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Se chiamo

non vengono i miei morti

ma il treno si è fermato nel tramonto

fuori solo grilli e campi

e a un tratto

come da lontano una balera

un tango.

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Arrivavano all’alba

dalle campagne

il viso segnato dal sole

le mani nodose

e stavano ore

nere

in piedi

sulla piazza del mercato.

L’una era l’ora più vuota

contavano chine le uova invendute

le calze di seta svanite.

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Il paese era tutto un rammendo

ricambi di colli e polsini

giacche lise da rivoltare

un continuo disfare

vecchie vite

fianchi

corpetti ormai sfatti

e lei usciva da una scuola di taglio.

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A un mese

era stata colpita dalla polio.

Giorni e giorni ha passato sul balcone

sulle panchine della stazione

al parco delle scuole.

Mai riusciva ad arrivare

dove muore l’argine.

È rimasta ad aiutare in casa

ha curato la bambina di sua sorella.

Giocava di nascosto

una lira una cartella

con le vecchie della tombola

in una stanza buia

il muro annerito dalle stufe

lei nella luce.

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A Messa andava all’alba

chiusa nella spilla da balia

sul cuore il taschino degli aghi

la stanza ingombra di pizzi

di sete

di rasi

una nuvola bianca

con punte di rosa

in un vicolo scuro

tutti veli da sposa.

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Li cuciva sul rovescio

intere notti

curva sulla Singer a pedali

i palloncini a spicchi dei mercati

che nessuno da bambina le comprava

e lei lì a fissarli

come per portarli tutti a casa

gialli verdi rossi.

Le hanno consumato gli occhi.

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Persino le rosette

che sua madre portava dall’età di cinque anni

erano andate a suo fratello

e a sua cognata.

Lei non è tornata

a casa quella notte.

All’alba

sedeva ancora

muta

composta

in sala d’aspetto

di terza classe.

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Un fazzoletto in testa

uno più grande in mano

quattro capi

due nodi

i tagli dei geloni

e i sogni

caldi come le stagioni

sotto la neve.

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual'è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non e sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell'arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che m'importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.

Italo Calvino

Da: Le città invisibili, Einaudi


The Lady's First Song

I turn round

Like a dumb beast in a show,

Neither know what I am

Nor where I go,

My language beaten Into one name;

I am in love

And that is my shame.

What hurts the soul

My soul adores,

No better than a beast

Upon all fours.

Prima canzone della dama

Mi aggiro torno torno

Come una belva bruta messa in mostra,

Né so chi io sia

Né dove io vada,

Il mio linguaggio costretto

In un unico nome;

l o sono innamorata:

Tale è la mia vergogna.

Quel che all'anima nuoce

La mia anima adora,

Come fossi una bestia

A quattro zampe.

The Lady's Second Song

What sort of man is coming

To lie between your feet?

What matter, ave are but women.

Wash; make your body sweet;

I have cupboards of dried fragrance, 1 can strew the sheet.

The Lord bave mercy upon us.

He shall love my soul as though

Body avere not at all,

He shall love your body

Untroubled by the soul,

Love cram love's two divisione

Yet keep his substance whole.

The Lord bave mercy upon us.

Soul must learn a love that is

Proper to my breast,

Limbs a love in common

With every noble beast.

If soul may look and body touch,

Which is the more blest?

The Lord bave mercy upon us

Seconda canzone della dama

Che uomo verrà mai

A giacer fra i tuoi piedi?

Che importa, non siamo che donne.

Làvati; rendi il tuo corpo soave;

Ho credenze ricolme di aromi essiccati,

Ne cospargerò il lenzuolo.

Il Signore abbia pietà di noi.

Egli amerà l'anima mia

Come se non vi fosse corpo,

Egli amerà il corpo tuo

Indisturbato dall'anima,

L'amore sazi le due parti d'amore

Ma la sostanza ne conservi intiera.

Il Signore abbia pietà di noi.

L'anima deve imparare un amore

Che si addica al mio seno,

Le membra un amore in comune

Con ogni nobile animale.

Se l'anima ha la vista e il corpo il tatto,

Qual è il piú beato?

Il Signore abbia pietà di noi.

The Lady's Third Song

When you and my true lover meet

And he plays tunes between your feet,

Speak no evil of the soul,

Nor thínk that body is the whole,

For I that am bis daylight lady

Know worse evil of tbc body;

But in honour split his love

Till either neither bave enough,

That I may bear if we should kiss

A contrapuntal serpent biss,

You, should band explore a thigh,

All the labouring heavens sigh.

Terza canzone della dama

Quando tu e il mio amante fedele v'incontrate

Ed egli nel tuo grembo intona melodie,

Non dir male dell'anima,

Né credere che il corpo sia tutto,

Poiché io, sua signora di giorno,

So del corpo mali peggíori;

Ma con onore dividi in due l'amore

Sì che ciascuno non abbia abbastanza dell'una e dell'altro,

Ed io senta se ci baciamo

A contrappunto il sibilo del serpe,

E tu senta se una mano ti esplora la coscia

Il sospiro di tutti i cieli in travaglio.

The Lover's Song

Bird sighs for the air,

Thought for I know not where,

For the womb the seed sighs.

Now sinks the same rest

On mind, on nest,

On straining thighs.

Canzone dell'amante

L’uccello sospira per desiderio d'aria,

Il pensiero per non so qual luogo,

Per il grembo il seme sospira.

Ora scende un medesimo riposo

Sulla mente, sul nido,

Sulle cosce sforzate.

The Chambermaid's First Song

How carne this ranger

Now sunk in rest,

Stranger with stranger,

On my cold breast?

What's left to sigh for?

Strange night has come;

God's love has hidden hím

Out of all harm,

Pleasure has made him

Weak as a worm.

Prima canzone dell'ancella

Come venne questo invasore

Sprofondato ora in riposo,

Estraneo con estranea,

Sul mio freddo seno?

Per che cosa rimane da sospirare?

Strana notte è venuta;

L'amor di Dio lo ha posto ,

Al riparo da ogni male,

Il piacere lo ha reso

Debole come un verme.

The Chambermaid's Second Song

From pleasure of the bed,

Dull as a worm,

His rod and its butting head

Limp as a worm,

His spirit that has fled

Blind as a worm.

Seconda canzone dell'ancella

Dopo il piacere del letto

Torpido come verme,

La sua verga e la testa d'ariete

Flaccida come verme,

Il suo spirito che si è dileguato

Cieco come verme.

