'altro lato, il potere che ciascun livello di governo esercita, e quindi le conseguenti procedure.Per definire le competenze dei diversi livelli di governo (nel caso della Repubblica italiana, lo stato, le regioni, le provincie e le città metropolitane, i comuni), occorre assumere il criterio per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le determinazioni relative agli elementi e agli aspetti territoriali che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste. E' evidente che le determinazioni relative alla tutela dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio rispondono a interessi la cui titolarità è, oggi, dello Stato, ma che oggettivamente appartengono all'intera umanità presente e futura, tant'è che si va opportunamente assisten do a forme di intervento sovrastatuale o interstatuale. Le scelte relativa alle trasformazioni territoriali volte ad altre finalità, invece, possono riguardare interessi di aggregazioni comunitarie più o meno vaste, in relazione agli ambiti direttamente segnati da tali trasformazioni, oppure modificati dai loro effetti, singoli o cumulativi, nei loro assetti fisici o relazionali. Nella pratica della pianificazione, l'esercizio delle competenze proprie di ciascun livello di governo (e di piano) do vrà esprimersi in forme differenziate in ragione sia della natura e delle caratteristiche degli elementi e aspetti ter ritoriali considerati, sia della congruità delle "forme espressive" (localizzazioni precise, ambiti di localizzazione, soglie, ecc) con le specifiche competenze pertinenti a quel livello. Così, gli strumenti di pianificazione dei livelli di governo sovraordinati e di tipo "generale" dovranno definire pre cise localizzazioni o esatti tracciati per alcuni elementi (per es., un porto o una grande infrastruttura lineare), am biti, o direttrici, di localizzazione, da osservare nell' attività pianificatoria di livello sottordinato o di tipo attuativo per altri elementi (per es., la localizzazione di un aereoporto a livello nazionale, di una sede universitaria a livello regionale, di un istituto scolastico superiore a livello provinciale), quantità o soglie quantitative per altri elementi ancora, e in particolare per quelli influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella somma toria degli effetti che ne risultano.

Tesi aggiuntiva n. 8 bis

Le procedure che regolano i rapporti tra i diversi livelli di governo responsabili della pianificazione territoriale e urbana devono essere radicalmente riconsiderate, sulla base di pochi principi chiari e ragionevoli. Ogni livello di governo deve potersi esprimere sugli atti di pianificazione di competenza di ciascun altro livello, ma la decisione ultima spetta al livello di governo che ha competenza per quel determinato elemento o aspetto della struttura territoriale. Conseguentemente, ad ogni livello di governo deve essere riconosciuto un mero potere di controllo della conformità delle scelte di copetenza dei livelli sottordinati alle decisioni proprie e degli altri livelli sovraordinati.

Complicazione e burocratismi spesso inutili, incertezza degli esiti e dei tempi, deresponsabilizzazione dei soggetti: queste sono le regole che attualmente determinano, di fattoe nella maggioranza dei casi, le procedure attraverso le quali si concretizza il concorso dei diversi enti territoriali nella formazione degli atti di pianificazione. L'atteggiamento dei livelli di governo sopraordinati oscilla (spetto toccandoli entrambi) tra i due estremi, entrambi negativi, della rinuncia ad esercitare le proprie responsabilità istituzionali, e della più penetrante e ossessiva incidenza nelle decisioni proprie del livello sottordinato.Le procedure, che regolano il rapporto tra i differenti livelli di governo nella formazione degli atti della pianifi-cazione, devono essere radicalmente riconsiderate e riformulate, sulla base di principi chiari e ragionevoli che sosti tuiscano l'intera legislazione nazionale vigente in materia e inducano a rinnovare (semplificando, finalizzando e razio nalizzando) una legislazione regionale che è stata finora molto più ossequiosa della lettera della vecchia legislazio ne nazionale che attenta a enuclearne i principi e a innovarne i contenuti.Ogni livello di governo dovrebbe innanzitutto avere l'obbligo di esprimere le proprie scelte territoriali mediante un atto di pianificazione, ossia una serie di elaborati, rife riti a una definita base cartografica, che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. (E' il caso di affermare, a questo proposito, che una Regione che non abbia formato il proprio atto di pianificazione non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare un piano comunale).Gli enti territoriali elettivi di livello sottordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sovraordinato esprimendo osservazioni, cui dovrebbe essere sempre obbligatorio controdedurre motivatamente. Parimenti, gli enti di livello sovraordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sottordinato mediante pareri e osservazioni, ai quali dovrebbe essere ugualmente obbligatorio controdedurre motivatamente, ma che dovrebbero essere vincolanti solamente ove concernenti la tutela di interessi la cui competenza sia riconosciuta ai predetti enti di livello sovraordinato.E ove gli enti di livello sovraordinato abbiano provveduto ad esprimere tali interessi mediante gli strumenti di pianificazione di propria competenza, la vigenza degli strumenti di pianificazione di livello sottordinato dovrebbe essere soggetta soltato al controllo della loro conformità alle de terminazioni dei primi. Non dovrebbe infine essere previsto alcun controllo di merito, da parte degli enti di livello sovraordinato, sugli atti di pianificazione di tipo "attuativo", che vengano dichiarati, e siano, meramente esecutivi delle prescrizioni di strumenti di tipo "generale" già vigenti.

Tesi alternativa alla n. 9

Complessa per la realtà che esprime e per i soggetti che coinvolge, unitaria nello spazio nella capacità di configurare l'intero territorio come un sistema coerente, la piani ficazione territoriale e urbana deve essere concepita e praticata come un'attività continua nel tempo. Dalla generalizzazione della prassi distorcente delle varianti e delle deroghe è necessario passare a quella, adeguatamente formalizzata, dell'aggiornamento sistematico degli atti di pianificazione, per avvicinare i tempi delle decisioni sul ter ritorio ai tempi delle necessità sociali.

Si afferma spesso, e a ragione, che occorre passare dalla formazione di piani a un'attività continua, costante e sistematica di pianificazione. Questa affermazione non può in dicare solamente lo spostamento dell'accento da un atto (il piano) a un processo (la pianificazione), concependo e praticando però quest'ultimo come la mera successione di una serie di piani. L'efficacia del governo del territorio, e la possibilità di rispondere in tempi ragionevoli alle domande della società richiedono più profonde modificazioni nei modi di pianificare. Lo dimostra, del resto, la frequenza con la quale si impiega l'istituto della Variante. In molte città la sommatoria delle varianti (cui poi si aggiungono le concessioni in deroga autorizzate da leggi statali e regionali) ha pesantemente distorto le originarie scelte del PRG, ha reso incomprensibile la disciplina urbanistica ai cittadini, ha cancellato ogni possibilità di ottenere coerenza nell'assetto del territorio. Dietro l'impiego perverso della Variante, oltre agli evidenti interessi privatistici o di torbido scambio politico, si nasconde però anche un'esigenza reale: quella appunto di avvicinare i tempi delle decisioni ai tempi delle necessità sociali. Alcune esperienze compiute consentono di confermare che è possibile superare, senza negarlo, l'istituto del Programma pluriennale d'attuazione (travolto dalla deregulation negli anni in cui avrebbe dovuto invece consolidarsi). Che è possibile concepire e praticare la pianificazione come un insieme di scelte, tra loro coerenti, alcune formulate in relazione al lungo periodo (invarianti) e altre di carattere programmatico e di medio periodo (3-5 anni). Che è perciò possibile rivedere, periodicamente e sistematicamente, le scelte di piano, verificando ed eventualmente correggendo la parte di lungo periodo e proiettando di un altro periodo pluriennale la parte programmatica.Da un piano formato una volta per tutte, e variato "a macchie di leopardo" e alla fine (dopo 15 o 20 anni) rifatto ricominciando da capo, è insomma possibile e necessario pas sare a un'attività di pianificazione la quale preveda l'ag giornamento sistematico (p.es., ogni quinquennio) delle scelte sul territorio.

Tesi alternativa alla n . 10

E' necessario perseguire il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono o promuovono come indispensabile base del processo di pianifica zione. Le analisi effettuate dalle regioni, dalle province e dalle città metropolitane, dai comuni devono essere condotte secondo criteri, parametri, indirizzi coerenti, comparabili, integrabili. Quelle relative alle scale minori de vono poter essere sistematicamente verificate e integrate da quelle relative alle scale maggiori; le une e le altre devono costituire le maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenze costruita su di un'adeguata base cartografica, unitariamente concepita, sistematicamente aggiornata, multilateralmente utilizzata.

La necessaria unitarietà del processo di pianificazione (un unico processo, che si sviluppa articolandosi e integrandosi ai diversi livelli territoriali e di governo) rende indi spensabile ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo svolgono o promuovono come base per la redazione dei relativi atti di pianificazione.Le analisi che vengono condotte dalle regioni, dalle provin cie, dalle città metropolitane, dai comuni, sia sulla struttura fisica che su quella economico-sociale, non possono più esser condotte secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili nè integrabili.

Le analisi impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere si stematicamente verificate e integrate da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori. Le une e le altre devono costituire le maglie più larghe e più strette d'una medesi ma rete di conoscenza.

E' una rete di conoscenze che ha il suo primo elemento e la sua base di riferimento al territorio nel sistema cartogra fico, elemento primordiale d'ogni processo di pianificazione.

E' un danno grave per la capacità di governare con efficacia il territorio, e per lo stesso pubblico erario, che tutti gli enti (salve pochissime eccezioni) costruiscano la propria cartografia di base separatamente l'uno dall'altro. Certamente benemerita è l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali, ma la sua è un'attività monca se e finchè le regioni si disinteressano della cartografia alle scale mag giori, se e finchè gli enti locali non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.

La rete della conoscenza del territorio, in tutte le sue componenti tecniche e di livello (nella sua componente a ma glie più larghe e in quelle a maglie via via più fitte) deve essere aggiornata con periodicità e sistematicita. Un obiettivo da porre è quello di rendere sincroniche le cadenze dell'aggiornamento per i diversi enti territoriali, che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette a quelle campionarie) sia unitario, o quanto meno coordinato, non solo nella concezione ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione.

Tesi aggiuntiva n. 10 bis

Non solo nelle analisi, ma anche nella definizione degli indirizzi della pianificazione i diversi enti territoriali elettivi devono coordinare le loro azioni, finalizzandole al raggiungimento dei grandi obiettivi strategici che devo no caratterizzare i prossimi decenni, e la cui assunzione deve condizionare le scelte della pianificazione a tutti i livelli. I già enunciati obiettivi del massimo risparmio delle risorse territoriali in funzione delle esigenze dell'umanità di oggi e di domani, e il massimo possibile miglioramento della qualita della vita, non possono essere rinviati al 3° millennio, ma devono ispirare subito gli atti di politica territoriale e di pianificazione territoriale e urbana degli organi centrali dello Stato, delle regioni, delle province e delle città metropolitane, dei comuni.

La complessità e la drammatica urgenza degli obiettivi che devono essere assunti per la pianificazione territoriale e urbana, soprattutto se considerate nel contesto dei proces si di trasformazione del territorio che caratterizzano l'attuale fase storica, rendono essenziale il coordinamento degli impegni nei quali dovrebbe esprimersi l'azione di piani ficazione e, più in generale, le politiche territoriali di tutti gli enti territoriali elettivi, ciascuno secondo le proprie competenze e responsabilità. Come si è già argomentato, gli obiettivi della pianificazione consistono essenzialmente, e sinteticamente, nel massimo risparmio delle risorse (fisiche e culturali, naturali e storiche, organizzative ed estetiche) sedimentate nel territorio, e nel massimo miglioramento della qualità dell'ambiente di vita in termini igienici, funzionali, sociali edestetici. Mentre il secondo obiettivo assume priorità assoluta per le condizioni di vita della popolazione di oggi (la quale in grande maggioranza vive, lavora e si muove in ambienti urbani e territoriali caratterizzati dall'inquinamento, dall'assenza di ogni riconoscibile forma, dalla dequalifica zione funzionale e sociale), il primo obiettivo va persegui to ricordando che la società di oggi è responsabile del ter ritorio, e della risorsa che esso costituisce, nei confronti non solo di singoli gruppi sociali oggi presenti, ma del l'intera umanità di oggi e di domani. Ciascuno degli enti territoriali elettivi corresponsabili del governo del territorio ha una serie specifica e non dif feribile di compiti da svolgere e di responsabilità da assu mere, per raggiungere quegli obiettivi sui quali tutti sembrano concordare, ma che appaiono ben lungi dall'essere anche solo esser presi in seria considerazione.

