Qual rugiada e qual pianto,
quai lacrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto delle stelle?
E perchè seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l'erba fresca in grembo?
Perchè nell'aria bruna
s'udian quasi dolendo, intorno intorno
gir l'aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina O Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Dino Campana
Una biografia di Dino Campana, con musica
Ne traggo qualche notizia sull’autore:
“Salvatore Esposito è nato a Bagnoli il 6 gennaio 1923: frequentò la scuola tecnico industriale: interruppe gli studi per otto anni durante i quali fu aggiustore meccanico, e, con l'occupazione alleata, fece il muratore al P. B. S.: riprese gli studi al liceo artistico, frequenta l' Architettura. È operaio dell'Ilva-Bagnoli. Le sue prime poesie le scrisse in napoletano sotto lo influsso di Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo. Conosce i classici meglio che i contemporanei.”
Il mio corpo è mille cicatrici
Cucite da mia madre
Con un filo di pianto
Ognuna e dolce come una bestemmia
Argentina nel mare della rabbia
Piove cielo nel lago d’erba
le mani nascoste alle mani
Guancia di carne
Su guancia di pane
Senza lacrime Immoto
Disfarmi
Capodanno vestito di flanella
Col sole sulle snelle ciminiere
E ottavini nell'ugola
Della sirena vorticosa
E' un fanciullo viziato
che mangia solo pastasciutta
e attende
un Messia riveduto
armato di fucile e bombe a mano
Ci viene addosso
Fermo alla sua sedia
Col dito teso
Quanto è lungo il braccio
Che plana sui disegni
L'irrequiete
Gambe da trampoliere
S artigliano al felpato linoleum
E urla le sue idee
Col naso adunco
Le spinge avanti a furia di spalla
Senza cravatta e senza rancore
Fra me e l’azzurro
Madre
E oltre
Le case al sole
Ma quando t'inabissi alla seggiola
e il gatto ritorna ai tuoi piedi
Il sole
L’azzurro
Le case
Ritornano all'abbraccio dei miei occhi
Alla riva di casa fra rottami
Di un giorno inghirlandato
Di mimose e pensieri leggeri
L'onda del tempo mi ha scaraventato
E alla collina
S'è dissolta in languore
Sul balcone fiorito
Più non vibrano voci
Ora severi
I covoni di coke si fan cupi
li carroponte è fermo nell'attesa
La notte incombe triste alla cimasa
La rondine è tornata il petto nero
Il macinino del caffè ci culla
Come bambini dopo un lungo pianto
Scaturito così per un nonnulla
L'aquilone di un canto
Un uomo ha sciolto nella via
M’è parso alla penombra di morire
Confine
Confine diceva il cartello
cercai la dogana, non c'era
non vidi dietro il cancello
ombra di terra straniera.
Taniello, ch'ave scrupole
mò che se vo' nzurà,
piglia e da Fra Liborio
va pe' se cunfessà.
«Patre - le dice - i' roseco,
i' pe nniente me mpesto;
ma po' dico 'o rusario,
e chello va pe cchesto...
Patre, ncuollo a li ffemmene
campo e ncoppa a 'o bordello;
ma sento messe e predeche...
e chesto va pe chello.
Iastemmo, arrobbo... 'O prossimo
spoglio e le dongo 'o riesto;
ma po' faccio 'a lemmosena...
e chello va pe' cchesto.
E mo, Patre, sentitela
st'urdema cannonata:
a sora vostra, Briggeta,
me l'aggio nsaponata...»
Se vota Fra Liborio:
«Guagliò, tu si’ Taniello?...
I' me nsapono a mammeta,
e chesto va pe cchello!»
NOTE
Nzurà= sposare
Roseco = molesto, brontolo
Me mpesto = mi arrabbio
|
Gerard Manley Hopkins
“Pied Beauty”
da:Eugenio Montale, “Quaderno di traduzioni”
Edizioni della Meridiana, 1948
other poetries of G.M. Hopkins
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento
Salvatore Quasimodo
Una biografia di Salvatore Quasimodo
E venne un tempo
che le tentazioni diventarono così potenti
che pochi resistettero
La loro coscienza cominciò a turbarli
Un’ombra c’è in ciascuno di noi,
un altro me stesso che ci perseguita e tormenta
che s’insinua nella nostra coscienza
furtivamente come un ladro di notte
insistendo ferendo e amareggiando
”Sei tu lo stesso - domanda – sei tu lo stesso
che proclamava la nuova primavera
il vero amore e pane per tutti
che negava che la felicità fosse fatta
col sudore e col sangue d’altri uomini
che cercava nel suo popolo
la forza e la ragione.
Sei tu lo stesso - domanda –
che oggi si vende a chi paga di più
sei tu lo stesso”
Sono proprio io. Lo stesso
che sparava pallottole di giustizia
che durante le marce si fermava sul bordo del sentiero
per un fiore o il sorriso d’un bambino
che nelle notti chiare in cima alle montagne
tendeva la mano per cogliere le stelle
che lasciava lo spirito vagare nello spazio
e là, come un tamburo
annunciava il nuovo canto.
Sono lo stesso, ma oggi
i bambini fuggono quando passo
e gli specchi riflettono un’anima torpida
sfigurata corrotta.
Ah, in quale momento del percorso
i nostri passi si smarrirono?
Dovunque tentiamo di nasconderci
il nostro antico giuramento ci perseguita.
Devo imparare di nuovo
a perturbare l’universo, a rifiutare
il conforto dei palazzi
a dividere con i diseredati
il desiderio di virtù.
Il mio altro me stesso me lo insegnerà
Il testo portoghese (e francese)
Reggono ma per poco
gli sguardi amorosi,
cincie presto buttate
a saggiare i dirupi.
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Nulla scompone l’agave.
Urge dentro
l’unico fiore.
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Il respiro giusto
nel tempo assegnato.
Altro non è dato sapere
di chi ha costruito i sentieri.
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Oltre i terrazzi il ponentino
soffia nei pini
passi di danza.
I cipressi sono già sulle punte.
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Tace il ramarro.
Urla il suo verde.
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Non si mostra
il gatto selvatico.
Dalle forre
inarca
lamenti d’amore.
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Sull’acqua
si accoccola appena.
Vento o mare il gabbiano
sa l’arte
di farsi cullare.
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Come per accordo
con la signora
dell’ombrellone accanto
ci salutiamo
un anno sì un anno no.
Non si può
chiedere tutto
all’estate.
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Stare presso.
Questo
a noi è concesso.
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Città azzurra
città fredda
città mobile e ferma
con le facciate al sole,
ancor nell'ombra il piede delle case.
Ombra ai cancelli e ai pini
e al sonno di piccoli bambini
rimasti nella casa senza madre.
Città di corse e soste
alle otto del mattino,
studenti, impiegati, manovali
e donne col rossetto e il giornale.
Città che indugi e che prorompi
alla periferia
mentre mi allontano a lavorare,
città di tutti e mia.
Difficile é il mio tempo,
ma io non mi lamento.
Mai ti dirò:
- Torniamo indietro,
Torniamo donne a casa -
Tu, casa più grande della mia,
ancor feroce al tenero mio amore
come caverna al primordiale,
ti chinerai sul gioco dei bambini
con libere movenze
che la luce non rompe
che l'ombra non incrina,
Perché tu sei nel tempo
destinata a finire
il tuo cemento,
a fiorire la tua maternità,
città di tutti e mia,
città! Che l'architetto
fa di vetro
e noi di sangue.
Da Luigia Rizzo Pagnin, Il borghese agli agguati, Edizioni de “Il rinoceronte”, Padova, 1964
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
Una biografia di Giacomo Leopardi
OCCHIAZZURRA
A te occhiazzurra questi canti deve
uno che ha sete e alle tue labbra beve;
che antichi come lui, come te nuovi,
se giri tutto il mondo non ne trovi.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Promozione
Il Consigliere delegato della società, dopo matura riflessione, valuta che il luogo più adatto per il primo lancio della bibita di mango sia Milano.
Prende il jet e va a Milano, dove la sua segretaria gli ha già fissato un appuntamento con il miglior pubblicitario dell'Italia settentrionale.
- Vorremmo organizzare un lancio molto forte della nostra nuova bibita. E' un prodotto veramente ottimo.
- Me ne descriva le proprietà, risponde il pubblicitario, in modo da poter comprendere che tipo di campagna è bene organizzare.
- Certo, prosegue il Consigliere delegato, stavo per farlo. Allora, le qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo, ha la strana capacità di mantenere molto a lungo la temperatura acquistata in frigorifero, è molto rinfrescante e toglie la sete per almeno un'ora, e inoltre sono state testate (ho qui i certificati) delle notevolissime prerogative energetiche: stimola l'intelligenza ed esalta le capacità sessuali.
- Bene bene, dice il pubblicitario. Credo proprio che potremo organizzare una buona campagna. Domani le faccio avere uno schema e il preventivo.
Il giorno dopo, puntuale, arriva il preventivo: 10 milioni di Euro.
- Troppo alto, dice il Consigliere delegato. Milano è evidentemente una città troppo cara.
Si consulta in videoconferenza con i suoi consiglieri a NY, e fa fissare dalla sua segretaria, dopo un'attenta ricerca, un appuntamento con una ditta specializzata di Roma, molto quotata.