The Spur

You think it horrible that lust and rage

Should dance attention upon my old age;

They avere not such a plague when I was youngs;

What else bave I to spur me into song?

Lo sprone

Ti sembra orribile che lussuria e furia

Mi faccian scorta nella mia vecchiaia;

Non erano tanto assillanti quand'ero giovane;

Che altro mi resta per spronarmi a cantare?

Versione di Giorgio Melchiori, Einaudi


When you are old Quando sarai vecchia
When you are old and gray and full of sleep

And nodding by the fire, take down this book,

And slowly read, and dream of the soft look

Your eyes had once, and of their shadows deep;

How many loved your moments of glad grace,

And loved your beauty with love false or true;

But one man loved the pilgrim soul in you,

And loved the sorrows of your changing face.

And bending down beside the glowing bars,

Murmur, a little sadly, how love fled

And paced upon the mountains overhead,

And hid his face amid a crowd of stars.

Quando sarai vecchia e grigia e di sonno onusta,

e sonnecchierai vicino al fuoco, prendi questo libro

e lenta leggi, e sogna il dolce sguardo

che avevano un tempo i tuoi occhi, e la loro ombra profonda.



In molti amarono i tuoi attimi di felice grazia

e amarono la tua bellezza con amore falso o vero,

ma un uomo solo amò la tua anima pellegrina,

e amo le pene del viso tuo che incessante mutava.



Piegati ora accanto all’ardente griglia del camino

e sussurra, con qualche tristezza, come l’amore scomparve,

e vagò alto sopra le montagne,

e nascose il suo viso in uno sciame di stelle.

(traduzione di Paolo Cecchi)

A biography in english

Una biografia in italiano

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perchè la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La massa ignora, perchè non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perchè mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917


Monsieur le Président

Je vous fais une lettre

Que vous lirez peut-être

Si vous avez le temps

Je viens de recevoir

Mes papiers militaires

Pour partir à la guerre

Avant mercredi soir

Monsieur le Président

Je ne veux pas la faire

Je ne suis pas sur terre

Pour tuer des pauvres gens

C'est pas pour vous fâcher

Il faut que je vous dise

Ma décision est prise

Je m'en vais déserter

Depuis que je suis né

J'ai vu mourir mon père

J'ai vu partir mes frères

Et pleurer mes enfants

Ma mère a tant souffert

Elle est dedans sa tombe

Et se moque des bombes

Et se moque des vers

Quand j'étais prisonnier

On m'a volé ma femme

On m'a volé mon âme

Et tout mon cher passé

Demain de bon matin

Je fermerai ma porte

Au nez des années mortes

J'irai sur les chemins

Je mendierai ma vie

Sur les routes de France

De Bretagne en Provence

Et je dirai aux gens:

Refusez d'obéir

Refusez de la faire

N'allez pas à la guerre

Refusez de partir

S'il faut donner son sang

Allez donner le vôtre

Vous êtes bon apôtre

Monsieur le Président

Si vous me poursuivez

Prévenez vos gendarmes

Que je n'aurai pas d'armes

Et qu'ils pourront tirer

In piena facoltà

egregio presidente

le scrivo la presente

che spero leggerà

la cartolina qui

mi dice terra terra

di andare a far la guerra

quest'altro Lunedì

Ma io non sono qui

egregio presidente

per ammazzar la gente

più o meno come me

io non ce l'ho con lei

sia detto per inciso

ma sento che ho deciso

e che diserterò

Ho avuto solo guai

da quando sono nato

e i figli che ho allevato

han pianto insieme a me

mia mamma e mio papà

ormai son sotto terra

e a loro della guerra

non gliene fregherà

Quand'ero in prigionia

qualcuno mi ha rubato

mia moglie, il mio passato

la mia migliore età

domani mi alzerò

e chiuderò la porta

sulla stagione morta

e mi incamminerò

Vivrò di carità

sulle strade di Spagna,

di Francia e di Bretagna

e a tutti griderò

di non partire più

e di non obbedire

per andare a morire

per non importa chi

Per cui se servirà

del sangue ad ogni costo

andate a dare il vostro

se vi divertirà

e dica pure ai suoi

se vengono a cercarmi

che possono spararmi

io armi non ne ho

(Traduzione di G. Calabrese)

Note:

La version initiale des 2 derniers vers était:

"que je tiendrai une arme ,

et que je sais tirer ..."

Boris Vian a accepté la modification de son ami Mouloudji pour conserver le côté pacifiste de la chanson !

Nota:

La versione iniziale degli ultimi due versi era:

"che impugnerò un fucile

e che so sparare..."

Boris Vian accettò la modifica proposta dal suo amico Mouloudji, per conservare lo spirito pacifista della canzone

I am a dangerous woman

(1980)

I am a dangerous woman

Carrying neither bombs nor babies

Flowers nor molotov cocktails.

I confound all your reason, theory, realism

Because I will neither lie in your ditches

Nor dig your ditches for you

Nor join your struggle

For bigger and better ditches.

I will not walk with you nor for you,

I won't live with you

And I won't die for you

But neither will I try to deny you

Your right to live and die.

I will not share one square foot of this earth with you

While you're hell-bent on destruction

But neither will I deny that we are of the same earth,

Born of the same Mother

I will not permit

You to bind my life to yours

But I will tell you that our lives

Are bound together

And I will demand

That you live as though you understand

This one salient fact.

I am a dangerous woman

because I will tell you, sir,

whether you are concerned or not,

Masculinity has made of this world a living hell

A furnace burning away at hope, love, faith, and justice,

A furnace of My Lais, Hiroshimas, Dachaus.

A furnace which burns the babies

You tell us we must make.

Masculinity made Femininity

Made the eyes of our women grow dark and cold,

sent our sons - yes sir, our sons -

To War

Made our children go hungry

Made our mothers whores

Made our bombs, our bullets, our "Food for Peace,"

our definitive solutions and first strike policies

Yes sir

Masculinity broke women and men on its knee

Took away our futures

Made our hopes, fears, thoughts and good instincts

'irrelevant to the larger struggle.'

And made human survival beyond the year 2000

an open question.

Yes sir

And it has possessed you.

I am a dangerous woman

because I will say all this

lying neither to you nor with you

I am dangerous because

I won't give up, shut up, or put up

with your version of reality.

