Se chiamo
non vengono i miei morti
ma il treno si è fermato nel tramonto
fuori solo grilli e campi
e a un tratto
come da lontano una balera
un tango.
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Arrivavano all’alba
dalle campagne
il viso segnato dal sole
le mani nodose
e stavano ore
nere
in piedi
sulla piazza del mercato.
L’una era l’ora più vuota
contavano chine le uova invendute
le calze di seta svanite.
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Il paese era tutto un rammendo
ricambi di colli e polsini
giacche lise da rivoltare
un continuo disfare
vecchie vite
fianchi
corpetti ormai sfatti
e lei usciva da una scuola di taglio.
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A un mese
era stata colpita dalla polio.
Giorni e giorni ha passato sul balcone
sulle panchine della stazione
al parco delle scuole.
Mai riusciva ad arrivare
dove muore l’argine.
È rimasta ad aiutare in casa
ha curato la bambina di sua sorella.
Giocava di nascosto
una lira una cartella
con le vecchie della tombola
in una stanza buia
il muro annerito dalle stufe
lei nella luce.
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A Messa andava all’alba
chiusa nella spilla da balia
sul cuore il taschino degli aghi
la stanza ingombra di pizzi
di sete
di rasi
una nuvola bianca
con punte di rosa
in un vicolo scuro
tutti veli da sposa.
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Li cuciva sul rovescio
intere notti
curva sulla Singer a pedali
i palloncini a spicchi dei mercati
che nessuno da bambina le comprava
e lei lì a fissarli
come per portarli tutti a casa
gialli verdi rossi.
Le hanno consumato gli occhi.
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Persino le rosette
che sua madre portava dall’età di cinque anni
erano andate a suo fratello
e a sua cognata.
Lei non è tornata
a casa quella notte.
All’alba
sedeva ancora
muta
composta
in sala d’aspetto
di terza classe.
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Un fazzoletto in testa
uno più grande in mano
quattro capi
due nodi
i tagli dei geloni
e i sogni
caldi come le stagioni
sotto la neve.
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual'è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non e sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell'arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che m'importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.
Italo Calvino
Da: Le città invisibili, Einaudi
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Versione di Giorgio Melchiori, Einaudi
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Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perchè la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La massa ignora, perchè non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perchè mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917
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I am a dangerous woman
(1980)
I am a dangerous woman
Carrying neither bombs nor babies
Flowers nor molotov cocktails.
I confound all your reason, theory, realism
Because I will neither lie in your ditches
Nor dig your ditches for you
Nor join your struggle
For bigger and better ditches.
I will not walk with you nor for you,
I won't live with you
And I won't die for you
But neither will I try to deny you
Your right to live and die.
I will not share one square foot of this earth with you
While you're hell-bent on destruction
But neither will I deny that we are of the same earth,
Born of the same Mother
I will not permit
You to bind my life to yours
But I will tell you that our lives
Are bound together
And I will demand
That you live as though you understand
This one salient fact.
I am a dangerous woman
because I will tell you, sir,
whether you are concerned or not,
Masculinity has made of this world a living hell
A furnace burning away at hope, love, faith, and justice,
A furnace of My Lais, Hiroshimas, Dachaus.
A furnace which burns the babies
You tell us we must make.
Masculinity made Femininity
Made the eyes of our women grow dark and cold,
sent our sons - yes sir, our sons -
To War
Made our children go hungry
Made our mothers whores
Made our bombs, our bullets, our "Food for Peace,"
our definitive solutions and first strike policies
Yes sir
Masculinity broke women and men on its knee
Took away our futures
Made our hopes, fears, thoughts and good instincts
'irrelevant to the larger struggle.'
And made human survival beyond the year 2000
an open question.
Yes sir
And it has possessed you.
I am a dangerous woman
because I will say all this
lying neither to you nor with you
I am dangerous because
I won't give up, shut up, or put up
with your version of reality.
You have conspired to sell my life quite cheaply
And I am especially dangerous
Because I will never forgive nor forget
Or ever conspire
To sell yours in return.
Sono una donna pericolosa
(traduzione di Maddalene Crippa)
Sono una donna pericolosa
Non porto bombe nè bambini in grembo
Non porto fiori nè miscugli incendiari
Porto scompiglio nella tua ragione, nelle tue teorie,
nel tuo realismo
Perchè non giacerò nelle tue trincee
Nè scaverò trincee per te
Nè mi unirò alla tua lotta armata
Per trincee più belle e più grandi
Non camminerò con te nè per te,
Non vivrò con te, nè morirò per te
Ma neppure cercherò di negarti
Il tuo diritto a vivere e morire
Non dividerò con te neppure un centimetro di
questa terra
Finchè tu sei maledettamente proteso verso la distruzione
Ma neppure negherò che siamo fatti della stessa terra
nati dalla stessa Madre
non ti permetterò di legare la mia vita alla tua
Ma ti dirò che le nostre vite sono legate insieme
E esigerò che tu viva per comprendere
Questa cosa importante
[...]