Lo Stato, dopo anni e anni di colpevole e irresponsabile inerzia, provocata dalle forze che si sono succedute al governo e tollerate dalle stesse opposizioni, deve finalmente assumere le sue competenze istituzionali di indirizzo e coordinamento in materia di assetto territoriale e adottare per primo il rispetto degli obiettivi sopra richiamati nel-le politiche di settore più direttamente incidenti sul territorio, invertendo a tal fine, drasticamente, le tendenze in atto (basta pensare alla scandalosa politica nazionale dei trasporti).

Le Regioni, dopo aver per un ventennio deluso le aspettative di chi (a cominciare dai Costituenti) attribuiva loro competenze e responsabilità decisive nelle politiche territoriali, devono finalmente decidersi a completare la politi ca di ricognizione, di vincolo e di determinazione delle in varianti dettate dall'esigenza di tutelare l'integrità fisi ca e l'identità culturale del territorio, timidamente avvia ta con l'attuazione della legge 431/1985 e quasi ovunque vergognosamente interrotta, a pianificare il proprio terri-torio e a fornire agli enti locali indirizzi e, dove occorre, sostegni tecnici e finanziari. Esse non possono poi dimenticare o trascurare la responsabilità dell'esercizio del la funzione sostitutiva in caso di inadempienze.

Le province, le città metropolitane, i comuni ai quali ultimi fino a oggi è stata lasciata pressochè interamente, nel bene e nel male, la responsabilità della pianificazione devono finalizzare la formazione dei nuovi atti di pianificazione al risparmio di suolo, alla riorganizzazione funzionale dei sistemi insediativi, alla valorizzazione e riqualificazione dell'armatura urbana esistente, alla umanizzazione e socializzazione (con interventi di recupero urbano, edilizio, ambientale, estetico, culturale, sociale) dei quartieri realizzati, soprattutto nelle maggiori aree urbane (ma anche nelle bidonville del turismo di rapina e nelle aree devastate dall'abusivismo) nel corso dell'ultimo mezzo secolo.

Tesi alternativa alla n. 11

Ogni atto di pianificazione deve avere il proprio preliminare fondamento scientifico in un'analisi finalizzata della struttura fisica del territorio: più precisamente, in una lettura attenta delle risorse territoriali, in tutte le loro componenti. E per ciascuna delle componenti del terri torio (specifiche porzioni o classi di unità di spazio) la lettura deve consentire di individuare i gradi e i modi del la trasformabilità e della utilizzabilità.

Gli esiti della pianificazione sono in larga misura prede-terminati dalle analisi che vengono svolte e dal modo in cui lo sono. La scelta degli elementi della realtà che devo no esser letti e interpretati, e il modo di farlo, non sono mai neutrali rispetto agli esiti; a maggior ragione, a tali esiti devono essere strettamente finalizzati.Il primo fondamento scientifico di ogni atto di pianificazione (e del processo di pianificazione nel suo complesso) deve essere costituito da una lettura attenta delle risorse territoriali, individuate e classificate in tutte le loro componenti: sia quelle che costituiscono elementi della qua lità del territorio (prevalentemente costituite, nel nostro paese, dal prodotto del sapiente intreccio tra lavoro e cul tura da un lato, e le caratteristiche, i ritmi, le regole della natura dall'altro lato), sia quelle nelle quali si ma nifestano le varie forme di degrado che caratterizzano le periferie urbane e molte e crescenti porzioni del territorio extraurbano. Le risorse territoriali, le qualità e i disvalori dell'ambiente, devono essere visti e interpretati nel loro insieme e nei loro caratteri specifici, con i livelli di approfondi mento pertinenti ai diversi livelli di pianificazione. Dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa settecentesca, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante, dal corso d'acqua alla discarica abusiva, ogni elemento del territorio deve essere individuato e classificato in ragione del la qualità che storia e natura hanno in esso impresso, o delle devastazioni e degradazioni che hanno cancellato, totalmente o parzialmente, le qualità preesistenti. La lettura delle caratteristiche fisiche del territorio deve consentire di individuare, per ciascuna delle componenti o delle classi di componenti, quali sono i gradi, i modi, e insomma le regole della trasformabilità, sia fisica (cioè quali operazioni tecniche, secondo quali criteri, con quali specifiche finalità relative all'"oggetto" si possano o deb bano fare), sia funzionale (cioè quali siano le utilizzazio ni compatibili con le caratteristiche proprie di quell'"oggetto", porzione del territorio o classe di unità di spazio che sia). Deve poi consentire di definire quali priorità debbano essere seguite nelle trasformazioni (per impedire, ad esempio, che terreni agricoli vengano urbanizzati prima di quelli già sottratti al ciclo naturale), quali sono i costi necessari, quali i benefici ottenibili dalla trasformazione e i danni derivanti dall'inerzia o dall'incuria.Alcune esperienze e indicazioni utili per una lettura del territorio in tal modo finalizzata sono venute negli anni recenti, sviluppando antiche intuizioni della cultura urbanistica italiana. In particolare la legge 431/1985, la cosiddetta"legge Galasso",se da una parte è valsa a stimola re un'azione di salvaguardia attiva delle qualità del terri torio (malauguratamente condotta dalle Regioni e dagli orga ni centrali dello Stato, come l'INU ha più volte puntualmen te documentato e denunciato, in modo assolutamente inadegua to rispetto alle aspettative, alle esigenze e alle stesse potenzialità della legge), dall'altra parte è valsa a dimostrare, nelle più convincenti applicazioni, la concreta pos sibilità di operare nel modo suddetto. L'obiettivo che deve essere assunto oggi è quello di porre la lettura delle qualità del territorio e la definizione delle regole della trasformabilità alla base dei processi di pianificazione non solo in tutta la pianificazione regionale ma anche nella pianificazione territoriale e urbanistica ai livelli provinciale o metropolitano e comunale

Tesi aggiuntiva n. 11 bis

Ogni atto di pianificazione deve essere basato su una lettura altrettanto attenta, e sistematicamente aggiornata, della struttura economico-sociale del territorio, con particolare riferimento alla domanda sociale, cioè alle esigenze, ai fabbisogni, alle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, e alle risorse economiche disponibili e impiegabili.

Ogni atto di pianificazione deve essere basato su una lettura attenta e rigorosa delle componenti della domanda socia le che richiedono di operare trasformazioni territoriali. Su un'analisi, cioè, delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità, espresse o esprimibili da parte delle diverse componenti della realtà sociale ed economica, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per migliorarne la vivibilità o per ospitare funzioni nuove, oppure che richiedono trasferimento di funzioni non insediate corretta mente, oppure per rendere i siti nei quali sono insediate funzioni con essi compatibili più idonei alle funzioni ospi tate.Una lettura della domanda sociale (e, più in generale, dei diversi aspetti della struttura economico-sociale di cui la domanda sociale è l'espressione) non ha senso, in un pianificazione quale quella cui si fa riferimento, se non è fin dall'inizio predisposta per essere aggiornata con continui tà e sistematicità. Mentre infatti la struttura fisica del territorio ha una consistente inerzia e le sue trasformazioni operano su archi temporali lunghi, quella economico-sociale si modifica con grande velocità e le sue trasformazioni devono essere registrate e valutate in tempo reale. La progettazione di sistemi informativi, rigorosamente legati a una base territoriale restituita in modo omogeneo con i criteri di analisi della struttura fisica del territorio,e la sua messa in opera contestualmente alle prime fasi del processo di pianificazione, non sono dunque un lusso ma una necessità insopprimibile per la correttezza e l'efficacia del governo del territorio, e un modo per evitare gli attua li sprechi (d'energie, di tempo, di soldi) derivanti dalla ripetitività delle analisi, dalla loro non finalizzazione,dalla loro sostanziale casualità e dispersività. Nell'ambito di queste analisi, attenzione particolare deve esser posta alla individuazione, analitica o stimata, delle risorse economiche, pubbliche e private, attivabili per la realizzazione delle previsioni della pianificazione, con particolare riferimento a quelle adoperabili per realizzare o promuovere gli interventi programmabili nel medio periodoe quelli aventi priorità strategica.

Tesi aggiuntiva n. 11 ter

La pianificazione deve distinguere le scelte che, concernen do qualità e valori propri della struttura fisica del territorio, devono costituire le invarianti delle trasformazionida quelle che, esprimendo esigenze, realtà, priorità più di rettamente legate alla situazione economica, sociale e politica, sono suscettibili di mutamenti in tempi relativamente brevi. In tal modo la pianificazione, sistematicamente veri ficata nelle scelte invarianti e di lungo periodo e aggiornata nelle scelte programmatiche e di medio periodo, può costituire un quadro di coerenza dinamico, capace di adattarsi alle modificazioni conservando costantemente una coerenza complessiva.

Una lettura della struttura fisica del territorio, e in particolare delle sue qualità, quale quella i cui criteri si sono sopra esposti, consente di definire quali sono le gamme di trasformazioni (fisiche e funzionali) compatibili con una utilizzazione del territorio rispettosa dei suoi valori: ossia quali sono le invarianti che l'esigenza di tutelare l'integrità fisica e l'identita culturale del territorio pone alle trasformazioni territoriali e urbane.

Una lettura adeguata della struttura economico-sociale, e le opzioni politico-sociali espresse nelle sedi istituzionali, consentono di definire quali sono, all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione del territorio, lo operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.

La pianificazione, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (perchè le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo), ma deve anche indicare, tassativamente e precisamente, quali sono le trasformazioni operabili e/o prescritte nel breve periodo: nel periodo, cioè, per il quale le previ sioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse economiche sono certamente disponibili.

La pianificazione quindi, sistematicamente aggiornata e resa scorrevole, può finalmente costituire il quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale delle condizioni alle trasformazioni poste dalla risorsa territorio) che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più diretto e pro grammatico esplica la propria efficacia.

Tesi alternativa alla n. 12

La progettazione urbanistica e la progettazione edilizia sono entrambe ovviamente con ruoli diversi e diversa importanza momenti tecnici rilevanti del processo di pianificazione, con le cui scelte interagiscono.

Intendiamo per progettazione quall'insieme di tecniche capaci di prefigurare, e con ciò stesso di rendere facilmente comprensibile, un assetto fisico e funzionale totalmente o parzialmente diverso da quello attuale, esprimendo tale pos sibile assetto mediante la forma, o la simulazione, di un progetto. In tal senso, momento tecnico essenziale della pianificazio ne è il progetto urbanistico, il quale prefigura (in tuttala sua complessità e articolazione, in tutta la sua ricchezza di elementi e d'interazioni), l'assetto d'un organico spazio territoriale o urbano (d'un sistema ambientale, o d' un sistema insediativo o della realtà che entrambi li comprende) soggetto al processo di pianificazione. Il progetto urbanistico può anche costituire il momentodella simulazione dei possibili esiti di diverse scelte territoriali, anche alternative; costituisce un rilevante strumento di verifica o di avvicinamento alla formulazione o de finizione delle scelte della pianificazione generale. Ma anche il progetto edilizio, il quale prefigura l'assetto fisico e funzionale di una porzione limitata di spazio compresa all'interno di un più complesso ambito soggetto a pia nificazione, può costituire un utile momento di verifica a priori delle soluzioni di pianificazione generale configura bili o già configurate, e di approfondimento delle ipotesi normative formulate. Esso è poi lo strumento essenziale per la pianificazione attuativa, dove l'approfondimento e la traduzione in termini precisamente morfologici e funzionali è finalizzata a una rapida realizzazione dell'intervento. Sembra infatti inopportuno prefigurare (in termini prescrit tivi o con ridotte possibilità di scostamento dal "disegno planovolumetrico" o altro) configurazioni formali per parti della città e del territorio che saranno realizzate in un tempo non certo, e comunque non vicino.Sia il progetto urbanistico che il progetto edilizio sono quindi differenziatamente funzionali a gli atti di pianificazione. La loro elaborazione interagisce con le più complessive scelte della pianificazione e ne costituisce parte integrante.

Tesi alternativa alla n. 13

Sul principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana tutti, in teoria, si dichiarano d'accordo. Esso però è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, ad opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico.

Si contraddice il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull'organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell'ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianifi cazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri.