You have conspired to sell my life quite cheaply

And I am especially dangerous

Because I will never forgive nor forget

Or ever conspire

To sell yours in return.

Sono una donna pericolosa

(traduzione di Maddalene Crippa)

Sono una donna pericolosa

Non porto bombe nè bambini in grembo

Non porto fiori nè miscugli incendiari

Porto scompiglio nella tua ragione, nelle tue teorie,

nel tuo realismo

Perchè non giacerò nelle tue trincee

Nè scaverò trincee per te

Nè mi unirò alla tua lotta armata

Per trincee più belle e più grandi

Non camminerò con te nè per te,

Non vivrò con te, nè morirò per te

Ma neppure cercherò di negarti

Il tuo diritto a vivere e morire

Non dividerò con te neppure un centimetro di

questa terra

Finchè tu sei maledettamente proteso verso la distruzione

Ma neppure negherò che siamo fatti della stessa terra

nati dalla stessa Madre

non ti permetterò di legare la mia vita alla tua

Ma ti dirò che le nostre vite sono legate insieme

E esigerò che tu viva per comprendere

Questa cosa importante

[...]

Che sono una donna pericolosa

Perchè devi sapere, signore, che

Sono una donna pericolosa

Perchè non tacerò niente di tutto questo

Non colluderò con te

Non avrò fiducia in te nè ti disprezzerò

Sono pericolosa perchè non rinuncerò, non tacerò

Nè mi adatterò alla tua versione della realtà

Tu hai congiurato per svendere la mia vita

E io sono molto pericolosa

Perchè non potrò perdonare nè dimenticare

Nè mai congiurerò per svendere la tua

in cambio.

La minuscola valle del Cedron, in questi mesi d’inverno, è quasi un giardino: non è stretta fra polvere e lastre di tombe, c’è erba e qualche timido fiore. Resta però il cimitero di sempre, digradante verso la gola di Giosafat, ove si terrà, un giorno, il Grande Giudizio. Malgrado la storia e tante impietrite allusioni, Necropoli dei Profeti, Pilastro d’Assalonne, Tomba di Zaccaria, Cippo della Figlia di Faraone, traversare la valle, dal Getzemani alla città, è ancora angosciante: Gerusalemme, chiusa nelle sue mura in cima alla salita, è assediata dai morti, come se fosse lei la necropoli. Così parve a Gesù, negli ultimi giorni prima dello scontro, quando l’ostilità dell’establishment si andava facendo opprimente: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri imbiancati che all’esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece sono pieni d’ossa di morti e di ogni putredine… Fra i sepolcri più belli, sormontata da una piramide destinata a raccogliere i raggi di vita dal cielo, la tomba che la voce antica diceva di Zaccaria. Non è vero, ma serve a ricordare la minaccia del Galileo: cadrà su di voi tutto il sangue innocente sparso in terra, dal sangue del giusto Abele fino a quello di Zaccaria figlio di Barachia, che uccideste fra il santuario e l’altare. Valle di ricordi e di violenza, pietre macchiate, dicono, dal sangue di Giacomo e di Stefano: Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati… Valle di glorie passate e di nostalgie. Teatro, già allora, d’immemore prosopopea: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché innalzate i sepolcri dei profeti e ornate i monumenti dei giustidicendo: «Se fossimo stati ai tempi dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti e colmate la misura dei vostri padri! Gesù si sa morto, negli sguardi dei suoi avversari. Sente la tentazione del sepolcro, del cavo umido in cui rannicchiarsi per sempre, al riparo dalla luce troppo amara della propria parola. Gli altri, i vivi, amano celebrare il passato per assolversi, proclamare la propria innocenza quando non c’è più fomite a quel peccato. Esentarsi così dal vedere il sangue che scorre e trasferire la propria coscienza in un periodo ipotetico: se fossimo stati ai tempi dei nostri padri… La memoria immunizza? Gli improbabili celebratori credono nel progresso della virtù, pensano d’essere meglio dei loro antenati. Mentre in Gesù l’umanità è stanca, com’era stanco Elia il profeta, quando s’accasciò, scappando dal sangue fumante dei quattrocentocinquanta estatici preti di Baal, e disse: ora basta, o Signore, prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri (1 Re 19,4). Nessuno può dire dove sarebbe andato nei sandali dei suoi antenati. Gesù sapeva bene – invece – che i profeti erano morti ammazzati e che i figli di chi allora aveva il potere d’uccidere ce l’avevano ancora. Punto. Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti. Nell’oggi che commemora il passato, i posteri possono essere (barrare la casella): giusti guerrieri esploratori scienziati artisti patrioti; oppure: pentiti vinti compunti coscienti solidali. Non importa: celebrano e stanno bene. Inni e monumenti li innalzano per attestarsi fieri su barricate da cui nessuno più spara. Comme par hasard, sovente dalla parte in cui c’è da guadagnare qualcosa, un po’ come quella di chi zittì d’una lapide l’antico profeta, che non piaceva al re, alla corte, ai sacerdoti, alla gente. La vita associata è un gioco – suggeriva Johan Huizinga – le cui regole ammettono il baro (che le sfrutta per ingannare il pollo), ma non il guastafeste: colui che distrugge l’incanto, che rivela l’assurdo della situazione. Così, Gesù sarà ucciso, lì, a Gerusalemme. Così i suoi discepoli: io mando a voi profeti, sapienti e scribi: quanti ne ucciderete mettendoli in croce, quanti ne flagellerete…Matteo si compiace d’ambientare questi discorsi in vista delle tombe del Cedron, sapendo che oltre la gola di Giosafat, ad occidente delle mura, corre la stretta valle dell’Innom, la celebre ed aborrita Geenna, luogo per nulla ameno, abbandonato alle bestie che si nascondono fra le pietre e gli sterpi: serpenti, razza di vipere, come sfuggirete al castigo della Geenna? Matteo però non seppellisce Gesù in questa condanna. Egli solo ricorda che, allo spirare del suo Profeta, il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra tremò e le rocce si spaccarono; le tombe si aprirono e molti corpi dei santi che vi giacevano risuscitarono e dopo la risurrezione di lui uscirono dalle tombe, entrarono nella città santa e apparvero a molti(Mt 27,51-53). A Pasqua, la giustizia non resta ricordo, chiede, pretende di essere vita in una città di vivi. Ciò che mai avrebbero voluto gli uccisori dei santi, e con essi coloro che ne avevano addobbato i sepolcri.