Che sono una donna pericolosa
Perchè devi sapere, signore, che
Sono una donna pericolosa
Perchè non tacerò niente di tutto questo
Non colluderò con te
Non avrò fiducia in te nè ti disprezzerò
Sono pericolosa perchè non rinuncerò, non tacerò
Nè mi adatterò alla tua versione della realtà
Tu hai congiurato per svendere la mia vita
E io sono molto pericolosa
Perchè non potrò perdonare nè dimenticare
Nè mai congiurerò per svendere la tua
in cambio.
La minuscola valle del Cedron, in questi mesi d’inverno, è quasi un giardino: non è stretta fra polvere e lastre di tombe, c’è erba e qualche timido fiore. Resta però il cimitero di sempre, digradante verso la gola di Giosafat, ove si terrà, un giorno, il Grande Giudizio. Malgrado la storia e tante impietrite allusioni, Necropoli dei Profeti, Pilastro d’Assalonne, Tomba di Zaccaria, Cippo della Figlia di Faraone, traversare la valle, dal Getzemani alla città, è ancora angosciante: Gerusalemme, chiusa nelle sue mura in cima alla salita, è assediata dai morti, come se fosse lei la necropoli. Così parve a Gesù, negli ultimi giorni prima dello scontro, quando l’ostilità dell’establishment si andava facendo opprimente: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri imbiancati che all’esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece sono pieni d’ossa di morti e di ogni putredine… Fra i sepolcri più belli, sormontata da una piramide destinata a raccogliere i raggi di vita dal cielo, la tomba che la voce antica diceva di Zaccaria. Non è vero, ma serve a ricordare la minaccia del Galileo: cadrà su di voi tutto il sangue innocente sparso in terra, dal sangue del giusto Abele fino a quello di Zaccaria figlio di Barachia, che uccideste fra il santuario e l’altare. Valle di ricordi e di violenza, pietre macchiate, dicono, dal sangue di Giacomo e di Stefano: Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati… Valle di glorie passate e di nostalgie. Teatro, già allora, d’immemore prosopopea: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché innalzate i sepolcri dei profeti e ornate i monumenti dei giustidicendo: «Se fossimo stati ai tempi dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti e colmate la misura dei vostri padri! Gesù si sa morto, negli sguardi dei suoi avversari. Sente la tentazione del sepolcro, del cavo umido in cui rannicchiarsi per sempre, al riparo dalla luce troppo amara della propria parola. Gli altri, i vivi, amano celebrare il passato per assolversi, proclamare la propria innocenza quando non c’è più fomite a quel peccato. Esentarsi così dal vedere il sangue che scorre e trasferire la propria coscienza in un periodo ipotetico: se fossimo stati ai tempi dei nostri padri… La memoria immunizza? Gli improbabili celebratori credono nel progresso della virtù, pensano d’essere meglio dei loro antenati. Mentre in Gesù l’umanità è stanca, com’era stanco Elia il profeta, quando s’accasciò, scappando dal sangue fumante dei quattrocentocinquanta estatici preti di Baal, e disse: ora basta, o Signore, prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri (1 Re 19,4). Nessuno può dire dove sarebbe andato nei sandali dei suoi antenati. Gesù sapeva bene – invece – che i profeti erano morti ammazzati e che i figli di chi allora aveva il potere d’uccidere ce l’avevano ancora. Punto. Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti. Nell’oggi che commemora il passato, i posteri possono essere (barrare la casella): giusti guerrieri esploratori scienziati artisti patrioti; oppure: pentiti vinti compunti coscienti solidali. Non importa: celebrano e stanno bene. Inni e monumenti li innalzano per attestarsi fieri su barricate da cui nessuno più spara. Comme par hasard, sovente dalla parte in cui c’è da guadagnare qualcosa, un po’ come quella di chi zittì d’una lapide l’antico profeta, che non piaceva al re, alla corte, ai sacerdoti, alla gente. La vita associata è un gioco – suggeriva Johan Huizinga – le cui regole ammettono il baro (che le sfrutta per ingannare il pollo), ma non il guastafeste: colui che distrugge l’incanto, che rivela l’assurdo della situazione. Così, Gesù sarà ucciso, lì, a Gerusalemme. Così i suoi discepoli: io mando a voi profeti, sapienti e scribi: quanti ne ucciderete mettendoli in croce, quanti ne flagellerete…Matteo si compiace d’ambientare questi discorsi in vista delle tombe del Cedron, sapendo che oltre la gola di Giosafat, ad occidente delle mura, corre la stretta valle dell’Innom, la celebre ed aborrita Geenna, luogo per nulla ameno, abbandonato alle bestie che si nascondono fra le pietre e gli sterpi: serpenti, razza di vipere, come sfuggirete al castigo della Geenna? Matteo però non seppellisce Gesù in questa condanna. Egli solo ricorda che, allo spirare del suo Profeta, il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra tremò e le rocce si spaccarono; le tombe si aprirono e molti corpi dei santi che vi giacevano risuscitarono e dopo la risurrezione di lui uscirono dalle tombe, entrarono nella città santa e apparvero a molti(Mt 27,51-53). A Pasqua, la giustizia non resta ricordo, chiede, pretende di essere vita in una città di vivi. Ciò che mai avrebbero voluto gli uccisori dei santi, e con essi coloro che ne avevano addobbato i sepolcri.