E' quel che è avvenuto o che si propone in numerosi casi re centi. Come a Firenze, dove il piano per l'urbanizzazione della piana a nord-ovest della città è stato redatto in fun zione degli interessi delle società già proprietarie (Fiat) o divenute proprietarie (Fondiaria) delle aree coinvolte.

Come a Napoli, dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del "Regno del possibile" propongono al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupe ro di quasi 70mila alloggi nel centro storico, inclusi gli oltre 5mila di proprietà dello stesso Comune da conferire in proprietà alla s.p.a.

Come a Roma, dove l'Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si è proposta come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasforma zione della città.

Come infine a Milano, dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree è divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale di cui si rinuncia program maticamente a verificare gli effetti sul contesto urbano e metropolitano. Con una rapidissima sequenza di varianti pun tuali si sono infatti autorizzati, e si stanno in molti casi realizzando, oltre 12 milioni di nuove strutture edilizie per il terziario (di cui solo 2 già previsti dal Prg vi gente): come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, come se fosse del tutto indif ferente la loro collocazione nella città, e come infine se non fosse del tutto evidente che il territorio comunale è saldato ed inserito in una agglomerazione a sua volta caotica e destrutturata.

E come in numerose altre città italiane, dove la prassi della cosiddetta "urbanistica contrattata" nasconde la sostanziale abdicazione del potere pubblico elettivo di fronte a nuovi intrecci di interessi economici, dove sono presenti, insieme, il capitale privato, pubblico e cooperativo, interessi industriali, finanziari, assicurativi e fondiari, com plessi multinazionali e aziende locali.

E si contraddice ugualmente il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando le decisioni sull'assetto del territorio, anzichè essere adottate dagli istituti rappresentativi della volontà popolare, sono prese da organismi che, pur essendo parte del sistema dei pubblici poteri, esprimono legittimamente solo interessi parziali (singoli ministeri e assessorati, aziende statali o parastatali e così via).

Una forma peculiare di contraddizione della titolarità pubblica della pianificazione è quella che va affermandosi nel Sud in riferimento alle modalità nuove dell'intervento stra ordinario nel Mezzogiorno (legge 64). Data l'impossibilità dagli enti locali, generalmente privi di adeguate strutture tecnico-operative, di predisporre in modo autonomo i proget ti esecutivi, sui quali chiedere i finanziamenti, sono le tecnostrutture aziendali o gli studi professionali ad esse collegati a produrre in proprio tali progetti decidendone essi contenuti e caratteri e ad offrirli agli enti locali dietro l'impegno di questi a ripagare i "promotori" con l' affidamento delle opere

Tesi alternativa alla n. 14

Affermare la titolarità pubblica della pianificazione non significa escludere la possibilità di rilevanti ruoli dei soggetti privati, e neppure attribuire un valore positivo a qualunque forma dell'intervento pubblico. Oggi, anzi, è necessario denunciare con chiarezza una forma particolare, edestremamente grave, di svuotamento della pianificazione compiuto dalla mano pubblica con l'alibi della "straordinarietà".

Negli ultimi anni la straordinarietà di eventi spesso imprevedibili (come i terremoti), altre volte prevedibili o addi rittura programmati (come i Mondiali di calcio), è stata utilizzata come occasione per introdurre, e via via generalizzare, procedure, indirizzi, poteri assolutamente alterna tivi rispetto a quelli della pianificazione.

Ogni problema, locale o generale, divenuto insostenibile per la lunga inerzia dei poteri istituzionalmente competenti, viene artificiosamente presentato come emergenza cui far fronte oggi con interventi speciali, il cui primo connotato sia la facoltà di non rispettare i piani urbanistici. E si può fondatamente individuare in tale prassi la matrice di una pericolosa legittimazione di poteri pubblici speciali non a caso intestati a singoli fondamentalmente intesi come potestà di deroga. Mentre la deroga, invocata e ottenuta oggi per questa o quell'altra situazione particolare ed emergente,viene poi estesa e tendenzialmente generalizza ta fino a diventare deregulation e cioè (nell'accezione i taliana del termine)deroga da qualsiasi regola, sregolatezza.

Riaffermare la pianificazione come metodo di governo del territorio implica anche la ricerca di un rinnovamento delle forme e dei procedimenti che consenta di raggiungere migliori livelli di efficacia, operatività e verificabilità degli interventi. In questa logica, va perseguita l'individuazione accurata e scientificamente fondata della aree a rischio, nelle quali rendere sistematica la prevenzione delle calamità come con tenuto specifico della pianificazione tanto in termini di riduzione del pericolo quanto ai fini degli indirizzi strutturali di riorganizzazione e riqualificazione insediativa.

Tesi alternativa alla n. 15

La titolarità pubblica della pianificazione, per poter essere esercitata coerentemente con le finalità generali precedentemente richiamate, ha bisogno di alcune condizioni indispensabili. Molte di queste riguardano la definizione di un rapporto corretto tra le diverse articolazioni del potere pubblico e soprattutto tra poteri pubblici e soggetti privati, attraverso un nuovo sistema di regole e di comportamenti relativi agli aspetti economici, istituzionali, etici e professionali.

Dichiarare la titolarità pubblica della pianificazione resta una mera posizione di principio, o un’affermazione accademica, se non è in grado di indicare e determinare (a seconda degli specifici ruoli) quali sono le condizioni indispensabili per il suo esercizio.

Tali condizioni riguardano diversi e fondamentali aspetti della vita e dell'organizzazione della società: quello economico (e in primo luogo la questione del regime degli immobili), quello istituzionale Dove il riordino del sistema amministrativo è una componente rilevante ma non esclusiva di un più ampio complesso di question) quello etico (in cui è necessaria una riflessione critica soprattutto sul rapporto tra momento politico-decisionale e momento tecnico-culturale), e infine su quello professionale (dove si ritiene indispensabile ridefinire il ruolo delle professionalità coinvolte nel processo di pianificazione).

Su questi argomenti l'Inu avverte in modo particolare la necessità di ampliare e qualificare il confronto con altre dimensioni, competenze e saperi presenti nella cultura e nella società italiane, nell consapevolezza che si tratta di nodi che hanno una portata ben più ampia di quella che può essere dominata da uno specifico istituto culturale.

Tesi alternativa alla n. 16

La distribuzione differenziata ai soggetti proprietari dei vantaggi economici della valorizzazione immobiliare conseguente ai piani non può nè deve essere obiettivo di una pianificazione che sia nell'interesse generale. La pianificazione deve farsi carico della concreta realizzabilità delle scelte previste, tenendo conto dell'ambiente economico complessivo e non delle convenienze di questo o di quell'altro specifico soggetto privato. I capitali d'investimento e le capacità imprenditive delle aziende a capitale priva to, pubblico e cooperativo devono trovare nell'attuazione delle scelte della pianificazione, e nella certezza e chiarezza da esse determinate, il campo del loro intervento.

E' noto, oltre che evidente, che il ruolo degli interessi e conomici è determinante nelle trasformazioni territoriali. Il modo in cui vengono definite le regole del rapporto tra scelte sul territorio e concreti interessi economici è perciò essenziale ai fini della qualità (formale, funzionale, sociale) dell'assetto territoriale e urbano. Oggi, gli interessi economici della proprietà, immobiliare e finanziaria, e dell'impresa, sono sempre più spesso i promotori di scelte di localizzazione, urbanizzazione, realizzazione e gestione di interventi complessi i quali (come è attestato dagli esempi già citati) prescindono pressochè totalmente sia dal corretto ruolo dei poteri pubblici elettivi, cui viene chiesto di fornire una mera copertura formale, sia dei metodi e delle procedure della pianificazione, e quindi della valutazione degli effetti che le scelte producono su ambiti territoriali vasti e della trasparenza delprocesso di formazione delle decisioni.

Questo modo distorto di praticare il rapporto tra poteri istituzionali e poteri economici tende a generalizzarsi sianella prassi della cosiddetta "urbanistica contrattata" sia in un uso improprio dell'istituto della concessione, sempre più impiegato come delega piena, indiscriminata e incontrol lata di poteri pubblici a soggetti privati. Esso deriva, e comunque così viene giustificato, come un effetto dell'inca pacità di molte istituzioni pubbliche ad esercitare con efficacia le loro competenze di pianificazione e programmazione. Per combatterlo, e instaurare un rapporto corretto con gli interessi economici, occorre ricondurre questi ultimi al loro giusto ruolo di strumenti di un interesse generale definito dagli enti territoriali elettivi mediante la pianificazione del territorio.

A questo fine è necessario riprendere la classica distinzio ne (tuttora valida nonostante il più complesso carattere dei rapporti tra le diverse categorie d'interessi) tra le figure economiche legate alla produzione, alle attività im-prenditoriali e alla formazione di profitto, e le figure economiche legate alle attività immobiliari e alla formazio ne di rendita. Queste due figure economiche avevano comin ciato a distinguersi anche nei concreti comportamenti negli anni, e nelle situazioni territoriali, in cui la mano pubblica aveva esercitato una moderna politica delle aree. La massimizzazione delle aree acquisite dai comuni con i pur imperfetti strumenti disponibili (in particolare le leggi 167/1962 e 865/1971) e la cessione alle imprese costruttrici delle aree urbanizzate avevano consentito di incrinare il blocco tra proprietà e impresa, tra rendita e profitto. Uno dei risultati più gravi della fase del cosiddetto riflusso urbanistico, e del deperimento o dell'abbandono degli strumenti legislativi disponibili, è stato proprio la ricostituzione di quel blocco e la ripresa di processi di trasformazione immobiliare guidati da interessi speculativi.

Finchè non sarà varata una riforma del regime degli immobili capace di risolvere radicalmente il problema, è necessario che almeno gli interventi strategici nelle aree urbane avvengano secondo il modello dell'acquisizione preliminare degli immobili da parte dei comuni, della loro cessione a-gli utilizzatori, e del convenzionamento degli esiti economici per evitare che le rendite si ricostituiscano sugli immobili trasformati.

inviato da Francesco Remonato, Madrid, 7 aprile 2011

Il manifesto, 29 marzo 2011, p. 16. Locandina della presentazione del libro: P. Ingrao, Indignarsi non basta

La Stampa, 17-21 agostso 2009

un quadro di Magritte

Cit. da Guido Crainz, "la Repubblica", 20 gennaio 2011

"Discorsi", cit. da Giuseppe Allegri, il manifesto, 24 febbraio 2011

LONDRA - Lo si vede già da quasi ogni angolo della città. Ma per il momento è nudo, incompleto e non ancora del tutto cresciuto. Quando sarà terminato, nel 2012, diventerà il grattacielo più alto di Londra e di tutta Europa: 310 metri, 87 piani, un cono di luce, interamente rivestito di pannelli di vetro, che lo faranno risplendere sulla più grande metropoli del continente. A progettarlo è stato un architetto italiano, Renzo Piano, le cui opere adornano mezzo mondo, dal museo Pompidou di Parigi alla nuova sede del New York Times nella Grande Mela, vincitore del premio Pritzker, il Nobel dell’architettura, che ora mette la sua firma anche in cima, per così dire, alla capitale britannica.

Un italiano sul tetto di Londra è la conferma che, per quanto ne dica il primo ministro David Cameron, il multiculturalismo è vivo e vegeto in questa città che cambia pelle in continuazione, mescolando vecchio e nuovo, antico e moderno, classico e avanguardia. E non a caso The Shard, il nome del nuovo grattacielo (alla lettera significa "coccio", "frammento"), ha messo d’accordo perfino laburisti e conservatori, fu un sindaco di sinistra, Ken Livingstone detto "il Rosso" ad autorizzare con entusiasmo la sua costruzione, è un sindaco di destra, Boris Johnson, a salutarlo adesso come «un chiaro e illuminante esempio della fiducia nell’economia di Londra».

Di tanta fiducia è il simbolo, questa nuova torre di Londra, che due grandi giornali londinesi, il Financial Times e il Daily Telegraph, gli hanno dedicato ieri una pagina intera per ciascuno, senza aspettare che sia finito. Dentro ci sarà posto per un albergo a cinque stelle, ristoranti gourmet, uffici per 7 mila persone, appartamenti da 12 milioni di euro l’uno e anche quattro piani (dal 68esimo al 72esimo) per il pubblico che voglia fargli una visitina.

