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Nella stessa pagina un servizio del giornale annunciato così: «Marco Di Lello, dopo la bocciatura del Tar dell'Auditorium di Ravello, promette: cambieremo il Piano urbanistico. E Bassolino telefona al sindaco di Ravello: Insisti, sono con te»

Non erano pretestuose le critiche, non erano infondati gli allarmi sollevati per fermare chi pretendeva di costruire una “opera d’arte” là dove la legge non lo consentiva. Realizzare un auditorium lì, in quel posto, è illegittimo. Così ha stabilito il TAR, rivelando la fragilità delle spericolate “relazioni tecniche stragiudiziali” con le quali (generosamente arrampicandosi su lucidi specchi) si pretendeva di giustificare l’ingiustificabile. Intendiamoci, quella del TAR non è una sentenza definitiva. È aperta la strada del ricorso al Consiglio di Stato, sebbene non sembri (a scorrere i primi commenti) che i promotori dell’auditorium vogliano ricorrervi. A proposito dei commenti, meraviglia la meraviglia manifestata da molti per la sentenza del TAR. Il tribunale amministrativo si era già pronunciato una volta, quando aveva sospeso l’approvazione del PRG proprio perché localizzava lì un auditorium; perché mai il medesimo collegioavrebbe dovuto valutare legittimo ciò che pochi anni fa legittimo, a suo parere, non era?

Colpisce invece l’arroganza di quanti (come De Masi, come Di Lello) dichiarano subito che si dovrà fare (o che si farà) una variante ad hoc per poter eludere la legge. Colpisce e scandalizza, non meraviglia: questi anni ci hanno abituato all’impiego personalizzato della legge. Il maestro di questo sistema siede a palazzo Chigi (anzi, a palazzo Grazioli). Al di là della ferita al paesaggio (che per me sarebbe tale, ma che è certamente questione sulla quale sono legittime opinioni diverse) ciò che mi ha preoccupato fin dal primo momento è stato proprio questo atteggiamento. La legge, che vale per tutti, non consente di realizzare un interventi che a Tizio o a Sempronio sembra interessante? Ebbene, modifichiamo le legge per Tizio o per sempronio. Un uomo di governo dovrebbe sapere che, una volta che ha concesso questo strappo, altri ne seguiranno, e quello che oggi concede a Ravello domani dovrà consentirlo a Maiori o ad Atrani, che presenteranno magari progetti firmati da Libeskind o da Isozaki, magari per realizzare un albergo essenziale per l’agibilità di una grande mostra del cinema.

So bene (l’ho documentato sul mio sito eddyburg.it) che la costa su cui si voleva costruire l’auditorium è scempiata da interventi brutti, abusivi e comunque tollerati da attori insensibili al bello. Vi sembra proprio un pretesto per continuare ad aggiungere nuove illegittimità? È questo il “senso dello Stato” che è maturato in questi anni, in intelligenze aperte e sensibili come quelle di molti difensori dell’auditorium? Constatarlo mi amareggia. Come mi amareggia leggere, da chi ha responsabilità di governo, che si vorrebbe non sostituire il PUT con un altro piano paesistico, ancora più serio, accurato, documentato di quello oggi vigente, ma violentarlo con una variante ad hoc. Negando, con l’esprimere questa intenzione, il principio stesso della pianificazione, sulla cui corretta applicazione ogni amministratore pubblico dovrebbe invece vigilare.

Sullo stesso argomento:

Eddytoriale n. 35 del 19 gennaio 2004

Eddytoriale n. 42 del 2 maggio 2004

e molti altri scritti nella cartella

SOS -SOS - SOS / Ravello

Il rogo che ha devastato una parte del mulino Stucky di Venezia farà ancora discutere nelle sedi giudiziarie, dove andranno accertate eventuali responsabilità. Tra le fiamme è andata distrutta proprio l'area del complesso che nei piani originari «avrebbe dovuto essere utilizzata dal Comune per ospitare diversi archivi attualmente sparsi nella città» - spiega Edoardo Salzano, professore ordinario di urbanistica del Dipartimento di pianificazione dell'Università degli studi Iuav e consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale. Al di là dei risvolti giudiziari futuri, l'incendio dello Stucky è l'occasione per ragionare con Salzano - un artefice del piano regolatore generale del centro storico di Venezia nei primi anni Ottanta - di politiche urbanistiche, del ruolo dell'intervento pubblico e delle trasformazioni che molte città subiscono in seguito alla dismissione delle aree industriali. Sul complesso del mulino Stucky esistevano già da tempo dei progetti nei piani regolatori di Venezia. E' così?

Ai tempi della prima giunta Cacciari, quando hanno cambiato il piano regolatore che avevamo fatto noi qualche anno prima, hanno trasformato la destinazione d'uso anche nel caso dello Stucky. Nel piano precedente lo Stucky doveva essere destinato per un quarto ad alberghi, un quarto a centro congressi, un quarto all'edilizia convenzionata - alloggi a costi moderati - e un quarto al Comune. Al Comune doveva andare la parte dei silos - peraltro difficilmente utilizzabile per altre cose senza distruggerla completamente. Si tratta, infatti, di un edificio cieco con grandi solai e tramogge, un magazzino dove in origine erano conservate le granaglie. Per questo pensavamo di concentrare là tutti gli archivi del Veneto - oltre a quello di Stato ci sono una serie di archivi sparsi per la città. A me sembra che sia proprio una singolare coincidenza che si sia bruciata proprio questa parte. Qualche dubbio mi viene.

Sta di fatto che è andata distrutta l'unica porzione del complesso che doveva ospitare servizi pubblici. Per quanto riguarda le responsabilità saranno le autorità giudiziarie, naturalmente, ad indagare. Diversamente, per la valutazione politica si possono già fare alcune riflessioni. Negli ultimi anni la preponderanza del privato nell'urbanistica e nella gestione del territorio ha prodotto molti danni. Non è ora di ripensare a un rilancio del pubblico?

Si è fatta, a mio parere, un'operazione politicamente sbagliata, cioè rinunciare ad avere una presenza pubblica là dentro e dare ai privati e alla destinazione alberghiera la prevalenza. Ora, anche quella parte che difficilmente potrebbe essere trasformata in un albergo senza distruggerla completamente, viene fortunosamente colpita da un incendio. La mosca nel brodo c'è.

A quali anni risale il piano originario?

Si iniziò a discuterne alla fine degli anni Settanta. La linea della giunta della sinistra - non solo, anche di tutto il consiglio comunale di allora - era che a Venezia si dovessero fare case nuove ma pubbliche. Dato che la possibilità di costruire nuovi alloggi erano - e sono - pochissime, si era deciso di affidare quel poco esclusivamente all'edilizia pubblica. La massima tolleranza verso il privato era prevista con lo Stucky. Il complesso è una sorta di lotto allungato e diviso in quattro quadranti. I due quadranti sul davanti che affacciano sul canale della Giudecca sono monumentali, mentre l'architettura sul retro è in uno stato fatiscente, passibile quindi d'esser fortemente ristrutturata. Avevamo quindi destinato uno dei quadranti posteriori all'edilizia residenziale convenzionata, cioè fatta dal privato ma con una convenzione molto rigida con il Comune e a prezzi controllati. Avevamo aperto una trattativa con la proprietà che era d'accordo su tutto, salvo sulle case. Si era d'accordo sull'affidare al Comune la gestione di quell'ala ora andata distrutta, sull'albergo verso il canale della Giudecca, sul centro congressi e sulle residenze convenzionate. Quando la giunta in cui era assessore Stefano Boato, ha presentato il piano regolatore del centro storico - che ho iniziato a fare io - e portato all'approvazione del consiglio dalla giunta di centrodestra di Laroni, addirittura, lì, nella scheda relativa all'area Stucky, sono state riprese queste indicazioni. Questo accadeva, se non ricordo male, nel '92. Poi quando è subentrata la giunta Cacciari hanno privatizzato tutto. Più nel dettaglio, hanno reso private le case nuove che si costruiscono dietro e dato agli alberghi anche i silos che avevano una destinazione pubblica.

Come riflessione più generale bisogna affrontare il nodo della gestione del patrimonio artistico delle città italiane nel quale non rientrano soltanto i monumenti tradizionalmente intesi, ma anche quelle aree ex-industriali abbandonate nel tempo che assumono un valore urbanistico, se non persino artistico. Non crede che occorra ridefinire l'idea di territorio e rilanciare l'intervento pubblico?

Sì. Accanto allo Stucky - è una curiosità - lo stesso architetto ha costruito un edificio molto più piccolo, la Birreria Dreher. La comprammo come Comune per attuare una bella riconversione. Ne ricavammo 44 appartamenti in edilizia popolare.

Con la giunta Cacciari le cose son cambiate, e hanno iniziato a prevedere anche l'edilizia privata.

Il quartiere della Giudeca, limite estremo meridionale della città verso la laguna aperta, è sempre stato un quartiere popolare. Mantiene tuttora questo profilo?

In origine era un quartiere di orti e conventi, poi è diventato un grosso quartiere operaio legato a quei tentativi di industrializzazione moderna, falliti abbastanza rapidamente, che vanno dallo Stucky alla Dreher alla junghans, una fabbrica di strumenti di precisione, fino ai tradizionali cantieri. Quell'industria, eccetto la cantieristica, è crollata. La Giudecca è stata un quartiere di edilizia economica popolare, cresciuto soprattutto negli anni Sessanta. Un esempio di questa edilizia comunale è l'intervento che facemmo dietro lo Stucky, nell'area Trevisan. E' sempre stata una zona popolare. Ma in questi ultimi anni sta avendo una fortissima trasformazione, sia con le case nuove che hanno costruito nell'area ex-junghals e nel lato opposto dell'isola, sia con il mega-albergo di lusso attualmente in costruzione. E' in atto una trasformazione surrettizia degli alloggi in camere d'affitto, un fenomeno devastante.

La legge urbanistica del 1942

Una buona legge urbanistica, quella che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni approvò nel luglio del 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale [1]. A rileggerla oggi così come allora fu approvata, sfrondata cioè dalle integrazioni e superfetazioni che la imbarocchirono, essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile e implementabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti: come del resto è necessario che una buona legge sia.

E’ questa legge che costituisce il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente (sia quelle nazionali fino al 1970, sia quelle emanate dalle regioni dopo la loro istituzione) hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte (soprattutto nell’immediato dopoguerra e nel corso degli anni ‘80) hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Conviene perciò ricordare gli elementi essenziali della “legge madre” dell’urbanistica italiana.

Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.

Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio. A ben vedere, il rapporto tra PRG e PPE prefigura la distinzione tra due componenti della pianificazione, quella “strutturale” valida a tempo indeterminato, e quella “programmatica” riferita al tempo del mandato amministrativo, che è da qualche anno al centro del dibattito sull’urbanistica [2].

.La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Essa prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare,”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG, “le aree inedificate e quelle su cui insistano costruzioni che siano in contrasto con le destinazioni di zona ovvero abbiano carattere provvisorio”. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica fu adoperata, nell’immediato dopoguerra, dal Comune di Grosseto e da un piccolo comune in provincia di Roma, Vicovaro [3].

Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi di “area vasta”. Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.

Una buona legge quindi, quella del 1942, una legge moderna. Afferma l’urbanista Vezio De Lucia,

La nuova legge era stata preceduta da lunghi studi e non può essere liquidata tout court come una legge fascista. Nelle commissioni legislative del Senato e della Camera dei fasci e delle corporazioni si scontrarono i difensori ad oltranza della proprietà privata con quelli che alla proprietà intendevano porre dei limiti. Intervenne anche l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) che aveva elaborato una proposta basata sull'esproprio preventivo delle aree urbane. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva comunque dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”[4].

E il giurista Gianni Lanzinger:

La legge urbanistica approvata nell’agosto 1942 confermava e sistemava definitivamente non solo la destinazione delle aree ad opera dei pubblici poteri, ma conteneva anche una nuova conformazione della proprietà edilizia tale da superarne la concezione antistorica di inviolabilità. Ne veniva cioè cambiato regime e struttura senza cambiarne l’appartenenza. (...) La legge 1150/1942 è dunque un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio”[5]

La ricostruzione postbellica: nasce il primato dell’emergenza e del settore edilizio

La legge urbanistica del 1942 aveva posto le premesse per un possibile razionale governo del territorio e dell’attività edilizia. Come mai i suoi esiti sono stati così deludenti? La risposta è negli avvenimenti della guerra e del dopoguerra. Negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione, fino al 1945, gli eventi bellici non permisero di applicarla, e - più sostanzialmente - provocarono distruzioni ingenti e diffuse. E’ poi nell’immediato dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà (a volte contraddetto e contrastato, a volte sviluppando una piena e dispiegata egemonia) nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.

I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. È colpito il patrimonio abitativo, le infrastrutture: sono distrutti più di tre milioni di vani, un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono accentuati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Drammatico il problema della casa; già prima della guerra la siduazione era pesante: nel censimento del 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze.

In molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione[6]: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto: qualche macchia di colore su di una carta per indicare le zone d’espansione, qualche segno nella città edificata per indicare i nuovi allineamenti.

Finalità dei piani di ricostruzione doveva essere di “contemperare le esigenze inerenti ai più urgenti lavori edilizi con la necessità di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati, e ciò attraverso soprattutto una procedura più semplice di quella prevista per i piani regolatori”[7]. In realtà la logica dei Prg fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.

La legislazione speciale per l’”emergenza” della ricostruzione fu impiegata per molti anni, ben al di là del cessare dell’esigenza che l’aveva giustificata: i piani particolareggiati del centro storico di Venezia adottati nel 1974, trent’anni dopo la fine della guerra, furono formati sulla base di quelle semplificate disposizioni. In realtà la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni (a differenza che in altri paesi europei) fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.

Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.

Da una parte, su terreno strettamente economico, a differenza dell’industria, “iI settore edilizio si prestava ottimamente al ruolo trainante, o quanto meno di collaborazione” alla ripresa economica, “sia perché non richiedeva in partenza né impianti costosi, né imprenditori particolarmente esperti, né mano d'opera qualificata, né materiali di importazione. sia perché rispondeva ad una esigenza sociale sentitissima che era quella della ricostruzione fisica delle città e della dotazione individuale di una dimora sicura come bisogno primordiale”[8]. E del resto, in una fase in cui l’ingresso dell’economia italiana nel mercato internazionale cominciava a svelare la marginalità di parti consistenti del settore agricolo (artificiosamente gonfiato dalla politica fascista dell’autarchia), e si manifestavano i primi segni di quel drammatico esodo dalle campagne che caratterizzò gli anni ‘50 e ‘60, il settore delle costruzioni si dimostrava particolarmente idoneo a svolgere una funzione di volano nel passaggio della mano d’opera dall’agricoltura all’industria. Per un contadino, il passaggio a manovale e poi a muratore era l’inizio di un’apprendistato che lo avrebbe reso idoneo alla “moderna” catena di montaggio dell’industria.

Dall’altra parte, il ruolo socialmente stabilizzatore della proprietà della casa contribuiva a rinsaldare ed estendere il consenso attorno al blocco politico aggregato attorno alla Democrazia cristiana. Era un ruolo, insomma, in piena sintonia con le politiche di consolidamento ed espansione della piccola proprietà contadina, e di forte sostegno allo sviluppo della motorizzazione individuale di cui in quei medesimi anni si ponevano le basi.

Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.

Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, come osserva AlessandroTutino

richiede che non si pianifichi: per molto tempo infatti, dal dopoguerra fino praticamente agli anni '60, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o apertamente boicottata dagli organi più politicizzati del governo, cioè soprattutto dal ministero dell'interno tramite le prefetture. Per questo preciso scopo dunque dal 1945 al 1964 circa i comuni sono stati assiduamente educati a non pianificare: quelli che, ribelli all'autorità educatrice, hanno voluto farlo a tutti i costi, si sono trovati in pratica a operare come isole di difficile penetrazione dell'iniziativa privata in un mare aperto dove viceversa tutto era possibile, e si sono trovati perciò rapidamente in oggettiva difficoltà di fronte ai loro stessi elettori [9].

E mentre su un versante si ostacola l’impiego degli strumenti della legge urbanistica del 1942, dall’altro lato si avvia un’azione di smantellamento del patrimonio abitativo pubblico. Come affermavano allora i governanti, bisognava sostenere la proprietà privata a spese del denaro pubblico: occorreva dare “a riscatto” agli assegnatari le case costruite dallo Stato:

l'assegnazione di case a riscatto non soltanto fa fare notevoli economie sulle spese di manutenzione e di amministrazione, ma influisce moltissimo sulla psicologia morale e politica dell'assegnatario (...). Sul piano sociale, su quello politico, su quello morale ritengo che accrescere le garanzie delle libertà degli italiani, costituendo per ciascuno di essi un patrimonio (mobiliare o immobiliare), sia una buona cosa [10].

Con quest’obiettivo, poco prima delle elezioni politiche del 1958 [11], il Parlamento approva una legge-delega, che demanda al governo la formulazione di norme per la “cessione in proprietà a favore degli assegnatari degli alloggi di tipo popolare ed economico costruiti o da costruire a totale carico dello stato, ovvero con il suo concorso o contributo”; di tutte le abitazioni, cioè, di proprietà pubblica. Carlo Melograni, Aldo Natoli e Franco Berlanda furono tra i pochissimi che presero una posizione decisamente contraria.

Così, a conclusione di un dibattito evidentemente troppo affrettato, si e deciso di liquidare un grande patrimonio pubblico, risultato di un’attività di più di cinquant'anni (...). La nuova legge segue un indirizzo, oggi in voga, da combattere: quello di rifiutare le soluzioni di fondo ricorrendo ad accomodamenti caso per caso; di far tacere una parte di coloro che reclamano un giusto diritto, come quello di avere un alloggio con una pigione non alta, dando loro un singolare vantaggio: quello di poter acquistare un alloggio a condizioni speciali [12].

Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.

Le trasformazioni territorialinegli anni del “grande esodo”

All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola. Nel 1951 l'agricoltura assorbe il 42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali. Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel decennio 1961-1971 il processo continua: malgrado il raddoppio degli investimenti industriali nel sud, gli addetti all'industria crescono solo di 80 mila unità mentre al nord salgono di 350 mila unità. Contemporaneamente il meridione perde altri 900 mila addetti al settore agricolo. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6% [13].

Accanto a questa trasformazione, un’altra se ne registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Come afferma lo storico Paul Ginsborg

nel ventennio 1951-1971 la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963 (...).In tutto, fra il 1955 e il 1971, 9.140.000 italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali[14]

La coesistenza di un accentuato processo di urbanizzazione e di un forte esodo, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese. determinano due fondamentali ordini di problemi. Nelle zone di esodo, la scarsità di popolazione in ampie zone del territorio nazionale da luogo a gravissimi danni economici e compromette l’equilibrio ecologico e ambientale (mancanza di presidio fisico del territorio, sottoutilizzazione del “patrimonio fisso sociale” rappresentato dai centri urbani. dalle infrastrutture ecc.). Nelle zone di concentrazione, all'opposto. l’eccessiva “presenza” di abitanti negli spazi urbani genera notevoli inconvenienti che si ripercuotono sulle condizioni di vita nelle grandi città (carenza di alloggi a basso costo, di servizi, di trasporti pubblici, alto costo della vita, inquinamento, ecc.). Questi inconvenienti non dipendono tanto dalle dimensioni assolute delle maggiori città italiane (dimensioni che potrebbero apparire relativamente modeste se confrontate con quelle delle maggiori metropoli mondiali), quanto piuttosto dal modo disordinato con cui tali dimensioni sono state raggiunte.

Quello che comincia a delinearsi nella prima metà degli anni ‘60 è una crisi del modello di sviluppo economico-sociale che aveva prevalso negli anni precedenti. In effetti, all'inizio degli anni '60 lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica.

È l’Inu [15] a rompere il ghiaccio. All'VIII congresso, nel dicembre del 1960, viene presentata una proposta di riforma: è il cosiddetto Codice dell'urbanistica. L’Inu auspica l'istituzione delle Regioni e tenta di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica (di cui si comincia a parlare), attraverso l'istituzione di un Comitato nazionale di pianificazione (formato da ministri e presidenti delle regioni) e di un Consiglio tecnico centrale (a livello di alta burocrazia e di esperti urbanisti ) .

Il “codice” dell’Inu del 1960, a differenza delle proposte formulate nel corso della formazione della legge urbanistica del 1942, non prevede l'esproprio generalizzato dei suoli destinati all'edificazione, se non in casi eccezionali e territorialmente limitati. Per pubblicizzare, sia pure parzialmente, gli incrementi di valore delle aree urbane, e per stabilire, entro certi limiti, una perequazione di trattamento tra i diversi proprietari, viene proposto il meccanismo del comparto [16], oppure l’obbligo ai proprietari di cedere gratuitamente al comune, nelle zone di espansione, una quota del 30 per cento dell'area totale da destinare ad attrezzature pubbliche e di sostenere le spese di urbanizzazione primaria. Per incidere sulla rendita fondiaria è previsto anche un più deciso ricorso agli strumenti fiscali.

La proposta dell’Inu si inquadra nel cambiamento politico in corso, che vede spostarsi la DC, dall’alleanza con i partiti “minori” del centro (repubblicani, liberali e socialdemocratici), spesso aperta verso le formazioni della destra, all’alleanza con il Partito socialista italiano (PSI), in quegli anni ancora solidamente legato al PCI. La programmazione economica, la riforma urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica sono alcuni dei temi sui quali si polarizza il dibattito politico in vista della partecipazione dei socialisti al governo. Di riforma urbanistica si comincia a parlare concretamente anche in sede ministeriale. Ministro dei Lavori Pubblici del governo Fanfani è Benigno Zaccagnini, che insedia nel 1961 una commissione per la riforma urbanistica [17]. La proposta è resa pubblica nel settembre del 1961: resta sostanzialmente nel solco dei princìpi della legge del 1942, pur contenendo perfezionamenti di carattere tecnico e procedurale. Anche questa proposta non risolve il problema dell'acquisizione, a favore della collettività, della plusvalenza delle aree e della disparità di trattamento fra i proprietari immobiliari in relazione alle destinazioni d'uso stabilite dai piani.

La proposta del ministro Sullo

Autore della proposta più innovativa e coraggiosa è Fiorentino Sullo ministro dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962, esponente dell’ala riformista della DC. Preso atto che “la stragrande maggioranza degli urbanisti non si dichiarava d'accordo” con lo schema elaborato dalla commissione insediata da Zaccagnini, ricostituisce la stessa commissione, integrandola con giuristi, economisti, sociologi[18].

La riforma è impostata su basi completamente nuove. Il progetto stabilisce che l'indirizzo e il coordinamento della pianificazione urbanistica debbono attuarsi nel quadro della programmazione economica nazionale ed in riferimento agli obiettivi fissati da questa. La pianificazione urbanistica si articola, sia nella fase regionale che statale, agli stessi livelli previsti dal progetto Zaccagnini: piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato.

Il piano regolatore generale e quello comprensoriale sono obbligatoriamente attuati per mezzo di piani particolareggiati, nel cui ambito il comune promuove l'espropriazione di tutte le aree inedificate e delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato, nonché delle aree che successivamente all'approvazione del piano particolareggiato vengano a rendersi edificabili per qualsiasi causa. E’, in sostanza, una ripresa e, soprattutto, una generalizzazione della facoltà ammessa dall’articolo 18 della legge urbanistica del 1942.

Acquisite le aree, il comune provvede alle opere di urbanizzazione primaria e cede, con il mezzo dell'asta pubblica, il diritto di superficie sulle aree destinate ad edilizia residenziale, che restano di proprietà del comune. A base d'asta viene assunto un prezzo pari all'indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione e di una quota per spese generali. L'indennità di espropriazione è determinata, per i terreni non edificati e non aventi destinazione urbana prima dell'approvazione del piano, in base al prezzo agricolo; per i terreni non edificati, ma aventi già destinazione urbana, in base al prezzo dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione, aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo fissato da un comitato di ministri, e infine, per i terreni edificati, in base al valore di mercato della costruzione.

Lo schema Sullo modifica profondamente il regime proprietario delle aree: di proprietà privata resta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree - edificate o edificabili - passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani. In un primo momento sembra che la proposta sia destinata a passare. Ma nell’aprile 1963 (le elezioni sono fissate per il 28 aprile) si scatena “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa contro il Ministro dei lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. È lo stesso Sullo che racconta:

A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa. (...) Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento, nell'ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si sarebbe potuto fare a meno. Non c'era che una strada: spiegare al video a milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito dalle mie. Fui sbalordito per l'oggettiva ingiustizia morale verso di me [19].

Con una “dolorosa nota” del 13 aprile Il Popolo comunica che la DC dissocia la propria responsabilità dall'operato del suo ministro. “Sullo era stato piantato in asso, e così ogni prospettiva di una reale pianificazione urbanistica in Italia”, commenta Paul Ginsborg[20].

Sullo resta ministro dei Lavori pubblici nel “governo ponte” presieduto da Leone nell'estate del 1963, ma alla costituzione del primo governo organico di centro sinistra, nel dicembre 1963, viene sostituito dal socialista Pieraccini.. Negli accordi interpartitici per la formazione del governo Moro, viene concordato che la riforma urbanistica deve assicurare la preminenza dell'interesse pubblico, attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie e la posizione di “indifferenza” dei proprietari rispetto alle scelte di piano. Su queste basi viene elaborato il disegno di legge Pieraccini: si conserva il principio dell'esproprio generalizzato, l'indennizzo però non è pari al prezzo agricolo ma è rapportato al valore di mercato del 1958. Il diritto di superficie è abolito e sono esonerati dall'esproprio le aree interessate da progetti presentati prima del 12 dicembre 1963. Mentre la proposta di legge cade insieme al governo, in tutta Italia vengono rilasciate una valanga di licenze edilizie.

Nella vicenda della riforma urbanistica aveva vinto in definitiva quello che Valentino Parlato, qualche anno dopo, definirà “il blocco edilizio”: un blocco sociale ed economico nel quale, attorno agli stati maggiori della proprietà fondiaria urbana, della grande proprietà immobiliare e del capitale imprenditoriale e finanziario (volta a volta alleati alle forze della rendita o in timido conflitto con loro), si aggregano le “fanterie” dei piccoli proprietari di case o aspiranti tali, dei risparmiatori, degli artigiani e dei lavoratori legati alla produzione edilizia[21]. L’asprezza dello scontro, e quindi il peso politico del “blocco edilizio”, è rivelato pienamente da un retroscena che emerse alcuni anni dopo, quando si scoprì che parte determinante nel convincere i leader del centro-sinistra ad abbandonare ogni ipotesi di riforma urbanistica ebbero le voci, rivelatesi fondate, di una minaccia di colpo di Stato guidata dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo[22]

La legge 167 del 1962: un sottoprodotto del dibattito sulla riforma urbanistica

A Sullo Ministro dei lavori pubblici si deve l'approvazione della legge n. 167 del 1962 “per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare”, i cui studi preparatori erano stati avviati fin dal 1951[23].