Gerusalemme, Mercoledì delle Ceneri 2006
Questo articolo apparirà in I Martedì 241 - Marzo 2006, numero contenente il Dossier sui temi politici: "1946-2006: Nodi alla meta".
L'immagine è presa dal sentiero che dalle alture del monte degli Ulivi scende verso la valle del Cedron. Dal sito Archeogate.
Caro m'è ‘l sonno e più l'esser di sasso
mentre che il danno e la vergogna dura
non veder, non sentir m'è gran ventura
però non mi destar, deh parla basso
Così Michelangelo rispose a un sonetto di elogio della statua, scritto da Giovan Battista Strozzi, che si concludeva con il verso «déstala, se noi credi, e parleratti».
La statua è una figura della tomba di Giuliano de' Medici, nella Sagrestia nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze. rappresenta allegoricamente la Notte
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La prima volta che ci si viene, se si sta pochi giorni, conviene limitarsi al centro storico. È bello, e abbastanza conservato, nonostante qualche goffagine (presente in tutte le città del mondo) L’impatto con la vita moderna è stato risolto, nei decenni passati, con qualche intelligenza: basta quardare ai grandi spazi verdi dei viali, alla pensilina rotonda di Piazza dell’uomo di ferro, e ai bellissimi tram veloci. Qui per vedere le foto
Sabratha ci presenta resti archeologici di produzione fenicia (il mausoleo) e antico romana (il circo, il teatro, le terme sul mare con tanto di latrine ornate non meno delle altre opere. Fotografie riprese nel maggio 2000; anche testimonianze di igiene antica e di moderna schifezza. Qui la galleria di immagini
Un villaggio tranquillo in una baia piacevole, con piccoli alberghi ed appartamenti in affitto e molti piccoli ristoranti e piacevoli caffe’. Benchè sia stato molto trasformato dal torrismo (con pesanti correzioni di sile: importando quello delle più "fortunate" isole dell'Egeo) conserva ancora presenze e testimonianze cretesi. Non ci sono automobili, nonostante qualche scellerato tetativo di costruire una strada carrozzabile.
Cliccare qui per vedere le foto ed altre informazioni su Loutro
Alcune immagini, scattate alla fine dell'aprile 2000.Cliccare qui per vedere le foto
If thou must love me, let it be for nought
Except for love's sake only. Do not say
I love her for her smile--her look--her way
Of speaking gently,--for a trick of thought
That falls in well with mine, and certes brought
A sense of ease on such a day--
For these things in themselves, Beloved, may
Be changed, or change for thee,--and love, so wrought,
May be unwrought so. Neither love me for
Thine own dear pity's wiping my cheek dry,--
A creature might forget to weep, who bore
Thy comfort long, and lose thy love thereby!
But love me for love's sake, that evermore
Thou may'st love on, through love's eternity.
Se devi amarmi per null'altro sia
Che per amore. Mai non dire
"L'amo per il suo sorriso – il suo sguardo - il suo modo
Gentile di parlare - per il suo modo di pensare
Che si accorda a mio e che un giorno
Mi resero sereno". Mio amato, queste cose,
Possono in sè mutare o mutare per te. – E così fatto
Un amore può sfarsi. E ancora non amarmi
Per la pietà che le mie guance asciuga., -
Può scordare il pianto chi ebbe
Il tuo conforto a lungo, e può perdere il tuo amore!