Non tutti, naturalmente, gli danno il benvenuto. Simon Jenkins, principe dei columnist e presidente del National Trust (l’ente che sovraintende ai beni nazionali), lo definisce «un arpione conficcato nel cuore storico» della capitale e anche «un fallo piombato sulla terra dallo spazio capitalista» (non è chiaro come possa un fallo avere forma conica, ironizza il Telegraph, ma forse nello spazio intergalattico sono fatti così). E un principe autentico, l’erede al trono Carlo d’Inghilterra, strenuo difensore dell’urbanistica vecchio stile, o a misura d’uomo come preferisce chiamarla lui (senza necessariamente chiedere all’uomo della strada se vi si riconosce), lo liquida con disprezzo: «Londra ha già un cetriolo gigante (il Gherkin, cetriolo per l’appunto, soprannome di un altro grattacielo criticato da Sua Altezza ma diventato rapidamente un’icona cittadina, ndr), ora siamo sul punto di avere una gigantesca saliera, la nostra città sta trasformandosi in un assurdo tavolo da pic-nic». Sempre il Telegraph commenta che lo Shard ha un aspetto inconsueto per una saliera: magari viene anche quella dal cosmo.

Ma a parte il fatto che il dissenso è – per restare in tema – il sale di Londra, ogni nuova aggiunta allo skyline londinese ha inizialmente generato polemiche, per poi venire vantato con orgoglio da (quasi) tutti. È successo con The Eye, la ruota panoramica in riva al Tamigi, con il Millennium Dome, l’anfiteatro coperto dove si fanno concerti e tornei di tennis, con il grappolo di grattacieli di Canary Wharf, la nuova cittadella degli affari. L’opinione dominante è che lo Shard di Renzo Piano simboleggerà la rinascita di Londra dalla peggiore crisi finanziaria della sua storia, cambiando ancora una volta, insieme a un’altra mezza dozzina di torri di cristallo attualmente in costruzione, l’orizzonte di una città che oggi incarna il design, l’innovazione e il futuro come nessun’altra in Europa.

postilla

parlare di cattive abitudini dei giornalisti forse è un po’ troppo, ma sta di fatto che l’approccio fra il modaiolo e il nazionalista del pezzo finisce per trascurare uno fra gli aspetti davvero innovativi del progetto: con tutto quel volume, lo Shard NON HA POSTI A PARCHEGGIO salvo pochissimi legati ai servizi essenziali, e quindi da un lato approfitta al meglio delle infrastrutture esistenti di trasporto collettivo, dall’altro automaticamente meglio si integra con lo spazio del quartiere e della mobilità pedonale, non dovendo fare i conti con accessi, rampe ecc. ecc. Insomma un’ottima interpretazione del tema “città densa”, non solo a parole, ma nei fatti e nelle regole urbanistiche sottese. Se poi l’archistar riesce a dare il meglio di sé, tanto di guadagnato, ma il pregio come si suol volgarmente dire sta nel “manico”, ovvero nella strategia insediativa, che nella capitale della greenbelt difficilmente starebbe nascosta (solo) dietro al conto in banca degli immobiliaristi.

Va da sé che (almeno là dove le cose vengono affrontate onestamente e non per finta) urbanistica e mobilità debbano andare di pari passo. Il grattacielo di Renzo Piano praticamente ha una stazione come pianterreno, mentre per fare un confronto il cosiddetto "Formigone" a Milano pur molto vicino sia a un paio fermate della metropolitana che alla stazione ferroviaria P.ta Garibaldi, sostanzialmente le ignora. Uno dei principali progetti di riqualificazione urbana newyorkesi, Hudson Yards, si basa esattamente sulla strategia della riduzione ai minimi termini degli standard a parcheggio [vedi pdf allegato]. E in entrambi i casi, Londra e New York, parallelamente a questi (certamente discutibili da tanti altri punti di vista) casi di densificazione si sviluppano politiche cittadine sia di ciclabilità che di cosiddetti "spazi condivisi", ovvero dove l'ambiente stradale viene sottratto sia alla dominanza delle auto che al tipo di segregazione classico delle nostre isole pedonali (f.b.)

il manifesto, 12 febbraio 2011

«La bellezza salverà il mondo». Questa frase, nuda e astratta dal contesto, è attribuita genericamente all'Idiota di Dostoesvkij. In realtà nel romanzo è il nichilista e malato terminale Ippolit a pronunciarla, in forma di domanda rivolta al principe Myskin: «È vero, principe, che una volta avete detto: la bellezza salverà il mondo? Signori - gridò a voce alta a tutti: il principe afferma che la bellezza salverà il mondo». Questo grido di dolore ritorna ancora a noi come un'onda che non ha smesso di inseguire il mare. La storia della bellezza è la storia dei mondi ulteriori che prometteva di aprire: la conoscenza per Platone, lo splendore divino per i medievali, l'Assoluto per i romantici. La bellezza è sempre stata traccia di qualcosa che andava oltre il mero dato. Eppure aveva insieme la forza di essere universale, proprio perché sensibile: perché aperta a chiunque. Ogni creatura poteva e può accedere alle sue forme più semplici, e nessuna ne rimane indifferente. Il valore etico della bellezza comincia qui: nella sua profonda e universale pietà. Il duello costante con la bruttezza non è pertanto qualcosa che si riduce a fattori puramente estetici. Questo non significa che il brutto sia immorale - e aveva certo ragione Tolstoj nel definire sorprendente l'illusione che bellezza equivalga a bontà. Ma se consideriamo la bellezza in un senso più ampio rispetto a quello cui siamo, appunto, abituati, scopriremo un universo fatto di altri concetti ancora: capacità di meravigliarsi, responsabilità, stupore, ecologia, rifiuto della sfiducia. Bellezza è, soprattutto, una forma sensoriale di speranza. Se vedo del bello, se credo nel bello, potrò essere in grado di crearlo.

E dunque, quale bellezza salverà l'Italia? Di certo non quella posticcia e volgare dell'ideale propugnato da Berlusconi: «Amo le belle donne e la vita», come se entrambi fossero qualcosa che va soltanto divorato e insieme sprezzato, senza alcun rispetto. Senza gioia nella fruizione. Ma la bellezza salvifica non potrà essere nemmeno quella televisiva, figlia della precedente, l'estetismo futile delle starlette e dell'avere a ogni costo. E nemmeno, credo, quella sottilmente ipocrita in cui crede il Vaticano - il doloroso splendore di un Cristo che sembra così lontano dal grigio che la Chiesa sta edificando da anni. Queste sono tutte forme di bellezza superficiali. Non disegnano alcun fine oltre l'essere divorate o usate per un fine altro. E invece il segreto della bellezza che salva giace altrove: riconoscerla è rifiutare il cinismo, perché il cinismo significa indifferenza nel senso letterale del termine: tutto vale niente, importa solo quel che mi riguarda. Superficialità verso la bellezza ed egoismo vanno di pari passo.

Al contrario, riconoscere il bello è riconoscere che esiste qualcosa di importante per qualcun altro - qualcosa che va difeso. Certo, ora non siamo più in grado di vedere il divino o la conoscenza pura dietro una forma bella. Non ha alcun senso, e pretendere un ritorno ai tempi che furono è un rimedio peggiore del male - per il semplice motivo che è impossibile. Ma non per questo dobbiamo rinunciare per intero a un ideale umanista del bello. In tal senso l'educazione estetica è qualcosa che va oltre la semplice idea del mero godimento. È un modo di ricostruire l'unità della persona: e in un periodo storico e un Paese così soggetti alla frammentazione dell'esperienza, sembra un'esigenza da ricordare ogni giorno. Rimanere integri. Ritrovare il proprio centro. Il problema di dimenticare un vero rapporto con la bellezza sta tutto in questo nodo: senza fruitori veri, si spegne il senso stesso della creazione. E se un giorno scordassimo come si ama una canzone di Piero Ciampi? E se un giorno gli affreschi di Giotto ci sembrassero soltanto dei disegni qualunque? E se una periferia desolata ci apparisse, di colpo, indifferente rispetto a uno scorcio alpino?

E se la bellezza non salverà l'Italia, perché nessuno vuole più essere salvato? Non si dovrebbe mai chiudere con una citazione. È troppo facile, troppo scontato. Ma non trovo parole migliori per descrivere l'urgenza di tornare a un'estetica consapevole, a un amore per il bello che non termina in facili culti: e sono quelle celebri di Peppino Impastato: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un'arma contro la rassegnazione, la paura e l'omertà. All'esistenza di orrendi palazzi sorti all'improvviso, da operazioni speculative. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l'abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».

È significativo che in tutta la storia della democrazia parlamentare non ci sia stato in alcun paese un grande statista che fosse un uomo d'affari. Spesso uomini come Bonar Law in Inghilterra, Loucheur in Francia hanno coperto dei posti elevati, e magari altissimi, ma non si sa che ve ne siano stati i quali siano riusciti ad esercitare sui loro contemporanei l'influsso che esercitarono uomini della statura di Washington, Lincoln, Gladstone, Bismarck, o Cavour.

La ragione, io direi, è semplicemente questa, che l'opinione pubblica non ha mai potuto ammettere la pretesa del capitalista di essere il fiduciario dell'interesse pubblico. Essa l'ha sempre considerato per quello che è, come uno specialista nel far danaro, e non ha mai effettivamente creduto che abbia senso di responsabilità fuor dell'ambito ristretto della sua classe. Egli non ha mai considerato la legge come un complesso di principii che stanno al di sopra del suo gretto interesse, ed ha sempre cercato, con mezzi leciti o illeciti, di farla interpretare ai suoi propri fini.

Certo, per la sua strada egli ha dimostrato di essere tutto dedito al suo compito e coscienzioso, e non v'è ragione di dubitare della sua sincerità quando crede che il suo benessere privato combaci col bene pubblico. Quando, come in America, egli ha comprato giudici, governatori di stato, e magari i presidenti stessi, l'ha fatto convinto che il renderli pieghevoli strumenti ai suoi fini era per il popolo americano il meglio. Egli si difese nell'unico modo che credeva adatto, perché credeva effettivamente nel suo diritto divino di comandare.

Harold Laski, Democrazia in crisi (1935), cit. in exergo da Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Laterza, Roma-Bari, 2003. Harold J. Laski (1893-1950), politologo ed economista, professore alla London School of Economy, fu autorevole esponente del Labour Party britannico di cui fu presidente nel 1945-46.

la Repubblica, 26 luglio 2010

Ragioniamo sulla rendita urbana

contributi di Edoardo Salzano

0. Introduzione

1. La rendita

2. Rendita e potere

0. INTRODUZIONE

Premessa

Quest’anno e il prossimo alla Scuola di eddyburg si parlerà di economia. In modo un po’ diverso da quello che adopera il mainstream urbanistico.

Quest’anno parleremo di rendita, l’anno prossimo di sviluppo. Si tratta, in entrambi i casi, di termini che hanno pesato e pesano molto sulla città e sulla buona urbanistica. Nelle cinque precedenti sessioni della scuola abbiamo ragionato del peso che “rendita” e “sviluppo” hanno avuto per il consumo di suolo (2005), per il paesaggio (2006), per la città pubblica (2007), per la vivibilità (2008), per lo spazio pubblico (2009). Nella sesta e nella settima andremo al cuore della questione.

In questi quattro giorni ci interrogheremo sui meccanismi che provocano la rendita (in particolare quella urbana) e la sua appropriazione privata; sull’evoluzione storica del peso della rendita urbana e sul suo significato odierno; sui modi e gli strumenti capaci di ridurne gli effetti negativi e utilizzarla “a fin di bene”. E l’anno prossimo ragioneremo analogamente su quell’altro termine così spesso presente nell’urbanistica odierna, e nelle sue mistificazioni: “sviluppo”.

Parleremo della rendita (e dello sviluppo) criticamente, come è d’uso in questa scuola. E ne parleremo da urbanisti e da cittadini, non da economisti: anche se valorosi economisti ci aiuteranno a non dire troppe sciocchezze dal punto di vista della loro scienza, e soprattutto ad approfondire alcune prospettive di lavoro.

Per cominciare, con una breve premessa, cercheremo di raccontare in che modo vediamo il mondo dell’economia partendo da una visione dell’uomo. Anche perchè ci muoviamo in un terreno - quello dell’economia - che, negli ultimi decenni è stato poco frequentato dall’urbanistica. A differenza di quanto succedeva mezzo secolo fa, l’urbanistica delle università e delle associazioni, come quella delle amministrazioni, si è fortemente tecnicizzata: si è separata dagli altri saperi, di cui ha utilizzato quasi esclusivamente le technicalities, gli aspetti più biecamente strumentali e tecnologici. Questo ci impone di prendere l’argomento un po’ alla larga.