La “167” è una legge di settore. Essa si propone in primo luogo di porre fine alla prassi seguita fino ad allora nella localizzazione degli insediamenti di edilizia economica e popolare da parte dei comuni, degli Istituti autonomi per le case popolari e dalla miriade di enti che erano stati via via beneficiari di provvedimenti per la costruzione di edilizia a basso costo. Le aree venivano scelte infatti là dove il loro costo era più basso, o magari dove apparenti benefattori le cedevano sottocosto per ottenere la valorizzazione dei terreni circostanti[24]. Ciò provocava effetti distorcenti sull’assetto urbano, ed era una delle cause della vanificazione dei piani regolatori. La legge prescrive preciò che le aree per l’edilizia economica e popolare siano scelte all’interno di quelle destinate dai piani all’espansione.

I quartieri di edilizia economica e popolare avevano dato luogo, negli anni del dopoguerra, alla formazione di quartieri caratterizzati da una forte segregazione sociale. Ciò dipendeva dal fatto che ciascun ente operava in modo del tutto separato dagli altri, ogni intervento era un episodio a se stante. E poiché ogni intervento era finalizzato e riservato a una determinata categoria di cittadini (impiegati dello Stato, o sfrattati, o cittadini appartenenti a categorie particolarmente disagiate e così via), ecco che ogni quartiere era abitato da una sola categoria di inquilini, e generalmente del tutto privo di servizi sociali. La legge prescrive invece che nelle aree individuate dai piani per l’edilizia economica e popolare (PEEP) si inseriscano non solo tutti gli interventi programmati dai vari enti ma anche (per assicurare una composizione sociale più ricca e complessa) una quota significativa di interventi privati non finanziati, diretti cioè al “mercato libero”.

Ma la finalità primaria della legge è l’agevolazione dell’acquisizione, da parte dei comuni, delle aree da destinare all’edilizia economica e popolare, soprattutto al fine di renderne più agevole l’acquisizione e di ridurre l’incidenza della rendita fondiaria sul costo finale dell’alloggio. La legge stimola perciò i comuni a costituirsi patrimoni di aree da urbanizzare e rivendere ai privati per lo svolgimento di attività edilizia di tipo economico e popolare. Ai comuni viene data la possibilità di acquisire le aree mediante esproprio attraverso un meccanismo che avrebbe dovuto assicurare una consistente riduzione delle plusvalenze formatesi in dipendenza dell'espansione delle città ed un'azione calmieratrice sul mercato dei suoli: l’indennità veniva infatti commisurata non al valore delle aree nel momento dell’espropriazione, ma a quello che esse avevano due anni prima della formazione del piano.

Il meccanismo previsto per l'acquisizione delle aree veniva però dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 22 del 1965) in quanto la dissociazione del momento in cui viene determinata la indennità da quello dell'espropriazione, può condurre ad una liquidazione dell'indennità in misura solo simbolica; ad avviso della Corte l'indennità deve costituire invece un “serio ristoro” del danno patrimoniale subìto dall'espropriato. In sostituzione degli articoli dichiarati illegittimi fu promulgata la legge n. 904 del luglio 1965 con la quale, per la determinazione dell'indennità di espropriazione, si fa ricorso alla legge di Napoli del 1885, cioè, sostanzialmente, alla media tra il valore venale e la capitalizzazione del reddito catastale.

Nel 1964 la crisi edilizia, che ciclicamente riaffiora, è decisiva. La parola d'ordine prevalente è che prima di porre mano alla riforma bisogna tornare alla “normalità”. La riforma urbanistica esce di scena.

Le lottizzazioni, la frana di Agrigento e la “legge ponte”

Il suolo italiano, intanto, viene riempito di lottizzazioni edilizie. Da una inchiesta del Ministero dei lavori pubblici si desume che solo in un quarto dei Comuni italiani (poco più di 2 mila) sono state autorizzate lottizzazioni per circa 115 mila ettari, per oltre 18 milioni di vani, quanti sarebbero sufficienti a colmare l'intero fabbisogno nazionale di alloggi fino al 1980[25]. Le zone investite dalle lottizzazioni sono il triangolo industriale, la pianura veneta, l'area romana e napoletana, nonché quelle di maggior pregio paesaggistico, come le coste. La localizzazione degli insediamenti e l'utilizzazione del suolo ubbidiscono esclusivamente alla convenienza dei proprietari, i quali accollano alle finanze comunali le spese per le opere di urbanizzazione. “Il lottizzatore italiano - scrive Michele Martuscelli, che ha diretto l'inchiesta - non è nemmeno un imprenditore, ma un semplice mercante dei terreni; il suo interesse per il completamento dell'iniziativa cade non appena la maggior parte dei lotti è stata venduta ed è stata intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario”[26].

L’episodio che riapre il dibattito sulla legislazione urbanistica, riportando al centro dell’attenzione il modo in cui avviene l’urbanizzazione del territorio, è la frana di Agrigento, che il 19 luglio 1966 fa crollare centinaia di alloggi e getta sulla strada migliaia di persone, miiracolosamente senza provocare vittime. La frana è stata causata dall'enorme sovraccarico edilizio: ben 8.500 vani costruiti negli ultimi anni, in contrasto con tutte le norme esistenti. Mancini, Ministro dei lavori pubblici, nomina una commissione d'inchiesta, presieduta da Michele Martuscelli. Nel settembre la “relazione Martuscelli” è resa pubblica. Un passo della relazione (che fu stesa da Giovanni Astengo) merita di essere ricordata:

Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l'aspetto sociale, civile ed umano [27].

L'impressione nel paese è enorme. Si apre un’aspro dibattito politico. Mentre una parte della stampa propaganda la tesi dell’imprevedibilità e della “naturalità” dell’evento, l’opinione prevalente è quella che viene efficacemente espressa nella lettera di trasmissione della Relazione Martuscelli, nella quale si sottolinea “la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite”, e si esprime l’augurio “che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Il problema, conclude la Commissione Martuscelli,

non può ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica - la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata - ; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l'adozione - eventualmente anche nella forma del decreto-legge - di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione [28].

Pochi mesi dopo, viene presentata al Parlamento la “legge ponte”: un simbolico ponte tra la situazione attuale (i guasti provocati dall’assenza di un ragionevole governo del territorio erano stati svelati all’opinione pubblica, oltre che dalla frana di Agrigento, anche dalle quasi contemporanee alluvioni di Firenze e acqua alta eccezionale di Venezia) e la riforma urbanistica, di nuovo desiderata e attesa.

Il 1° settembre 1967 viene emanata la “legge ponte”[29]. Essa limita le possibilità di edificazione nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici (che sono la grande maggioranza) e cerca di incentivare la formazione dei piani, anche con la previsione dell'intervento sostitutivo degli organi dello Stato in caso di inerzia dei comuni. L'intervento sostitutivo dello Stato e più rigide sanzioni sono previste anche per punire le illegittimità e gli abusi edilizi.

Uno dei punti centrali della legge è la disciplina delle lottizzazioni edilizie. La legge stabilisce che sono proibite le lottizzazioni nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione ed accolla ai privati le spese per le opere di urbanizzazione primaria (strade, fognature, acqua, luce, verde di vicinato, ecc.), e per parte di quella secondaria (scuole, ambulatori, parchi, centri sociali, ecc.).

Ma l'innovazione fondamentale della legge riguarda i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano deve inderogabilmente riservare all'uso pubblico.

Gli standard urbanistici

Si intende per “standard urbanistici” la determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi.

Il concetto di standard urbanistici è, per la verità, più ampio. Luigi Falco, ad esempio, ricorda che

la parola standard, parola inglese che aveva originariamente il significato di bandiera, di segno di riconoscimento dei cavalieri, si usa oggi nella lingua originaria per indicare qualcosa di noto, di non discutibile e che può essere usato come elemento di paragone in numerosi campi delle tecnologie e delle scienze. La caratteristica dello standard, di essere legato a una prestazione, ad un livello di funzionamento raggiunto e sperimentato, è evidente in numerosi ambiti disciplinari, nei quali il termine è appunto usato in questo significato [30].

E un significato ancora diverso del termine - non contraddittorio con i precedenti - è quello sottolineato da Alessandro Tutino:

lo standard deve essere una bandiera (stendardo, simbolo) ed una bandiera che ad ogni traguardo va rinnovata perchè mantenga il suo valore[31]

La storia dell’introduzione degli standard urbanistici in Italia dà ragione di entrambe queste interpretazioni: quella quantitativa e normativa, e quella dinamica. In Italia gli standard urbanistici erano noti (negli anni ‘50) alla cultura specializzata. Ad essi faceva riferimento Il Manuale dell'architetto, mitico strumento di lavoro razionalista di generazioni di architetti, urbanisti e ingegneri, prodotto per la prima volta da un ufficio di promozione culturale statunitense (l’Usis, nel 1945), poi aggiornato a cura del Consiglio nazionale delle ricerche nel 1953 e nel 1962.

Si cominciò ad applicare gli standard urbanistici (cioè a riservare, nei piani per le città e in quelle per i quartieri, determinate quantità di aree per spazi pubblici in proporzione agli abitanti previsti) all’inizio degli anni 60. I quartieri popolari dell'Ina-casa e della Gescal, i piani regolatori di Roma, di Torino, di Modena costituiscono in quegli anni le prime esperienze di definizione concreta delle quantità di aree da riservare agli spazi pubblici.

Ma è più tardi, è appunto con la “legge ponte”, che in Italia si vara una normativa nazionale sugli standard urbanistici. Questa normativa, prescritta dalla legge, viene definita tecnicamente in un decreto ministeriale emanato un anno dopo: il decreto n. 1444 del 4 aprile 1968. Il decreto prevedeva standard riferiti a diversi tipi di attrezzature: alcune “d’interesse locale”, cioé tali da dover essere direttamente accessibili dagli utenti con percorsi pedonali o comunque superabili in archi di tempo brevi (non superiori ai 20-25 minuti primi); altre “d’interesse generale”, o “territoriale”, le quali, per la loro natura o per la dimensione funzionale richiesta, dovevano essere localizzate in relazione a bacini d’utenza più vasti.

Il decreto sugli standard è stato successivamente accusato di una certa rozzezza. e in effetti, esso è molto più schematico di quelli adoperati negli stessi anni in altri paesi europei. Non tiene conto dei tempi e dei modi dell’accessibilità, del rapporto tra attrezzatura e sito, delle dimensioni conformi di ogni attrezzatura, delle opportunità di integrazione tra attrezzature diverse ma complementari, della opportunità di diversificare le stesse dotazioni ad abitante in relazione a diverse situazioni demografiche e sociali. Ciò nonostante, come vedremo al prossimo capitolo, esso ebbe un effetto sconvolgente: per la prima volta nella redazione dei piani, e quindi poi nelle politiche di governo del territorio, si doveva destinare agli usi collettivi una consistente e non eludibile quantità di aree.

Ma più che la rozzezza del testo normativo, si deve criticare la superficialità della sua applicazione nella maggior parte della pratica professionale, e nella stessa successiva legislazione regionale di recepimento di quel decreto. Un caso esemplare di questa superficialità è costituito dal modo in cui sono state utilizzate le “zone omogenee” previste dal decreto. Il decreto prevede diverse zone, e per ciascuna di queste prevede norme diverse in relazione al conteggio degli standard e ad altre prescrizioni della legge. Nella volontà del legislatore, insomma, le zone omogenee sono sostanzialmente uno strumento di verifica dell’applicazione degli standard. Nella prassi corrente, invece, sono diventate una tecnica di progettazione della città, consolidando una concezione del disegno urbano basato sulla rigida monofunzionalità delle diverse parti e sulla negazione del carattere complesso tipico e caratterizzante dell’organismo urbano.

C’é da aggiungere, comunque, che la legislazione regionale, che subentrerà negli anni 70, si limiterà a ritoccare (generalmente in aumento) le quantità degli standard fissati nel 1968, ma non modificherà nella sostanza l’impostazione del legislatore nazionale: non ne supererà quindi neppure i limiti culturali. Ciò avviene in molti altri campi. Benché la Costituzione attribuisca alle regioni piena potestà in materia di legislazione urbanistica, nell’ambito dei soli “principi” fissati dalla legislazione nazionale o da essa desumibili, nella realtà le regioni si sono limitate a precisare, commentare, ulteriormente articolare la legislazione nazionale, nell’alveo della “vecchia” legge urbanistica del 1942.

Reazione e svelamento:le sentenze costituzionali

Il decreto sugli standard ha una immediata ripercussione al livello della suprema magistratura. Meno di un mese dopo il decreto, meno di un anno dopo la legge ponte, la Corte costituzionale dichiara illegittimi parte dell'articolo 7 e l'articolo 40 della legge urbanistica del 1942[32].

La tesi della Corte è la seguente. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli che destinano determinate aree ad usi pubblici (strade, scuole, verde ecc.) sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Ma questo vero e proprio vincolo non viene indennizzato: l’indennità sarà corrisposta al proprietario solo se e quando l’esproprio avverrà. Questa situazione, sostiene la Corte, è in contrasto con la costituzione, perché

un vincolo immediatamente operativo, ma il cui indennizzo è rinviato nel tempo, deve ritenersi di carattere espropriativo [33].

Sviluppando il suo ragionamento la Corte (e le successive interpretazioni della sentenza, in particolare ad opera del suo Presidente Aldo Sandulli[34]) sostiene la seguente tesi. Il legislatore ha la facoltà di stabilire che determinati beni (per esempio l’edificabilità) non appartengono al proprietario fondiario. Ma nell’attuale sistema giuridico italiano ciò non è stabilito. Non è allora oggi costituzionalmente legittimo comprimere lo jus aedificandi al di là di un limite ragionevole senza indennizzarlo, o senza almeno stabilire una data certa e vicina nella quale certamente l’indennità verrà pagata.

Se la sentenza per un verso suonava come una campana a morto per quanti erano impegnati nel tentativo di razionalizzazione dell’uso del suolo, per un altro verso indicava una possibile soluzione del problema del regime immobiliare. Nel dibattito che allora si aprì, mentre da una parte venivano proposte soluzioni volte a riconoscere per legge a tutte le proprietà fondiarie un valore minimo (“plafond”) di edificabilità, si avanzava dall’altra parte la proposta di stabilire, sulla base dell’indicazione di Sandulli, che l’edificabilità non apparteneva alla proprietà, ma era il prodotto di una concessione dell’ente pubblico attribuita ai proprietari sulla base dei piani urbanistici.

Si sceglie la soluzione più semplice ed indolore: quella del rinvio. Viene cosi approvata la legge 13 novembre 1968, n. 1187 (subito definita “legge tappo”), con la quale si stabilisce che le previsioni di piano regolatore generale, che comportano vincoli nei confronti dei diritti reali, aventi contenuto espropriativo, cessano di avere vigore qualora entro cinque anni dall'approvazione del piano regolatore medesimo, non siano approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionata.

Le tensioni sociali del 1968-69e la legge per la casa

Gli anni ‘60 si erano aperti con la speranza di una riforma profonda dei modi in cui si esercitava il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Gli anni ‘70 si aprono senza che quest’obiettivo sia stato raggiunto, ma in un clima di grande sommovimento su tutti i terreni Si aprono infatti con le grandi tensioni del Sessantotto studentesco e operaio, si sviluppano, attraverso una serie di crisi politiche e di attentati dinamitardi, attorno ai temi dell’intervento pubblico nel settore della casa, degli espropri, dell’attuazione dell’ordinamento regionale, dei tentativi di programmazione economica.

Il quadro istituzionale dell’urbanistica cambia considerevolmente. La drammaticità degli scontri sociali sulle questioni del territorio e della città sembrano ridare fiato alla riforma urbanistica. La politica della casa entra a far parte dell’armamentario della pianificazione. L’istituzione delle regioni introduce un soggetto pubblico potenzialmente decisivo. Sebbene non si raggiunga una vera riforma del regime dei suoli, vengono introdotte alcune significative innovazioni, in parte vanificate dalle sentenze della Corte costituzionale. Mentre da un lato sembra procedere, attraverso tappe parziali, un disegno di riforma, dall’altro lato si mettono in moto forze controriformatrici, le quali agiscono a volte con gli attentati terroristici, a volte con sottili tattiche di svuotamento delle leggi innovative.

La questione della casa era stata al centro delle lotte sociali. Per la prima volta dalla rinascita della democrazia uno sciopero generale (il 19 novembre 1969) aveva avuto per oggetto una serie di questioni (casa, servizi, trasporti, squilibri territoriali) che esulavano dallo stretto terreno contrattuale. Il confronto tra sindacati e movimenti spontanei da un lato, Governo e parlamento dall’altro, si svilupparono per alcuni anni, punteggiati da attentati dinamitardi e crisi di governo. Un primo risultato si raggiunse nell’autunno del 1971, con una nuova legge per la casa[35].

La legge affronta quattro questioni: la programmazione e il coordinamento dell’edilizia pubblica, le espropriazioni, le modifiche alla legge 167/1962 e il finanziamento di alcuni primi programmi d’intervento. Quest’ultima parte ha carattere dichiaratamente transitorio; più rilevanti e strutturali le altre.

La legge innova profondamente i meccanismi della programmazione pubblica dell’edilizia. Anzichè una miriade di enti, ciascuno caratterizzato da regole, soggetti e procedure diversi (unificati solo “a valle”, a partire dal 1962, da una politica urbanistica unitariamente costituita dai PEEP), la legge prefigura un sistema secondo il quale: spetta allo Strato l’allocazione di tutte le risorse pubbliche nazionali destinate alla residenza nei diversi settori e tipologie d’intervento e nelle diverse regioni, in funzione dei fabbisogni regionali; spetta alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l'edilizia all’interno dei loro territorio; spetta ai comuni la programmazione locale, e spetta ai comuni e agli Istituti per le case popolari la realizzazione e le gestione degli interventi.

Le nuove norme espropriative unificano i procedimenti e i valori del’indennità per tutte le possibili finalità (dai PEEP ai parchi nazionali, dagli interventi nei centri storici alle opere di urbanizzazione). Ancorano tutte le indennità al valore agricolo: per i fondi aventi una effettiva utilizzazione agricola l’indennità è correlata alle colture e alle altre attività aziendali, per i terreni già urbanizzati l’indennità è fissata con un valore parametrico (correlato a quello della cultura più pregiata). Generalizzano la possibilità di assegnare le aree espropriate in concessione, come alternativa alla cessione in proprietà. Ribadiscono infine che l’indennità non deve in alcun modo tener conto dell’incremento di valore acquisito dall’area per effetto delle destinazioni di piano o dall’aspettativa della realizzazione delle opere.

Le modifiche alla legge 167/1962 tengono conto delle esigenze di correzione e miglioramento maturate in quasi un decennio d’applicazione. In particolare viene abolita la disposizione che consentiva ai proprietari di aree comprese nel PEEP di operare direttamente senza essere espropriati: norma che aveva provocato, in molte zone, un aumento consistente del prezzo delle aree comprese nei PEEP.

L'attuazione delle regioni a statuto ordinario

Secondo la Costituzione italiana la competenza legislativa in materia urbanistica è delle regioni. Questa indicazione si saldava, nel dibattito degli anni ’60, con l’esigenza, affiorata fin dagli anni ‘50 nella cultura urbanistica (e già contenuta in nuce nella legge urbanistica del 1942), di promuovere una pianificazione territoriale, strettamente connessa alla programmazione economica, a partire dal livello regionale. Ma per tutti gli anni ‘50 e ‘60 avevano visto la luce solo le regioni “a statuto speciale” (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Friuuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige), la cui formazione era dovuta più a esigenze d’ordine politico o diplomatico che alla volontà di realizzare il disegno costituzionale[36].

I quindici consigli regionali a statuto ordinario sono eletti per la prima volta nella primavera del 1970, e l'effettivo trasferimento dei poteri avviene nel febbraio del 1972, in base a decreti del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda l’urbanistica, accanto al potere di legiferare già attribuito dalla Costituzione, alle regioni vengono trasferite tutte le funzioni amministrative che la legge del 1942, e le successive leggi di modifica e di integrazione, affidavano agli organi centrali e periferici del Ministero dei lavori pubblici: l'approvazione degli strumenti urbanistici (piani territoriali di coordinamento, piani regolatori generali comunali e intercomunali, piani di ricostruzione, regolamenti edilizi e programmi di fabbricazione, piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate) e dei piani per l'edilizia economica e popolare; il controllo e la vigilanza sull'attività edilizia ed urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario viene anche trasferito il potere di redigere e di approvare i piani territoriali paesistici previsti dalla legge per la tutela delle bellezze naturali del 1939.

Agli organi centrali dello Stato è riservata la funzione di “indirizzo e coordinamento” delle attività amministrative regionali “che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”. Allo Stato sono riservate inoltre le competenze relative alla rete autostradale; alle costruzioni ferroviarie, ai porti, alle opere idrauliche e di navigazione interna di maggiore importanza; all'edilizia statale, demaniale e universitaria, ecc.

Al trasferimento delle materie stabilite dall'art. 117 della Costituzione si affianca la delega delle “funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate”. Viene istituita una commissione (presieduta da Massimo Severo Giannini) le cui proposte forniscono la base al decreto del presidente della repubblica n. 616 del luglio 1977, che chiude quasi un decennio di dibattiti e di produzione legislativa circa l'ordinamento regionale.

Secondo il decreto 616/1977, l'urbanistica è “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”: tutto ciò è di competenza regionale. Allo Stato resta affidata la “identificazione, nell'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento [...], delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”.

La legge Bucalossi sul regime dei suoli

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero inutilmente e si approvò un'altra proroga biennale; poi, ancora un rinvio di un anno, finalmente accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente viene approvato nel gennaio 1977. E’ la legge n. 10 del 1977, nota come legge Bucalossi, dal nome del ministro che ne fu l'autore[37].

Alla base della legge c'è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, proposta inizialmente (come mera ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa dalla parte maggioritaria della cultura urbanistica. L'intesa fra i partiti di governo si realizza, superando le esitazioni della DC, soprattutto grazie all'impegno di Bucalossi che minaccia le dimissioni e la crisi di governo in caso di mancata approvazione. Il principio della separazione viene però affermato in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile anche agli incerti e ai contrari: non costituirà argine sufficiente rispetto alle critiche della Corte costituzionale.

Gli elementi portanti della riforma sono l'istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell'edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.

Passare dalla “licenza edilizia” alla concessione, e per di più a una concessione onerosa, ha come presupposto l’aver ammesso, almeno implicitamente, che esiste una riserva pubblica del diritto di edificare. La concessione di questo diritto è accordato al proprietario dell'area, o a chi ne ha la legittima disponibilità, per edificare opere conformi agli strumenti urbanistici, contro un determinato onere. Questo dovrebbe, sul piano dei principi, essere commisurato al maggior valore all’area viene attribuito per il fatto che essa è divenuta edificabile. In realtà la legge, privilegiandoi anche qui il compromesso rispetto al rigore, stabilisce che il contributo di concessione è formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.

La legge prevede la possibilità di non pagare la parte di contributo concessorio corrispondente a una quota del costo di costruzione, a condizione che il proprietario si impegni a convenzionare il canone d’affitto e il prezzo di vendita dell’edificio realizzato. Si tratta di una innovazione interessante, già introdotta dalla legge per la casa del 1971 all’edilizia economica e popolare che la legge Bucalossi tenta di generalizzare; essa consentirebbe alla mano pubblica di controllare contrattualmente l’esito finale del processo di urbanizzazione e costruzione della città.

L’introduzione del programma poliennale d’attuazione è comunque il più importante contributo della legge allo sforzo di razionalizzare i modi e i tempi in cui avviene il processo di espansione e trasformazione della città, per tentare di ridurne i costi e accrescerne i benefici sociali. L’esigenza di governare nel tempo l’attuazione delle previsioni dei piani regolatori, correlando l’attuazione delle opere di competenza pubblica con quelle d’interesse privato era viva da tempo. Il primo tentativo di soddisfarla fu compiuto, sia pure solo parzialmente a causa delle difficoltà frapposte dal Consiglio di Stato, dal Piano regolatore di Rtoma del 1962.

La legge prescrive sostanzialmente che i comuni, ogni tre o quattro o cinque anni, provvedano a indicare quali saranno gli interventi, pubblici e privati, previsti o consentiti dal piano regolatore vigente, che saranno effettuati o autorizzati nel periodo considerato. Per gli interventi privati inclusi nel PPA ma no attivati alla scadenza del periodo, la legge prevedeva l’esproprio delle aree e l’intervento sostitutivo del comune.

A proposito dell’abusivismo, fenomeno che era già in forte espansione, soprattutto nell’area romana, nel Sud e lungo le coste, la legge prevede, nei casi di maggiore gravità, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva. La demolizione è l'unica sanzione prevista quando l'abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.

Nel dibattito parlamentare non viene chiarito il nodo di fondo, relativo al regime di proprietà delle aree edificabili. Resta l’ambiguità nelle formulazioni sulla separazione dello ius edificandi dalla proprietà. Puntualmente, nel gennaio 1980, la Corte costituzionale si pronuncia ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica. Nel frattempo, le regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione, e le norme contro l’abusivismo saranno rimaste inapplicate.

Nuove esigenze e nuove leggi per la politica della casa

Nonostante le riforme legislative operate a partire dal 1962 la questione della casa era ben lontana dall’esser risolta. Il settore era, nel suo complesso, estremamente articolato e ricco di sperequazioni e differenze quasi patologiche. Oltre agli alloggi abitati direttamente dei proprietari, giunti a livelli sconosciuti negli altri paesi europei, vi erano: gli alloggi privati condotti in affitto libero, per i quali si pagavano prezzi crescenti; gli alloggi privati condotti a fitto “bloccato”, cioè ancorato al valore originario senza tener conto dell’aumento dell’inflazione, per effetto di una serie di leggi che, a partire dagli anni della guerra, avevano teso a proteggere gli inquilini dei ceti meno abbienti dai notevoli aumenti dei prezzi; gli alloggi privati realizzati in aree Peep, preventivamente espropriate e assegnati a fitti convenzionati; gli alloggi di proprietà pubblica, assegnati a canone “sociale”.

Gli inconvenienti e le sperequazioni di questa situazione erano notevoli. Particolarmente pesante era il blocco dei fitti. D’altra parte, lo stesso contenimento dei prezzi operato nelle aree Peep (per effetto della decurtazione iniziale della rendita fondiaria e del controllo sul prezzo finale operato con il convenzionamento) veniva vanificato dalla “concorrenza” provocata da un “mercato libero”, libero di spingere all’insù i prezzi degli alloggi. Né era possibile limitarsi a “sbloccare” la parte vincolata dello stock privato, ciò che avrebbe provocato tensioni sociali insostenibili.

Per affrontare la questione non bastava quindi più limitarsi a costruire abitazioni economiche per le fasce più disagiate, ne limitare l’intervento pubblico alla costruzione di nuove case. Del resto, in quegli anni erano emerse due consapevolezze nuove: da un lato, il fatto che l’età dell’espansione continua e indefinita era terminata, che “più case si fanno più ce ne vogliono”, e che non si poteva proseguire con “lo spreco edilizio” [38]; dall’altra parte, il fatto che l’esigenza di disporre di un alloggio ad un prezzo commisurato al reddito e alla conseguente capacità di spesa era un “diritto sociale”, che doveva essere garantito a tutti.

D’altra parte, le leggi per la casa avevano affrontato solo episodicamente il problema del finanziamento dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa. E non era stato affrontato (salvo che nella positiva eccezione del “Peep-centro storico” di Bologna[E.S.1] ) la questione di un intervento volto al recupero dell’edilizia esistente.

