Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
di Martin Niemöller
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari.
E fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei.
E stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.
queste parole, declinate in diverse versioni e diverse lingue girarono il mondo negli anni in cui il nazismo da partito divenne regime
MARZO
di Salvatore Di Giacomo
Mo nu cielo celeste,
mo n’aria cupa e nera,
mo d’’o vierno ‘e tempesta,
mo n’aria ‘e Primmavera.
N’ auciello freddigliuso
aspetta ch’esce ‘o sole,
ncopp’’o tturreno nfuso
suspireno ‘e vviole.
Catarì!…Che buo’ cchiù?
Ntiénneme, core mio!
Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu,
e st’ auciello songo io.
ribelle che sonnecchi,
non cedere alle lusinghe,
non farti buono,
di sterco e di sangue
è il mondo che attorno
ti puzza,
resta insano,
questo è il tuo posto,
ragazzo sulle barricate,
con un sasso in mano.
Henry Scott Holland (Ledbury, 27 gennaio 1847 -17 marzo 1918) è stato un teologo e scrittore britannico. Era profondamente interessato alla giustizia sociale e fondò il Pesek (Politica, Economia, Socialismo, Etica e cristianesimo), che condannava lo sfruttamento capitalista della povertà urbana. Nel 1889, ha fondato la Christian Social Union (CSU).
Death is nothing
«Death is nothing at all. It does not count.
I have only slipped away into the next room.
Nothing has happened.
Everything remains exactly as it was.
I am I, and you are you, and the old life that we lived so fondly together is untouched, unchanged.
Whatever we were to each other, that we are still.
Call me by the old familiar name.
Speak of me in the easy way which you always used.
Put no difference into your tone.
Wear no forced air of solemnity or sorrow.
Laugh as we always laughed at the little jokes that we enjoyed together.
Play, smile, think of me, pray for me.
Let my name be ever the household word that it always was.
Let it be spoken without an effort, without the ghost of a shadow upon it.
Life means all that it ever meant.
It is the same as it ever was.
There is absolute and unbroken continuity.
What is this death but a negligible accident?
Why should I be out of mind because I am out of sight?
I am but waiting for you, for an interval, somewhere very near, just round the corner.
All is well.
Nothing is hurt; nothing is lost.
One brief moment and all will be as it was before.
How we shall laugh at the trouble of parting when we meet again! »
La morte non è niente
La morte non è niente
Piegati da un peso
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,
uomini di poche parole dai pesanti caffettani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
- un ricordo- oppure l'ultimo tozzo di pane.
Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre '39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel '45,
la Somalia, l'Afghanistan o l'Egitto.
C'è sempre un carro, o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d'argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un'auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,
e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi).
Tascinando i piedi,
vanno lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.
Adam Zagajewski
Il manifesto, 6 luglio 2016 (p.d.)
Una fotografia costruita sul silenzio, quindi, che è la trasposizione dell’idea del viaggio, della distanza, di una certa fragilità connessa con la condizione esistenziale della solitudine, ma che sollecita anche una memoria sensoriale. Certamente tematiche che hanno a che fare con il vissuto personale del regista iraniano che, come è noto, iniziò la carriera cinematografico con il cortometraggio Il pane e il vicolo (1970), seguito quattro anni dopo dal film Il viaggiatore, ma che durante la Rivoluzione del ’79 – essendo impossibile girare film nel suo paese – decise di trasferirsi in campagna. È lì, nella vastità degli orizzonti dominati da forti contrasti, tra luci abbaglianti e una natura non sempre accondiscendente, che cominciò a fotografare.
Quegli scatti erano il «dono» che faceva agli amici rimasti a Teheran: il modo per condividere con loro la libertà della natura, di luoghi incontaminati. «Queste mie foto e visioni sono il contrario della società iraniana e di quello che succede in Iran» – affermò nel 2009, in occasione della personale Abbas Kiarostami. Fotografie a colori e bianco e nero, organizzata a Roma dalla galleria Il Gabbiano – «Ho iniziato a fare foto così venticinque anni fa e, se ancora oggi continuo a scattarle nello stesso modo, è perché la gente può rovinare la società, ma non le pianure e la natura».