I saperi

In un mondo abitato da una società giusta i diversi saperi, che concorrono allo sviluppo dell’uomo, dovrebbero essere in equilibrio tra loro e tutti finalizzati, appunto, al miglioramento della condizione umana: la filosofia e l’economia, l’arte e il diritto, la politica e la fisica – e via enumerando. Ciascuno dei saperi corrisponde infatti a un aspetto dell’uomo: una dimensione della sua intelligenza e della sua attività, volte a comprendere e a governare il mondo che lo circonda.

Secondo il buonsenso (e secondo gli studiosi più attenti[1]) oggi non c’è affatto un equilibrio tra i saperi. Uno di essi, la cui formazione si è consolidata nel corso degli ultimi 2-3 secoli, domina oggi sugli altri. Si tratta dell’economia, cui sono di fatto asservite tutte le altre dimensioni. Asservite in un duplice senso: che hanno minor peso sociale, minore considerazione, minore importanza nell’assunzione delle decisioni; nel senso che gli altri saperi sono ridotti al sostegno strumentale dell’economia.

Per di più, negli ultimi decenni la scienza economica ha smarrito, o ha fortemente ridotto, la sua capacità critica nei confronti della realtà. Non tutta la scienza economica, ma certamente quella dominante (l’economia mainstream) è ancora tutta racchiusa all’interno di questo sistema economico dato (il sistema capitalistico, così come si è venuto conformando nel XVIII e XIX secolo e come, da allora, si è venuto a modificare e reincarnare). Non ne critica i dati di fondo, così come l’analisi scientifica li ha individuati del XIX e nel XX secolo, ma analizza il funzionamento nei suoi apparati tecnici nell’impegno a lubrificarne i meccanismi.

Di conseguenza, si può affermare che si è perso un elemento decisivo, anzi basilare, del ragionamento dell’economia: la consapevolezza del suo ruolo ai fini dello sviluppo dell’uomo, intendo il termine sviluppo nel senso di miglioramento della sua condizione esistenziale e accrescimento delle sue capacità di conoscere e governare il mondo.

Il bisogno, il lavoro

Due concetti secondo me essenziali per riannodare correttamente l’economia all’uomo (e alle sue più generali finalità) sono costituiti dal bisogno e dal lavoro. Riporto qui una spiegazione abbastanza chiara di questi due termini, riprendendo alcune formulazioni di Claudio Napoleoni.

«I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici è una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, così come essa si presenta in ogni momento dato. […] Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari di un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore. […] Questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacchè è il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni»[2].

E se l’uomo è riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli cioè che dipendono dalla sua vita animale, i bisogni della sussistenza, ecco allora che

«vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più»[3].

Il consumo è l’attività economica finalizzata alla soddisfazione del bisogno, la produzione ha a sua volta la sua finalità nel consumo. Lo strumento mediante il quale l’uomo produce è il lavoro, altra dimensione essenziale del processo economico e del progresso dell’uomo. Seguendo anche qui la definizione di Napoleoni, il lavoro

«è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine. I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo. Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari, senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi di servire per fini superiori. In questo processo naturale di sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed è il lavoro arricchito che consente fini più alti»[4].

Accanto a queste definizioni vorrei aggiungere quelle sul lavoro di Karl Marx, che troverete anche nel Glossario di eddyburg:

«Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere»[5].

«In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita»[6].

In altri termini, il lavoro è lo strumento mediante il quale l’uomo è in grado di comprendere il mondo (cioè tutto ciò che è fuori di sé) e di governarlo (cioè di utilizzarlo ai fini propri e della propria specie.

Il sistema capitalistico

L’analisi di Marx ha avuto un lungo periodo d’oblio. Il suo metodo d’analisi e i fondamenti della sua descrizione del capitalismo sono riemersi negli ultimissimi anni, poiché sono stati considerata da molti come quelli da cui si poteva partire per interpretare in modo corretto la crisi nella quale è precipitato (ancor oggi sembra senza via d’uscita) il sistema capitalistico. Quest’ultimo non è solo un sistema di produzione: è un insieme di meccanismi e strumenti, di valori e di principi che condizione l’intera vita della società. É, al tempo stesso, una ideologia[7] e un dispositivo[8].

Se lo guardiamo criticamente e nel suo sviluppo storico, ha avuto grandissimi meriti e demeriti. Ha reso possibile uno sviluppo incredibile della produzione di beni, materiali e immateriali, utilizzabili per la sussistenza, quindi ha liberato potenzialmente l’umanità intera dalla fame e dalla malattia. Grazie alla dialettica sociale implicita nel conflitto tra capitale e lavoro ha consentito di riversare gran parte dei suoi benefici a strati amplissimi della popolazione (quasi alla totalità nelle regioni direttamente legate ai suoi meccanismi produttivi).

Ricco di elementi positivi, ma almeno altrettanto più ricco di quelli negativi. Tra questi vorrei sottolinearne due costitutivi (che cioè sono emersi ben prima della crisi attuale, e prima ancora che la consapevolezza dei limiti del nostro pianeta facesse apparire quello ecologico). Essi riguardano appunto il bisogno dell’uomo e il suo lavoro.

Nell’analisi marxiana il proprietario dei mezzi di produzione (il capitale) compra la forza lavoro, pagandola un prezzo inferiore al suo valore. Il profitto (cioè il guadagno dell’imprenditore in quanto tale) corrisponde alla differenza tra il valore del lavoro e il suo prezzo, cioè è il risultato dello sfruttamento del lavoro. Il punto essenziale ai fini del nostro ragionamento è il seguente. Riducendo il lavoro a merce, e con questo a mero strumento della produzione del plusvalore (del profitto), il capitalismo interrompe (per dirla ancora con Napoleoni) quel «processo naturale di sviluppo» dell’uomo che nasce dalla stretta interrelazione dinamica tra fini (bisogni) e mezzi (lavoro).

«Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso la produzione occorrente per soddisfare i bisogni di sussistenza di un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto»[9].

Il lavoro è “alienato”, ossia ordinato a fini diversi da quelli che naturalmente (secondo una determinata antropologia) sono suoi propri. E mano a mano che si è riusciti a soddisfare in modo ampio (all’interno dei mercati rilevanti per il sistema) quei determinati bisogni, ci si è unicamente adoperati a soddisfarli in modi sempre più complicati, ridondanti, “opulenti”.Questa doppia riduzione del bisogno e del lavoro ha la sua radice nel fatto che il sistema economico capitalistico è finalizzato alla massimizzazione del profitto ottenibile dai proprietari dei mezzi di produzione mediante il processo di trasformazione delle merci. Il consumo (e quindi il soddisfacimento del bisogno) è stato considerato come una variabile dipendente: consumare perché si possa produrre sempre di più; e consumare quelle determinate merci che il sistema è in grado di comprendere, quindi di produrre.

La scienza economica

Una definizione di scienza economica che mi sembra abbastanza ampia da abbracciare sia una visione generale dell’economia come attività umana che l’economia data (quella cioè all’interno del sistema capitalistico) è quella dell’economista inglese Lionel Robbins:

«La scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i propri bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi» [10].

Questa definizione ci fa comprendere che ciascuno di noi fa economia (è “economista”) ogni volta che si pone il problema di decidere a quali fini destinare risorse scarse: se impiegare una quota del suo tempo e una quota del suo reddito per andare alla scuola di eddyburg, o per passare tre giorni al mare, oppure per comprare dieci libri, cinque CD e una bottiglia di whiskey e stare a casa a leggere, sentire musica e bere. Così come fa politica (è “politico”) ciascuno di noi ogni volta che incontra altri e discute con loro come fare per risolvere un problema di carattere generale, che con altri condivide.

Naturalmente come tutti i saperi (e tutte le dimensioni dell’uomo cui i saperi corrispondono) anche l’economia ha le sue parole chiave, i suoi concetti e principi, le sue regole. Questi cambiano tutti a secondo delle diverse fasi della storia del mondo e delle civiltà che convivono e si susseguono. Quelli che adoperiamo oggi si sono sviluppati nell’ambito della nascita e dello sviluppo del sistema capitalistico e dell’analisi di esso. É a essi quindi che mi sono riferito e continuerò a riferirmi, pur tenendo presente che sarebbe un errore grave ritenere che questo sistema sia l’unico possibile.

Beni economici; valore d’uso e valore di scambio; bene e merce

Bene economico è qualsiasi cosa, materiale o immateriale, che sia idonea a soddisfare qualche bisogno e che sia disponibile solo in quantità limitata, ossia sia utile e scarsa (p. 9). Osserviamo che l’utilità può assumere caratteristiche diverse: può essere reale o percepita, può essere tale per uno specifico uomo oppure per una moltitudine, può essere effettiva oppure indotta. E osserviamo che la scarsità (cioè il fatto che quel bene sia disponibile in quantità inferiore a quanto sarebbe richiesto per soddisfare la totalità dei bisogni) può dipendere dalle caratteristiche proprie del bene, oppure dal fatto che esso è reso artificiosamente disponibile in quantità limitata.

Ogni bene può essere considerato in due modi:

- a seconda dell’utilità, ai fini della soddisfazione di un bisogno, che ne può ricavare un determinato soggetto, oppure

- a seconda del vantaggio che ne può ricavare il suo possessore dall’atto di scambiarlo con un altro soggetto.

Prescindendo dalla discussione su che cosa debba intendersi per valore (come esso si formi, da che cosa derivi ecc.) limitiamoci ad annotare che, a seconda di quei due modi, l’economia classica parla di valore d’uso e valore di scambio. Il primo è quella che deriva dall’utilità che ha quel bene, per la sua specifica corrispondenza a un determinato bisogno di un determinato soggetto; il secondo alla capacità di ottenere, in sostituzione di quel determinato bene, un altro qualsiasi bene.

Da questa fondamentale distinzione discende che il valore d’uso è legato ai concetti di individualità (del bene e del soggetto), di specificità, di bisogno, mentre il valore di scambio ai concetti di generalità, di fungibilità, di sostituibilità. Il valore d’uso è una caratteristica propria di quel determinato bene. Il valore di scambio è una caratteristica che accomuna tutti i beni oggetto di valutazione economica. In teoria nessun valore d’uso è riconducibile a un altro, mentre ogni valore di scambio è riconducibile (e riducibile) a moneta. Marx la definisce come l’”equivalente universale” di ogni valore di scambio.

Possono esserci beni che hanno valore d’uso ma non valore di scambio. In generale si tratta di beni che non posseggono la seconda caratteristica attribuita dl bene economico dalla definizione che ne abbiamo dato, cioè la scarsità: così l’aria ha certamente valore d’uso (è utile per un irrinunciabile bisogno di ogni uomo) ma non ha valore di scambio perché è presente in misura superiore al bisogno. Ed è aperta la lotta per conservare in questa condizione anche l’acqua, cui si vuole invece attribuire valore di scambio.

In eddyburg e nella sua scuola abbiamo spesso sottolineato la rilevanza della distinzione tra bene e merce. Abbiamo detto che si tratta di termini che si riferiscono ai medesimi elementi, ma li vedono da punti di vista diversi. Se considero, ad esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne traggo, quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto definirlo merce. Il bene è destinato all’uso, la merce allo scambio. É in relazione a questa distinzione che gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti come beni o come merci. Naturalmente, ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, l’informazione sono certamente beni, ma non sono merci.

La scienza economica ha conservato la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e continua a parlare di entrambe le forme. Fino a qualche tempo fa si sosteneva che in ogni bene deve essere comunque presente un valore d’uso, altrimenti non sarebbe oggetto di scambio e quindi non avrebbe il valore corrispondente a questa virtualità. La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia potrebbe portare a dubitare di questa affermazione. A meno che non si voglia considerare valore d’uso quello derivante dal possesso di un maggior potere. Disporre di un elevatissimo valore di scambio di qualcosa che dà potere (come una massa monetaria) potrebbe insomma essere considerato un bisogno. Certamente non nell’ambito di quei “bisogni umani” cui mi sono finora riferito.

Produzione, consumo

Produzione e consumo sono due parole importanti nel linguaggio (e nel procedimento) dell’economia.