Gerusalemme, Mercoledì delle Ceneri 2006

Questo articolo apparirà in I Martedì 241 - Marzo 2006, numero contenente il Dossier sui temi politici: "1946-2006: Nodi alla meta".

L'immagine è presa dal sentiero che dalle alture del monte degli Ulivi scende verso la valle del Cedron. Dal sito Archeogate.

Caro m'è ‘l sonno e più l'esser di sasso

mentre che il danno e la vergogna dura

non veder, non sentir m'è gran ventura

però non mi destar, deh parla basso

Così Michelangelo rispose a un sonetto di elogio della statua, scritto da Giovan Battista Strozzi, che si concludeva con il verso «déstala, se noi credi, e parleratti».

La statua è una figura della tomba di Giuliano de' Medici, nella Sagrestia nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze. rappresenta allegoricamente la Notte


El alma tenias Un'anima tu avevi

El alma tenias

tan clara y abierta,

que yo nunca pude

entrarme en tu alma.

Busqué los atajos

angustos, los pasos

altos y difficiles...

A tu alma se iba

por caminos anches.

Preparé alta escala

- sonaba altos muros

guardàndote el alma-,

pero el alma tuya

estaba sin guarda

de tapíal ni cerca.

Te busqué la porta

estrecha del alma,

pero no teneba,

de franca que era,

entradas tu alma.

En dónde empezaba?

Acàbaba, en dònde ?

Me quedè por siempre

sentado en las vagas

lindes de tu alma.

Un'anima tu avevi

cosi chiara ed aperta

ch'io non potetti mai

nella tua anima entrare.



Andavo in cerca di aditi angusti,

d'alti e difficili passaggi...

Si andava alla tua anima

per aperti cammini.



Preparai un'alta scala

- sognavo di alte mura

che le fossero a guardia -,

però l'anima tua

era senza riparo

di muri e di recinti.



E ricercai la stretta porta

della tua anima,

ma non aveva accessi,

così franca com'era,

la tua anima.



Dov'è che cominciava?

Dov'è che aveva termine?

E rimasi per sempre seduto

sulle vaghe frontiere della tua anima.

La prima volta che ci si viene, se si sta pochi giorni, conviene limitarsi al centro storico. È bello, e abbastanza conservato, nonostante qualche goffagine (presente in tutte le città del mondo) L’impatto con la vita moderna è stato risolto, nei decenni passati, con qualche intelligenza: basta quardare ai grandi spazi verdi dei viali, alla pensilina rotonda di Piazza dell’uomo di ferro, e ai bellissimi tram veloci. Qui per vedere le foto

Sabratha ci presenta resti archeologici di produzione fenicia (il mausoleo) e antico romana (il circo, il teatro, le terme sul mare con tanto di latrine ornate non meno delle altre opere. Fotografie riprese nel maggio 2000; anche testimonianze di igiene antica e di moderna schifezza. Qui la galleria di immagini

Un villaggio tranquillo in una baia piacevole, con piccoli alberghi ed appartamenti in affitto e molti piccoli ristoranti e piacevoli caffe’. Benchè sia stato molto trasformato dal torrismo (con pesanti correzioni di sile: importando quello delle più "fortunate" isole dell'Egeo) conserva ancora presenze e testimonianze cretesi. Non ci sono automobili, nonostante qualche scellerato tetativo di costruire una strada carrozzabile.

Cliccare qui per vedere le foto ed altre informazioni su Loutro

Alcune immagini, scattate alla fine dell'aprile 2000.Cliccare qui per vedere le foto

If thou must love me, let it be for nought

Except for love's sake only. Do not say

I love her for her smile--her look--her way

Of speaking gently,--for a trick of thought

That falls in well with mine, and certes brought

A sense of ease on such a day--

For these things in themselves, Beloved, may

Be changed, or change for thee,--and love, so wrought,

May be unwrought so. Neither love me for

Thine own dear pity's wiping my cheek dry,--

A creature might forget to weep, who bore

Thy comfort long, and lose thy love thereby!

But love me for love's sake, that evermore

Thou may'st love on, through love's eternity.

Se devi amarmi per null'altro sia

Che per amore. Mai non dire

"L'amo per il suo sorriso – il suo sguardo - il suo modo

Gentile di parlare - per il suo modo di pensare

Che si accorda a mio e che un giorno

Mi resero sereno". Mio amato, queste cose,

Possono in sè mutare o mutare per te. – E così fatto

Un amore può sfarsi. E ancora non amarmi

Per la pietà che le mie guance asciuga., -

Può scordare il pianto chi ebbe

Il tuo conforto a lungo, e può perdere il tuo amore!

Amami solo per amore dell'amore,

che cresca in te, in un eternità d'amore.

A word is dead

A word is dead

When it is said,

Some say.

I say it just

Begins to live

That day

Nelle motivazioni l'UNESCO sottolinea la caratteristica struttura della città antica Un esempio classico di zonizzazione verticale: al piano terra le mercanzie e gli uomini, al primo piano la vita familiare, sulle terrazze le donne..

Una delle sette piazze

Ghadames è una delle principali città del deserto, l’antica porta verso il Sahara e l’Africa nera, luogo di transito delle carovane che portavano spezie e schiavi, avorio e metalli preziosi dalle regioni dell’Africa centrale verso i porti del Mediterraneo. Di grande interesse è l’antica città carovaniera, ora quasi completamente disabitata, i suoi anditi bui e freschi, le sue piccole piazze aperte al sole, i suoi orti annidati tra case e muri. Dicono che originariamente fosse la sede di sette (o cinque) tribù, ciascuna delle quali aveva una parte della città, una porta e una piazza.

Oggi la città antica è completamente vuota, poichè la popolazione è stata trasferita nella nuova città costruita attorno all'antica. Ci sono andato nel 2000 e ho fatto un po' di fotografie. Sono raccolte in questa cartella

Di grandissimo fascino è affacciarsi sulle dune del deserto, al di là dell’ultimo mitico avamposto della conquista romana, dove il tramonto sugli spazi smisurati delle colline di sabbia ha suggestioni di cui la fotografia restituisce solo una lontana eco.

Leptis Magna è una grandissima città costiera, sorta nell'età fenicia e sviluppata nell’età augustea, abbellita dall’ Imperatore Settimio Severo (nato in quella città), seppellita dalla sabbia portata dal fiume dopo la distruzione dei Vandali, riscoperta di francesi per estrarne colonne e pietre per costruire Versailles, e poi sistematicamente scavata e messa in valore dagli italiani negli anni Trenta. È tra i siti protetti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.