Una natura che, con le sue interferenze emotive, si rivela profondamente diversa rispetto alla visione lucida con cui la raffigura un altro grande interprete iraniano, Nasrollah Kasraian (attivo dal 1966), primo fotografo in Iran ad occuparsi di paesaggi. Come lui Kiarostami, che ne apprezzava il rigore, alternava il linguaggio del bianco e nero con il colore. Dichiarando, tuttavia, la predilezione per il primo che gli consentiva di prendere le distanze dal soggetto, interiorizzandolo: «soprattutto quando fotografo la natura, mi permette di farla diventare la ‘mia’ natura». Diversamente dalla sequenza cinematografica – «la fotografia è la madre del cinema», sosteneva – le sue immagini fisse sono momenti isolati, inquadrati spesso attraverso il parabrezza dell’automobile: una sorta di cornice, ulteriore filtro per connettere il mondo interno con quello esterno. Nascono così, frutto di una solo apparente casualità, gli «haiku fotografici» della serie Rain (2007-2008). «Stavo guidando, pioveva e il tergicristallo non funzionava. La macchina fotografica era sul sedile, accanto a me. Mi sono fermato e ho cominciato a scattare foto».
In realtà quel momento era stato preceduto da anni di attraversamento dello sguardo, al di là del parabrezza o dei finestrini dell’automobile, in viaggio – ancora ed ancora – per le strade dell’Iran e non solo. Il viaggio stesso è un tema centrale della sua produzione cinematografica, occasione per esplorare territori lontani, dall’Africa al Giappone passando per l’Italia con Copia conforme (2010), di cui le riprese sono state effettuate in Toscana. Interamente girato in un’automobile è, ad esempio, Ten (2002), come successivamente Like someone in love (2012), mentre il treno in corsa è lo scenario di Tickets (2005) con E. Olmi e K. Loach. Però «L’attimo decisivo», tornando alla fotografia, arrivò solo quando, con l’avvento della tecnologia digitale, Kiarostami ebbe la possibilità di dominare la luce, attenuando i riflessi che inevitabilmente avrebbero creato delle interferenze. «Pensai, allora, che era arrivato il momento di tornare a quella vecchia idea. Avrei potuto fotografare guidando. Feci così: una mano sul volante e l’altra impegnata a scattare la foto».
Il fluire delle immagini, catturate in velocità, sono comunque frutto di un’«immediatezza costruita», ossimoro permettendo. La caratteristica di una dominante riflessiva che appartiene alla fotografia su pellicola – determinata dalla necessità del limite delle pose (i rullini ne contavano 24 o 36) – sembra però una costante anche della «deviazione» digitale con cui Abbas Kiarostami ha confermato la sua libertà di visione. «In quell’indefinibile danza di linee, punti e colori che forma l’immagine», la presenza dell’uomo è sempre indiretta. Ma dietro il profilo ondulato di una collina o dell’albero che s’intravede tra le gocce di pioggia c’è lo sguardo di chi lo ha fermato, per sempre.
. Il manifesto, 14 maggio 2016 (p.d.)
Sono gocce rosso-sangue, bollenti e brillanti, l’anima di questi macigni che hanno costruito la storia del mondo e della Sardegna prima degli Dei». Così aveva confidato a un amico giornalista Pinuccio Sciola una calda notte di maggio del 1974. Con la fiamma ossidrica, nel suo giardino di aranci di San Sperate, lo scultore che s’è spento ieri all’età di 74 anni per un’emorragia cerebrale era riuscito a fondere il basalto. Così era Sciola, artista di origini contadine che ai miti e agli archetipi di una terra antica era legato indissolubilmente. Quel giardino di aranci è poi diventato nel tempo il «Giardino sonoro», labirinto di blocchi di calcare e di grandi masse di basalto e di granito scolpite con una tecnica che Sciola ha inventato nel 1999: profonde incisioni parallele che segnano la pietra e che, percorse con le mani, o con un sasso o anche con l’arco di violino, producono suoni strutturati. La scultura diventava strumento musicale. «Ma – diceva Sciola – arte sono anche quelle pietre, quei sassi che io non sfioro, perché l’arte è nella natura. Non è un inno alla bellezza un prato di primule e di papaveri?».
Non c’era però niente di ingenuo in questo tenersi di Sciola dalla parte del linguaggio primario della natura. Era nato in una famiglia di contadini, in una regione della Sardegna, il Campidano, in cui la forza dei codici antichi della tradizione ha contrastato, sino a pochi decenni fa, una modernizzazione per molti versi violenta e per altri cialtrona. Quei codici, che sono stati «codici di resistenza», Sciola li ha filtrati alla scuola della grande cultura europea, li ha fatti passare al vaglio della riflessione teorica delle maggiori correnti artistiche del ’900. All’Accademia di Salisburgo, dove ha compiuto i suoi studi dopo una breve tappa fiorentina, è entrato in contatto con Minguzzi, Kokoschka («Volle conoscere tutte le chiese preromaniche sarde, gli rimase impressa San Nicola di Ottana»), Manzù, Wotruba e Sassu.
