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© 2025 Eddyburg

Qual rugiada e qual pianto,

quai lacrime eran quelle

che sparger vidi dal notturno manto

e dal candido volto delle stelle?

E perchè seminò la bianca luna

di cristalline stelle un puro nembo

a l'erba fresca in grembo?

Perchè nell'aria bruna

s'udian quasi dolendo, intorno intorno

gir l'aure insino al giorno?

Fur segni forse de la tua partita,

vita de la mia vita?

La Chimera

Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m'apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina O Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l'immobilità dei firmamenti

E i gonfii rivi che vanno piangenti

E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Dino Campana

Una biografia di Dino Campana, con musica

Ne traggo qualche notizia sull’autore:

“Salvatore Esposito è nato a Bagnoli il 6 gennaio 1923: frequentò la scuola tecnico industriale: interruppe gli studi per otto anni durante i quali fu aggiustore meccanico, e, con l'occupazione alleata, fece il muratore al P. B. S.: riprese gli studi al liceo artistico, frequenta l' Architettura. È operaio dell'Ilva-Bagnoli. Le sue prime poesie le scrisse in napoletano sotto lo influsso di Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo. Conosce i classici meglio che i contemporanei.”

MILLECICATRICI

Il mio corpo è mille cicatrici

Cucite da mia madre

Con un filo di pianto

Ognuna e dolce come una bestemmia

Argentina nel mare della rabbia

Incontro d’amore

Piove cielo nel lago d’erba

le mani nascoste alle mani

Specchio

Guancia di carne

Su guancia di pane

Senza lacrime Immoto

Disfarmi

Fine d’anno

Capodanno vestito di flanella

Col sole sulle snelle ciminiere

E ottavini nell'ugola

Della sirena vorticosa

Mio padre

E' un fanciullo viziato

che mangia solo pastasciutta

e attende

un Messia riveduto

armato di fucile e bombe a mano

Ritratto

Ci viene addosso

Fermo alla sua sedia

Col dito teso

Quanto è lungo il braccio

Che plana sui disegni

L'irrequiete

Gambe da trampoliere

S artigliano al felpato linoleum

E urla le sue idee

Col naso adunco

Le spinge avanti a furia di spalla

Senza cravatta e senza rancore

Madre alla finestra

Fra me e l’azzurro

Madre

E oltre

Le case al sole

Ma quando t'inabissi alla seggiola

e il gatto ritorna ai tuoi piedi

Il sole

L’azzurro

Le case

Ritornano all'abbraccio dei miei occhi

Nero di marzo

Alla riva di casa fra rottami

Di un giorno inghirlandato

Di mimose e pensieri leggeri

L'onda del tempo mi ha scaraventato

E alla collina

S'è dissolta in languore

Sul balcone fiorito

Più non vibrano voci

Ora severi

I covoni di coke si fan cupi

li carroponte è fermo nell'attesa

La notte incombe triste alla cimasa

La rondine è tornata il petto nero

Nero d’ottobre

Il macinino del caffè ci culla

Come bambini dopo un lungo pianto

Scaturito così per un nonnulla

L'aquilone di un canto

Un uomo ha sciolto nella via

M’è parso alla penombra di morire

Confine

Confine diceva il cartello

cercai la dogana, non c'era

non vidi dietro il cancello

ombra di terra straniera.

il sito di Giorgio Caproni

una biografia

Taniello, ch'ave scrupole

mò che se vo' nzurà,

piglia e da Fra Liborio

va pe' se cunfessà.

«Patre - le dice - i' roseco,

i' pe nniente me mpesto;

ma po' dico 'o rusario,

e chello va pe cchesto...

Patre, ncuollo a li ffemmene

campo e ncoppa a 'o bordello;

ma sento messe e predeche...

e chesto va pe chello.

Iastemmo, arrobbo... 'O prossimo

spoglio e le dongo 'o riesto;

ma po' faccio 'a lemmosena...

e chello va pe' cchesto.

E mo, Patre, sentitela

st'urdema cannonata:

a sora vostra, Briggeta,

me l'aggio nsaponata...»

Se vota Fra Liborio:

«Guagliò, tu si’ Taniello?...

I' me nsapono a mammeta,

e chesto va pe cchello!»

NOTE

Nzurà= sposare

Roseco = molesto, brontolo

Me mpesto = mi arrabbio


Pied Beauty

La bellezza cangiante

Glory be to God for dappled things -

for skies as couple-coloured as a brindled cow;

for rose-moles all in stipple upon trout that swim;

fresh-firecoal chestnut-falls; finches’ wings;

landscapes plated and pieced - fold, fallow and plough;

and all trades, their gear and tackle and trim.

All things counter, original, spare, strange;

whatever is fickle, freckled (who knows how?)

with swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim;

He fathers-forth whose beauty is past change:

praise Him.
Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate:

i cieli bicolori, pezzati come vacche,

la striscia roseo-biliottata della

trota in acqua, il tonfar delle castagne

- crollo di tizzi giovani nel fuoco –

e l'ali del fringuello; per le toppe

dei campi arati e dissodati,

e tutti i traffici e gli arnesi, e tutto ch'è

fuor di squadra, difforme, impari e strambo,

tutto che muta, punto da lentiggini

(chissà come?) di fretta o di lentezza,

di dolce o d'aspro, di lucore o buio.

Quegli le esprime - lode a Lui - ch'è sola

bellezza non mutabile.

Gerard Manley Hopkins

“Pied Beauty”

da:Eugenio Montale, “Quaderno di traduzioni”

Edizioni della Meridiana, 1948

other poetries of G.M. Hopkins

a biography in english

ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento

Salvatore Quasimodo

Una biografia di Salvatore Quasimodo

E venne un tempo

che le tentazioni diventarono così potenti

che pochi resistettero

La loro coscienza cominciò a turbarli

Un’ombra c’è in ciascuno di noi,

un altro me stesso che ci perseguita e tormenta

che s’insinua nella nostra coscienza

furtivamente come un ladro di notte

insistendo ferendo e amareggiando

”Sei tu lo stesso - domanda – sei tu lo stesso

che proclamava la nuova primavera

il vero amore e pane per tutti

che negava che la felicità fosse fatta

col sudore e col sangue d’altri uomini

che cercava nel suo popolo

la forza e la ragione.

Sei tu lo stesso - domanda –

che oggi si vende a chi paga di più

sei tu lo stesso”

Sono proprio io. Lo stesso

che sparava pallottole di giustizia

che durante le marce si fermava sul bordo del sentiero

per un fiore o il sorriso d’un bambino

che nelle notti chiare in cima alle montagne

tendeva la mano per cogliere le stelle

che lasciava lo spirito vagare nello spazio

e là, come un tamburo

annunciava il nuovo canto.

Sono lo stesso, ma oggi

i bambini fuggono quando passo

e gli specchi riflettono un’anima torpida

sfigurata corrotta.

Ah, in quale momento del percorso

i nostri passi si smarrirono?

Dovunque tentiamo di nasconderci

il nostro antico giuramento ci perseguita.

Devo imparare di nuovo

a perturbare l’universo, a rifiutare

il conforto dei palazzi

a dividere con i diseredati

il desiderio di virtù.

Il mio altro me stesso me lo insegnerà

Il testo portoghese (e francese)

Reggono ma per poco

gli sguardi amorosi,

cincie presto buttate

a saggiare i dirupi.

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Nulla scompone l’agave.

Urge dentro

l’unico fiore.

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Il respiro giusto

nel tempo assegnato.

Altro non è dato sapere

di chi ha costruito i sentieri.

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Oltre i terrazzi il ponentino

soffia nei pini

passi di danza.

I cipressi sono già sulle punte.

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Tace il ramarro.

Urla il suo verde.

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Non si mostra

il gatto selvatico.

Dalle forre

inarca

lamenti d’amore.

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Sull’acqua

si accoccola appena.

Vento o mare il gabbiano

sa l’arte

di farsi cullare.

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Come per accordo

con la signora

dell’ombrellone accanto

ci salutiamo

un anno sì un anno no.

Non si può

chiedere tutto

all’estate.

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Stare presso.

Questo

a noi è concesso.

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Donna e città

Città azzurra

città fredda

città mobile e ferma

con le facciate al sole,

ancor nell'ombra il piede delle case.

Ombra ai cancelli e ai pini

e al sonno di piccoli bambini

rimasti nella casa senza madre.

Città di corse e soste

alle otto del mattino,

studenti, impiegati, manovali

e donne col rossetto e il giornale.

Città che indugi e che prorompi

alla periferia

mentre mi allontano a lavorare,

città di tutti e mia.

Difficile é il mio tempo,

ma io non mi lamento.

Mai ti dirò:

- Torniamo indietro,

Torniamo donne a casa -

Tu, casa più grande della mia,

ancor feroce al tenero mio amore

come caverna al primordiale,

ti chinerai sul gioco dei bambini

con libere movenze

che la luce non rompe

che l'ombra non incrina,

Perché tu sei nel tempo

destinata a finire

il tuo cemento,

a fiorire la tua maternità,

città di tutti e mia,

città! Che l'architetto

fa di vetro

e noi di sangue.

Da Luigia Rizzo Pagnin, Il borghese agli agguati, Edizioni de “Il rinoceronte”, Padova, 1964

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all'opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,

Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D'in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? perché di tanto

Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi

Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei

Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell'età mia nova,

Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero

Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignuda

Mostravi di lontano.