- Vorremmo organizzare un lancio molto forte della nostra nuova bibita, dice al pubblicitario romano. E' un prodotto veramente ottimo. Le sue qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo ecc. ecc.
- Mi sembra proprio un'ottima merce, molto indicata per le calde estati romane e per tutto il mercato del Sud, che gravita su Roma. Fra due giorni le faccio avere un'offerta, che credo sarà molto conveniente.
Passano i due giorni, ed ecco l'offerta: 8 milioni di Ecu.
- Ma non sarà l'Italia a essere troppo cara? dice fra sé e sé il Consigliere delegato.
Si consulta con NY dove emerge una nuova ipotesi: perché non cercare a Napoli? In fondo, è una città incasinata e poco affidabile, ma è una porta verso la sponda africana del mediterraneo, un mercato in via di sviluppo ecc. ecc. L'efficiente segretaria gli combina un appuntamento, e un signore si presenta puntuale all'albergo a via Partenope dove è sceso.
- Stiamo cercando una società di pubblicità che organizzi un buon lancio per un nostro nuovo prodotto, una bibita a base di mango che ha eccezionali qualità. E' un prodotto veramente ottimo. Le qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo, ha la strana capacità di mantenere molto a lungo la temperatura acquistata in frigorifero, è molto rinfrescante e toglie la sete per almeno un'ora, e inoltre sono state certificate delle notevolissime prerogative energetiche: stimola l'intelligenza ed esalta le capacità sessuali.
- Ah ah, bene, fa il napoletano pensieroso. Credo che si possa fare un buon lavoro. Bene, per 2 mila Euro le organizzo una fantastica campagna. Adesso sono le 10 am, lei mi firmi un assegno e domattina si affacci alla finestra.
Il consigliere delegato non sa che dire. Il prezzo gli sembra eccezionalmente conveniente, ma non sa se può fidarsi. Decide di rischiare, e firma l'assegno.
La giornata, come al solito, è bella, il sole splende e la brezza rende l'aria gradevole. Il Consigliere delegato si fa portare a Posillipo da una carrozzella, poi attraversa Spaccanapoli e mangia in un ristorante di Piazza Dante. Dopo una siesta sorbisce una coviglia di nocciola da Gambrinus a Piazza Plebiscito, va a comprare qualche cravatta da Marinella alla Torretta, prende un aperitivo da Caflisch a via Chiaia, compra cinque scatole di cioccolatini da Gay & Odin, cena in albergo e va a dormire presto, curioso su che cosa vedrà all'indomani.
Appena si fa giorno il cameriere gli porta il caffè. Il Consigliere delegato si alza, va alla finestra e si affaccia: la città è coperta da grandi manifesti dove, sotto il marchio della bibita, campeggiano queste parole:
MANGO P'A CAPA
MANGO P'O CAZZO.
"What do they say?" the priest inquired. "They only know how to say, 'Hi, we're prostitutes. Want to have some fun?'"
"That's terrible!" the priest exclaimed, "but I have a solution to your problem. Bring your two female parrots over to my house and I will put them with my two male talking parrots whom I taught to pray and read the bible. My parrots will teach your parrots to stop saying that terrible phrase and your female parrots will learn to praise and worship."
"Thank you!" the woman responded.
The next day the woman brings her female parrots to the priest's house. His two male parrots are holding rosary beads and praying in their cage.
The lady puts her two female parrots in with the male parrots and the female parrots say,"Hi, we're prostitutes, want to have some fun?"
One male parrot looks over at the other male parrot and exclaims, "Put the beads away. Our prayers have been answered!"
Tra i cespugli e i banchi di sabbia, ogni tanto la figura in piedi di un uomo (i veneziani li chiamano gli Apache). È uno dei pochissimi luoghi nel Veneto dove si può prendere il sole nudi.
La spiaggia è quasi vuota, eccetto il sabato e la domenica, quando diventa infrequentabile a causa dei numerosi gruppi di bagnanti che arrivano in barca, e ormeggiano i loro scafi (a volte oltre un centinaio) proprio davanti alla spiaggia, verso la taverna.
| Dalla terra al mare, dal mare alla terra |
Fa parte di una riserva naturale che misura 115 ettari; è gestita dal WWF Veneto e dal Comune di Venezia, in accordo con la Provincia di Venezia. L'area a pineta è gestita dai Servizi Forestali di Treviso e Venezia.
Secondo la scheda del WWF l’ambiente è costituito da
“dune pioniere e mobili colonizzate da Ammophila littoralis e dune consolidate da vegetazione erbacea xerica. Alle spalle delle dune è presente una vasta pineta di circa 30 ha. Vaste praterie umide interdunali. Sulla duna dominano le specie endemiche caratteristiche dei litorali sabbiosi dell'Alto Adriatico come lo sparto pungente, la medica marina, lo zigolo delle sabbie. Nel retroduna a vegetazione steppica troviamo il muschio Tortula ruralis, il raro fiordaliso di Tommasini e l'apocino veneziano. Nella area boscata, a pino domestico e pino marittimo, in riconversione a bosco misto a latifoglie con leccio, orniello, roverella e con frequenti macchie di pioppo bianco troviamo orchidee come la cefalantera maggiore e l'ofride fior d'ape. “
”Nelle depressioni umide interdunali prevale il giunco nero e la canna di Ravenna. Ricca è la presenza di avifauna con gruccione, fratino e fraticello che nidificano sulle dune mentre nelle aree più interne sono presenti l'occhiocotto, il canapino e lo zigolo nero. Tra i rapaci d'inverno volteggiano nelle aree aperte lo sparviero e il gheppio ed è avvistabile durante il passo il falco pecchiaiolo e il falco pellegrino. Nelle aree boscate nidificano il rigogolo, il picchio rosso maggiore, il succiacapre e il gufo comune. Tra rettili e anfibi sono da segnalare il biacco, la lucertola campestre e il rospo smeraldino mentre tra i mammiferi topo domestico e crocidura minore”
Quanto rimarrà di questa flora e di questa fauna, di questo bellissimo luogo, quando apriranno il giganesco cantiere del MoSE?
Qui potete vedere una intera cartella di immagini, scattate per Eddyburg dal 2000 al 2004
Sous aucun prétexte je ne veux
Avoir de réflexes malheureux
Il faut que tu m'expliques un peu mieux
Comment te dire adieu
Mon coeur de silex vite prend feu
Ton coeur de pyrex résiste au feu
Je suis bien perplexe je ne veux
Me résoudre aux adieux
Je sais bien qu'un ex amour
N'a pas de chance ou si peu
Mais pour moi
Une explication vaudrait mieux
Sous aucun prétexte je ne veux
Devant toi surexposer mes yeux
Derrière un Kleenex je saurais mieux
Comment te dire adieu
Comment te dire adieu
Tu as mis à l'index
Nos nuits blanches
Nos matins gris-bleu
Mais pour moi
Une explication vaudrait mieux
Sous aucun prétexte je ne veux
Devant toi surexposer mes yeux
Derrière un Kleenex je saurais mieux
Comment te dire adieu
Comment te dire adieu
Comment te dire adieu
Caro Prof. Salzano,
Abbiamo letto con grande piacere nella sua Home page il testo della canzone napoletana “O Guarracino”. Da un po’ di tempo lo stavamo cercando anche noi ed il caso ha voluto che contemporaneamente a tale scoperta rinvenissimo un’altra versione su una antologia di canzoni napoletane (La canzone napoletana di Imperiali e Recalcati,1998). Fra le due versioni ci sono delle differenze che ci permettiamo di segnalare:
¨ e llare’ lo mare ‘e lena: nel suo glossario è interpretata semplicemente come ritornello fonico mentre noi abbiamo la traduzione rema di buona lena (llare’ sarebbe l’imperativo di un verbo a noi sconosciuto) che ben si accorda con i versi successivi, che invitano un ipotetico spasimante a affrettarsi perché la figlia della si’ Lena è rimasta senza fidanzato.
¨ ma la vecchia de vava Alosa: noi abbiamo invece ma la vecchia de la vavosa , con riferimento alla stessa ruffiana che ha riportato alla sardella il messaggio d’amore del guarracino.
¨ guappo Pallarino : una nota della nostra antologia dice che Pallarino era il nome di un famoso e temuto guappo dell’epoca. L’uso di guappo come sostantivo ci sembra più appropriato.
¨ pisce prattiello: noi abbiamo pisce martiello ma il canone filologico della “lectio difficilior” avvalora la sua versione.
Fra l’altro siamo in possesso di una versione sensibilmente diversa della stessa canzone, sicuramente una rielaborazione successiva, interpretata dai cantanti della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Purtroppo non abbiamo il testo, e non siamo riusciti ancora a trascriverlo correttamente: glielo faremo avere appena pronto.