Il suo primo lavoro importante fu nel 1972, quando collaborò con Henry Moore nell’esposizione al Forte Belvedere di Firenze. Dopo quell’esperienza, altre tappe del suo percorso furono gli studi alla Moncloa di Madrid, un lungo soggiorno a Parigi e, soprattutto, la frequentazione a Città del Messico con David Alfaro Siqueiros. «Siqueiros – diceva – mi ha fatto capire il senso dell’arte e insieme il valore della vita». Tornato in Italia, Sciola trasformò il suo piccolo borgo di contadini nel luogo privilegiato di un progetto di arte sociale che si rifaceva alla lezione dei muralisti messicani (Rivera e Orozco li aveva conosciuti attraverso Siqueiros). Le case di tufo di San Sperate furono affrescate ad lui stesso e da artisti che arrivarono da tutto il mondo. L’intera comunità che, a metà degli anni 70, partecipò a un’esperienza collettiva da cui nacque un museo a cielo aperto, che tuttora si snoda nelle stradine e nei vicoli del paesino. E che va ad aggiungersi al «Giardino sonoro» della casa nella quale Sciola ha voluto continuare a vivere e dalla quale si muoveva per le mostre in Europa e in America, con le sue opere monumentali nel parco del castello di Oiodonk in Belgio, al Palace Trianon di Versailles, al Barndorf Beio Baden di Vienna, in piazze di New York e Chicago, Londra e Stoccolma, Barcellona.
Guardando la sua intera produzione, Sciola può essere iscritto a una sorta di «linea sarda», che allo scultore di San Sperate arriva partendo da Costantino Nivola e attraversando Maria Lai. Tutti e tre legati a una visione dell’arte che intreccia l’attenzione per ciò che sfugge alla storia (l’archetipo e il mito) a una fortissima connotazione relazionale del lavoro dell’artista. Dire l’ineffabile per creare nuova socialità.
Per iniziare l'anno nuovo riproponiamo a chi ci segue questa traduzione di Enzio Cetrangolo delle parti del poema De Rerum Natura che narrano della nascita del nostro mondo (V, 922-995: 1008-1016) . Auguri per un migliore 2016
Venuta dalla dalla dura terra fuori nei campi
Ogni parte aspira sempre
a congiungersi con l'intero
per sfuggire all'imperfezione;
L'anima sempre aspira
ad abitare un corpo
perché senza gli organi corporei
non può agire ne sentire.
Essa funziona dentro il corpo
come fa il vento
dentro le canne di un organo,
se una delle canne si guasta
il vento non produce più il giusto suono.
azione è dell'autore. In appendice una nota di Peter Kammerer, da Il Passaggio, anno VI, n 2, marzo/aprile 1993
di Peter Kammerer
La figura di "Alì dagli Occhi Azzurri" è una figura emblematica per il Pasolini degli anni 1962-1965, impegnato in una riflessione esistenziale sul rapporto fra Nord e Sud e fra cristianesimo e marxismo. Per Pasolini le due questioni si incrociano e il punto focale della sua analisi poetica, la poesia "Profezia", è scritta in modo da formare una croce. Ma tutte le sue opere di allora, dalla "Ricotta" (1962) alla "Poesia in forma di rosa" (pubblicata nel 1964), dal film "La Rabbia" (1963) al "Vangelo secondo Matteo" (1964) fino a "Uccellacci e uccellini" (1965/66) risentono di questo travaglio. Poi "Uccellacci e uccellini" chiude un` epoca e ne apre un` altra (1).
Incontriamo "Alì dagli Occhi Azzurri" per la prima volta nella poesia "Profezia", scritta probabilmente già nel 1962 e pubblicata nel volume "Poesia in forma di rosa". Una dedica recita: "A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri". "Poesia in forma di rosa" esce nel 1964, ma nello stesso anno Pasolini scrive ancora una seconda versione della "Profezia" (peggiorata secondo me) e la mette nella importante raccolta di racconti, sceneggiature e progetti di film che va dal 1950 al 1965. Al volume, pubblicato nel 1965, l`autore addirittura dà il titolo di "Alì dagli occhi azzurri" collocando così tutto il materiale in una prospettiva sorprendente e nuova. Il titolo viene spiegato alla fine in una "Avvertenza" che descrive l`incontro con Ninetto in un cinema romano. Ninetto è un "messaggero" e parla dei Persiani. "I Persiani, dice, si ammassano alle frontiere./ Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati,/ sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409...... Il loro capo si chiama:/ Alì dagli Occhi Azzurri" (2).