Le opere sono certo importanti per dar conto della vita di un uomo pubblico, quale Edoardo Detti indubbiamente fu, e per affidare a chi non lo conobbe qualcosa del significato della sua esistenza, del suo percorso su questa terra. Tanto più, poi, quando quest'uomo è un architetto e un urbanista: un uomo che ha assunto perciò, quale proprio compito e impegno, il rendere la città, la terra, più bella per gli uomini.

In questo sta la ragione primaria per la quale abbiamo deciso di dedicare questo primo Quaderno di Urbanistica informazioni alla illustrazione della figura e dell'opera di Edoardo Detti. E ci sembra giusto che sia sulle pagine di questa rivista che si inizi una riflessione su Detti, perché fu grazie a lui che Urbanistica informazioni vide la luce. Fu lui, nel 1972, che indusse a rompere gli indugi, non attardandosi nel tentativo di costruire più ambiziosi progetti per dare voce ed espressione a un Inu che in quegli anni avviava, in fatica e in povertà, il proprio rinnovamento. Fu lui che spinse a rischiare con coraggio, nei modi artigianali, volontaristici, dimessi, che erano i soli possibili ma che per lui erano anche uno stile nel quale si riconosceva.

Ci rendiamo ovviamente conto che si tratta di un primo contributo sistematico alla conoscenza di Detti, la cui opera merita una illustrazione più vasta, compiuta e ricca. La nostra speranza è, anzi, che il materiale raccolto in questo Quaderno (grazie soprattutto all'appassionata attenzione di Mariella Zoppi) possa costituire, a un tempo, lo stimolo e la base per una più dispiegata e documentata opera su Edoardo Detti.

Le opere, dunque, sono importanti. Ma sono tutt'altro che sufficienti a cogliere (per darne conto) la ricchezza dell'apporto che un uomo come Detti ha saputo fornire alla nostra civiltà. A chi lo ha conosciuto, a chi ha avuto il privilegio di frequentarlo, c'è un aspetto di lui che rimane impresso nella memoria, resistendo al logorio che su di essa esercita il tempo che trascorre, e che nella riflessione su di lui appare decisiva e centrale: è la profonda unità che legava tutte le espressioni, tutti i momenti, tutte le dimensioni del suo essere.

Non a caso abbiamo adoperato il termine unità anziché coerenza, che primo si era affacciato alla penna. Proprio perché il modo in cui i vari aspetti del suo essere e del suo agire si componevano era del tutto privo di quel tanto di rigido e di costretto, di predeterminato e quindi in qualche modo di esterno, che il termine coerenza evoca. Erano il portato, profondamente radicato, e divenuto naturale, di un modo di esistere.

Leggendo i testi di Astengo, De Lucia, Di Pietro, Zoppi, raccolte nel Quaderno e ciascuno dedicato a illustrare uno dei momenti della sua attività «esterna», già si comprende come questi momenti fossero legati da una forte unità. Si ha subito la consapevolezza del fatto che per Edoardo Detti progettare un edificio o un piano regolatore, insegnare all'Università o dirigere l'Inu, fornire una consulenza professionale o amministra re un comune, erano momenti solo tecnicamente, strumentalmente diversi d'un unico lavoro. E già questa esplicitazione dell'unitarietà della sua figura meriterebbe di essere additata come esempio, oggi: in un momento cioè nel quale non la dialettica (che è sempre feconda) ma la contraddizione (spesso lacerante) sembra aprirsi tra momenti distinti ma (come Detti appunto insegna) non necessariamente separati o addirittura contrapposti. Non è forse vero che, oggi, il ruolo dell'«architetto» e quello dell'urbanista, il momento del «piano» e quello del « progetto», gli interessi «accademici» e quelli « culturali», le attribuzioni «tecniche» e quelle « politiche», vengono così spesso vissute - nelle presone e nelle istituzioni - come antinomie, informe patologiche vicine alla schizofrenia?

Ma questa unità, sebbene decisiva, non esprime interamente la compiutezza della figura di Edoardo Detti. Ne spiega il rigore, la coerenza: ha la sua radice nella sua moralità. Non spiega ancora la sua naturalezza, il suo stile, se a questo termine vogliamo dare il significato di modo di essere.

Ciò che vogliamo dire (con tutta la difficoltà che sentiamo nel tentar di esprimere sensazioni, intuizioni, immagini, momenti che il ricordo di Detti ha sedimentato in noi) è che l'unità che riconosciamo nella figura di Detti componeva, in un'armonia profonda, tutti gli aspetti della sua vita: quelli pubblici ed esterni, professionali, culturali, con quelli più privati, più personali, più intrinseci.

Preferire, quale mezzo di locomozione, la bicicletta, era certamente scelta che derivava da un suo amore per l'esercizio fisico, dal modo quindi in cui gestiva il rapporto con il proprio corpo: ma non assumeva subito anche il significato (lo annota Di Pietro) di aderire più direttamente e immediatamente, di immergersi più organicamente, nella stessa quotidianità, a quelle forme del paesaggio di città e di campagna su cui la professione lo chiamava a intervenire? L'elegante semplicità del suo abbigliamento, e la stessa accattivante nobiltà del suo portamento, erano forse separabili rispetto alle qualità delle sue architetture, erano forse altra cosa rispetto a queste? E come può, a chi lo conobbe, sfuggire il fatto che le sue mille attenzioni nella vita quotidiana (le ricette e i «trucchi» per viaggiar leggeri e consumare poco, la sapida frugalità dei cibi che prediligeva, la curiosa e gioiosa ricerca d'ogni cosa, persona, i dea che gli apparisse insieme naturale e bella) esprimevano lo stesso atteggiamento di esplorazione della vera qualità delle cose, di adesione alla realtà nella quale interveniva, di ricerca del massimo di parsimonia nell'uso di risorse che vanno in primo luogo rispettate, che caratterizzava il suo modo di operare sul territorio come architetto o come urbanista o come docente o come organizzatore o come polemista?

Del resto, anche la scelta estrema della sua vita (la decisione che il suo corpo fosse cremato) apparve a chi lo accompagnò nell'ultimo tratto del suo viaggio come l'espressione della volontà di non contribuire, neppure con i pochi centimetri quadrati del suo corpo, a sprecare quel territorio, quell'ambiente, quel paesaggio che le sue opere e il suo insegnamento e la sua azione culturale e politica avevano incessantemente difeso.

Mi sono domandato spesso, in queste ore che cominciano ad allontanarci dalla morte di Giovanni Astengo, perché all'Assemblea dei soci dell'Inu di Pescara decidemmo, tre anni fa, di istituire per lui la carica nuova di presidente onorario dell'Istituto nazionale di urbanistica. Molte ragioni mi sono venute alla mente, tutte giuste, ciascuna di per sé sufficiente. Nessuna, però, definitiva, inequivocabile.

Astengo era il piú prestigioso degli urbanisti italiani. Era l'ultimo d'una generazione (quella dei Piccínato, dei Samonà, dei Detti) che aveva fondato, con la teoria e con la prassi, la moderna cultura urbanistica italiana. E all'apporto di questa generazione - dei padri dell'urbanistica italiana - Astengo aveva portato il contributo, secondo molti di noi essenziale, del rigore scientifico del metodo, della ricerca dell'oggettività delle analisi come base e giustificazione delle scelte della pianificazione.

Astengo era il maestro, e la sua vita era la testimonianza, di un legame stretto tra cultura e amministrazione, tra scienza e polìtica: era il maestro e il testimone della ricerca costante, paziente, sempre sofferta, spesso amara di una interazione profonda tra questi due aspetti essenziali dell'urbanistica quale noi la intendiamo.

Astengo era l'espressione piú intensa della volontà di una disciplina - della sua, della nostra disciplina - di affermarsi, di consolidarsi, di approfondire e rendere attuali le ragioni della propria utilità sociale attraverso l'insegnamento: l'insegnamento come organizzazione del sapere e dei modi concreti di trasmetterlo e propagarlo, e l'insegnamento come apostolato, come testimonianza, come seminagione di certezze (e di dubbi) per la crescita del futuro.

Astengo, infine, aveva svolto un ruolo decisivo, se non nella nascita, certamente nell'affermazione e nel consolidamento dell'Istituto nazionale di urbanistica. È sufficiente ricordare il ruolo di Astengo non solo come direttore della rivista dell’INU, di Urbanistica, ma come protagonista, autore, redattore, editore, perfino finanziatore - con i sacrifici che la modestia dei suoi mezzi gli consentivano -; in una parola, come fattore di Urbanistica, se è lecito adoperare questo termine nel suo significato letterale.

Ciascuna di queste ragioni, ciascuno di questi aspetti della sua personalità era di per sé sufficiente, e ad abundantiam, per onorare l'Inu attribuendo ad Astengo il titolo di presidente onorario. Ma la ragione vera, la ragione profonda della nostra scelta (o, almeno, di chi la propose) sta in un altro elemento. Sta nella profonda, rigorosa, severa moralità di Giovanni Astengo. Era una moralità che si esprimeva in mille modi: da quelli piú quotidiani, piú legati ai comportamenti privati, fino a quelli che determinavano in lui le scelte della vita professionale, culturale, politica. E se i primi potevano far sorridere qualcuno di noi, la sua moralità culturale, pubblica, era per tutti fonte di rispetto: per chi, come noi, concordava con le sue scelte, come per chi non le condivideva.

Io credo che in quella profonda, rigorosa, severa moralità sia non solo una convincente chiave di lettura dei diversi aspetti del contributo di Giovanni Astengo e della loro unitarietà, ma anche il piú importante e attuale insegnamento che ieri la sua presenza, oggi la sua memoria ci può dare. Quello della moralità è un insegnamento controcorrente, fuori moda. È un insegnamento che porta a privilegiare certi valori nei confronti di altri: precisamente, a privilegiare valori difficili contro valori facili.

A privilegiare il rigore dell'analísì, la coerenza del percorso logico, la sistematicità delle scelte, contro la superficialità magari geniale dell'improvvisazione, contro l'intuizione accattivante, contro il gesto che conquista prima di convincere. A nascondere l'affermazione personale nel lavoro collettivo. A posporre l'interesse proprio all'ínteresse comune, l'interesse privato all'interesse pubblico. A praticare, senza neppure predicarla, la tranniquilla ra

Questa moralità contiene in sé i parametri di un certo modo, del modo giusto, di concepire e di praticare l'urbanistica, di essere urbanista. Perciò era giusto che Giovanni Astengo stesse al vertice dell'Inu. Perciò è triste che non ci sia piú. Sta a noi, a noi tutti, far si che il suo insegnamento continui a vivere, a essere un seme per il futuro.

Quando si guarderà la Piana dall’alto di Monte Morello, di notte, al centro della piana, tra le luci dell’aeroporto e quelle dell’Osmannoro, tra le file dei lampioni dell’Autostrada, della Ferrovia, della Mezzana, apparirà ancora il grande buco nero del Parco. Ma di giorno le cose ritroveranno il loro valore: l’area senza luci apparirà nella sua realtà: l’unica zona ancora non impestata dai mille disordinati manufatti di cemento e d’asfalto, da ciò che Firenze e Prato hanno disordinatamente scaricato nell’antica campagna irrorata dall’Arno e dai suoi affluenti. Apparirà finalmente nel suo aspetto di ordinata campagna, solcata dai filari di alberi e di siepi che riprenderanno il tracciato degli antichi percorsi, attraversata dai lievi sentieri per i pedoni e i ciclisti, sugli argini dei corsi d’acqua che avranno ritrovato la loro vegetazione e il loro lento percorso.

Ai piedi del Monte di Sesto le case (a differenza di quanto accadeva molti anni fa) non si arrampicheranno su per le pendici collinari, e i costruttori avranno smesso da tempo di riempire di ville e villette le radure del bosco. Verso il Monte come verso la Piana la linea di demarcazione tra la città costruita e il territorio aperto, fissato dal nuovo Piano strutturale come un “limite invalicabile” alla cementificazione, come una “invariante strutturale” non rimovibile, avrà esercitato il suo potere di difesa della campagna e della natura. Promosso dal Regolamento urbanistico, sarà diventato operativo un attento studio sugli interventi necessari per restaurare il paesaggio agrario e per restituire convenienza economica alle tradizionali attività agricole. La sua attuazione avrà consentito d’evitare il degrado delle aree non boscate né abbandonate alla rinaturalizzazione, di garantire una vita soddisfacente alle famiglie insediate negli spazi aperti, e soggiorni piacevoli e interessanti ai turisti alloggiati nei casali e nelle pievi accortamente restaurate.

I corsi d’acqua avranno ritrovato il loro percorso naturale; le loro sponde saranno di nuovo coperte dalla vegetazione ripariale. Il loro aspetto sarà mutato perfino là dove attraversano la città costruite. Non più fossi maleodoranti e occasionali discariche, non più canalizzazioni cementizie: saranno ridiventati elementi di naturalità, verdeggianti sentieri dove gli uomini e l’acqua corrono paralleli, dal monte alla piana, congiungendo in un unico sistema di percorsi le due grandi realtà naturali del territorio sestese.

Anni fa Sesto Fiorentino correva il rischio di diventare una periferia di Firenze. La qualità della vita era migliore che nel capoluogo: più verde e servizi, meno congestione. Molti avevano preso casa a Sesto pur lavorando a Firenze. Nel capoluogo le case erano care, sempre più alberghi e sempre meno alloggi per i fiorentini. Come nelle altre periferie, anche Sesto minacciava di diventare un quartiere dormitorio della città più importante, rischiava di perdere la sua individualità. L’effetto congiunto di una difesa delle caratteristiche proprie della città, di una buona tenuta dell’economia sestese (oltre alla fabbrica di ceramiche dei Ginori, che era diventata parte costitutiva della città, altre attività si erano consolidate), e di positive iniziative di politica metropolitana promosse dalla Regione e dalla Provincia, aveva scongiurato questo rischio. Con Campi, Signa, Calenzano e gli altri centri della piana fiorentina, Sesto era diventato parte di una rete di centri ciascuno dei quali aveva mantenuto la sua individualità e il peculiare carattere, costituendo (con l’aeroporto e i grandi centri commerciali, con l’università e l’Osmannoro) elementi vitali di una rete di attività, di ambienti, di funzioni tra loro integrate.

A questa rete il Servizio ferroviario regionale, una ricalibratura delle strade carrabili e le nuove linee tranviarie (da Firenze a Campi Bisenzio e al centro di Sesto, attraverso l’Università e Zambra a monte, e Osmannoro a valle) avranno fornito un efficiente e amichevole servizio di trasporto. Una rete di percorsi ciclabili, quasi dovunque in sede propria e sempre protetti, prolungandosi con i sentieri sul Monte Morello, avrà collegato tra loro tutti i luoghi che è interessante e piacevole visitare e percorrere, sia nelle ore e nei giorni liberi che negli spostamenti quotidiani: da Padule al Parco delle Cascine, da Querceto e da Colonnata ai Renai e all’Arno, chi vorrà approfittare degli spostamenti per fare un po’ d’esercizio fisico non avrà che l’imbarazzo della scelta.

Nella vita quotidiana i sestesi avranno ritrovato e consolidato i segni e i luoghi della loro storia. Le denominazioni degli antichi “popoli” dalla cui associazione la moderna Sesto è nata (Quinto e Sesto, Colonnata, Querceto, Padule), e i toponimi antichi e nuovi delle zone “sott’il treno” (Zambra, San Lorenzo) saranno divenute quelle delle “Unità territoriali organiche elementari” (nome complicato, sostanzialmente coincidente con la realtà dell’unità di vicinato o del quartiere). In quelle “Utoe” le cittadine e i cittadini troveranno i servizi di prima necessità, la piazza dove incontrarsi, gli sportelli automatici per l’accesso ai servizi comunali, a quelli postali e bancari, e alle altre necessità quotidiane.

Dal centro di ogni Utoe si dipartiranno percorsi, pedonali e ciclabili, protetti dal pericolo e dall’inquinamento delle automobili, che collegheranno tra loro tutte le parti della città dove sono localizzati i servizi e gli spazi dedicati alla fruizione collettiva: dai parchi e i giardini alle scuole, dai servizi sanitari agli uffici pubblici, dalle piazze alle aggregazioni commerciali. L’insieme di questi percorsi (piacevoli, protetti, con le nuove gradevoli pavimentazioni e piantumazioni di alberi e arbusti) costituirà una rete: la rete delle qualità ambientali, sociali, culturali – alternativa a quella dei precorsi carrabili, dell’asfalto e delle automobili.

Per costruire questa rete - per consentire alle donne e agli uomini, ai bambini e agli anziani, alle biciclette e alle carrozzine, di muoversi e d’inconmtrarsi in una città amica – si sarà dovuto procedere a una ricalibratura della rete stradale. Alcune strade saranno state attrezzate in prevalenza per il transito pedonale e ciclabile e solo in parte del loro spazio potranno essere utilizzate il traffico meccanico locale. Le altre strade delle zone centrali sarà consentito anche la sosta delle automobili, ma solo per i residenti e – nei percorsi più attrattivi – per la sosta operativa legata al commercio e ai servizi. I visitatori occasionali o pendolari, che non avranno voluto o potuto utilizzare l’efficiente ed amichevole rete integrata di traspoprto collettivo, dovranno sistemare le automobili in appositi parcheggi, opportunamente localizzati in modo da consentire di raggiungere ogni luogo con percorsi brevi.

Altri interventi avranno interessato le sedi stradali, ma sempre nell’ottica di migliorare la vivibilità della città, di renderla più piacevole ed efficiente per le cittadine e i cittadini. Così, la realizzazione della nuova strada Mezzana Perfetti-Ricasoli, allontanando dal centro il traffico di attraversamento, avrà consentito di ottenere un notevole alleggerimento dell’asse di via Ariosto, che sarà stato pienamente recuperato a funzioni urbane: attraversato dalla nuova linea tramviaria e fiancheggiato da una comoda pista ciclabile, sarà diventato un viale urbano fiancheggiato da caffè e negozi, e da spazi per la sosta e il ritrovo.

Analogamente, il completamento della rete stradale dell’Osmannoro avrà concorso alla trasformazione radicale del quartiere. Non più un insieme di capannoni e altri edifici malamente assortiti, ma un vero e proprio quartiere urbano, ricco di attività produttive moderne e non inquinanti, di attività commerciali di livello metropolitano, di aziende specializzate nella produzione di servizi ad alto contenuto di tecnologia. E il suo asse centrale (l’attuale via Lucchese) si sarà trasformato anch’esso in un viale urbano, percorso da una linea tranviaria moderna che collegherà comodamente i vari punti del Viale dell’Osmannoro al polo universitario, ai centri e alle stazioni ferroviarie di Sesto e di Campi Bisenzio, e infine a Firenze e a Prato. Verso ovest questa parte di città si concluderà in modo più definito di ora: gli stagni e i prati destinati alla laminazione delle piene dei corsi d’acqua costituiranno un bordo preciso alla città tecnologica. La torre del termovalorizzatore segnerà il limite fra città e campagna.

Avranno cominciato ad essere radicalmente trasformate le “aree urbane non consolidate”: quella delle caserme e quella a monte della Coop a Zambra, ristrutturate anche in connessione alla riorganizzazione della stazione del servizio ferroviario regionale di Zambra, dove un’ampia dotazione di verde avrà posto in connessione il centro di Quinto e quello di Zambra, contribuendo alla costruzione del “sistema delle qualità”; quella di via Pasolini, alleggerita rispetto alle previsioni del vecchio PRG, strettamente integrata con le attrezzature sportive previste a monte, e aperta verso il polo universitario; quella della Ginori, dove il consolidamento della fabbrica sarà stato accompagnato dalla realizzazione di un centro culturale ed espositivo dedicato alla storia e all’arte della ceramica, alla riconfigurazione di un’area nodale per la nuova Sesto, e ad un aumento consistente della dotazione di parcheggi; quella della cartiera, in margine alla stazione ferroviaria, che sarà stata impegnata da un’azienda, pubblica o privata, di rilevo nazionale, interessata a una localizzazione strategica e accessibile come quella; A San Lorenzo e Padule saranno completati gli ultimi insediamenti residenziali verso la piana, collegati a quest’ultima dalla trama di aree verdi e di percorsi che, superando con facilità la strada Mezzana, consentiranno ai Sestesi, in pochi minuti di bicicletta, di godere di un po’ di riposo dallo stress del lavoro e della vita urbana, e di restituire allo sguardo il familiare profilo di Monte Morello, il monte di Sesto.

Edoardo Salzano

LA TELENOVELA URBANISTICA

E' davvero un serial la vicenda del regime degli immobili: più lungo di Dinasty, più brutto di Beautiful, più angoscioso di Twin Peaks. Passerà ancora molto tempo, temiamo, prima che quella vicenda possa considerarsi conclusa ed esser raccontata come un vero, nobile romanzo. Passerà molto tempo (é questo che più conta) prima che vi possa essere certezza del diritto sui contenuti economici delle trasformazioni urbane, e chiarezza di poteri nel loro governo.

Mentre scriviamo, il farraginoso elaborato risultante dalla originaria proposta dell'on. Cutrera e dalle abbondanti superfetazioni prodotte dal sovrapporsi di infiniti intarsi emendativi (nei quali si é particolarmente distinto il relatore alla Camera dei Deputati, l'on. Guido D'Angelo) é in discussione nella Commissione Ambiente della Camera.

L'ultimo testo che conosciamo (il lettore lo troverà nel dossier di questo numero) ha una particolarità interessante: apre una finestra sul futuro, ci fa comprendere quale sarà, secondo la volontà della regia, il contenuto delle ultime puntate del serial. E' racchiuso nell'art.22, intitolato "Norme transitorie". (E' sempre in questi angolini nascosti delle leggi che bisogna guardare, per comprendere ciò che realmente avrà efficacia. Ricordate il famoso "anno di moratoria" della legge ponte del 1967, che riempì l'Italia di tanto cemento quanto non se ne era realizzato in un decennio?).

L'articolo 22 afferma, al primo comma, che "le disposizioni della presente legge relative alla determinazione dell'indennità di espropriazione per le aree edificabili nonché del contributo sulla maggiore utilizzazione edificatoria hanno applicazione dopo diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge".

Avete capito bene. Secondo il legislatore questa legge, che ha impegnato centinaia di migliaia di ore di lavoro di senatori e deputati, quando finalmente sarà stata approvata da entrambi i rami del Parlamento e, munita dela firma del Presidente della Repubblica, sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, non entrerà in vigore: resterà sospesa per un anno e mezzo. In questo periodo si ricorrerà per gli espropri, come stabilisce il medesimo articolo, alla legge di Napoli del 1885.

Perché un così lungo periodo di moratoria? Chi lo chiedesse ai parlamentari, si sentirebbe probabilmente rispondere che questo é il tempo occorrente per mettere a punto i meccanismi necessari perché la legge funzioni. Noi saremo certamente maliziosi e irrimediabilmente "dietristi", ma immaginiamo uno scenario diverso, meno europeo e più levantino.

La legge sarà approvata. Il sen.Cutrera, autore dell' originaria impostazione della nuova normativa (ahimé quanto degradata nel tempo!), uscirà formalmente vincitore dalla vicenda. Come Bucalossi, come Galasso, avrà anche lui la "sua" legge. Potrà adoperare l'esito della sua iniziativa per raccogliere i consensi (indubbiamente meritati per le qualità intrinseche del personaggio) nel corso della vicina campagna elettorale.

Nel frattempo, si applicherà per gli espropri una legge sperimentata (mai ricusata dalla Corte costituzionale), per un periodo transitorio. Alla scadenza, una provvidenziale leggina, approvata da un distratto Parlamento, ne prorogherà per la prima volta gli effetti. Di proroga in proroga, la norma transitoria diventerà di fatto permanente. Così, anche i democristiani, che le elaborate invenzioni del sen. Cutrera non hanno mai convinto, e che preferiscono la tranquillità del vecchio alle incertezza del nuovo, avranno vinto.

Una soluzione all'italiana. Una soluzione della quale, nel merito di entrambe le sue conseguenze, non avremmo da dolerci: perché il sen. Cutrera merita certamente la rielezione, e perché la legge di Napoli é certamente meglio di quel pasticciaccio che il Parlamento ha prodotto. Peccato, però, che la riforma del regime degli immobili si allontani ancora nel tempo, che la telenovela debba proseguire ancora per tanti, tanti anni. (75 righe)

IL PRG AUTODEROGANTE

Non solo nelle leggi: anche nei Prg bisogna guardare con attenzione negli angolini nascosti delle norme. Sotto il vestito magari accattivante delle tavole e dei disegni, dietro le intenzioni argomentate e convincenti delle relazioni, si nasconde spesso la peggiore deregulation urbanistica. Vogliamo pubblicarne un esempio. Non perché sia eccezionale, o eccezionalmente mistificatorio. No. Anzi, proprio perché, nella sua innocenza, é in qualche modo tipico.

Parliamo del Prg di Rimini, in corso d'adozione. Le sue norme contengono un comma che riproduciamo integralmente, dall'art.2.01. "Il Consiglio comunale (...), previa individuazione e perimetrazione delle aree, approva progetti speciali per servizi e attrezzature di generale interesse volti a sostenere e riqualificare l'ambiente nonché a promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano, su iniziativa di soggetti pubblici e/o privati, anche in variante alle previsioni di Prg secondo le speciali procedure semplificate previste dalle leggi".

Se abbiamo capito bene, il Consiglio comunale può accettare proposte in contrasto al Prg ("anche in variante alle previsioni"), anche di privati, che dichiarino di voler realizzare un "progetto speciale", purché esso sia atto a "promuovere trasformazioni qualitative a livello urbano". Dove il Prg prevede servizi di quartiere, o un parco pubblico, o una zona agricola, il proprietario, o un qualsiasi altro soggetto d'accordo con lui, può quindi proporre un edificio, magari "intelligente", per uffici, o un centro congressuale, o un villaggio turistico, o una succursale di Disneyland?. Sembra di si.

Gli urbanisti si lamentano sempre delle deroghe ai piani introdotte dalle leggi. Era ora che qualcuno si decidesse a fare un piano capace di autoderogarsi. (32 righe)

S.D.O. O NO?

La previsione strutturalmente più significativa del Prg di Roma del 1962 era costituita da quello che, negli anni successivi, fu definito "Sistema direzionale orientale" (Sdo). Si trattava di un "asse attrezzato" (nel disegno di allora, una grande autostrada urbana), e da "centri" e "zone" direzionali. Collocato nelle aree libere a metà strada tra la cintura ferroviaria che stringe i quartieri centrali e il Grande raccordo autostradale, lo Sdo avrebbe dovuto costituire il "nuovo centro città", rompere l'espansione a macchia d'olio e svolgere una funzione strategica per la sua riorganizzazione.

Molti anni sono passati da allora. Lo Sdo non é stato realizzato. C'é chi dubita sulla validità attuale della proposta. C'é invece chi ritiene che, opportunamente ridimensionato in alcune sue previsioni (quelle infrastrutturali e quelle volumetriche) e riconvertito nelle sue funzioni, abbia ancora un'importanza strategica per risolvere tre problemi della città.