«Il consumo è l’uso dei beni economici allo scopo di soddisfare direttamente certi bisogni […] La produzione è il processo mediante il quale il lavoro fa uso di beni economici allo scopo di ottenere con essi altri beni, che o sono beni di consumo o sono beni che, a loro volta, servono a ottenerne altri, lungo una catena che, prima o poi, mette capo a certi beni di consumo»[11].

Ci si può domandare se nel processo economico dato comandi il consumo o comandi la produzione. In linea teorica comanda il consumo, poiché non esiste produzione che non sia finalizzata a un determinato consumo. Ma l’analisi ha rivelato da tempo che in realtà gran parte dei consumi sono indotti dalla produzione. Chi controlla la produzione ha i mezzi per convincere gli uomini a sentire come propri determinati bisogni, o determinati modi di soddisfare bisogni preesistenti. A partire dallo studio di Vance Packard[12] è stato dimostrato che un impegno sempre maggiore è attribuito dai gestori della produzione a convincere il consumatore che ha bisogno di consumare (quindi comprare) determinati prodotti o servizi. L’induzione del consumo ha caratterizzato sempre di più la società moderna, nella quale il rapporto tra bisogni > consumo > produzione si è progressivamente allontanato da quello naturale, cui mi sono riferito all’inizio di questo scritto[13].

Napoleoni osserva che nel sistema capitalistico

«il consumo, anziché essere il fine del processo, è soltanto un vincolo; esso è (si potrebbe dire correttamente) un costo che il sistema deve pagare, perché qualunque sistema, comunque configurato, deve assicurare la riproduzione dei suoi membri. Ma una volta pagato questo costo, una volta osservato questo vincolo, il sistema procede all’espansione della ricchezza come obiettivo avente senso in se stesso»[14]

La riduzione dei bisogni a quelli della sussistenza, l’accumulazione del potere nelle mani dei gestori della produzione, hanno decisamente radicato il bastone del comando nelle mani della produzione e dei suoi gestori. Sono questi oramai che costruiscono (progettano) il consumo che serve. Foggiano il consumatore a immagine e somiglianza del potenziale acquirente dei prodotti che, sempre più abbondati e sempre più superflui, invaderanno il pianeta e le sue discariche.

1. LA RENDITA

1.1 Definizioni generali

Reddito: profitto, salario, rendita

Il reddito è il flusso di ricchezza che, in un determinato tempo (un giorno, un mese, un anno…), raggiunge un determinato soggetto. Nel sistema economico-sociale capitalistico le figure sociali sono tre: i capitalisti, i lavoratori, i proprietari fondiari Questi ricevono quote del reddito sotto forma – rispettivamente – di profitto, salario, rendita[15].

La rendita è la quota del reddito che è percepita dal proprietario fondiario per aver messo a disposizione del processo produttivo il terreno sul quale si è svolta l’attività. Il salario è il prezzo della forza lavoro: cioè è la fetta del reddito totale che viene percepita dal lavoratore per il fatto che esso mette a disposizione del capitalista la sua forza lavoro per un determinato tempo. Il profitto (in termini molto schematici) è il guadagno del gestore dell’attività produttiva: è la quota del reddito totale percepita dal capitalista, come differenza tra il prezzo che ottiene in cambio delle merci prodotte e ciò che ha dovuto pagare per comprare le merci adoperate nel processo produttivo (ivi comprese non solo le materie prime e i salari, ma anche i mezzi di produzione: capannoni, macchinari ecc.), nonché la rendita che ha dovuto pagare per ottenere lo spazio necessario alla produzione.

Come è facile comprendere la rendita ha una fondamentale differenza rispetto alle altre forme di reddito: ad essa non corrisponde nessuna attività (né quella lavorativa vera e propria = salario, né quella imprenditiva = profitto) ma solo la proprietà (anzi, il possesso) di un bene scarso e utile per lo svolgimento del processo produttivo. Perciò gli economisti classici attribuiscono alla rendita l’aggettivo di “parassitaria”. Questo non è un attributo che distingue un particolare tipo di rendita da un’altro, ma è un attributo generale della rendita.

É interessante domandarsi in che modo le tre figure sociali del sistema capitalistico impiegano la quota di reddito che spetta a ciascuno di essi. Il lavoratore impiegherà il salario per i bisogni della sussistenza (coprirsi, alimentarsi, procreare, riposarsi, comunicare con gli altri, apprendere, ricrearsi); la sua ambizione sarà di soddisfarli nel modo più completo e qualificato possibile, e successivamente di soddisfare nuovi bisogni che dal soddisfacimento di quelli elementari saranno scaturiti. Il capitalista dovrà impiegare il profitto primariamente per resistere alla concorrenza con gli altri capitalisti, e dunque dovrà investire nel miglioramento del suo apparato produttivo, nell’acquisizione di nuovi mercati, nella riduzione dei costi di produzione, nel miglioramento del prodotto, e nella ricerca finalizzata a questi obiettivi. Il rentier (percettore di rendita) sarà libero di spendere il suo reddito in qualsiasi forma lo desideri.

Il conflitto che necessariamente sorge tra le classi corrispondenti alle diverse figure sociali riguarda la ripartizione delle risorse tra le tre forme di reddito. Si tratta della matrice della “lotta di classe”, che la cultura revisionista ha preteso di cancellare dal vocabolario politico, come se fosse un’invenzione e non il portato inevitabile del sistema economico-sociale.

Rendita fondiaria agraria

Il concetto di rendita è stato analizzato inizialmente in riferimento alla rendita agraria: ossia al prezzo che il proprietario di un terreno poteva ottenere da un imprenditore che volesse usare quel terreno per coltivarlo e venderne i prodotti. Poi si è esteso al reddito proveniente da altre posizioni proprietarie che consentivano di agevolare od ostacolare determinati processi produttivi per la particolare posizione (in senso sia concreto che astratto) che quella proprietà ha in relazione al processo produttivo.

La rendita fondiaria agraria è la forma classica della rendita. È il reddito percepito dal proprietario fondiario (proprietario di terreno) in conseguenza del fatto che egli è proprietario di un bene (la terra) destinabile alla coltivazione o al pascolo.

La rendita fondiaria agraria consente di comprendere facilmente il meccanismo elementare della rendita. Supponiamo distinte le figure del proprietario terriero e del capitalista produttore agricolo. Se la terra complessivamente coltivabile in una determinata area è inferiore a quella che sarebbe necessario coltivare per produrre beni agricoli in quantità tale da soddisfare la domanda, è evidente che una parte di quelli che sarebbero disponibili a diventare produttori agricoli (e avessero i mezzi necessari per diventarlo) non possono invece diventarlo. Il proprietario terriero allora, in virtù del privilegio di essere proprietario di un bene scarso, ha la possibilità di far pagare un prezzo al produttore che voglia utilizzare il suo terreno.

Rendita assoluta e rendita differenziale

Fin qui ci siamo riferiti a beni disponibili in quantità scarse e alla rendita come forma di reddito percepibile per la scarsità generale di quel bene. Questo tipo di rendita è quella che si definisce “rendita assoluta”, e cioè - nel caso della rendita fondiaria - la rendita che sorge nella misura in cui la terra disponibile complessivamente nell’ambito di una determinata area economica è scarsa rispetto al fabbisogno.

Ma esiste anche un’altra forma di rendita, che generalmente si sovrappone e si aggiunge alla prima: è la “rendita differenziale”. Questa deriva dal fatto che, se la terra è generalmente scarsa, e quindi la proprietà di essa rende possibile la percezione di una rendita, esistono tuttavia differenze tra i vari tipi di terra in relazione all’uso che se ne vuole fare. La terra può essere più o meno fertile, più o meno vicina al mercato dei prodotti o ai nodi di trasporto, più o meno soggetta a calamità naturali. Esiste quindi una rendita differenziale, o relativa, che è la quota di reddito che il proprietario percepisce per il fatto che la sua terra, il suo fondo, è più fertile o più sicuro o meglio collocato rispetto agli altri.

In definitiva e riepilogando, ogni bene scarso dà luogo a un reddito, percepibile dal proprietario in quanto tale, il quale nella generalità dei casi è costituito da due parti: una parte. che c’è in ogni rendita, è la rendita assoluta e dipende dalla scarsità generale di quel bene; un’altra parte, che c’è solo in corrispondenza di un sottoinsieme di beni, è la rendita differenziale o relativa, e dipende dalla maggiore appetibilità, o utilizzabilità, di quel particolare bene rispetto ad altri della stessa categoria. È evidente che la rendita totale, cioè la rendita complessiva che il proprietario di un determinato bene percepisce per il fatto d’essere proprietario di un bene scarso, coincide con la rendita assoluta nel caso dei beni meno appetibili (per esempio, la terra meno fertile e più lontana).

1.2 La rendita urbana

che cos’è e come funziona

Che cos’è la rendita urbana

Alla rendita fondiaria agraria si sogliono assimilare altre forme di reddito derivanti dalla proprietà di beni scarsi. Alcune derivano dalla proprietà di altre risorse naturali (le miniere, le acque); altre derivano della proprietà di beni la cui scarsità è artificiale, ossia è provocata. Quando si tratta di beni resi artificiosamente disponibili in quantità più limitata di quella della domanda, molti autori ritengono più corretto parlare di “quasi rendita”, o di “guadagno differenziale”, o di “sovrapprofitto di monopolio”. Ma non c’è, in sede scientifica, alcuna controversia sull’assimilabilità alla rendita fondiaria di una particolare forma di rendita, che soprattutto ci interessa in questa sede: la “rendita fondiaria urbana”.

La rendita fondiaria urbana è il reddito che deriva dalla proprietà del suolo in relazione non suo uso agricolo, ma all’uso edilizio urbano. Suolo agricolo e suolo urbano sono entrambi beni scarsi, ma la loro scarsità è di natura e grado notevolmente differenti. Al limite, praticamente ogni suolo può essere destinato a un uso agricolo; l’utilizzabilità di un suolo a fini agricoli è sostanzialmente un connotato naturale del terreno.

Viceversa, mentre vediamo empiricamente che i suoli urbani sono una porzione limitata, più sostanzialmente osserviamo che essi sono quelli nei quali è avvenuto un processo storico di urbanizzazione: non nel senso che ogni suolo sul quale sia percepibile rendita fondiaria urbana sia stato concretamente investito da un processo di urbanizzazione in senso stretto, sia cioè dotato di strade, fogne, luce ecc., ma nel senso che ognuno di tali suoli è stato posto dalla storia in una collocazione tale da poter essere utilizzato a fini edilizi, e cioè concretamene urbanizzato.

Si può dire che ogni terreno è utilizzabile fini agricoli o silvo-pastorali con un investimento modesto, e al limite nullo; viceversa, sono utilizzabili a fini edilizi (urbani) solo i suoli i quali, con un più o meno modesto investimento di opere di urbanizzazione dirette, può essere collegato all’insieme dell’organizzazione urbana del territorio, ossia a quell’insieme di manufatti - prodotto storico della società - che consentono lo svolgimento delle varie attività della vita sociale.

La scarsità del bene “suolo urbano” non è quindi una scarsità naturale in senso proprio (come quello del suolo in generale), ma una scarsità che deriva dal fatto che solo un numero limitato di suoli è storicamente dotato di quei requisiti che ne rendono possibile, nell’immediato o mediatamente, una utilizzazione edilizia-urbana.

Rendita urbana assoluta, r. u. differenziale

Anche nel caso della rendita fondiaria urbana si può distinguere la componente assoluta dalla componente differenziale. La rendita fondiaria urbana assoluta è quella che deriva al terreno dal fatto che esso è edificabile, (o più esattamente, del fatto che per quel terreno l’utilizzazione edificatoria è conveniente rispetto all’utilizzazione agricola). La rendita differenziale è invece quella che deriva dal fatto che un particolare terreno presenta - ai fini della utilizzazione edilizia - vantaggi e requisiti che lo rendono più appetibile di altri.

La scarsità del terreno urbano è quindi una scarsità manovrabile. Più precisamente, è manovrabile sia la scarsità assoluta del terreno urbano (e quindi il differenziale tra la rendita fondiaria assoluta e la rendita urbana, che è molto elevato) sia la scarsità di terreni caratterizzati da determinati requisiti (quindi la rendita differenziale). E poiché il grado della scarsità influenza la rendita, anche i livelli della rendita sono manovrabili.