Secondo Sapere Leptis Magna "è il sito archeologico più esteso e affascinante della Libia, ma anche quello meglio conservato di tutto il Mediterraneo. La città nacque come porto fenicio verso l'anno 1000 a.C. grazie alla sua posizione strategica, che consentiva un facile accesso al mare, e alla presenza della foce del fiume Lebdan. Dopo essere stata in guerra contro i Greci di Cirene si arrese alla dominazione Romana. Fu la città natale di Settimio Severo che, divenuto imperatore di Roma, volle trasformarla in una sontuosa citta imperiale. Fece cosi costruire numerosi ed imponenti edifici pubblici, tra cui l'arco quadrifronte posto all'ingresso di Leptis, la via Colonnata, il Porto, le Terme della Caccia, i grandi Templi attorno al Vecchio Foro, che si aggiunsero al Teatro, al Mercato e alle Grandi Terme Adrianee. La città si ampliò tanto da gareggiare in splendore con la stessa Roma e venne definita la "Roma d'Africa". In seguito Leptis Magna venne sommersa dalla sabbia portata dal wadi Ledban per un errore di costruzione del porto. Solo agli inizi del XX secolo, durante degli scavi, la "Città delle ombre bianche", come venne definita dagli arabi, riemerse in tutto il suo splendore".

Foto scattate nell'aprile del 2001 da Edoardo Salzano.

I ciottoli nascondono una falda d'acqua dolce, e delimitano un'acqua chiarissima. Alcuni appassionati vi restano settimane, altri vi arrivano a piedi o in battello per la giornata. Pochi gli indumenti, numerose le capre, eccezionali le oche.

Per vedere le foto e altre informazioni (in inglese) su Glykanera

Sulla spiaggia riservata

le suorine

mostrano biancori

stupefatti.

Tocca al maestrale

togliere d’imbarazzo

il mare.

Troppo chiuso in sé e indifferente d'altro ed aspro era il carattere della vecchia gente di ***. Alla pressione delle pullulanti intorno genti italiane non resse, e presto imbastardì. La città s'era arricchita ma non seppe più il piacere che dava ai vecchi il parco guadagno sul frantoio o sul negozio, o i fieri svaghi della caccia ai cacciatori, quali tutti loro erano un tempo, gente di campagna, piccoli proprietari, anche quei pochi che avevano da fare con il mare e il porto. Adesso invece li premeva il modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio, lì sulla stretta Aurelia stipata di macchine scappottate e roulottes, e loro in mezzo tutto il tempo, finti turisti, o congenitamente sgarbati dipendenti dell'"industria alberghiera".Ma sotto mutate forme, l'operosa e avara tradizione rurale durava ancora nelle dinastie tenaci dei floricoltori, che in anni di fatiche familiari accumulavano lente fortune; e l'alacrità mercantile nel ceto mattiniero dei fioristi. Tutti i nativi godevano vantavano diritti di privilegiati; ed il vuoto sociale formatosi al basso attraeva, dai popolosi giacimenti di mano d'opera dell'estrema punta d'Italia le folle dei cupi calabresi, invisi ma convenienti di salario, sicché ormai una barriera quasi di razza divideva la borghesia dalle classi subalterne, come nel Mississippi, ma non impediva ad alcuni fra gli immigrati di tentare bruschi soprassalti di fortuna salendo alle dignità di proprietari o fittavoli e insidiando così anch'essi quei malcerti privilegi.

Pochi guizzi negli ultimi cent'anni aveva avuto la gente rivierasca, passate le, generazioni mazziniane che credettero nel Risorgimento, forse mosse dalla nostalgia delle estinte autonomie repubblicane. Non le riebbero; l'Italia unita non piacque loro; e, disinteressandosene, brontolando contro le tasse, s'attaccarono più di prima allo scoglio, salvo a saltar di li nel Sud America, grande loro impero familiare, luogo delle corse giovanili e dello sfogo delle energie e dell'ingegno, per chi si trovasse a esuberarne. Sulle riviere s'attestarono gli inglesi, nei loro giardini. gente posata e individuale, tacitamente amica di persone e natura così scabre. Vicino, la Francia indorava Nizza, riempiendo questa riva d'invidia. Era ormai nata la civiltà del turismo, e la striscia della costa prosperò, mentre l'entroterra immiseriva e prendeva a spopolarsi. Il dialetto divenne più molle, con cadenze infingarde; il noto intercalare osceno perse ogni violenza, assunse nel discorso una funzione riduttiva e scettica cifra d'indifferenza e sufficienza. Ma in tutto questo si poteva ancora riconoscere un'estrema difesa dell'atavico nerbo morale, fatto di sobrietà e ruvidezza ed understantemrnt, una difesa che era soprattutto uno scrollar di spalle, un negarsi. (Non dissimile l'atteggiamento poi espresso da una generazione di poeti rivieraschi, in versi e prose di pietrosa essenzialità che passarono ignoti ai conterranei e celebrati e malcompresi dalla letteratura dei fiorentini). Dominante il fascismo, s'accentuò - pur essendo già ben nota - l'estraneità dello Stato, mentre la cosmopoli degli ibernanti stranieri cedé, tra le due guerre, a un primo sedimentarsi di genti pan-italiane, nelle classi alte e nelle basse.

