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"Sono stato una delle prime vittime della Lega. Nel 1987 a Torino contestarono il mio spettacolo in dialetto - Per convincere Totò a girare un film approfittai bassamente delle parentele nobili di mia moglie"

A ottantuno anni Ugo Gregoretti non ha smesso di recitare. È appena salito sulla scena del festival di Spoleto, portandosi appresso la gigantografia del bisnonno eroe del Risorgimento. Ma un teatrino più famigliare continua nella splendida casa di via delle Coppelle, mentre rievoca il primo incontro a Napoli con il comandante Lauro, che lo fece entrare nella redazione monarco-fascista di Patria: «E mo´ vattenne a casa, guagliò, ch´aggia a parlà co´ pàteto ´e ´sti cazzi e tramme» (il padre di Gregoretti era presidente dell´Azienda tranviaria municipale). O quando ricorda la visita del compagno Marchesi, che voleva consegnargli la tessera del Pci dopo il successo dei suoi film sulle lotte operaie («Non posso», obietta il regista. «Sono fatuo, vanesio, maniaco dell´eleganza. Possiedo duecento cravatte e non intendo rinunciarvi». «Aragon ne ha quattrocento. E un centinaio di foulard». «Vabbè, damme ´sta tessera»). Figura poliedrica come pochi altri in Italia, regista di cinema e di opere liriche, inventore di un nuovo genere televisivo, direttore di teatri e di festival, attore e scrittore (una sua divertentissima autobiografia, Finale aperto, è stata pubblicata qualche anno fa da Aliberti). Esordì in Rai nei tempi preistorici di Mike Bongiorno. E da una celebre battuta di Lascia e raddoppia trasse ispirazione per Controfagotto, la storica rubrica che tanto gli somiglia.

Gregoretti, che ci è andato a fare a Spoleto con la fotografia a figura intera dell´avo combattente?

«Renato Nicolini ha messo in scena canzoni, poesie e cronache risorgimentali. Io ho avuto un ruolo in qualità di pronipote d´uno di quei giovani che dal Nord scesero a Roma per difenderla. I settentrionali d´allora avevano un´adorazione per i romani antichi, una sorta di retaggio del classicismo settecentesco. Pensi oggi a Bossi».

Lei è stato una delle prime vittime della Lega.

«Ero direttore del Teatro Stabile di Torino quando nell´87 affidai Le miserie di Monsù Travet, una commedia di Bersezio scritta in un dialetto piemontese ottocentesco, a due bravissimi attori dell´alto Lazio o giù di lì come Paolo Bonacelli e Micaela Esdra. L´idea non piacque all´attore Gipo Farassino, leader della nascente Lega Piemont. La sera della prima occuparono alla chetichella tutti i palchi del quarto ordine. Lo spettacolo fu interrotto ventidue volte».

Arrivò anche la polizia.

«Io vedevo la gioia dei poliziotti – tutti "terroni" – nel poter menare quegli esagitati del Moviment Piemontèis. A un certo punto fui aggredito da una leghista pazza. A una sua pausa per prendere fiato, ne approfittai: "Ma stia zitta brutta stronza". "Aaah, agenti", fece lei, come se fossimo a Scotland Yard. "Sentite che mi ha detto". "Che le ha detto, Dottò?", chiese il poliziotto. Bastò quell´inflessione per far nascere un´intesa tra me e l´agente. "Ma figuriamoci, un signore come il dottor Gregoretti…". Non fui arrestato».

Lei è sempre stato un Giamburrasca. In Rai la guardavano con sospetto.

«Ero stravagante, anche nel modo di vestire. Sandali capresi, sembravo pronto per la Canzone del mare, non per una redazione. "Ah Gregoré, ma ndò vai?", mi diceva il capo degli uscieri. Fui assunto a 23 anni, alla fine del 1953, per raccomandazione. Mio padre aveva amicizie influenti, tra cui il direttore generale dell´Iri. "Non farmi fare una brutta figura", mi disse l´ingegner Ferrari. Sette anni dopo vinsi il Prix Italia con il documentario La Sicilia del Gattopardo. "Come vede, non le ho fatto fare una brutta figura"».

Un premio prestigioso.

«Sì, vincevano sempre gli inglesi, ma quella volta fottemmo la Bbc. Venne a vederlo in Rai anche Luchino Visconti, in compagnia di Suso Cecchi. Io stavo come la rana di Esopo, sul punto di scoppiare...».

...di vanità...

«No, di gioia per l´invidia che vedevo esplicitamente dipinta sul volto dei miei colleghi. Visconti rimase colpito dalla sala da ballo di Palazzo Gangi: è quella dove avrebbe ambientato la celebre scena tra Angelica e il principe di Salina. Praticamente gli feci fare un sopralluogo in poltrona. Nessuno ci aveva mai messo piede prima di me».

E lei come ci riuscì?

«Esercitandomi nei baciamano con Gaetanina Gangi e bevendo un terribile rosolio della principessa di Lampedusa, che deteneva i diritti morali. Mi aveva aiutato anche la famiglia di mia moglie, Fausta Capece Minutolo, di antica nobiltà napoletana».

Funzionò anche con Totò.

«Di quella volta mi vergogno un po´».

Racconti.

«Dopo il successo del Gattopardo e del Controfagotto mi si aprirono le porte del cinema. Così fui spedito dal produttore del film Le belle famiglie a casa di Totò, che però aveva già detto di no. Era l´ultimo tentativo. Ci sedemmo vicini e prendemmo a parlare del tempo. Fu lì che mi venne l´idea miserabile. "Eh, anche mia moglie la Duchessa patisce tanto la calura". "Cosa avete detto? Favorite ripetere...". Totò portava sulle spalle il gravame della sua aristocraticità tardivamente riconosciuta. "Ma allora siamo tra persone per bene". E fece il film».

Lei ha lavorato anche con Pasolini.

«Più precisamente: girai I nuovi Angeli, un film-inchiesta sulla gioventù dell´epoca, immediatamente dopo Accattone. Avevamo lo stesso produttore, Alfredo Bini, e lo stesso operatore, Tonino Delli Colli. Allora, complessatissimo, chiedevo in continuazione: "Ma Pasolini...". "Lassalo perde´, nun ce pensà", mi diceva Tonino. Una mattina all´alba andammo a fare un sopralluogo in una grande distesa erbosa che era un pascolo di vacche. Un sottile velo di nebbia rendeva la scena molto suggestiva. "Scusa, un´ultima curiosità su Pasolini...". "Daje". "Ma se lui fosse arrivato davanti a questo splendore, dove avrebbe messo la macchina da presa?". "Avremmo fatto il giro del campo e ´ndove avesse visto la cagata più grossa... ‘macchina qui!´ ". Tonino anticipava la coprofagia di Sodoma e Gomorra».

Ma in Rai lei non si divertiva abbastanza?

«Sognavo il cinema. E la Rai era un´azienda becera. Negli anni Cinquanta il controllo occhiutissimo dei partiti al potere era come il tallone di ferro di Jack London. A noi dei servizi giornalistici veniva chiesto di magnificare le opere del governo. Io ero la persona meno adatta. Una volta feci saltare in aria una Chiesa».

Com´è possibile?

«Fui inviato a fare un servizio sul recupero di un´area del salernitano. Il progetto prevedeva anche la demolizione d´una chiesa, costruita nel letto d´un fiume. Da Napoli mi avrebbero mandato ben due macchine da presa, manco fossi Cecil B. DeMille. Ero sovreccitato. Quando seppi che la chiesa non sarebbe più saltata in aria, ci rimasi malissimo. Egualmente ci rimase male l´appaltatore di tutta la ricostruzione del luogo. Così una notte sistemammo ben cento fornelli di esplosivo. Uno scoop spettacolare. Ma il giorno dopo saltò anche il prefetto di Salerno. E io fui messo in quarantena».

Lei faceva recitare i suoi intervistati.

«Sì, praticavo un genere anfibio tra cinema e televisione. Un maestro era stato Vittorio Veltroni, che ci aveva insegnato l´importanza del sonoro: via quel vecchio trombone dello speaker, fai parlare il più possibile le persone. Per il resto facevo tutto da solo».

Inventò il documentarismo televisivo.

«Non fui il solo. Qui intervenne il colpo di genio di Guala, il direttore generale che veniva sbeffeggiato perché allungava le gonne alle ballerine. Appena arrivato, nel 1954, si rese conto che l´azienda era un covo di mediocri, quasi irredimibile. Così con un falso concorso fece entrare in Rai i migliori cervelli della nostra generazione. Umberto Eco. Fabiano Fabiani. Gianni Vattimo. Furio Colombo. Folco Portinari. E in questo modo cambiò il sangue dell´azienda».

Oggi guarda la Tv? Le provoca orticaria, disperazione?

«Non la guardavo neppure allora. Però farei una riflessione controcorrente: la libertà di idee che c´è oggi a quei tempi era fantapolitica. Un Santoro che manda a quel paese il direttore generale...».

Libertà mica tanto.

«Certo oggi si legge di Rainvest e delle trame della signora Bergamini, tutto ciò è scandaloso. Ma il clima complessivo non è paragonabile a quello di allora. C´è però una cosa che l´azienda aveva e non ha più: la qualità. I vertici volevano che imparassimo a fare bene le cose. E quindi le facevamo bene. Oggi la qualità non la richiede più nessuno, in Rai e altrove. Anche perché non c´è nessuno che te la sappia insegnare».

Continua a litigare con sua moglie per i funerali?

«Sì, ogni tanto vi si accenna. Fausta è fissata con Sant´Agostino, mentre i funerali dei registi a Roma si fanno nella Chiesa degli artisti in Piazza del Popolo. Figurati se Scola o Benigni sanno dov´è Sant´Agostino, e poi ci vuole il permesso per accedervi in auto. Lei obietta che possono venire in taxi. Mah, temo che sarà un flop».

Lectio brevis tenuta nella Adunanza dell’11 marzo 2011 della Classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei. È tratta dal saggio di G. Lunghini e E. Vesentini, La teoria economica e il suo linguaggio, in: “XXI Secolo”, opera diretta da T. Gregory, vol. 1, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009. Dal sito web www.apertacontrada.it

Indirizzo questa lezione breve ai non economisti di questa classe: e soprattutto ai letterati, che da tempo hanno smesso di leggere scritti di economia.


Stendhal raccomandava alla amatissima sorella Pauline, per la sua felicità, di leggere Smith e Say (al quale faceva inviare le proprie opere) e riteneva che la conoscenza approfondita di Malthus, Say e Ricardo fosse titolo per diventare un ministro delle finanze eccellente. L’allora Henri Beyle aveva letto gli economisti nel 1810, con l’amico Crozet, e addirittura aveva progettato un Boock dal titolo Influence de la Richesse sur la population et le bonheur.


De Quincey, il mangiatore d’oppio che in tal modo ne guarisce, scopre Ricardo: «Ecco l’uomo! Un’opera così profonda era veramente nata in Inghilterra, nel XIX secolo? Ricardo aveva d’un tratto trovato la legge, creato la base, aveva gettato un raggio di luce in tutto il tenebroso caos di materiali nel quale si erano perduti i suoi predecessori».
Intorno al 1830 Flaubert comincia a raccogliere le voci sulla bêtise; il Dizionario delle idee comuni prende forma, come parte di Bouvard e Pécuchet, nei primi anni settanta dell’Ottocento. Il 1830 e il 1870 sono gli anni cruciali nella storia del pensiero economico, segnano il periodo in cui l’economia politica progressivamente si riduce a economica. Flaubert, puntuale, nel Dizionario registra: «ÉCONOMIE POLITIQUE. Science sans entrailles». Da allora in poi saranno pochi gli scrittori che si occupano di teoria economica. Ricordo soltanto Ruskin con la sua Economia politica dell’arte, Pound con il suo ABC dell’economia. Tra gli italiani ricordo Dossi: «L’economia politica, questa matematica della Morale, che concilia i calcoli e l’interesse colle aspirazioni più sublimi del sentimento». E ricordo Gadda, con la sua favola brevissima: «Adamo Smith e Davide Ricardo erano economisti».


Si capisce perché i letterati oggi non ci leggano più: l’economia è diventata una scienza davvero triste. E la rivolgo, questa lezione, anche ai colleghi dell’altra classe: che credo scoprirebbero, in questa mia breve storia della “scienza economica”, un curiosum epistemologico.

***

La teoria economica oggi dominante – la teoria neoclassica – si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto della attività umana. Essa sembra essere riuscita in un’impresa che sinora la fisica ha mancato, la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza. Di certo essa è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche.
Tuttavia non esiste una sola teoria economica: a fianco della teoria dominante coesistono altre teorie, teorie che si possono definire eterodosse e che della teoria neoclassica mettono in discussione la rilevanza o la stessa coerenza. Ricordo, ad esempio, che negli anni sessanta del secolo scorso, sulla base del contributo di Sraffa di cui dirò, si svolse una memorabile controversia sul concetto di capitale tra la Cambridge inglese (‘neoricardiana’) e la Cambridge americana (neoclassica); dalla quale questa, per ammissione dei suoi maggiori esponenti, primo Samuelson, uscì sconfitta e alla quale non poté reagire che con la rimozione e la censura. D’altra parte è ancora vivace la tradizione marxista, al punto che in molte importanti università americane vengono impartiti corsi di teoria economica marxiana; e particolarmente fiorente è la scuola postkeynesiana, che trova le sue radici nelle opere di Keynes e dello stesso Sraffa. Chi fosse insoddisfatto della teoria neoclassica, o semplicemente curioso, potrà guardare in queste direzioni.

L’economia è una disciplina che non progredisce, o per lo meno non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, cioè con l’acquisizione di nuovi risultati sostanziali. Anche nelle scienze della natura coesistono teorie rivali, ma le scienze della natura dispongono, in generale, di criteri sufficientemente robusti per accertare lo statuto epistemologico delle diverse teorie. L’economia non si occupa di un oggetto naturale, bensì della società e di una società storicamente determinata; nel lavoro teorico, e nella competizione tra le diverse teorie economiche per l’egemonia culturale, l’elemento politico ha perciò un peso importante, talora determinante.


Bisogna allora chiedersi quali siano le caratteristiche della teoria neoclassica, quando e come questa teoria sia nata, e in che modo essa sia diventata e sia tuttora dominante; e ripercorrere poi le altre epoche della storia delle teorie economiche, per proiettare su uno sfondo questa teoria e così mettere in evidenza quei temi che essa ha rimosso, temi cruciali in questo inizio di secolo. «Lo studio della storia del pensiero», scrive Keynes, «è premessa necessaria alla emancipazione della mente. Non so che cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere niente altro che il presente, o niente altro che il passato».