Versi della "Profezia" ne troviamo infine nella predica di S. Francesco nel film "Uccellacci e uccellini" (girato nell` inverno 1965/66). La citazione fatta nel film nella sceneggiatura non c`è, ma fu inserita più tardi, probabilmente durante il doppiaggio. Nella sceneggiatura la predica di S. Francesco agli uccelli è quella della tradizione: "Molto siete tenuti di lodare e benedire Iddio......perchè vedendo questo, gli eretici si possono convertire e ritornare alla vera fede..." (3). Una visione di San Francesco piuttosto scontata, arciconosciuta, quasi noiosa, direi. Pasolini probabilmente ha capito questo e gli è venuta l`idea di mettere in bocca a S. Francesco alcuni versi della "Profezia". Così il santo si rivolge agli uccelli con ben altra forza: "Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta ai piedi del mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi". Ecco il terzo mondo nella sua crudele innocenza, nella sua feroce irrazionalità e nella sua esistenziale alterità. Come porsi di fronte a questa alterità? San Francesco coglie il problema e continua la sua predica così: "Noi possiamo conoscervi solo attraverso Dio perchè i nostri occhi si sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Cristo ai fedeli inariditi, con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede".
L`indicazione è precisa: Ci troviamo di fronte ad una aporia, ci scontriamo con una pietra dello scandalo. L`esistenza del terzo mondo per il mondo industrializzato è scandalo, perchè pone il problema non del concepire, ma del "ri-concepire" l`altro, cambiando i "nostri occhi troppo abituati alla nostra vita", cosa che si può fare "solo attraverso Dio". Per vedere giusto ci vuole qualcosa che trascenda la nostra situazione. Dio è una specie di punto di Archimede, dal quale diventa possibile muovere il mondo. La leva della rivoluzione posa su questo punto.
Nè la sinistra (ufficiale e non), nè la chiesa ufficiale (nonostante gli sforzi compiuti durante il Concilio Vaticano II) erano allora pronti a riconoscere la necessità di "ri-concepire" la presenza del terzo mondo come fatto organico, non separabile dalla nostra vita. D`altra parte era difficile cogliere allora il senso del concetto pasoliniano di "sottoproletariato". Come concetto sociologico faceva acqua da tutte le parti, ricorda Goffredo Fofi più volte (4); come concetto politico pure, sostiene Salinari, che critica nel 1966 sull`Unità le posizioni di Pasolini come "terzomondiste" scrivendo: "Sì al coraggio con cui Pasolini ... ci ricorda l`esistenza di tanta parte dell`umanità assillata da problemi diversi; diremo no al suo voler considerare proprio le zone sottosviluppate come i centri motori della rivoluzione". E Pasolini gli risponde: "Ma io ho fatto mai affermazioni di questo genere" e insiste sul "rapporto dialettico `scandaloso` dei popoli arretrati o sottosviluppati con la razionalità dei centri del neocapitalismo" e sul fatto che "un` unica linea così sembra unire i nostri sottoproletariati urbani e agricoli... con le tribù africane" (5). Pasolini rivendica un significato sociologico e politico al suo concetto di sottoproletariato, ma sa bene che esso non è riducibile nè alla sociologia, nè alla politica. Il sottoproletariato di Pasolini è un concetto altrettanto teologico. La rappresentazione del sottoproletariato nel sacrificio e nella crocefissione è rievocazione di un mito, ma anche descrizione di una attualità bruciante: un passato che non è passato, ma che ogni giorno si rinnova. In parole povere: il terzo mondo non ricorda solo il nostro passato, ma lo è nel presente della società industriale.
3) La profezia
In questa poesia Pasolini predisse trent`anni fa una specie di invasione di "extracomunitari" la quale poi si è verificata realmente. Scrive Pasolini:
La dedica chiama in causa Sartre, al quale Pasolini deve la storia di Alì dagli Occhi Azzurri. Pasolini lo ricorda allo stesso Sartre in un altro colloquio avvenuto nel dicembre 1964. Ne era testimone M.A. Macciocchi, che pubblica un resoconto sull`Unità del 22.12.64.