Come si dice a Napoli stateve bbuone
A parere di Fabrizio Borgogna, O guarracino (cioè il testo inserito qui sotto) "non è una creazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma una canzone tradizionale rielaborata da Roberto de Simone". Borgogna osserva che “rispetto alla tradizionale è molto più semplice: è più breve, la sintassi è meno ricercata e le specie di pesce citate sono di gran lunga inferiori (17 contro la settantina de Lo guarracino)”. Ricorda che “in alcune isole e località rivierasche napoletane esisteva un canto popolarededicato al guarracino, molto simile alla canzone di cui sto parlando, soprattutto come musica” e osserva come sia improbabile che il testo rielaborato da De Simone “sia quel canto (credo sia troppo complessa e lunga per essere una canzone popolare), ma potrebbe essere una canzone d'autore che si ispira a quel canto”.
Con una interpretazione che mi sembra del tutto logica e condivisibile il mio gentile corrispondente conclude che, “essendo senza dubbio anche Lo Guarracino una canzone d'autore, ed essendo soprattutto la musica ed il ritmo completamente diversi dalle altre due canzoni, potrebbe anche essere che 'O guarracino sia una canzone precedente a questa e alla quale Lo guarracino fece riferimento”. Il testo è tratto dal sito della Nuova Compagnia
'O guarracino ca jeva p'o mare
jeve truvanno 'e se nzorare (...'e se nguaiare)
se facette 'nu bello vestito
chino chino 'e scorze d'ancino
nu scarpino fatt'a ngrese
'a pettinatura a la francese (...'o cazunciello a la francese)
allustrato e puletiello
jeva facenno 'o nnammuratiello
La sardella ca 'o verette
'o ghianco e 'o russo se mettette
po' pigliaie 'o calascione
e mpruvvisaie 'na canzone (...po' chiammaie a Pascalone/e l'ammustaie chistu cazone)
'a canzone c''o liuto
'o guarracino s'è ncannaruto (...nzallanuto)
Passa a tiempo 'a zia vavosa
vecchia trammera zandragliosa
'a vavosa pe' 'nu rano
faceva li pisce la ruffiana (...frieva l'ove 'int''o tiano)
jesce llà fora e mpostal''o pietto
si vuò stu marito rint''o lietto (...si vuò fa mò 'nu rispietto)
'A sardella a sti parole
se facette 'na bbona scola
de curzera s'affacciaie
e 'o guarracino zenniaie (...e tutte li trezze l'ammustaie)
mentre ca lloro amuriggiavano
tutte li pisce se n'addunavano (...se masteriavano)
Primma fuie 'na raosta
ca da luntano faceva la posta
pò se ne venne la raia petrosa
e 'a chiammaie schefenzosa (...brutta zellosa)
pecché trarev'all'allitterato
ca era geluso e nnammurato (...ca era 'nu piezzo 'e scurnacchiato)
L'allitterato ca l'appuraie
tutti li sante jastemmaie
e alluccanno voglio vendetta
corze alla casa comm'a saetta.
Pò s'armaie fino fino
pe' sguarrà lu guarracino (...pe' spaccà lu guarracino)
Marammé oi mamma bella
alluccava la zi' sardella
e 'a vedé stu cumbattimento
le venette 'nu svenimento
le venette 'n'antecore
e tutt'e pisci ascettero fore (...e 'o capitone ascette fore)
Bello e bbuono comm'a niente
ascettero tutte a pisci fetiente
tira e molla piglia e afferra
mmiez'a sti pisci lu serra serra
Quatto ciefere arraggiate
se pigliavano a capuzzate tutte li purpe cu ciento vraccia
se pigliavano a pisci 'nfaccia (...a panne 'nfaccia)
'na purpessa a 'na vicina
le faceva lu strascino (...le stracciaie lu suttanino)
Mentre 'e sarde alluccavano a mare
"ca ve pozzano strafucare!"
'nu marvizzo cu 'n'uocchio ammaccato
deva mazzate da cecato
quanno cugliette pe' scagno a 'na vopa
chesta pigliaie 'na mazza de scopa
Piglia sta mazza e fuje da llà
mannaggia lu pesce c''o baccalà
se secutavano ore e ore
pigliala 'a capa e fuje p''a cora.
Ddoje arenche vecchie bizzoche
se paliavano poco a poco
e ammaccannose 'o paniello
misero mmiezo a 'nu piscitiello
stu piscitiello che era fetente
facette 'na mossa malamente
stu piscitiello svergugnato
facette po' sotto 'o smaliziato (...disgraziato/...'o scurnacchiato)
Ma 'nu palammeto bunacchione
magnava cozzeche c''o limone
e 'nu marvizzo vistolo sulo
te lo piglia a cavece 'nculo (...a muorze 'nculo)
tutto nzieme a sta jurnata
se sentette 'na scuppettata
Pe' la paura a 'na patella
le venette 'na cacarella
pe' la paura 'a nu piscitiello
le venette 'nu riscinziello (...s'arrugnaie lu ciciniello)
mentre 'nu rancio farabutto
muzzecava li piere a tutte
muorte e bbive ne li stesse
ce cantava 'e Ssante Messe
Se pigliavano a mala parole
e se nturzavano bbuono e mmole
po' pe' farse 'na bbona ragione
danno de mano a lu cannone
'o cannone facette 'nu scuoppo
lu guarracino restaie zuoppo
zuoppo zuoppo mmiez''a via
che mmalora e mamma mia (...tuppe tuppe bella mia/che mmalora e mamma mia)
Signure mieie ca sentite
vurria sapé si 'o credite
chi s'agliotte sti pallone
tene 'nu bbuono cannarone
chi s'agliotte chesta palla
cu tutt''e pisci rimana a galla
zuffamiré e zuffamirella
e 'ntinderindì sta tarantella (...zuffamiré zuffamirà/mannaggia lu pesce c''o baccalà)
Ho scelto queste canzoni: Fenesta vascia, La cammesella, Te voglio bene assaie, Fenesta ca lucive, Era de maggio, ‘E spingule frangese, Voce ‘e notte, Guapparia, Dicitincello vuie, Tammurriata nera, Vierno, Accarezzame. (A Lo Guarracino è dedicata un’intera cartella)
di ignoti
Fenesta vascia 'e padrona crudele,
quanta suspire mm'haje fatto jettare!...
Mm'arde stu core, comm'a na cannela,
bella, quanno te sento annommenare!
Oje piglia la 'sperienza de la neve!
La neve è fredda e se fa maniare...
e tu comme si' tanta aspra e crudele?!
Muorto mme vide e nun mme vuó' ajutare!?...
Vorría addeventare no picciuotto,
co na langella a ghire vennenn'acqua,
Pe' mme ne jí da chisti palazzuotte:
Belli ffemmene meje, ah! Chi vó' acqua...
Se vota na nennella da llá 'ncoppa:
Chi è 'sto ninno ca va vennenn'acqua?
E io responno, co parole accorte:
Só' lacreme d'ammore e non è acqua!...
di ignoti (1700)
E llevete lu mantesino
- Lu mantesino 'gnornò, 'gnornò!-
Si nun te lo vuo' lleva',
me soso e me ne vado da 'cca.
- E 'tte me l'aggio levato,
Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-
Sia benedetta 'a mammeta,
quanno 'te maritò.
E llevete lu suttanino
- Lu suttanino 'gnornò, 'gnornò!-
Si nun te lo vuo' lleva',
me soso e me ne vado da 'cca.
- E 'tte me l'aggio levato,
Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-
Sia benedetta 'a mammeta,
quanno 'te maritò.
E llevete chisto cursetto
- Chisto cursetto 'gnornò, 'gnornò!-
Si nun te lo vuo' lleva',
me soso e me ne vado da 'cca.
- E 'tte me l'aggio levato,
Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-
Sia benedetta 'a mammeta,
quanno 'te maritò.
E llevete la cammesella.
- La cammesella 'gnornò, 'gnornò!-
Si nun te la vuo' lleva',
me soso e me ne vado da 'cca.
- E 'tte me l'aggio levata,
Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-
Sia benedetta 'a mammeta,
quanno 'te maritò.
E dammece nu vasillo.
- Nu vasillo 'gnornò, 'gnornò!-
Si nun me lo vuo' da',
me soso e me ne vado da 'cca.
- Ed ecchete 'cca lu vasillo,
Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-
Sia benedetta 'a mammeta,
quanno 'te maritò.
versi di Raffaele Sacco, musica attribuita a Gaetano Donizetti (1835)
Pecché quanno mme vide,
te 'ngrife comm'o gatto?
Nenné', che t'aggio fatto,
ca nun mme puó' vedé?!
Io t'aggio amato tanto...
Si t'amo tu lo ssaje!
Io te voglio bene assaje...
e tu non pienze a me!
Io te voglio bene assaje...
e tu non pienze a me!
La notte tutti dormono,
ma io che vuó durmire?!
Penzanno a nénna mia,
mme sento ascevolí!
Li quarte d'ora sonano
a uno, a duje, a tre...
Io te voglio bene assaje...
e tu non pienze a me!
Io te voglio bene assaje...
e tu non pienze a me!
Recòrdate nu juorno
ca stive a me becino,
e te scorréano, 'nzino,
le llacreme, accussí!...
Deciste a me: "Non chiagnere,
ca tu lo mio sarraje..."
Io te voglio bene assaje...
e tu non pienze a me!
Io te voglio bene assaje...
e tu non pienze a me!
versi di ignoto, musica attribuita a Vincenzo Bellini (s. d.)
Fenesta ca lucive e mo nun luce...
sign'è ca nénna mia stace malata...