Una biografia di Giacomo Leopardi

OCCHIAZZURRA

A te occhiazzurra questi canti deve

uno che ha sete e alle tue labbra beve;

che antichi come lui, come te nuovi,

se giri tutto il mondo non ne trovi.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore

Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

E la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

Promozione



Il Consigliere delegato della società, dopo matura riflessione, valuta che il luogo più adatto per il primo lancio della bibita di mango sia Milano.

Prende il jet e va a Milano, dove la sua segretaria gli ha già fissato un appuntamento con il miglior pubblicitario dell'Italia settentrionale.

- Vorremmo organizzare un lancio molto forte della nostra nuova bibita. E' un prodotto veramente ottimo.

- Me ne descriva le proprietà, risponde il pubblicitario, in modo da poter comprendere che tipo di campagna è bene organizzare.

- Certo, prosegue il Consigliere delegato, stavo per farlo. Allora, le qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo, ha la strana capacità di mantenere molto a lungo la temperatura acquistata in frigorifero, è molto rinfrescante e toglie la sete per almeno un'ora, e inoltre sono state testate (ho qui i certificati) delle notevolissime prerogative energetiche: stimola l'intelligenza ed esalta le capacità sessuali.

- Bene bene, dice il pubblicitario. Credo proprio che potremo organizzare una buona campagna. Domani le faccio avere uno schema e il preventivo.

Il giorno dopo, puntuale, arriva il preventivo: 10 milioni di Euro.

- Troppo alto, dice il Consigliere delegato. Milano è evidentemente una città troppo cara.

Si consulta in videoconferenza con i suoi consiglieri a NY, e fa fissare dalla sua segretaria, dopo un'attenta ricerca, un appuntamento con una ditta specializzata di Roma, molto quotata.

- Vorremmo organizzare un lancio molto forte della nostra nuova bibita, dice al pubblicitario romano. E' un prodotto veramente ottimo. Le sue qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo ecc. ecc.

- Mi sembra proprio un'ottima merce, molto indicata per le calde estati romane e per tutto il mercato del Sud, che gravita su Roma. Fra due giorni le faccio avere un'offerta, che credo sarà molto conveniente.

Passano i due giorni, ed ecco l'offerta: 8 milioni di Ecu.

- Ma non sarà l'Italia a essere troppo cara? dice fra sé e sé il Consigliere delegato.

Si consulta con NY dove emerge una nuova ipotesi: perché non cercare a Napoli? In fondo, è una città incasinata e poco affidabile, ma è una porta verso la sponda africana del mediterraneo, un mercato in via di sviluppo ecc. ecc. L'efficiente segretaria gli combina un appuntamento, e un signore si presenta puntuale all'albergo a via Partenope dove è sceso.

- Stiamo cercando una società di pubblicità che organizzi un buon lancio per un nostro nuovo prodotto, una bibita a base di mango che ha eccezionali qualità. E' un prodotto veramente ottimo. Le qualità organolettiche sono molto alte, il sapore squisito e nuovo, la consistenza vellutata e morbida, ha un perlage sottilissimo, ha la strana capacità di mantenere molto a lungo la temperatura acquistata in frigorifero, è molto rinfrescante e toglie la sete per almeno un'ora, e inoltre sono state certificate delle notevolissime prerogative energetiche: stimola l'intelligenza ed esalta le capacità sessuali.

- Ah ah, bene, fa il napoletano pensieroso. Credo che si possa fare un buon lavoro. Bene, per 2 mila Euro le organizzo una fantastica campagna. Adesso sono le 10 am, lei mi firmi un assegno e domattina si affacci alla finestra.

Il consigliere delegato non sa che dire. Il prezzo gli sembra eccezionalmente conveniente, ma non sa se può fidarsi. Decide di rischiare, e firma l'assegno.

La giornata, come al solito, è bella, il sole splende e la brezza rende l'aria gradevole. Il Consigliere delegato si fa portare a Posillipo da una carrozzella, poi attraversa Spaccanapoli e mangia in un ristorante di Piazza Dante. Dopo una siesta sorbisce una coviglia di nocciola da Gambrinus a Piazza Plebiscito, va a comprare qualche cravatta da Marinella alla Torretta, prende un aperitivo da Caflisch a via Chiaia, compra cinque scatole di cioccolatini da Gay & Odin, cena in albergo e va a dormire presto, curioso su che cosa vedrà all'indomani.

Appena si fa giorno il cameriere gli porta il caffè. Il Consigliere delegato si alza, va alla finestra e si affaccia: la città è coperta da grandi manifesti dove, sotto il marchio della bibita, campeggiano queste parole:

MANGO P'A CAPA

MANGO P'O CAZZO.

"What do they say?" the priest inquired. "They only know how to say, 'Hi, we're prostitutes. Want to have some fun?'"

"That's terrible!" the priest exclaimed, "but I have a solution to your problem. Bring your two female parrots over to my house and I will put them with my two male talking parrots whom I taught to pray and read the bible. My parrots will teach your parrots to stop saying that terrible phrase and your female parrots will learn to praise and worship."

"Thank you!" the woman responded.

The next day the woman brings her female parrots to the priest's house. His two male parrots are holding rosary beads and praying in their cage.

The lady puts her two female parrots in with the male parrots and the female parrots say,"Hi, we're prostitutes, want to have some fun?"

One male parrot looks over at the other male parrot and exclaims, "Put the beads away. Our prayers have been answered!"

Tra i cespugli e i banchi di sabbia, ogni tanto la figura in piedi di un uomo (i veneziani li chiamano gli Apache). È uno dei pochissimi luoghi nel Veneto dove si può prendere il sole nudi.

La spiaggia è quasi vuota, eccetto il sabato e la domenica, quando diventa infrequentabile a causa dei numerosi gruppi di bagnanti che arrivano in barca, e ormeggiano i loro scafi (a volte oltre un centinaio) proprio davanti alla spiaggia, verso la taverna.

Dalla terra al mare, dal mare alla terra

Fa parte di una riserva naturale che misura 115 ettari; è gestita dal WWF Veneto e dal Comune di Venezia, in accordo con la Provincia di Venezia. L'area a pineta è gestita dai Servizi Forestali di Treviso e Venezia.

Secondo la scheda del WWF l’ambiente è costituito da

“dune pioniere e mobili colonizzate da Ammophila littoralis e dune consolidate da vegetazione erbacea xerica. Alle spalle delle dune è presente una vasta pineta di circa 30 ha. Vaste praterie umide interdunali. Sulla duna dominano le specie endemiche caratteristiche dei litorali sabbiosi dell'Alto Adriatico come lo sparto pungente, la medica marina, lo zigolo delle sabbie. Nel retroduna a vegetazione steppica troviamo il muschio Tortula ruralis, il raro fiordaliso di Tommasini e l'apocino veneziano. Nella area boscata, a pino domestico e pino marittimo, in riconversione a bosco misto a latifoglie con leccio, orniello, roverella e con frequenti macchie di pioppo bianco troviamo orchidee come la cefalantera maggiore e l'ofride fior d'ape. “

”Nelle depressioni umide interdunali prevale il giunco nero e la canna di Ravenna. Ricca è la presenza di avifauna con gruccione, fratino e fraticello che nidificano sulle dune mentre nelle aree più interne sono presenti l'occhiocotto, il canapino e lo zigolo nero. Tra i rapaci d'inverno volteggiano nelle aree aperte lo sparviero e il gheppio ed è avvistabile durante il passo il falco pecchiaiolo e il falco pellegrino. Nelle aree boscate nidificano il rigogolo, il picchio rosso maggiore, il succiacapre e il gufo comune. Tra rettili e anfibi sono da segnalare il biacco, la lucertola campestre e il rospo smeraldino mentre tra i mammiferi topo domestico e crocidura minore”

Quanto rimarrà di questa flora e di questa fauna, di questo bellissimo luogo, quando apriranno il giganesco cantiere del MoSE?

Qui potete vedere una intera cartella di immagini, scattate per Eddyburg dal 2000 al 2004

Sous aucun prétexte je ne veux

Avoir de réflexes malheureux

Il faut que tu m'expliques un peu mieux

Comment te dire adieu

Mon coeur de silex vite prend feu

Ton coeur de pyrex résiste au feu

Je suis bien perplexe je ne veux

Me résoudre aux adieux

Je sais bien qu'un ex amour

N'a pas de chance ou si peu

Mais pour moi

Une explication vaudrait mieux

Sous aucun prétexte je ne veux

Devant toi surexposer mes yeux

Derrière un Kleenex je saurais mieux

Comment te dire adieu

Comment te dire adieu

Tu as mis à l'index

Nos nuits blanches

Nos matins gris-bleu

Mais pour moi

Une explication vaudrait mieux

Sous aucun prétexte je ne veux

Devant toi surexposer mes yeux

Derrière un Kleenex je saurais mieux

Comment te dire adieu

Comment te dire adieu

Comment te dire adieu

Caro Prof. Salzano,

Abbiamo letto con grande piacere nella sua Home page il testo della canzone napoletana “O Guarracino”. Da un po’ di tempo lo stavamo cercando anche noi ed il caso ha voluto che contemporaneamente a tale scoperta rinvenissimo un’altra versione su una antologia di canzoni napoletane (La canzone napoletana di Imperiali e Recalcati,1998). Fra le due versioni ci sono delle differenze che ci permettiamo di segnalare:

¨ e llare’ lo mare ‘e lena: nel suo glossario è interpretata semplicemente come ritornello fonico mentre noi abbiamo la traduzione rema di buona lena (llare’ sarebbe l’imperativo di un verbo a noi sconosciuto) che ben si accorda con i versi successivi, che invitano un ipotetico spasimante a affrettarsi perché la figlia della si’ Lena è rimasta senza fidanzato.