La teoria neoclassica


Intorno al 1870, in curiosa coincidenza con l’inizio della Grande depressione, la teoria economica è travolta da una vera e propria rivoluzione (nel senso di Kuhn), da un radicale rovesciamento di prospettiva rispetto a quella dell’economia politica classica e della critica di questa da parte di Marx. Ne sono protagonisti studiosi di diversi paesi e di varia formazione. Il cambiamento più importante e vistoso, nella teoria neoclassica, è l’abbandono della teoria del valore-lavoro, su cui si fondavano le teorie dei classici e di Marx, e l’adozione di una teoria del valore-utilità, una teoria che pone come unico principio di tutta la teoria del valore di scambio la variabilità della stima soggettiva del valore. 
L’introduzione della categoria dell’utilità nel discorso economico, come nuovo fondamento della teoria del valore, si accompagna a un importante cambiamento metodologico. La meccanica razionale, e con essa il calcolo infinitesimale, viene assunta come paradigma teoretico. Un modello epistemologico, quello della fisica dell’Ottocento, del tutto inappropriato per una scienza sociale e però accademicamente seducente. La scientificità o meno di un ragionamento economico viene fatta dipendere dalla sua formalizzazione matematica, e la teoria del valore viene ridotta a un mero problema di calcolo: si tratta di calcolare, sulla base di determinate condizioni, quei prezzi che sul mercato assicurano l’equilibrio tra la domanda e l’offerta dei beni.


Nella teoria neoclassica, a differenza dell’economia politica classica, l’oggetto dell’analisi non sono più le classi sociali, definite sulla base delle loro relazioni con la produzione e la distribuzione del sovrappiù, ma è l’individuo con i suoi gusti, o preferenze, e i suoi bisogni. L’homo œconomicus è analogo a un punto materiale soggetto a vincoli nel mondo della meccanica razionale: egli si muoverà nello spazio del mercato, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dai comportamenti altrui, finché il sistema non avrà raggiunto un equilibrio statico.


Una impostazione simile ha conseguenze di grande portata circa la visione del processo economico. La teoria neoclassica è essenzialmente microeconomica, ma si pronuncia anche sul funzionamento del sistema economico nel complesso, funzionamento che viene concepito come esito aggregato dei comportamenti microeconomici. Se sul mercato del lavoro non vi sono attriti o rigidità artificiali, vi si determinerà un saggio di salario di equilibrio, nel senso che in corrispondenza a esso vi sarà piena occupazione. Dato il livello dell’occupazione di pieno impiego, l’intera capacità produttiva verrà utilizzata; e la produzione che ne risulterà verrà interamente venduta.


Infatti la teoria neoclassica fa propria la cosiddetta legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda. La moneta è presente soltanto come strumento utile per facilitare gli scambi, non anche come possibile riserva di valore: dunque non vi saranno problemi di realizzazione. Nel mondo neoclassico la moneta è neutrale, nel senso che la quantità di moneta non ha nessuna influenza sulle grandezze reali, cioè sul livello dell’occupazione e della produzione.


Quanto al modo in cui il prodotto sociale verrà distribuito nella forma di redditi, anch’esso sarebbe governato da un ordine naturale, anziché da un conflitto tra le parti. Se si concepisce e si legittima ciascuna quota distributiva come il corrispettivo per i servizi produttivi dei fattori della produzione, di cui ciascun soggetto è proprietario, la distribuzione del prodotto sociale non è determinata anche da un conflitto tra le classi, ma soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, condizioni che sono assunte come date.


La teoria economica, da indagine sistemica circa le cause e le leggi della ricchezza, della sua distribuzione e della sua accumulazione, quale era l’economia politica per i classici e per Marx, si riduce all’economica; economica che secondo la fortunata definizione di Robbins è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi.


Scienza che vorrebbe essere la scienza di un sistema economico in generale, di un sistema economico astratto; astratto non nel senso in cui lo è qualsiasi oggetto teorico, ma nel senso che non è soggetto a determinazioni storiche o istituzionali: nella teoria neoclassica, la storia non conta. È un sistema in cui vi sarebbero armonia, certezza e equilibrio, se il mercato fosse liberato da qualsiasi impedimento artificiale e da improvvidi interventi dello Stato. Per realizzare il migliore dei mondi possibili, sarebbe dunque necessaria e sufficiente la politica del laissez faire.

L’economia politica classica

La teoria economica si era costituita come disciplina autonoma, anziché come collezione di proposizioni su temi economici sparse in discipline diverse, etica diritto filosofia storia, con l’affermazione, a seguito della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, del modo di produzione capitalistico; ‘modo di produzione’ inteso come forma storicamente determinata di organizzazione dei rapporti materiali dell’esistenza. L’autonomia teoretica dell’economia politica corrisponde alla costituzione del processo economico come processo a sé stante, come processo circolare; come un processo che ha per scopo non il soddisfacimento dei bisogni umani, ma la realizzazione di un profitto in denaro e l’accumulazione del capitale. Si potrebbe dire, in breve, che l’economia politica nasce come scienza del capitalismo.


L’economia politica classica va dalla fine del Seicento a circa il 1830, e si occupa di produzione, distribuzione, impiego e crescita del prodotto sociale, nella prospettiva macroeconomica di un sistema economico nel suo complesso e diviso in classi. Come dirà Marx, essa indaga il nesso interno dei rapporti di produzione capitalistici. La categoria analitica centrale è qui il sovrappiù; e all’origine del sovrappiù sta il lavoro: per Smith «il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma». La centralità del lavoro, nell’economia politica classica, emerge anche nella teoria del valore che le è propria, che è una teoria del valore-lavoro. Secondo Ricardo, «Il valore di una merce, ovvero la quantità di ogni altra merce con la quale si scambierà, dipende dalla relativa quantità di lavoro necessaria alla sua produzione».
In una società divisa in classi il prodotto sociale non andrà tutto ai lavoratori, ma viene diviso tra i percettori di rendita, i capitalisti e i lavoratori stessi. Nella sfera della distribuzione, tra rentier, capitalisti e lavoratori non vi è armonia, come sosterrà la teoria neoclassica, ma vi è conflitto: tra i rentier e i capitalisti, e tra i capitalisti e i lavoratori. Sempre secondo Ricardo, molto semplicemente ma con una inconfutabile argomentazione analitica, i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari sono bassi o alti.


La teoria classica del valore e della distribuzione ha strette connessioni con la magnificent dynamics degli autori classici. La loro analisi del processo di accumulazione del capitale e del processo di riproduzione e crescita del sistema economico è di grande attualità, poiché porta alla conclusione che una crescita illimitata è impedita da fattori economici, a cominciare dallo stesso conflitto distributivo, e da fattori demografici, sociali e ambientali, fattori tutti che necessariamente conducono alla caduta del saggio dei profitti, all’arresto del processo di accumulazione, e infine allo stato stazionario.

La critica marxiana dell’economia politica classica

Il titolo vero dell’opera principale di K. Marx, Il Capitale, è il sottotitolo: Critica dell’economia politica. Il Capitale è critica, ora severa ora generosa, e insieme svolgimento, dell’economia politica classica. Anche in Marx le categorie centrali sono il lavoro e il sovrappiù. Il lavoro, nella forma di merce – la merce forza lavoro – che esso assume nel capitalismo. Il sovrappiù, nella forma capitalistica di profitto e la cui origine è individuata da Marx non nella produttività del capitale, come sarà per l’economia neoclassica, ma nel pluslavoro (dunque nel plusvalore), che nella attività lavorativa il lavoratore per contratto presta al di là di quanto ne occorra per la riproduzione della propria forza lavoro.
Il salario, d’altra parte, ha due aspetti, e ciò determina una contraddizione tra il livello microeconomico e il livello macroeconomico. Al singolo capitalista il salario appare come un costo di produzione, che come qualsiasi altro costo di produzione egli cercherà di minimizzare; ma per il sistema economico nel complesso i salari sono potere d’acquisto, anzi la parte più consistente del potere d’acquisto complessivo, potere d’acquisto mediante il quale le merci prodotte potranno, o non potranno, essere acquistate. Se i salari sono bassi, sarà possibile che non tutte le merci prodotte vengano vendute e vi saranno difficoltà nella realizzazione dei profitti.


Per Marx nel capitalismo le crisi non sono fatti eccezionali, determinati da fattori extraeconomici, ma sono fenomeni connaturati all’essenza stessa del capitalismo. Gli schemi marxiani di riproduzione mostrano che l’equilibrio capitalistico è possibile; e che tuttavia il processo di riproduzione normalmente si manifesta attraverso crisi; crisi nelle quali lo squilibrio tra produzione e consumo svolge un ruolo essenziale, poiché nel capitalismo lo scopo della produzione non è il consumo ma la valorizzazione del capitale.
All’origine delle crisi sta il fatto che la forza motrice della produzione capitalistica è costituita dal saggio dei profitti: viene prodotto solo ciò che può essere prodotto con profitto, e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. (L’economia capitalistica è concretamente irrazionale, secondo M. Weber, perché non soddisfa i bisogni in quanto tali, ma soltanto i bisogni dotati di capacità d’acquisto).


Anche per Marx è prevedibile una caduta del saggio dei profitti; tale caduta è però tendenziale, poiché dipende dalle alterne vicende del cambiamento tecnico e dei rapporti di forza tra capitalisti e lavoratori; e perché tale tendenza può essere contrastata da quelle che Marx chiama cause antagonistiche. Le più generali di queste cause antagonistiche, per Marx, sono l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario, la diminuzione di prezzo dei mezzi di produzione, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’accrescimento del capitale azionario. Anche a questo proposito, in un’epoca di globalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia, è superfluo sottolineare l’attualità di teorie che si vorrebbero morte e sepolte.

Le critiche di Keynes e Sraffa alla teoria neoclassica

Nel corso del Novecento alla teoria neoclassica sono state mosse due critiche radicali, da parte di Keynes e di Sraffa. Da parte di Keynes (con la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936) circa il ruolo della moneta nel processo economico e circa le determinanti del livello della produzione e dell’occupazione. Da parte di Sraffa (con Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica, 1960) circa la teoria del valore e della distribuzione.
Le strategie di Keynes e di Sraffa sono diverse. Keynes mette in discussione le premesse stesse della teoria neoclassica, e dunque le sue conclusioni. La critica di Sraffa mette in discussione la logica della teoria neoclassica, e ne mette in luce la mancanza di generalità. Le scelte di Keynes e di Sraffa sono diverse anche per quanto riguarda il linguaggio: Keynes sceglie il linguaggio ordinario, Sraffa il linguaggio matematico.

Keynes: l’incertezza

Per Keynes l’economia in cui viviamo non è un’economia cooperativa, come vorrebbe la teoria neoclassica; ma è una economia monetaria di produzione, un’economia in cui la moneta ha un ruolo essenziale. Keynes non era un bolscevico (come sostenne L. Einaudi), tuttavia, circa il ruolo della moneta, fa propria una tesi marxiana; secondo la quale la natura della produzione nel mondo reale non è – come gli economisti sembrano spesso supporre – un caso del tipo M – D – M′, cioè inteso a scambiare contro denaro una merce al fine di ottenere un’altra merce. Questa può essere la prospettiva del singolo consumatore, ma non è quella del mondo degli affari: che dal denaro si separa in cambio di una merce al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo D – M – D′.


Per Keynes l’importanza della moneta dipende essenzialmente dal fatto che le nostre decisioni sono prese in condizioni di conoscenza limitata e non di conoscenza perfetta, in condizioni di incertezza e non di certezza. In condizioni di conoscenza incerta, «per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo nostro atteggiamento verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso opera, per così dire, a un livello più profondo delle nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, instabili convenzioni si sono indebolite. Il possesso della moneta calma la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura dell’intensità della nostra inquietudine».


Di qui la possibilità che la moneta venga impiegata non soltanto come strumento utile per effettuare gli scambi, ma che venga domandata anche a fini speculativi. Ciò avrà conseguenze sul livello del tasso di interesse; e il tasso di interesse è una delle determinanti degli investimenti. L’altra determinante delle decisioni di investimento sono le aspettative, da parte degli imprenditori, circa la redditività futura dei nuovi investimenti che essi hanno in animo di fare; e anche tali decisioni vengono prese in condizioni di incertezza. Sarà dunque possibile che la domanda per investimenti non sia quella che sarebbe necessaria, al fine di determinare il pieno impiego della capacità produttiva disponibile nell’economia e dunque la piena occupazione.


Questa insufficienza di domanda, per Keynes, non è una possibilità remota; al contrario, gli animal spirits degli imprenditori possono far sì che il sistema economico in cui viviamo resti in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo: «una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale». Ecco il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza; e ecco la necessità di un intervento dello Stato, se del sistema economico in cui viviamo si vogliono eliminare i difetti principali, la disoccupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito.

Sraffa: il ritorno ai classici

Anche nel caso di Sraffa, è il sottotitolo che conta: Premesse a una critica della teoria economica. L’intento di Sraffa, e il suo risultato, è di emendare la teoria classica delle sue imperfezioni, così da farne fondamento inattaccabile di una critica della teoria moderna; una critica che perciò consenta di esibire la rinnovata teoria classica come la sola teoria analiticamente ineccepibile del valore e della distribuzione. Forse in nessun altra disciplina può capitare che vecchie teorie, sommerse e dimenticate, possano essere riproposte come più potenti e solide di quelle moderne.


A questo fine Sraffa riprende il punto di vista degli economisti classici, la loro rappresentazione del sistema della produzione e del consumo come processo circolare, in netto contrasto con l’immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a senso unico che porta dai ‘fattori della produzione’ ai ‘beni di consumo’. Su questa base Sraffa dimostra in maniera logicamente ineccepibile l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo.
L’armonia distributiva postulata dalla teoria neoclassica non è dimostrabile: non esiste nessun livello “naturale” del salario, e non esiste nessuna configurazione “di equilibrio” nella distribuzione del prodotto sociale. Le quote distributive non sono univocamente determinate, poiché non dipendono soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, ma anche dai rapporti di forza tra lavoratori e capitalisti e da circostanze esterne alla sfera della distribuzione, quali le variabili monetarie e finanziarie.

La neutralizzazione della critica

Keynes e Sraffa hanno mostrato e dimostrato che il sistema economico in cui viviamo normalmente non funziona al meglio, quanto a livello della produzione e dell’occupazione; e che nella distribuzione del prodotto sociale non vi è armonia ma conflitto. Le controversie teoriche non si dirimono con il buon senso, tuttavia il buon senso basta per convenire che il mondo è in verità abitato dal conflitto, dall’incertezza, dalle crisi – così come insegnano Ricardo e Sraffa, Marx e Keynes. Come è mai possibile che la teoria economica dominante possa sostenere che il mondo è invece governato dall’armonia, dalla certezza e dall’equilibrio? È questo un caso interessante, nella storia della scienza e delle rivoluzioni scientifiche: è come se in astronomia oggi si predicasse Tolomeo, anziché Copernico e Galileo.