Amami solo per amore dell'amore,
che cresca in te, in un eternità d'amore.
A word is dead
When it is said,
Some say.
I say it just
Begins to live
That day
Nelle motivazioni l'UNESCO sottolinea la caratteristica struttura della città antica Un esempio classico di zonizzazione verticale: al piano terra le mercanzie e gli uomini, al primo piano la vita familiare, sulle terrazze le donne..
Una delle sette piazze |
Ghadames è una delle principali città del deserto, l’antica porta verso il Sahara e l’Africa nera, luogo di transito delle carovane che portavano spezie e schiavi, avorio e metalli preziosi dalle regioni dell’Africa centrale verso i porti del Mediterraneo. Di grande interesse è l’antica città carovaniera, ora quasi completamente disabitata, i suoi anditi bui e freschi, le sue piccole piazze aperte al sole, i suoi orti annidati tra case e muri. Dicono che originariamente fosse la sede di sette (o cinque) tribù, ciascuna delle quali aveva una parte della città, una porta e una piazza.
Oggi la città antica è completamente vuota, poichè la popolazione è stata trasferita nella nuova città costruita attorno all'antica. Ci sono andato nel 2000 e ho fatto un po' di fotografie. Sono raccolte in questa cartella
Di grandissimo fascino è affacciarsi sulle dune del deserto, al di là dell’ultimo mitico avamposto della conquista romana, dove il tramonto sugli spazi smisurati delle colline di sabbia ha suggestioni di cui la fotografia restituisce solo una lontana eco.
Leptis Magna è una grandissima città costiera, sorta nell'età fenicia e sviluppata nell’età augustea, abbellita dall’ Imperatore Settimio Severo (nato in quella città), seppellita dalla sabbia portata dal fiume dopo la distruzione dei Vandali, riscoperta di francesi per estrarne colonne e pietre per costruire Versailles, e poi sistematicamente scavata e messa in valore dagli italiani negli anni Trenta. È tra i siti protetti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.
Secondo Sapere Leptis Magna "è il sito archeologico più esteso e affascinante della Libia, ma anche quello meglio conservato di tutto il Mediterraneo. La città nacque come porto fenicio verso l'anno 1000 a.C. grazie alla sua posizione strategica, che consentiva un facile accesso al mare, e alla presenza della foce del fiume Lebdan. Dopo essere stata in guerra contro i Greci di Cirene si arrese alla dominazione Romana. Fu la città natale di Settimio Severo che, divenuto imperatore di Roma, volle trasformarla in una sontuosa citta imperiale. Fece cosi costruire numerosi ed imponenti edifici pubblici, tra cui l'arco quadrifronte posto all'ingresso di Leptis, la via Colonnata, il Porto, le Terme della Caccia, i grandi Templi attorno al Vecchio Foro, che si aggiunsero al Teatro, al Mercato e alle Grandi Terme Adrianee. La città si ampliò tanto da gareggiare in splendore con la stessa Roma e venne definita la "Roma d'Africa". In seguito Leptis Magna venne sommersa dalla sabbia portata dal wadi Ledban per un errore di costruzione del porto. Solo agli inizi del XX secolo, durante degli scavi, la "Città delle ombre bianche", come venne definita dagli arabi, riemerse in tutto il suo splendore".
Foto scattate nell'aprile del 2001 da Edoardo Salzano.
I ciottoli nascondono una falda d'acqua dolce, e delimitano un'acqua chiarissima. Alcuni appassionati vi restano settimane, altri vi arrivano a piedi o in battello per la giornata. Pochi gli indumenti, numerose le capre, eccezionali le oche.
Per vedere le foto e altre informazioni (in inglese) su Glykanera
Sulla spiaggia riservata
le suorine
mostrano biancori
stupefatti.
Tocca al maestrale
togliere d’imbarazzo
il mare.