¨ ma la vecchia de vava Alosa: noi abbiamo invece ma la vecchia de la vavosa , con riferimento alla stessa ruffiana che ha riportato alla sardella il messaggio d’amore del guarracino.

¨ guappo Pallarino : una nota della nostra antologia dice che Pallarino era il nome di un famoso e temuto guappo dell’epoca. L’uso di guappo come sostantivo ci sembra più appropriato.

¨ pisce prattiello: noi abbiamo pisce martiello ma il canone filologico della “lectio difficilior” avvalora la sua versione.

Fra l’altro siamo in possesso di una versione sensibilmente diversa della stessa canzone, sicuramente una rielaborazione successiva, interpretata dai cantanti della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Purtroppo non abbiamo il testo, e non siamo riusciti ancora a trascriverlo correttamente: glielo faremo avere appena pronto.

Come si dice a Napoli stateve bbuone

Alfonso Di Domenico e Raffaele Punzi

A parere di Fabrizio Borgogna, O guarracino (cioè il testo inserito qui sotto) "non è una creazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma una canzone tradizionale rielaborata da Roberto de Simone". Borgogna osserva che “rispetto alla tradizionale è molto più semplice: è più breve, la sintassi è meno ricercata e le specie di pesce citate sono di gran lunga inferiori (17 contro la settantina de Lo guarracino)”. Ricorda che “in alcune isole e località rivierasche napoletane esisteva un canto popolarededicato al guarracino, molto simile alla canzone di cui sto parlando, soprattutto come musica” e osserva come sia improbabile che il testo rielaborato da De Simone “sia quel canto (credo sia troppo complessa e lunga per essere una canzone popolare), ma potrebbe essere una canzone d'autore che si ispira a quel canto”.

Con una interpretazione che mi sembra del tutto logica e condivisibile il mio gentile corrispondente conclude che, “essendo senza dubbio anche Lo Guarracino una canzone d'autore, ed essendo soprattutto la musica ed il ritmo completamente diversi dalle altre due canzoni, potrebbe anche essere che 'O guarracino sia una canzone precedente a questa e alla quale Lo guarracino fece riferimento”. Il testo è tratto dal sito della Nuova Compagnia

'O guarracino ca jeva p'o mare

jeve truvanno 'e se nzorare (...'e se nguaiare)

se facette 'nu bello vestito

chino chino 'e scorze d'ancino

nu scarpino fatt'a ngrese

'a pettinatura a la francese (...'o cazunciello a la francese)

allustrato e puletiello

jeva facenno 'o nnammuratiello

La sardella ca 'o verette

'o ghianco e 'o russo se mettette

po' pigliaie 'o calascione

e mpruvvisaie 'na canzone (...po' chiammaie a Pascalone/e l'ammustaie chistu cazone)

'a canzone c''o liuto

'o guarracino s'è ncannaruto (...nzallanuto)

Passa a tiempo 'a zia vavosa

vecchia trammera zandragliosa

'a vavosa pe' 'nu rano

faceva li pisce la ruffiana (...frieva l'ove 'int''o tiano)

jesce llà fora e mpostal''o pietto

si vuò stu marito rint''o lietto (...si vuò fa mò 'nu rispietto)

'A sardella a sti parole

se facette 'na bbona scola

de curzera s'affacciaie

e 'o guarracino zenniaie (...e tutte li trezze l'ammustaie)

mentre ca lloro amuriggiavano

tutte li pisce se n'addunavano (...se masteriavano)

Primma fuie 'na raosta

ca da luntano faceva la posta

pò se ne venne la raia petrosa

e 'a chiammaie schefenzosa (...brutta zellosa)

pecché trarev'all'allitterato

ca era geluso e nnammurato (...ca era 'nu piezzo 'e scurnacchiato)

L'allitterato ca l'appuraie

tutti li sante jastemmaie

e alluccanno voglio vendetta

corze alla casa comm'a saetta.

Pò s'armaie fino fino

pe' sguarrà lu guarracino (...pe' spaccà lu guarracino)

Marammé oi mamma bella

alluccava la zi' sardella

e 'a vedé stu cumbattimento

le venette 'nu svenimento

le venette 'n'antecore

e tutt'e pisci ascettero fore (...e 'o capitone ascette fore)

Bello e bbuono comm'a niente

ascettero tutte a pisci fetiente

tira e molla piglia e afferra

mmiez'a sti pisci lu serra serra

Quatto ciefere arraggiate

se pigliavano a capuzzate tutte li purpe cu ciento vraccia

se pigliavano a pisci 'nfaccia (...a panne 'nfaccia)

'na purpessa a 'na vicina

le faceva lu strascino (...le stracciaie lu suttanino)

Mentre 'e sarde alluccavano a mare

"ca ve pozzano strafucare!"

'nu marvizzo cu 'n'uocchio ammaccato

deva mazzate da cecato

quanno cugliette pe' scagno a 'na vopa

chesta pigliaie 'na mazza de scopa

Piglia sta mazza e fuje da llà

mannaggia lu pesce c''o baccalà

se secutavano ore e ore

pigliala 'a capa e fuje p''a cora.

Ddoje arenche vecchie bizzoche

se paliavano poco a poco

e ammaccannose 'o paniello

misero mmiezo a 'nu piscitiello

stu piscitiello che era fetente

facette 'na mossa malamente

stu piscitiello svergugnato

facette po' sotto 'o smaliziato (...disgraziato/...'o scurnacchiato)

Ma 'nu palammeto bunacchione

magnava cozzeche c''o limone

e 'nu marvizzo vistolo sulo

te lo piglia a cavece 'nculo (...a muorze 'nculo)

tutto nzieme a sta jurnata

se sentette 'na scuppettata

Pe' la paura a 'na patella

le venette 'na cacarella

pe' la paura 'a nu piscitiello

le venette 'nu riscinziello (...s'arrugnaie lu ciciniello)

mentre 'nu rancio farabutto

muzzecava li piere a tutte

muorte e bbive ne li stesse

ce cantava 'e Ssante Messe

Se pigliavano a mala parole

e se nturzavano bbuono e mmole

po' pe' farse 'na bbona ragione

danno de mano a lu cannone

'o cannone facette 'nu scuoppo

lu guarracino restaie zuoppo

zuoppo zuoppo mmiez''a via

che mmalora e mamma mia (...tuppe tuppe bella mia/che mmalora e mamma mia)

Signure mieie ca sentite

vurria sapé si 'o credite

chi s'agliotte sti pallone

tene 'nu bbuono cannarone

chi s'agliotte chesta palla

cu tutt''e pisci rimana a galla

zuffamiré e zuffamirella

e 'ntinderindì sta tarantella (...zuffamiré zuffamirà/mannaggia lu pesce c''o baccalà)

L'altra edizione

Ho scelto queste canzoni: Fenesta vascia, La cammesella, Te voglio bene assaie, Fenesta ca lucive, Era de maggio, ‘E spingule frangese, Voce ‘e notte, Guapparia, Dicitincello vuie, Tammurriata nera, Vierno, Accarezzame. (A Lo Guarracino è dedicata un’intera cartella)

Fenesta vascia

di ignoti

Fenesta vascia 'e padrona crudele,

quanta suspire mm'haje fatto jettare!...

Mm'arde stu core, comm'a na cannela,

bella, quanno te sento annommenare!

Oje piglia la 'sperienza de la neve!

La neve è fredda e se fa maniare...

e tu comme si' tanta aspra e crudele?!

Muorto mme vide e nun mme vuó' ajutare!?...

Vorría addeventare no picciuotto,

co na langella a ghire vennenn'acqua,

Pe' mme ne jí da chisti palazzuotte:

Belli ffemmene meje, ah! Chi vó' acqua...

Se vota na nennella da llá 'ncoppa:

Chi è 'sto ninno ca va vennenn'acqua?

E io responno, co parole accorte:

Só' lacreme d'ammore e non è acqua!...

La Cammesella

di ignoti (1700)

E llevete lu mantesino

- Lu mantesino 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te lo vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levato,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E llevete lu suttanino

- Lu suttanino 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te lo vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levato,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E llevete chisto cursetto

- Chisto cursetto 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te lo vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levato,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E llevete la cammesella.

- La cammesella 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun te la vuo' lleva',

me soso e me ne vado da 'cca.

- E 'tte me l'aggio levata,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

E dammece nu vasillo.

- Nu vasillo 'gnornò, 'gnornò!-

Si nun me lo vuo' da',

me soso e me ne vado da 'cca.

- Ed ecchete 'cca lu vasillo,

Ciccillo cuntento, fa' quello che vuo'-

Sia benedetta 'a mammeta,

quanno 'te maritò.

Te voglio bene assaie

versi di Raffaele Sacco, musica attribuita a Gaetano Donizetti (1835)

Pecché quanno mme vide,

te 'ngrife comm'o gatto?

Nenné', che t'aggio fatto,

ca nun mme puó' vedé?!

Io t'aggio amato tanto...

Si t'amo tu lo ssaje!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

La notte tutti dormono,

ma io che vuó durmire?!