Pasolini si trova a Parigi per far vedere Il Vangelo, resta fortemente deluso per non dire offeso dalla reazione degli intellettuali francesi marxisti. Sartre lo consola e Pasolini dice: "Ho dedicato a Lei, Sartre, una poesia, "Alì dagli Occhi Azzurri", sulla base di un racconto che lei mi fece a Roma...". E Sartre: "Sono del suo avviso che l`atteggiamento (della sinistra) francese di fronte al Vangelo... è un atteggiamento ambiguo. Essa non ha integrato Cristo culturale. La sinistra lo ha messo da parte. Nè si sa che fare dei fatti che concernono la Cristologia. Hanno paura che il martirio del sottoproletariato possa essere interpretato in un modo o nell`altro nel martirio di Cristo". In "La ricotta" Pasolini ha dato proprio questa interpretazione e la reazione della destra alla demistificazione dell`iconografia tradizionale è stata violenta (7). Ma ora, nella "Profezia", il poeta va ancora avanti e insiste sull`altro significato della croce, quello della redenzione/ resurrezione.
La poesia apre subito in tono biblico, racconta di "un figlio" che scende nella Calabria arida, dove:
Ci troviamo nella Calabria della riforma agraria e l` amore poteva cominciare, perchè
"... Era il tempo
quando una nuova cristianità
riduceva a penombra il mondo
del capitale... "
Già di Engels e di Kautsky è la concezione del primo cristianesimo come precursore del movimento operaio (8). Con una delle sue tipiche forzature Pasolini la capovolge parlando di "nuova cristianità". Ma il tempo non si compie e il figlio "tremava d`ira". Conosciamo dal Cristo del Vangelo pasoliniano questa ira. Un Cristo che non sorride quasi mai.
".... Se egli non sorride
è perchè la speranza per lui
non fu luce ma razionalità."
"... Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere/ è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall`Africa/"
Irrompe nel nostro mondo un altro sapere, quello dell` irrazionalità (10), sbarca il terzo mondo non addomesticato e ci costringe ad un confronto con una concezione antitetica della vita (11), arrivano
"essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare/ essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi/ in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo/"
ai quali si rivolgeva -come abbiamo visto sopra- la predica di San Francesco, un santo mistico, impregnato di "oriente" (12).
"-distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno come zingari
su verso l`Ovest e il Nord
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento..."
Note:
1) vedi Peter Kammerer, "L'uccellaccio vola alto" in: Il Passaggio, anno V, N 4-5, Roma 1992
2) Anche nel primo episodio della sceneggiatura di "Uccellacci e Uccellini" Ninetto svolge un ruolo di "messaggero" o di "mediatore" fra la Koine dei dialetti e la lingua ufficiale del razionalismo europeo, il francese.
3) Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, a cura di Giacomo Gambetti, Milano 1966, 115
4) Recensendo il "Vangelo secondo Matteo" Goffredo Fofi scrive: "Ma è sempre più chiaro però che egli ha scelto il mondo del passato, un mondo che non è più il nostro, e che ha rifiutato di portarvi lo sguardo di chi abbia almeno una certa visione complessiva, di chi almeno un`occhiata abbia saputo rivolgerla anche a quello che è il mondo delle società cosiddette sviluppate, industriali." G. Fofi, La mostra cinematografica di Venezia, in: Quaderni Piacentini, n 17-18, 1964; ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 34; La reazione di Pasolini fu molto risentita, vedi le due lettere scritte a Piergiorgio Bellocchio nell` ottobre 1964 in: P.P. Pasolini, "Lettere 1955-1975", Torino, 1988. Sette anni più tardi in occasione del "Decameron" Fofi insiste: "Come Napoli sta scomparendo e delle contraddizioni di questa metamorfosi, del suo intricarsi nelle fabbriche del Nord o dell`intricarsi della sua economia con lo sregolato sviluppo e la perenne crisi del Sud, dei modi in cui questo enorme processo avviene perlomeno dal `60 in avanti o delle sue prospettive, a Pasolini non sembra fregargliene molto. Canta dunque un popolo di ieri, una forma di "gioia di vivere" naturale...". In: Quaderni Piacentini, n. 44-45, 1971, ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 241
5) "Libri-Paese Sera" del 23.3.1966. Non solo oggi, ma già nell`Italia del dopoguerra suonava come un insulto l`affermazione delle strette parentele culturali di vaste parti dell`Italia preindustriale con l`Africa del Nord o il Medio-Oriente ecc. Vedi le vicende del libro di Franco Cagnetta, Banditi a Orgosolo, denunciato e processato nel 1954/1955. Tutti vogliono essere parenti solo dei ricchi fratelli "mittel-europei".
6) La poesia fa parte di un capitolo "Il libro delle croci" che antepone alla "Profezia" un altra poesia, "La nuova storia", della quale purtroppo non teniamo conto in questa sede.