Ora, dopo la seconda guerra mondiale, era venuta la democrazia, ossia l'andare ai bagni l'estate d'intere cittadinanze. Una parte d'Italia, dopo un incerto quinquennio o giù di lì, ora aveva il benessere, un benessere sacrosantamente basato sulla produzione industriale, ma pur sempre difforme e disorganico data l'economia nazionale squilibrata e contraddittoria nella distribuzione geografica del reddito e sperperatrice nelle spese generali e nei consumi; però, insomma, sempre era benessere, e chi ce l'aveva poteva dirsi contento. Quelli che più potevano dirsi contenti (e non si dicevano tali, credendo fosse loro dovuto molto di più, che invece o non meritavano o non era né possibile né, giusto che avessero) dai centri industriali del Nord tendevano a gravitare sulla Riviera e particolarmente su ***. Erano proprietari di piccole industrie indipendenti (se alimentari o tessili) o subfornitrici d'altre più grandi (se chimiche o meccaniche), dirigenti aziendali, direttori di banca, capiservizio amministrativi cointeressati agli utili, titolari di commerciali, operatori di borsa, professionisti affermati, proprietari di cinema, negozianti, esercenti, tutto un ceto intermedio tra i detentori dei grossi pacchetti azionari ed i semplici impiegati e tecnici, un ceto cresciuto al punto da costituire nelle grandi città delle vere e proprie masse, la gente insomma che poteva acquistare in contanti o ratealmente un alloggio al mare (oppure affittarlo per stagioni o annate intere, ma questo era meno conveniente) e anche che aveva voglia di farlo, aspirando a vacanze relativamente sedentarie (non per esempio a grandi viaggi o cose estrose) che poi con la macchina si potevano movimentare vertiginosamente, perché in un salto si poteva andare a prendere l'aperitivo in Francia. Ormai a *** i ricchissimi venivano solo di passata, in corsa tra un Casinò e l'altro, e nello stesso modo veloce ci venivano gli operai delle grandi industrie, in “lambretta”, a ferragosto, con le mogli in pantaloni cariche dello zaino sul sedile posteriore, a fare il bagno stipati nelle esigue strisce di spiaggia, ripartendo poi per pernottare nelle pensioni più economiche d'altre località della costa. Più a lungo si fermava l'esercito sterminato delle dattilografe e impiegate contabili in shorts che occupava le pensioni locali con dietro il codazzo della gioventù studiosa o ragioniera, gloria dei dancings.

Ma questo era solo per lo stretto tempo delle ferie: la colonia stabile di *** era costituita da quel ceto medio-borghese che s'è detto, abitatore d'agiati appartamenti nelle proprie città e che qui tale e quale riproduceva (un po' più in piccolo; si sa, si è al mare) gli stessi appartamenti negli stessi enormi isolati residenziali e la stessa vita automobilistico-urbana. In questi appartamenti ai mesi freddi venivano a svernare i vecchi: genitori, nonni, suoceri, che prendevano il sole di mezzogiorno sulle passeggiate a mare come già quarant'anni prima i granduchi russi tisici e i milord. E alla stagione in cui un tempo i milord e le granduchesse lasciavano la Riviera e si spostavano nelle ombrose Karlsbad e Spa per la cura delle acque, ora negli appartamenti balneari ai vecchi davano il cambio le signore coi bambini e per i mariti occupatissimi cominciava la corvée delle gite tra sabato e domenica.

Era una folta Italia in tailleur, in doppiopetto, l'Italia ben vestita e ben carrozzata, la meglio vestita popolazione d'Europa, quale contrasto per le vie di * * * con le comitive goffe e antiestetiche dei tedeschi inglesi svizzeri olandesi o belgi in vacanza collettiva, donne e uomini di variegata bruttezza, con certe brache al ginocchio, coi calzini nei sandali o con le scarpe sui piedi nudi, certe vesti stampate a fiori, certa biancheria che sporge, certa carne bianca e rossa, sorda al buon gusto e all'armonia anche nel cambiar colore. Queste falangi straniere che, avide di bagni fuori stagione, prenotavano alberghi interi succedendosi in turni serrati da aprile a ottobre (ma meno in luglio e agosto, quando gli albergatori non concedono sconti alle comitive) erano viste dagli indigeni con una sfumatura di compatimento, al contrario di come una volta si guardava il forestiere, messaggero di mondi più ricchi e civilmente provveduti. Eppure, a incrinare la facile alterigia dell'italiano ben messo, disinvolto, lustro, esteriormente aggiornato sull'America, affiorava il senso severo delle democrazie del Nord, il sospetto che in quelle ineleganti vacanze si muovesse qualcosa di più solido, di meno provvisorio, civiltà abituate a concludere di più, il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una facile vernice sull'Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d'emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerovestiti: sospetti fugacissimi, che conviene scacciare in meno d'un secondo.

A Quinto tutti questi sentimenti insieme, ed un tardivo culto della rustica fierezza delle generazioni antiche (che la memoria del padre da poco morto, vecchio da poter essergli stato nonno, tipico superstite di quel ceppo, gli avvicinava) rendeva vieppiù estranea la *** d'oggi. Ma al solito volendo contrastare se stesso (in una scherma dove ormai non si sapeva più che cosa di lui fosse autentico e cosa coartato) si persuadeva che proprio la nuova borghesia degli alloggetti a *** fosse la migliore che l'Italia potesse esprimere.

Intruppato in questa folla civile, realizzatrice, adultera, soddisfatta, cordiale, filistea, familiare, bemportante, ingurgitante gelati, tutti in calzoncini e maglietta, donne uomini bambini giovanetti nell'assoluta parità delle età e dei sessi, in questo fiume pingue e superficiale sull'accidentata realtà italiana, Quinto si disponeva a passare l'estate a ***.