Troppo chiuso in sé e indifferente d'altro ed aspro era il carattere della vecchia gente di ***. Alla pressione delle pullulanti intorno genti italiane non resse, e presto imbastardì. La città s'era arricchita ma non seppe più il piacere che dava ai vecchi il parco guadagno sul frantoio o sul negozio, o i fieri svaghi della caccia ai cacciatori, quali tutti loro erano un tempo, gente di campagna, piccoli proprietari, anche quei pochi che avevano da fare con il mare e il porto. Adesso invece li premeva il modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio, lì sulla stretta Aurelia stipata di macchine scappottate e roulottes, e loro in mezzo tutto il tempo, finti turisti, o congenitamente sgarbati dipendenti dell'"industria alberghiera".Ma sotto mutate forme, l'operosa e avara tradizione rurale durava ancora nelle dinastie tenaci dei floricoltori, che in anni di fatiche familiari accumulavano lente fortune; e l'alacrità mercantile nel ceto mattiniero dei fioristi. Tutti i nativi godevano vantavano diritti di privilegiati; ed il vuoto sociale formatosi al basso attraeva, dai popolosi giacimenti di mano d'opera dell'estrema punta d'Italia le folle dei cupi calabresi, invisi ma convenienti di salario, sicché ormai una barriera quasi di razza divideva la borghesia dalle classi subalterne, come nel Mississippi, ma non impediva ad alcuni fra gli immigrati di tentare bruschi soprassalti di fortuna salendo alle dignità di proprietari o fittavoli e insidiando così anch'essi quei malcerti privilegi.
Pochi guizzi negli ultimi cent'anni aveva avuto la gente rivierasca, passate le, generazioni mazziniane che credettero nel Risorgimento, forse mosse dalla nostalgia delle estinte autonomie repubblicane. Non le riebbero; l'Italia unita non piacque loro; e, disinteressandosene, brontolando contro le tasse, s'attaccarono più di prima allo scoglio, salvo a saltar di li nel Sud America, grande loro impero familiare, luogo delle corse giovanili e dello sfogo delle energie e dell'ingegno, per chi si trovasse a esuberarne. Sulle riviere s'attestarono gli inglesi, nei loro giardini. gente posata e individuale, tacitamente amica di persone e natura così scabre. Vicino, la Francia indorava Nizza, riempiendo questa riva d'invidia. Era ormai nata la civiltà del turismo, e la striscia della costa prosperò, mentre l'entroterra immiseriva e prendeva a spopolarsi. Il dialetto divenne più molle, con cadenze infingarde; il noto intercalare osceno perse ogni violenza, assunse nel discorso una funzione riduttiva e scettica cifra d'indifferenza e sufficienza. Ma in tutto questo si poteva ancora riconoscere un'estrema difesa dell'atavico nerbo morale, fatto di sobrietà e ruvidezza ed understantemrnt, una difesa che era soprattutto uno scrollar di spalle, un negarsi. (Non dissimile l'atteggiamento poi espresso da una generazione di poeti rivieraschi, in versi e prose di pietrosa essenzialità che passarono ignoti ai conterranei e celebrati e malcompresi dalla letteratura dei fiorentini). Dominante il fascismo, s'accentuò - pur essendo già ben nota - l'estraneità dello Stato, mentre la cosmopoli degli ibernanti stranieri cedé, tra le due guerre, a un primo sedimentarsi di genti pan-italiane, nelle classi alte e nelle basse.
Ora, dopo la seconda guerra mondiale, era venuta la democrazia, ossia l'andare ai bagni l'estate d'intere cittadinanze. Una parte d'Italia, dopo un incerto quinquennio o giù di lì, ora aveva il benessere, un benessere sacrosantamente basato sulla produzione industriale, ma pur sempre difforme e disorganico data l'economia nazionale squilibrata e contraddittoria nella distribuzione geografica del reddito e sperperatrice nelle spese generali e nei consumi; però, insomma, sempre era benessere, e chi ce l'aveva poteva dirsi contento. Quelli che più potevano dirsi contenti (e non si dicevano tali, credendo fosse loro dovuto molto di più, che invece o non meritavano o non era né possibile né, giusto che avessero) dai centri industriali del Nord tendevano a gravitare sulla Riviera e particolarmente su ***. Erano proprietari di piccole industrie indipendenti (se alimentari o tessili) o subfornitrici d'altre più grandi (se chimiche o meccaniche), dirigenti aziendali, direttori di banca, capiservizio amministrativi cointeressati agli utili, titolari di commerciali, operatori di borsa, professionisti affermati, proprietari di cinema, negozianti, esercenti, tutto un ceto intermedio tra i detentori dei grossi pacchetti azionari ed i semplici impiegati e tecnici, un ceto cresciuto al punto da costituire nelle grandi città delle vere e proprie masse, la gente insomma che poteva acquistare in contanti o ratealmente un alloggio al mare (oppure affittarlo per stagioni o annate intere, ma questo era meno conveniente) e anche che aveva voglia di farlo, aspirando a vacanze relativamente sedentarie (non per esempio a grandi viaggi o cose estrose) che poi con la macchina si potevano movimentare vertiginosamente, perché in un salto si poteva andare a prendere l'aperitivo in Francia. Ormai a *** i ricchissimi venivano solo di passata, in corsa tra un Casinò e l'altro, e nello stesso modo veloce ci venivano gli operai delle grandi industrie, in “lambretta”, a ferragosto, con le mogli in pantaloni cariche dello zaino sul sedile posteriore, a fare il bagno stipati nelle esigue strisce di spiaggia, ripartendo poi per pernottare nelle pensioni più economiche d'altre località della costa. Più a lungo si fermava l'esercito sterminato delle dattilografe e impiegate contabili in shorts che occupava le pensioni locali con dietro il codazzo della gioventù studiosa o ragioniera, gloria dei dancings.