Tre problemi nodali per il suo futuro. Si tratta del problema della mobilità, se lo Sdo servirà a riorganizzare la rete della grande viabilità nel settore orientale abbandonando le ipotesi autostradali e, soprattutto, costruendo prioritariamente alcune nuove linee del trasporto collettivo su ferro. Si tratta del problema della riqualificazione dei giganteschi e slabbrati quartieri circostanti, poveri di qualsiasi attributo di civiltà. DE si tratta infine del problema del decongestionamento del centro storico, mediante il trasferimento dei ministeri e la sostituzione a questi di utilizzazioni "leggere".

Numerose ipotesi sono state avanzate per le modalità della realizzazione dello Sdo. Scartata, "naturalmente", quella di attrezzare gli uffici comunali, scartate per fortuna anche quelle basate sui criteri della lottizzazione convenzionata, si é approdati a una soluzione che, nonostante un'ambiguità di fondo nel rapporto tra pubblico e privato, non é priva di una sua convincente efficacia. Si é deciso cioé di affidare in concessione a un consorzio di imprese la progettazione urbanistica del sistema e di espropriare preliminarmente le aree. Il finanziamento per l'avvio dell'operazione é già stato stabilito dalla Legge speciale per Roma Capitale.

Nell'ottobre scorso sono state firmate le convenzioni che danno il via all'operazione. Nello stesso mese si sono avute tre notizie. La prima: il Comune avrebbe concesso al Ministero della Difesa di costruire un edificio militare (... mc circa) in una vastissima area dello Sdo, ponendo così una pesantissima ipoteca sulla sua fattibilità. La seconda: con una interpretazione lassista delle norme il Comune starebbe consentendo la realizzazione di numerosi fabbricati direzionali nelle zone industriali, favorendo in tal modo l'ulteriore espansione del "sistema direzionale diffuso" che già caratterizza la Capitale. La terza: sarebbe definitivamente confermato lo spoostamento del Ministero della Sanità sulle rive sud del Tevere, alla Magliana.

Sembra insomma che il Comune abbia deciso, senza dichiararlo esplicitamente ma lasciandolo intendere nei suoi atti concreti, di abbandonare lo Sdo. Ma e' mai possibile realizzare una simile opera contro la volontà del Comune? Non sembra proprio. Tanto più, se si considera che il nuovo significato che allo Sdo si vuole dare, la soluzione insomma di quelle tre questioni sopra ricordate, rendono indispensabile che il Comune, contestualmente alla progettazione dello Sdo, proceda nella formazione degli atti necessari per la pianificazione del centro storico e dei quartieri periferici, nonché nel completamento del sistema della mobilità.

C'é chi ritiene che, l'anno prossimo, la commemorazione del trentennale del Prg del 1962 debba avere, come suo piatto forte, la dichiarazione dell'abbandono dell' avventurosa proposta dello Sdo. E si comincerà allora a discutere se le aree ancora libere dovranno essere tutelate e destinate a parco, oppure se dovranno essere edificate in continuità con u quartieri limitrofi. Si troverà, comunque, un compromesso. Tornerà (é facile prevederlo) la proposta della lottizzazione convenzionata. I proprietari, piccoli e grandi, vecchi e nuovi, tireranno in ogni caso un sospiro di sollievo. I grandi problemi della funzionalità della Capitale d'Italia aspetteranno qualche decennio ancora.

E' PASSATO UN QUARTO DI SECOLO

Fu venticinque anni fa. Da Agrigento a Venezia, in pochi mesi l'Italia fu squassata da frane e alluvioni che rivelarono la fragilità della stessa base fisica della vita sociale e personale degli italiani.

E' passato un quarto di secolo. Molte parole, molte indagini, molte proposte, molte iniziative legislative. Ma nel concreto, pochissime cose sono avvenute che abbiano valso davvero a sanare le ferite allora aperte. E pochissime cose sono cambiate (qualcosa, forse, anche in peggio) negli atteggiamenti morali e culturali, e nel modo di di operare con gli strumenti della tecnica e dell'amministrazione. Non a caso, la stampa ha ricordato il novembre 1966 sotto il segno d'una sostanziale continuità.

Per conto nostro vogliamo ricordare il quarto di secolo che da allora é trascorso pubblicando stralci di un editoriale che Giovanni Astengo scrisse allora su Urbanistica (n.48). Ci sembra purtroppo che quelle parole valgano ancora.

Con le elezioni politiche di aprile sono caduti i progetti di riforma della legge urbanistica del 1942 che erano stati discussi, talvolta molto aspramente, nel corso della precedente legislatura. Spetta ora al nuovo parlamento il difficile compito di formulare una nuova proposta di legge. Il Giornale dell’Architettura ha chiesto ad alcuni urbanisti di primo piano di segnalare un punto (e uno solo) che il futuro legislatore non dovrà dimenticare. Apre la discussione Edoardo Salzano.

C’è un argomento sul quale l’Italia registra un enorme ritardo rispetto ad altri Stati europei; un argomento sul quale una legge che riguardi il governo del territorio (o una sua componente importante, la pianificazione urbanistica e territoriale) dovrebbe pronunciare regole chiare, tassative, non negoziabili: il consumo di suolo. In Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Olanda, come in diversi Stati e città degli Usa, i governi si sforzano di contrastare il consumo di suolo. In Italia, dove già dagli anni cinquanta ai settanta abbiamo devastato gran parte del territorio di pianura, di valle e di costa, non si sa neppure che cos’è. Se abbondano studi qualitativi sulla «città diffusa» e sulla «dispersione insediativa», non si sa quanto terreno venga occupato ogni anno da lottizzazioni ed espansioni urbane, ville e villette, capannoni e discariche, strade e piazzali, discoteche e factory outlets. Da noi nessuno sa, né si preoccupa di sapere, quanto terreno viene sottratto all’agricoltura, alla percolazione dell’acqua piovana, all’azione della clorofilla e del sole, al ciclo biologico. Così come del resto non si sa quanti elementi del patrimonio storico vengono cancellati nella distrazione generale.

La mancanza di dati sui quali basare appropriate politiche rivela un disinteresse profondo per la questione. Eppure, per chiunque è evidente che il consumo di suolo aumenta ogni anno, per effetto dell’«anarchia urbanistica», come l’ha definita Carlo Azeglio Ciampi. Un’anarchia che è certamente prodotta in parte consistente dall’abusivismo, e dalla miopia aziendalistica con la quale i vari corpi statali e parastatali hanno progettato e realizzato le infrastrutture e gli altri oggetti di competenza pubblica. Ma un’anarchia che è generata, sempre più spesso, anche da una pianificazione urbanistica più sensibile agli interessi immobiliari che alla tutela delle risorse comuni.

Voglio citare un raffronto significativo, che dà un’idea della dimensione del problema. In Germania il governo Kohl (che certamente «comunista» non era) pose nel 1998 l’obiettivo di non investire ogni giorno nell’urbanizzazione più di 30 ettari, e l’obiettivo è oggi largamente rispettato. Significa che per ogni cittadino tedesco si consumano 1,34 mq di nuovo suolo all’anno. Per l’Italia riferiamoci al Prg recente di una grande città, quello di Roma: 15.000 ettari di nuove aree sottratte alla natura, una previsione decennale di 6 mq all’anno per ogni cittadino. Più di 4 volte tanto. Non credo che un’analisi di altre città italiane, al Sud al Centro e al Nord, darebbe risultati troppo diversi: ma chi fa i conti dello spreco di territorio?

A me sembra che una nuova legge nazionale sul territorio dovrebbe decretare, in primo luogo, che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali siano consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. Dovrebbe poi precisare che gli strumenti di pianificazione non possono consentire nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, né consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all’estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista.

Nella nuova proposta di legge per la pianificazione della città e del territorio che il sito Eddyburg.it ha proposto, questo tema viene ulteriormente sviluppato e precisato. Naturalmente, nel quadro della riaffermazione di principi di carattere generale in assenza dei quali il controllo del consumo di suolo resterebbe un’utopia: la titolarità pubblica della pianificazione, l’assunzione di quest’ultima come metodo generale per il governo del territorio, il diritto alla città e all’abitare, la partecipazione e la condivisione delle conoscenze.

Se questo disegno di legge dovesse passare, professor Salzano, cosa cambierà nell´urbanistica?

«Il motore delle decisioni sul territorio diventa la proprietà immobiliare. Nella logica della proposta Lupi chi è ammesso al tavolo delle decisioni sono i privati "interessati". E nel nostro paese gli "interessati" alle trasformazioni urbanistiche non sono considerati i cittadini, ma la grande proprietà immobiliare. Fino a oggi chi decideva erano le amministrazioni pubbliche, cioè i rappresentanti eletti dai cittadini, difensori degli interessi generali. Adesso, si dà legittimità piena alle decisioni di chi ha un interesse personale».

Quindi questa legge è il prodotto di precisi interessi?

«Mi sembra evidente. Oggi, però, gli interessi immobiliari non sono più quelli dei grandi feudatari (come era, ad esempio, ai tempi del sacco di Roma denunciato dal Mondo e dall´Espresso negli anni Cinquanta e Sessanta) ma le banche, le industrie decotte, i grandi gruppi finanziari che si arricchiscono più con le operazioni finanziarie e immobiliari che con le attività imprenditoriali».

Fra i motivi che spingono i promotori della legge, c´è quello di modificare procedure che nel tempo si sarebbero invecchiate.

«È un alibi. Dove una "cultura della pianificazione" si è affermata, i tempi dei piani urbanistici si sono accorciati: in Emilia Romagna un piano si approva in pochi mesi. E poi la lunghezza dei tempi non dipende tanto dalle procedure, quanto dalle indecisioni dei politici. Certo, anche dalla procedure c´è molto da tagliare: ma da almeno dieci anni le regioni meglio amministrate hanno applicato leggi le quali, pur lasciando la pianificazione in mani pubbliche, hanno individuato il modo di abbreviare i tempi».

Quali sarebbero, secondo lei, i punti principali di una riforma della legge del ´42?

«Dal 1970 la legislazione urbanistica è di competenza delle regioni, nell´ambito dei principi stabiliti dalla legge statale. Il Parlamento nazionale dovrebbe limitarsi a poche decisioni. A garantire che il cittadino (e non il portatore d´interessi immobiliari) partecipi alle decisioni. A tutelare il patrimonio comune: penso al paesaggio rurale o alla regola di consentire nuove occupazioni di terreno solo dove ne sia dimostrata la necessità. A confermare quanto la Corte costituzionale ha più volte ribadito: che i vincoli paesaggistici e culturali non richiedono nessun indennizzo».

La presentazione di Francesco Erbani

L'intervento a favore, di Luigi Mazza

Il piano ”per la città antica” di Venezia, presentato nel luglio scorso dalla Giunta comunale, è il risultato di una manipolazione, non sempre abile, della variante al PRG per la città storica, la cui elaborazione era stata iniziata nel 1981 (all’epoca ero assessore all’urbanistica, e ho continuato a lavorarci anche successivamente)e conclusa, dopo alcuni stop and go, nel 1992, con l’adozione e la successiva pubblicazione e raccolta delle osservazioni. La prima domanda che sorge è quindi la seguente: perché la Giunta, invece di introdurre le modifiche in sede di controdeduzione alle osservazioni, ha voluto ricominciare l’iter da capo? Il guaio è che, in questo modo, gli interventi di trasformazione edilizia nella città storica sono bloccati, a meno di non essere autorizzati illegittimamente o realizzati abusivamente.

Al di là della scelta di fondo, contraddittoria con l’impostazione storica delle forze culturali e politiche progressiste, di accentuare la polarizzazione della città verso la radice del Ponte della Libertà (che emerge con chiarezza dall’altro documento presentato, riguardante “il nuovo PRG comunale”), le modifiche introdotte nel piano della città storica sono molto significative sotto il profilo culturale, sociale e politico. Delineano una tendenza grave e pericolosa: in sintesi, quella di affidare le decisioni sulle trasformazioni della città all’accordo, volta per volta, tra assessorato e proprietà immobiliare, rendendo elusive, generiche, meramente indicative, suscettibili di interpretazioni molteplici e soggettive le decisioni del piano. Cercherò di illustrarle molto sinteticamente. Poiché il PRG di D’Agostino è il risultato di aggiunte, cancellazioni e sostituzioni del PRG del 1992, è a quest’ultimo che sarò costretto a riferirmi.

1. Il piano del 1992 definiva, per ciascuna unità edilizia storica, tutte le trasformazioni fisiche ammissibili: chiunque volesse intervenire sapeva esattamente quali elementi poteva modificare, costruire o ricostruire e quali doveva conservare o ripristinare. Con il nuovo piano il proprietario può dichiarare che la sua unità edilizia ha perso le caratteristiche storiche che ne richiedevano la tutela e proporre una disciplina diversa; il giudizio è affidato a una fantomatica “commissione scientifica” oppure, decorsi 20 giorni, alla decisione di un funzionario comunale. Naturalmente, la conseguenza è che le trasformazioni possibili diventano molto più vaste.

2. Il piano del 1992 stabiliva, per ciascuna unità edilizia, quali erano le utilizzazioni compatibili con le caratteristiche fisiche (generalmente una gamma molto ampia) e quali erano, per i successivi 4 anni, le specifiche destinazioni d’uso che dovevano essere rispettate. Queste ultime prescrizioni non riguardavano né tutte le unità edilizie né tutte le utilizzazioni, ma miravano a tutelare oltre (ovviamente) le attrezzature pubbliche e d’uso pubblico, anche gli alberghi (come è richiesto da una legge regionale), la residenza (che a Venezia ha particolari ragioni per essere tutelata) e determinate attività produttive. Con il nuovo piano sono praticamente ammessi tutti i cambiamenti d’uso che ricadono entro la vastissima gamma delle “utilizzazioni compatibili”: nella sostanza, non c’è più nessun controllo sulle destinazioni d’uso.

3. Il piano del 1992 stabiliva, per una serie di “ambiti” comprendenti le aree dove si prevedeva la possibilità di trasformazioni urbanistiche anche sostanziali (Piazzale Roma, Tronchetto, Marittima, Junghans, Stucky, San Basilio, Sacca dell’Inceneritore, Cantieri a Sant’Elena, per non citarne che alcuni) l’obbligo di redigere specifici piani attuativi e, per ciascun ambito, stabiliva esattamente le funzioni, le quantità edilizie, l’organizzazione morfologica che il piano attuativo doveva rispettare. Con il nuovo piano le prescrizioni diventano assolutamente generiche, evasive, indicative: tutto si può fare, tutto si può modificare.

Difficilmente un assessore di una giunta di centro-destra avrebbe potuto soddisfare più largamente le attese della proprietà immobiliare, e degli interessi ad essa collegati. Difficilmente un apostolo della deregulation più sfrenata avrebbe potuto sostituire in modo più smaccato la certezza del diritto, la trasparenza del procedimento, la chiarezza della norma con l’indeterminatezza, la discrezionalità, la valutazione caso per caso, e soggetto per soggetto. (Sul fatto, poi, che questo governo della città è stato eletto per attuare il piano del 1992 e non per rovesciarlo nel suo contrario, parleremo un’altra volta).

Edoardo Salzano

UNA NUOVA FASE DI ESPANSIONE

La caduta del Muro di Berlino ha trascinato con sè una serie di eventi. Tra questi, una istantanea impennata dei flussi di persone tra Est e Ovest. Il dramma dei profughi albanesi ha costituito un segnale d'allarme evidente; la nuova dirompente fase della perestrojka, seguita al tentativo di golpe, ha portato ad aumentare ancora le dimensioni dell' esodo dall'Est rispetto a quelle gi` previste. E' la teoria dei vasi comunicanti che si manifesta; e di fronte aldivario tra l'abbondanza delle merci all'Ovest e la penuria all'Est, di fronte a una così grande differenza di potenziale tra l'uno e l'altro recipiente, non c'é politica di "difesa dei confini" che regga. Del resto, qualcuno ha osservato che chi ha applaudito alla caduta del Muro di Berlino non può a sua volta proporsi di erigere altri muri. Il "sistema della concorrenza" ha vinto.

Con esso ha vinto la società opulenta, che ora ammalia masse sterminate di consumatori potenziali, scarsamente solvibili finchh non potranno impiegare in modo efficiente la loro forza lavoro. D'altra parte, le aziende dell'Ovest chiedono mano d'opera disponibile a svolgere mansioni poco gradite agli indigeni. La soluzione giusta per affrontare il divario tra Est e Ovest é certamente quella di investire e trasformare la struttura economica all'origine dei flussi, aumentare lì, all'Est (come al Sud) i livelli di produttivit`, di reddito, di consumo. Ma occorrerà molto tempo perché un simile impegno, ancorchh perseguito, si traduca in una sensibile riduzione del dislivello tra i vasi divenuti ormai comunicanti. Sembra perciò che si debba dare per scontata una nuova immigrazione nel nostro Paese, dopo quella dall'Africa nera, dal Maghreb, dall'Asia.

Può riaprirsi allora, nelle città, una nuova fase dell'espansione, dopo quella di cui avevamo registrato l'esaurirsi. La popolazione insediata aumenterà di nuovo, a causa del saldo sociale positivo determinato dalla fine di un'epoca. Di conseguenza aumenteranno di nuovo i fabbisogni; gli standard urbanistici e gli altri elementi dell' armamentario quantitativo riacquisteranno il loro peso. Se così stanno le cose, non sarebbe male attrezzarsi per far fronte decentemente a questa nuova fase dell'espansione: per evitare di ripetere gli errori dei devastanti anni '50 e '60, e per evitar di contraddire nei fatti le proclamate necessità di una urbanistica della qualit` e dell'ambiente. Tre questioni appaiono allora le più urgenti, e chiedono un impegno sia della cultura urbanistica sia dei governi nazionale, regionali e locali.

La questione del regime degli immobili. C'é adesso una ragione in più perché si giunga finalmente al varo di una legge snella, facilmente e rapidamente praticabile, che almeno consenta di acquisire alla mano pubblica le aree da destinare all' edilizia, ai servizi, al verde: magari, con anticipo rispetto al manifestarsi delle concrete esigenze di utilizzazione, come si fa nei paesi civili.La questione delle localizzazioni. Una politica che voglia fare i conti con una immigrazione così particolare, e così "governabile" per le caratteristiche dei soggetti (la maggior parte dei quali ambisce a stabilirsi "in Occidente", ma non a Napoli piuttosto che a Ravenna o a Frosinone) deve essere una politica in grado di governare i flussi, le destinazioni, le localizzazioni degli interventi necessari: dev'essere una politica definita anche nelle sue proiezioni territoriali. Ciò ripropone allora l'esigenza di una definizione coerente della politica territoriale nazionale: ripropone il tema di una effettiva e completa pianificazione territoriale, estesa a tutto l'ambito nazionale.

La questione, infine, della "considerazione" dell'ambiente nella pianificazione. Occorre al più presto rendere cogenti alcune elementari regole per la pianificazione territoriale e urbana, che consentano di ottenere almeno un primo risultato di tutela dell'ambiente. Due regole ci sembrano essenziali. La prima: escludere ogni possibilità di trasformazione fisica e, dove occorra, funzionale delle aree le cui qualità, naturali o storiche, meritano tutela e valorizzazione. La seconda: ridurre al minimo la laterizzazione (ossia la trasformazione in una artificiale crosta impermeabile) di un territorio la cui permeabilità e naturalità si sono già ridotte in modo preoccupante.

Si tratta di obiettivi minimi. Non perseguirli con tenacia e rigore significherebbe condannare il Bel Paese a un orrore non diverso di quello che tutti abbiamo ripetutamente deprecato, a partire da trent'anni fa.

UN PONTE PER LA SICILIA O LA SICILIA COME PONTE?

Si ricomincia a parlare del ponte sullo Stretto di Messina. Già ne abbiamo scritto su queste pagine, molti anni fa ( La piramide sullo Stretto, n.84-85), per denunciare l'assurdità di quell'impresa: non tanto in sè, nella sua valenza di tecnica ingegneristica (non avremmo del resto le competenze necessarie per esprimerci) quanto per la finalità di mero e superficiale prestigio che le viene assegnata dagli italici entusiasmi, e soprattutto per la sua assoluta non priorità nel quadro del complessivo sistema dei trasporti italiano e dei suoi problemi.

Molti sostengono oggi che non vale la pena di preoccuparsi per il ponte sullo Stretto: le difficoltà sono tali e tante che se ne parlerà ricorrentemente, vi si imbastiranno sopra campagne propagandistiche, si approveranno magari altre leggi e leggine per finanziare studi e progetti, ma non si vedr` mai la realizzazione dell'opera.

Andrà così? Può essere. A noi sembra perr che già il solo parlare del Ponte sullo Stretto sia grave, sia per l'atteggiamento che esprime sia perche questa ingombrante presenza impedisce di affrontare in modo serio (e perciò diverso), i problemi dei trasporti e il ruolo in essi della Sicilia. Affidare la soluzione del problema dei collegamenti della Sicilia con il continente a una intrastruttura quale quella di cui si parla i coerente con una determinata strategia territoriale che i l'opposto di quella sensata. E' una strategia che affida le comunicazioni ai vettori su gomma e, subordinatamente, su ferro, trascurando il vettore più economico e meno inquinante, cioh l'acqua. E' una strategia che concepisce la Sicilia come il cul di sacco del sistema dei trasporti, relegando l'Isola al ruolo di estrema appendice di quell'appendice dell'Europa che é l'Italia. E' una strategia, insomma, che colpevolmente non solo non utilizza e valorizza, ma addirittura mortifica e nega due della più rilevanti risorse, storicamente consolidate, di cui l'Italia (se osservata con occhio non provinciale) palesemente dispone. In primo luogo, la sua posizione geografica, culturale e storica di possibile ponte (ma in senso metaforico) tra due continenti e molte civilt`. In secondo luogo, la presenza dell'imponente, potenziale "sistema autostradale acqueo" costituito dall'Adriatico, dal Tirreno e dalla "bretella" ionica.

Ciò che é singolare é che più di un gruppo politico sostiene l'opportunità di un dispiegato "ruolo mediterraneo" dell' Italia. Sono troppo pochi, perr, quanti riescono a comprendere le politiche hanno loro precise proiezioni territoriali, che impongono di dire "no" a certe soluzioni territoriali, per dire "si" ad altre.

L'EUROPA PER LE CITTA'

"La maturità politica di una società é dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine"; e pensare a lungo termine é indispensabile per poter affrontare vittoriosamente "le cause fondamentali del degrado urbano". Questa (e la fiducia nel ruolo che la città continuerà a svolgere nella civiltà europea, e la consapevolezza della profondità della sua crisi) é la convinzione che anima il Libro verde sull'ambiente urbano, predisposto dalla Commissione delle Comunità europee che sarà approvato in queste settimane dal Parlamento europeo. La Commissione ha affrontato la questione urbana sotto il solo angolo visuale delle politiche ambientali perché é a quest'ultimo aspetto che sono limitate le competenze del Governo europeo. Ma l'approccio ambientale consente agli estensori del documento di cogliere alcuni nodi centrali del dibattito odierno, fornendo indirizzi che potranno avere ricadute positive nella Repubblica italiana, oggi governata dalla miopia, dall'arroganza e dall'imprevidenza.

Il documento si apre con un'affermazione che é già di per sè significativa, e in Italia controcorrente: "Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento di ogni approccio settoriale". I diversi aspetti del degrado urbano sono esaminati tutti con la sinteticità necessaria a un documento politico, ma in modo corretto ed efficace. Unica assenza di rilievo, il regime imobiliare.

L'ufficialità del documento conferisce un particolare interesse alle posizioni espresse in relazione ad alcuni aspetti cruciali del degrado urbano. Oltre a quelle sui temi più strettamente ambientali, vogliamo segnalare quelle sulla mobilità (dove si coglie e si denincia la spirale perversa congestione/nuove strade/aumento del traffico/peggioramento della congestione e dell'inquinamento, e si afferma che "l'obiettivo deve invece consistere nel rendere l' automobile una opzione e non una necessità"), del turismo ("la crescita costante del turismo in determinate città caratterizzate da un patrimonio culturale particolarmente ricco può portare (...) a un deterioramento della qualità della vita degli abitanti"), delle periferie (che si individuano come problema centrale per il futuro delle città e di cui si denuncia l'assenza di qualità propriamente urbana).

Un'affermazione, tra le altre, ci sembra possa sintetizzare il Libro verde. Essa riguarda la vaexata questio del rapporto tra tutela e sviluppo. Il conflitto tra ambiente ed economia - si sostiene - é "un falso problema perché a lungo termine la protezione delle risorse ambientali sar` una precondizione di base per una sana crescita economica". Un'affermazione che sembra dedicata ai tanti "sviluppisti" nostrani, così golosi di frittate da essere incapaci di rinunciare a un uovo oggi per avere una gallina domani.

FIRENZE, UNA NUOVA EMERGENZA

Ancora una volta l'emergenza adoperata per evitare le "lungaggini" della pianificazione. Il Comune di Firenze ha approvato una variante che consente l'edificazione di 900 mila metri cubi nell'area "non dismessa" della Fiat a Novoli: un'area occupata dallo stabilimento fiorentino della Fiat ancora in funzione, che sarà trasferito ma non si sa ancora dove.

I lettori ricorderanno la vicenda Fiat-Fondiaria, di cui su queste pagine ci siamo più volte occupati. Si trattava di due aree, di caratteristiche molto diverse, accomunate solo da due fatti: sono entrambe nella piana nord-orientale della città, e per entrambe si proponeva una robusta "valorizzazione immobiliare". Il progetto (concepito per la Fondiaria, ma in cui subito la Fiat fu coinvolta) prevedeva l'approvazione, da parte del Comune, di una variante di Prg, con la quale il potere pubblico attribuiva alle aree un calibrato mix di funzioni e, soprattutto, una congrua quantità di volumi (se no, che valorizzazione é?).

L'ambizioso progetto era andato molto avanti, quando il segretario dell'allora Pci, Achille Occhetto, ne interruppe il cammino inducendo la componente maggioritaria della Giunta a dissociarsi. La maggioranza é cambiata. La "valorizzazione" dell'area della Fondiaria é sospesa, in attesa del varo del nuovo Prg. Per l'area Fiat, invece, si va avanti, benché il nuovo Prg sia in avanzata fase di elaborazione, e benchh la prossima entrata in funzione della Città metropolitana di Firenze renda ancor più necessaria che nel passato la prudenza nel definire funzioni e quantità di un'area che é strategica per l'intero assetto intercomunale.

Perché questa urgenza? Lo svela la relazione che accompagna la variante: questa non può attendere perché c'é "l'emergenza giustizia". Di nuovo la parola chiave, di nuovo il grimaldello che apre tutte le porte. Bisogna fare un nuovo palazzo di giustizia. Non ci sono alternative: può esser fatto lì e solo lì. E per realizzare i 200 mila mc degli uffici giudiziari, bisogna regalarne altri 700 mila alla società proprietà dell'area, alla Fiat. Les jeux sont fait. (Del resto, c'é un precedente illustre. Vent'anni fa, a Napoli, il Palazzo di giustizia fu il cavallo di Troia attraverso il quale passa la speculazione del Centro direzionale. Nulla di nuovo sotto il sole.)