Dedicata al mondo femminile, che investe di sé tutto il clima di questa edizione della biennale, la bella mostra di Kiki Smith è ottimamente allestita alla Fondazione Querini Stampalia per la cura di Chiara Bertola. Le stanze espositive si susseguono come fossero i luoghi di una fantastica abitazione completamente reinventata dall'artista in quella che è titolata Homespun tales: «storie di occupazione domestica» che si dipanano scorrevoli dalle opere all'ambiente, completamente allestito in funzione del «racconto» che vi scorre all'interno. La suggestione per questi lavori è derivata a Kiki Smith dalla collezione di ritratti conservata negli altri piani di Casa Querini: ritratti per lo più femminili dovuti al settecentesco pennello, pianamente borghese e attento osservatore della quotidianità domestica, di Pietro Longhi. L'artista americana mescola le carte e aggiunge il suo proprio ricordo del New Jersey ormai lontano, fantastico e favolistico come queste stanze, decorate a stencil, e la «cucina» dal grande tavolo ligneo con brocche e terraglie e altri strumenti manuali e bambole di pezza e vasetti poveri con fiori umili (ma come capitato per caso, spunta l'invito di una recente personale di Luigi Ontani, un meditato omaggio all'amico, il quale è ritratto proprio nelle vesti dell'Eroe dei due Mondi). È dunque un universo domestico, dove le protagoniste sono intente a occupazioni tradizionalmente femminili, intese nel senso più nobile, e concentrate in un mondo tutto loro (e nostro), che custodiscono gelosamente come piccole «vestali» o «lari». A questo circolo eletto ogni donna può sentirsi a ragione di appartenere, nella installazione filtra un messaggio muto, pacato, ma fortissimo, quasi ancestrale, di riappropriazione-riaffermazione della identità femminile. Ci sono figure di donne - in candido bisquit - collocate sul grandissimo tavolo da pranzo, altre che «occupano» in ranghi sparsi il pavimento, altre ancora più grandi che conducono alla camera da letto (tutti i mobili sono stati costruiti pezzo a pezzo dall'artista) e tutte ci parlano di un mondo matrilineare, occulto e intangibile. Anche il lavoro di Pipilotti Rist, (chi ha dimenticato la leggiadramente vandalica fanciulla per le strade di Zurigo con un fiore di kniphofia come clava in Ever is Over All ?) ci cattura in un universo esclusivamente dedicato a un unico genere: l'impatto emozionale, all'entrare nella seconda «sede» del padiglione svizzero nella chiesa di San Stae, è fortissimo. I visitatori si stendono liberamente sui grandi materassi multicolore sparsi per il pavimento dell'unica navata mentre in alto, sulla volta, appare il più grande, complesso e caleidoscopico «sfondato» della storia artistica. È un affresco tecnologico sofisticato che sdoppia e raddoppia e moltiplica le immagini di quattro proiezioni simultanee nelle quali si dipana la storia infinita di un paradiso terrestre di cielo, acque limpide, vegetazione rigogliosa abitato da una Eva originata dal caos primigenio e sdoppiatasi in una sua gemella/sosia, entrambe felicemente innocenti. Figura femminile archetipica (l'iconografia suggerisce i corpi femminili dei pittori fiamminghi e tedeschi) Eva e la sua doppia non si sottraggono alla minuziosa esplorazione della telecamera tanto ravvicinata che, ad un certo punto, la volta è interamente occupata da un unico occhio, quasi «l'occhio di Dio» (ma di genere femmile, una «grande madre» soccorrevole, mai giudice...) mentre in una divertente inquadratura successiva i capezzoli sono immensi fragoloni rosa decorativi. Le due Eve si muovono libere, in armonia con la natura, ma il «memento mori» calvinista è in agguato e viene simboleggiato, come nella migliore tradizione pittorica, nell'infradiciarsi dei frutti, pomi succosi che, stretti tra le mani o spappolati sotto i piedi ci rendono consapevoli della vanità delle cose (e il maschio è avvertito con sadica ironia: anche i suoi attributi virili, sorretti dolcemente tra le mani in una brevissima sequenza, potrebbero fare la stessa fine). Il suono, come è avvenuto per altri lavori, è accuratamente composto per le immagini e dunque in questo Homo sapiens sapiens (2005) è seducente e rilassante, ricordando la musica new age.

La personale di Karen Kilimnik, ancora un'artista americana, alla Fondazione Bevilacqua la Masa (palazzetto Tito), per la cura di Angela Vettese, ci introduce all'interno di una diversa ricostruzione della «casa»: si tratta di «scenografia» più che di un luogo della memoria o di un «rifugio» intimo e privato. Il décor è fatto di tende sontuose, seggioline dorate (eleganti?), carta azzurra da parati del salotto buono e poi una profusione di ninnoli e chincaglieria ovunque, in un concreto rimando alla pittura. Kilimnik è attirata dalla finzione, la sua pittura è tutta una «mise en scène» perfetta e inquietante, a tratti quasi sinistra, come se da un momento all'altro calasse il sipario. E il gioco dei rimandi, degli ossimori trapassa di stanza in stanza, di lavoro in lavoro, nell'esercizio magistrale di una consapevole citazione.


Residuo Residuo
Residuo

Carlos Drummond de Andrade

Di tutto è rimasto un poco,

Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa

è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce

captata nel cappello.

Negli occhi del ruffiano

è restata un po' di tenerezza

(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere

che ti coprì le scarpe

bianche. Pochi panni sono rimasti,

pochi veli rotti,

poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.

Del ponte bombardato,

delle due foglie d'erba,

del pacchetto

- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.

È rimasto un po' del tuo mento

nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio

un poco è rimasto, un poco

sui muri infastiditi,

nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto

nel piattino di porcellana,

drago rotto, fiore bianco,

di rughe sulla tua fronte,

ritratto.

Se di tutto resta un poco,

perché mai non dovrebbe restare

un po' di me? Nel treno

che porta a nord, nella nave,

negli annunci di giornale,

un po' di me a Londra,

un po' di me in qualche dove?

nella consonante?

nel pozzo?

Un poco resta oscillando

alla foce dei fiumi

e i pesci non lo evitano,

un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.

Non molto: da un rubinetto

stilla questa goccia assurda,

metà sale e metà alcool,

salta questa zampa di rana,

questo vetro di orologio

rotto in mille speranze,

questo collo di cigno,

questo segreto infantile...

Di ogni cosa è rimasto un poco:

di me; di te; di Abelardo.

Un capello sulla mia manica,

di tutto è rimasto un poco;

vento nelle mie orecchie,

rutto volgare, gemito

di viscere ribelli,

e minuscoli artefatti:

campanula, alveolo, capsula

di revolver... di aspirina.

Di tutto è rimasto un poco.

E di tutto resta un poco.

Oh, apri i flacone di profumo

e soffoca

l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,

e sotto le onde ritmate,

e sotto le nuvole e i venti

e sotto i ponti e sotto i tunnel

e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo

e sotto il muco e sotto il vomito

e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato

e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto

e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti

e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi

e sotto i cardini della famiglia e della classe,

rimane sempre un poco di tutto.

A volte un bottone. A volte un topo.

(traduzione di Antonio Tabucchi)

De tudo ficou um pouco.

Do meu medo. Do teu asco.

Dos gritos gagos. Da rosa

ficou um pouco.

Ficou um pouco de luz

captada no chapéu.

Nos olhos do rufião

de ternura ficou um pouco

(muito pouco).

Pouco ficou deste pó

de que teu branco sapato

se cobriu. Ficaram poucas

roupas, poucos véus rotos

pouco, pouco, muito pouco.

Mas de tudo fica um pouco.

Da ponte bombardeada,

de duas folhas de grama,

do maço

- vazio - de cigarros, ficou um pouco.

Mas de tudo fica um pouco.

Fica um pouco do teu queixo

no queixo de tua filha.

De teu áspero silêncio

um pouco ficou, um pouco

nos muros zangados,

nas folhas, mudas, que sobem.