Ma questo era solo per lo stretto tempo delle ferie: la colonia stabile di *** era costituita da quel ceto medio-borghese che s'è detto, abitatore d'agiati appartamenti nelle proprie città e che qui tale e quale riproduceva (un po' più in piccolo; si sa, si è al mare) gli stessi appartamenti negli stessi enormi isolati residenziali e la stessa vita automobilistico-urbana. In questi appartamenti ai mesi freddi venivano a svernare i vecchi: genitori, nonni, suoceri, che prendevano il sole di mezzogiorno sulle passeggiate a mare come già quarant'anni prima i granduchi russi tisici e i milord. E alla stagione in cui un tempo i milord e le granduchesse lasciavano la Riviera e si spostavano nelle ombrose Karlsbad e Spa per la cura delle acque, ora negli appartamenti balneari ai vecchi davano il cambio le signore coi bambini e per i mariti occupatissimi cominciava la corvée delle gite tra sabato e domenica.
Era una folta Italia in tailleur, in doppiopetto, l'Italia ben vestita e ben carrozzata, la meglio vestita popolazione d'Europa, quale contrasto per le vie di * * * con le comitive goffe e antiestetiche dei tedeschi inglesi svizzeri olandesi o belgi in vacanza collettiva, donne e uomini di variegata bruttezza, con certe brache al ginocchio, coi calzini nei sandali o con le scarpe sui piedi nudi, certe vesti stampate a fiori, certa biancheria che sporge, certa carne bianca e rossa, sorda al buon gusto e all'armonia anche nel cambiar colore. Queste falangi straniere che, avide di bagni fuori stagione, prenotavano alberghi interi succedendosi in turni serrati da aprile a ottobre (ma meno in luglio e agosto, quando gli albergatori non concedono sconti alle comitive) erano viste dagli indigeni con una sfumatura di compatimento, al contrario di come una volta si guardava il forestiere, messaggero di mondi più ricchi e civilmente provveduti. Eppure, a incrinare la facile alterigia dell'italiano ben messo, disinvolto, lustro, esteriormente aggiornato sull'America, affiorava il senso severo delle democrazie del Nord, il sospetto che in quelle ineleganti vacanze si muovesse qualcosa di più solido, di meno provvisorio, civiltà abituate a concludere di più, il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una facile vernice sull'Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d'emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerovestiti: sospetti fugacissimi, che conviene scacciare in meno d'un secondo.
A Quinto tutti questi sentimenti insieme, ed un tardivo culto della rustica fierezza delle generazioni antiche (che la memoria del padre da poco morto, vecchio da poter essergli stato nonno, tipico superstite di quel ceppo, gli avvicinava) rendeva vieppiù estranea la *** d'oggi. Ma al solito volendo contrastare se stesso (in una scherma dove ormai non si sapeva più che cosa di lui fosse autentico e cosa coartato) si persuadeva che proprio la nuova borghesia degli alloggetti a *** fosse la migliore che l'Italia potesse esprimere.
Intruppato in questa folla civile, realizzatrice, adultera, soddisfatta, cordiale, filistea, familiare, bemportante, ingurgitante gelati, tutti in calzoncini e maglietta, donne uomini bambini giovanetti nell'assoluta parità delle età e dei sessi, in questo fiume pingue e superficiale sull'accidentata realtà italiana, Quinto si disponeva a passare l'estate a ***.