La teoria neoclassica ha mantenuto la sua posizione di teoria dominante nell’accademia e tra i responsabili delle politiche economiche nazionali e internazionali con reazioni di grande efficacia. La critica keynesiana è stata riassorbita mediante la cosiddetta ‘sintesi neoclassica’, una sintesi in cui di genuinamente keynesiano vi è ben poco, intesa a dimostrare che la Teoria generale di Keynes non avrebbe affatto portata generale ma si riferirebbe a un caso particolare, all’economia della depressione. Quanto alla critica di Sraffa, per la quale una operazione analoga sarebbe stata impossibile, si è fatto ricorso alla damnatio memoriæ (un silenzio che però si accompagna a una ritirata strategica: la teoria neoclassica non si occupa più di teoria del valore e della distribuzione).


Riuscendo a imporsi come scienza normale, l’economica è riuscita a accreditarsi come la sola e vera scienza economica. La professione neoclassica è stata estremamente abile anche nella costruzione delle sue cinture protettive, non teoretiche ma politiche e di linguaggio: l’uso pressoché esclusivo della matematica e dell’econometria come tecniche di argomentazione e di convalida del ragionamento economico; l’impiego dei manuali, anziché dei testi, nella didattica dell’economia; l’imposizione di metodi bibliometrici come criterio di valutazione determinante per l’accesso alle posizioni accademiche, rendendolo così faticoso e improbabile per gli eterodossi.


Al progressivo allargamento dei confini tradizionali della teoria economica ha dato un impulso decisivo Gary Becker, premio Nobel nel 1992 «per avere esteso il dominio dell’analisi microeconomica a una più ampia area del comportamento e dell’interazione umana, compresi i comportamenti non di mercato». Nella bibliografia di Becker, ma ormai su tutte le riviste di economia più reputate, si trovano articoli su temi suggestivi come il capitale umano, i rapporti tra concorrenza e democrazia, l’economia della discriminazione, l’economia dei delitti e delle pene, la teoria della tossicodipendenza razionale, l’analisi economica della fertilità, l’interazione tra la quantità e la qualità dei bambini, la teoria economica del matrimonio e della instabilità matrimoniale, ecc.


Così come il mercato, anche la teoria economica dominante si è globalizzata e sembra oggi capace di pronunciarsi su qualsiasi questione. Il mercato globalizzato non si comporta però secondo le sue parabole dell’armonia, della certezza e dell’equilibrio, e è agitato dal conflitto, dall’incertezza e dalla crisi.

LONDRA - Lo si vede già da quasi ogni angolo della città. Ma per il momento è nudo, incompleto e non ancora del tutto cresciuto. Quando sarà terminato, nel 2012, diventerà il grattacielo più alto di Londra e di tutta Europa: 310 metri, 87 piani, un cono di luce, interamente rivestito di pannelli di vetro, che lo faranno risplendere sulla più grande metropoli del continente. A progettarlo è stato un architetto italiano, Renzo Piano, le cui opere adornano mezzo mondo, dal museo Pompidou di Parigi alla nuova sede del New York Times nella Grande Mela, vincitore del premio Pritzker, il Nobel dell’architettura, che ora mette la sua firma anche in cima, per così dire, alla capitale britannica.

Un italiano sul tetto di Londra è la conferma che, per quanto ne dica il primo ministro David Cameron, il multiculturalismo è vivo e vegeto in questa città che cambia pelle in continuazione, mescolando vecchio e nuovo, antico e moderno, classico e avanguardia. E non a caso The Shard, il nome del nuovo grattacielo (alla lettera significa "coccio", "frammento"), ha messo d’accordo perfino laburisti e conservatori, fu un sindaco di sinistra, Ken Livingstone detto "il Rosso" ad autorizzare con entusiasmo la sua costruzione, è un sindaco di destra, Boris Johnson, a salutarlo adesso come «un chiaro e illuminante esempio della fiducia nell’economia di Londra».

Di tanta fiducia è il simbolo, questa nuova torre di Londra, che due grandi giornali londinesi, il Financial Times e il Daily Telegraph, gli hanno dedicato ieri una pagina intera per ciascuno, senza aspettare che sia finito. Dentro ci sarà posto per un albergo a cinque stelle, ristoranti gourmet, uffici per 7 mila persone, appartamenti da 12 milioni di euro l’uno e anche quattro piani (dal 68esimo al 72esimo) per il pubblico che voglia fargli una visitina.

Non tutti, naturalmente, gli danno il benvenuto. Simon Jenkins, principe dei columnist e presidente del National Trust (l’ente che sovraintende ai beni nazionali), lo definisce «un arpione conficcato nel cuore storico» della capitale e anche «un fallo piombato sulla terra dallo spazio capitalista» (non è chiaro come possa un fallo avere forma conica, ironizza il Telegraph, ma forse nello spazio intergalattico sono fatti così). E un principe autentico, l’erede al trono Carlo d’Inghilterra, strenuo difensore dell’urbanistica vecchio stile, o a misura d’uomo come preferisce chiamarla lui (senza necessariamente chiedere all’uomo della strada se vi si riconosce), lo liquida con disprezzo: «Londra ha già un cetriolo gigante (il Gherkin, cetriolo per l’appunto, soprannome di un altro grattacielo criticato da Sua Altezza ma diventato rapidamente un’icona cittadina, ndr), ora siamo sul punto di avere una gigantesca saliera, la nostra città sta trasformandosi in un assurdo tavolo da pic-nic». Sempre il Telegraph commenta che lo Shard ha un aspetto inconsueto per una saliera: magari viene anche quella dal cosmo.

Ma a parte il fatto che il dissenso è – per restare in tema – il sale di Londra, ogni nuova aggiunta allo skyline londinese ha inizialmente generato polemiche, per poi venire vantato con orgoglio da (quasi) tutti. È successo con The Eye, la ruota panoramica in riva al Tamigi, con il Millennium Dome, l’anfiteatro coperto dove si fanno concerti e tornei di tennis, con il grappolo di grattacieli di Canary Wharf, la nuova cittadella degli affari. L’opinione dominante è che lo Shard di Renzo Piano simboleggerà la rinascita di Londra dalla peggiore crisi finanziaria della sua storia, cambiando ancora una volta, insieme a un’altra mezza dozzina di torri di cristallo attualmente in costruzione, l’orizzonte di una città che oggi incarna il design, l’innovazione e il futuro come nessun’altra in Europa.

postilla

parlare di cattive abitudini dei giornalisti forse è un po’ troppo, ma sta di fatto che l’approccio fra il modaiolo e il nazionalista del pezzo finisce per trascurare uno fra gli aspetti davvero innovativi del progetto: con tutto quel volume, lo Shard NON HA POSTI A PARCHEGGIO salvo pochissimi legati ai servizi essenziali, e quindi da un lato approfitta al meglio delle infrastrutture esistenti di trasporto collettivo, dall’altro automaticamente meglio si integra con lo spazio del quartiere e della mobilità pedonale, non dovendo fare i conti con accessi, rampe ecc. ecc. Insomma un’ottima interpretazione del tema “città densa”, non solo a parole, ma nei fatti e nelle regole urbanistiche sottese. Se poi l’archistar riesce a dare il meglio di sé, tanto di guadagnato, ma il pregio come si suol volgarmente dire sta nel “manico”, ovvero nella strategia insediativa, che nella capitale della greenbelt difficilmente starebbe nascosta (solo) dietro al conto in banca degli immobiliaristi.

Va da sé che (almeno là dove le cose vengono affrontate onestamente e non per finta) urbanistica e mobilità debbano andare di pari passo. Il grattacielo di Renzo Piano praticamente ha una stazione come pianterreno, mentre per fare un confronto il cosiddetto "Formigone" a Milano pur molto vicino sia a un paio fermate della metropolitana che alla stazione ferroviaria P.ta Garibaldi, sostanzialmente le ignora. Uno dei principali progetti di riqualificazione urbana newyorkesi, Hudson Yards, si basa esattamente sulla strategia della riduzione ai minimi termini degli standard a parcheggio [vedi pdf allegato]. E in entrambi i casi, Londra e New York, parallelamente a questi (certamente discutibili da tanti altri punti di vista) casi di densificazione si sviluppano politiche cittadine sia di ciclabilità che di cosiddetti "spazi condivisi", ovvero dove l'ambiente stradale viene sottratto sia alla dominanza delle auto che al tipo di segregazione classico delle nostre isole pedonali (f.b.)

È significativo che in tutta la storia della democrazia parlamentare non ci sia stato in alcun paese un grande statista che fosse un uomo d'affari. Spesso uomini come Bonar Law in Inghilterra, Loucheur in Francia hanno coperto dei posti elevati, e magari altissimi, ma non si sa che ve ne siano stati i quali siano riusciti ad esercitare sui loro contemporanei l'influsso che esercitarono uomini della statura di Washington, Lincoln, Gladstone, Bismarck, o Cavour.

La ragione, io direi, è semplicemente questa, che l'opinione pubblica non ha mai potuto ammettere la pretesa del capitalista di essere il fiduciario dell'interesse pubblico. Essa l'ha sempre considerato per quello che è, come uno specialista nel far danaro, e non ha mai effettivamente creduto che abbia senso di responsabilità fuor dell'ambito ristretto della sua classe. Egli non ha mai considerato la legge come un complesso di principii che stanno al di sopra del suo gretto interesse, ed ha sempre cercato, con mezzi leciti o illeciti, di farla interpretare ai suoi propri fini.

Certo, per la sua strada egli ha dimostrato di essere tutto dedito al suo compito e coscienzioso, e non v'è ragione di dubitare della sua sincerità quando crede che il suo benessere privato combaci col bene pubblico. Quando, come in America, egli ha comprato giudici, governatori di stato, e magari i presidenti stessi, l'ha fatto convinto che il renderli pieghevoli strumenti ai suoi fini era per il popolo americano il meglio. Egli si difese nell'unico modo che credeva adatto, perché credeva effettivamente nel suo diritto divino di comandare.

Harold Laski, Democrazia in crisi (1935), cit. in exergo da Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Laterza, Roma-Bari, 2003. Harold J. Laski (1893-1950), politologo ed economista, professore alla London School of Economy, fu autorevole esponente del Labour Party britannico di cui fu presidente nel 1945-46.

Gli hanno consigliato di scappare dall'Italia, ma è rimasto, si è disperso qui.

Gli hanno detto che l'Italia è un paese per vecchi, e si è adeguato: è invecchiato.

L'assegno da ricercatore è lo stesso di quello di un autista di mezzi pubblici in pensione, vive i suoi trent' anni come fossero ottanta: cena alle diciotto, bianchino in mattinata al bar, televisione nel pomeriggio. Ha smesso di giocare a pallone, è diventato sordo e qualcuno sospetta che si tinga i capelli, di bianco.

Quanto alla ricerca universitaria, da laureato in storia dei movimenti e dei partiti politici, non sa bene neanche lui cosa ricercare. Dov'è la sinistra? L'opposizione? La piazza? I compagni? La lotta, l'utopia e la rivoluzione?

Di fronte alla triste evidenza, ha cambiato soggetto della ricerca e, taccuino e registratore alla mano, ha iniziato una mappatura sociale prima del suo quartiere e poi della città tutta. È partito da casa, un appartamento di studenti, nel nuovo quartiere per studenti, ormai deserto. Ha attraversato strade con più buche che a Beirut durante i bombardamenti.

È stato nel quartiere residenziale di lusso Platì, costruito con i soldi della 'ndrangheta direttamente per i suoi affiliati.

Ha visitato la nuova cittadella all’avanguardia, dove vivono i progettisti di cittadelle all'avanguardia. Nel centro, ormai svuotato, di sera ha incontrato solo anziani, immigrati e super ricchi. Gli altri ci vengono di giorno, per lavorare.

Ha calcolato che un cittadino su quattro vive da solo e che gli stranieri tra poco saranno un quarto della popolazione; ha sentito che dalle ciminiere delle ex fabbriche arriva il canto dei muezzìn.

Ha visto le polveri sottili diventare polveri spesse, grandi come sampietrini.

Ha intervistato tante persone, tutte ugualmente scontente della città in cui vivono, che vorrebbero scappare ma non sanno come e dove.

Soprattutto ha confermato la sensazione che la sua città stia sprofondando nel nulla.

Tanto vale quindi fare come lui, e aspettare la pensione, anche se probabilmente sarà nulla pure quella.

Stasera si porterà dietro il suo manoscritto fotocopiato e rilegato, in cui ha messo nero su bianco i risultati dell'ultima ricerca, dal titolo "Bombardare la città". Del resto, Londra e Berlino -e anche New York dopo l'undici settembre -hanno costruito dalle macerie un'idea di rinnovamento.

Il nostro ricercatore ancora non sa se riuscirà a pubblicarlo, non è ambizioso, e non ha conoscenze nel campo, tranne sua sorella che fa la cameriera ed è amica dell'editore.

Nel loro soggiorno Bob e Mary stanno sorseggiando il loro tea, davanti al caminetto elettrico. Bob legge il giornale, Mary sferruzza, seguendo il filo di un pensiero che le fa increspare la fronte.

“Bob, ascoltami un momento…

“Si, cara – dice Bob abbassando il giornale.

“Vorrei parlarti un po’ del nostro Tom…

“Si, cara, capisco. Dimmi pure.

“Sai, Bob, Tom sta crescendo, ormai ha diciassette anni…

“Lo so bene, cara, ha compiuto diciassette anni proprio un paio di mesi fa.

“Ecco, sai, penso proprio che dovrebbe conoscere i fatti della vita: sai, come si nasce, perchè si nasce, che cosa vuol dire fare l’amore, gli uomini e le donne e i loro rapporti e così via…

“Si, cara, hai proprio ragione!

“Ma vedi, lui è così sensibile, timido, fragile. Bisognerebbe spiegarglielo con molta delicatezza. Per esempio, parlandogli della natura… Pensi che saresti capace di farlo?

“Hmm, si cara, penso che posso provarci.

“Oh grazie Bob, mi togli proprio una grande preoccupazione. Ma mi raccomando la delicatezza. Ecco, potresti parlargli con un linguaggio poetico. Che so, parlargli dei fiori, delle farfalle, delle api… sai che voglio dire.

“Si cara, capisco. Gli parlerò proprio così.

Passa qualche giorno. E’ sabato, il sole splende in un cielo azzurro solcato da qualche leggera nuvola, l’aria è tiepida. Bob esce percomprare i giornali, il cedro candito per il plumcake e le sigarette, chiede a Tom di accompagnarlo per fare due passi al sole.