Ficou um pouco de tudo

no pires de porcelana,

dragão partido, flor branca,

de ruga na vossa testa,

retrato.

Se de tudo fica um pouco,

mas por que não ficaria

um pouco de mim? no trem

que leva ao norte, no barco,

nos anúncios de jornal,

um pouco de mim em Londres,

um pouco de mim algures?

na consoante?

No poço?

Um pouco fica oscilando

na embocadura dos rios

e os peixes não o evitam.

um pouco: não está nos livros.

De tudo fica um pouco.

Não muito: de uma torneira

pinga esta gota absurda,

meio sal e meio álcool,

salta esta perna de rã,

este vidro de relógio

partido em mil esperanças,

este pescoço de cisne,

este segredo infantil...

De tudo ficou um pouco

de mim; de ti; de Abelardo.

Cabelo na minha manga,

de tudo ficou um pouco;

vento nas orelhas minhas,

simplório arroto, gemido

de víscera inconformada,

e minúsculos artefatos:

campânula, alvéolo, cápsula

de revólver... de aspirina.

De tudo ficou um pouco.

E de tudo fica um pouco.

Oh abre os vidros de loção

e abafa

o insuportável mau cheiro da memória.

Mas de tudo, terrível, fica um pouco,

e sob as ondas ritmadas,

e sob as nuvens e os ventos,

e sob as pontes e sob os túneis

e sob as labaredas e sob o sarcasmo

e sob a gosma e sob o vômito

e sob o soluço, o cárcere, o esquecido

e sob os espetáculos e sob a morte de escarlate

e sob as bibliotecas, os asilos, as igrejas triunfantes

e sob tu mesmo e sob teus pés já duros

e sob os gonzos da família e da classe,

fica sempre um pouco de tudo.

Às vezes um botão. Às vezes um rato.

Gli estatici paesaggi, i cavalli, gli elementi vegetali, i ritratti, le cattedrali, la Giudecca e gli altri temi ricorrenti hanno la medesima essenzialità di visione, una stessa commistione di elementi astratti e geometrie naturali, con variazioni tonali e cromatiche in funzione antinaturalista. Una pittura meditativa, che vive di lievi e modulate vibrazioni luministiche, di bianchi calcarei, come calcinati al sole, di neri fumosi e riarsi, di forme sfumate in atmosferiche dissolvenze. I contorni si sfrangiano e ricostituiscono in una spazialità riassorbita da fondali monocromi, luminosi alla maniera dei fondi oro bizantini e tardo gotici; travasano senza soluzione di continuità nelle fitte trame segniche che screziano le superfici o, ancora, s’infondono nelle velature trasparenti d’una gamma coloristica parca e di calibrata intensità: grigi lavici, terre bruciate, ocre, gialli ambra, verdi malva, rosa spenti, pallidi cobalti.

Tutto converge nell’unità poetica dell’immagine, nell’eco di remote memorie e di più recenti suggestioni: plastica etrusca, pitture rupestri e dei monasteri serbi, icone ortodosse, ricordi di Daumier e Klee, impressioni dei mosaici di Ravenna e Venezia in una sincronia di fonti, nella pacificazione del dualismo tra Oriente e Occidente, che è tra le altissime risultanze dell’arte di Music.

Anton Zoran Music nasce nel 1909 a Gorizia, all’epoca città sotto il dominio austro-ungarico. Nel 1922 segue la famiglia in Austria, dove realizza i primi disegni. Tra il 1930 e il 1935 frequenta l’Accademia di Belle Arti a Zagabria, allievo del pittore croato Babic, formatosi presso Von Stuck a Monaco.

Sempre nel 1935, conclusi gli studi, soggiorna a Madrid e a Toledo. L’anno seguente risiede in Dalmazia. Partecipa a due mostre collettive a Zagabria e Lubiana (1941-1942). In seguito all’occupazione italiana di territori dalmati e sloveni, rientra a Gorizia. Nel 1943 espone a Trieste (Galleria De Crescenzo) e alla Piccola Galleria di Venezia. Nel 1944 le SS lo deportano a Dachau, dove disegna in una febbrile e segreta attività le vittime dell’Olocausto. Raffigura grovigli di membra, scarni corpi trasportati a braccia, frutto dell’ “incredibile frenesia di disegnare... come in trans, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta... accecato dall’allucinante morbosità di questi campi di cadaveri... irresistibile necessità... per non farmi sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza”.

Dall’aprile del 1945 è libero. Torna a Venezia, dove dipinge i primi Cavallini, che diverrano un soggetto tipico, assieme alle serie delle Zattere e di San Marco. Nel 1948 espone a Venezia (Biennale) e a Roma (Galleria l’Obelisco). Kokoschka visita più volte il suo studio, molto frequentato anche da Campigli. Vende diversi dipinti alla contessa Pecci-Blunt e alla principessa Caetani (sue collezioniste). Soggiorna spesso in Svizzera, specie a Zurigo e vi esegue le prime litografie (1948), incide per la prima volta a puntasecca nel 1949 a Venezia (le più antiche acqueforti risalgono invece al 1955). Vince, assieme a Corpora, il Premio Parigi per la pittura (1951), esponendo quindi alla Galérie de France a Parigi (1952), con la quale stipula un contratto che gli consente di stabilirsi nella città francese (1953). In questo periodo si afferma professionalmente. Ha uno studio a Montparnasse, un altro presso l’Accademia di Venezia; si fa conoscere a New York (1953-1954), Londra e partecipa alla Quadriennale romana con una sala personale (1955). Ottiene il Premio della Grafica alla Biennale Internazionale di Venezia (1956), alla Biennale di Lubiana (1957) e il Premio UNESCO alla Biennale veneziana (1960). Nel frattempo incrementa l’attività d’incisore e, più tardi, di litografo.

Nel 1962 viene pubblicato il catalogo completo dei suoi disegni dal 1947 al 1961, anno peraltro cui risale l’avvio di una produttiva collaborazione con il gallerista Ugo Meneghini. Vanno citate le ampie retrospettive svoltesi a Parigi (1972), Darmstadt (1977), Venezia (1980), con particolare menzione delle mostre “Music opere” 1946-1985, Venezia, Ala Napoleonica e Museo Correr (1985) e “Zoran Music” all’Accademia di Francia in Roma (1992).

da: http://www.sipleda.it/inside.asp?id=362

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