7) Vedi "Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte", Milano 1977 (Garzanti) e di recente, in occasione della candidatura del magistrato Di Gennaro alla Direzione nazionale antimafia l`articolo di Enzo Golino: "Di Gennaro contro Pasolini", Repubblica del 13. agosto 1992
8) Friedrich Engels, Zur Geschichte des Urchristentums, 1894; Karl Kautsky, Der Ursprung des Christentums, 1909 (seconda edizione ampliata)
9) Come una gran parte della storiografia dell`epoca anche Pasolini vede la riforma agraria come frutto delle lotte sociali del Nord sottovalutando il grande contributo dato dal movimento contadino meridionale; vedi ad es. Paolo Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria 1943/1953, Milano 1977
10) "L`elemento irrazionalistico e religioso è un antico elemento che mi accompagna come uomo e come scrittore da quando sono nato", Pier Paolo Pasolini in: "Una discussione del `64", AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amm.ne Provinciale di Pavia-Comune di Alessandria, 1977, pag 93, ristampato in: Pier Paolo Pasolini, Le regole di un`illusione, a cura del Fondo Pier Paolo Pasolini, Garzanti 1991, pag. 103
11) Pier Paolo Pasolini, L`Aigle, in: Vie Nuove del 29 aprile 1965, ristampato in: Le belle bandiere, Roma 1978, pag. 322
12) Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Adriana Zarri in: "Lo scandalo di Francesco" dibattito in: Orizzonti, 5.6.1966; Pasolini critica il film "Francesco" della Cavani dicendo: "Ha `occidentalizzato` al più possibile Francesco. Ha tolto al suo Medioevo quel tanto di orientale che esso, oggettivamente, aveva nelle sue reali condizioni sociali ed economiche. Ha staccato gli elementi orientali... che erano nel mondo di Francesco..."; e ancora: "Direi che, a un non credente, piace di più un San Francesco che parla agli uccelli e fa i miracoli. La religione occidentale, impermeata di laicismo che essa crede rivoluzionario
rispetto al proprio spirito clericale e si sbaglia, tende a mostrarsi scettica e ironica rispetto ai miracoli. Ma i miracoli sono la religione".
13) in: "La Rabbia", film del 1963; e anche: "Il nuovo papa nel suo dolce misterioso sorriso di tartaruga pare aver capito di dover essere il pastore dei miserabili, perchè è loro il mondo antico, e sono essi che lo trascineranno avanti nei secoli con la storia della nostra grandezza" (preso dalla colonna sonora inedita del film).
14) Benjamin era quasi sconosciuto in Italia fino al 1962, anno in cui esce
Huffington post, dal blog Sans Décliner, Snarclens della giovane femminista ginevrina
Vorrei essere un uomo. Solo per un attimo. Per riposarmi.
Mi piacerebbe credere che il sessismo non sia una cosa seria, o almeno, considerarlo alla stregua dell'AIDS o della fame nel mondo. Una cosa grave, ma che colpisce gli altri e di cui io non sono responsabile, io sto bene. Sarei in grado di elargire consigli freddi e distaccati, quindi molto attendibili, sulla causa da portare avanti e sarei ascoltato, rispettato, come si addice ad un uomo.
Vorrei vivere la mia sessualità, senza stigmatizzazioni, fare sesso con chi voglio e quando voglio (sempre ammesso che lei o lui sia d'accordo), senza il rischio di rovinarmi la reputazione, senza dare l'idea di una persona che cerca disperatamente affetto e attenzione. Vorrei che le mie azioni non fossero sottoposte all'interpretazione e al giudizio altrui. Che mi lascino fare l'amore tranquilla.
Vorrei giocare un ruolo nella cultura. Essere ovunque, sentire riecheggiare le mie parole di continuo. E, a forza di ascoltarle, convincermi che quello che dico è saggio, giusto e che le opinioni altrui sono trascurabili. Che tutti gli altri ronzano intorno alla mia idea. Che io sono al centro e che tutti gli altri sono ai margini.
Vorrei poter dire la mia. Far sentire la mia voce liberamente e parlare di ciò che mi sta a cuore. Sarebbe molto più semplice discutere d'amore, di sesso, d'invidia, di speranze, di nero, di bianco. Sarebbe molto più facile esprimere la mia opinione, parlare delle mie volontà e dei miei interessi. Se avessi davvero questa possibilità, verrei ascoltata.
Vorrei poter pensare che non ho una data di scadenza. Non vedere la vita come una clessidra. Pensare che fra dieci anni sarò più attraente di oggi. Credere che l'amore non sia qualcosa a cui dovrò rinunciare, quando avrò superato i trent'anni. Non avrei paura della vita, se sapessi per certo che, sfiorita la mia bellezza, i veri segnali del mio fascino saranno la forza e il carisma.