“Bella giornata di sole, vero Tom?

“Si papà, proprio una bella giornata.

“Mi ricorda quelle belle giornate d’estate dell’anno scorso, quando tu ed io siamo andati in vacanza da François in Normandia. Ti ricordi?

“Si, papa, certo, quel tuo vecchio commilitone nella fattoria. Si stava proprio bene.

“Ecco, ricordi Tom che belle passeggiate facevamo, tra i prati e i boschi, tra fiori, api e farfalle?

“Si, papa, ricordo benissimo.

“Ricordi anche le due nipoti di François, Marlène e Michelle?

“Certo, papa, non potrei proprio dimenticarle.

“E ricordi che cosa facevamo con loro?

“Certamente. Era così bello!

“Ecco, figlio mio. Tua mamma vorrebbe che tu sapessi che anche le farfalle fanno la stessa cosa.

Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: «se l'uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent'anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale. Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista «ormonale», mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso. La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel «non possumus» biblico. Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo - e a maggior ragione il comunismo - è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.

Da Comunista a chi? numero speciale a 50 euro del «manifesto», 17 dicembre 2009

e

Si è conclusa da poco la prima retrospettiva italiana, a cura di Carter E. Foster, di Edward Hopper, testimone chiave di un nuovo rapporto tra l’uomo moderno e i luoghi e del cambiamento sociale dell’abitare .

I suoi paesaggi rurali e urbani popolati da personaggi isolati comunicano solitudine distacco , nostalgia e si oppongono ai contemporanei modelli di progresso. L’America che occupa i suoi quadri, e che si intravede come attraverso una porta socchiusa, può quindi essere intesa come la rappresentazione dei miti infranti e della incomunicabilità degli abitanti di una grande società industriale e commerciale associata alla Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street nel ‘29.

Hopper elimina dalla visione qualsiasi elemento di distrazione o orpello, superando il reale, trasformando il processo pittorico in un processo psicoanalitico teso a svelare il decadimento e la confusione che la società moderna ha inflitto agli archetipi umani e abitativi. Infatti Hopper è consapevole di vivere in un’epoca in cui i valori tradizionali dell’immagine sono entrati in profonda crisi. Si interroga incessantemente sull’arte nel rapporto con la realtà portando sulla tela un confronto diretto con la condizione umana del proprio tempo, affrontando i conflitti, il vuoto, la solitudine che appartengono alla vita di ogni uomo nella società contemporanea. Utilizza perciò oggetti comuni e luoghi familiari; distributori di benzina, caffè, drugstore, negozi con le vetrine illuminate, uffici, stanze di albergo in cui appaiono una o due figure che diventano finestre aperte sulla nostra parte silente e oscura.

Lo stesso Hopper scrisse che se fosse stato capace di servirsi delle parole per esprimere quel che vedeva non avrebbe avuto bisogno di dipingere. Non era quello che era apparente e che avrebbe potuto ritrarre come illustratore ed interessargli, bensì ciò che si presentava ai suoi occhi interiori.

Nelle sue immagini la casa è il luogo dove si esiste, ma dove si avverte un 'incapacità di vivere e di abitare. La sua è una pittura di negazione, negazione dell’uomo e dei luoghi; le relazioni vengono eliminate o ci portano altrove; le case di Hopper ci trasportano nella nostra realtà, alle nostre problematiche di relazione sebbene l’ America della prima metà del ‘900 sia distante nel tempo e nello spazio da noi.

In tempi in cui l'apatia e l'alienazione nelle relazioni sociali hanno sostituito il momento della sosta concessa al pensiero dell'altro, lo straniamento delle nuovissime tecnologie di comunicazione a distanza e l'amplificazione che l'industria dell'immagine detta, si riflettono su una gettonatissima architettura «da suburbia», sfavillante nella progettazione extraurbana dei grandi centri commerciali, dei parchi a tema e degli edifici pubblici ultra-funzionali , nascono i non-luoghi, spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane, che assieme alla bruttezza e il cattivo gusto delle casette a schiera e dei condomini pieni di timpani e colonnati postmoderni, emblema di un recente benessere, stringono d'assedio le antiche città e i borghi, uccidendo ciò che resta della campagna, e costituiscono l'indice inquietante della nostra alienazione, la misura dell'incuria culturale di cui è impregnata l’era contemporanea.

Prende forma nei suoi quadri un’America non letteraria e senza mitologia, che porta i segni di un’età contemporanea anche se vagamente fuori moda: niente grattacieli, automobili, fabbriche, ma binari della ferrovia, case coloniche di legno bianco con i loro tetti a triangolo, mansarde vittoriane ormai decadute, periferie anonime incentrate sul possesso e sul consumo e non sulla comunità. L'eccessiva dispersione degli insediamenti, la città che si sparpaglia sul territorio causando il cosiddetto sprawl, e intensificazione in verticali dei grattacieli, sono la conseguenza del medesimo fenomeno economico- sociale che causa estraniamento e alienazione e non produce relazioni urbane e collettive.

L'indifferenza per i grattacieli salta all’occhio per un pittore che descrive l’architettura di new York. L’avversione di Hopper per le alte torri della sua città è evidente in molti dei suoi dipinti. Quando le include, le fa apparire come intruse sgradevoli, fuori posto. In questo l’artista è partecipe del clima a cui diedero voce anche critici come Mumford che pubblicò articoli intitolati” possiamo tollerare i grattacieli?” e “Città rafforzate”. Ai suoi occhi i grattacieli rappresentavano tutto ciò che disapprova dell’America urbana, della superficialità dei valori materiali alla crescente standardizzazione degli stili di vita.

Il percorso di Hopper non è certamente di carattere urbanistico, egli si collega alle immagini dell' inconscio collettivo e attraverso queste ci offre la possibilità di comprendere al di là delle parole come l'attuale trasformazione delle città e del territorio produca squilibri nel rapporto pubblico -privato e individuale – collettivo . Collegandosi con queste immagini archetipe primordiali possiamo ricapire chi siamo, riacquistare la nostra identità e la forza per sopravvivere “anche alle notti più lunghe”.

Se parlando di case si parla anche di individui, esemplare è un acquerello del 1925 intitolato Skyline near Washington Square. Quando venne esposto la prima volta l’acquerello era intitolato Self-portrait, con un riferimento scherzoso all’altezza dell’autore, ma che può indicare una consapevolezza di Hopper del naturale processo di identificazione uomo-casa. Nell’acquerello è raffigurato un tetto semplice e austero dietro il quale si erge un unico edificio stretto e lungo che domina il cielo. Il palazzo ritratto che sorgeva vicino alla sua casa newyorkese si eleva al di sopra delle altre case. Nell’osservazione capiamo subito che si tratta di un palazzo slanciato, ma la natura verticale di questo edificio è negata; in realtà Hopper ci mostra un cubo: la parte bassa dell’edificio, l’ingresso, e gli elementi che comunicano direttamente con la vita cittadina vengono tralasciati per mostrarci la solitudine dell’attico al di sopra di ogni cosa, come un picco sospeso sopra un mare di nuvole. Del palazzo possiamo vedere due lati, una facciata spoglia e liscia, completamente esposta al sole che si contrappone alla pesantezza della facciata di rappresentanza, dove finestroni appesantiti dalle lesene di primo novecento si negano protetti dall’ombra. Si potrebbe dire che un lato riflette, l’altro assorbe. Il paragone con la personalità dell’artista viene spontaneamente, in realtà Hopper non ci offre soltanto un’analisi introspettiva di sè stesso ma amplia il raggio di identificazione fermando sulla tela condizioni psicologiche in cui tutti possono immedesimarsi.

"Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l'inquilino" suggerisce con una certa brutalità Victor Hugo: analogamente si può aggiungere : dalla città la società.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari

e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,

ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,

e non c'era rimasto nessuno a protestare.

Quando ci avete incontrato la prima volta ci avete detto che dovevamo pregare il vostro Dio. Noi non riuscivamo a comprendere la vostra richiesta. Il vostro Dio non potrà mai essere il nostro. Vi è troppa differenza tra noi. Noi uccidiamo gli animali che ci servono e li mangiamo tutti. Voi uccidete senza motivo e abbandonate i corpi degli animali che avete abbattuto. Voi tagliate intere foreste e noi usiamo solo i rami caduti e gli alberi morti e abbiamo rispetto per ogni ago di pino. Voi spaccate le pietre, forate le montagne e non riuscite ad ascoltare lo spirito della terra che vi dice: “non fatelo. Non fatemi male” . Noi sentiamo lo spirito e il mistero della vita anche nelle ali delle libellule.

Voi siete ciechi e sordi di fronte alle cose che esistono e quando vi rivolgete a Dio, chiedete ricchezza, denaro e potere. Noi chiediamo al Grande Spirito di mostrarci la bellezza, la stranezza e la bontà della terra verdeggiante, l' unica Madre, e di svelarci le cose nella loro essenza e perfezione, così come solo in un unico Essere, che resta Uno anche se è Molti. Voi dimenticate i vostri morti, li seppellite e non vi curate di conservare le loro tombe e non vi sentite legati alla terra che custodisce le ossa dei vostri padri. Per noi un uomo che dimentica queste cose è peggio di una belva inferocita.

Per tutto questo voi riuscite a vendere la terra: mentre per noi la terra è come 1' aria che si respira, è il corpo di nostra madre e non possiamo neppure concepire che essa possa essere venduta, divisa e recintata.

Ora la mia gente è poca: noi sembriamo le foglie rimaste su un albero scosso dai venti invernali e non possiamo più difenderci. Ora voi ci assegnate una riserva in cui dobbiamo ritirarci. So bene che questa soluzione ci è imposta da una forza ineluttabile. Abbiamo cercato di sfuggirvi come la nebbia mattutina fugge ,avanti alla luce del sole nascente... Ora siamo pochi e non ci importa di sapere dove trascorreremo il resto dei nostri giorni. Il nostro popolo era un tempo forte e potente e ora poco a poco muore. Le nostre notti si fanno sempre più lunghe, buie e solitarie. Ovunque tentiamo di rifugiarci siamo inseguiti dal vostro passo sterminatore e non ci resta che sopportare il destino come un animale ferito e braccato dal cacciatore che vuole finirlo.

E tuttavia non mi lamento. Abbiamo per tanto tempo trascorso un'esistenza felice della quale siamo stati consapevoli e dalla quale abbiamo tratto gioia e ricchezza dell'animo. Ad una tribù segue un'altra e le nazioni seguono alle nazioni come una generazione succede ad un'altra. E un continuo nascere e morire e lamentarsi non serve a nulla. Forse anche il giorno del vostro tramonto non è lontano, ma e comunque certo che verrà. Allora, forse, potremo anche essere fratelli.

Ora è la vostra stagione tuttavia, e poiché ciò appare evidente, tagliate gli alberi, uccidete gli animali, domate i cavalli selvaggi, sterminate gli indiani. Io vedo bene, dai vostri occhi e dai vostri comportamenti, che la vostra città produce immondizie ed esse, un giorno, vi annegheranno.

Ma intanto consentitemi di ribadire che la terra che ci ordinate di abbandonare è sacra alla mia gente. Ogni collina, monte, bosco, lago, fiume o valle o pianura sono pieni di eventi tristi e lieti e di ricordi. I fili d'erba, i piccoli gigli lungo i fiumi d'argento, le fragole che crescono ai margini dei prati coperti di rugiada, persino le pietre che giacciono sorde e immobili nella quiete fresca della notte e nel calore diurno, hanno bevuto la vita del mio popolo e gliela hanno restituita. Anche la polvere è legata alle orme della nostra gente e i nostri piedi trovano in essa una familiarità che i vostri piedi non proveranno mai. Essa ha bevuto il sangue dei nostri padri, custodisce il sale delle loro lacrime, il grasso e la cenere dei fuochi da campo, il sudore del piacere e della paura. I nostri guerrieri scomparsi, le ragazze dal cuore gentile e dalle amabili forme, i bimbi che qui vissero e trovarono nutrimento, le nostre madri affettuose sono parte viva di questi luoghi ancora solitari che placano il cuore.

Ed essi ritornano sempre come marce dello spirito quando la Luna Nuova, piccola canoa d'argento, naviga fra le stelle circondata da una nebbia di volpi argentate. Essi continuano la vita senza il peso del corpo perché gli impulsi di un popolo seguitano ad esistere anche dopo la morte dei singoli e si concentrano sulla sua terra e la colmano di vita umana. E cosi, anche quando l'ultimo indiano sarà morto e il ricordo della mia gente sarà diventato per i bianchi una leggenda, questa terra ospiterà ancora le forme invisibili dei nostri morti. I figli dei vostri figli si crederanno soli nei campi, nelle case, sulle vie delle vostre città o nel silenzio dei boschi senza sentieri. Ma anche quando, di notte, le strade e le piazze saranno silenziose e deserte, ovunque si aggireranno gli spiriti di coloro che un tempo popolarono ed amarono questo meraviglioso paese. (...)

Voi non vi accorgete di tutto questo. Ma un giorno il nostro spirito riempirà di sé i vostri discendenti. Un giorno, ho detto , perché. vai ora apparite incapaci di un sentimento che non sia l'odio: Iodio e la paura, che vi spingono ad azioni che non hanno per fine solo la distruzione degli altri, ma anche la vostra. L'odio e la paura, che vi impediscono di capire che la stirpe umana è come il sole e che i popoli ne sono i raggi e che quando un popolo muore il sole comincia a morire e la terra diventa più fredda. L'odio e la paura che non vi danno coscienza del fatto che le specie animali sono le radici che uniscono il cielo alla terra e che l’uomo non può recidere se non vuole morire.

Noi speriamo che nel futuro lo spirito dell'uomo rosso, che con amore e venerazione rispetta tutto ciò che vive, si impossessi lentamente dei vostri figli e penetri lentamente in coloro che nulla sanno di lui. Cercate perciò di guardare alla nostra fine con rispetto e tolleranza. I nostri padri, noi stessi staremo sempre intorno a voi e attenderemo con pazienza fino a che non riusciamo a piantare nella vostra indole distruttiva un seme di amore per la vita. Se ciò accadrà. il vostro mondo sparirà e il nostro tornerà a vivere.

Ma forse non riusciremo a far ciò. E allora, quando una ragnatela di fili che sussurrano avrà circondato l'azzurro del cielo, quando il rondone sarà scomparso e la vita sarà diventata sopravvivenza, quando i fiumi saranno morti con i laghi e le montagne, quando il vostro folle modo di vivere avrà sommerso la terra, un grande fuoco simile ad un sole, che voi stessi avrete costruito nella vostra ansia di distruzione e di dominio, cadrà dal cielo e distruggerà ogni cosa. e la terra e gli uomini saranno pietra per sempre.