Penzanno a nénna mia,

mme sento ascevolí!

Li quarte d'ora sonano

a uno, a duje, a tre...

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Recòrdate nu juorno

ca stive a me becino,

e te scorréano, 'nzino,

le llacreme, accussí!...

Deciste a me: "Non chiagnere,

ca tu lo mio sarraje..."

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Io te voglio bene assaje...

e tu non pienze a me!

Fenesta ca lucive

versi di ignoto, musica attribuita a Vincenzo Bellini (s. d.)

Fenesta ca lucive e mo nun luce...

sign'è ca nénna mia stace malata...

S'affaccia la surella e mme lu dice:

Nennélla toja è morta e s'è atterrata...

Chiagneva sempe ca durmeva sola,

mo dorme co' li muorte accompagnata...

Va' dint''a cchiesa, e scuopre lu tavuto:

vide nennélla toja comm'è tornata...

Da chella vocca ca n'ascéano sciure,

mo n'esceno li vierme...Oh! che piatate!

Zi' parrocchiano mio, ábbece cura:

na lampa sempe tienece allummata...

Addio fenesta, rèstate 'nzerrata

ca nénna mia mo nun se pò affacciare...

Io cchiù nun passarraggio pe' 'sta strata:

vaco a lo camposanto a passíare!

'Nzino a lo juorno ca la morte 'ngrata,

mme face nénna mia ire a trovare!..

Era de maggio

versi di Salvatore Di Giacomo, musica di Mario Costa (1885)

Era de maggio e te cadéano 'nzino,

a schiocche a schiocche, li ccerase rosse...

Fresca era ll'aria...e tutto lu ciardino

addurava de rose a ciento passe...

Era de maggio, io no, nun mme ne scordo,

na canzone cantávamo a doje voce...

Cchiù tiempo passa e cchiù mme n'allicordo,

fresca era ll'aria e la canzona doce...

E diceva: "Core, core!

core mio, luntano vaje,

tu mme lasse, io conto ll'ore...

chisà quanno turnarraje!"

Rispunnev'io: "Turnarraggio

quanno tornano li rrose...

si stu sciore torna a maggio,

pure a maggio io stóngo ccá...

Si stu sciore torna a maggio,

pure a maggio io stóngo ccá."

E só' turnato e mo, comm'a na vota,

cantammo 'nzieme lu mutivo antico;

passa lu tiempo e lu munno s'avota,

ma 'ammore vero no, nun vota vico...

De te, bellezza mia, mme 'nnammuraje,

si t'allicuorde, 'nnanz'a la funtana:

Ll'acqua, llá dinto, nun se sécca maje,

e ferita d'ammore nun se sana...

Nun se sana: ca sanata,

si se fosse, gioja mia,

'mmiez'a st'aria 'mbarzamata,

a guardarte io nun starría !

E te dico: "Core, core!

core mio, turnato io só'...

Torna maggio e torna 'ammore:

fa' de me chello che vuó'!

Torna maggio e torna 'ammore:

fa' de me chello che vuó'!"

‘E spingule frangese

versi di Salvatore Di Giacomo, musica di Enrico De Leva (1888)

Nu juorno mme ne jètte da la casa,

jènno vennenno spíngule francese...

Nu juorno mme ne jètte da la casa,

jènno vennnenno spíngule francese...

Mme chiamma na figliola: "Trase, trase,

quanta spíngule daje pe' nu turnese?"

Mme chiamma na figliola: "Trase, trase,

quanta spíngule daje pe' nu turnese?

Quanta spíngule daje pe' nu turnese?"

Io, che sóngo nu poco veziuso,

sùbbeto mme 'mmuccaje dint'a 'sta casa...

"Ah, chi vò' belli spingule francese!

Ah, chi vò' belli spingule, ah, chi vò'?!

Ah, chi vò' belli spingule francese!

Ah, chi vò' belli spingule ah, chi vò'!?"

Dich'io: "Si tu mme daje tre o quatto vase,

te dóngo tutt''e spíngule francese...

Dich'io: "Si tu mme daje tre o quatto vase,

te dóngo tutt''e spíngule francese...

Pízzeche e vase nun fanno purtóse

e puo' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...

Pízzeche e vase nun fanno purtóse

e puo' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...

E puó' ghiénchere 'e spíngule 'o paese...

Sentite a me ca, pure 'nParaviso,

'e vase vanno a cinche nu turnese!...

"Ah, Chi vò' belli spíngule francese!

Ah, Chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!

Ah, chi vò' belli spíngule francese!

Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!"

Dicette: "Bellu mio, chist'è 'o paese,

ca, si te prore 'o naso, muore acciso!"

Dicette: "Bellu mio, chist'è 'o paese,

ca, si te prore 'o naso, muore acciso!"

E i' rispunnette: "Agge pacienza, scusa...

'a tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese..."

E i' rispunnette: "Agge pacienza, scusa...

'a tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese

'A tengo 'a 'nnammurata e sta ô paese...

E tene 'a faccia comm''e ffronne 'e rosa,

e tene 'a vocca comm'a na cerasa...

Ah, chi vò' belli spîngule francese!

Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!

Ah, chi vò' belli spíngule francese!

Ah, chi vò' belli spíngule, ah, chi vò'?!"

Voce ‘e notte

versi di Edoardo Nicolardi, musica di Ernesto De Curtis (1905)

Si 'sta voce te scéta 'int''a nuttata,

mentre t'astrigne 'o sposo tujo vicino...

Statte scetata, si vuó' stá scetata,

ma fa' vedé ca duorme a suonno chino...

Nun ghí vicino ê llastre pe' fá 'a spia,

pecché nun puó' sbagliá 'sta voce è 'a mia...

E' 'a stessa voce 'e quanno tutt'e duje,

scurnuse, nce parlávamo cu 'o "vvuje".

Si 'sta voce te canta dint''o core

chello ca nun te cerco e nun te dico;

tutt''o turmiento 'e nu luntano ammore,

tutto ll'ammore 'e nu turmiento antico...

Si te vène na smania 'e vulé bene,

na smania 'e vase córrere p''e vvéne,

nu fuoco che t'abbrucia comm'a che,

vásate a chillo...che te 'mporta 'e me?

Si 'sta voce, che chiagne 'int''a nuttata,

te sceta 'o sposo, nun avé paura...

Vide ch'è senza nomme 'a serenata,

dille ca dorme e che se rassicura...

Dille accussí: "Chi canta 'int'a 'sta via

o sarrá pazzo o more 'e gelusia!

Starrá chiagnenno quacche 'nfamitá...

Canta isso sulo...Ma che canta a fá?!..."

Guapparia

versi di Libero Bovio, musica di Rodolfo Falvo (1914)

Scetáteve, guagliune 'e malavita...

ca è 'ntussecosa assaje 'sta serenata:

Io sóngo 'o 'nnammurato 'e Margarita

Ch'è 'a femmena cchiù bella d''a 'Nfrascata!

Ll'aggio purtato 'o capo cuncertino,

p''o sfizio 'e mme fá sèntere 'e cantá...

Mm'aggio bevuto nu bicchiere 'e vino

pecché, stanotte, 'a voglio 'ntussecá...

Scetáteve guagliune 'e malavita!...

E' accumparuta 'a luna a ll'intrasatto,

pe' lle dá 'o sfizio 'e mme vedé distrutto...

Pe' chello che 'sta fémmena mm'ha fatto,

vurría ch''a luna se vestesse 'e lutto!...

Quanno se ne venette â parta mia,

ero 'o cchiù guappo 'e vascio â Sanitá...

Mo, ch'aggio perzo tutt''a guapparía,

cacciatemmenne 'a dint''a suggitá!...

Scetáteve guagliune 'e malavita!...

Sunate, giuvinò', vuttàte 'e mmane,

nun v'abbelite, ca stó' buono 'e voce!

I' mme fido 'e cantá fino a dimane...

e metto 'ncroce a chi...mm'ha miso 'ncroce...

Pecché nun va cchiù a tiempo 'o mandulino?

Pecché 'a chitarra nun se fa sentí?

Ma comme? chiagne tutt''o cuncertino,

addó' ch'avess''a chiagnere sul'i'...

Chiágnono sti guagliune 'e malavita!...

Dicitencello vuie

versi di Enzo De Fusco, musica di Rodolfo Falvo (1930)

Dicitencello a 'sta cumpagna vosta

ch'aggio perduto 'o suonno e 'a fantasia...

ch''a penzo sempe,

ch'è tutt''a vita mia...

I' nce 'o vvulesse dicere,

ma nun ce 'o ssaccio dí...

'A voglio bene...

'A voglio bene assaje!

Dicitencello vuje

ca nun mm''a scordo maje.

E' na passione,

cchiù forte 'e na catena,

ca mme turmenta ll'anema...

e nun mme fa campá!...

Dicitencello ch'è na rosa 'e maggio,

ch'è assaje cchiù bella 'e na jurnata 'e sole...

Da 'a vocca soja,

cchiù fresca d''e vviole,

i' giá vulesse sèntere

ch'è 'nnammurata 'e me!

'A voglio bene...

..........................

Na lácrema lucente v'è caduta...

dicíteme nu poco: a che penzate?!

Cu st'uocchie doce,

vuje sola mme guardate...

Levámmoce 'sta maschera,

dicimmo 'a veritá...

Te voglio bene...

Te voglio bene assaje...