S'affaccia la surella e mme lu dice:
Nennélla toja è morta e s'è atterrata...
Chiagneva sempe ca durmeva sola,
mo dorme co' li muorte accompagnata...
Va' dint''a cchiesa, e scuopre lu tavuto:
vide nennélla toja comm'è tornata...
Da chella vocca ca n'ascéano sciure,
mo n'esceno li vierme...Oh! che piatate!
Zi' parrocchiano mio, ábbece cura:
na lampa sempe tienece allummata...
Addio fenesta, rèstate 'nzerrata
ca nénna mia mo nun se pò affacciare...
Io cchiù nun passarraggio pe' 'sta strata:
vaco a lo camposanto a passíare!
'Nzino a lo juorno ca la morte 'ngrata,
mme face nénna mia ire a trovare!..
versi di Salvatore Di Giacomo, musica di Mario Costa (1885)
Era de maggio e te cadéano 'nzino,
a schiocche a schiocche, li ccerase rosse...
Fresca era ll'aria...e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciento passe...
Era de maggio, io no, nun mme ne scordo,
na canzone cantávamo a doje voce...
Cchiù tiempo passa e cchiù mme n'allicordo,
fresca era ll'aria e la canzona doce...
E diceva: "Core, core!
core mio, luntano vaje,
tu mme lasse, io conto ll'ore...
chisà quanno turnarraje!"
Rispunnev'io: "Turnarraggio
quanno tornano li rrose...
si stu sciore torna a maggio,
pure a maggio io stóngo ccá...
Si stu sciore torna a maggio,
pure a maggio io stóngo ccá."
E só' turnato e mo, comm'a na vota,
cantammo 'nzieme lu mutivo antico;
passa lu tiempo e lu munno s'avota,
ma 'ammore vero no, nun vota vico...
De te, bellezza mia, mme 'nnammuraje,
si t'allicuorde, 'nnanz'a la funtana:
Ll'acqua, llá dinto, nun se sécca maje,
e ferita d'ammore nun se sana...
Nun se sana: ca sanata,
si se fosse, gioja mia,
'mmiez'a st'aria 'mbarzamata,
a guardarte io nun starría !
E te dico: "Core, core!
core mio, turnato io só'...
Torna maggio e torna 'ammore:
fa' de me chello che vuó'!
Torna maggio e torna 'ammore:
fa' de me chello che vuó'!"
versi di Salvatore Di Giacomo, musica di Enrico De Leva (1888)
Nu juorno mme ne jètte da la casa,
jènno vennenno spíngule francese...
Nu juorno mme ne jètte da la casa,
jènno vennnenno spíngule francese...
Mme chiamma na figliola: "Trase, trase,
quanta spíngule daje pe' nu turnese?"
Mme chiamma na figliola: "Trase, trase,
quanta spíngule daje pe' nu turnese?
Quanta spíngule daje pe' nu turnese?"
Io, che sóngo nu poco veziuso,
sùbbeto mme 'mmuccaje dint'a 'sta casa...
"Ah, chi vò' belli spingule francese!
Ah, chi vò' belli spingule, ah, chi vò'?!
Ah, chi vò' belli spingule francese!
Ah, chi vò' belli spingule ah, chi vò'!?"
Dich'io: "Si tu mme daje tre o quatto vase,
te dóngo tutt''e spíngule francese...
Dich'io: "Si tu mme daje tre o quatto vase,
te dóngo tutt''e spíngule francese...
Pízzeche e vase nun fanno purtóse
e puo' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...
Pízzeche e vase nun fanno purtóse
e puo' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...
E puó' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...
Sentite a me ca, pure 'nParaviso,
'e vase vanno a cinche nu turnese!...
"Ah, Chi vò' belli spíngule francese!
Ah, Chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!
Ah, chi vò' belli spíngule francese!
Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!"
Dicette: "Bellu mio, chist'è 'o paese,
ca, si te prore 'o naso, muore acciso!"
Dicette: "Bellu mio, chist'è 'o paese,
ca, si te prore 'o naso, muore acciso!"
E i' rispunnette: "Agge pacienza, scusa...
'a tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese..."
E i' rispunnette: "Agge pacienza, scusa...
'a tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese
'A tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese...
E tene 'a faccia comm''e ffronne 'e rosa,
e tene 'a vocca comm'a na cerasa...
Ah, chi vò' belli spîngule francese!
Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!
Ah, chi vò' belli spíngule francese!
Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!"
versi di Edoardo Nicolardi, musica di Ernesto De Curtis (1905)
Si 'sta voce te scéta 'int''a nuttata,
mentre t'astrigne 'o sposo tujo vicino...
Statte scetata, si vuó' stá scetata,
ma fa' vedé ca duorme a suonno chino...
Nun ghí vicino ê llastre pe' fá 'a spia,
pecché nun puó' sbagliá 'sta voce è 'a mia...
E' 'a stessa voce 'e quanno tutt'e duje,
scurnuse, nce parlávamo cu 'o "vvuje".
Si 'sta voce te canta dint''o core
chello ca nun te cerco e nun te dico;
tutt''o turmiento 'e nu luntano ammore,
tutto ll'ammore 'e nu turmiento antico...
Si te vène na smania 'e vulé bene,
na smania 'e vase córrere p''e vvéne,
nu fuoco che t'abbrucia comm'a che,
vásate a chillo...che te 'mporta 'e me?
Si 'sta voce, che chiagne 'int''a nuttata,
te sceta 'o sposo, nun avé paura...
Vide ch'è senza nomme 'a serenata,
dille ca dorme e che se rassicura...
Dille accussí: "Chi canta 'int'a 'sta via
o sarrá pazzo o more 'e gelusia!
Starrá chiagnenno quacche 'nfamitá...
Canta isso sulo...Ma che canta a fá?!..."
versi di Libero Bovio, musica di Rodolfo Falvo (1914)
Scetáteve, guagliune 'e malavita...
ca è 'ntussecosa assaje 'sta serenata:
Io sóngo 'o 'nnammurato 'e Margarita
Ch'è 'a femmena cchiù bella d''a 'Nfrascata!
Ll'aggio purtato 'o capo cuncertino,
p''o sfizio 'e mme fá sèntere 'e cantá...
Mm'aggio bevuto nu bicchiere 'e vino
pecché, stanotte, 'a voglio 'ntussecá...
Scetáteve guagliune 'e malavita!...
E' accumparuta 'a luna a ll'intrasatto,
pe' lle dá 'o sfizio 'e mme vedé distrutto...
Pe' chello che 'sta fémmena mm'ha fatto,
vurría ch''a luna se vestesse 'e lutto!...
Quanno se ne venette â parta mia,
ero 'o cchiù guappo 'e vascio â Sanitá...
Mo, ch'aggio perzo tutt''a guapparía,
cacciatemmenne 'a dint''a suggitá!...
Scetáteve guagliune 'e malavita!...
Sunate, giuvinò', vuttàte 'e mmane,
nun v'abbelite, ca stó' buono 'e voce!
I' mme fido 'e cantá fino a dimane...
e metto 'ncroce a chi...mm'ha miso 'ncroce...
Pecché nun va cchiù a tiempo 'o mandulino?
Pecché 'a chitarra nun se fa sentí?
Ma comme? chiagne tutt''o cuncertino,
addó' ch'avess''a chiagnere sul'i'...
Chiágnono sti guagliune 'e malavita!...
versi di Enzo De Fusco, musica di Rodolfo Falvo (1930)
Dicitencello a 'sta cumpagna vosta
ch'aggio perduto 'o suonno e 'a fantasia...
ch''a penzo sempe,
ch'è tutt''a vita mia...
I' nce 'o vvulesse dicere,
ma nun ce 'o ssaccio dí...
'A voglio bene...
'A voglio bene assaje!
Dicitencello vuje
ca nun mm''a scordo maje.
E' na passione,
cchiù forte 'e na catena,
ca mme turmenta ll'anema...
e nun mme fa campá!...
Dicitencello ch'è na rosa 'e maggio,
ch'è assaje cchiù bella 'e na jurnata 'e sole...
Da 'a vocca soja,
cchiù fresca d''e vviole,
i' giá vulesse sèntere
ch'è 'nnammurata 'e me!
'A voglio bene...
..........................
Na lácrema lucente v'è caduta...
dicíteme nu poco: a che penzate?!
Cu st'uocchie doce,
vuje sola mme guardate...
Levámmoce 'sta maschera,
dicimmo 'a veritá...
Te voglio bene...
Te voglio bene assaje...
Si' tu chesta catena
ca nun se spezza maje!
Suonno gentile,
suspiro mio carnale...
Te cerco comm'a ll'aria:
Te voglio pe' campá!...
versi di Edoardo Nicolardi, musica di E. A. Mario (1944)
Io nun capisco, ê vvote, che succede...
e chello ca se vede,
nun se crede! nun se crede!
E' nato nu criaturo niro, niro...
e 'a mamma 'o chiamma Giro,
sissignore, 'o chiamma Giro...
Séh! gira e vota, séh...
Séh! vota e gira, séh...
Ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono,
ca tu 'o chiamme Peppe o Giro,
chillo, o fatto, è niro, niro,
niro, niro comm'a che!...