Vorrei essere un uomo e scrivere di altre cose. Un romanzo, una poesia. Di certo direbbero che ho talento. Sarebbe bello, solo per un momento.
Questo post è apparso sul blog Sans Décliner, Snarclens, di proprietà dell'autrice è stato pubblicato su HuffPost Francia e tradotto da Milena Sanfilippo.
Il manifesto, 14 marzo 2015
Era un canto, una ballata di racconto e di riflessione, una voce che raccontava una storia comune, sua e del pubblico che come lei vedeva, capiva e lottava. L’Italia in lungo e in largo è l’attacco di una famosa composizione di Giovanna Marini, vivida e pungente nonostante l’apparente nonchalance con cui l’autrice passava in rassegna un paese pieno di contraddizioni, sofferenze e anche involontario umorismo. Era come il film delle sue «tournée», che erano veri viaggi di tenace militanza fatti su pulmini sgangherati e treni ansimanti e affollati. Quell’attraversamento di una condizione, sentimentale sociale e politica (una sorta di inno nazionale alternativo allora, quando l’ascoltammo le prime volte) torna ora, dopo più di quarant’anni, a raccontare un paese che nel profondo non è cambiato nelle sue sofferenze, a dispetto delle molte trasformazioni, spesso solo superficiali.
E torna anche, quell’attacco, a dar titolo a un cd (appena pubblicato da Finisterre e distribuito da Egeamusic) in cui Giovanna Marini, assieme, in accordo o in controcanto, con la più brava e solida delle sue allieve, Francesca Breschi, raccoglie molti brani di quegli anni e degli anni successivi, alcuni divenuti famosissimi come I treni per Reggio Calabria, unica documentazione di una vera epopea liberatoria, e altri rimasti in una dimensione più intima come Lamento per la morte di Pasolini o Ragazzo gentile. Canzoni bellisime tuttora, Commoventi fino alle lacrime, eppure rasserenanti per il fatto di essere storica testimonianza di fatti molto importanti.
Giovanna Marini ha il dono della poesia, che non viene minimamente scalfito dal passare del tempo, e dei gusti e delle mode. È uno straordinario monumento musicale del nostro tempo e della vita quotidiana, senza alcuna retorica, e senza per altro alcun riconoscimento dalla cultura «ufficiale», o tanto meno di governo. Eppure il titolo di quella ballata, l’altra sera in una sala dell’Auditorium al Parco della musica romano, era ancora l’occasione di un viaggio, possibile e lucidissimo, nell’umanità che questo paese è stato capace di elaborare e modulare. Una Italia in lungo e in largo che aveva come cabina di comando le due cantanti, consapevoli e emozionanti, ma ha anche voluto assumere il corpo storico e musicale di una comunità femminile davvero fuori dell’ordinario, le donne di Giulianello.
Che è un paesino rurale in provincia di Latina, dove però da sempre viene coltivato il canto corale, e di origine religiosa, che si allarga ad abbracciare, e immortalare, ogni aspetto, bisogno, speranza della vita. Racconta la Marini che la prima volta che le incontrò, tanti anni fa durante le sue indagini musicali sulla scia di Ernesto De Martino e Diego Carpitella (cui la serata è stata affettuosamente dedicata), se le vide arrivare su un carrello trainato da un trattore, e cantavano senza sosta. Il canto, per le donne di Giulianello, è una attività a tutto campo, che quasi armonizza e rende possibili tutte le altre fatiche. La loro «leader» Lalla ha appena compiuto 93 anni, ma non si nega virtuosismi vocali di alto respiro. Con quel contraltare vivente che dava spessore e radici alle loro voci, Giovana Marini e Francesca Breschi hanno fatto balenare per una sera una Italia che possa ancora oggi essere attraversata, nella profondità del cuore, vincendo gli ammennicoli e i soprammobili e gli orrori che che tante volte la rendono irriconoscibile e orrendamente sporca.
nella traduzione di Pietro Marchesani, la rubiamo dal blog di Paola Somma (http://amoscrivere1258.wordpress.com/)
Contributo alla statistica
Su cento persone:
ASSIDUA RICERCA
Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze
le lucide menti
le lotte senza respiro
l’assidua ricerca del vero
hanno nutrita.
Con l’altrui dolore
l’umano confronto
e le parole dette
sul pane, la casa, la pace per tutti
non bastarono
come le lacrime che lavano l’offesa
e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.
Un canto ci voleva per tutti i petti
Postilla
Questa poesia l'avevamo scelta un paio d'anni fa (la trovate anche nell'archivio del vecchio eddyburg) tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padova 2011, editrice Il Torchio.