Si' tu chesta catena

ca nun se spezza maje!

Suonno gentile,

suspiro mio carnale...

Te cerco comm'a ll'aria:

Te voglio pe' campá!...

Tammurriata nera

versi di Edoardo Nicolardi, musica di E. A. Mario (1944)

Io nun capisco, ê vvote, che succede...

e chello ca se vede,

nun se crede! nun se crede!

E' nato nu criaturo niro, niro...

e 'a mamma 'o chiamma Giro,

sissignore, 'o chiamma Giro...

Séh! gira e vota, séh...

Séh! vota e gira, séh...

Ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono,

ca tu 'o chiamme Peppe o Giro,

chillo, o fatto, è niro, niro,

niro, niro comm'a che!...

'O contano 'e ccummare chist'affare:

"Sti fatte nun só' rare,

se ne contano a migliara!

A 'e vvote basta sulo na guardata,

e 'a femmena è restata,

sott''a botta, 'mpressiunata..."

Séh! na guardata, séh...

Séh! na 'mpressione, séh...

Va' truvanno mo chi è stato

ch'ha cugliuto buono 'o tiro:

chillo, 'o fatto, è niro, niro,

niro, niro comm'a che!...

Ha ditto 'o parulano: "Embè parlammo,

pecché, si raggiunammo,

chistu fatto nce 'o spiegammo!

Addó' pastíne 'o ggrano, 'o ggrano cresce...

riesce o nun riesce,

sempe è grano chello ch'esce!"

Mé', dillo a mamma, mé'...

Mé', dillo pure a me...

Ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono,

ca tu 'o chiamme Peppe o Giro,

chillo...'o ninno, è niro, niro,

niro, niro comm'a che!...

Vierno

versi di Armando De Gregorio, musica di Vincenzo Acampora (1945)

E' vierno: chiove, chiove 'a na semmana...

e st'acqua assaje cchiù triste mme mantene...

Che friddo, quanno è 'a sera, ca mme vène...

cu st'aria 'e neve, mo ca manche tu.

'Sta freva, ca manch'essa mm'abbandona,

'sta freva, 'a cuollo, nun se leva cchiù!

Vierno!

che friddo 'int'a stu core...

e sola tu,

ca lle puó' dá calore,

te staje luntana e nun te faje vedé'!

Te staje luntana e nun te cure 'e me!

Ca mamma appiccia 'o ffuoco tutt''e ssere

dint'a 'sta cammarella fredda e amara?!

"Ma che ll'appicce a fá, vecchia mia cara,

s'io nun mme scarfo manco 'mbracci'a te!?"

Povera vecchia mia...mme fa paura:

è n'ombra ca se move attuorno a me!...

Vierno!

che friddo 'int'a stu core...

e sola tu,

ca lle puó' dá calore,

te staje luntana e nun te faje vedé'!

Te staje luntana e nun te cure 'e me!

Accarezzame

versi di Nisa, musica di Pino Calvi (1954)

Stasera, core e core, 'mmiez'ô ggrano,

addó' ce vede sulamente 'a luna...

io cchiù t'astrégno e cchiù te faje vicino,

io cchiù te vaso e cchiù te faje vasá...

Te vaso...e 'o riturnello 'e na canzone,

tra ll'arbere 'e cerase vola e va...

Accarézzame!...

Sento 'a fronte ca mme brucia...

Ma pecché nun mme dá pace

stu desiderio 'e te?

Accarézzame!...

Cu sti mmane vellutate,

faje scurdá tutt''e peccate...

Strígneme 'mbracci'a te!...

Sott'a stu cielo trapuntato 'e stelle,

mme faje sentí sti ddete 'int''e capille...

Voglio sunná guardanno st'uocchie belle...

voglio sunná cu te!...

Accarézzame!...

Sento 'a fronte ca mme brucia...

Ma pecché nun mme dá pace

stu desiderio 'e te?

E nu rilorgio lentamente sona...

ma 'o tiempo s'è fermato 'nziem'â luna...

Io mme vurría addurmí 'mmiez'a stu ggrano

tutta na vita...pe' ll'eternitá...

E tu mm'accarezzasse chianu chiano...

e mme vasasse, senza mme scetá...

Accarézzame!...

Sento 'a fronte ca mme brucia...

Ma pecché nun mme dá pace

stu desiderio 'e te?

Lo Guarracino che jéva pe mare

le venne voglia de se 'nzorare;

se facette no bello vestito

de scarde de spine pulito pulito

cu na perucca tutta 'ngrifata

de ziarèlle 'mbrasciolata

co lo sciabò, scolla e puzine

de ponte ongrese fine fine.

Cu li cazune de rezze de funno,

scarpe e cazette de pelle de tunno,

e sciammeria e sciammereino

d'àleche e pile de voje marino,

co buttune e buttunera

d'uocchúe de purpe, sécce e fèra,

fibbia, spata e schiocche 'ndorate

de niro de secce e fele d'achiate.

Doje belle cateniglie

de premmone de conchiglie,

no cappiello aggallonato

de codarino d'aluzzo salato,

tutto pòserna e steratiello

jeva facenno lo sbafantiello,

e gerava da ccà e da llà

la 'nnammorata pe se trovà!

La Sardella a lo barcone

steva sonanno lo calascione;

e a suono de trommetta jeva cantanno st'arietta:

«E Ilaré lo mare e lena,

«e la figlia da sié Lena

«ha lasciato lo 'nnammorato

«Pecché niente l'ha rialato ».

‘O Guarracino 'nche la guardaje

de la Sardella se 'nnammoraje;

se ne jette da na Vavosa

la cchiù vecchia maleziosa,

l'ebbe bona rialata

pe mannarle la mmasciata:

la Vavosa pisse pisse

chiatto e tonno 'nce lo disse.

La Sardella 'nch'a sentette

rossa rossa se facette,

pe lo scuorno che se pigliaje

sotto a no scuoglio se 'mpizzaje;

ma la vecchia de vava Alosa

sùbeto disse: « Ah schefenzosa

«De sta manera non truove partito,

«'ncanna te resta lo marito.

« Se aje voglia de t'allocà

«tanta smorfie non aje da fa;

«fora le zeze efora lo scuorno,

«anema e core e faccia de cuorno

Ciò sentenno la sii Sardella

s'affacciaje a la fenestrella,

fece n'uocchio a zennariello

a lo speruto 'nnammoratiello.

Ma la Patella che steva de posta

la chiammaje faccia tosta,

tradetora, sbrevognata,

senza parola, male nata,

ch'avea 'nchiantato l'Alletterato

primmo e antico 'nnanunorato;

de carrera da chisto jette

e ogne cosa 'Ile dicette.

Quanno lo 'ntise lo poveriello

se lo pigliaje Farfariello;

iette a la casa e s'armaje a rasulo,

se carrecaje comm'a no mulo

de scoppette e de spingarde,

pòvere, palle, stoppa e scarde;

quatto pistole e tre baionette

dint'a la sacca se mettette.

'Ncopp'a li spalle sittanta pistune,

ottanta mbomme e novanta cannune;

e comm'a guappo Pallarino

jeva trovanno lo Guarracino;

la disgrazia a chisto portaje

che mmiezo a la chiazza te lo 'ncontraje:

se l'afferra po crovattino

e po ‘lle dice: «Ah malandrino!

«Tu me la lieve la 'nnammorata

«e pigliatella sta mazziata».

Tùffete e tàffete a meliune

le deva pàccare e secuzzune,

schiaffe, ponie eperepesse,

scoppolune, fecozze e conesse,

scerevecchiune e sicutennosse e

ll'ammacca osse e pilosse.

Venimmoncenne ch'a lo rommore

pariente e amice ascettero fore,

chi co mazze, cortielle e cortelle,

chi co spate, spatune e spatelle,

chiste co barre e chílle co spite,

chi co ammènnole e chi co antrite,

chi co tenaglie e chi co martielle,

e chi co torrone e sosamielle.

Patre, figlie, marite e mogliere

s'azzuffajeno comrn'a fere.

A meliune correvano a strisce

de sto partito e de chillo li pisce.

Che bediste de sarde e d'alose!

De palaje e raje petrose !

Sàrache, diéntece ed achiate,

scurme, tunne e alletterate!

Pisce palumme e pescatrice,

scorfene, cernie e alice,

mucchie, ricciòle, musdee e mazzune,

stelle, aluzze e storiune

merluzze, ruongole e murene,

capodoglie, orche e vallene,

capitune, aùglie e arenghe,

ciéfere, cuocce, tràecene e tenghe.

Treglie, trèmmole, tratte e tunne,

fiche, cepolle, laune e retunne,

purpe, secce e calamare,

pisce spate e stelle de mare,

pisce palumme e pisce prattielle,

voccadoro e cecenielle,

capochiuove e guarracine,

cannolicchie, òstreche e ancine.

Vòngole, cocciole e patelle,

pisce cane e grancetielle,

marvizze, màrmure evavose,

vope prene, vedove e spose,

spinole, spuonole, sierpe e sarpe,

scàuze, 'nzuoccole e co le scarpe,

sconciglie, gàmmere e ragoste,

vennero 'nfìno cole poste,

capitune, sàure e anguille,

pisce gruosse e piccerille,

d'ogni ceto e nazione,

tantille, tante, cchiù tante e tantone.

Quanta botte, mamma mia!

che se divano, arrassosia

a’ centenare le barrate!

a’ meliune le petrate!