'O contano 'e ccummare chist'affare:
"Sti fatte nun só' rare,
se ne contano a migliara!
A 'e vvote basta sulo na guardata,
e 'a femmena è restata,
sott''a botta, 'mpressiunata..."
Séh! na guardata, séh...
Séh! na 'mpressione, séh...
Va' truvanno mo chi è stato
ch'ha cugliuto buono 'o tiro:
chillo, 'o fatto, è niro, niro,
niro, niro comm'a che!...
Ha ditto 'o parulano: "Embè parlammo,
pecché, si raggiunammo,
chistu fatto nce 'o spiegammo!
Addó' pastíne 'o ggrano, 'o ggrano cresce...
riesce o nun riesce,
sempe è grano chello ch'esce!"
Mé', dillo a mamma, mé'...
Mé', dillo pure a me...
Ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono,
ca tu 'o chiamme Peppe o Giro,
chillo...'o ninno, è niro, niro,
niro, niro comm'a che!...
versi di Armando De Gregorio, musica di Vincenzo Acampora (1945)
E' vierno: chiove, chiove 'a na semmana...
e st'acqua assaje cchiù triste mme mantene...
Che friddo, quanno è 'a sera, ca mme vène...
cu st'aria 'e neve, mo ca manche tu.
'Sta freva, ca manch'essa mm'abbandona,
'sta freva, 'a cuollo, nun se leva cchiù!
Vierno!
che friddo 'int'a stu core...
e sola tu,
ca lle puó' dá calore,
te staje luntana e nun te faje vedé'!
Te staje luntana e nun te cure 'e me!
Ca mamma appiccia 'o ffuoco tutt''e ssere
dint'a 'sta cammarella fredda e amara?!
"Ma che ll'appicce a fá, vecchia mia cara,
s'io nun mme scarfo manco 'mbracci'a te!?"
Povera vecchia mia...mme fa paura:
è n'ombra ca se move attuorno a me!...
Vierno!
che friddo 'int'a stu core...
e sola tu,
ca lle puó' dá calore,
te staje luntana e nun te faje vedé'!
Te staje luntana e nun te cure 'e me!
versi di Nisa, musica di Pino Calvi (1954)
Stasera, core e core, 'mmiez'ô ggrano,
addó' ce vede sulamente 'a luna...
io cchiù t'astrégno e cchiù te faje vicino,
io cchiù te vaso e cchiù te faje vasá...
Te vaso...e 'o riturnello 'e na canzone,
tra ll'arbere 'e cerase vola e va...
Accarézzame!...
Sento 'a fronte ca mme brucia...
Ma pecché nun mme dá pace
stu desiderio 'e te?
Accarézzame!...
Cu sti mmane vellutate,
faje scurdá tutt''e peccate...
Strígneme 'mbracci'a te!...
Sott'a stu cielo trapuntato 'e stelle,
mme faje sentí sti ddete 'int''e capille...
Voglio sunná guardanno st'uocchie belle...
voglio sunná cu te!...
Accarézzame!...
Sento 'a fronte ca mme brucia...
Ma pecché nun mme dá pace
stu desiderio 'e te?
E nu rilorgio lentamente sona...
ma 'o tiempo s'è fermato 'nziem'â luna...
Io mme vurría addurmí 'mmiez'a stu ggrano
tutta na vita...pe' ll'eternitá...
E tu mm'accarezzasse chianu chiano...
e mme vasasse, senza mme scetá...
Accarézzame!...
Sento 'a fronte ca mme brucia...
Ma pecché nun mme dá pace
stu desiderio 'e te?
Lo Guarracino che jéva pe mare
le venne voglia de se 'nzorare;
se facette no bello vestito
de scarde de spine pulito pulito
cu na perucca tutta 'ngrifata
de ziarèlle 'mbrasciolata
co lo sciabò, scolla e puzine
de ponte ongrese fine fine.
Cu li cazune de rezze de funno,
scarpe e cazette de pelle de tunno,
e sciammeria e sciammereino
d'àleche e pile de voje marino,
co buttune e buttunera
d'uocchúe de purpe, sécce e fèra,
fibbia, spata e schiocche 'ndorate
de niro de secce e fele d'achiate.
Doje belle cateniglie
de premmone de conchiglie,
no cappiello aggallonato
de codarino d'aluzzo salato,
tutto pòserna e steratiello
jeva facenno lo sbafantiello,
e gerava da ccà e da llà
la 'nnammorata pe se trovà!
La Sardella a lo barcone
steva sonanno lo calascione;
e a suono de trommetta jeva cantanno st'arietta:
«E Ilaré lo mare e lena,
«e la figlia da sié Lena
«ha lasciato lo 'nnammorato
«Pecché niente l'ha rialato ».
‘O Guarracino 'nche la guardaje
de la Sardella se 'nnammoraje;
se ne jette da na Vavosa
la cchiù vecchia maleziosa,
l'ebbe bona rialata
pe mannarle la mmasciata:
la Vavosa pisse pisse
chiatto e tonno 'nce lo disse.
La Sardella 'nch'a sentette
rossa rossa se facette,
pe lo scuorno che se pigliaje
sotto a no scuoglio se 'mpizzaje;
ma la vecchia de vava Alosa
sùbeto disse: « Ah schefenzosa
«De sta manera non truove partito,
«'ncanna te resta lo marito.
« Se aje voglia de t'allocà
«tanta smorfie non aje da fa;
«fora le zeze efora lo scuorno,
«anema e core e faccia de cuorno
Ciò sentenno la sii Sardella
s'affacciaje a la fenestrella,
fece n'uocchio a zennariello
a lo speruto 'nnammoratiello.
Ma la Patella che steva de posta
la chiammaje faccia tosta,
tradetora, sbrevognata,
senza parola, male nata,
ch'avea 'nchiantato l'Alletterato
primmo e antico 'nnanunorato;
de carrera da chisto jette
e ogne cosa 'Ile dicette.
Quanno lo 'ntise lo poveriello
se lo pigliaje Farfariello;
iette a la casa e s'armaje a rasulo,
se carrecaje comm'a no mulo
de scoppette e de spingarde,
pòvere, palle, stoppa e scarde;
quatto pistole e tre baionette
dint'a la sacca se mettette.
'Ncopp'a li spalle sittanta pistune,
ottanta mbomme e novanta cannune;
e comm'a guappo Pallarino
jeva trovanno lo Guarracino;
la disgrazia a chisto portaje
che mmiezo a la chiazza te lo 'ncontraje:
se l'afferra po crovattino
e po ‘lle dice: «Ah malandrino!
«Tu me la lieve la 'nnammorata
«e pigliatella sta mazziata».
Tùffete e tàffete a meliune
le deva pàccare e secuzzune,
schiaffe, ponie eperepesse,
scoppolune, fecozze e conesse,
scerevecchiune e sicutennosse e
ll'ammacca osse e pilosse.
Venimmoncenne ch'a lo rommore
pariente e amice ascettero fore,
chi co mazze, cortielle e cortelle,
chi co spate, spatune e spatelle,
chiste co barre e chílle co spite,
chi co ammènnole e chi co antrite,
chi co tenaglie e chi co martielle,
e chi co torrone e sosamielle.
Patre, figlie, marite e mogliere
s'azzuffajeno comrn'a fere.
A meliune correvano a strisce
de sto partito e de chillo li pisce.
Che bediste de sarde e d'alose!
De palaje e raje petrose !
Sàrache, diéntece ed achiate,
scurme, tunne e alletterate!
Pisce palumme e pescatrice,
scorfene, cernie e alice,
mucchie, ricciòle, musdee e mazzune,
stelle, aluzze e storiune
merluzze, ruongole e murene,
capodoglie, orche e vallene,
capitune, aùglie e arenghe,
ciéfere, cuocce, tràecene e tenghe.
Treglie, trèmmole, tratte e tunne,
fiche, cepolle, laune e retunne,
purpe, secce e calamare,
pisce spate e stelle de mare,
pisce palumme e pisce prattielle,
voccadoro e cecenielle,
capochiuove e guarracine,
cannolicchie, òstreche e ancine.
Vòngole, cocciole e patelle,
pisce cane e grancetielle,
marvizze, màrmure evavose,
vope prene, vedove e spose,
spinole, spuonole, sierpe e sarpe,
scàuze, 'nzuoccole e co le scarpe,
sconciglie, gàmmere e ragoste,
vennero 'nfìno cole poste,
capitune, sàure e anguille,
pisce gruosse e piccerille,
d'ogni ceto e nazione,
tantille, tante, cchiù tante e tantone.
Quanta botte, mamma mia!
che se divano, arrassosia
a’ centenare le barrate!
a’ meliune le petrate!
Muorze e pizzeche a beliune!
A delluvio li secuzzune!
Non ve dico che bivo fuoco
se faceva per ogni luoco!
Ttè, ttè, ttè, ccà pistulate!
Ttà, ttà, ttà, llà scoppettate
Ttà, ttù, ttù, ccà li pistune!
Bu, bu, bu, llà li cannune !
Ma de cantà so già stracquato
e me manca mo lo sciato;
sicché dateme licienzia,
graziosa e bella audienzia,
'nfì che sorchio na meza de seje,
co salute de luje e de leje,
ca se secca lo cannarone
sbacantànnose lo premmone.