Vedi la presentazione, scritta per Urbanistica informazioni, qui in eddyburg.it

SICUREZZA

Per stare tranquilli e al sicuro

non serve una porta né un muro,

ma un mondo pulito e migliore,

un mondo di pace e di amore.

Non servon fucili e pistole,

ma abbracci, carezze e parole

che faccian capire alla gente

che l’odio non serve a un bel niente.

Per render la vita sicura

c’è solo un rimedio, una cura:

non viver con rabbia e divisi,

ma insieme, tra mille sorrisi.

Se vivi tremando di rabbia

la vita diventa una gabbia.

Le sbarre non dan protezione,

ma chiudono il cuore in prigione.

Vivendo in pace e armonia

la rabbia scompare, va via:

se ti serve più sicurezza,

trasforma il tuo pugno in carezza!

DIVERSO

Parola che scotta la lingua: egoismo.

Parola che brucia la bocca: razzismo.

Tra tante parole simpatiche e belle

razzismo e egoismo son certo sorelle.

Due brevi parole, due squallidi mali:

voler che i diversi diventino uguali.

“Diversa cultura, diverso colore,

diversa la razza, diverso l’odore…

Mi danno fastidio, cacciateli via:

la terra che pestano, in fondo, è la mia

e se c’è qualcuno che stare qui osa

deve essere uguale!” - Ma uguale a che cosa?

Diverso è ricchezza, non certo un delitto:

la terra è di tutti, l’ho detto e l’ho scritto.

“Non ho mai sentito una cosa più sciocca:

non dire scemenze e chiudi la bocca!”

L’assurda pretesa che tutto sia uguale

vi rende la vita noiosa e banale.

Aprite le porte, aprite la mente:

diverso è più allegro, è più divertente!

Volete che il mondo sia senza colori,

sia grigio di dentro e grigio di fuori,

perciò io concludo con l’ultimo verso:

evviva i colori, evviva il diverso!

L'atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole. Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria.

Chiese a Marco Kublai: - Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.

- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo per pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto.

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

Dice: - Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: - L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

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C'e' una meta

per il vento dell'inverno

il rumore del mare

Anonimo

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Se manca il sake

velata

è la bellezza dei ciliegi in fiore …

Anonimo

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Oh, mondine -

di non fangoso

c'è solo il vostro canto

Raizan (1654-1716)

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Passerotti -

Sui pannelli di carta

delle porte scorrevoli,

l’ombra di foglie di bambù

Takarai Kikaku (1661-1707)

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Simile a pianta che non ha più fiori,

ormai tronco, posso contorcermi.

- Salici piangenti –

Chiyojo (1703-1775)

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Dallo zefiro

sospinta è la fanciulla…

irata beltà –

Kato Kyotai (1732-1792)

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Il sole dell’occaso

se ne sarà andato a gonfiare

le acque di primavera?

Takai Kito (1741-1789)

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Nebbie della sera.

Assorto il pensiero indugia

sui ricordi indistinti di un tempo –

Takai Kito (1741-1789)

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Alla stagione delle piogge,

leva il capo

un’erba senza radici

Muratami Kijo (1865-1938)

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Stupore:

una margherita si frange,

suono di mezzanotte

Shiki (1867-1902)

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Raggi scarlatti

È come se ci fossero

- cielo d’autunno

Kyoshi (1874-1959)

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Soffioni,

occhi di primavera ridenti

sul litorale sabbioso.

Ah, soffioni!

Ogivara Seisensui (1884-1976)

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Peonia

petalo a petalo

palpiti,

ti apri,

ti ricomponi

Ogiwara Seisensui (1884-1976)

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La sera, borsa di ghiaccio

bianco

il silenzio tra noi

Ogiwara Seisensui (1884-1976)

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Minuscolo, un fazzoletto di giardino:

malata, vi cade,

immensa,

una foglia

Tomiyasu Fusei (1885-1979)

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Mezzodì di piena estate:

la morte ci spia,

gli occhi socchiusi

Iida Dakotsu (1885-1962)

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Sotto i miei passi

Solo il fruscio si sente

Di foglie secche.

Hisajo (1890-1946)

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Nell’ombra del verde fogliame,

pagliuzze d’oro sinistro:

gli occhi di un gatto tutto inchiostro

Kawataba Bosha (1900-1941)

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Non c’è mia moglie

Per due notti –e due notti

La via lattea

Kusatao (1901-1983)

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Chiudo gli occhi

al tepore della fiamma

lontana

di un antico amore

Hino Soio (1901-1956)

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xChe cosa sono gli haiku


Dal Dizionario di economia politica, a cura di C. Napoleoni, edizioni di Comunità, Milano 1956, pp. 565-578. I brani riportati sono alle pp. 574-577

[…] 10. Non si può negare che l’identificazione di economia ed econometrica sia una tendenza favorita dalla particolare natura della cultura contemporanea, che, nella misura in cui è dominata dall’empirismo, esclude la possibilità di una conoscenza scientifica nel senso tradizionale e classico della parola. E tuttavia, proprio nella lettera tura contemporanea, troviamo uno dei tentativi più rigorosi di fondare l’economia come scienza in senso proprio; di tale tentativo, che è quello del Robbins (1932), dobbiamo ora ricercare il valore e i limiti.

Scopo della ricerca di Robbins è la formulazione di una definizione di «fatto economico» che non sia, per usare i suoi termini, «classificatoria», ma «analitica»; ossia che non trascelga certi fatti, certi tipi di condotta, che sarebbero «economici» da altri che sarebbero non economici, ma indichi in che consista l’aspetto propriamente economico della generale condotta umana. Egli respinge perciò la definizione «classificatoria» allora corrente, specie in Inghilterra, secondo la quale sarebbero economici tutti gii atti che adducono al benessere, e la respinge con una critica definitiva, che, cioè, anche se si desse un concetto preciso di «benessere materiale» (il che peraltro non accade nella definizione in questione) rimarrebbe comunque il problema, indubbiamente economico, del modo in cui vadano ripartiti il tempo e i mezzi disponibili tra le attività dette «economiche» e quelle dette «non-economiche».

L’aspetto economico della condotta umana è allora cosi precisato da Robbins.

«Dal punto di vista dell’economista le condizioni dell’esistenza umana possiedono quattro caratteri fondamentali. Gli scopi sono molteplici, il tempo e i mezzi per conseguirli sono limitati e sono capaci di usi alternativi; nello stesso tempo gli scopi hanno diversa importanza. Eccoci qui creature senzienti con fasci di desideri e di aspirazioni, con masse di tendenze istintive, che tutti ci sospingono per differenti vie all’azione. Ma il tempo in cui queste tendenze possono essere espresse è limitato; il inondo esterno non offre piena opportunità al loro completo dispiegamento; la vita è breve; la natura è avara; i nostri compagni hanno altri obbiettivi. E tuttavia noi possiamo usare le nostre vite per compiere diverse cose, possiamo usare dei nostri materiali e dei servigi degli altri p er raggiungere diversi scopi.

«Ora la molteplicità degli scopi non ha in se un necessario interesse per l’economista. Se io ho bisogno di fare due cose e ho abbondanza di tempo e abbondanza di mezzi per farle entrambe, e il tempo o i mezzi non mi occorrono per nient’altro, allora la mia condotta non assume nessuna di quelle forme che costituiscono l’oggetto della scienza economica. Il nirvana non è necessariamente una semplice beatitudine: è nient’altro che la soddisfazione completa di tutti i bisogni.

«Né la sola limitazione dei mezzi è per sé sufficiente a dare origine a fenomeni economici. Se i mezzi di soddisfazione non hanno un uso alternativo, possono essere scarsi ma non possono essere economizzati. La manna che piove dal cielo poteva essere scarsa, ma, se era impossibile scambiarla con qualche altra cosa o differirne l’uso, non era oggetto di qualsivoglia attività avente un aspetto economico.

«Né, ancora, l’applicabilità alternativa di mezzi scarsi è da sola condizione sufficiente per l’esistenza del genere di fenomeni che stiamo esaminando. Se il soggetto economico ha due scopi e un solo mezzo per soddisfarli e i due scopi sono di eguale importanza, la sua posizione sarà uguale a quella dell’asino della favola, incapace a muoversi tra due fasci di fieno ugualmente attraenti.

«Ma quando il tempo e i mezzi per conseguire gli scopi sono limitati e sono suscettibili di applicazione alternativa, e gli scopi possono essere distinti in ordine d’importanza, allora la condotta assume necessariamente la forma di una scelta».

La scienza economica ne risulta definita come segue: «L’economica è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Ciò posto, e in questo sta appunto il carattere non «classificatorio» della definizione, «noi non diciamo che la produzione delle patate è un’attività economica, e che non è tale la produzione della filosofia. Diciamo che l’una e l’altra specie di attività ha il suo aspetto economico, in quanto implichi rinunzia ad altre alternative desiderate. Non vi sono limiti all’oggetto della scienza economica, salvo questo». […]

La definizione di Robbins, sebbene ampiamente accolta, ha .avuto questo di caratteristico, che da essa non è derivata alcuna rilevante conseguenza sul lavoro scientifico effettivo. E ciò malgrado il fatto che tale definizione è stata la migliore caratterizzazione che fino ad oggi si sia avuta dell’aspetto economico dell’agire umano. In particolare, essa non è valsa ad arrestare quella tendenza verso la progressiva scomparsa della riflessione sul problema economico, che abbiamo

rilevata poco sopra. È chiaro perciò che, malgrado il suo valore, essa deve contenere dei limiti gravi. […]

In effetti, non si può dire che la definizione i di Robbins abbia esaurito il problema della natura della scienza economica. A conferma di ciò sembrano pertinenti le seguenti considerazioni. Robbins non si avvede, e comunque non rende esplicito, che la scarsità dei mezzi ha radici non esterne ma interne all'uomo. Essa non dipende, come lui dice, dal fatto che la «natura è avara», ma dal fatto che l'uomo limitato, e la stessa apparente «avarizia» della natura altro non è il riflesso della limitatezza dell'uomo. D'altra parte, quella limitatezza che costituisce una componente essenziale dell'atto economico, in quanto è limitatezza dell'uomo, ha questo di caratteristico, che può superare ogni sua data determinazione in un processo per sua natura illimitato. Questo processo di superamento trova la sua espressione materiale nel lavoro. Ogni operazione umana è necessariamente h prodotto di lavoro. Appunto in quanto è prodotto di lavoro, ogni operazione umana è suscettibile di essere considerata economicamente. Questa è la verità più profonda della teoria classica del valore. I mezzi dunque dei quali si parla nella definizione di Robbins, ove siano rettamente intesi, non possono essere altro che specificazioni del lavoro: il lavoro, se si vuole, è il mezzo al quale ogni altro è riconducibile. Ma nel momento in cui si riconosce la caratteristica essenziale del lavoro umano di poter sempre espandersi superando i limiti propri ogni sua specifica determinazione, sorge la possibilità di riconoscere nei fini, che in Robbins rimanevano al di fuori della portata del discorso economico, almeno un aspetto che li rende suscettibili di considerazione economica, e cioè la misura in cui essi contribuiscono II'espansione e all'arricchimento del lavoro umano, ossia all'allargamento dei mezzi, e quindi alla diminuzione della scarsità, che condiziona il processo di creazione della ricchezza.

Comunque, la necessità di approfondire i termini di questa questione per giungere a ridefinire in modo positivo la natura della scienza economica sembra implicita nella necessità di superare la crisi che questa scienza oggi attraversa. Ma quest'opera di approfondimento deve avere un presupposto fondamentale. Essa richiede cioè che, raccogliendo i frutti della critica marxiana, si superino nell'analisi del concetto di lavoro, le determinazioni che il lavoro storicamente riceve dai singoli sistemi storici e che, fino a oggi, sempre hanno impedito, sia pure per ragioni e in forme diverse, l'esplicazione piena della sua natura.

Le citazioni di Robbins sono tratte da: L. Robbins, An Inquiry into the Nature and Significance of Economic Science, Londra, I ed 1932, II ed. 1935; trad. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Torino 1947

Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce.

Pierre-Edouard Lemontey, (1762-1826), storico ed economista francese, membro del'Assemblea legislativa dal 1771 al 1772, è stato redattore di vari giornali sotto il Direttorio. Citato da Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115

Spreading Democracy. The Word’s Most Dangerous Idea è stato pubblicato in internet nel settembre/ottobre 2004. E’ inserito, con alcuni altri scritti dell’autore de Il secolo breve, nel libro Imperialismi, trad. it di Daniele Didero, Rizzoli, Milano 2007.

Siamo attualmente impegnati in ciò che dovrebbe essere un riordino pianificato del mondo a opera degli Stati più potenti. Le guerre in Iraq e in Afghanistan costituiscono solo una parte di un tentativo universale di creare un ordine mondiale attraverso l'«esportazione della democrazia». Ora, una simile idea non è soltanto donchisciottesca: è profondamente pericolosa. La retorica che circonda questa crociata sostiene che il sistema democratico è applicabile in una forma standardizzata (quella occidentale), che può essere introdotto ovunque con successo, che può offrire una risposta ai dilemmi internazionali del giorno d'oggi e che può portare la pace (anziché seminare ulteriore disordine). Male cose non stanno così.

La democrazia gode giustamente del favore popolare. Nel 1647, i Livellatori inglesi diffusero la potente idea secondo cui «il governo risiede interamente nel libero consenso del popolo». Con ciò intendevano riferirsi al diritto di voto esteso a tutti. Naturalmente, il suffragio universale non garantisce nessun particolare risultato politico, e le elezioni (come la Repubblica di Weimar ci insegna) non possono nemmeno garantire il loro stesso ripetersi. È anche improbabile che la democrazia elettorale produca risultati convenienti per le potenze imperialistiche o egemoniche. (Se la guerra in Iraq fosse dipesa dal consenso liberamente espresso della «comunità internazionale», non avrebbe mai avuto luogo.) Queste incertezze, comunque, non diminuiscono l'attrattiva della democrazia elettorale.