Rendita fondiaria urbana e intervento pubblico

Già da queste rapidissime annotazioni si comprende il ruolo che svolge l’intervento pubblico nell’influire sulla rendita fondiaria urbana. Infatti l’intervento pubblico:

a) con i piani urbanistici e, più in generale, con le politiche urbane (repressione dell’abisivismo, controllo dello sprawl, realizzazione delle opere di urbanizzazione ecc.) determina quali e quante aree sono potenzialmente edificabili, e quindi determina il passaggio dalla rendita fondiaria agraria alla rendita fondiaria urbana assoluta;

b) con la realizzazione delle opere di urbanizzazione, con l’inserimento delle aree nei programmi urbanistici e con il rilascio delle concessioni edilizie, rende le aree concretamente edificabili, e quindi incide in un primo modo sulla rendita fondiaria urbana differenziale;

c) con la quantità e la qualità delle opere di urbanizzazione e dei servizi, con la determinazione delle qualità edilizie e urbanistiche delle varie parti degli insediamenti (altezze, distacchi, densità ecc. ) accresce o diminuisce l’appetibilità relativa delle varie aree edificabili, e quindi incide sulla rendita urbana differenziale.

Rapporti tra estensione delle aree urbanizzabili

e livello complessivo della rendita.

Il rapporto tra grado di scarsità e livello della rendita è - nel campo della rendita fondiaria urbana – molo diverso da quanto sia in altri campi. In linea generale, maggiore è la disponibilità di un bene (cioè minore è la sua scarsità) minore è il livello della rendita assoluta. Questo per i beni che sono, in larga misura, fungibili, ossia per i beni nei quali la rendita assoluta è una parte consistente della rendita totale (es., il grano può essere di qualità migliore o peggiore, ma le differenze tra i prezzi del grano migliore e del grano peggiore sono modeste rispetto al prezzo medio; un aumento delle produzione di grano diminuisce quindi i prezzi).

Ma i terreni urbani hanno due caratteristiche. La prima è che la rendita urbana assoluta è molto più elevata della rendita agraria, anche quando questa assume valori elevati. La seconda è a che la rendita differenziale è molto più consistente delle rendita assoluta, e che - nell’attuale situazione delle grandi e medie città - le differenze delle qualità dei terreni sono notevolissime. Si può dire, al limite, che ogni terreno ha una sua qualità differente da tutte le altre.

In una situazione di questo tipo, l’immissione nel mercato di una consistente quantità di nuove aree edificabili determina un innalzamento generale del valore (e quindi della rendita) in tutte le aree che erano già riconosciute edificabili. Questa considerazione è particolarmente importante per valutare sia gli effetti della urbanizzazione abusiva e dello sprawl urbano sia per il dimensionamento dei piani regolatori e i suoi effetti sulla rendita.

Una dimostrazione molto efficace del rapporto tra valore della rendita ed estensione della città fu elaborata dall’economista Siro Lombardini in un suo lavoro sulla riforma urbanistica nel 1963[16]. In sintesi, possiamo immaginare l’andamento dei valori della rendita come una curva crescente a seconda che dalla “periferia” ci si avvicina al “centro” (intendendo per “centro” il luogo che ha ma maggiore appetibilità, e quindi il valore della rendita più alto, e per “periferia” il contrario). Ora il valore del punto più periferico (per definizione: rendita urbana assoluta) è comunque molto più alto di quello della rendita agraria.

Se inseriamo nell’ambito urbano un’ulteriore area, questa sarà meno appetibile della precedente, la quale presenterà a questo punto un valore più alto: Ma quella che giò era più vicina al “centro” conserverà la differenza con la precedente, quindi assumerà un valore più alto di quello che aveva prima. Via via, tutta la curva dei valori della rendita subirà una traslazione verso l’alto. Il valore complessivo della rendita in quel contesto avrà subito un aumento generale.

Rendita immobiliare; altre rendite connesse alla città

Quando si parla di rendita urbana ci si riferisce generalmente alla rendita fondiaria: ossia alla rendita derivante dalla proprietà di un fondo, di un terreno potenzialmente o effettivamente edificabile. Esiste peraltro - ed è distinta dalla rendita fondiaria - un’altra forma di rendita urbana, ed è la rendita edilizia. Per comprendere questa distinzione basterà fare una ipotesi del tutto teorica: l’ipotesi, cioè, di un assetto del regime proprietario tale che le aree edificabili non siano di proprietà privata, ma siano espropriate dalla mano pubblica e cedute in uso a chi voglia utilizzarle a un prezzo uguale a zero. In questo caso, evidentemente, non c’è più rendita fondiaria urbana. (Più precisamente si dovrebbe dire che il proprietario, in questo caso pubblico, rinuncia alla rendita che le logica del sistema gli consentirebbe di percepire).

Ma chi ha ricevuto in uso il terreno può costruirvi a utilizzare il costruito a suo piacimento. Ci troveremo perciò di fronte a questa situazione: avremo una nuova categoria di beni - anch’essi scarsi e anch’essi in appartenenza a qualcuno a titolo proprietario. Anche qui, dunque, avremo un meccanismo di rendita: con una componente assoluta, dipendente dalla scarsità generale di edifici rispetto al fabbisogno, e una rendita differenziale, nella quale entrano quelle stesse componenti di differenziazione qualitativa e d’uso tra i vari edifici che avevamo già visto nel caso dei terreni urbani.

Possiamo dire che, nel corso del processo di urbanizzazione ed edificazione, la rendita fondiaria viene trasformata in rendita edilizia. L’insieme dell’una e dell’altra la chiameremo “rendita immobiliare”, la quale comprende quindi sia la rendita fondiaria urbana che la rendita edilizia.

La rendita immobiliare non è l’unica forma di rendita offerta dalla città (e, più in generale, dal territorio urbanizzato) ai privilegiati che si trovino un una posizione tale da poter esigere una forma di pedaggio.

Pensiamo alla gestione dei servizi urbani, per loro natura tendenzialmente monopolistici (trasporti, acqua, elettricità, gas, informazioni). Pensiamo alla realizzazione delle opere pubbliche (controllo degli appalti e relativi sovraprofitti).

1.3. Gli effetti della rendita

Gli effetti sul sistema economico-sociale

Se teniamo presente che il reddito totale prodotto in un determinato periodo è un dato, e che esso va distribuito tra tre soggetti (tra tre figure economiche) è evidente che maggiore è la quota che va alla rendita, minore è quella che dovranno dividersi profitti e salari (cioè capitalisti e lavoratori). Le conseguenze di una crescita eccessiva della rendita in generale (compresa la rendita immobiliare) sono una riduzione dei salari e/o una riduzione dei profitti. Nel primo caso peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori (quindi della grande maggioranza degli abitanti), nel secondo caso si riduce l’attività di ricerca e di progresso della produzione, quindi perde competitività l’area dove questo avviene. Lo avevano compreso bene i protagonisti del “capitalismo avanzato” in Italia negli anni Sessanta e Settata del secolo scorso, quando scesero in campo a favore di una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita immobiliare.

Nell'autunno del 1972 poi - con una intervista al settimanale Espresso che fece clamore, e successivamente in una conferenza-stampa organizzata all'inaugurazione del Salone internazionale dell'auto e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'agone, nel quadro dell'iniziativa da essi stessi promossa per provocare un mutamento di linea e di scenario al vertice della Confindustria (Gianni Agnelli venne poi eletto presidente dell'organizzazione il 30 maggio 1974). Afferma Agnelli:

«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» [17].

L'iniziativa degli Agnelli suscitò larga eco sui giornali e nella stampa; provocò scompiglio ai vertici dell'organizzazione degli industriali. Essa era certamente mossa da motivi anche strumentali; ma è certo che si collocava in una atmosfera più che pronta a recepirla, come è altrettanto certo che a rileggere oggi alcune delle formulazioni e motivazioni di allora, sembra quasi di esser discesi su di un altro pianeta. Scrive ad esempio nel 1973 un giornale molto vicino agli industriali, pur dimostrando un certo stupore:

«I Giovani Industriali credono di avere le carte in regola e parlano con estrema chiarezza. Per loro, ad esempio, non c'è alcun dubbio che per salvare il profitto, inteso come giusta remunerazione dell'attività imprenditoriale e come misura dell'efficienza produttiva, occorre mollare e gettare in mare le rendite parassitarie e speculative ed anche, al, limite, le classi ad esse più tradizionalmente abbarbicate. (...) Requiem per la rendita fondiaria potrebbe ben intitolarsi la relazione presentata dal prof. Bastianini, assistente al Politecnico di Torino e - mi dicono - liberale. Egli ha in effetti difeso il "diritto di superficie" ("concessione a tempo" l'ha chiamato, definendola anche "una scelta di civiltà che dobbiamo compiere a favore delle generazioni future") contro il diritto di proprietà. Bastianini ha anche compiuto una stima del costo globale della rendita urbana in Italia rilevando che, nel 1972, in rapporto ad un valore aggiunto nel settore delle abitazioni risultato pari a 3,037 miliardi di lire, la quota pagata alla rendita è stata di 750-800 miliardi» [18].

In quegli anni il capitalismo industriale italiano tentava anche altre strade. In collaborazione con l’industria di stato (IRI) e con le cooperative si proponeva come promotore, pianificatore e gestore di interventi urbani complessi (“Sistemi urbani”) nei quali la posta economica in gioco era, oltre al profitto, l’insieme delle rendite urbane[19]. La scelta di privilegiare nettamente la rendita avvenne più tardi. Ma di questo parleremo più avanti, e se ne tratterà più ampiamente nella giornata di domani.

La rendita e la città

C’è un’intera letteratura sugli effetti della rendita (anzi, dell’appropriazione privata della crescente rendita immobiliare) sulla città, sia nella capacità di governarla a fini diversi da quello dell’ulteriore accrescimento della rendita, sia nella sua vivibilità (in termini di funzionalità, equità, bellezza).

Mi limiterò a citare pochi brani di Hans Bernoulli. La critica dell’autore di La città e il suolo urbano parte dal racconto di ciò che avvenne quando – nello sfaldarsi della civiltà medievale e nell’arretrare dal diritto comune al diritto individuale – vennero aboliti i vincoli, dominicali e regolamentari, sui terreni urbani: quando il suolo urbano fu suddiviso, e da bene divenne merce.

«Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune. […] Il monopolio del suolo passò alla proprietà privata e la proprietà privata divenne un bene commerciabile»[20].

Il suolo urbano non fu più la base della casa della società, il fondamento del suo ordine e della sua bellezza: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo.

«La terra, sfuggita di mano alla comunità quasi per errore e ora proprietà di contadini avveduti e cittadini oculati, era destinata a divenire in breve un vero e proprio oggetto di speculazione. […] La città si trovò quindi ad una svolta: il diritto fondiario di proprietà influì sulla sua struttura e sulle sue costruzioni. L’età moderna, risvegliatasi all’improvviso in piena industrializzazione offriva al proprietario quasi illimitate possibilità di speculazione sul proprio terreno. Ognuno poteva vendere il proprio terreno al più alto prezzo raggiungibile sul mercato. […] Questa speculazione venne metodicamente condotta dalle società fondiarie. La massima rendita si ottiene col massimo sfruttamento del suolo; quindi, in ragione della possibilità di costruire su un dato lotto cinque piani piuttosto che tre, oppure tre quarti dell'area piuttosto che un quarto. determina diversità notevoli di rendita e quindi diversità notevoli del prezzo di vendita del lotto. Come la speculazione sui terreni aveva ottenuto un frazionamento tale da moltiplicare gli angoli fabbricativi, cosi è riuscita ad ottenere un progressivo aumento delle altezze di fabbricazione» [21].

Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero, ora invece non è più così. Dopo la privatizzazione del suolo urbano accade che

«quando la città, per una miglioria che deve servire a tutti, per esempio un nuovo parco, un campo sportivo, una caserma per pompieri, un cimitero, deve rivolgersi al proprietario privato del terreno o dell’edificio, questi si mette sorridendo a disposizione della comunità, ma dà gentilmente a comprendere che l’affare sarà un po' costoso. Comincia un contrattare, un mercanteggiare che non ha mai fine; tanto più l’area conviene per lo scopo che la città prefigge, tanto più si eleva il prezzo che il proprietà richiede. Spesso il rappresentante del Comune se ne deve andare scuotendo deluso le spalle. La ricerca del terre per molti edifici pubblici diventa spesso una faccenda dolorosa, poiché con ritagli casuali di terreno non si possono costruire né un teatro, né un museo, né un municipio […] E per questa ragione che le nostre città difettano di ampie località libere per il riposo delle persone anziane e di ampi campi di gioco per i bambini. L'alto prezzo delle aree spaventa tutti»[22].