Guarracino: se ne conoscono tre specie: il guarracino di scoglio, che è l'Apogon rex mullorum, perché detto re di triglie dai pescatori di Malta; il guarracino o monacella rossa, cioè l'Anthias sacer e, infine, il guarracino o monacella nera, cioè l'Heliases chromis.
Jéva: andava.
Le venne: gli venne.
De se 'nzorare: di ammogliarsi. Da uxor, moglie. Sarebbe un se inuxorare, ossia se ad uxorem ducere. Il latino ha l'aggettivo inuxorus (non ammogliato, celibe); sol che il prefisso è negativo, mentre nel nostro verbo è di movimento. Questo verbo, come la sua etimologia vuole, si dice solo dell'uomo; della donna si dice 'mmaretarse (maritarsi), dove la prima m non è che lo stesso in di 'nzorarse, lì con aferesi, qui anche con assimilazione (se ad maritum ducere).
Scarde: schegge.
Perucca: parrucca.
'Ngrifata: arruffata, ma qui vale «pomposa».
Ziarèlle,: nastrini.
'Mbrasciolata: imbraciolata, ossia piena come una braciola. Per intendere, si noti che in napoletano braciola (anche e più corrente brasciola) non è la stessa cosa che in lingua. In italiano designa una fetta di carne arrostita sulla brace appunto o cotta in tegame; in napoletano invece è involto di carne ripieno. «De ziaràlle ‘mbrasciolata» significa dunque: piena di nastrini, tutta nastrini.
Sciabò: lattuga, gala. Dal francese jabot.
Scolla: fazzoletto da gola.
Puzine: polsini.
De Ponte angrese fine fine: di punti inglesi finissimi.
Cu li cazune: coi calzoni.
De rezze de funno: di reti di fondo. Credo voglia intendere di reti doppie.
De tunno: di tonno.
Sciammeria. è la vecchia redingote.
Sciammereino: diminutivo della precedente sciammeria. Più comune sciammeriella, ma la rima ha voluto l'altro diminutivo. Potrebbe trattarsi di un farsetto, ma io penso che qui stia ad abundanziam, come quando si dice «nastri e nastrini», «bottoni e bottoncini» per intendere molti nastri, molti bottoni. Il poeta vuol dire che il Guarracino era abbigliato con ogni cura e buon gusto.
D'aleche: di alghe.
Pile: peli.
Voje: bue.
Co buttune e buttunera: letteralmente: con bottoni e bottoniera. Come il precedente sciammeria e sciammereino è modo sovrabbondante per dire con bottoni e bottoncini, con bottoni di ogni specie e grandezza, tutto bottoni. E, s'intende, son bottoni lussuosi che possono anche non abbottonare avendo ufficio decorativo, come chiarisce il verso seguente che ci dice che sono occhi di polipi (purpe), di seppia (secce) e di fiera, naturalmente marina (fera); piccoli i primi due, più grandi gli altri.
Schiocche: ciocche.
De niro de secce: di nero di seppie.
Feíe: fiele.
Achiate. occhiate. Pesci teleostel della famiglia Girellidi, caratterizzati dai grandi occhi (cfr. latino Raia oculata).
Cateniglie: catenelle.
Premmone: polmone.
Cappiello aggallonato: cappello gallonato.
De codarino d'aluzzo salato: di budello di luccio salato. È espressione struinentale dove il de (di) vale con.
Pòsema: amido.
Steratiello: stiratelo. «Tutto pòsema e steratiello» ad litteram sarebbe «tutto amido e stirato»; ma, poiché lo stirato è nel precedente pòsema (amido), io darei a steratiello il significato di impettito. Tale interpretazione è confortata dal verso seguente «ieva facenno lo sbalantieílo», andava facendo lo spacconcello.
Barcone: balcone.
Calascione: colascione, sorta di liuto.
A suono de trommetta: a suono di trombetta, cioè a voce alta.
E llaré lo mare e lena: è una delle tante accozzaglie di parole inconcludenti che abbondano nelle antiche canzoni, riprese e trapiantate nelle sue dal Di Giacomo, messe lì per vezzo o per ironia o soltanto per accompagnamento e dette mottozzi. Se ne trovan tanti e per tutti citerò un «Tubba catubba la tubba gubbella // tubba tubbella, lo chicherichì ». Bravo davvero chi volesse in- dustriarsi a decifrare.
Sia Lena: zia.Lena. In napoletano, vi sono due parole (don, donna; zio, zia) usate, l'una a titolo d'onore o di rispetto, l'altra, più familiare, per esprimere affetto e venerazione. Come don, che è apocope di donno, zio e zia si scorciano in zi' e la parola, apocopata, diventa ambigenere e si dice zi' Giuvannine e zi' Maria.
La forma siè qui ricorrente, che qualcuno vuole derivata da «signora», non è altro invece che il zi' (zi' Lena) con lo zeta addolcito in esse. Anche nel maschile, infatti, si trova, specialmente preceduto dall'articolo, 'o si' Pascale per 'o zi' Pascale. L'aggiunta della e accentata finale, è una delle tante che ricorrono in tutte le lingue per un tal quale bisogno di facilità di pronunzia (cfr. oi' per o), e contrariamente a quanto credono alcuni, questa aggiunta, pur ricorrendo quasi sempre nel femminile, non è niente affatto vero che non ricorra anche nel maschile. Si dice benissimo anche lo sié Pascale, specialmente quando chi parla ironizzando, ha bisogno di strascicare la pronunzia per significare che la parola ha tutt'altro senso che di rispetto. Così, ad esempio, a un zi' Pascale che l'ha fatta grossa, si direbbe: «E bravo! ha fatto sta bella aziona 'o sié.Pascale!». E, soltanto ironicamente, si dice anche a persona non anziana, come si può vedere a pag. 18, dove è dato alla Sardella che è ragazza da marito. La Sardella, ricevendo dalla Vavosa l'imbasciata del Guarracino, arrossisce di vergogna e si nasconde sotto uno scoglio. Ma l'Alosa, sua nonna, la rimbrotta e le fa rilevare il danno che le verrà dalle sue ciance. Allora la nostra eroina stima più conveniente pensare al sodo e si rimette alla finestra aspettando. Qui dunque «la sii Sardella» vuol dire, quella buona lana della Sardella.
Rialato: regalato.
'Nche la guardaie: come, non appena la guardò.
Se ne jette. se ne andò.
Vavosa: bavosa. Pesce della famiglia dei Blennidi (cfr. il greco blennos. muco) così detto dalla copiosa mucosità che ricopre il suo corpo.
La cchiù vecchia maleziosa: la più vecchia maliziosa. E si noti che il cchiù (più) è riferito alla malizia, non alla vecchiaia. La vecchia più maliziosa, la più maliziosa delle vecchie.
Bona rialata: ben regalata. Particolare costrutto napoletano che usa l'aggettivo (bona, buona) in funzione avverbiale. Non è la stessa cosa, ma anche in lingua ricorre l'attributo predicativo (mi rispose fiero e superbo per fieramente e superbamente); sol che, in lingua, l'aggettivo modifica il verbo soltanto col suo significato, ma è tutto del sostantivo, mentre in napoletano concorda col sostantivo, ma è tutto avverbio. Non che in napoletano manchi l'avverbio (cantava appassionatamente me rispunnette - mi rispose - malamente, ecc.) ma l'avverbio bene non c'è e s'usa avverbialmente l'aggettivo (l'ha buono vattuto; l'ha bona strillata: l'ha ben battuto, l'ha bene sgridata).
Pe mannarle la mmasciata: per mandarle l'imbasciata.
Pisse pisse: pissi pissi, ossia zitto zitto.
Chiatto e tunno: grosso e tondo, cioè senza ambagi, chiaro e tondo.
'Nce lo disse: glielo disse.
'Nch'a sentette: come la sentì.
Se 'mpizzaje: si ficcò.
Vava: ava, nonna.
Alosa: cheppia, laccia. Genere di pesci teleostei.
Schefenzosa: sozza, sporcacciona. Ma qui vale schifiltosa.
'Ncanna: in canna, cioè in gola, per dire: te ne resterà perenne la voglia, senza possibilità di soddisfarla. È modo proverbiale napoletano, che si dice di cosa assai desiderata e vaga, non con- seguita. Per esempio: Aggio fatto tanto pe ll'avé, ma m'è rimasto 'ncanna: Ho fatto tanto per averlo ma mi è rimasto in gola.
Aje: hai.
De t'allocà: di allogarti, di collocarti.
Fora: fuori, via.
Le zeze: le ciance.
Sié Sardella: cfr. il Sií Lena della strofa 4 (a pagina 16). Fenestrella: finestrella. Ma in napoletano è assai più corrente la forma Fenestella senza r, che è latina schietta.