Muorze e pizzeche a beliune!

A delluvio li secuzzune!

Non ve dico che bivo fuoco

se faceva per ogni luoco!

Ttè, ttè, ttè, ccà pistulate!

Ttà, ttà, ttà, llà scoppettate

Ttà, ttù, ttù, ccà li pistune!

Bu, bu, bu, llà li cannune !

Ma de cantà so già stracquato

e me manca mo lo sciato;

sicché dateme licienzia,

graziosa e bella audienzia,

'nfì che sorchio na meza de seje,

co salute de luje e de leje,

ca se secca lo cannarone

sbacantànnose lo premmone.

Guarracino: se ne conoscono tre specie: il guarracino di scoglio, che è l'Apogon rex mullorum, perché detto re di triglie dai pescatori di Malta; il guarracino o monacella rossa, cioè l'Anthias sacer e, infine, il guarracino o monacella nera, cioè l'Heliases chromis.

Jéva: andava.

Le venne: gli venne.

De se 'nzorare: di ammogliarsi. Da uxor, moglie. Sarebbe un se inuxorare, ossia se ad uxorem ducere. Il latino ha l'aggettivo inuxorus (non ammogliato, celibe); sol che il prefisso è negativo, mentre nel nostro verbo è di movimento. Questo verbo, come la sua etimologia vuole, si dice solo dell'uomo; della donna si dice 'mmaretarse (maritarsi), dove la prima m non è che lo stesso in di 'nzorarse, lì con aferesi, qui anche con assimilazione (se ad maritum ducere).

Scarde: schegge.

Perucca: parrucca.

'Ngrifata: arruffata, ma qui vale «pomposa».

Ziarèlle,: nastrini.

'Mbrasciolata: imbraciolata, ossia piena come una braciola. Per intendere, si noti che in napoletano braciola (anche e più corrente brasciola) non è la stessa cosa che in lingua. In italiano designa una fetta di carne arrostita sulla brace appunto o cotta in tegame; in napoletano invece è involto di carne ripieno. «De ziaràlle ‘mbrasciolata» significa dunque: piena di nastrini, tutta nastrini.

Sciabò: lattuga, gala. Dal francese jabot.

Scolla: fazzoletto da gola.

Puzine: polsini.

De Ponte angrese fine fine: di punti inglesi finissimi.

Cu li cazune: coi calzoni.

De rezze de funno: di reti di fondo. Credo voglia intendere di reti doppie.

De tunno: di tonno.

Sciammeria. è la vecchia redingote.

Sciammereino: diminutivo della precedente sciammeria. Più comune sciammeriella, ma la rima ha voluto l'altro diminutivo. Potrebbe trattarsi di un farsetto, ma io penso che qui stia ad abundanziam, come quando si dice «nastri e nastrini», «bottoni e bottoncini» per intendere molti nastri, molti bottoni. Il poeta vuol dire che il Guarracino era abbigliato con ogni cura e buon gusto.

D'aleche: di alghe.

Pile: peli.

Voje: bue.

Co buttune e buttunera: letteralmente: con bottoni e bottoniera. Come il precedente sciammeria e sciammereino è modo sovrabbondante per dire con bottoni e bottoncini, con bottoni di ogni specie e grandezza, tutto bottoni. E, s'intende, son bottoni lussuosi che possono anche non abbottonare avendo ufficio decorativo, come chiarisce il verso seguente che ci dice che sono occhi di polipi (purpe), di seppia (secce) e di fiera, naturalmente marina (fera); piccoli i primi due, più grandi gli altri.

Schiocche: ciocche.

De niro de secce: di nero di seppie.

Feíe: fiele.

Achiate. occhiate. Pesci teleostel della famiglia Girellidi, caratterizzati dai grandi occhi (cfr. latino Raia oculata).

Cateniglie: catenelle.

Premmone: polmone.

Cappiello aggallonato: cappello gallonato.

De codarino d'aluzzo salato: di budello di luccio salato. È espressione struinentale dove il de (di) vale con.

Pòsema: amido.

Steratiello: stiratelo. «Tutto pòsema e steratiello» ad litteram sarebbe «tutto amido e stirato»; ma, poiché lo stirato è nel precedente pòsema (amido), io darei a steratiello il significato di impettito. Tale interpretazione è confortata dal verso seguente «ieva facenno lo sbalantieílo», andava facendo lo spacconcello.

Barcone: balcone.

Calascione: colascione, sorta di liuto.

A suono de trommetta: a suono di trombetta, cioè a voce alta.

E llaré lo mare e lena: è una delle tante accozzaglie di parole inconcludenti che abbondano nelle antiche canzoni, riprese e trapiantate nelle sue dal Di Giacomo, messe lì per vezzo o per ironia o soltanto per accompagnamento e dette mottozzi. Se ne trovan tanti e per tutti citerò un «Tubba catubba la tubba gubbella // tubba tubbella, lo chicherichì ». Bravo davvero chi volesse in- dustriarsi a decifrare.

Sia Lena: zia.Lena. In napoletano, vi sono due parole (don, donna; zio, zia) usate, l'una a titolo d'onore o di rispetto, l'altra, più familiare, per esprimere affetto e venerazione. Come don, che è apocope di donno, zio e zia si scorciano in zi' e la parola, apocopata, diventa ambigenere e si dice zi' Giuvannine e zi' Maria.

La forma siè qui ricorrente, che qualcuno vuole derivata da «signora», non è altro invece che il zi' (zi' Lena) con lo zeta addolcito in esse. Anche nel maschile, infatti, si trova, specialmente preceduto dall'articolo, 'o si' Pascale per 'o zi' Pascale. L'aggiunta della e accentata finale, è una delle tante che ricorrono in tutte le lingue per un tal quale bisogno di facilità di pronunzia (cfr. oi' per o), e contrariamente a quanto credono alcuni, questa aggiunta, pur ricorrendo quasi sempre nel femminile, non è niente affatto vero che non ricorra anche nel maschile. Si dice benissimo anche lo sié Pascale, specialmente quando chi parla ironizzando, ha bisogno di strascicare la pronunzia per significare che la parola ha tutt'altro senso che di rispetto. Così, ad esempio, a un zi' Pascale che l'ha fatta grossa, si direbbe: «E bravo! ha fatto sta bella aziona 'o sié.Pascale!». E, soltanto ironicamente, si dice anche a persona non anziana, come si può vedere a pag. 18, dove è dato alla Sardella che è ragazza da marito. La Sardella, ricevendo dalla Vavosa l'imbasciata del Guarracino, arrossisce di vergogna e si nasconde sotto uno scoglio. Ma l'Alosa, sua nonna, la rimbrotta e le fa rilevare il danno che le verrà dalle sue ciance. Allora la nostra eroina stima più conveniente pensare al sodo e si rimette alla finestra aspettando. Qui dunque «la sii Sardella» vuol dire, quella buona lana della Sardella.

Rialato: regalato.

'Nche la guardaie: come, non appena la guardò.

Se ne jette. se ne andò.

Vavosa: bavosa. Pesce della famiglia dei Blennidi (cfr. il greco blennos. muco) così detto dalla copiosa mucosità che ricopre il suo corpo.

La cchiù vecchia maleziosa: la più vecchia maliziosa. E si noti che il cchiù (più) è riferito alla malizia, non alla vecchiaia. La vecchia più maliziosa, la più maliziosa delle vecchie.

Bona rialata: ben regalata. Particolare costrutto napoletano che usa l'aggettivo (bona, buona) in funzione avverbiale. Non è la stessa cosa, ma anche in lingua ricorre l'attributo predicativo (mi rispose fiero e superbo per fieramente e superbamente); sol che, in lingua, l'aggettivo modifica il verbo soltanto col suo significato, ma è tutto del sostantivo, mentre in napoletano concorda col sostantivo, ma è tutto avverbio. Non che in napoletano manchi l'avverbio (cantava appassionatamente me rispunnette - mi rispose - malamente, ecc.) ma l'avverbio bene non c'è e s'usa avverbialmente l'aggettivo (l'ha buono vattuto; l'ha bona strillata: l'ha ben battuto, l'ha bene sgridata).

Pe mannarle la mmasciata: per mandarle l'imbasciata.

Pisse pisse: pissi pissi, ossia zitto zitto.

Chiatto e tunno: grosso e tondo, cioè senza ambagi, chiaro e tondo.

'Nce lo disse: glielo disse.

'Nch'a sentette: come la sentì.

Se 'mpizzaje: si ficcò.

Vava: ava, nonna.

Alosa: cheppia, laccia. Genere di pesci teleostei.

Schefenzosa: sozza, sporcacciona. Ma qui vale schifiltosa.

'Ncanna: in canna, cioè in gola, per dire: te ne resterà perenne la voglia, senza possibilità di soddisfarla. È modo proverbiale napoletano, che si dice di cosa assai desiderata e vaga, non con- seguita. Per esempio: Aggio fatto tanto pe ll'avé, ma m'è rimasto 'ncanna: Ho fatto tanto per averlo ma mi è rimasto in gola.

Aje: hai.

De t'allocà: di allogarti, di collocarti.

Fora: fuori, via.

Le zeze: le ciance.

Sié Sardella: cfr. il Sií Lena della strofa 4 (a pagina 16). Fenestrella: finestrella. Ma in napoletano è assai più corrente la forma Fenestella senza r, che è latina schietta.