Oltre alla sua popolarità, ci sono diversi altri fattori che contribuiscono a spiegare l'illusoria e pericolosa convinzione secondo la quale sarebbe di fatto possibile diffondere la democrazia attraverso l'intervento di eserciti stranieri. La globalizzazione sembra suggerire che l'umanità si stia evolvendo verso l'adozione di modelli universali. Se i distributori di benzina, gli iPod e gli esperti di computer sono uguali in tutto il mondo, perché ciò non dovrebbe valere anche per le istituzioni politiche? Questo modo di vedere le cose tende tuttavia a sottovalutare la complessità del mondo. Anche la ricaduta nell'anarchia e negli spargimenti di sangue a cui abbiamo chiaramente assistito in molte parti del mondo ha accresciuto il fascino dell'i-dea di diffondere un nuovo ordine. Il caso dei Balcani è parso mostrare che le aree di disordine e di catastrofe umanitaria richiedono l'intervento - militare, se necessario - di Stati forti e stabili. Nell'assenza di un governo internazionale in grado di prendere effettivi provvedimenti, alcuni umanitaristi sono già pronti ad appoggiare un ordine mondiale imposto dalla potenza americana. Tuttavia, quando le potenze milîtari sconfiggono e occupano Stati più deboli affermando che stanno facendo un favore alle loro vittime e al mondo intero, dovremmo come minimo nutrire sempre qualche sospetto.

Tuttavia, c'è anche un altro fattore, che potrebbe essere quello più importante: gli Stati Uniti sono stati pronti a intervenire can la necessaria combinazione di megalomania e messianismo, derivata dalle loro origini rivoluzionarie.- Oggi gli Usa non hanno rivali in grado di sfidare la loro supremazia tecnologico-militare, sono convinti della superiorità del loro sistema sociale e, dal 1989, hanno smesso di ricordare (come invece avevano sempre fatto tutti i più grandi imperi conquistatori del passato) che il loro potere materiale ha dei limiti. Come il presidente Woodrow Wilson (che, ai suoi giorni, andò incontro a un fallimento internazionale spettacolare), gli ideologi di oggi vedono una società modello già attuata negli Stati Uniti: una combinazione di legge, liberalismo, competizione fra le imprese private e regolari sfide elettorali il cui esito viene deciso con il suffragio universale. Tutto ciò che resta da fare è rimodellare il mondo a immagine di questa «società libera».

Questa idea è un modo pericoloso di autoconvincersi. Anche nei casi in cui (intervento di una grande potenza potrebbe avere conseguenze moralmente o politicamente desiderabili, appoggiare questo tipo di azioni è rischioso, perché la logica e il modo di procedere degli Stati non sono quelli dei diritti universali. Ogni singola nazione mette al primo posto i propri interessi. Se ne hanno il potere, e se ritengono che il fine sia sufficientemente importante, gli Stati giustificano i mezzi necessari per raggiungerlo (anche se raramente lo fanno in pubblico), in particolare quando pensano che Dio sia dalla loro parte. Tanto gli imperi «buoni» quanto quelli «cattivi» hanno prodotto la barbarizzazione della nostra epoca, alla quale la «guerra contro il terrore» ha dato ora il proprio contributo.

Finché di fatto minaccerà l'integrità di valori universali, la campagna per diffondere la democrazia non avrà successo. Il XX secolo ci ha dimostrato che gli Stati non sono assolutamente in grado di rimodellare il mondo o di accelerare artificialmente le trasformazioni storiche. E non possono neppure ottenere un cambiamento sociale in modo semplicistico, limitandosi a trasferire i modelli di istituzioni da un Paese all'altro. Anche negli Stati-nazione territoriali, per un effettivo governo democratico sono necessarie condizioni non così frequenti o scontate: le strutture dello Stato devono godere di legittimità e consenso, e avere la capacità di mediare i conflitti fra i diversi gruppi interni. In mancanza di questi requisiti, non c'è un singolo popolo sovrano e, pertanto, non c'è legittimità per le maggioranze numeriche. Quando il consenso - che sia religioso, etnico o entrambe le cose - è assente, la democrazia viene a essere sospesa (come nel caso delle istituzioni democratiche nell'Irlanda del Nord), lo Stato si divide (come in Cecoslovacchia), o la società sprofonda in una permanente guerra civile (come in Sri Lanka). La scelta di «esportare la democrazia» ha aggravato i conflitti etnici e ha prodotto la disgregazione di Stati in regioni multinazionali e multicomunitarie sia dopo il 1918, sia dopo il 1989; si tratta, insomma, di una tetra prospettiva.

Oltre alle sue scarse probabilità di successo, lo sforzo di diffondere la democrazia nella sua versione standardizzata occidentale soffre anche di un radicale paradosso. In larga misura esso è considerato come una soluzione dei pericolosi problemi tra nazioni del mondo d'oggi. Attualmente, una parte sempre più grande della vita umana viene decisa al di là dell'influenza degli elettori, da entità sovranazionali pubbliche e private che non hanno elettorati (o, perlomeno, in cui non si svolgono elezioni democratiche). E la democrazia elettorale non può di fatto funzionare al di fuori di unità politiche come gli Stati-nazione. Gli Stati più forti stanno quindi cercando di diffondere un sistema che essi stessi ritengono inadeguato per affrontare le sfide del mondo d'oggi.

Questo punto è ben esemplificato dalla situazione europea. Un'entità come l'Unione Europea ha potuto svilupparsi in una struttura autorevole ed efficiente proprio perché non ha un elettorato (al di fuori di un piccolo numero - per quanto crescente - di governi membri). L'Ue non sarebbe andata da nessuna parte senza il suo «deficit democratico», e non può esserci futuro per il suo Parlamento per il semplice motivo che non esiste un «popolo europeo», bensì una mera collezione di «popoli membri» (più della metà del presunto «popolo» non si è preso neppure la briga di andare a votare per eleggere il Parlamento di Bruxelles nel 2004). L'«Europa» è oggi un'entità funzionante, ma a differenza dei suoi singoli Stati membri non gode di legittimità popolare o di autorità elettorale. Non ci sorprende quindi che, appena l'Ue si spinge oltre le negoziazioni fra i governi e diventa il soggetto di una campagna democratica negli Stati membri, iniziano a sorgere dei problemi.

Lo sforzo volto a esportare la democrazia è pericoloso anche per un motivo più indiretto: esso trasmette a coloro che non godono di questa forma di governo l'illusione che nei Paesi che ne godono la democrazia sia effettiva. Male cose stanno davvero così? Oggi noi conosciamo qualcosa su come sono state di fatto prese le decisioni di andare in guerra in Iraq in almeno due nazioni di indubitabile tradizione democratica: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. A parte sollevare a posteriori complessi problemi di inganni e occultamenti di verità, la democrazia elettorale e le assemblee rappresentative hanno avuto poco a che vedere con quel processo. Le decisioni sono state prese in privato da piccoli gruppi di persone, in modo non molto diverso da quanto sarebbe accaduto in Paesi non democratici. Fortunatamente, nel Regno Unito non è facile aggirare ed eludere l'indipendenza dei media. Ma la democrazia elettorale da sola certo non basta ad assicurare l'effettiva libertà di stampa, né i diritti dei cittadini o l'indipendenza del potere giudiziario.

Infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare.


Sono passati quarant’anni dal discorso che Robert Kennedy tenne all’Università del Kansas il 18 Marzo 1968, nel pieno della campagna elettorale per la Presidenza degli USA. Un discorso coraggioso, rivolto soprattutto ai giovani cui chiedeva di esprimere una decisa volontà di cambiamento. Il riferimento strategico era la fine della guerra in Vientnam e il risveglio di un rinnovato sentimento di dignità nazionale, orientato alla lotta sia contro la povertà materiale (negli USA e nel mondo) sia contro la miseria nei rapporti tra le persone, nelle aspirazioni e negli obiettivi dell’esistenza. Lotta contro la povertà materiale e quella spirituale, risveglio della solidarietà. Tre mesi dopo, Robert Kennedy fu assassinato.

Nel quadro del suo discorso colpiscono le parole anticipatrici dedicate alla denuncia dell’assoluta insufficienza dei consolidati parametri economici nel misurare l’effettivo benessere di una nazione. La critica al concetto stesso di PIL è la parte più nota di quel discorso. Qui la riprendiamo e traduciamo, dal testo ufficiale. In calce, il link al testo integrale, in lingua inglese.

[…] Ma anche se agiamo per eliminare la povertà materiale, c’è un altro più grande compito, cioè affrontare la miseria dell’appagamento – scopo e dignità – che ci affligge tutti. Troppo, e troppo a lungo, è sembrato che l’eccellenza personale e i valori comunitari si fossero arresi alla mera accumulazione di beni materiali. Il nostro Prodotto Interno Lordo è oggi oltre gli 8 miliardi di dollari annui, ma questo Prodotto Interno Lordo – se giudichiamo gli USA da questo – questo Prodotto Interno Lordo mette in conto l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze necessarie per ripulire le nostre strade dalle carneficine. Mette in conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le infrangono. Mette in conto la distruzione dei boschi sempreverdi e la perdita delle nostre meraviglie naturali nel caotico sprawl: Mette in conto il napalm e le testate nucleari e i carri armati che la polizia usa per combattere le rivolte nelle nostre città. Mette in conto i fucili Whitman’s e i coltelli Speck’s, e i programmi della televisione che glorificano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini.

Ma il Prodotto Interno Lordo non mette in conto la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione o la gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità delle nostre famiglie, l’intelligenza dei nostri dibattiti e l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né la nostra intelligenza né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né il nostro sapere, né la nostra compassione né la nostra dedizione al nostro paese. In sintesi, misura tutto, fuorché quello rende la vita degna d’essere vissuta. Ci sa dire tutto sull’America, fuorché ciò che ci rende orgogliosi d’essere americani.

Se tutto questo è vero qui a casa nostra, allora è vero in tutto il mondo. Dall’inizio dei nostri più orgogliosi vanti c’è la promessa di Jefferson, che noi, qui in questo paese, saremmo stati la migliore speranza dell’umanità. E adesso, se guardiamo alla guerra in Vietnam, ci meravigliamo se ancora rispettiamo sufficientemente le opinioni dell’umanità, e se gli altri mantengono un sufficiente rispetto per noi .oppure se, come l’antica Atene, perderemo la simpatia, e l’aiuto, e infine la nostra stessa sicurezza, a causa dell’egoistico perseguire i nostri esclusivi bersagli e i nostri esclusivi obiettivi. […]

Il testo integrale del discorso è in questo sito. Il brano riprtato qui sopra è stato verificato sulla registrazione audio tratta da questo sito

Franco Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004, p. 12

Per un lungo periodo i partiti sono stati il punto di condensazione privilegiato della cittadinanza, gli strumenti attraverso i quali i cittadini, anche quelli meno potenti, hanno esercitato il loro peso sulle grandi decisioni. I movimenti della cittadinanza attiva trovavano in essi la loro sede principale, anche se non unica, di espressione. A lungo quindi i partiti e lo sviluppo della democrazia di massa hanno marciato con lo stesso passo. Ma oggi ai partiti s'impone di mutare in modo radicale l'immagine di sé e di evitare di rimanere seduti su una soddisfatta e pericolosa autarchia ad ammirare i trofei vinti nelle passate competizioni. Una volta essi ospitavano, accanto agli interessi organizzati, il dibattito culturale e una straordinaria quantità di lavoro volontario. Troppo spesso invece oggi rassomigliano ad agenzie di collocamento, affollate da creditori impazienti di riscattare gli anni di passione commutandoli in piccole o grandi poltrone, convinti di detenere in modo permanente il monopolio legittimo della rappresentanza. Il briciolo di follia, che accompagnava la militanza volontaria e il dibattito culturale nei partiti, si è spostato altrove, alla ricerca di altri canali e altre forme di espressione civile. Si tratta di una ricerca difficile e, come accade alle ricerche vere, tutt'altro che immune da errori e semplificazioni,che pone un problema di grande rilievo: i partiti non possono più pretendere il monopolio della rappresentanza politica, ma devono accettare la sfida della competizione e del confronto, la sfida della cittadinanza. Noi non crediamo che i partiti siano finiti, ma la qualità della vita che li aspetta è nelle loro mani, dipende dalla loro capacità di muoversi nelle nuove condizioni, di tornare ad intercettare ancora un po' di quella follia.

Chi scriverà la storia della scienza della seconda metà del XX secolo non potrà trascurare un dato importante. In quella fase, l’economia come disciplina scientifica, sapere destinato ad accrescere la produzione e il consumo di ricchezza, sostituisce di fatto la fisica come Big Science, come scienza dominante delle società industriali. E' un aspetto che si tende a dimenticare l'apparato di razionalità che ha guidato le società post-industriali non è stato quello della fisica o della biologia o del pensiero filosofico, ma quello dell’economia. E nella seconda metà del Novecento la scienza economica si è messa al servizio di una gigantesca opera di saccheggio delle risorse naturali. E soprattutto ha finito coll'imporre una visione del mondo che ha separato la realtà sociale dalla biosfera, l'opera dell'uomo dal mondo vivente, la storia dalla natura. Il pensiero economico contemporaneo, nel suo progetto di crescita illimitata della produzione di ricchezza, si è di fatto fondato sulla completa rimozione del mondo fisico. E ha piegato a tale fine tutti gli altri saperi. A questi ultimi anche quando essi erano portatori di una visione sistemica e complessa della realtà naturale - ha lasciato un compito ancillare di mera riparazione delle distruzioni che esso promuoveva e ispirava. Anche le scienze ecologiche sono state costrette a star dietro ai danni prodotti, a svolgere un'opera sempre post-factum, di restaurazione, di riaggiustamento.”

Qui il testo integrale della lezione di Piero Bevilacqua

Pubblichiamo il discorso pronunciato da in occasione della consegna del XVII Premi Internacional Catalunya 2005

Con il passare degli anni, ogni giorno di più provo la sensazione di usurpare il tempo che mi resta da vivere e penso che nulla più giustifichi il posto che io occupo ancora su questa Terra. Pertanto la vostra decisione costituisce una preziosa consolazione, mi garantisce che vi sono sempre presente e che tutto ciò che ho prodotto negli ultimi tre quarti di secolo non è già sorpassato. Vi esprimo pertanto tutta la mia gratitudine.

Sono trascorsi pochi mesi da quando abbiamo saputo dalla stampa che per iniziativa della Generalitat de Catalunya a Barcellona è nata un’Euroregione Pirenei-Mediterraneo, una vasta contrada di frontiera a cavallo tra due regioni, alla quale occorre aggiungere i due paesi Baschi e dove si può riconoscere, ingrandita, l’antica Marche de Gothie (marca gotica) risalente ai tempi carolingi, il cui capoluogo, non dimentichiamolo, era appunto Barcellona.

Ho conosciuto un’epoca in cui l’identità nazionale era l’unico principio concepibile cui si ispiravano le relazioni tra gli Stati, ma sappiamo bene quali guai ne siano derivati. Così come voi l’avete concepita, l’euroregione crea tra i paesi nuove relazioni che superano le frontiere e controbilanciano le antiche rivalità per mezzo di legami concreti che prevalgono in scala locale sui piani economici e culturali. Che il vostro premio mi sia consegnato a Parigi, per un’eccezione dovuta alle prerogative dell’età e di cui vi ringrazio, è un modo in più per sottolineare questo avvicinamento tra gli Stati, per superare i confini dei quali è stata creata l’euroregione come quella tra Catalogna, i paesi ad essa vicini e la Francia meridionale.