Fece n'uocchio a zennariello: fece l'occhiolino. Zennariello letteralmente è cennerello, piccolo cenno. Si noti che, mentre correntemente si dice le faceste ll'uocchio a zennariello col determinativo (le fece o gli fece l'occhiolino), il poeta usa il numerale uno (la enne apostrofata è qui nurnerale) per dire «fece un piccolo cenno con un occhio», facendoci vedere la strizzatina civettuola di un occhio solo. Sappiamo, e lo sapeva anche l'autore, che il cenno non può farsi con tutt'e due gli occhi; ma qui, con espressione bellamente icastica, il poeta ha detto «un occhio» e ha fatto un vivo ritratto! Anche in napoletano, come in italiano, oltre la frase, c'è il verbo zennïà (aninliccare), apocopato come tutti gli infiniti non sdruccioli, da zenniare (la forma intera degl'infmiti na- poletani non sdruccioli è arcaica e poetica). Zennïà risponde quasi a capello all'italiano cennare per accennare, sol che l'italiano designa un cenno fatto anche con la mano o col capo, mentre in napoletano significa cenno soltanto dell'occhio. (Cfr. E zenniavano ll'uocchie d"e lemmene: Di Giacomo, A Capemonte). Il napoletano zennïà interpone un'i prima della desinenza, che l'italiano cennare non ha e che va pronunziato con dieresi come nell'italiano smaniare. Questa i compare in tutti i verbi frequentativi. Son tutti di prima anche quando, come in latino, derivano da altra coniugazione. (Il napoletano correre di seconda diventa currettià di prima coniugazione, quando vuol designare il correre a brevi tratti qua e là). Così, mentre a turnare, cantare, parlare e simili, esprimenti azione intera e, dirò, non frazionata, rispondono turnà, canta, partìí senza la i, passeggiare si dice passïà, tastare tastïà, scherzare pazzïà (all'italiano scherzo risponde in napoletano pazzia), infastidire o prendere in giro sfruculïà e simili. Tutto ciò s'è detto per rilevare l'efficacia della desinenza frequentativa del nostro zennïa che rende a meraviglia il frequente strizzar dell'occhio, che l'italiano «ammiccare», derivando dal latino micare (palpitare, brillare), rende soltanto per l'etimologia. Oltre al costrutto avverbiale a zennariello, c'è, poi, anche un zennariello sostantivo, come si legge nel libretto de Lo Frato nnammurato dei Pergolesi (Passa ninno de cca rente // e me la lo zennariello: Passa il mio damo qui davanti e mi fa l'occhiolino).
Per finire ricorderò il tardo latino cinnare (ammiccare) e cinnus (occhiolino).
Speruto: desideroso.
Patella: nome di vari molluschi. Patella coerulea, Patella lusitanica, Patella tarentina; sono molto comuni nel Mediterraneo.
Steva de posta: stava alla posta.
Sbrevognata: svergognata.
'Nchiantato: piantato.
Alletterato: nome di un pesce della famiglia dei tonni (Euthynnus alletteralus) così detto per- ché la sua pelle ha macchie che paiono lettere.
De carrera: di carriera.
Da chisto: da costui.
Jette: andò.
'Lle dicette: gli disse.
Lo 'ntise: lo sentì.
Se lo pigliaie Farfariello: se lo Prese Farfarello, ossia il diavolo, montò in bestia. Farfarello è uno dei diavoli danteschi della bolgia dei barattieri.
S'armaie a fasulo: si armò di tutto punto.
Se carrocaie: si caricò.
Scoppette: schioppi, fucili.
Pòvere: polvere (da sparo, s'intende).
Scarde (sottinteso 'e scoppette): pietre focaie.
Dint’a sacca: in tasca.
'Ncopp'a li spalle: sulle spalle.
Pistune: pistoni, specie di pesante archibugio.
Guappo: è il camorrista che non si lascia passare le mosche sul naso e al quale si ubbidisce senza discutere, non superato da alcuno in forza e coraggio. Ma questo sostantivo s'usa anche aggettivamente per designare bravura. È ‘nu jucatore guappo, (è un giocatore guappo), si dice per significare che nessuno lo supera, e simili. Qui è usato appunto aggettivamente e guappo Pallarino (guappo paladino) significa strenuo paladino, il paladino dei paladini!
La disgazia a chisto portaie: la disgrazia portò a costui; disgrazia volle per costui.
Chiazza: piazza.
Po crovattino: per la golétta. È modo comunissimo e ci rappresenta l'aggressore che, invece di afferrare violentemente la persona con cui ha da dire, le ficca le dita nel colletto e la tira a sé con sarcastica repressa delicatezza, per dargliele poi di santa ragione.
Lieve: togli.
Mazziata: bastonatura, da mazza.
Tùffete e tàffete, onomatopeico, per indicare il suono delle percosse e il loro susseguirsi.
A meliune: a milioni.
Pàccare: pacche, colpi dati a mano aperta, ma in napoletano solo sulla faccia. In napoletano, poi, si chiama schiaffo, come in italiano, il manrovescio, che é la percossa data col dorso della mano, mentre quella data sul viso col palmo della mano, ossia con tutta la mano, si chiama pàccaro, dal greco pas, pasa, pan (tutto) e cheir, cheiròs (mano).
Secuzzuno: sergozzoni.
Ponie: pugni.
Perepesse: percosse in genere.
Scoppolune: scoppoloni, scapaccioni.
Fecozzo: pugni dati di panta.
Conesse: colpi alla nuca. Differisce dai precedenti scoppoloni, perchè quelli son dati a mano aperta, queste col pugno.
Scerevecchiune: scappellotti.
Sicutennosse: pugno in faccia.
Osse e pilosse: altra espressione sovrabbondante come le precedenti «sciammeria e sciammereino» e « buttune e buttunera» della seconda strofe, per dire «gli ammacca ben bene le ossa».
Venimmoncenne: venianiocene. Modo usato per riprendere il racconto o per allacciarvi un episodio. È l'italiano «venendo a noi».
Ascettero fore: uscirono fuori. Il pleonasmo è quasi normale in napoletano e mentre ricorre anche il semplice ascettero (uscirono), come trasettero (entrarono), il popolo dice sempre jesce fora (esci fuori) e trase dinto (entra dentro).
Cortielle: coltelli.
Cortelle: coltelle.
Spate, spatune e spatelle: spade, spadoni, spadini.
Spite: spiedi.
Ammènnole e antrite: Ammènnola significa mandorla e antrita è la nocciola cotta al forno e infilzata a un filo. Il poeta le usa traslatamente come fa anche l'italiano, per esempio, con la parola nespola. Gli diede certe nespole, si dice per mazzate.
Torrone e sosamielle: altre armi gastronomiche! Il torrone è quello che ricorre a San Martino e il sosamiello (moderno susamiello, plurale susamielle), è una ciambella in forma di S, fatta con farina di castagne e miele e cosparsa di pezzetti di mandorle. Ricorre a Natale ed è dolce napoletano che si offre agli zampognari che si recano a Napoli dal loro paese per la novena.
Fère: fiere.
A strisce: in fila.
De sto partito e de chiamo li pisce: pesci parteggianti o per l'uno o per l'altro. Da notare che pisci è plurale di pesce. 'Nu pesce: un pesce; tre pisce: tre pesci. A il plurale interno assai corrente nel dialetto napoletano ('Nu prèvete: un prete; tre prievete: tre preti) che a volte s'accoppia col plurale normale ('Nu mònecro: un monaco: tre muònece: tre monaci).
Dediste: vedesti.
Palaie: sogliole. Dal catalano palaya, tardo latino pelaica dal greco pelagihós «del pelago marino».
Raio petrose: razze chiodate (cfr. latino Raia clavata). Genere di pesci selaci.
Sàrache: sarghi (cfr. latino Sargus, greco sargòs), genere di Teleostei acantotteri del Mediterraneo. Al singolare saraco.
Diéntece: dentici, pesci teleostei caratterizzati dai canini molto sporgenti (latino Dentex, derivato di dens, dentis). Si noti il plurale interno; al singolare dèntece.
Scurme: scombri, maccarelli.
Pisce palumme: palombi (Mustelus vulgaris). Singolare pesce palummo.
Pescatrice: rana pescatrice, lofio (latino Lophius Piscatorius).
Scorpene: scorfani o scrofani (latino Scorpeana scrofa).
Mucchie: pastinache (latino Trygon pastinaca). Pesci cartilaginei dei gruppo Selaci.
Ricciòle: nome usato, nel Mezzogiorno, per varie specie di pesci del genere Scymnorrinus.
Musdee: motelle, genere di pesci teleostei della famiglia Gadidi (latino Mustela vulgaris).
Mazzune: ghiozzi 'nome divari pesci del genere Gobitts.
Stelle: cioè pesce-stella, leccia, ha le scaglie disposte
in forma di stella e perciò detto dagli ittiologi Astroclormus.
Aluzze: lucci di mare (latino Sphyraena sphyracna).
Ruongolo: gronghi o gòngori. Specie (Conger conger) di pesci teleostei dell'ordine Apodi.
Capodoglie: capodogli o capidogli. Cetacco odontoceto della famiglia Fiseteridi (latino Physeter) così chiamato per il grasso che si ricava dalla sua testa (capo d'olio).
Orche: orche. Specie di cetaceo odontoceto (latino Orcinus orca) della famiglia Delfinidi.
Vallene: balene.
Capitune: nome delle anguille di grandi dimensioni (latino Capito,-onis «che ha la testa grossa», derivato di caput «capo»). Nota il plurale interno; al singolare capitone.
Aùglie: aguglie. Nome comune di alcuni pesci teleostei (latino Belone) della famiglia Belonidi.