Dedicata al mondo femminile, che investe di sé tutto il clima di questa edizione della biennale, la bella mostra di Kiki Smith è ottimamente allestita alla Fondazione Querini Stampalia per la cura di Chiara Bertola. Le stanze espositive si susseguono come fossero i luoghi di una fantastica abitazione completamente reinventata dall'artista in quella che è titolata Homespun tales: «storie di occupazione domestica» che si dipanano scorrevoli dalle opere all'ambiente, completamente allestito in funzione del «racconto» che vi scorre all'interno. La suggestione per questi lavori è derivata a Kiki Smith dalla collezione di ritratti conservata negli altri piani di Casa Querini: ritratti per lo più femminili dovuti al settecentesco pennello, pianamente borghese e attento osservatore della quotidianità domestica, di Pietro Longhi. L'artista americana mescola le carte e aggiunge il suo proprio ricordo del New Jersey ormai lontano, fantastico e favolistico come queste stanze, decorate a stencil, e la «cucina» dal grande tavolo ligneo con brocche e terraglie e altri strumenti manuali e bambole di pezza e vasetti poveri con fiori umili (ma come capitato per caso, spunta l'invito di una recente personale di Luigi Ontani, un meditato omaggio all'amico, il quale è ritratto proprio nelle vesti dell'Eroe dei due Mondi). È dunque un universo domestico, dove le protagoniste sono intente a occupazioni tradizionalmente femminili, intese nel senso più nobile, e concentrate in un mondo tutto loro (e nostro), che custodiscono gelosamente come piccole «vestali» o «lari». A questo circolo eletto ogni donna può sentirsi a ragione di appartenere, nella installazione filtra un messaggio muto, pacato, ma fortissimo, quasi ancestrale, di riappropriazione-riaffermazione della identità femminile. Ci sono figure di donne - in candido bisquit - collocate sul grandissimo tavolo da pranzo, altre che «occupano» in ranghi sparsi il pavimento, altre ancora più grandi che conducono alla camera da letto (tutti i mobili sono stati costruiti pezzo a pezzo dall'artista) e tutte ci parlano di un mondo matrilineare, occulto e intangibile. Anche il lavoro di Pipilotti Rist, (chi ha dimenticato la leggiadramente vandalica fanciulla per le strade di Zurigo con un fiore di kniphofia come clava in Ever is Over All ?) ci cattura in un universo esclusivamente dedicato a un unico genere: l'impatto emozionale, all'entrare nella seconda «sede» del padiglione svizzero nella chiesa di San Stae, è fortissimo. I visitatori si stendono liberamente sui grandi materassi multicolore sparsi per il pavimento dell'unica navata mentre in alto, sulla volta, appare il più grande, complesso e caleidoscopico «sfondato» della storia artistica. È un affresco tecnologico sofisticato che sdoppia e raddoppia e moltiplica le immagini di quattro proiezioni simultanee nelle quali si dipana la storia infinita di un paradiso terrestre di cielo, acque limpide, vegetazione rigogliosa abitato da una Eva originata dal caos primigenio e sdoppiatasi in una sua gemella/sosia, entrambe felicemente innocenti. Figura femminile archetipica (l'iconografia suggerisce i corpi femminili dei pittori fiamminghi e tedeschi) Eva e la sua doppia non si sottraggono alla minuziosa esplorazione della telecamera tanto ravvicinata che, ad un certo punto, la volta è interamente occupata da un unico occhio, quasi «l'occhio di Dio» (ma di genere femmile, una «grande madre» soccorrevole, mai giudice...) mentre in una divertente inquadratura successiva i capezzoli sono immensi fragoloni rosa decorativi. Le due Eve si muovono libere, in armonia con la natura, ma il «memento mori» calvinista è in agguato e viene simboleggiato, come nella migliore tradizione pittorica, nell'infradiciarsi dei frutti, pomi succosi che, stretti tra le mani o spappolati sotto i piedi ci rendono consapevoli della vanità delle cose (e il maschio è avvertito con sadica ironia: anche i suoi attributi virili, sorretti dolcemente tra le mani in una brevissima sequenza, potrebbero fare la stessa fine). Il suono, come è avvenuto per altri lavori, è accuratamente composto per le immagini e dunque in questo Homo sapiens sapiens (2005) è seducente e rilassante, ricordando la musica new age.
La personale di Karen Kilimnik, ancora un'artista americana, alla Fondazione Bevilacqua la Masa (palazzetto Tito), per la cura di Angela Vettese, ci introduce all'interno di una diversa ricostruzione della «casa»: si tratta di «scenografia» più che di un luogo della memoria o di un «rifugio» intimo e privato. Il décor è fatto di tende sontuose, seggioline dorate (eleganti?), carta azzurra da parati del salotto buono e poi una profusione di ninnoli e chincaglieria ovunque, in un concreto rimando alla pittura. Kilimnik è attirata dalla finzione, la sua pittura è tutta una «mise en scène» perfetta e inquietante, a tratti quasi sinistra, come se da un momento all'altro calasse il sipario. E il gioco dei rimandi, degli ossimori trapassa di stanza in stanza, di lavoro in lavoro, nell'esercizio magistrale di una consapevole citazione.