Personalmente, avverto il riallacciarsi di questi legami con la Catalogna in modo alquanto intimo, essendo partecipe di una corrente di pensiero alla quale nel corso del XX secolo si è dato il nome di strutturalismo, ma contrariamente a ciò che si è abituati a credere non si tratta affatto di un’invenzione moderna. Già nel corso del XIII-XIV secolo era già apparsa, quanto meno a grandi linee, nel grande intellettuale catalano il cui nome in francese si pronuncia Raymond Lulle. Il mondo è naturalmente percepito come caos. Per ovviare a ciò, i predecessori di Lulle avevano ordinato per gradi gli aspetti del reale, in funzione delle loro più o meno grandi somiglianze. Al contrario, Lulle partì invece dalla differenza, opponendo i termini estremi e facendo scaturire tra loro delle mediazioni. Egli concepì altresì un sistema logico molto originale che permetteva, per mezzo di operazioni ricorrenti, di catalogare tutte le relazioni possibili tra i concetti e gli esseri e mise dunque il concetto di rapporto alla base del meccanismo del pensiero.

Dall’arte combinatoria da lui inventata, nel corso dei secoli Nicolas de Cues, Charles de Bovelles, Leibniz e in seguito la linguistica strutturale e l’antropologia trassero validi insegnamenti.

E in considerazione del legame con il movimento di idee al quale faccio riferimento che, se voi lo permettete, io metterei sotto gli auspici di Raymond Lulle l’onore che ricevo oggi. (Del resto come Dante per il toscano e il maestro Eckart per il tedesco, Lulle non fu forse il padre della vostra lingua letteraria?).

Poiché sono nato all’inizio del XX secolo e in considerazione del fatto che fino alla sua fine ne sono stato uno dei testimoni, mi viene spesso chiesto di pronunciarmi su di esso. Sarebbe sconveniente che io mi elevassi a giudice degli avvenimenti tragici che l’hanno contrassegnato: ciò spetta a coloro che li vissero in modo doloroso, mentre io sono stato fortunato a più riprese, anche se l’intera mia carriera ne è stata fortemente influenzata.

L’etnologia - in merito alla quale ci si può domandare se sia prima di tutto una scienza o un’arte (ma può anche darsi che sia entrambe le cose) - affonda le sue radici in parte in un’epoca antica e in parte in un’altra, recente.

Alla fine del Medioevo e nel Rinascimento, quando gli uomini riscoprirono l’antichità greco-romana, quando i gesuiti fecero del greco e del latino il presupposto stesso del loro insegnamento, non praticarono forse una forma primigenia di etnologia? Fu allora che si ammise che nessuna civiltà è in grado di analizzarsi se non dispone di qualche altra civiltà che serva da termine di paragone.

Il Rinascimento trovò nella letteratura antica il modo di mettere in prospettiva la propria cultura, mettendo a confronto i concetti contemporanei con quelli di altri tempi e di altri luoghi. La sola differenza tra la cultura classica e la cultura etnografica è dovuta all’estensione del mondo conosciuto nelle rispettive epoche: all’inizio del Rinascimento, l’universo umano era delimitato dai confini del bacino del Mediterraneo. Di tutto il resto si congetturava soltanto l’esistenza, ma si sapeva già che nessuna frazione di umanità poteva aspirare a capirsi se non ponendosi in rapporto con tutte le altre.

Nel corso del XVIII e del XIX secolo, l’umanesimo si diffonde dunque grazie agli sviluppi dell’esplorazione geografica. Nelle carte geografiche sono incluse Cina e India. La nostra terminologia universitaria, che designa il loro studio sotto il nome di filologia non classica, con la sua incapacità a creare un termine originale ammette di fatto che si tratta del medesimo movimento umanista che si estende a un territorio nuovo. Interessandosi poi alle ultime civiltà ancora snobbate - le società dette primitive - l’etnologia fece percorrere all’umanesimo la sua terza tappa.

Essendo scomparse le civiltà antiche, non ci si poteva spingere fino ad esse se non attraverso i testi e le tendenze di pensiero. Quanto all’Oriente e all’Estremo Oriente, dove tale difficoltà non sussisteva, il metodo rimase immutato, perché si credeva che civiltà così lontane non meritassero attenzione se non per le loro produzioni più dotte e più raffinate.

Le modalità conoscitive dell’etnologia sono al contempo più esteriori e più interiori (si potrebbe dire più grezze e più fini) di quelle dei suoi precursori. Per penetrare in società dall’accesso particolarmente difficile, l’etnologia è obbligata a collocarsi molto al di fuori (antropologia fisica, preistoria, tecnologia) e altresì molto dentro, tramite l’identificazione da parte dell’etnologo del gruppo con il quale condivide l’esistenza e dando estrema importanza alle più piccole sfumature della vita spirituale degli indigeni.

Sempre al di qua e al di là dell’umanesimo tradizionale, l’etnologia gli va oltre, in tutti i sensi.

Il suo campo d’azione include la totalità delle terre abitate, mentre il suo metodo mette insieme procedimenti derivanti da tutte le forme del sapere, le scienze umane e le scienze naturali.

Ma la nascita dell’etnologia procede altresì da considerazioni più tardive e di altro ordine. E nel corso del XVIII secolo che l’Occidente ha acquisito la convinzione che l’estensione progressiva della propria civiltà era ineluttabile e che avrebbe minacciato l’esistenza di migliaia di società più umili e fragili le cui lingue, credenze, arti e istituzioni erano tuttavia testimonianze insostituibili della ricchezza e della diversità delle creature umane. Se si nutriva la speranza di poter conoscere un giorno che cosa è l’uomo, era importante finché si era ancora in tempo riunire tutte queste realtà culturali totalmente estranee agli apporti e alle imposizioni dell’Occidente, compito tanto più pressante in quanto queste società senza scrittura non fornivano alcun documento scritto né, per la maggior parte, documentazioni figurative.

Ebbene, prima ancora che tale missione sia sufficientemente portata avanti, tutto ciò è in procinto di scomparire o, per lo meno, di cambiare radicalmente. I piccoli popoli che noi definiamo indigeni ricevono ora tutte le attenzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e, allorché sono invitati alle riunioni internazionali, ciascuno di essi prende coscienza dell’esistenza dell’altro. Gli indiani americani, i maori della Nuova Zelanda, gli aborigeni australiani scoprono di aver sperimentato destini assai simili e di possedere interessi comuni. Al di là dei particolarismi che conferiscono a ciascuna cultura la propria specificità, si va delineando una coscienza collettiva. Al tempo stesso ciascuna di queste culture si impregna dei metodi, delle tecniche e dei valori dell’Occidente. Senza alcun dubbio questa uniformazione non sarà mai portata a termine. Altre differenze vanno progressivamente emergendo, offrendo nuovo materiale alla ricerca etnologica. Ma in un’umanità diventata compartecipe, queste differenze saranno di altra natura: non più esterne alla civiltà occidentale, bensì interne alle forme ibride di essa, ed estese a tutta la Terra.

Questo cambiamento di rapporti tra le varie componenti della famiglia umana sviluppata in modo diseguale, da un’angolazione tecnica è la conseguenza di uno sconvolgimento più profondo. Poiché nel corso dell’ultimo secolo ho assistito a questa catastrofe senza eguali nella storia dell’umanità, mi si permetterà di evocarla su un piano personale. Alla mia nascita la popolazione della Terra contava un miliardo e mezzo di abitanti. Quando entrai nella vita attiva, verso il 1930, gli abitanti della Terra erano già arrivati a due miliardi. Oggi sono sei miliardi e se dobbiamo credere alle previsioni dei demografi tra qualche decennio si arriverà a nove miliardi.

Gli esperti ci dicono che quest’ultima cifra rappresenterà il punto più alto e che in seguito la popolazione declinerà così rapidamente - aggiungono altri - che nel volgere di qualche secolo graverà una minaccia sulla sopravvivenza della nostra specie. Ad ogni buon conto essa avrà già esercitato gravi danni sulla diversità, non soltanto culturale, ma altresì biologica, facendo scomparire molte specie animali e vegetali.

Il responsabile di queste estinzioni è senza alcun dubbio l’uomo, ma le loro ripercussioni si ritorcono contro di lui. Non esiste alcuna grande calamità contemporanea, probabilmente, che non abbia la propria origine diretta o indiretta nella difficoltà crescente di vivere insieme, inconsciamente avvertita da un’umanità in preda all’esplosione demografica e che - al pari di quei bachi della farina che si intossicano a distanza nel sacco che li rinchiude, ben prima che cominci a mancare loro il cibo - si metterebbe a odiarsi da sola, perché una prescienza misteriosa l’avverte che sta diventando troppo numerosa perché ciascuno dei suoi membri possa liberamente gioire dei suoi beni essenziali, che sono lo spazio aperto, l’acqua pura e l’aria incontaminata.

E così la sola chance offerta all’umanità sarebbe quella di riconoscere di essere diventata vittima di se stessa. Tale condizione la mette su un piano di eguaglianza con qualsiasi altra forma di vita che essa si è adoperata e continua ad adoperarsi a distruggere.

Tuttavia, se l’uomo possiede prima di tutto dei diritti in quanto essere vivente, ne risulta che tali diritti, riconosciuti all’umanità in quanto specie, trovano i loro limiti naturali nei diritti delle altre specie. I diritti dell’umanità cessano di esistere nel momento stesso in cui esercitarli mette a repentaglio l’esistenza di altre specie.

Il diritto alla vita e al libero sviluppo delle specie viventi ancora rappresentate sulla Terra può soltanto definirsi imprescrittibile, per la ragione molto semplice che la scomparsa di una specie qualsiasi scava un buco, irreparabile, a scala umana, nel sistema della creazione.

Soltanto questo modo di considerare l’uomo potrebbe raccogliere l’assenso di tutte le civiltà. La nostra prima di tutto, perché il concetto che vi ho appena illustrato è lo stesso dei giureconsulti romani, intrisi di influenze stoiche, che definirono la legge naturale come l’insieme di rapporti generali fissati dalla natura tra tutti gli esseri viventi per la loro comune conservazione; quello altresì delle grandi civiltà orientali e dell’Estremo Oriente, ispirate dall’induismo e dal buddismo; quello, infine, dei popoli cosiddetti sottosviluppati e persino dei più umili tra loro, ovvero le società prive di scrittura che gli etnologi studiano. Grazie a sagge usanze, che avremmo torto a relegare al rango di superstizioni, esse evitano la distruzione da parte dell’uomo delle altre specie viventi, imponendogliene il rispetto morale, associato a regole molto severe per garantirne la conservazione. Per quanto queste ultime società siano assai differenti le une dalle altre, esse concordano nel fare dell’uomo un soggetto ricevente e non un maestro della creazione.

Questa è la lezione che l’etnologia ha appreso da esse, e auguriamoci che al momento di unirsi al concerto delle nazioni queste società la mantengano integra e che, grazie al loro esempio, noi si sappia esserne ispirati.

(Traduzione di Anna Bissanti)

E’ un ricordo della mia infanzia. Abitavo a Gottinga nel dicembre del milleottocentosettanta. Mio padre ed io giungemmo all’Accademia quando il presidente Maust stava cominciando l’appello dei partecipanti alla Gara Mondiale di Matematica. Subito babbo andò a mettersi fra gli iscritti dopo avermi affidato alla signora Katten, amica di famiglia.

Seppi da lei che il colpo del cannone di Pombo, il bidello, avrebbe segnato l’inizio della storica contesa. La signora Katten mi raccontò un episodio, ignoto ai più, intorno all’attività di Pombo. Costui sparava da trent’anni un colpo di cannone per annunciare il mezzogiorno preciso. Una volta se n’era dimenticato. Il dì appresso, allora, aveva sparato il colpo del giorno prima, e così di seguito fino a quel venerdì del milleottocentosettanta, Nessuno a Gottinga si era mai accorto che Pombo sparava il colpo del giorno avanti.

Esauriti i preliminari, la gara ebbe inizio alla presenza del principe Ottone e di un ragguardevole gruppo di intellettuali.

“Uno, due, tre, quattro, cinque… " Nella sala si udivano soltanto le voci dei gareggianti.

Alle diciassette circa, avevano superato il ventesimo migliaio. Il pubblico si appassionava alla nobile contesa e i commenti si intrecciavano. Alle diciannove, Alain, della Sorbona, si accasciò sfinito.

Alle venti, i superstiti erano sette.

”36767, 36768, 36769, 36770…”

Alle ventuno Pombo accese i lampioni. Gli spettatori ne approfittarono per mangiare le provviste portate da casa. “40719, 40720, 40721…”

Io guardavo mio padre, madido di sudore, ma tenace. La signora Katten accarezzandomi i capelli ripeteva come un ritornello: ’Che bravo babbo hai,’ e a me non pareva neppure di avere fame. Alle ventidue precise avvenne il primo colpo di scena: l’algebrista Pull scattò:

"’Un miliardo "

Un oh di meraviglia coronò l’inattesa sortita; si restò tutti col fiato sospeso.

Binacchi , un italiano, aggiunse issofatto:

“’Un miliardo di miliardi di miliardi.’ Nella sala scoppiò un applauso subito represso dal Presidente. Mio padre guardò intorno con superiorità, sorrise alla signora Katten e cominciò:

“’Un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi…’

La folla delirava: "Evviva, evviva." La signora Katten e io, stretti uno all’altro, piangevamo dall’emozione.

“…di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi.’

Il presidente Maust, pallidissimo, mormorava a mio padre, tirandolo per le falde della palandrana: ’Basta, basta, le farà male.’ Mio padre seguitava fieramente:

“… di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi ...’ A poco a poco la sua voce si smorzò, l’ultimo fievole di miliardi gli uscì dalle labbra come un sospiro, indi si abbattè sfinito sulla sedia. Gli spettatori in piedi lo acclamavano freneticamente.

Il principe Ottone gli si avvicinò e stava per appuntargli una medaglia sul petto quando Gianni Binacchi urlò:

"Più uno!"

La folla precipitatasi nell’emiciclo portò in trionfo Gianni Binacchi. Quando tornammo a casa, mia madre ci aspettava ansiosa alla porta. Pioveva. Il babbo, appena sceso dalla diligenza, le si gettò tra le braccia singhiozzando: "Se avessi detto più due avrei vinto io."