Arenghe: aringhe, specie di pesci telcostei dell'ordine Isospondili, famiglia Clupeidi. (Dal germanico haring, cfr. tedesco Hering; latino Clupea harengus).
Ciàfere: cefali, altro nome italiano di vari pesci dei genere Mugil. Nota il plurale interno, al singolare cèfaro.
Cuocco: aterine, genere di pesci telcostei dell'ordine Percomorfi, detto anche latterino, crognolo o lavone.
Tràccene: pesci ragno, genere (latino Trachinus) di pesci teleostei acantotterigi dell'ordine Giugnulari, famiglia Tradúnidi. Con lo stesso nome si indica anche il pesce spigola.
Tenghe: tinche, pesci teleostei (latino Tinca tinca) della famiglia Ciprinidi.
Treglie: triglie, nome comune dei pesci del genere Mullus, teleostei della famiglia Mullidi.
Trèmmole: torpedini (dal latino Torpedo, -dinis, derivato di torpàre, con allusione all'effetto delle scariche elettriche prodotte da questi pesci che inducono torpore alla mano che li tocca).
Trotte: trote.
Fiche: pesce fica, lampuga, fiatola dorata. Pesce teleosteo della famiglia Brauidi (latino Stromateus fiatola).
Cepolle: cepole rosseggianti, nome comune del pesce Cepola rubescens.
Laune: lagoni, nome napoletano del pesce Atherina hepsetus.
Retunne: menole, varie specie dei genere Smaris.
Purpe: polpi (latino Octopus vulgaris).
Secce: seppie.
Pisce prattielle: non meglio identificati, nonostante le più accurate ricerche, anche presso i pescatori del porticciolo di Mergellina.
Voccadoro: boccadoro, ombrina leccia (latino Sciaena aquila), così denominato perché produce suoni variamente modulati.
Cecenielle: bianchetti, i neonati delle alici di colore biancastro.
Capochiuove: piccole seppie (.Sepiota Rondeletii).
Cannolicchie: nome di varie specie di molluschi bivalvi del genere Solon.
Ostreche: ostriche (latino Ostrea edulis).
Ancine: ricci di mare (latino Ech-nus lividus).
Cucciole: nome di vari molluschi bivalvi del genere Cardium.
Grancetielle: diminutivo di grancio: granchio marino.
Marvizze: tordi di mare, varie specie del genere Labrus e Crenilabrus.
Màrmure: pagello mòrmora (latino Pagellus mormyrus).
Vope: boghe (latino Box boops) pesce teleosteo della famiglia Girellidi.
Prene: incinte (cfr. il latino praegnus).
Spìnole: spigole (Labraxt lupus).
Spuonole: è lo Spondylus gaederopus, volgarmente detto ostrica spinosa.
Sierpo: Non è chiaro se si allude alla vipera di mare (latino Ophisurus serpens) o al serpe di mare (latino Sphagebranchus Spallanzani),
Sarpe: salpe, pesce teleosteo della famiglia Girellidi (Boops salpa).
Scàuze, 'nzuoccole, e co le scarpe: scalzi, con gli zoccoli e con le scarpe. Accorsero così come si trova- vano.
Sconciglie: mùrici, molluschi gasteropodi del genere murex di cui alcune specie forniscono la porpora.
Gàmmere: gamberi.
Vennero 'nfino co le posto: vennero perfino di lontano, con le diligenze.
Saure: sgrombri bastardi sorelli, sugherelli (latino Trachurus trachurus).
Tantille, tante, cchiù tsante e tantone: graziosissimo verso che designa col diminutivo e con l'accrescitivo dell'aggettivo tanto, le varie dimensioni dei pesci in lotta. Essi sono, dunque, non soltanto di ogni ceto e nazionalità, ma anche di ogni grandezza: tantini (tantille), tanti, più tanti (più grossi) e tantoni!
Arrassosia: lontano sia. Arrasso è avverbio che vale «da parte» (Fatt'arrasso: fatti in là, scansati).
Muorze: morsi.
Beliune: bilioni.
A deljuvio li secuzzune: a diluvio i sergozzoni.
Bivo: vivo.
Ttè, ttè, ttè, ecc.: onomatopeico per indicare i colpi delle pistole, degli schioppi, degli archibugi e dei cannoni.
So già stracquato: sono già stanco.
Scriato: fiato.
'Nfì che sorchio: fin che sorbisco, il solo tempo di bere.
Na meza de seie: sottinteso presa, ossia bicchierino. Mezza designa la quantità e sei forse il prezzo o la misura o la composizione dei liquore. Il cantore vuol dire: «datemi soltanto il tempo di sorbire non più di mezzo bicchierino dei più modesto liquore».
Co salute de luie e de leve: con salute, ossia alla salute, di lui e di lei, ossia dei signori e delle signore che mi stanno ascoltando.
Ca: perché.
Cannarone: la gola, sede delle canne, che nel sostantivo napoletano vengono unificate e accresciute!
Sbacantànnose lo premmone: svuotandosi (mentre si svuota) il polmone.
Quando entrò nelle aule dove si insegnava la meccanica, Ulrich fu subito in preda a un entusiasmo febbrile. A che serve ormai l'Apollo del belvedere, se si hanno davanti agli occhi le forme nuove di un turboalternatore o il meccanismo di distribuzione di una locomotiva! Chi può interessarsi ormai alle chiacchiere millenarie sul bene e sul male, quando s'è trovato che non si tratta di “Valori costanti" ma di “Valori funzionali", così che la bontà delle opere dipende dalle circostanze storiche e la bontà degli uomini dall'abilità psicotecnica con la quale si sfruttano le loro capacità! Il mondo è semplicemente buffo se lo si considera dal punto di vista tecnico; privo di praticità in tutti i rapporti umani, estremamente inesatto e antieconomico nei modi; e chi è abituato a svolgere le sue faccende col regolo calcolatore non può ormai prendere sul serio una buona metà delle asserzioni umane.
Il regolo calcolatore consta di due sistemi di numeri e di linee combinati con straordinaria accortezza: due tavolette scorrevoli verniciate di bianco, a sezione trapezoidale piatta, mediante la quale si risolvono in un baleno i più intricati problemi, senza sciupare inutilmente un solo pensiero; è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore. Quando si possiede un regolo calcolatore, e arriva qualcuno con grandi affermazioni e grandi sentimenti, si dice: "Un attimo, prego, prima calcoliamo il limite d'errore e il valore probabile di tutto ciò".
Quest'era senza dubbio una rappresentazione efficace dell'ingegneria. Essa costituiva la cornice di un'affascinante futuro autoritratto che rappresentava un uomo dai lineamenti energici, con una pipa tra i denti, un berretto sportivo in testa e splendidi stivali alla scuderia, in viaggio tra Città del Capo e il Canadà per realizzare grandiosi progetti... Fra un affare e l'altro si può anche trovare il tempo per ricavare dal pensiero tecnico qualche idea per organizzare il mondo e governarlo, o di formulare massime come quella di Emerson, che dovrebbe esser scritta sulla porta di ogni officina: "Gli uomini passano sulla terra come profezie del futuro, e tutte le loro azioni sono prove e tentativi, perché ogni azione può essere superata dalle successive". Anzi, per esser precisi, questa massima era di Ulrich che l' aveva composta mettendo insieme parecchie massime di Emerson.
È difficile dire come mai gli ingegneri non corrispondano poi del tutto a questo quadro. Perché, ad esempio, portano sovente una catena d'orologio che sale in un mezzo arco acuto dal panciotto ad un bottone più in alto, o la dispongono sulla pancia in festoni ascendenti e discendenti, come arsi e tesi di una poesia? Perché amano appuntarsi nella cravatta denti di cervo o piccoli ferri di cavallo? Perché i loro abiti sono costruiti come gli elementi di un'automobile? Perché, soprattutto, non parla no quasi mai d'altro che della loro professione; e se parlano di altro lo fanno in modo speciale, rigido, esterno, senza correlazioni, che al di dentro non và più in giù dell'epiglottide? Naturalmente, ciò non vale per tutti, ma vale per molti; e quelli che Ulrich conobbe quando prese servizio per la prima volta in un ufficio di fabbrica erano così, e quelli che conobbe la seconda volta erano anche così. Si rivelarono uomini strettamente legati alle loro tavolette da disegno, amanti della loro professione e in essa ammirevolmente valenti; ma proporre loro di applicare l'audacia del loro pensiero a se stessi invece che alle loro macchine, sarebbe stato come pretendere che facessero di un marIello l'uso contro natura che ne fa un assassino.
| La cattedrale di San Stephan: Una visione storica |
Le immagini sono di origine molto diversa: i signori Hawelka sono ripresi da una cartolina, i café Demel e Sacher sono illustrati dai loro dépliant, San Stephan e Karl Marx Hof da immagini tratte da internet con Google, gli interni di Hawelha e l'edificio di Holstein sono mei scatti. Il tutto è visibile in questa galleria di immagini.
Per saperne di più sul Karl Marx Hof (il grande e celebrato esempio della politica edilizia della socialdemocrazia mitteleuropea), vi consiglio il libro di Manfredo Tafuri la qui recensione trovate nel file qui sotto.