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Gli estatici paesaggi, i cavalli, gli elementi vegetali, i ritratti, le cattedrali, la Giudecca e gli altri temi ricorrenti hanno la medesima essenzialità di visione, una stessa commistione di elementi astratti e geometrie naturali, con variazioni tonali e cromatiche in funzione antinaturalista. Una pittura meditativa, che vive di lievi e modulate vibrazioni luministiche, di bianchi calcarei, come calcinati al sole, di neri fumosi e riarsi, di forme sfumate in atmosferiche dissolvenze. I contorni si sfrangiano e ricostituiscono in una spazialità riassorbita da fondali monocromi, luminosi alla maniera dei fondi oro bizantini e tardo gotici; travasano senza soluzione di continuità nelle fitte trame segniche che screziano le superfici o, ancora, s’infondono nelle velature trasparenti d’una gamma coloristica parca e di calibrata intensità: grigi lavici, terre bruciate, ocre, gialli ambra, verdi malva, rosa spenti, pallidi cobalti.
Tutto converge nell’unità poetica dell’immagine, nell’eco di remote memorie e di più recenti suggestioni: plastica etrusca, pitture rupestri e dei monasteri serbi, icone ortodosse, ricordi di Daumier e Klee, impressioni dei mosaici di Ravenna e Venezia in una sincronia di fonti, nella pacificazione del dualismo tra Oriente e Occidente, che è tra le altissime risultanze dell’arte di Music.
Anton Zoran Music nasce nel 1909 a Gorizia, all’epoca città sotto il dominio austro-ungarico. Nel 1922 segue la famiglia in Austria, dove realizza i primi disegni. Tra il 1930 e il 1935 frequenta l’Accademia di Belle Arti a Zagabria, allievo del pittore croato Babic, formatosi presso Von Stuck a Monaco.
Sempre nel 1935, conclusi gli studi, soggiorna a Madrid e a Toledo. L’anno seguente risiede in Dalmazia. Partecipa a due mostre collettive a Zagabria e Lubiana (1941-1942). In seguito all’occupazione italiana di territori dalmati e sloveni, rientra a Gorizia. Nel 1943 espone a Trieste (Galleria De Crescenzo) e alla Piccola Galleria di Venezia. Nel 1944 le SS lo deportano a Dachau, dove disegna in una febbrile e segreta attività le vittime dell’Olocausto. Raffigura grovigli di membra, scarni corpi trasportati a braccia, frutto dell’ “incredibile frenesia di disegnare... come in trans, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta... accecato dall’allucinante morbosità di questi campi di cadaveri... irresistibile necessità... per non farmi sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza”.
Dall’aprile del 1945 è libero. Torna a Venezia, dove dipinge i primi Cavallini, che diverrano un soggetto tipico, assieme alle serie delle Zattere e di San Marco. Nel 1948 espone a Venezia (Biennale) e a Roma (Galleria l’Obelisco). Kokoschka visita più volte il suo studio, molto frequentato anche da Campigli. Vende diversi dipinti alla contessa Pecci-Blunt e alla principessa Caetani (sue collezioniste). Soggiorna spesso in Svizzera, specie a Zurigo e vi esegue le prime litografie (1948), incide per la prima volta a puntasecca nel 1949 a Venezia (le più antiche acqueforti risalgono invece al 1955). Vince, assieme a Corpora, il Premio Parigi per la pittura (1951), esponendo quindi alla Galérie de France a Parigi (1952), con la quale stipula un contratto che gli consente di stabilirsi nella città francese (1953). In questo periodo si afferma professionalmente. Ha uno studio a Montparnasse, un altro presso l’Accademia di Venezia; si fa conoscere a New York (1953-1954), Londra e partecipa alla Quadriennale romana con una sala personale (1955). Ottiene il Premio della Grafica alla Biennale Internazionale di Venezia (1956), alla Biennale di Lubiana (1957) e il Premio UNESCO alla Biennale veneziana (1960). Nel frattempo incrementa l’attività d’incisore e, più tardi, di litografo.
Nel 1962 viene pubblicato il catalogo completo dei suoi disegni dal 1947 al 1961, anno peraltro cui risale l’avvio di una produttiva collaborazione con il gallerista Ugo Meneghini. Vanno citate le ampie retrospettive svoltesi a Parigi (1972), Darmstadt (1977), Venezia (1980), con particolare menzione delle mostre “Music opere” 1946-1985, Venezia, Ala Napoleonica e Museo Correr (1985) e “Zoran Music” all’Accademia di Francia in Roma (1992).