2. RENDITA E POTERE

2.1. Il ruolo della politica

Rendita e governo del territorio

La necessità di sottrarre le decisioni sull’organizzazione del territorio allo spontaneismo concorrenziale proprio del sistema economico-sociale del capitalismo è nato agli albori dell’affermazione storica di quel sistema. Le leggi che consentivano di costruire strade, ferrovie e canali vincendo gli ostacoli e riducendo le pretese economiche dei proprietari fondiari nascono in Europa già alla fine del XVIII secolo. Il piano regolatore di New York (1811) può essere considerato il primo dell’età contemporanea. Il prelievo fiscale del plusvalore fondiario (cioè dell’aumento della rendita provocato dalle opere di urbanizzazione) fu uno degli strumenti impiegati dalle borghesia ottocentesche per pagare gli investimenti pubblici.

In Italia le prime leggi che aiutano a contenere gli effetti dell’appropriazione privata delle crescenti rendite urbane sono tra le prime approvate nel quadro dell’unità nazionale. Domani Piero Bevilacqua e Vezio De Lucia ve ne parleranno in un quadro storico. Qui vogliamo parlarvi dei principali strumenti adoperati.

Se li esaminiamo con attenzione vediamo che sono tutti ispirati ad alcuni principi. Ne voglio sottolineare due.

1) L’esigenza di regolare con l’autorità pubblica l’urbanizzazione (pianificazione delle città, realizzazione delle reti di trasporti e altre infrastrutture ecc.) deve comporsi con la tutela della proprietà privata ma, in caso di contrasto, la prima esigenza deve prevalere anche autoritativamente, compensando il proprietario con un indennizzo.

2) Il gradiente di valore che ha un terreno quando da agricolo diventa urbano (quando è compreso in un ambito di edificabilità, oppure quando è reso più facilmente collegato alla rete delle città mediante le infrastrutture di trasporto), è il risultato di decisioni e investimenti pubblici.

Da questi principi derivano alcune conseguenze.

1) Tra gli strumenti dell’azione pubblica deve essere prevista l’espropriazione, come mezzo per vincere la volontà dei proprietari che ostacolano l’acquisizione delle aree necessarie per gli interventi pubblici. Questi possono prevalere sugli interessi privati solo se sono correttamente motivati con un interesse pubblico.

2) Al proprietario deve essere riconosciuto un’indennità che compensi la riduzione di valore derivante dalla mutilazione della sua proprietà, e cioè dal minor reddito che potrà percepire rispetto alla precedente utilizzazione (in generale agricola).

3) Dal reddito del proprietario può essere prelevato, in tutto o in parte, il maggior valore che la sua proprietà (o la parte residua di essa) ottiene grazie alla decisione o all’investimento pubblico.

Naturalmente, accanto a questi principi e alle pratiche conseguenti si affiancano tesi più determinate, che portano a maggiore coerenza il principio dell’appartenenza pubblica del gradiente della rendita urbana e quello del carattere parassitario della rendita, e quindi del danno allo sviluppo capitalistico (allo sviluppo della ricchezza nazionale) determinato dall’appropriazione privata della rendita fondiaria. É, quest’ultimo, il caso di un singolare pensatore nordamericano, Henry George[23], le cui teorie ebbero largo influsso sia negli USA che in Europa e ispirarono protagonisti del dibattito urbanistico europeo come Hans Bernoulli.

I tentativi, nel corso della storia

La politica italiana ha vissuto diverse fasi nel rapporto con la rendita urbana. Domani se ne parlerà a lungo. Oggi vogliamo solo accennarvi, per collocare in un quadro comprensibile l’ultima parte di questo intervento, nel quale si cercherà di comprendere ciò che sta succedendo oggi, ed è molto diverso da tutto quello che è stato prima.

I principi ora illustrati, e le conseguenti pratiche, sono quelle che i Parlamenti e i Governi italiani hanno sostanzialmente seguito nelle fasi della formazione e del consolidamento dello stato prefascista, con oscillazioni non molto sensibili tra il periodo costitutivo del nuovo stato (Destra storica), sia in quelli successivi (Sinistra storica e periodo giolittiano). Rispetto ad altri stati si può dire che in Italia abbia prevalso un potere forte della proprietà (rendita) rispetto all’impresa (profitto), in virtù sia della debole presenza del potere statale e dell’amministrazione pubblica (a differenza della Gran Bretagna e della Francia), sia dalla forza conservata dalla proprietà feudale nel processo di unificazione (a differenza che negli altri paesi del centro e nord Europa) grazie al compromesso storico con la borghesia industriale.

Come scrive Luigi Scano

«non pare illegittimo riconoscere nel legislatore del 1865, operante in un contesto, culturale e giuridico, ma anche, e soprattutto, sociale ed economico, tale da motivare, se non da giustificare, il riferimento ai valori di mercato per la determinazione delle indennità espropriative, l'embrionale coscienza di un concetto che fu poi chiaramente espresso nel Parlamento Italiano nel 1907, discutendosi la legge Giolitti: il concetto per cui non è ammissibile riconoscere ai proprietari dei beni immobili gli aumenti di valore del bene che non sono prodotti né dal capitale né dal lavoro del proprietario, ma che sono dovuti al capitale e al lavoro della collettività»[24].

Le legge Giolitti del 11 luglio1907, n. 502 “Provvedimenti per la città di Roma” prescrive che per le aree fabbricabili comprese nel perimetro del nuovo piano regolatore il comune è autorizzato a espropriare «a un prezzo corrispondente al valore dichiarata dal proprietario delle aree agii effetti della tassa sulle aree stesse», tassa che a sua volta colpisce quella parte di valore capitale che ecceda ciò ch'è rappresentato dalla rendita della coltura agraria colpita da imposta fondiaria»;[25]

Una fase particolare e molto poco studiata a questo proposito è quella fascista, nella quale la prevalenza del potere pubblico statale sulla proprietà fondiaria diede luogo come vedremo domattina, a pratiche largamente basate sull’espropriazione con indennità di moderata entità, e a una legge urbanistica notevolmente avanzata.

Una fase di grande rilievo fu quella degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso in cui, se non si giunse a provvedimenti radicali e completi di riforma del settore, si approdo a soluzioni che rendevano in larga misura indipendenti dal prevalere degli interessi dei proprietari e dal peso economico della rendita urbana sia la realizzazione di opere pubbliche di notevole entità e diffusione (non solo infrastrutture, ma “standard urbanistici”, sia la realizzazione di nuove urbanizzazioni residenziali, industriali e commerciali. Anche di questo si parlerà domani e dopo domani.

2.2 La rendita oggi

La rendita nell’età del neoliberalismo e della globalizzazione

La riflessione della Scuola di edddyburg sui cambiamenti intervenuti, nella città e nei principi e strumenti del suo governo, nella fase della globalizzazione - o del turbocapitalismo, o del neoliberismo – sono aperte da tempo. Un recente scritto di Walter Tocci affronta proprio il tema di questa sessione della Scuola riferendolo alla fase attuale della società[26]. L’autore parte dalla considerazione che con la crisi che, a partire dagli USA, ha scosso il mondo:

«Sono cadute insieme le due forme di rendita, quella finanziaria e quella immobiliare, come erano cresciute insieme nel decennio passato, rivelando un indissolubile legame strutturale e, forse più, una medesima visione del mondo. La condivisione di ascesa e declino mette in luce la natura anfibia di questa economia di carta e di mattone, capace di librarsi su quanto di più etereo e, d’altro canto, saldamente ancorata a quanto di più solido»[27].

«L’immobiliare – continua Tocci - è stato il proseguimento della finanziarizzazione con altri mezzi e mai il rapporto era stato così organico tra questi due modi di formazione della ricchezza. Da questa totalità discende una forte capacità di organizzare la società e di modificare lo spazio. Così, la rendita, a dispetto della scarsa attenzione ricevuta dalla pubblicistica corrente, è stata una forza che ha agito in profondità modellando le strutture produttive, gli assetti territoriali, l'immaginario collettivo e i comportamenti dei diversi attori politici, tecnici ed economici».

La rendita urbana ha svolto in passato due funzioni ed ha assunto due caratteristiche diverse, che Tocci definisce rispettivamente della rendita marginale e della rendita differenziale[28].

«Nella fase di espansione urbana che va dalla ricostruzione del dopoguerra fino agli anni settanta ha prevalso la rendita marginale prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo».

Più tardi, negli anni Ottanta, con la “rivoluzione terziaria” cambiò il verso della trasformazione.

«Si tornò a operare all’interno della città per rispondere ai bisogni localizzativi e di prestigio delle nuove funzioni terziarie, utilizzando gli immobili liberati nel contempo dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.). Prevalse quindi la cosiddetta rendita differenziale, termine […] che indica la valorizzazione di immobili interni alla città, dotati di vantaggi posizionali diversi tra loro e comunque superiori a quelli marginali. La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici».

Ed ecco il punto:

«La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».

All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase della “rendita pura”. Conviene soffermarvisi.

La fase della “rendita pura”

Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi.

Tocci rileva che

«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria».

Il “fondo immobiliare” è in sostanza la forma nuova, istituzionalizzata, del “blocco edilizio” analizzato da Valentino Parlato nel 1970 [29]

Vauro, "il manifesto", 29 dicembre 2010

L'Unità, 16 dicembre 2010

Gli hanno consigliato di scappare dall'Italia, ma è rimasto, si è disperso qui.

Gli hanno detto che l'Italia è un paese per vecchi, e si è adeguato: è invecchiato.

L'assegno da ricercatore è lo stesso di quello di un autista di mezzi pubblici in pensione, vive i suoi trent' anni come fossero ottanta: cena alle diciotto, bianchino in mattinata al bar, televisione nel pomeriggio. Ha smesso di giocare a pallone, è diventato sordo e qualcuno sospetta che si tinga i capelli, di bianco.

Quanto alla ricerca universitaria, da laureato in storia dei movimenti e dei partiti politici, non sa bene neanche lui cosa ricercare. Dov'è la sinistra? L'opposizione? La piazza? I compagni? La lotta, l'utopia e la rivoluzione?

Di fronte alla triste evidenza, ha cambiato soggetto della ricerca e, taccuino e registratore alla mano, ha iniziato una mappatura sociale prima del suo quartiere e poi della città tutta. È partito da casa, un appartamento di studenti, nel nuovo quartiere per studenti, ormai deserto. Ha attraversato strade con più buche che a Beirut durante i bombardamenti.

È stato nel quartiere residenziale di lusso Platì, costruito con i soldi della 'ndrangheta direttamente per i suoi affiliati.

Ha visitato la nuova cittadella all’avanguardia, dove vivono i progettisti di cittadelle all'avanguardia. Nel centro, ormai svuotato, di sera ha incontrato solo anziani, immigrati e super ricchi. Gli altri ci vengono di giorno, per lavorare.

Ha calcolato che un cittadino su quattro vive da solo e che gli stranieri tra poco saranno un quarto della popolazione; ha sentito che dalle ciminiere delle ex fabbriche arriva il canto dei muezzìn.

Ha visto le polveri sottili diventare polveri spesse, grandi come sampietrini.

Ha intervistato tante persone, tutte ugualmente scontente della città in cui vivono, che vorrebbero scappare ma non sanno come e dove.

Soprattutto ha confermato la sensazione che la sua città stia sprofondando nel nulla.

Tanto vale quindi fare come lui, e aspettare la pensione, anche se probabilmente sarà nulla pure quella.

Stasera si porterà dietro il suo manoscritto fotocopiato e rilegato, in cui ha messo nero su bianco i risultati dell'ultima ricerca, dal titolo "Bombardare la città". Del resto, Londra e Berlino -e anche New York dopo l'undici settembre -hanno costruito dalle macerie un'idea di rinnovamento.

Il nostro ricercatore ancora non sa se riuscirà a pubblicarlo, non è ambizioso, e non ha conoscenze nel campo, tranne sua sorella che fa la cameriera ed è amica dell'editore.

Altan, "La Repubblica", 9 dicembre 2010

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