Il suo obiettivo era rendere la città più bella e funzionale. Aveva colto due punti centrali della verità dei suoi e dei nostri tempi. Aveva colto due insegnamenti della storia che hanno permeato la cultura degli urbanisti e degli amministratori quando i valori e le esperienze dell’Europa democratica, dopo l’eclissi fascista, rientrarono nel nostro paese. Due insegnamenti che oggi molti sembrano aver smarrito.

Il primo. La città non è un ammasso di case, non è il mero risultato quantitativo dell’aggregazione di edifici e di persone, non è il cieco prodotto del mercato. È una creatura sociale, un prodotto del lavoro collettivo e storico, e in quanto tale ha un’individualità che trascende la somma delle individualità che la compongono. Ed è un prodotto destinato a durare, a rimanere nel tempo uguale a se stesso pur nel succedersi delle sue trasformazioni. È quindi un oggetto che deve essere progettato e riprogettato di continuo, con una regia che non può essere che pubblica.

Il secondo. La base necessaria per la bellezza e la funzionalità della città è la proprietà indivisa del suolo urbano: le sue parti, i suoi “lotti” e i suoi spazi, possono essere usati dai cittadini, dalle famiglie, dalle aziende, ma la collettività deve restare padrona della propria base. Tra gli effetti negativi di quella grande ventata liberatrice dell’ingegno e dell’attività umana che fu la rivoluzione borghese, il primo, nei paesi dell’Europa continentale, fu quello di liquidare questa necessità pratica. La sconfitta dell’ancien régime aveva provocato la privatizzazione del suolo urbano:

“Nella notte tra il quattro e il cinque agosto 1789, la nobiltà francese non aveva forse abbandonato i suoi privilegi e la sua proprietà fondiaria insieme a tutti i tributi e le prerogative? Il suolo era dunque divenuto libero. Non era più proprietà e titolo di diritto della nobiltà o del clero ma dei cittadini e dei contadini cui veniva venduto o assegnato. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune. In tutte le discussioni aveva sempre la meglio il sentimento di libertà e di indipendenza appena riconquistate. Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune[1].”

L’appropriazione privata del suolo urbano ha costituito, per la città e la società che la abita, una sciagura colossale. È nata la speculazione:

“Ognuno vendeva il proprio fondo al prezzo più alto possibile. Lo sfruttamento speculativo del terreno da parte delle società fondiarie fu condotto con metodo.[…] La rendita più alta si ottiene dal terreno maggiormente sfruttabile: un’area su cui sia consentito costruire edifici di cinque piani, frutta più di un’area dove, secondo la legge edilizia in vigore, si possono costruire edifici di due o tre piani al massimo. In egual modo un’area edificabile per i tre quarti della superficie frutta una rendita maggiore rispetto ad una edificabile solo per un quarto o un quinto. La rendita ed il prezzo di vendita del terreno saranno tanto più alti, quanto più alto sarà il numero di appartamenti e negozi edificabili su di una determinata superficie. Come la speculazione fondiaria aveva imposto il gran numero di lotti d’angolo, anche l’edilizia riuscì ad imporre i cinque piani [2].”

La bellezza è stata sostituita dall’arricchimento del proprietario, il progetto non è più «lavoro creativo, ma un semplice problema di calcolo». E se «nella loro impotenza molte città istituirono a fianco della vigilanza per gli aspetti tecnici dell'edilizia anche una vigilanza estetica», presto «le sentenze [di quest'ultima] furono sentite non a torto come un'inopportuna intromissione in faccende private». Se la città non è proprietaria del suolo sul quale nasce e si sviluppa, il suo potere diventa subalterno, l’iniziativa passa ad altre mani: «Non potendo rifiutare progetti edilizi insoddisfacenti, la città è costretta ad accontentarsi di proporre solo miglioramenti, ecco perché la mediocrità predomina sempre»[3].

Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però, comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero. Ora invece non è più così: ora accade che

“[...]quando la città progetta di costruire una struttura pubblica come un parco, uno stadio, una scuola, una caserma dei vigili del fuoco o un cimitero, per reperire il terreno deve rivolgersi ai proprietari privati. Questi si mettono a disposizione sorridendo, ma lasciano cortesemente intendere che potrebbe essere una faccenda piuttosto costosa. Si inizia a trattare, a tirare sul prezzo e quanto più il terreno risulterà adatto agli scopi previsti, tanto più alto sarà il prezzo fissato dal proprietario. Il rappresentante del comune deve spesso abbandonare il gioco stringendosi nelle spalle. Cercare l’area adatta diventa una via crucis per molti edifici pubblici, perché un teatro, un museo o un municipio non possono accontentarsi di appezzamenti casuali. […]Per questo le nostre città difettano di aree libere per gli adulti e di parchi giochi per i bimbi. Occorre pagare un alto prezzo per il terreno [4].”

Per restituire funzionalità all’organismo urbano, per correggere gli effetti della privatizzazione del suolo la società ha dovuto ricorrere a strumenti parziali: gli espropri là dove le strade dovevano essere realizzate e dove la città doveva essere risanata o ristrutturata, la zonizzazione là dove occorreva regolare in modo differenziato l’edilizia, le sue utilizzazioni, i suoi rapporti col suolo. E’ nata così la pianificazione urbanistica, come strumento inventato per risolvere problemi che il mercato era incapace di affrontare[5].

Gli strumenti regolativi e autoritativi che la borghesia ha via via inventato per tentar di condizionare la perdita della disponibilità del suolo si sono rivelati in effetti strumenti utili per correggere gli errori più macroscopici e soddisfare le esigenze più urgenti: ma ciò è avvenuto solo là dove il potere della città (la politica, l’amministrazione) ha saputo contrastare con decisione il potere della proprietà immobiliare, sconfiggendolo o piegandolo. Quegli strumenti non sono stati mai utili all’interesse collettivo quando il potere pubblico è sceso a patti con i “poteri forti” della città, né tanto meno quando – come nell’attuale clima politico – si è addirittura proposto di rovesciare secoli di storia ed esercitare la pianificazione del suolo urbano mediante «l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi»[6].

Nel pensiero di Bernoulli l’esigenza pratica (il suolo deve essere indiviso perché la città possa essere bella e funzionale) si salda con l’esigenza morale: non è giusto che un bene comune, la terra, sia occupato dal primo che se ne impossessa, o dal più avvantaggiato dalla ricchezza o dal potere. Notevole è in lui l’influenza del pensatore statunitense che l’aveva da poco preceduto, Henry George (1839-1897)[7].

Per George l’appropriazione privata della terra era, nel mondo contemporaneo, un’illogicità palese:

“ […] far derivare un diritto individuale esclusivo e pieno all’uso della terra dalla priorità di occupazione, gli è questa, se possibile, la più assurda base, su cui uno possa collocarsi per difendere la proprietà della terra. La priorità di occupazione dare un titolo esclusivo e perpetuo alla superficie di un globo, su cui, nell’ordine della natura, generazioni innumere si succedono! O che gli uomini dell’ultima generazione avevano forse maggior diritto all’uso di questo globo che noi della generazione attuale? O lo ebbero quelli di cento, di mille anni fa? […] O che il primo arrivato ad un banchetto avrà il diritto di capovolgere le sedie e di pretendere che nessuno degli altri invitati tocchi la mensa apprestata, se prima non sia venuto a patti con lui? E chi primo presenta un biglietto alla porta di un teatro ed entra, acquisterà per questa sua priorità il diritto di chiuder le porte e di avere la rappresentazione per sé solo? E il viaggiatore che primo sale in vagone avrà il diritto di occupare coi suoi bagagli tutti i posti e di costringere quelli che salgono dopo di lui a starsene in piedi?[8]

Invero ciò che spingeva George a criticare la proprietà fondiaria e a denunciarne l’illogicità non era solo una sollecitazione morale, ma una precisa esigenza economica. L’obiettivo di George (tipografo autodidatta, ma attento lettore di Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mills) era quello di abolire le tasse sul reddito, che deprimevano produzione e consumo, per instaurare un’imposta unica sulla proprietà della terra. L’obiettivo che proponeva era contrastare con l’imposizione fiscale il peso della rendita; eliminare così, o fortemente ridurre, la taglia che questa pone allo sviluppo delle forze produttive, per potere liberare queste (liberare il profitto e il salario) e consentire alla loro dialettica di proseguire lo sviluppo della produzione e, per questa via, eliminare la povertà.

È interessante ricordarlo oggi, in Italia. La destra italiana è da tempo abissalmente lontana da quella del liberalismo e del liberismo dei Croce e degli Einaudi , e la borghesia del nostro paese è sempre stata più abile a stimolare l’accrescimento dell’assistenzialismo e del parassitismo di Stato che a impiegare innovazione e competizione per lo sviluppo della produzione. Ciò nonostante, non molti decenni fa l’obiettivo della riduzione del peso della rendita immobiliare era condiviso da un arco ampio di forze politiche e sociali, che andava dal pci a parti consistenti della dc, dai sindacati dei lavoratori a esponenti di spicco del mondo imprenditoriale. Oggi quell’obiettivo è scomparso su quasi tutti i versanti dello schieramento politico.

Attivo nel dopoguerra in molte città europee come urbanista e conferenziere, Bernoulli propagandò le sue idee e le sue esperienze nel fervido terreno della ricostruzione posbellica. La sua fama giunse anche in Italia. Il libro per il quale è più noto, La città e il suolo urbano, fu tradotto da Luigi Dodi e pubblicato da Vallardi nel 1951. Ebbe un peso notevole sulla cultura urbanistica italiana di quegli anni: gli anni fecondi in cui, nelle esperienze dei paesi dell’Europa socialdemocratica, si cercarono soluzione adeguate a rendere migliori le nostre città. Le argomentazioni dell’urbanista elvetico alimentarono il dibattito che sfociò nelle proposte di “riforma urbanistica” degli anni Sessanta. Si aprì allora quel vasto e inconcluso “processo di riforma” che non giunse a sciogliere il nodo della disponibilità dei suoli urbani, e condusse invece, fino alla conclusione del decennio successivo, a risultati parziali ma significativi: le leggi per sottrarre la condizione abitativa all’arbitrio totale del mercato, quelle per rafforzare il potere pubblico e generalizzare la pratica della pianificazione, quelle infine (last but not least) per sottrarre quantità adeguate di aree agli usi privati e al primato della speculazione per destinarle ai servizi collettivi e al verde.[9]

In realtà il peso della rendita nel sistema economico-sociale (e nel sistema di potere) dell’Italia postunitaria era ben più grave di quanto non fosse negli altri paesi dell’Europa. Il modo stesso in cui si era giunti alla formazione dello Stato unitario (un compromesso, di portata storica, tra la borghesia imprenditoriale e agraria del Nord e la feudalità latifondista e parassitaria del Sud) aveva costituito nella rendita fondiaria, e nelle classe sociali che ne beneficiavano, una delle colonne del potere condiviso della nuova direzione politica dello Stato. La trasformazione della rendita fondiaria agraria in rendita urbana, sapientemente descritto da Bernoulli nelle sue caratteristiche generali, era divampata in Italia ed era proseguita ininterrottamente in tutte le fasi di trasformazione demografica e d’espansione delle città che si sono susseguite (fatte salve le pause belliche) dall’Unità alla ricostruzione del secondo dopoguerra.

Non è casuale il fatto che l’utilizzazione delle tesi di Bernoulli e il dibattito sulla “riforma urbanistica” siano avvenute in Italia proprio in quel decennio. Negli anni Cinquanta del secolo scorso si cominciava a modificare sensibilmente lo scenario, sul terreno dei fatti e su quello delle consapevolezze.

Si era conclusa la fase della ricostruzione della base materiale del paese. Case, strade, ferrovie (le fabbriche erano state salvate dalla distruzione grazie alla resistenza della classe operaia) erano state ricostruite, con un massiccio ricorso all’attività di imprese edilizie frettolosamente allestite. Era appena stata approvata, nel periodo bellico, una buona legge urbanistica nazionale[10]. Ma gli strumenti della pianificazione da essa previsti erano stati presto accantonati, nella convinzione che ciò avrebbe significato liberare l’attività edilizia da lacci e lacciuoli, accelerando così la ricostruzione. Ciò avvenne, ma rendendo invivibili le città e devastando il territorio in vaste aree del paese.

Nello stesso periodo l’Italia, abbandonando l’autarchia imposta dal regime fascista, era entrata nel mercato mondiale. Per stimolare la ripresa della produzione industriale in settori in cui si riteneva più facile vincere la competizione con le imprese straniere, si promosse l’espansione della domanda di beni di consumo durevoli: primo fra tutti l’automobile. Si costruirono autostrade e si sostennero le industrie dell’automobile e dei pneumatici, ma si rinunciò alla ricerca di modalità collettive per risolvere problemi di massa, quale quello della mobilità. La rapida trasformazione dell’economia da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale provocò l’abbandono delle campagne e delle aree del Meridione e l’espansione incontrollata delle città e delle aree industriali del Nord. Aumentò così la congestione urbana.

La crescita della democrazia e l’ingresso delle donne nel processo produttivo aumentarono la domanda di servizi sociali, di verde pubblico, di asili e scuole. Aumentava insomma la domanda di aree per le esigenze collettive: ma l’urbanizzazione era dominata dalla speculazione, ogni lotto era utilizzato per costruire abitazioni vendibili. La carenza dei servizi che man mano divenivano essenziali, la mancata disponibilità di alloggi a prezzi moderati, le condizioni del traffico urbano, tutto ciò incideva pesantemente sui costi della vita. La spinta salariale divenne irresistibile: attraverso il carovita la rendita urbana e le disfunzioni della città premevano sul profitto.

L’imprenditoria più avanzata, che aveva raggiunto livelli competitivi con l’industria estera, cominciava a sentire ormai la rendita (e i suoi effetti sull’organizzazione urbana) come un ostacolo. Nelle regioni del Nord e del Centro l’ambiente sociale e quello economico divenivano favorevoli alla ripresa delle pratiche razionalizzatici della pianificazione urbanistica; e questa, infatti, governò, o almeno controllò, le trasformazioni delle regioni a Nord della Capitale.

Il tentativo di applicare quasi alla lettera la proposta di Bernoulli (realizzare l’espansione della città su suolo preliminarmente reso pubblico e concedere agli operatori il solo diritto di utilizzazione) fu coraggiosamente esperito da un ministro democristiano, Fiorentino Sullo. Egli propose una legge di riforma urbanistica che prevedeva che l’espansione delle città avvenisse, in modo generalizzato, su aree acquisite al patrimonio pubblico dei comuni e assegnato agli utilizzatori non in proprietà ma in uso, per un numero determinato di anni (“diritto di superficie” per 99 anni rinnovabili). Ma il blocco di potere che nei decenni si era saldato attorno alla rendita e all’attività edilizia frustrò il tentativo. Alla vigilia delle elezioni del 1963 il ministro fu sconfessato dal suo partito, sostituito nel nuovo governo. La sua proposta di legge venne ripresentata per più legislature dal pci, senza fortuna. Il vento aveva girato[11].

Si può dire che, da allora, la lotta per la riappropriazione del suolo urbano da parte della collettività si è trasformata da guerra dichiarata a guerriglia, si è ridotta da battaglia campale a un disordinato insieme di isolati episodi di lotta corpo a corpo, combattuti da qualche comune più avveduto o da qualche comitato di cittadini più agguerrito.

L’industria avanzata, dopo aver fornito occasionale sostegno ai tentativi di liberare profitto e salario dalla rendita [12], aveva trovato più comodo accomodarsi al banchetto della spartizione della ricchezza del paese. Non aveva investito il profitto nell’accrescimento del capitale industriale, cioè nell’accumulazione e nell’innovazione, ma aveva puntato in misura sempre più larga sulla rendita immobiliare e finanziaria.

Il tentativo di condizionare la rendita, di contrastarla con politiche urbanistiche orientate ad adoperare gli strumenti delle “piccole riforme” per migliorare le condizioni della vivibilità urbana (casa, servizi, trasporti, verde), è rimasta nelle mani delle amministrazioni locali. E’ soprattutto grazie a queste se in molte parti del paese le città hanno un certo ordine, se il rapporto tra spazi pubblici e aree private, tra spazi aperti e lotti edificati non è troppo distante da quello che si vede in altri paesi europei, se la vita urbana si svolge in condizioni decenti. Mentre è certamente al peso della rendita immobiliare, alla debolezza delle amministrazioni pubbliche, alla mancanza di una rigorosa e avveduta politica nazionale del territorio che si deve se, in altre parti del paese, il territorio è devastato e le città invivibili.

Si può dire che fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, sebbene fosse stata accantonata la speranza di un nuovo regime proprietario dei suoli urbani, la rendita immobiliare era comunque rimasta un soggetto pericoloso che occorreva contenere. Era rimasto intatto il principio che la città è un bene comune (la prima delle intuizioni di Bernoulli) e che quindi il suo governo, attraverso la pianificazione urbanistica, era responsabilità piena del potere pubblico. Il segno cambiò tra la fine degli anno Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.

Il potere politico, nel governo nazionale e nelle amministrazioni locali, non era più esercitato in funzione di interessi generali. Era diventato fine a se stesso. Il “partito” contava più dell’istituzione: la parte contava più del tutto. Per rafforzare la parte era lecito eludere la legge, fornire decisioni pubbliche per favorire interessi privati ottenendo in cambio una “tangente”. Le decisioni urbanistiche (insieme a quelle sulla gestione amministrativa) erano un terreno particolarmente favorevole al proliferare di queste pratiche. Se favorisco, con una variante al piano regolatore, il proprietario di un terreno perchè lui possa costruire edilizia da vendere il suo terreno vale di più, ottiene una rendita più elevata, può tagliarne una parte e regalarla sottobanco a me amministratore, o al mio partito.

Perchè ciò possa avvenire è necessario che la pianificazione non sia più un insieme di regole valide per tutti, formate in modo trasparente: così come la legislazione urbanistica, bene o male, impone di fare. Occorre che le scelte sul territorio siano contrattate tra i promotori immobiliari e l’amministrazione (o la segreteria del partito). Nacque così la pratica che ha preso il nome di urbanistica contrattata. Questa fu quindi, da una parte, l’espressione più piena di quel fenomeno che fu definito Tangentopoli[13], ma dall’altra parte fu una delle manifestazioni dello smarrimento di alcuni valori di fondo che la civiltà europea aveva sedimentato negli ultimi due secoli, nel tentativo di correggere alcuni errori più gravi del sistema capitalistico borghese e dell’economia di mercato, se non di superarne i limiti. Mi riferisco in primo luogo all’attribuzione al potere pubblico della responsabilità di decidere, con procedure trasparenti e partecipate, il futuro della città a partire dal suo disegno e dalle utilizzazioni dei suoli, superando la miopia delle scelte dettate da interessi individualistici. E mi riferisco in secondo luogo all’invenzione di strumenti di decisione che consentano di affrontare l’insieme dei problemi connessi al funzionamento della città, superando l’ottica frammentata del mercato.

Quando slogan come “privato è bello”, “meno Stato e più mercato”, “basta lacci e lacciuoli” divennero dominanti nell’area della destra e popolari in quella della sinistra, fu facile comprendere che era iniziata “la notte dell’urbanistica”[14]. Il terreno nel quale Hans Bernoulli (e altri saggi scrutatori della realtà) aveva gettato il suo seme era divenuto arido.

Tra gli urbanisti italiani, la fase che si aprì con Tangentopoli fu definita “controriforma urbanistica”. Era infatti il rovesciamento secco e l’antitesi di quella stagione di vera tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta.

Il punto più basso di questo vero e proprio declino della civiltà del governo urbano è stato probabilmente raggiunto nella stagione alla quale stiamo volgendo le spalle: quella dei reiterati condoni dell’abusivismo urbanistico, dello smantellamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, dell’assunzione del mercato a misura di tutte le cose, della privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica che abbia come obiettivi l’uguaglianza, la fraternità, la libertà. Il fenomeno più significativo è forse l’arroganza della nuova espressione del mondo della rendita, dei cosiddetti “immobiliaristi”.

L’incremento della rendita immobiliare che è stato promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata nei due decenni trascorsi è stato così consistente da consentire a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico, come la Banca nazionale del lavoro e il Corriere della sera. E’ stata documentata dalla magistratura la complicità di eccellenti organi istituzionali, come il Governatore della Banca d’Italia, ed è stata testimoniata dalla stampa la simpatia per gli “immobiliaristi” di insospettabili esponenti di gruppi politici, come il segretario nazionale dei ds.

Il documento più espressivo del clima degli anni che ci auguriamo siano alle nostre spalle è probabilmente la cosidetta «Legge Lupi»: in essa si proclama, e lucidamente si persegue, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa”, cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività “negoziale”, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[15].

Ma appaiono ormai all’orizzonte i segni di una svolta. L’aggravamento delle condizioni di vita nelle città (l’abitazione, il traffico, l’inquinamento) accresce la consapevolezza che occorre una politica regolatrice pubblica. I disastri che devastano il territorio e cancellano vite umane rivelano l’insensatezza delle pratiche che hanno consentito la trasformazione in una «repellente crosta di cemento e asfalto», come ripeteva Antonio Cederna. Il declino dell’industria italiana spinge a ricercarne le cause e ad individuarne una certamente non marginale nelle occasioni d’investimento alternative fornite dalle rendite finanziaria e immobiliare. Comincia a farsi strada la convinzione che il paesaggio, il territorio aperto, i beni culturali siano la ricchezza essenziale cui il paese può affidare il suo sviluppo, abbandonando i traguardi della crescita quantitativa della produzione di merci per costruire le prospettive “innovative” della messa in valore delle qualità dei beni storici, artistici, culturali, naturali dei quali il nostro territorio è intriso.

È maturo il tempo per rileggere le pagine di Hans Bernoulli, in una traduzione fedele alla pulizia e allo stile del linguaggio lirico nel quale fu scritto (l’urbanista era anche letterato e poeta), non per compiacersene, ma per trarne le conseguenze culturali e politiche.

[1] Qui pag. 35-36.

[2] Qui pag. 37, 38.

[3] Qui pag. 39.

[4] Qui pag. 39.

[5]Il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, può essere considerato quello di New York del 1811. La città aveva raggiunto 60 mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e depositi. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori. Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città.

[6] Il riferimento è al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005. Si veda in proposito Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”, Alinea editrice, Firenze 2005.

[7] Nato a Filadelfia nel 1830, morto a New York nel 1897, Henry George fece molti mestieri: marinaio, minatore, tipografo: Girò il mondo, prima e dopo aver scritto l’opera per la quale è noto. Progresso e povertà ebbe una notevole diffusione, non solo nei paesi di lingua anglosassone. Autodidatta, studiò l’economia sui testi dei classici dell’epoca, ma soprattutto sulle condizioni reali del mondo del lavoro. La sua teoria trasse ispirazione da David Ricardo e da John Stuart Mill; influenzò particolarmente il pensiero del socialismo americano ed europeo della fine del xix secolo.

[8]Henry George, Progresso e Povertà. Indagine sulle cause delle crisi industriali e dell’aumento della povertà in mezzo all’aumento della ricchezza. Il Rimedio, Robert Schalkenbach Foundation, New York 1963 (ristampa dell’edizione italiana utet, trad. di Ludovico Eusebio, Torino 1888).

[9] Mi riferisco in particolare: alla legge 167/1962, che promosse la costruzione di quartieri integrati socialmente e urbanisticamente, finanziati con risorse pubbliche e private, su terreni preliminarmente espropriati dai comuni, dotati di tutti i servizi necessari; alla legge 765/1967 e al successivo decreto 1444/1968, che generalizzarono la pianificazione urbanistica, regolarono le lottizzazioni a scopo edificatorio e imposero la presenza, nei piani urbanistici, di una quota minima di aree per il verde e i servizi pubblici nei piani urbanistici; alla legge 865/1971, che instaurò un’efficace sistema di programmazione statale, regionale e comunale per il finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica; alla legge 10/1977, che introdusse (sia pure ambiguamente) il principio che la facoltà di costruire non è una diritto appartenente alla proprietà ma il risultato di una concessione pubblica; la legge 392/1978, che rese omogeneo e governabile (ma non fu governato) il controllo pubblico sui prezzi delle abitazioni private.

[10] Legge 14 agosto 1942 n. 1150, «Legge urbanistica».

[11]Lo scandalo edilizio è il dolorante racconto della vicenda da parte del suo maggiore protagonista, Fiorentino Sullo. Un’analisi rigorosa della realtà sociale che provocò la sconfitta di Sullo è costituita dal saggio di V. Parlato, Il blocco edilizio, pubblicato sulla rivista Il Manifesto, nel n. 3-4 del 1970; ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972. E’ disponibile online in eddyburg.it.

[12] In un’intervista rilasciata al settimanale l’Espresso, Gianni Agnelli, presidente della fiat e dopo poco presidente della Confindustria, si dichiarò convinto “che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impreSa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire”. Citato in P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] «L'urbanistica contrattata è la sostituzione, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti» (Della Seta, Salzano, L’Italia a sacco, p. 100).

[14] Fu il titolo di una grande manifestazione popolare, organizzata da Vezio De Lucia e Antonio Bassolino, sulla spiaggia di Bagnoli, in occasione dell’approvazione della legge Berlusconi-Radice sul condono edilizio, nell’estate del 1994.

[15] Mi riferisco al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» approvato dalla Camera dei deputati ma decaduto non avendo avuto l'approvazione del Senato prima dello scioglimento del parlamento. Il testo del disegno di legge e un’ampia rassegna delle critiche sollevate è contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”.

Il sito delle edizioni Corte del Fontego

Scarso rilievo hanno avuto, sulla stampa, le dichiarazioni programmatiche del nuovo Ministro per i lavori pubblici, Paolo Costa. Peccato. Il successore di Di Pietro sembra impegnato in una direzione profondamente innovativa, per più d’un aspetto. In particolare, per il modo in cui guarda a tre questioni nodali per la politica del territorio: il rapporto tra emergenza e prospettiva, il deficit dell’Italia nei confronti dell’Europa, un approccio responsabile nei confronti del federalismo.

La perenne rincorsa dell’emergenza è stata, in tutto il corso dell’ultimo mezzo secolo della nostra storia, la ragione principale della devastazione del territorio e della profonda inefficienza dell’organizzazione delle città e del territorio: quindi della distruzione di risorse e della crescita del disagio sociale. Organizzare con efficienza ed efficacia realtà complesse (come sono le nostre città e l’insieme del nostro territorio) richiede lungimiranza, sistematicità d’approccio, continuità di orientamenti. E richiede, prima ancora che strumenti, intelligenze politiche capaci di ragionare e decidere in questo modo. Altrimenti, succede quel che è successo in Italia: non occorre richiamare esempi ed episodi.

Secondo il neoministro l’azione condotta dal suo predecessore “non poteva non pagare un tributo alla situazione di emergenza ereditata”, ma oggi “è giunto il momento di affrontare alcuni nodi strutturali, con l’ambizione di trovare soluzioni normative-quadro anche di grande respiro”. Questa necessità è resa particolarmente urgente dall’impegno di “restare in Europa”, e quindi di “garantire al Paese condizioni reali di competitività europea in ogni settore, anche nella dotazione di infrastrutture e di capitale fisso sociale in senso lato”.