E’ una poesia scritta negli anni anni in cui dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché , come ha scritto Busetto, «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu. Gli anni che stiamo attraversando sono solo "diversamente brutti". Speriamo che quel canto oggi ci sia... o magari domani.
Obra en marcha: Poesìa, 1965-1980 (Editorial Costarica, 1982, p.186), e dedicata a chi lotta per la difesa degli spazi pubblici
Alfonso Chase Le piazze sono i palazzi del popolo
Le piazze sono i palazzi del popolo
Sull’asfalto o la pietra
il passaggio è un coltello
e ogni labbro un grido
Da strada a strada il mondo cresce.
Credo che in ogni piazza
d’angolo in angolo e da strada a strada
il popolo si svela
Ci guardiamo ciascuno faccia a faccia
ognuno riconosce ciascun altro e diventa più forte
Prendi qualche parola dimenticata
e falla tua
così come quando fai l’amore
o senti l’aria.
La casa del popolo sono le piazze
e siamo lì tutti e nessuno.
Da "Vista con granellodi sabbia. Poesie (1957-1993)" ripreso dal sito www.gironi.it
Trovatori, Einaudi 2007. Segnalata da Vezio De Lucia il 25 aprile 2013
Andatelo a dire
“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire
Persi le forze mie persi l'ingegno
Che la morte m'è venuta a visitare
E leva le gambe tue da questo regno!
Persi le forze mie persi l'ingegno
Le undici le volte che l'ho visto
Gli vidi in faccia la mia gioventù
Oh Cristo me l'hai fatto un bel disgusto
Le undici le volte che l'ho visto
Le undici e un quarto io mi sento ferito
Davanti agli occhi ho le mani spezzate
E la lingua mi diceva "è andata è andata"
Le undici e un quarto mi sento ferito
L'undici e mezza mi sento morire
La lingua mi cercava le parole
E tutto mi diceva che non giova
Le undici e mezza mi sento morire
Mezzanotte m'ho da confessare
Cerco il perdono da la madre mia
E questo è un dovere che ho da fare
lo a mezzanotte m'ho da confessare
Ma quella notte volevo parlare
La pioggia il fango e l'auto per scappare
Solo a morire lì vicino al mare
Ma quella notte volevo parlare
E non può non può
Può più parlare può più parlare
Non può non può
Può più parlare può più parlare
Persi le forze mie persi l'ingegno
Che la morte m'è venuta a visitare
E leva le gambe tue da questo regno!
Persi le forze mie persi l'ingegno
Il canto ricalca la narrazione per orario tipica del modo narrativo popolare. È nelle passioni religiose, soprattutto nel Lazio, in Umbria e nelle Marche, che si cantano le ore collegandole a momenti significativi della Crocefissione.
Pierpaolo Pasolini poeta, scrittore e regista cinematografico, è stato uno dei più ispirati intellettuali del '900. Fu ucciso il 2 novembre 1975 all'idroscalo di Ostia, nei pressi di Roma.
Assidua ricerca
Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze
le lucide menti
le lotte senza respiro
l’assidua ricerca del vero
hanno nutrita.
Con l’altrui dolore
l’umano confronto
e le parole dette
sul pane, la casa, la pace per tutti
non bastarono
come le lacrime che lavano l’offesa
e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.
Un canto ci voleva per tutti i petti
PostillaQuesta poesia L'abbiamo scelta tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padove 2011, editrice Il Torchio.
E’ una poesia scritta negli anni anni in cui - come oggi(?) - dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu.
Wislawa Szymborska,
Scrivere il curriculum
Che cos’è necessario?
E’ necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
il curriculum dovrebbe essere breve.
E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo del valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
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Quando si dileguò la notte
la mimosa rimase
in mezzo al campo
fra le case stupite.
Era sola
fiorita
un firmamento di polline
tremante
nel gelo del mattino.
All’alzarsi del vento
che ondeggiava
fra i rami del fico
ancora nudo
e il melograno secco
rabbrividì all'inganno.
Una febbre di primavera
un errore maligno
fremendo nelle vene
del suo tronco
l’aveva destata anzi tempo
spinta a quel fragile tripudio.
E ora
sulla terra ancora nera
spoglia d'uccelli
gemeva luminosa
nel cuore dell'inverno.
La poesia, senza titolo, è la prima della poemetto "Primavera" nel libro: Piero Bevilacqua, Il vento nella città, introduzione di Alberto Asor Rosa, Roma, Donzelli 2010, €
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non é uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla é più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Nazim Hikmet