Fece n'uocchio a zennariello: fece l'occhiolino. Zennariello letteralmente è cennerello, piccolo cenno. Si noti che, mentre correntemente si dice le faceste ll'uocchio a zennariello col determinativo (le fece o gli fece l'occhiolino), il poeta usa il numerale uno (la enne apostrofata è qui nurnerale) per dire «fece un piccolo cenno con un occhio», facendoci vedere la strizzatina civettuola di un occhio solo. Sappiamo, e lo sapeva anche l'autore, che il cenno non può farsi con tutt'e due gli occhi; ma qui, con espressione bellamente icastica, il poeta ha detto «un occhio» e ha fatto un vivo ritratto! Anche in napoletano, come in italiano, oltre la frase, c'è il verbo zennïà (aninliccare), apocopato come tutti gli infiniti non sdruccioli, da zenniare (la forma intera degl'infmiti na- poletani non sdruccioli è arcaica e poetica). Zennïà risponde quasi a capello all'italiano cennare per accennare, sol che l'italiano designa un cenno fatto anche con la mano o col capo, mentre in napoletano significa cenno soltanto dell'occhio. (Cfr. E zenniavano ll'uocchie d"e lemmene: Di Giacomo, A Capemonte). Il napoletano zennïà interpone un'i prima della desinenza, che l'italiano cennare non ha e che va pronunziato con dieresi come nell'italiano smaniare. Questa i compare in tutti i verbi frequentativi. Son tutti di prima anche quando, come in latino, derivano da altra coniugazione. (Il napoletano correre di seconda diventa currettià di prima coniugazione, quando vuol designare il correre a brevi tratti qua e là). Così, mentre a turnare, cantare, parlare e simili, esprimenti azione intera e, dirò, non frazionata, rispondono turnà, canta, partìí senza la i, passeggiare si dice passïà, tastare tastïà, scherzare pazzïà (all'italiano scherzo risponde in napoletano pazzia), infastidire o prendere in giro sfruculïà e simili. Tutto ciò s'è detto per rilevare l'efficacia della desinenza frequentativa del nostro zennïa che rende a meraviglia il frequente strizzar dell'occhio, che l'italiano «ammiccare», derivando dal latino micare (palpitare, brillare), rende soltanto per l'etimologia. Oltre al costrutto avverbiale a zennariello, c'è, poi, anche un zennariello sostantivo, come si legge nel libretto de Lo Frato nnammurato dei Pergolesi (Passa ninno de cca rente // e me la lo zennariello: Passa il mio damo qui davanti e mi fa l'occhiolino).

Per finire ricorderò il tardo latino cinnare (ammiccare) e cinnus (occhiolino).

Speruto: desideroso.

Patella: nome di vari molluschi. Patella coerulea, Patella lusitanica, Patella tarentina; sono molto comuni nel Mediterraneo.

Steva de posta: stava alla posta.

Sbrevognata: svergognata.

'Nchiantato: piantato.

Alletterato: nome di un pesce della famiglia dei tonni (Euthynnus alletteralus) così detto per- ché la sua pelle ha macchie che paiono lettere.

De carrera: di carriera.

Da chisto: da costui.

Jette: andò.

'Lle dicette: gli disse.

Lo 'ntise: lo sentì.

Se lo pigliaie Farfariello: se lo Prese Farfarello, ossia il diavolo, montò in bestia. Farfarello è uno dei diavoli danteschi della bolgia dei barattieri.

S'armaie a fasulo: si armò di tutto punto.

Se carrocaie: si caricò.

Scoppette: schioppi, fucili.

Pòvere: polvere (da sparo, s'intende).

Scarde (sottinteso 'e scoppette): pietre focaie.

Dint’a sacca: in tasca.

'Ncopp'a li spalle: sulle spalle.

Pistune: pistoni, specie di pesante archibugio.

Guappo: è il camorrista che non si lascia passare le mosche sul naso e al quale si ubbidisce senza discutere, non superato da alcuno in forza e coraggio. Ma questo sostantivo s'usa anche aggettivamente per designare bravura. È ‘nu jucatore guappo, (è un giocatore guappo), si dice per significare che nessuno lo supera, e simili. Qui è usato appunto aggettivamente e guappo Pallarino (guappo paladino) significa strenuo paladino, il paladino dei paladini!

La disgazia a chisto portaie: la disgrazia portò a costui; disgrazia volle per costui.

Chiazza: piazza.

Po crovattino: per la golétta. È modo comunissimo e ci rappresenta l'aggressore che, invece di afferrare violentemente la persona con cui ha da dire, le ficca le dita nel colletto e la tira a sé con sarcastica repressa delicatezza, per dargliele poi di santa ragione.

Lieve: togli.

Mazziata: bastonatura, da mazza.

Tùffete e tàffete, onomatopeico, per indicare il suono delle percosse e il loro susseguirsi.

A meliune: a milioni.

Pàccare: pacche, colpi dati a mano aperta, ma in napoletano solo sulla faccia. In napoletano, poi, si chiama schiaffo, come in italiano, il manrovescio, che é la percossa data col dorso della mano, mentre quella data sul viso col palmo della mano, ossia con tutta la mano, si chiama pàccaro, dal greco pas, pasa, pan (tutto) e cheir, cheiròs (mano).

Secuzzuno: sergozzoni.

Ponie: pugni.

Perepesse: percosse in genere.

Scoppolune: scoppoloni, scapaccioni.

Fecozzo: pugni dati di panta.

Conesse: colpi alla nuca. Differisce dai precedenti scoppoloni, perchè quelli son dati a mano aperta, queste col pugno.

Scerevecchiune: scappellotti.

Sicutennosse: pugno in faccia.

Osse e pilosse: altra espressione sovrabbondante come le precedenti «sciammeria e sciammereino» e « buttune e buttunera» della seconda strofe, per dire «gli ammacca ben bene le ossa».

Venimmoncenne: venianiocene. Modo usato per riprendere il racconto o per allacciarvi un episodio. È l'italiano «venendo a noi».

Ascettero fore: uscirono fuori. Il pleonasmo è quasi normale in napoletano e mentre ricorre anche il semplice ascettero (uscirono), come trasettero (entrarono), il popolo dice sempre jesce fora (esci fuori) e trase dinto (entra dentro).

Cortielle: coltelli.

Cortelle: coltelle.

Spate, spatune e spatelle: spade, spadoni, spadini.

Spite: spiedi.

Ammènnole e antrite: Ammènnola significa mandorla e antrita è la nocciola cotta al forno e infilzata a un filo. Il poeta le usa traslatamente come fa anche l'italiano, per esempio, con la parola nespola. Gli diede certe nespole, si dice per mazzate.

Torrone e sosamielle: altre armi gastronomiche! Il torrone è quello che ricorre a San Martino e il sosamiello (moderno susamiello, plurale susamielle), è una ciambella in forma di S, fatta con farina di castagne e miele e cosparsa di pezzetti di mandorle. Ricorre a Natale ed è dolce napoletano che si offre agli zampognari che si recano a Napoli dal loro paese per la novena.

Fère: fiere.

A strisce: in fila.

De sto partito e de chiamo li pisce: pesci parteggianti o per l'uno o per l'altro. Da notare che pisci è plurale di pesce. 'Nu pesce: un pesce; tre pisce: tre pesci. A il plurale interno assai corrente nel dialetto napoletano ('Nu prèvete: un prete; tre prievete: tre preti) che a volte s'accoppia col plurale normale ('Nu mònecro: un monaco: tre muònece: tre monaci).

Dediste: vedesti.

Palaie: sogliole. Dal catalano palaya, tardo latino pelaica dal greco pelagihós «del pelago marino».

Raio petrose: razze chiodate (cfr. latino Raia clavata). Genere di pesci selaci.

Sàrache: sarghi (cfr. latino Sargus, greco sargòs), genere di Teleostei acantotteri del Mediterraneo. Al singolare saraco.

Diéntece: dentici, pesci teleostei caratterizzati dai canini molto sporgenti (latino Dentex, derivato di dens, dentis). Si noti il plurale interno; al singolare dèntece.

Scurme: scombri, maccarelli.

Pisce palumme: palombi (Mustelus vulgaris). Singolare pesce palummo.

Pescatrice: rana pescatrice, lofio (latino Lophius Piscatorius).

Scorpene: scorfani o scrofani (latino Scorpeana scrofa).

Mucchie: pastinache (latino Trygon pastinaca). Pesci cartilaginei dei gruppo Selaci.

Ricciòle: nome usato, nel Mezzogiorno, per varie specie di pesci del genere Scymnorrinus.

Musdee: motelle, genere di pesci teleostei della famiglia Gadidi (latino Mustela vulgaris).

Mazzune: ghiozzi 'nome divari pesci del genere Gobitts.

Stelle: cioè pesce-stella, leccia, ha le scaglie disposte

in forma di stella e perciò detto dagli ittiologi Astroclormus.

Aluzze: lucci di mare (latino Sphyraena sphyracna).

Ruongolo: gronghi o gòngori. Specie (Conger conger) di pesci teleostei dell'ordine Apodi.

Capodoglie: capodogli o capidogli. Cetacco odontoceto della famiglia Fiseteridi (latino Physeter) così chiamato per il grasso che si ricava dalla sua testa (capo d'olio).

Orche: orche. Specie di cetaceo odontoceto (latino Orcinus orca) della famiglia Delfinidi.

Vallene: balene.