Le infrastrutture: ecco un termine che, riferito alla politica dei lavori pubblici, evoca scenari inquietanti, richiama risse mai sopite tra i fautori del “fare” e quelli del “tutelare”, ricorda innumerevoli episodi di scialo e devastazione da un lato, di inefficienza e carenza dall’altro. Ma il ministro precisa: oltre che a tenere conto del fatto che “l’investimento in infrastrutture produce effetti moltiplicativi sulla produzione”, oggi è decisivo sottolineare “il ruolo di infrastrutture, e quindi di servizi, efficienti nel ridurre i costi ‘fuori fabbrica’ dell’apparato produttivo e nell’elevare gli standard ‘fuori casa’ di qualità della vita”.

Efficienza del sistema e qualità della vita: questi sono dunque gli obiettivi che occorre proporsi. Ma allora bisogna chiarire che cosa si intende per infrastrutture. E il ministro lo precisa: “voglio esser chiaro, non intendo riferirmi solo a strade, autostrade o ferrovie, ma all’intera gamma delle componenti del capitale fisso sociale che va dagli interventi di regolazione idraulica alle scuole, dai metanodotti alle autostrade informatiche”.

Certo, neanche questo è sufficiente. Bisognerà vedere, per esempio, in che modo si faranno le “regolazioni idrauliche”: se canalizzando, cementificando, intubando le acque, e quindi accumulando materiali per le disastrose alluvioni e i progressivi impoverimenti delle risorse idriche, oppure mediante interventi di rinaturalizzazione. E bisognerà vedere se gli investimenti per le scuole e gli altri servizi collettivi serviranno solo ad aggiungere un po’ di volumi a quelli esistenti, o se saranno una componente di programmi di riqualificazione sociale e ambientale delle orrende periferie costruite, in mezzo secolo, dalla cultura dell’emergenza e della speculazione.

Sul piano della pratica di governo l’impegno nuovo più concreto, e più promettente, ci sembra l’intenzione espressa dal ministro di “recuperare un rapporto organico con il Ministero dei trasporti in modo che le grandi opere (diremmo noi, le opere di rilevanza nazionale - n.d.r.) come ad esempio la variante di valico appenninico e il complementare quadruplicamento ferroviario della Napoli-Milano, vengano realizzate in un contesto di decisioni intermodali, in una sorta di nuovo Piano generale dei trasporti e delle infrastrutture”. L’inefficienza e lo spreco che contrassegnano il nostro sistema dei trasporti e aggravano lo squilibrio con il resto dell’Europa sta infatti proprio nel fatto che strade, ferrovie, porti, aeroporti, trasporti di livello internazionale, nazionale, regionale e locale, sono tutti progettati, realizzati e gestiti in modo separato, spesso contraddittorio, sempre inefficace e sprecone: di risorse finanziarie e territoriali, e di tempo dell’utente.

Un proposito, quello del Ministro Costa, che spero i suoi partner di governo non lasceranno cadere. Ed è anzi sperabile che prosegua in almeno due direzioni, peraltro indicate nelle sue dichiarazioni programmatiche.

Da un lato, verso una regolazione a priori dei conflitti che inevitabilmente nascono quando si tenta di soddisfare le esigenze della trasformazione (nuove strade, nuove ferrovie, nuovi porti, e anche nuove scuole, nuovi parchi, nuove case) senza tener conto delle esigenze della tutela delle qualità dell’ambiente e della prevenzione dei rischi. Occorre insomma tener contro che non solo i trasporti costituiscono un sistema, ma è un sistema (e quindi va considerato e governato unitariamente) anche il territorio nel suo complesso: nell’insieme degli elementi naturali e storici, ambientali e insediativi, fisici e sociali che lo compongono.

Dall’altro lato, verso la traduzione di questa visione sistemica della realtà non solo in un insieme di atti e di intese di governo, necessariamente episodici, ma di un nuovo sistema di regole in materia di governo del territorio. Un sistema di regole basato su due principi, entrambi essenziali. Il principio della coerenza territoriale e della trasparenza istituzionale, per il quale le decisioni capaci di incidere sull’assetto del territorio, qualunque sia l’ente che ne sia responsabile, vengono assunte, verificate e rese pubbliche con il metodo della pianificazione territoriale e urbanistica (un metodo che Paolo Costa, dopo Giacomo Mancini, è il primo ministro a riproporre). E il principio di sussidiarietà, per il quale spettano a ogni livello di governo (nazionale, regionale, provinciale, comunale) tutte e sole le scelte che all’interno di quel livello è possibile governare in modo efficace: un principio già assunto dall’Unione europea, e che il è solo capace di raggiungere in modo equilibrato quel "federalismo solidale" che il ministro Paolo Costa assume come proprio.

Edoardo Salzano

Una domanda necessaria

Se si parla, o si scrive, di PRG o di pianificazione comunale, tutti sanno di che cosa si parla: benché le interpretazioni (spesso cristallizzate in “scuole”) siano diverse, un’idea generale della pianificazione a livello locale si è formata, non solo tra i savants e i clercs, ma anche nell’opinione pubblica corrente, nel pensiero del cittadino. Ciò è dovuto certamente al fatto che c’è ormai una lunga, plurisecolare esperienza di regolazione dei diritti edificatori delle proprietà e di razionalizzazione delle infrastrutture e degli spazi pubblici in Europa. Non è così per la pianificazione d’area vasta. Benché, in Italia, sia stata prevista dall’avveduto legislatore fin dal 1942 [1], e ancora prima sia stata in almeno un caso praticata [2], la pianificazione territoriale non ha avuto fortuna; nessun piano territoriale è stato portato a termine fino all’istituzione delle regioni, e pochissimi nei decenni successivi.

Parlare, come intendo fare, di un piano territoriale, richiede perciò che si risponda preliminarmente alla domanda: che cos’è un piano territoriale?

Un dibattito lungo tre decenni

La discussione sulla pianificazione d’area vasta si è sviluppata, impetuosa e inconcludente, negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, proponendo e sperimentando (soprattutto dopo l’istituzione delle Regioni) diverse strade. Volta a volta ci si riferiva alla “regione”, fornendo a questo termine accezioni molto diversificate[3], alla “comunità”, riferendosi ad esperienze della cultura americana rivisitate alla luce del personalismo di Emmanuel Mounier[4], al “comprensorio”, già presente nell’elaborazione dell’INU di Piccinato, Astengo, Detti, Samonà negli anni 60, poi tentativamente adoperato in alcune rilevanti esperienze regionali e statali[5].

Vale la pena di osservare che nella discussione (o per meglio dire, nella serie di dibattiti che si accesero e spensero), non si diede mai particolare rilievo alle differenze che avrebbero impedito, o reso troppo problematica, l’applicazione della pianificazione nel Mezzogiorno, e anzi le esperienze di studi preliminari alla formazione di atti di pianificazione furono particolarmente vivaci nel Sud del paese, soprattutto – ma non esclusivamente - in relazione all’attività della Cassa del Mezzogiorno e delle strutture ad essa collegate (come l’Iasm e il Formez).

Una definizione legislativa

Finalmente, nel 1990 si è approdati a una soluzione unanimemente accettata. Con la legge 142 del 1990 (poi integrata e ridefinita nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) si sono individuati i tre livelli di pianificazione validi in Italia (comunale, provinciale e regionale), attribuendo al livello provinciale la denominazione di “piano territoriale di coordinamento”.

Vediamo che cosa dice del PTC il DL 267 del 2000:

“La provincia, inoltre, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali”[6].

Una definizione, come si vede, molto sommaria. Ma si tratta – non dimentichiamolo – di una indicazione che dovrebbe essere di mero principio, poiché la competenza legislativa in materia urbanistica fu trasferita alle Regioni, nel 1948, dall’articolo 117 della Costituzione della Repubblica.

Ma la Regione Campania, come si sa, non ha legiferato in materia: in compagnia del Molise, della Calabria e della Sicilia è una delle pochissime Regioni che non ha una legge organica in materia di urbanistica (o, com’è più corretto dire, di governo del territorio). Nell’avviare la pianificazione territoriale nella provincia di Salerno abbiamo perciò dovuto dare una nostra interpretazione della pianificazione territoriale provinciale (e della dizione Piano territoriale di coordinamento). Mi sembra utile esporla.

Le tre funzioni della pianificazione territoriale:strategia, autocoordinamento, indirizzo

A ben vedere, l’esegesi legislativa, l’esame comparato delle legislazioni regionali, l’analisi delle pratiche professionali e amministrative e l’esplorazione della letteratura consentono di indicare tre funzioni essenziali cui la pianificazione territoriale provinciale (e in generale la pianificazione territoriale, a tutti i livelli) deve adempiere.

Una prima funzione può essere definita strategica. Si tratta di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società. È una funzione che richiama i concetti di “futuro”, di “comunicazione”, di “consenso”.

Una seconda funzione può essere definita diautocoordinamento. Si tratta di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno (trasparenza) possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia. In che modo, però, definire le scelte proprie della Provincia? Nell’assenza di una specifica legislazione (e/o pianificazione) regionale, si è dovuto ragionare con attenzione, e procedere tentativamente, per affrontare questo problema: se ne parlerà più avanti.

Una terza funzione può essere definita diindirizzo. Il livello di pianificazione più direttamente operativo (che è anche quello più tradizionale e sperimentato) è quello comunale, i cui piani sono soggetti all’approvazione degli enti sovraordinati[7]. L’esigenza di razionalità nei rapporti istituzionali, pretenderebbe invece che la coerenza tra le scelte dei diversi enti, e la loro riconduzione a finalità d’interesse generale, non avvenisse più con i tradizionali sistemi di controllo a posteriori sulle decisioni degli enti sottordinati, ma indirizzandoa priori, mediante opportune norme, la loro attività sul territorio.

Le competenze territoriali della Provincia

Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Ma questo principio viene tirato da una parte e dall’altra, a seconda degli interessi di chi lo invoca. Conviene perciò rifarsi a una definizione ufficiale: a quel vero e proprio statuto dell’unione europea che è il Trattato istitutivo della comunità europea, stipulato a Roma nel 1957. Secondo l’articolo 3b, aggiunto al Trattato con l’accordo di Maastricht (1992) [8],

“nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.

Il principio di sussidiarietà è stato coniato, su sollecitazione di Jacques Delors, per difendere le prerogative dei governi nazionali nei confronti della comunità europea: parte, per così dire, “dal basso”, e attribuisce agli organismi sovranazionali solo ciò che al livello nazionale non può essere efficacemente governato. Ma esso è suscettibile anche della lettura inversa: il principio di sussidiarietà afferma anche che, là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E che la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti. É su questa base che è possibile distinguere in modo sufficientemente rigoroso e certo le competenze territoriali della Provincia da quelle della Regione e del Comune.

La pratica della concertazione

Distinguere le competenze tra i diversi livelli istituzionali conduce a comprendere a quale degli enti appartenga la responsabilità delle scelte, e della decisione finale. Ciò non significa affatto abbandonare la pratica della concertazione tra le rappresentanze degli interessi pubblici e collettivi: anzi, sollecita a praticarla correttamente là dove non viene praticata, o viene applicata in modo insufficiente o distorto.

La concertazione ha la sua ragione essenziale nella necessità di abbreviare i tempi delle decisioni in tutte le (numerosissime) questioni nelle quali diversi enti rappresentativi di interessi pubblici e collettivi sono coinvolti. Si tratta di abbandonare la prassi di trasferire le “pratiche” da un ufficio all’altro, con relativa lettera di trasmissione debitamente firmata e protocollata in uscita e in entrata, collocarle in ordine nella relativa pila di pratiche sulla scrivania del dirigente del competente ufficio, da questo trasmessa al funzionario istruttore, da questo poi restituita per la firma al dirigente, trasmessa all’ufficio mittente, per poi collocare questo segmento del procedimento in serie con tutti gli altri necessari segmenti. Si tratta si abbandonare di questo procedimento, che rinvia alla burocrazia degli Zar di tutte le Russie, e di stabilire invece che, quando ne ricorre la necessità oppure periodicamente, funzionari delegati dei diversi uffici competenti per una questione si riuniscono, discutono, decidono, verbalizzano la decisione assunta, stabilendo la data di un successivo incontro in quei soli casi in cui uno o più degli uffici coinvolti ha bisogno di approfondire la conoscenza della questione[9].

Naturalmente, nell’ambito di questo procedimento (nuovo solo perché l’antica prassi ministeriale delle “conferenze di amministrazioni” e delle “conferenze di servizi” è stata abbandonata o corrotta negli ultimi decenni) occorre distinguere con cura i portatori dei diversi interessi, e il sistema delle garanzie cui i procedimenti oggi (sia pure in forme spesso distorte dal barocchismo normativo e dallo smarrimento della ragione originaria dei diversi passaggi procedimentali) sono espressione. Ma a questo, nella materia della pianificazione, dovrebbe provvedere un’avveduta e aggiornata legislazione regionale.

Tre aree di competenza provinciale

Applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree:

A) La tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla capacità di sopportazione del territorio (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva. É evidente che questo compito spetta in modo prevalente alla Provincia, a causa della scala, generalmente infraregionale e sovracomunale, alla quale le risorse suddette si collocano.

B) La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale. Il limite superiore, rispetto all’insieme di elementi collocabili in questa categoria, dovrebbe essere costituito da ciò che viene definito dalla pianificazione di livello regionale ma, come si è detto, in Campania questa è ancora assente.

C) Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale (a differenza delle precedenti), richiedono ugualmente una visione di livello sovracomunale per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale (per esempio, il dimensionamento della residenza e delle attività), oppure che le normative comunali contraddicano le scelte relative alle grandi opzioni d’uso del territorio (per esempio, in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e delle risorse ambientali).

Pianificare non è fare piani, ma non è neppure non fare piani.

Il rapporto tra “pianificazione” e “piano” è certamente complesso. Da tempo gran parte della cultura urbanistica italiana sostiene che non è affatto sufficiente fare un piano (definire una volta per tutte un assetto del territorio, rappresentato in un disegno accompagnato da un apparato di “norme tecniche d’attuazione”), ma che occorre governare le trasformazioni del territorio attraverso una successione di atti (di analisi, di verifica, di controllo, di monitoraggio), che accompagnino sistematicamente il momento centrale delle scelte: che non occorre tanto fare piani, quanto condurre un’attività sistematica di pianificazione[10]. Quest’affermazione viene spesso intesa in due modi, sostanzialmente contrapposti, ciascuno dei quali mi sembra insufficiente a cogliere la realtà.

V’è chi intende la processualità dell’azione di pianificazione semplicemente come il definire, insieme al “piano” classicamente inteso, un apparato tecnico che sia in grado di gestirlo: di tradurre cioè il disegno del piano in trasformazioni del territorio attraverso i necessari adempimenti tecnici (la progettazione delle infrastrutture e dei piani attuativi, l’acquisizione delle aree necessarie per le finalità pubbliche ecc.). Dominus del procedimento rimane insomma il “piano”, ancilla ne è l’implementazione.

La persistenza, in Italia, di questa concezione è probabilmente legata al fatto che da noi la pianificazione urbanistica e territoriale è figlia dell’architettura: di una disciplina cioè per la quale (almeno nella sua concezione oggi dominante) l’Oggetto è la finalità assoluta e l’Architetto ne è creatore e padre esclusivo. Da ciò il grande rilievo che hanno i “piani firmati”, dove l’autorevolezza della firma fa premio sulla coerenza con gli obiettivi sociali e con l’efficacia ai fini della guida delle trasformazioni.

Vi è invece chi, con errore simmetrico, vede la pianificazione come mera processualità: come traduzione in un mutevole documento - in un palinsesto continuamente modificato - delle decisioni che via via gli “attori” più rilevanti o influenti, gli interessi volta per volta più forti, ottengono dal decisore politico o amministrativo. Dove quest’ultimo è mosso non dalla tensione verso un definito progetto di società (che nella pianificazione trova uno dei suoi strumenti), quanto dalla ricerca di un rassicurante consenso sociale.

È difficile non mettere in relazione questa seconda tendenza con una condizione che caratterizza i nostri anni, dopo il tramonto delle grandi ideologie (e delle grandi chiese): il fatto che la politica non è più capace di cercare, o di ottenere, consenso sul proprio progetto di società. Poiché in democrazia il consenso è essenziale, se non lo si raggiunge con la forza delle idee generali, allora ci si deve piegare a ottenerlo con la mediazione spicciola degli interessi: e tanto peggio se questa induce, volta per volta, a compromettere e degradare quel tanto di progetto politico che si era riusciti a formulare[11]. In questa logica, il piano come sistema di regole che consente di raggiungere un definito progetto di territorio è solo un impaccio, e la pianificazione è un modo per scavalcarlo.

Pianificazione, insomma, come travestimento del piano, o come sua negazione. Come evitare che il passaggio dal “piano” alla “pianificazione” eviti entrambi questi trabocchetti? Si può individuare un percorso, azzardare dei tentativi, non formulare una ricetta.

La linea maestra è forse (almeno così l’abbiamo tentata a Salerno) quella di concepire la pianificazione come la composizione di tre eventi:

- la formazione di una base conoscitiva, sistematicamente aggiornata, finalizzata alla definizione, all’aggiornamento, al monitoraggio e alla comunicazione dei documenti contenenti le scelte della pianificazione;

- la definizione e l’aggiornamento di un sistema di regole, formulate in un formato e con un rigore scientifico e giuridico che le rendano opposables au tiers, costruite in relazione a tempi indefiniti, e comunque molto lunghi, riguardanti le finalità generali e permanenti, le grandi indicazioni strategiche e strutturali, che la società assume circa l’uso delle risorse territoriali;

- il succedersi di momenti discreti, a cadenze regolari e istituzionalmente definite (per esempio ogni cinque anni, un ritmo coincidente con quello del mandato amministrativo) nel quale le scelte valide per il breve periodo trovano la loro codificazione in un atto formalizzato, reso esplicito e consolidato da un consenso maggioritario, definito nei suoi effetti, efficace nei confronti dei terzi, impegnativo per il periodo successivo (un “piano”, insomma), e quelle valide a tempo indefinito vengono aggiornate sulla base dell’aggiornamento delle basi informative[12].

L’esigenza del consenso…

Percorrere questa direttrice di lavoro non porta però ad esiti soddisfacenti se non ci si fa anche carico delle esigenze che stanno dietro quelle due posizioni (pianificazione come travestimento del piano tradizionale, e pianificazione come negazione del piano).

Al di sotto della seconda posizione vi è un’esigenza indubbiamente non eludibile: quella del consenso. Per soddisfarla, si fa ricorso crescente a strumenti e a pratiche che in termini sintetici, possiamo ricondurre alla progressiva sostituzione della governance al government: alla sostituzione di pratiche basate sulla partecipazione di un’ampia e variegata platea di soggetti (“attori”) con i quali si costruisce il consenso su un progetto condiviso, alle pratiche autoritative basate sul criterio di gerarchia e di investitura pubblica.

È evidente che, per rendere efficace un progetto di trasformazione del territorio occorre ottenere il consenso, oltre che dei soggetti pubblici direttamente coinvolti (cui abbiamo già accennato a proposito di concertazione tra amministrazioni), anche dei soggetti privati che devono concorrere all’attuazione delle scelte. Molti sono i modi per ottenerlo, le pratiche messe in atto per conseguire il risultato. Le pratiche, però, si valutano (e si costruiscono) in relazione al loro contesto. Altro è la governance in paesi dove l’autorità dell’amministrazione pubblica è forte, e dove gli interessi privati che si vogliono coinvolgere sono quelli degli imprenditori e degli usagers (come nelle esperienze francesi), altro è adoperare quelle medesime pratiche dove l’autorità pubblica è debole, e gli interessi che si vogliono coinvolgere (o che si riesce a coinvolgere) sono in primo luogo quelli della proprietà immobiliare, e degli altri “attori” volti alla percezione di rendite vecchie e nuove.

A me sembra particolarmente rilevante il rischio di una utilizzazione distorta di tecniche consensuali nate in altri orizzonti economici, sociali e amministrativi in ambienti nei quali, come nel Mezzogiorno, l’imprenditorialità è ancora debole rispetto al parassitismo assistenziale e alla speculazione immobiliare, e ancor più debole sono ancora l’amministrazione pubblica, le sue risorse, i suoi strumenti.

…e l’esigenza dell’autorità

L’esigenza dell’autorevolezza dei poteri pubblici è un’esigenza che non nasce solo dalla necessità di costruire, con gli interessi privati, rapporti non subalterni. Essa è anche sottesa alla ricerca, da parte di molte amministrazioni, di una griffe, di un Autore che, con la sua autorità, riesca a supplire alla carenza di autorità dell’amministrazione. Si tratta, evidentemente, di una scorciatoia illusoria: poiché un’amministrazione forte e autorevole per il suo progetto politico, per la determinazione con la quale lo realizza, per la credibilità degli strumenti di cui si è dotata, non ha bisogno di acquistare sul mercato protagonisti cui delegare la costruzione delle scelte (può aver bisogno, semmai, di consulenti che l’aiutino a tracciare e aggiornare il percorso tecnico-scientifico sulla base di una più ampia messe di esperienze).

A Salerno ci siamo impegnati in modo particolare a dotare l’amministrazione di strumenti tecnico amministrativi adeguati, e coerenti col progetto politico che aveva dato l’avvio alla pianificazione territoriale. Il lavoro non è stato semplice né rapido. Del resto, non ci illudevamo che lo fosse: eccezionali sono, nel Mezzogiorno, le amministrazioni dotate di propri strumenti operativi adeguati alle necessità di un efficace governo del territorio. Il tecnico cui era stato affidato dall’assessore al Territorio, Giovanni Lambiase, il compito di essere responsabile interno del lavoro, Gaetano Fiore, ha saputo costituire un piccolo ufficio, costituito da cinque giovani professionisti assunti a contratto di diritto privato (in attesa della formazione di un organico più completo). Benché le procedure di decisione, finanziamento, selezione, stipula dei contratti siano state molto lunghe, il gruppo era all’opera nella fase conclusiva della redazione del piano, talché ha potuto essere un adeguato punto di riferimento per i diversi esperti di settore e – soprattutto – ha potuto essere partecipe delle decisioni tecniche e quindi maturo per seguirne l’implementazione.

Parallelamente, si è provveduto ad acquisire l’hardware per la costituzione di un sistema informativo territoriale (SIT) e – dopo un tentativo inutilmente compiuto di assunzione di personale informatico – a stipulare un contratto di fornitura di servizi per l’impianto del SIT e l’addestramento del personale dell’ufficio ad una società locale (Risorse ambientali). L’operazione è stata di grandissima utilità. Ha consentito, nel giro di pochi mesi, di recuperare il ritardo accumulato e risolvere i problemi derivanti dall’assenza di un preliminare progetto del sistema. In particolare, si è dovuto provvedere a rendere coerenti gli elaborati predisposti dai diversi consulenti di settore, diversi non solo per i formati informatici, ma anche per le coordinate geografiche di riferimento.

Un ruolo notevole, per aiutare la formazione dell’ufficio ponendo i suoi membri a contatto diretto con esperienze consolidate di pianificazione, è stato svolto dal progetto PASS ID 121: un programma di trasferimento di tecnologie dall’ufficio del piano della provincia di Bologna a quello della provincia di Salerno, finanziato dalla regione Campania su fondi della Presidenza del consiglio dei ministri e organizzato dalla società RSO spa di Milano. Il programma si è concretato, oltre che nella partecipazione diretta di tecnici della provincia di Bologna alle operazioni di pianificazione e a soggiorni di lavoro di membri dell’ufficio salernitano in quello bolognese, nella organizzazione di un master, svoltosi nell’arco di un intero anno e aperto ad alcune decine di tecnici e amministratori della provincia e di numerosi comuni del salernitano, su temi relativi alla pianificazione e allo sviluppo. L’esperienza è stata di grande utilità soprattutto perché ha consentito di mettere in contatto diretto tecnici e amministratori comunali con i temi (gli obiettivi, i metodi, i problemi, le scelte) della pianificazione provinciale nel momento della sua formazione, preparando così il terreno alla sua attuazione e implementazione al livello comunale.

Alcuni argomenti di discussione

Alla redazione del piano ha contribuito, come ho accennato, un gruppo di consulenti chiamati dalla Provincia, su indicazione del coordinatore, a fornire contributi specifici di analisi e proposta su determinati settori. Oltre all’esperto in normative urbanistiche Luigi Scano e all’architetto Imma Apreda, che costituivano il nucleo di coordinamento, hanno collaborato Paolo Leon e il CLES, per gli aspetti economico.sociali, Stefano Mazzoleni, Antonio Di Gennaro e altri esperti, per gli aspetti naturalistici; Giuliano Cannata e Alpha Cygni per l’assetto idrogeomorfologico, Matelda Reho per l’economia agro-silvo.pastorale e il paesaggio agrario, Maria Berrini e Ambiente Italia per i rifiuti e il risparmio energetico, Giulio Cantarella per la mobilità.

Oltre al lavoro, per così dire, di routine, un così articolato gruppo di lavoro ha costituito l’occasione per alcune interessanti discussioni, nel corso delle quali si sono confrontate posizioni diverse che il più delle volte hanno raggiunto, nelle scelte del piano, soddisfacenti sintesi, altre volte hanno lasciato l’esigenza di approfondire l’argomento, di proseguire nell’analisi e nella formulazione di proposte. È forse utile enunciare alcuni degli argomenti, rinviando ad altra occasione il loro approfondimento.

Ambiente e/o sviluppo nel Mezzogiorno?

Ha senso, in una situazione nella quale la produzione di beni ha raggiunto livelli di assoluta sovrabbondanza e in un mercato nel quale la popolazione e la forza lavoro sono in costante diminuzione, seguire ancora i segni tardivi di potenziale espansione di alcuni settori produttivi e di alcuni comparti dell’industria manifatturiera per promuoverne lo sviluppo? E, nel medesimo quadro e in una situazione in cui la produzione agricola delle aree più produttive del Nord basterebbe a sfamare l’intera popolazione italiana, ha senso rincorrere, tutelare e cercar di favorire lo sviluppo di produzioni agricole (sia pure di qualità), i cui costi le pongono fatalmente “fuori mercato”? E ancora, quale speranza di sopravvivenza hanno le strutture insediative a bassa densità che caratterizzano vaste aree collinari e pedemontane interne, e quindi che senso sociale ha investire per frenarne l’abbandono? Ha senso investire in attività primarie di presidio nelle aree dove l’abbandono dell’uomo ha causato la dominanza degli assetti naturalistici, anziché promuoverne una rinaturalizzazione integrale – un sostanziale inselvatichimento – forse più efficace ai fini della difesa del suolo? Questi sono alcuni interrogativi che sono stati sollevati nelle discussioni sul piano.

Le scelte adottate nel piano sono generalmente orientate nel dare una risposta positiva a siffatti quesiti, senza peraltro considerare conclusiva la risposta. In effetti, ha certamente senso una politica del territorio orientata a radicare – ovunque tecnicamente possibile ed economicamente sostenibile – la presenza dell’uomo e delle sue attività sul territorio, a promuovere produzioni agricole e silvo-pastorali “di nicchia” ove siano suscettibili di conservare o accrescere le attuali qualità (dei prodotti, e del paesaggio), a tutelare e valorizzare le ricchissime risorse paesaggistiche e culturali inserendone la fruizione nel crescente flusso del turismo mondiale.