CORNO INGLESE

Il vento che stasera suona attento

- ricorda un forte scotere di lame -

gli strumenti dei fitti alberi e spazza

l'orizzonte di rame

dove strisce di luce si protendono

come aquiloni al cielo che rimbomba

(Nuvole in viaggio, chiari

reami di lassù! D'alti Eldoradi

malchiuse porte!)

e il mare che scaglia a scaglia,

livido, muta colore

lancia a terra una tromba

di schiume intorte;

il vento che nasce e muore

nell'ora che lenta s'annera

suonasse te pure stasera

scordato strumento,

cuore.

FALSETTO

Esterina, i vent'anni ti minacciano,

grigiorosea nube

che a poco a poco in sé ti chiude.

Ciò intendi e non paventi.

Sommersa ti vedremo

nella fumea che il vento

lacera o addensa, violento.

Poi dal fiotto di cenere uscirai

adusta più che mai,

proteso a un'avventura più lontana

l'intento viso che assembra

l'arciera Diana.

Salgono i venti autunni,

t'avviluppano andate primavere;

ecco per te rintocca

un presagio nell'elisie sfere.

Un suono non ti renda

qual d'incrinata brocca

percossa!; io prego sia

per te concerto ineffabile

di sonagliere.

La dubbia dimane non t'impaura.

Leggiadra ti distendi

sullo scoglio lucente di sale

e al sole bruci le membra.

Ricordi la lucertola

ferma sul masso brullo;

te insidia giovinezza,

quella il lacciòlo d'erba del fanciullo.

L'acqua' è la forza che ti tempra,

nell'acqua ti ritrovi e ti rinnovi:

noi ti pensiamo come un'alga, un ciottolo

come un'equorea creatura

che la salsedine non intacca

ma torna al lito più pura.

Hai ben ragione tu!

Non turbare

di ubbie il sorridente presente.

La tua gaiezza impegna già il futuro

ed un crollar di spalle

dirocca i fortilizî

del tuo domani oscuro.

T'alzi e t'avanzi sul ponticello

esiguo, sopra il gorgo che stride:

il tuo profilo s'incide

contro uno sfondo di perla.

Esiti a sommo del tremulo asse,

poi ridi, e come spiccata da un vento

t'abbatti fra le braccia

del tuo divino amico che t'afferra.

Ti guardiamo noi, della razza

di chi rimane a terra.

Da OSSI DI SEPPIA

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l'ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d'orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano

a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com'è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Non rifugiarti nell'ombra

di quel fólto di verzura

come il falchetto che strapiomba

fulmineo nella caldura.

E' ora di lasciare il canneto

stento che pare s'addorma

e di guardare le forme

della vita che si sgretola.

Ci muoviamo in un pulviscolo

madreperlaceo che vibra,

in un barbaglio che invischia

gli occhi e un poco ci sfibra.

Pure, lo senti, nel gioco d'aride onde

che impigra in quest'ora di disagio

non buttiamo già in un gorgo senza fondo

le nostre vite randage.

Come quella chiostra di rupi

che sembra sfilaccicarsi

in ragnatele di nubi;

tali i nostri animi arsi

in cui l'illusione brucia

un fuoco pieno di cenere

si perdono nel sereno

di una certezza: la luce.

a K.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida

scorta per avventura tra le petraie d'un greto,

esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;

e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,

se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,

o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua

e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie

sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,

e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia

schietto come la cima d'una giovinetta palma...

Mia vita, a te non chiedo lineamenti

fissi, volti plausibili o possessi.

Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso

sapore han miele e assenzio.

Il cuore che ogni moto tiene a vile

raro è squassato da trasalimenti.

Così suona talvolta nel silenzio

della campagna un colpo di fucile.

Portami il girasole ch'io lo trapianti

nel mio terreno bruciato dal salino,

e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti

del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,

si esauriscono i corpi in un fluire

di tinte: queste in musiche. Svanire

è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce

dove sorgono bionde trasparenze

e vapora la vita quale essenza;

portami il girasole impazzito di luce.

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l'incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Ciò che di me sapeste

non fu che la scialbatura,

la tonaca che riveste

la nostra umana ventura.

Ed era forse oltre il telo

l'azzurro tranquillo;

vietava il limpido cielo

solo un sigillo.

O vero c'era il falòtico

mutarsi della mia vita,

lo schiudersi d'un'ignita

zolla che mai vedrò.

Restò così questa scorza

la vera mia sostanza;

il fuoco che non si smorza

per me si chiamò: l'ignoranza.

Se un'ombra scorgete, non è

un'ombra - ma quella io sono.

Potessi spiccarla da me,

offrirvela in dono.

RIVIERE

Riviere,

bastano pochi stocchi d'erbaspada

penduli da un ciglione

sul delirio del mare;

o due camelie pallide

ne i giardini deserti,

e un eucalipto biondo che si tuffi

tra sfrusci e pazzi voli

nella luce;

ed ecco che in un attimo

invisibili fili a me si asserpano,

farfalla in una ragna

di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.

Dolce cattività, oggi, riviere

di chi s'arrende per poco

come a rivivere un antico giuoco

non mai dimenticato.

Rammento l'acre filtro che porgeste

allo smarrito adolescente, o rive:

nelle chiare mattine si fondevano

dorsi di colli e cielo; sulla rena

dei lidi era un risucchio ampio, un eguale

fremer di vite

una febbre del mondo; ed ogni cosa

in se stessa pareva consumarsi.

Oh allora sballottati

come l'osso di seppia dalle ondate

svanire a poco a poco;

diventare

un albero rugoso od una pietra

levigata dal mare; nei colori

fondersi dei tramonti; sparir carne

per spicciare sorgente ebbra di sole,

dal sole divorata...

Erano questi,

riviere, i voti del fanciullo antico

che accanto ad una rósa balaustrata

lentamente moriva sorridendo.

Quanto, marine, queste fredde luci

parlano a chi straziato vi fuggiva.

Lame d'acqua scoprentisi tra varchi

di labili ramure; rocce brune

tra spumeggi; frecciare di rondoni

vagabondi...

Ah, potevo

credervi un giorno o terre,

bellezze funerarie, auree cornici

all'agonia d'ogni essere.

Oggi torno

a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore

par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.

Triste anima passata

e tu volontà nuova che mi chiami,

tempo è forse d'unirvi

in un porto sereno di saggezza.

Ed un giorno sarà ancora l'invito

di voci d'oro, di lusinghe audaci,

anima mia non più divisa. Pensa:

cangiare in inno l'elegia; rifarsi;

non mancar più.

Potere

simili a questi rami

ieri scarniti e nudi ed oggi pieni

di fremiti e di linfe,

sentire

noi pur domani tra i profumi e i venti

un riaffluir di sogni, un urger folle

di voci verso un esito; e nel sole

che v'investe, riviere,

rifiorire!

DORA MARKUS

1

Fu dove il ponte di legno

mette a Porto Corsini sul mare alto

e rari uomini, quasi immoti, affondano

o salpano le reti. Con un segno

della mano additavi all'altra sponda

invisibile la tua patria vera.

Poi seguimmo il canale fino alla darsena

della città, lucida di fuliggine,

nella bassura dove s'affondava

una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un'antica vita

si screzia in una dolce

ansietà d'Oriente,

le tue parole iridavano come le scaglie

della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare

agli uccelli di passo che urtano ai fari

nelle sere tempestose:

è una tempesta anche la tua dolcezza,

turbina e non appare,

e i suoi riposi sono anche piú rari.

Non so come stremata tu resisti

in questo lago

d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse

ti salva un amuleto che tu tieni

vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco,

d'avorio; e così esisti!

2

Ormai nella tua Carinzia

di mirti fioriti e di stagni,

china sul bordo sorvegli

la carpa che timida abbocca

o segui sui tigli, tra gl'irti

pinnacoli le accensioni

del vespro e nell'acque un avvampo

di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende

sull'umida conca non porta

col palpito dei motori

che gemiti d'oche e un interno

di nivee maioliche dice

allo specchio annerito che ti vide

diversa una storia di errori

imperturbati e la incide

dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!

Ma è scritta già in quegli sguardi

di uomini che hanno fedine

altere e deboli in grandi

ritratti d'oro e ritorna

ad ogni accordo che esprime

l'armonica guasta nell'ora

che abbuia, sempre piú tardi.

E scritta là. Il sempreverde

alloro per la cucina

resiste, la voce non muta,

Ravenna è lontana, distilla

veleno una fede feroce.

Che vuole da te? Non si cede

voce, leggenda o destino...

Ma è tardi, sempre piú tardi.

ALLA MANIERA DI FILIPPO DE PISIS

NELL' INVIARGLI QUESTO LIBRO

...l'Arno balsamo fino.

Lapo Gianni

Una botta di stocco nel zig zag

del beccaccino -

e si librano piume su uno scrímolo.

(Poi discendono là, fra sgorbiature

di rami, al freddo balsamo del fiume.)

TEMPI DI BELLOSGUARDO

Oh come là nella corusca

distesa che s'inarca verso i colli,

il brusío della sera s'assottiglia

e gli alberi discorrono col trito

mormorio della rena; come limpida

s'inalvea là in decoro

di colonne e di salci ai lati e grandi salti

di lupi nei giardini, tra le vasche ricolme

che traboccano,

questa vita di tutti non piú posseduta

del nostro respiro;

e come si ricrea una luce di zaffiro

per gli uomini

che vivono laggiú: è troppo triste

che tanta pace illumini a spiragli

e tutto ruoti poi con rari guizzi

su l'anse vaporanti, con incroci

di camini, con grida dai giardini

pensili, con sgomenti e lunghe risa

sui tetti ritagliati, tra le quinte

dei frondami ammassati ed una coda

fulgida che trascorra in cielo prima

che il desiderio trovi le parole!

*

Derelitte sul poggio

fronde della magnolia

verdibrune se il vento

porta dai frigidari

dei pianterreni un travolto

concitamento d'accordi

ed ogni foglia che oscilla

o rilampeggia nel folto

in ogni fibra s'imbeve

di quel saluto, e piú ancora

derelitte le fronde

dei vivi che si smarriscono

nel prisma del minuto,

le membra di febbre votate

al moto che si ripete

in circolo breve: sudore

che pulsa, sudore di morte,

atti minuti specchiati,

sempre gli stessi, rifranti

echi del batter che in alto

sfaccetta il sole e la pioggia,

fugace altalena tra vita

che passa e vita che sta,

quassú non c'è scampo: si muore

sapendo o si sceglie la vita

che muta ed ignora: altra morte.

E scende la cuna tra logge

ed erme: l'accordo commuove

le lapidi che hanno veduto

le immagini grandi, l'onore,

l'amore inflessibile, il giuoco,

la fedeltà che non muta.

E il gesto rimane: misura

il vuoto, ne sonda il confine:

il gesto ignoto che esprime

sé stesso e non altro: passione

di sempre in un. sangue e un cervello

irripetuti; e fors'entra

nel chiuso e lo forza con l'esile

sua punta di grimaldello.

L'immagine è un quadro di Filippo De Pisis

Premier jour d'école dans une classe américaine. L'institutrice présente

à la classe un nouvel élève, Sakiro Suzuki (le fils du boss de Sony).

L'heure commence.

L'institutrice:

- Bon, voyons qui maîtrise l'histoire de la culture américaine. Qui a

dit: DONNEZ-MOI LA LIBERTÉ OU LA MORT ?"

Pas un murmure dans la salle. Suzuki lève la main: "Patrick Henry, 1775, à Philadelphia"

- Très bien Suzuki !

- Et qui a dit: L'ETAT EST LE PEUPLE, LE PEUPLE NE PEUT PAS SOMBRER ?

- Abraham Lincoln, 1863 à Washington, répond Suzuki

L'institutrice regarde les élève et dit :

- Honte à vous ! Suzuki est Japonais et il connaît l'histoire américaine

mieux que vous !

On entend alors une petite voix au fond de la classe:

- Allez tous vous faire f..., connards de Japonais !

- Qui a dit ça ? S'insurge l'institutrice

Suzuki lève la main et sans attendre, dit:

- Général Mc Arthur, 1942, au Canal de Panama et Lee Iacocca, 1982, lors de l'assemblée générale de General Motors

Dans la classe plongée dans le silence, on entend un discret :

- y'm'fait vomir...

L'institutrice hurle :

- Qui a dit ça ?

Et Suzuki:

- George Bush Senior au premier Ministre Tanaka pendant un dîner officiel à Tokyo en 1991.

Un des élèves se lève alors et crie

- pomp'moi l'gland !!

Et Suzuki, sans ciller:

- Bill Clinton à Monica Lewinsky, 1997 dans la salle ovale de la Maison Blanche à Washington.

Un autre élève lui hurle alors:

- Suzuki, espèce de merde !

Et Suzuki:

- Valentino Rossi, lors du Grand Prix de Moto en Afrique du Sud en 2002.

La salle tombe littéralement dans l'hystérie, l'institutrice perd connaissance, la porte s'ouvre et le directeur de l'école apparaît:

- MERDE, j'ai encore jamais vu un bordel pareil !

Et Suzuki:

- Chirac, après s'être vu remettre les comptes de la Sécu par le premier ministre Raffarin.

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History Lesson

It was the first day of school and a new student named Suzuki, the son of a Japanese businessman, entered the fourth grade.

The teacher said, "Let's begin by reviewing some American history. Who said "Give me Liberty, or give me Death?"

She saw a sea of blank faces, except for Suzuki, "Patrick Henry, 1775." He said."

Very good! Who said 'Government of the people, by the people, for the people,

shall not perish from the earth'?"

Again, no response except from Suzuki: "Abraham Lincoln, 1863." said Suzuki.

The teacher snapped at the class, "Class, you should be ashamed. Suzuki, who is new to our country, knows more about its history than you do."

She heard a loud whisper: "Screw the Japs."

"Who said that?" she demanded.

Suzuki put his hand up. "Lee Iacocca, 1982."

At that point, a student in the back said, "I'm gonna puke."

The teacher glares and asks "All right! Now, who said that?"

Again, Suzuki says, "George Bush to the Japanese Prime Minister, 1991."

Now furious, another student yells, "Oh yeah? Suck this!"

Suzuki jumps out of his chair waving his hand and shouts to the teacher, "Bill Clinton, to Monica Lewinsky, 1997!"

Now with almost a mob hysteria someone said,

"You little shit. If you say anything else, I'll kill you."

Suzuki frantically yells at the top of his voice,

"Gary Condit to Chandra Levy 2001."

The teacher fainted. And as the class gathered around the teacher on the floor, someone said,

"Oh shit, we're in BIG trouble!"

Suzuki said, "Arthur Andersen, 2002."

Dalla pagina “Dirty Jokes” del sito del signor Vikar (New York)

http://www.vikarsrant.net/HistoryLessons.htm

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