Capitune: nome delle anguille di grandi dimensioni (latino Capito,-onis «che ha la testa grossa», derivato di caput «capo»). Nota il plurale interno; al singolare capitone.

Aùglie: aguglie. Nome comune di alcuni pesci teleostei (latino Belone) della famiglia Belonidi.

Arenghe: aringhe, specie di pesci telcostei dell'ordine Isospondili, famiglia Clupeidi. (Dal germanico haring, cfr. tedesco Hering; latino Clupea harengus).

Ciàfere: cefali, altro nome italiano di vari pesci dei genere Mugil. Nota il plurale interno, al singolare cèfaro.

Cuocco: aterine, genere di pesci telcostei dell'ordine Percomorfi, detto anche latterino, crognolo o lavone.

Tràccene: pesci ragno, genere (latino Trachinus) di pesci teleostei acantotterigi dell'ordine Giugnulari, famiglia Tradúnidi. Con lo stesso nome si indica anche il pesce spigola.

Tenghe: tinche, pesci teleostei (latino Tinca tinca) della famiglia Ciprinidi.

Treglie: triglie, nome comune dei pesci del genere Mullus, teleostei della famiglia Mullidi.

Trèmmole: torpedini (dal latino Torpedo, -dinis, derivato di torpàre, con allusione all'effetto delle scariche elettriche prodotte da questi pesci che inducono torpore alla mano che li tocca).

Trotte: trote.

Fiche: pesce fica, lampuga, fiatola dorata. Pesce teleosteo della famiglia Brauidi (latino Stromateus fiatola).

Cepolle: cepole rosseggianti, nome comune del pesce Cepola rubescens.

Laune: lagoni, nome napoletano del pesce Atherina hepsetus.

Retunne: menole, varie specie dei genere Smaris.

Purpe: polpi (latino Octopus vulgaris).

Secce: seppie.

Pisce prattielle: non meglio identificati, nonostante le più accurate ricerche, anche presso i pescatori del porticciolo di Mergellina.

Voccadoro: boccadoro, ombrina leccia (latino Sciaena aquila), così denominato perché produce suoni variamente modulati.

Cecenielle: bianchetti, i neonati delle alici di colore biancastro.

Capochiuove: piccole seppie (.Sepiota Rondeletii).

Cannolicchie: nome di varie specie di molluschi bivalvi del genere Solon.

Ostreche: ostriche (latino Ostrea edulis).

Ancine: ricci di mare (latino Ech-nus lividus).

Cucciole: nome di vari molluschi bivalvi del genere Cardium.

Grancetielle: diminutivo di grancio: granchio marino.

Marvizze: tordi di mare, varie specie del genere Labrus e Crenilabrus.

Màrmure: pagello mòrmora (latino Pagellus mormyrus).

Vope: boghe (latino Box boops) pesce teleosteo della famiglia Girellidi.

Prene: incinte (cfr. il latino praegnus).

Spìnole: spigole (Labraxt lupus).

Spuonole: è lo Spondylus gaederopus, volgarmente detto ostrica spinosa.

Sierpo: Non è chiaro se si allude alla vipera di mare (latino Ophisurus serpens) o al serpe di mare (latino Sphagebranchus Spallanzani),

Sarpe: salpe, pesce teleosteo della famiglia Girellidi (Boops salpa).

Scàuze, 'nzuoccole, e co le scarpe: scalzi, con gli zoccoli e con le scarpe. Accorsero così come si trova- vano.

Sconciglie: mùrici, molluschi gasteropodi del genere murex di cui alcune specie forniscono la porpora.

Gàmmere: gamberi.

Vennero 'nfino co le posto: vennero perfino di lontano, con le diligenze.

Saure: sgrombri bastardi sorelli, sugherelli (latino Trachurus trachurus).

Tantille, tante, cchiù tsante e tantone: graziosissimo verso che designa col diminutivo e con l'accrescitivo dell'aggettivo tanto, le varie dimensioni dei pesci in lotta. Essi sono, dunque, non soltanto di ogni ceto e nazionalità, ma anche di ogni grandezza: tantini (tantille), tanti, più tanti (più grossi) e tantoni!

Arrassosia: lontano sia. Arrasso è avverbio che vale «da parte» (Fatt'arrasso: fatti in là, scansati).

Muorze: morsi.

Beliune: bilioni.

A deljuvio li secuzzune: a diluvio i sergozzoni.

Bivo: vivo.

Ttè, ttè, ttè, ecc.: onomatopeico per indicare i colpi delle pistole, degli schioppi, degli archibugi e dei cannoni.

So già stracquato: sono già stanco.

Scriato: fiato.

'Nfì che sorchio: fin che sorbisco, il solo tempo di bere.

Na meza de seie: sottinteso presa, ossia bicchierino. Mezza designa la quantità e sei forse il prezzo o la misura o la composizione dei liquore. Il cantore vuol dire: «datemi soltanto il tempo di sorbire non più di mezzo bicchierino dei più modesto liquore».

Co salute de luie e de leve: con salute, ossia alla salute, di lui e di lei, ossia dei signori e delle signore che mi stanno ascoltando.

Ca: perché.

Cannarone: la gola, sede delle canne, che nel sostantivo napoletano vengono unificate e accresciute!

Sbacantànnose lo premmone: svuotandosi (mentre si svuota) il polmone.

Quando entrò nelle aule dove si insegnava la meccanica, Ulrich fu subito in preda a un entusiasmo febbrile. A che serve ormai l'Apollo del belvedere, se si hanno davanti agli occhi le forme nuove di un turboalternatore o il meccanismo di distribuzione di una locomotiva! Chi può interessarsi ormai alle chiacchiere millenarie sul bene e sul male, quando s'è trovato che non si tratta di “Valori costanti" ma di “Valori funzionali", così che la bontà delle opere dipende dalle circostanze storiche e la bontà degli uomini dall'abilità psicotecnica con la quale si sfruttano le loro capacità! Il mondo è semplicemente buffo se lo si considera dal punto di vista tecnico; privo di praticità in tutti i rapporti umani, estremamente inesatto e antieconomico nei modi; e chi è abituato a svolgere le sue faccende col regolo calcolatore non può ormai prendere sul serio una buona metà delle asserzioni umane.

Il regolo calcolatore consta di due sistemi di numeri e di linee combinati con straordinaria accortezza: due tavolette scorrevoli verniciate di bianco, a sezione trapezoidale piatta, mediante la quale si risolvono in un baleno i più intricati problemi, senza sciupare inutilmente un solo pensiero; è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore. Quando si possiede un regolo calcolatore, e arriva qualcuno con grandi affermazioni e grandi sentimenti, si dice: "Un attimo, prego, prima calcoliamo il limite d'errore e il valore probabile di tutto ciò".

Quest'era senza dubbio una rappresentazione efficace dell'ingegneria. Essa costituiva la cornice di un'affascinante futuro autoritratto che rappresentava un uomo dai lineamenti energici, con una pipa tra i denti, un berretto sportivo in testa e splendidi stivali alla scuderia, in viaggio tra Città del Capo e il Canadà per realizzare grandiosi progetti... Fra un affare e l'altro si può anche trovare il tempo per ricavare dal pensiero tecnico qualche idea per organizzare il mondo e governarlo, o di formulare massime come quella di Emerson, che dovrebbe esser scritta sulla porta di ogni officina: "Gli uomini passano sulla terra come profezie del futuro, e tutte le loro azioni sono prove e tentativi, perché ogni azione può essere superata dalle successive". Anzi, per esser precisi, questa massima era di Ulrich che l' aveva composta mettendo insieme parecchie massime di Emerson.

È difficile dire come mai gli ingegneri non corrispondano poi del tutto a questo quadro. Perché, ad esempio, portano sovente una catena d'orologio che sale in un mezzo arco acuto dal panciotto ad un bottone più in alto, o la dispongono sulla pancia in festoni ascendenti e discendenti, come arsi e tesi di una poesia? Perché amano appuntarsi nella cravatta denti di cervo o piccoli ferri di cavallo? Perché i loro abiti sono costruiti come gli elementi di un'automobile? Perché, soprattutto, non parla no quasi mai d'altro che della loro professione; e se parlano di altro lo fanno in modo speciale, rigido, esterno, senza correlazioni, che al di dentro non và più in giù dell'epiglottide? Naturalmente, ciò non vale per tutti, ma vale per molti; e quelli che Ulrich conobbe quando prese servizio per la prima volta in un ufficio di fabbrica erano così, e quelli che conobbe la seconda volta erano anche così. Si rivelarono uomini strettamente legati alle loro tavolette da disegno, amanti della loro professione e in essa ammirevolmente valenti; ma proporre loro di applicare l'audacia del loro pensiero a se stessi invece che alle loro macchine, sarebbe stato come pretendere che facessero di un marIello l'uso contro natura che ne fa un assassino.

La cattedrale di San Stephan: Una visione storica

Le immagini sono di origine molto diversa: i signori Hawelka sono ripresi da una cartolina, i café Demel e Sacher sono illustrati dai loro dépliant, San Stephan e Karl Marx Hof da immagini tratte da internet con Google, gli interni di Hawelha e l'edificio di Holstein sono mei scatti. Il tutto è visibile in questa galleria di immagini.

Per saperne di più sul Karl Marx Hof (il grande e celebrato esempio della politica edilizia della socialdemocrazia mitteleuropea), vi consiglio il libro di Manfredo Tafuri la qui recensione trovate nel file qui sotto.

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