Queste scelte, però, hanno un reale significato di sviluppo se sono inserite in una quadro del quale non siano componenti marginali e subalterne, ma ne divengano componenti centrali: se diventano espressive di una nuova strategia dello sviluppo. Una strategia basata non sulla crescita della produzione di beni e servizi ottenibili, a costi minori, in altre parti del territorio nazionale (ed europeo), e producibili nel Mezzogiorno solo al prezzo di una ulteriore espansione dell’assistenzialismo (quello diretto, o quello malavitoso e abusivista), ma sullo sviluppo di quei prodotti e quei servizi la cui qualità esprime valori tipici di quei luoghi: della loro storia e della loro natura.

Alcuni settori e attività che sono sembrati particolarmente significativi sono le produzioni agricole della costiera amalfitana e dell’area delle “colline della qualità” (nel medio-alto corso del Sele), quelle latteo-casearie dell’agro di Capaccio e dell’altopiano dei Lattari, le attività per la commercializzazione dei prodotti agricoli tipici e quelle relative alla comunicazione, e – in larghissima misura – quelle orientate alla fruizione ricreativa e culturale, alla conservazione e all’adeguamento tecnologico del ricchissimo patrimonio culturale e paesaggistico.

Il “progetto di abbandono”

E’ nel quadro di una politica e di un’attività amministrativa coerentemente volte a una simile strategia che diviene possibile fornire risposte realistiche ma non disperate a progredenti fenomeni di abbandono. In aree non marginali del Salernitano (e dell’intero Mezzogiorno) il carico di popolazione e attività economicamente sostenibili nell’ambito delle attività oggi praticate tenderà inevitabilmente a ridursi ulteriormente, man mano che le leggi dell’economia prevarranno (come non può non avvenire) su quelle dell’assistenzialismo, e che la ricerca di condizioni di vita moderna e cittadina spingerà i giovani all’abbandono del paesello natio. L’abbandono sarà inevitabile. Ma se verrà lasciato alle sole regole dello spontaneismo, gli effetti saranno altrettanto devastanti quanto quelli delle grandi trasformazioni territoriali che contrassegnarono il nostro paese negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo.

Occorre perciò definire un “progetto di abbandono”. Occorre individuare quali sono (dove ci sono) le aree nelle quali la natura e la storia indicano la possibilità (e l’economia riconosce la convenienza) di praticare colture agricole, zootecniche, forestali di qualità tale da far premio sui maggiori costi di produzione. Occorre individuare, area per area, in relazione alle caratteristiche dell’assetto geomorfologico e di quello vegetazionale, quali sono le opere di presidio necessarie per mantenere il suolo, evitare il suo disfacimento e garantire la stabilità dei versanti: quali sono le vegetazioni più opportune, le naturalizzazioni più convenienti, i ripristini più necessari. Occorre definire calibrati programmi di fruizione, a fini turistici, delle risorse naturalistiche e dei beni culturali disseminati sul territorio, e realistici progetti di organizzazione, valorizzazione, commercializzazione del vasto patrimonio destinabile alla crescente domanda di ricreazione, conoscenza, cultura. Occorre individuare, nelle aree nelle quali le utilizzazioni coerenti con le caratteristiche dei luoghi non comportano che una bassa densità insediativa, quali modelli di organizzazione dei servizi e delle infrastrutture (economiche, organizzative, urbanistiche, amministrative ecc.) siano attivabili per garantire soddisfacenti livelli di vita in condizioni “non urbane”. E occorre individuare quali risorse siano disponibili in funzione delle risorse localmente attivabili, quale “piegatura”occorra conferire agli investimenti ordinari per renderli funzionali al “progetto di abbandono”.

Il passo successivo della pianificazione provinciale, l’implementazione del piano consegnato nel giugno scorso, dovrà condurre ad approfondire – tra gli altri – questi specifici argomenti. Alle modalità secondo cui sarà gestito l’abbandono e, insieme, ai modi nei quali si sarà capaci di valorizzare le specifiche risorse locali, è affidata la capacità di vaste regioni del Mezzogiorno, e del Mezzogiorno nel suo complesso, di reagire positivamente alla forbice tra degrado e omologazione, cui altrimenti la storia lo condanna.

Le gambe del piano

Il piano è certo (l’ho già affermato) un insieme di regole: regole direttamente operative, là dove la responsabilità e la competenza sono interamente della Provincia, e regole che lo diventeranno per il tramite della pianificazione provinciale. E il piano è dotato del suo apparato normativo, particolarmente incisivo là dove si tratta di garantire l’integrità fisica del territorio e la sua identità culturale. Ma il piano (la pianificazione) deve essere anche un insieme di azioni, necessarie per raggiungerne gli obiettivi e attivate da una molteplicità di soggetti. Nel PTCP si è data un’importanza notevole a questo aspetto poco tradizionale, sebbene si sia convinti che molto lavoro vada ancora fatto in questa direzione, e molte possibilità vadano esplorate.

Nel PTCP si sono individuati una serie di “ambiti”, individuati soprattutto in relazione alle caratteristiche, ai problemi e alle prospettive del sistema insediativo, ma costruiti tenendo conto delle interrelazioni tra insediamento e ambiente, tra organizzazione della vita dell’uomo e della società e habitat naturale. Per ciascuno di questi ambiti[13] si sono indicati (accanto alla descrizione e alla individuazione dei problemi e degli obiettivi generali) le specifiche azioni che è necessario porre in essere per raggiungere gli obiettivi proposti e la loro articolazione, gli strumenti da adoperare e i soggetti da attivare per ciascuna di esse. E’ soprattutto in questa parte del piano che si sono inseriti gli strumenti di “programmazione integrata” e di “contrattazione programmata”, che sempre più attirano l’attenzione e sollecitano l’interesse degli amministratori, dei politici e delle forse sociali.

Il tentativo (a mio parere non ancora del tutto riuscito) è stato quello di gettare un ponte tra la pianificazione “classica” e quella “anomala”: di utilizzare gli istituti (e le risorse) di quest’ultima per dare al piano ulteriori “gambe” oltre a quelle già consentite dalle “regole”. Un ponte tra due realtà che tendono viceversa a marciar separate, spesso in contraddizione l’una con l’altra. Dove da un lato (quello della pianificazione “classica”) vi è la certezza del diritto, la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte, l’efficacia erga omnes – ma anche la rigidità, l’inerzia, la scarsa efficacia – e dall’altra (quella della pianificazione “anomala”) vi sono le risorse, il consenso, la duttilità (ma anche la discrezionalità, la derogazione, la confusione degli interessi).

Anche questo, in definitiva, è un argomento a proposito del quale il piano si sforza di indicare alcune direzioni di lavoro, con la consapevolezza che esse sono da percorrere nel difficile cammino del passaggio concreto dal piano alla pianificazione. Un passaggio affidato a chi, localmente, ha la responsabilità politica o quella tecnico-amministrativa di sviluppare il lavoro giunto a un primo traguardo.

Edoardo Salzano

Loutro, Creta, 15 agosto 2001

[1] Legge 8 agosto 1942, n. 1150. Si veda in proposito: Cinquant'anni dalla legge urbanistica italiana : 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori riuniti, Roma 1993.

[2] Mi riferisco al piano di bonifica delle Paludi pontine, per cui rinvio a: P. Sica, Storia dell’urbanistica - , vol. III: Il Novecento, Editori Laterza, Bari 19914, pp. 350 e segg.

[3] Alla regione si riferiva l’istituto nazionale di urbanistica nel suo Codice dell’urbanistica, proposto nel 1960 (si veda in: Urbanistica, n. 33, aprile 1961). Ma a realtà, situazioni e proposte del tutto diverse si riallacciava Giancarlo De Carlo (ILSES, Relazioni del seminario La nuova dimensione della città: la città-regione, Stresa 19-21 gennaio 1962). In sede politica e legislativa i termini di riferimento erano ancora diversi.

[4] Il movimento Comunità fu lanciato e alimentato da Adriano Olivetti, illuminato e colto industriale eporediese, nel 1947. Si veda: V. Ochetto, Adriano Olivetti, Milano, Mondadori 1985; G. Berta , Le idee al potere, tra la fabbrica e la comuinità, Milano, Edizioni Comunità, 1980.

[5] Comprensori, come associazioni di più comuni o come emanazioni della regione, furono proposti e applicati dalle prime legislazioni regionali in Piemonte, Emilia Romagna, Umbria, Veneto, Lazio, Lombardia, verso la metà degli anni Settanta.

[6] Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 20, comma 2.

[7] Benché ad osservatori esterni ciò sembri incredibile, in Campania i piani comunali non sono approvati da un unico ente (generalmente le Regioni hanno delegato le province), ma: i piani dei comuni capoluoghi di provincia sono approvati dalla Regione, quelli compresi nelle Comunità montane(104 comuni su 158) da queste, e solo il residuo(53 su 158) dalla Provincia.

[8] L’articolo è stato ratificato e ridenominato come articolo 5 con l’accordo di Amsterdam (1997).

[9] Come, seppure in termini assai diversificati, fanno la legge 5/1995 della Regione Toscana, la legge 28/1995 e la legge 31/1997 della Regione Umbria, la legge 23/1999 della Regione Basilicata, la legge 38/1999 della Regione Lazio, la legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna.

[10] Si veda, ad esempio, E. Salzano, L’urbanistica dal “piano” alla “pianificazione”, in: “La Rivista Trimestrale”, n.4, dicembre 1985, pp. 9-28.

[11] Tipici, in proposito, i patteggiamenti in materia ambientale: il rapido passaggio dalle proclamazioni generali alle concessioni più devastanti.

[12]Mi riferisco a un “modello” di pianificazione che ho cominciato a sperimentare a Venezia e a Carpi negli anni Ottanta, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni Novanta (si veda, in particolare: L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in: Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana - 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.137-153), che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali recenti, e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato di legge urbanistica nazionale della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati (Camera dei deputati - XIII legislatura, Resoconto della VIII Commissione permanente, giovedì 11 gennaio 2001, Allegato 2, Norme in materia urbanistica).

[13] Essi sono i seguenti: Agro Sarnese-Nocerino, Costiera Amalfitana, Salerno, Valle dell’Irno, Eboli-Battipaglia, Picentini, Alto Sele, Vallo di Diano, Cilento, Cava dei Tirreni.

Un ambiguo compromesso ha concluso il conflitto tra quelle che sono apparse come due anime della maggioranza di governo: quella “ambientalista” e quella “sviluppista”, per adoperare due sbrigative etichette. E’ facile avanzare il timore che quel conflitto si riaprirà, e diventerà una ricorrente occasione di lacerazioni su un arco di questioni di cui la Variante di valico è poco più di un emblema.

E’ ragionevole tutto ciò? No di certo. Non solo perché accrescerebbe gli elementi di fragilità già presenti nella maggioranza, ma anche perché il nostro sistema dei trasporti ha bisogno di un deciso ammodernamento, al quale le ricorrenti polemiche non giovano. Esso è infatti abissalmente lontano dagli standard che prevalgono nella maggior parte dei paesi europei. Basta riflettere alle condizioni di servizio delle ferrovie, soprattutto sulle linee secondarie e nel Mezzogiorno, alla situazione dei porti, alle disfunzioni del sistema aeroportuale, alla pratica inesistenza del trasporto metropolitano di massa, all’assenza di reti regionali efficienti, allo stato spesso disastroso della viabilità secondaria e locale, alle condizioni tecniche di manutenzione e gestione delle stesse autostrade. Basta riflettere al paradosso che proprio uno dei paesi più accidentati e fragili dell’Europa si permette di far circolare su strada quasi il 90% delle merci (contro il 50% degli altri paesi europei), e che il “Paese di navigatori”, il cui territorio è proteso tra il Tirreno, l’Adriatico e lo Ionio, utilizza il cabotaggio solo per una quota assolutamente marginale delle merci, mentre Francia e Germania usano intensivamente la loro rete idroviaria.

Ma il distacco più grave tra l’Italia e il resto dell’Europa sta soprattutto nell’assenza di integrazione tra le reti. Se non si vedono le singole reti (autostrade, strade di grande comunicazione, strade locali, ferrovie nazionali, ferrovie regionali, metropolitane, vie d’acqua e porti, aeroporti, punti e centri d’interscambio ecc.) come elementi di un sistema, sprechi, diseconomie, disfunzioni, inefficienze sono inevitabili e crescenti. I costi per il sistema economico e per i cittadini tendono a divenire insopportabili, a mano a mano che la domanda di mobilità aumenta.

Il vero dramma della discussione che si è svolta in materia di infrastrutture è proprio questo: si continua a ragionare, a discutere e a progettare singoli pezzi di singole reti, senza alcun ragionamento complessivo, senza alcuna strategia, senza alcuna scelta di sistema. Si faceva così ai tempi di Nicolazzi e di Prandini, massime espressioni del doroteismo: decidere caso per caso e pezzo per pezzo è ciò che ha aiutato a percorrere la strada del clientelismo e della corruzione (ed è anche da questo che è nata Tangentopoli, dott. Di Pietro).

Perciò è sembrato del tutto ragionevole ciò che il ministro per l’Ambiente ha suggerito al primo sventagliare delle proposte stradali: indire una Conferenza nazionale sui trasporti, per organizzare i materiali su cui fondare le scelte della politica dei trasporti. Scelte in termini di strategie e di indirizzi di sistema (quale quota dei flussi delle merci e delle persone dirottare dalla gomma al ferro e dalla terra all’acqua, dalle direttrici nazionali a quelle locali e viceversa, con quali integrazioni e connessioni tra le reti, in vista di quali incrementi, e come localizzati, della domanda di mobilità ecc.), dalle quali far poi discendere le decisioni sulle opere, le priorità, le localizzazioni, i finanziamenti, le tariffe.

Poiché ciò che sembra indispensabile, in una società complessa, è l’applicazione del metodo della programmazione. E’ solo adoperando un simile metodo che è possibile comporre a priori le esigenze in conflitto dove questo è possibile, e scegliere dove è necessario. Negli anni 60 e 70 le forze progressiste, sia dentro che fuori dalla maggioranza di centrosinistra, l’avevano capito. Non a caso, nell’istituire le regioni avevano riservato allo Stato il diritto e il dovere di definire “le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento all’articolazione territoriale degli interventi di interesse statale”, e la politica nazionale dei trasporti certamente lo è, “e alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo” (Dpr 616/1977).

Ripristinare una corretta logica di programmazione del territorio, cominciando con una Conferenza dei trasporti, proseguendo con la definizione delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio” e completando il lavoro con una nuova legge sul governo del territorio è la via obbligata per una maggioranza che voglia davvero “portare l’Italia in Europa”, in termini di funzionalità del sistema territoriale, di qualità della vita, di impiego corretto delle risorse. Non si tratta di un problema tecnico e amministrativo, come sembra credere l’on. D’Alema, ma di una questione squisitamente politica.

Edoardo Salzano

La città.

Quando pensiamo la parola “città” ci vengono in mente cose molto diverse. A volte ci viene alla mente un insieme di edifici e di persone, variamente raggruppati attorno a spazi ed edifici pubblici, animato da flussi e arricchito da incontri, ben delimitato rispetto alla campagna, se non più da una cinta di rassicuranti mura, da una cerchia di ordinati sobborghi. A volte, invece, vediamo (con la mente, e anche con gli occhi) un ammasso disordinato di edifici di mille fogge e forme, spesso sgraziati e sempre male accostati, coacervo di attività confliggenti (dai bambini a passeggio alle automobili accatastate sui marciapiedi, da rumorose industrie a malati negli ospedali), una nube di esalazioni di diverso colore e spessore e veleno.

Se riflettiamo un attimo, ci rendiamo conto che la prima immagine è quella della città così come la storia l’ha consegnata alla civiltà contemporanea, la seconda è la città come la nostra civiltà l’ha resa. Tra le due immagini (e le due città) sono diverse le forme, i rumori, e anche i tempi e i rapporti. La città di ieri era il luogo degli incontri, quella di oggi è la città delle solitudini. La città di ieri era il luogo dell’integrazione tra ceti, abitudini, mestieri diversi, quella di oggi è il luogo delle segregazioni. La città di ieri viveva il tempo tranquillo del vicinato e del quartiere, quella di oggi vive il tempo frenetico dello spazio metropolitano e della motorizzazione individuale.

La città della storia non è recuperabile, se non dalla fantasia della memoria. Ma da un paio di secoli almeno gli uomini hanno cominciato a individuare i modi mediante i quali si potesse rendere la città contemporanea più amichevole, ordinata, vivibile, funzionale, imparando qualcosa dall’insegnamento della città della storia. In questo scritto cercherò di raccontare in che modo in Italia si è tentato, nell’ultimo mezzo secolo, di costruire degli attrezzi, giuridicamente fondati, per migliorare l’assetto delle città, e del territorio sul quale hanno via via esteso la loro rete di relazioni[1].

Perché nasce il Piano regolatore

Forse il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, è nato nel 1811, in quella città delle Americhe che da New Amsterdam era diventata New York. Aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e fabbrichette. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.

Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. E’ sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo.. (Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.)

L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento dello sviluppo.

Ma era un’economia basata su due principi. Il primo era la libertà individuale: più questa era priva di freni, più sapeva tirare, più si perseguiva, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. Il secondo era la riduzione d’ogni bene a merce, d’ogni valore a valore di scambio. Questi due principi costituivano anche due limiti pericolosissimi per quel sistema economico-sociale. Il secondo limite lo si scoprì molto più tardi: quando nacque la questione ambientale (e su questo torneremo più avanti). Il primo limite lo scoprì prestissimo: a New York, nel 1811.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pianificazione urbanistica divenne una procedura normale per regolare le trasformazioni e, soprattutto, l’espansione delle grandi città (nelle società industrializzate come nelle terre colonizzate dal capitalismo europeo). Poco più tardi leggi specifiche generalizzarono il metodo, le tecniche e le procedure della pianificazione a tutte le realtà territoriali nelle quali si manifestavano, o si prevedevano, trasformazioni significative dell’assetto fisico o dell’organizzazione funzionale. L’Italia arrivò con un certo ritardo. Dopo un dibattito durato un decennio, nel 1942 venne approvata la legge urbanistica ancora oggi in vigore.

La legge urbanistica del 1942

Una buona legge urbanistica, quella che fu approvata, nel pieno della seconda guerra mondiale. A rileggerla oggi così come allora fu approvata essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti. E’ questa legge che costituisce ancora oggi il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Ecco gli elementi essenziali della “legge madre” dell’urbanistica italiana.

Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.

Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio.

La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare, ”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica non fu adoperata.

Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi relativi ad ambiti più ampi del comune (“area vasta”). Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.

Perché la legge urbanisticanon ha funzionato?

Se era una buona legge, come mai non si sono visti i suoi effetti? Come mai le città appaiono oggi devastate e spesso invivibili? Allora l’urbanistica, la pianificazione, non servono? Non è così. Il fatto è che, negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione gli eventi bellici non permisero di applicarla, e poi nell’immediato dopoguerra, essa fu volutamente messa in archivio. E’ proprio negli anni del dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.

I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. Ma in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto. La logica dei PRG fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.

Più sostanzialmente, la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.

Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.

Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.

Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, richiede che non si pianifichi. Infatti, dal dopoguerra fino agli anni Sessanta, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o boicottata dagli organi più politicizzati del governo. Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.

Le trasformazioni territorialinegli anni del “grande esodo”

All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola (42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali). Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6%. Accanto a questa trasformazione, si registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Fra il 1955 e il 1971, nove milioni di italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali, e quasi altrettanti cambiano comune di residenza all’interno della stessa regione

Nel frattempo, lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica. Una vasta campagna di iniziativa e proposta culturale e politica, promossa dagli urbanisti “militanti” nell’INU e sostenuta dalle forse politiche di sinistra, pose l’esigenza di rinnovare integralmente gli strumenti della pianificazione.

I tentativi di ottenere una “riforma urbanistica” durarono decenni. Ancora oggi, non sono stati coronati da successo: la legge del 1942 è rimasta la struttura portante dell’attuale legislazione. Oggi, retrospettivamente, qualcuno comincia a domandarsi se all’inizio degli anni Sessanta non si sia fatto un errore, predicando la necessità di una “riforma urbanistica” senza aver prima provato ad applicare la legge del 1942.. È il parere, ad esempio, di una economista molto attenta alle vicende dell’urbanistica, Ada Becchi, la quale si domanda: perché gli urbanisti non si siano “battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era” , e perché “all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova” [2].

Domanda del tutto legittima. La risposta può forse essere cercata nella cultura politica prevalente in quegli anni tra gli urbanisti militanti, e in certo loro distacco dalla concretezza della situazione reale del paese. E forse anche in una carenza di analisi sulle relazioni tra il carattere devastante delle trasformazioni avvenute nel periodo della ricostruzione postbellica e le “carenze” della legge urbanistica del 1942.

Qualche strumento nuovo per intervenire sulla città

La domanda di modernità e razionalità che emergeva dalle stesse trasformazioni dell’assetto sociale ed economico dell’Italia (dai settori avanzati della produzione come dai ceti urbani i che conoscevano più benessere, più democrazia e più conoscenza) trovò altre strade per raggiungere una qualche soddisfazione: se la “riforma” si allontanava all’orizzonte, la legislazione urbanistica del 1942 si arricchiva di strumenti nuovi. Aiutava oggettivamente in questa direzione il verificarsi di effetti catastrofici del modo che si era adottato per affrontare il rapporto tra sviluppo e ambiente: un modo caratterizzato (per essere sintetici) dallo sfruttamento rapace, miope e progressivo di quella risorsa essenziale, scarsa e non riproducibile che è il territorio. Numerosi edifici crollavano a Napoli per effetto del sovraccarico edilizio su un suolo fragile e trascurato; ad Agrigento un intero quartiere franava a valle per lo stesso motivo, documentato da un’impareggiabile indagine ministeriale [3]. L’alluvione di Firenze e l’eccezionale alta marea nella laguna veneziana rivelavano le sciagure che conseguono dall’utilizzazione selvaggia, e dagli interventi meramente ingegneristici (e cementificatori) del territorio extraurbano: da quegli anni, le alluvioni e le loro conseguenze sui territori di fondo valle diventarono endemiche. Nelle città maggiori cominciava a manifestarsi la congestione del traffico, dovuta all’espansione irrazionale che era stata provocata alla produzione e al consumo di automobili.

La “riforma” si ridusse via via a uno sbiadito vessillo. Ma il tronco della legge urbanistica del 1942 si arricchì di nuovi strumenti, potenzialmente suscettibili di conferire razionalità e qualità funzionale all’assetto delle città. Nel 1967 la “legge ponte”, firmata da Giacomo Mancini (un grande ministro dei Lavori pubblici), oltre a stimolare i comuni a pianificare e a disciplinare lo lottizzazioni edilizie (che erano state lo strumento principale del dissesto del territorio) introdusse anche in Italia gli “standard urbanistici”. Si stabilì che in tutti i piani urbanistici, generali e attuativi, si doveva prevedere la presenza di adeguati spazi per le esigenze collettive: il verde e lo sport, le scuole, le attrezzature per la vita civile, la sanità, il commercio, il culto, i parchi urbani. I parcheggi. Almeno sul terreno quantitativo, i luoghi del consumo comune, che erano stati i fuochi ordinatori della forma e delle funzioni della città medioevale, assumevano di nuovo centralità.

Per effetto della legge ponte le città si dotarono di piani regolatori in modo diffuso. Nelle regioni del centro , soprattutto, del nord in modo più massiccio, ma anche altrove. La qualità era però ben differente da luogo a luogo. In alcuni comuni (soprattutto in Emilia Romagna, dove una “cultura della pianificazione” aveva preceduto, e in qualche misura stimolato e orientato la stessa legge ponte, ma anche in Lombardia, nel Veneto, in Piemonte) i piani erano basati su un accurato dimensionamento. Quest’ultimo consiste nel basare la quantità di aree urbanizzabili (e in generale le nuove superfici edilizie previste dai piani) su una ragionevole previsione della domanda dovuta alla crescita della popolazione e delle attività produttive, all’esigenza di migliorare la qualità delle abitazioni e così via. In altre aree del paese (e non solo nelle regioni meridionali) i fabbisogni di aree urbanizzabili era gonfiato a dismisura, oppure il dimensionamento veniva del tutto trascurato, oppure ancora ai calcoli esibiti nelle mendaci relazioni illustrative corrispondevano, nelle tavole del piano e nelle sue norme, quantità del tutto difformi (e sempre molto maggiori.

In realtà, lo strumento preteso a New York all’inizio del XIX secolo per razionalizzare l’espansione urbana, veniva impiegato per un altro dei suoi possibili effetti: valorizzare le aree attorno alle città. Come è abbastanza noto, il valore di un terreno che da agricolo diventa potenzialmente edificabile aumenta molte volte. E così aumenta il valore di un terreno nel quale, invece di un edificio di modeste dimensioni, se ne può costruire uno più grande, oppure adibibile a utilizzazioni più pregiate. Il paradosso è che questo aumento di valore è del tutto indipendente dal fatto che, su quel terreno edificabile, un nuovo edificio nasca davvero: è la virtualità edificatoria impressa dal piano con il colore o il retino che genera il valore.

Se in alcune parti d’Italia gli strumenti dell’urbanistica di quegli anni furono impiegati per rendere le città più efficienti e più belle (se il dimensionamento fu più rigoroso, le analisi sulla struttura del suolo più accurate, gli spazi per le utilità pubbliche e collettive dimensionati in modo più generoso e localizzati con maggiore attenzione), e se in altre parti invece ciò che soprattutto contava era la quantità delle aree per l’edificazione privata rese urbanizzabili ed edificabili, ciò fu causato dal peso che, nelle differenti realtà, avevano gli interessi della speculazione fondiaria e dell’investimento immobiliare. Peso oggettivo, rispetto ai comparti moderni della vita economica, e peso nelle decisioni politiche degli amministratori. Ma questo ci conduce a ragionare della rendita fondiaria, che era appunto il tema politico sotteso al dibattito per la riforma urbanistica.

La questione delregime dei suoli

Di chi è la terra su cui sorge la città? A che fine, e da chi, deve essere utilizzata? Questa è la grande questione. Il suolo urbano era (alcuni secoli fa, in moltissime città europee) di proprietà comune: della città, o del Signore, o del Vescovo, che ne cedevano l’uso per costruirvi le case e le botteghe. Con l’avvento della borghesia la proprietà del suolo fu frammentata e privatizzata. Il suo ruolo principale non fu più quello di costituire la base e, in qualche modo, la materia prima per la costruzione della città, ma divenne sempre più quello di consentire l’arricchimento, con poca fatica, di quanti via via ne venivano in possesso [4].

Da allora, la città è come percorsa da due armate che hanno obiettivi diversi, strumenti diversi, poteri volta a volta diversi. L’una è quella costituita da quanti hanno interesse alla funzionalità della città, alla sua bellezza, alla sua vivibilità: sono quanti usano la città per abitare, per lavorare (siano essi operai o industriali, impiegati o padroni), per conoscere e divertirsi. L’altra armata è costituita da quanti usano la città per arricchirsi mediante il gioco dei valori delle aree fabbricabili. Si tratta di armate a confini variabili: l’industriale è anche proprietario di terreni e di edifici, l’operaio è anche proprietario di una casetta il cui valore aumenterebbe a dismisura se fosse possibile costruirvi un grattacielo. Se non tutti, la grande parte dei soggetti che si muovono sullo scenario della città sono spinti a militare verso l’una e l’altra delle armate a seconda del peso che assegnano alla loro funzione di utenti della città, o di suoi sfruttatori. E purtroppo, mentre l’interesse venale appare con chiarezza ed evidenza, quello alla vivibilità urbana (e a come questa sia ridotta o minacciata o addirittura annullata dal gioco della speculazione) appare più difficilmente, e meno immediatamente comprensibile.

Così, la legge ponte che ridusse l’edificabilità ed estese la pianificazione urbanistica, il decreto sugli standard che ampliò le aree da utilizzare per il verde e le attrezzature collettive (e che perciò riduceva le prospettive di arricchimento dei proprietari) furono certamente vittorie di chi si sentiva in primo luogo utente della città. Ma furono vissute come dure sconfitte dagli altri. La Corte costituzionale intervenne, nel 1968, oggettivamente a vantaggio di questi ultimi: decretò l’illegittimità costituzionale delle norme delle leggi urbanistiche che consentivano di espropriare, a un valore sostanzialmente agricolo, le aree ad alcuni proprietari (quelli interessati da previsioni di spazi pubblici, strade e così via), mentre consentiva ad altri di arricchirsi.

Da allora a oggi, si sono susseguite proposte di riforma mai approvate dal Parlamento, leggine che tentavano di prorogare o tamponare gli effetti della sentenza costituzionale, e reiterate denunce di quest’ultima. Ma l’ingiustizia rilevata dalla Corte costituzionale rimane, i cambiamenti nelle utilizzazioni del suolo decise dai piani regolatori determinano aumenti o diminuzioni dei valori fondiari, e la mano degli interessi immobiliari continua a premere sulla matita con cui gli urbanisti e gli amministratori disegnano il futuro della città.

Dall’articolo 18alla legge 167 del 1962

La legge urbanistica del 1942 prevedeva, come ho ricordato, uno strumento che avrebbe potuto contenere gli effetti dell’appropriazione privata dei suoli urbani, almeno nelle aree di nuova urbanizzazione, impedendo che l’incremento di valore, derivante dalle decisioni della collettività, si traducesse in un aumento dei costi degli alloggi e delle urbanizzazioni. Si tratta di quell’articolo (il 18) che consentiva ai comuni di espropriare le aree nelle quali il piano prevedesse cospicue trasformazioni (come quelle nelle quali all’utilizzazione agricola il piano prevede di sostituire quella edilizia). Solo due comuni, in Italia, tentarono di applicare quello strumento, ma i tentativi di allargarne l’incidenza furono frustrati dai ricorsi dei privati e dall’appoggio che ad essi diede la magistratura amministrativa.

Il tentativo di costituire demani comunali di aree edificabili fu ripreso nel 1962. Quasi come un sottoprodotto del dibattito sulla riforma urbanistica (che in quegli anni divampava più acceso) il ministro democristiano Sullo fece approvare al Parlamento una legge la quale, per “favorire l’acquisizione di aree da destinare all’edilizia economica e popolare”, consentiva ai comuni di espropriare aree in misura consistente (si poteva giungere al 70% dell’intero fabbisogno di nuove aree edificabili),. Le aree così acquisite dal Comune vengono urbanizzate e cedute agli utilizzatori (con priorità a quanti realizzano edilizia destinata ai ceti meno abbienti).

La legge fu usata anch’essa (come quasi tutti gli strumenti positivi dell’urbanistica) in modo molto differenziato, nello spazio e nel tempo. In alcune parti del paese si trascurò del tutto la possibilità di utilizzarla come strumento di una politica di crescita razionale della città; in alcune fasi della nostra vita politica si indebolì la portata della legge, e addirittura la su utilizzò a vantaggio della proprietà fondiaria. Ma nei comuni in cui si era consolidata una “cultura della pianificazione” l’impiego congiunto delle potenzialità di questa legge e delle nuove regole prescritte in materia di standard urbanistici consentirono di realizzare parti di città dove è più gradevole vivere, le abitazioni costano meno, gli spazi verdi e le attrezzature pubbliche sono più abbondanti, meglio distribuiti, più facilmente utilizzabili dalle cittadine e i cittadini.

La questione del traffico

Accanto a quella sul regime dei suoli, un’altra grande questione si affacciò negli anni Sessanta e non è stata risolta (ma, semmai, si è progressivamente aggravata): la questione del traffico. Mentre in altri paesi europei, alla costruzione di una rete autostradale e all’espansione del parco automobili si accompagnavano intelligenti ed efficaci politiche di ampliamento della rete del ferro (ferrovie regionali, linee metropolitane, tramvie in sede propria o promiscua), di utilizzazione delle vie d’acqua per il trasporto delle merci, di promozione del trasporto meccanico leggero (biciclette), in Italia tutti gli sforzi erano indirizzati alla costruzione della rete autostradale e alla promozione, con ogni mezzo, del trasporto individuale. Gli anni Sessanta sono stati gli anni dell’automobile: questa è diventata la regina del trasporto e, contemporaneamente, la distruttrice della città.

Nell’orizzonte urbano si è manifestato insomma quello che definisco "il paradosso del traffico". Nelle grandi e medie città, nelle ore di punta (cioè nei momenti in cui i cittadini hanno più bisogno di spostarsi) le strade diventano ingorghi di dimensioni maggiori o minori. I marciapiedi sono sottratti alla loro originaria destinazione, e il pedone è ostacolato dalle automobili disordinatamente in sosta. Le piazze, i luoghi nati per l’incontro e la sosta degli abitanti, sono diventate immensi parcheggi. E muoversi, spostarsi è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

Dietro a questo disagio, dietro al “paradosso del traffico”, ci sono certamente ragioni di politica generale (e di miopia nazionale). Ma è giusto sottolineare che ci sono anche colpe ed errori degli urbanisti. L’urbanistica del Novecento ha indotto infatti a progettare le città applicando una “zonizzazione funzionale” rigidamente e ottusamente applicata: distinguendo cioè nettamente la parti della città destinate pressoché integralmente alla residenza, quelle adibite all’industria, all’artigianato, alle attività direzionali. In tal modo non solo si è contraddetto il carattere complesso della città, si è dimenticato che la sua ricchezza e la sua vitalità sono determinate dalla vicinanza di funzioni, ruoli, attività, ceti sociali diversi. Ciò ha provocato e provoca ancora, nelle ore di punta, giganteschi esodi delle automobili dalla zone residenziali a quelle dell’industria e delle altre attività lavorative, spesso localizzate sui lati opposti del centro storico.

Altri strumenti nuoviil Ppa, l’equo canone, il recupero

Fino alla fine degli anni Sessanta l’urbanistica italiana era indirizzata al tentativo (a volte riuscito, altre meno) di governare l’espansione della città. Le grandi trasformazioni territoriali, l’incremento della popolazione, l’ancor più accentuato incremento delle aree urbanizzate derivante dalle iniziative di valorizzazione economica dei terreni avevano fatto sì che le città fossero in continua espansione: si calcola che in negli anni successivi al dopoguerra le superfici urbanizzate siano aumentate del 1000 per 100 (mille per cento): in pochi decenni si è radicalmente trasformata (coprendola di strade, palazzi, piazzali, capannoni, ville e villette ecc.) una quantità di terreno pari a dieci volte quella che si è urbanizzata in alcuni millenni. Sulla base di un’analisi della realtà e delle tendenze si proclamò in quegli anni che “l’età dell’espansione è terminata”. Il problema al quale volgere l’attenzione diveniva sempre di più quello del risanamento, della riqualificazione, del recupero e riuso, della gestione e manutenzione dell’enorme stock di edifici e urbanizzazioni realizzato nei decenni precedenti. In questo quadro, alcuni problemi assunsero rilievo sociale e provocarono il formarsi di alcuni nuovi strumenti.

In primo luogo, il problema della casa. Non era più, se non marginalmente, un problema quantitativo. Si trattava di razionalizzare l’uso dello stock edilizio esistente, di avviare politiche di recupero, di ridurre le paradossali differenze che si erano sedimentate nei livelli degli affitti (dove si andava dai fitti “bloccati” ai valori dell’anteguerra, fino ai fitti “liberi” il cui livello era in molti casi diventato insopportabile per i redditi delle famiglie medie). Si comprese poi, più generalmente, che la politica urbanistica non era sufficiente a governare le trasformazioni urbane se non era integrata da politiche attive, in grado di condizionare o promuovere, anche con strumenti finanziari, i comportamenti degli operatori privati, e di vincolare alle scelte urbanistiche la politica di bilancio dei comuni.

Vennero così introdotti alcuni utili strumenti. L’ equo canone, tendente a stabilire una sorta di “prezzo amministrato” delle abitazioni, tale da compensare l’investimento e il risparmio ma da non incidere eccessivamente sui redditi familiari. La programmazione dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa, nel cui ambito trovava finalmente posto il recupero degli edifici inutilizzati o degradati, che avrebbe dovuto assumere importanza crescente. La programmazione dell’attuazione dei piani regolatori mediante il programma pluriennale d’attuazione, che avrebbe dovuto consentire (e in molte zone d’Italia effettivamente consentì) di far convergere le risorse pubbliche e private nel processo di costruzione e trasformazione della città governandole nel tempo anziché solo nello spazio, e consentendo così che le strade e le fogne, le scuole e il verde, venissero programmati, progettati e realizzati in modo coordinato. Si stabiliva che gli oneri dell’urbanizzazione (e cioè le spese necessarie per realizzare effettivamente le attrezzature e i servizi previsti dalla normativa sugli standard urbanistici) venissero poste a carico dei realizzatori delle iniziative edilizie.

L’ambiente entranella pianificazione

E’ nel corso degli anni Settanta che è esploso, in Italia, l’interesse e la preoccupazione per l’ambiente. Preoccupazioni di carattere planetario e consapevolezza della limitatezza e irriproducibilità delle risorse territoriali si sono legate alle esigenze di maggiore qualità, di difesa di quelle (naturali e storiche) presenti nel nostro paese e nei suoi differenziati siti. Poiché la pianificazione urbanistica ha a che fare con il territorio, e questo è una delle componenti essenziali dell’ambiente, lo sviluppo dell’ambientalismo doveva incontrare l’urbanistica. In realtà, ambientalismo e urbanistica sono apparsi per un certo periodo due dimensioni diverse, a volta in opposizione tra loro. E d’altra parte bisogna riconoscere che l’urbanistica moderna si è foggiata, e ha formato i propri strumenti, in relazione alle esigenze di razionalizzazione in una fase di espansione. Ha avuto qualche difficoltà a riconvertire la propria “ideologia”, e i propri attrezzi, in una fase in cui l’esigenza dominante non era più quella della crescita delle grandezze fisiche, ma quella della tutela dell’ambiente e della riqualificazione delle urbanizzazioni consolidate.

L’ambientalismo, per conto suo, ha oscillato tra due tensioni estreme: da un lato, l’aspirazione a disegnare un sistema di valori radicalmente diverso da quelli precedenti, a partire dalla interpretazione del rapporto tra uomo e natura (uomo e creazione del mondo), e dalla lettura dei destini del sistema planetario; dall’altro lato, la difesa della singola realtà naturalistica, o ecologica, o culturale, in questo o in quell’altro luogo. Il movimento ambientalistico ha coniato lo slogan “pensare globalmente, agire localmente” per tentare una sintesi tra queste due visioni - la planetaria e la localistica - delle proprie tensioni. Gli è spesso sfuggito che la pianificazione si pone oggettivamente come il terreno più propizio per compiere tale sintesi.

Un primo passo per introdurre nella pianificazione urbanistica l’obiettivo della tutela dell’ambiente è avvenuto con la cosiddetta “Legge Galasso”, la 431 del 1985. Con questa legge si sono introdotti due rilevanti principi, gravidi di portata pratica. In primo luogo si è stabilito che erano meritevoli di tutela non solo singoli paesaggi eccezionali, ma l’insieme degli elementi caratterizzanti la “forma del paese”: la grande orditura del paesaggio Italiano, costituita dai monti e dalle coste, dai corsi d’acqua e dai boschi, dai vulcani e dai ghiacciai. In secondo luogo si è stabilito che sia questi elementi (rilevanti a livello dell’intero paese), ma anche quelli più minuti e circoscritti e locali (individuabili ai livelli regionale e comunale) dovevano essere tutelati attraverso la pianificazione ordinaria: inserendo, cioè, nei piani d’ogni livello, a partire da quelli regionali una “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.

Di più, il legislatore non poté o non volle dire. Del resto, dal 1970 erano state istituite le regioni a statuto ordinario, previste dalla Costituzione e cui questa affida le competenze legislative in materia di urbanistica, nell’ambito dei principi fissati dalla legislazione nazionale. Era alle regioni, quindi, che spettava il compito di arricchire, implementare e tradurre nel sistema della pianificazione i principi stabiliti dalla legge Galasso. Come al solito, alcune lo fecero, altre no. Tra quelle che lo fecero alcune si comportarono correttamente (e introdussero, nei loro piani e nella loro legislazione, elementi di effettiva difesa e valorizzazione delle qualità dell’ambiente) altre meno. Salvo poche lodevoli eccezioni, lo Stato non intervenne per sostituire le regioni inadempienti, come pure avrebbe potuto.

Ugualmente lo Stato non è intervenuto per stimolare l’attuazione di un’atra legge rilevante approvata in quegli anni, dopo alcuni decenni di lavoro di commissioni di studio: la legge per la difesa del suolo, approvata nel 1989. Con quella legge si è finalmente operata una sintesi tra due aspetti della questione ambientale, tra loro strettamente legati ma fino allora visti in modo settoriale: la difesa dei suoli dalle acque, e la difesa delle acque, risorsa indispensabile la cui qualità tende a deteriorarsi. I “piani di bacino” dovrebbero definire sia le condizioni che l’esigenza di tutelare la terra e l’acqua pongono alle trasformazioni urbanistiche (e quindi sono un input decisivo per la pianificazione ordinaria delle regioni, le province e i comuni), sia gli specifici interventi e opere che è necessario attuare per porre riparo alle situazioni di rischio e di degrado. La redazione dei piani di bacino procede però con lentezza esasperante.

La questione del“livello intermedio”

Fin dall’Ottocento, e per tutto il Novecento, la città ha cominciato ad espandersi sul territorio, coinvolgendolo nella propria rete di comunicazioni e relazioni ed esportandovi ciò che diveniva ingombrante. Le strade e le ferrovie, i sistemi di trasporto delle persone e delle merci avvicinavano sempre più paesi e città una volta separate da ore di percorso. Prima le fabbriche, poi gli ospedali e le carceri, i grandi centri commerciali e quelli di ricreazione e divertimento, le discariche e i depuratori, tutto ciò è venuto via via a occupare territorio. L’espansione delle città e dei paesi è avvenuta lungo le strade che li collegavano, e si è via via infittita: spesso si è trasformata in una continuità edilizia ha travalicato i confini comunali in quei luoghi in cui la città si è trasformata in metropoli. Oggi, ciascun cittadino soddisfa le proprie esigenze (dalla scuola alla salute, dal tempo libero al lavoro) in. ambiti spaziali che non coincidono più con il paese o il quartiere. Dal concetto di città siamo passati a quello di territorio urbanizzato.

Questa trasformazione oggettiva del modo in cui la società vive il territorio ha provocato il nascere di esigenze nuove, e della necessità di nuovi strumenti, per la pianificazione. Si è aperto così, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, il dibattito sulla pianificazione di “area vasta”. Si trattava in primo luogo di istituire le regioni, ma anche di individuare ambiti territoriali più ampi di quelli comunali ai quali applicare la pianificazione: ambiti caratterizzati soprattutto dal fatto che al loro interno i cittadini, per le loro esigenze quotidiane di spostamento dalla casa al lavoro o ai servizi gravitassero sugli stessi poli. E si trattava anche di individuare la dimensione territoriale e la soglia di popolazione nell’ambito delle quali determinati servizi potessero essere convenientemente organizzati. Per esemplificare, non è possibile organizzare gli insediamenti, il servizio di trasporto pubblico e la gestione dei rifiuti a Milano o a Napoli senza governare un ambito molto più vasto di quello del comune capoluogo. Così come non è possibile localizzare adeguatamente una scuola media o un inceneritore in un territorio che comprende molti comuni piccolissimi senza un coordinamento delle politiche urbanistiche che vincoli tutti alle medesime scelte.

Numerosi furono i tentativi compiuti. Si arenarono tutti su di un conflitto: quello tra l’organismo sovracomunale di pianificazione e i singoli comuni che ne facevano parte. Si comprese che il primo non avrebbe avuto autorità sufficiente se i suoi rappresentanti non fossero stati eletti direttamente. Che fare, allora? Aggiungere un ulteriore livello elettivo a quelli già previsti dalla Costituzione? Si scelse un’altra strada. Con la legge 142 del 1990, che ha definito il nuovo ordinamento degli enti locali, si è attribuita la competenza della pianificazione subregionale (e sovracomunale) alle province, e si è stabilità inoltre che, nelle aree nelle quali i flussi pendolari siano più intensi, le connessioni tra i comuni più ricche, la continuità urbana più accentuata, le province assumessero particolari poteri di gestione urbana (sottraendoli ai comuni), costituendo, in luogo della Provincia, la Città metropolitana.

Le città metropolitane non sono state costituite. Il farlo avrebbe comportato lo spostamento di equilibri di potere che le forze politiche non si sono dimostrate disponibili a governare. Le province, invece, hanno avviato (dove più, dove meno) un’attività di pianificazione molto difforme da regione a regione (essa infatti deve essere disciplinata con leggi regionali). E’ troppo presto per stenderne un bilancio. Anche perché, proprio negli anni in cui si ridefiniva l’impalcatura del sistema della pianificazione, il concetto stesso di pianificazione della città e del territorio veniva messo in crisi.

Tangentopoli, l’urbanistica contrattata e la delegittimazione dell’urbanistica

Parallelamente al formarsi di nuovi strumenti positivamente utilizzabili, si è sviluppata (a partire dagli anni Settanta, ma con un’esplosione nel decennio successivo) una tendenza di segno esattamente opposto: una vera e propria controriforma urbanistica che culminò con Tangentopoli. La pianificazione urbanistica fu screditata. Trionfò l’abusivismo. Una visione premoderna più che liberista cominciò a indebolire il potere pubblico; al primato dell’interesse collettivo si venne sostituendo quello dell’interesse di gruppi e di individui. Alla visione complessiva e strategica della città (propria del piano regolatore) furono preferite le decisioni caso per caso, progetto per progetto, proprietario per proprietario. Alla trasparenza delle procedure previste dalla legislazione urbanistica si preferì l’accordo diretto, la contrattazione, il do ut des (humus fertile per la corruzione). Senza modificare il quadro legislativo vigente, vi si introdussero strumenti con esso contraddittori: gli accordi di programma, i progetti urbani integrati ecc., il cui scopo era quello di scavalcare le procedure normali.

Il conflitto tra interessi proprietari e interessi generali della cittadinanza (il conflitto centrale nel governo della città) fu affrontato in termini esattamente capovolti rispetto a quelli tradizionali. L’urbanistica non fu più considerata come un insieme di tecniche e procedure finalizzate a disegnare il miglior possibile assetto nell’interesse collettivo, a definire quindi le regole alle quali (appunto nell’interesse della collettività) gli interventi dei singoli operatori dovevano subordinarsi. Essa divenne il terreno di contrattazione dell’amministratore (e del politico) con gli interessi forti: quelli della rendita, più che quelli del profitto.

Nacque così quella che venne definita (non sempre con un’accentuazione critica) urbanistica contrattata. Essa in ultima analisi può essere definita come la sostituzione, a un sistema di regole valide nei confronti di tutti, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta (e si è manifestata e continua a manifestarsi numerosissime circostanze) ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune [5].

Il danno provocato dall’estendersi dell’urbanistica contrattata (e, più in generale, dalla ricerca di scorciatoie rispetto alle regole della pianificazione urbanistica) è enorme. Ma della sua portata potremo renderci conto solo quando i suoi effetti si saranno manifestati nella realtà: come si sa, i tempi che separano le decisioni sul territorio dal manifestarsi dei loro effetti sulle concrete condizioni di vita dei cittadini sono molto lunghi. Gli errori dei padri li pagano i figli e i nipoti.

Critiche alla pianificazione tradizionale

Prima ancora che i fautori di un’urbanistica contrattata con i poteri forti si adoperassero per esautorare la pianificazione, nell’ambito stesso della cultura urbanistica era avviato un processo di critica e di revisione degli strumenti dell’urbanistica. Le critiche alla pianificazione tradizionale (quella, cioè foggiata e praticata in Italia sul ceppo della legge del 1942) toccavano diversi profili della questione.

Sotto un primo profilo si criticava (e si critica) la pianificazione per la sua scarsa capacità di rappresentare, mobilitare, governare la società. La si trovava, a questo fine inefficiente e confusa, poco convincente e poco esplicita come rappresentazione degli interessi vincenti. Per le medesime ragioni la si trovava incapace di mobilitare gli interessi che vorrebbe promuovere, e assolutamente inefficiente al fine di governare la società, nel senso di tradursi effettivamente in una serie di azioni che conducano alla realizzazione dell'assetto desiderato e promesso.

Sotto un secondo profilo si chiedeva alla pianificazione efficienza e tempestività nel dare le risposte necessarie ai problemi che essa intenderebbe risolvere. La lunghezza dei tempi che intercorrono dal momento in cui l'esigenza viene posta a quello nel quale essa viene avviata a soluzione sono tali che fuoriescono da qualunque schema di ragionamento economico. Per di più, è altamente improbabile che le previsioni della pianificazione si realizzino effettivamente, oppure si realizzino nei modi e nei tempi promessi.

Sotto un terzo profilo si chiedeva alla pianificazione di essere uno strumento di tutela dell'ambiente naturale e storico. La circostanza che la pianificazione tradizionale abbia a volte promosso, spesso tollerato e consentito, devastazioni delle qualità ambientali ha generato una comprensibile sfiducia nella sua capacità di essere utile a una politica ambientalista. Del resto, la scarsa efficacia del piano lo rende uno strumento poco affidabile anche quando di per sé (nelle scelte delle sue "carte") risponde positivamente all'esigenza ambientalista.

Le critiche avevano certamente un loro fondamento. Non tutte, però, potevano postulare soluzioni all’interno della disciplina dell’urbanistica. Così, il crescente divario tra urbanistica e società (sotteso al primo dei profili critici cui mi sono riferito) non era che un aspetto della più generale crisi della politica. Politica e urbanistica sono due discipline strettamente legate: c’è chi arriva a dire, non senza ragione che “l’urbanistica è una parte della politica” [6], e c’è chi lucidamente definisce il piano urbanistico “una scelta politica tecnicamente assistita” [7]. E se la politica ha smesso di proporre progetti alternativi di società, prospettive concorrenti per il suo futuro, e si è ridotta al mero esercizio del potere, quale ruolo di rappresentanza della società può mai svolgere la pianificazione urbanistica?

Più vicini al dominio dell’urbanistica sono gli altri due profili critici. Di essi si è tenuto conto, negli ultimi lustri, proponendo e sperimentando innovazioni consistenti al modo di definire e adoperare gli strumenti della pianificazione. Due sono, a mio parere, le direzioni più innovative e promettenti.

Due innovazioni

La prima innovazione ha a che fare soprattutto con il rapporto tra il piano urbanistico e il tempo. Essa si propone di risolvere la questione della eccessiva rigidità degli strumenti urbanistici (che rende il sistema delle scelte pubbliche incapace di seguire con la necessaria adattabilità i cambiamenti delle esigenze sociali, delle disponibilità economiche, delle opportunità politiche), e dell’assoluto disordine provocato dal tentare di raggiungere un’adeguata flessibilità con l’impiego di strumenti episodici e casuali (le varianti, le deroghe e gli altri espedienti via via inventati nel corso degli anni di Tangentopoli). In termini molto sintetici si può dire che la soluzione è stata proposta (a partire dagli anni Ottanta), e introdotta in alcune legislazioni regionali, basandosi sul presupposto che la pianificazione è ormai un’attività costante e sistematica delle pubbliche amministrazioni. Non si tratta insomma di fare, una volta ogni dieci o vent’anni, un Piano, ma di governare le trasformazioni territoriali con una pianificazione caratterizzata da continuità e sistematicità.

In questa logica, è possibile distinguere due tipi di scelte: quelle che hanno un carattere permanente, o comunque devono essere considerate valide in relazione a periodi lunghi (per esempi, le scelte relative alla tutela degli elementi fragili del territorio, alla salvaguardia delle qualità naturali e storiche, alle grandi decisioni di carattere strategico), e scelte che, viceversa, devono essere assunte in relazione ad esigenze e opportunità che possono variare notevolmente nel tempo. Ed è possibile definire e modificare le previsioni di piano relative al secondo ordine di scelte con procedure molto più snelle di quelle attuali. La distinzione tra il “piano strategico” o “strutturale”, e il “piano operativo” o “piano del sindaco”, che si è diffusa nella pubblicistica recente e in alcune legislazioni regionali, è espressione appunto di questa innovazione.

Una seconda innovazione rilevante riguarda, in qualche modo, il rapporto tra la pianificazione e lo spazio fisico. Quest’ultimo è stato generalmente considerato, nella pianificazione tradizionale, come un supporto generico e sostanzialmente omogeneo per l’urbanizzazione. Al territorio non era riconosciuta (se non in alcune esperienze significative perché eccezionali) una personalità propria: non era considerato come un insieme di valori e di risorse, di opportunità differenziate e di dissimulati rischi, che occorreva valutare con attenzione prima di qualunque previsione di trasformazione.

L’emergere delle preoccupazioni e delle esigenze dell’ambientalismo e dell’ecologismo ha contribuito ad attirare l’attenzione degli urbanisti su questo versante. Un impulso notevole all’introduzione, all’interno stesso dei procedimenti della pianificazione, di una nuova attenzione all’ambiente naturale e storico è stato dato con la legge 431 del 1985 (la cosiddetta Legge Galasso). Questa ha sostanzialmente orientato la pianificazione regionale (e, attraverso essa, anche quella dei livelli sottordinati, il provinciale e il comunale) ad attribuire agli strumenti della pianificazione ordinaria “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Da allora, dove più e dove meno, a volte in modo rigoroso altre volte in modo fittizio, badando più al contenuto dei piani o più alle loro denominazioni, si sono sperimentate soluzioni diverse, ma generalmente confluenti, per ispirare la pianificazione delle città e del territorio a un nuovo principio: le qualità naturali e storiche del territorio sono una ricchezza per questa e per le future generazioni; il territorio è sede di risorse limitate e non riproducibili, essenziali per la vita dell’umanità; trascurare questi caratteri del territorio provoca non solo sprechi e impoverimento, ma anche rischi gravi per l’economia e per la stessa vita degli uomini. Questa consapevolezza deve essere alla base di quelle scelte le quali, come la pianificazione, hanno l’obiettivo di governare le trasformazioni del territorio e renderle funzionali al sistema di obiettivi che la collettività si è data [8].

Sul modo in cui queste innovazioni stanno effettivamente cambiando il quadro degli strumenti utilizzati dall’urbanistica, sulle modificazioni che in tal modo possono manifestarsi nel quadro fisico e funzionale della vita dell’uomo e della società (la città e il territorio), occorrerebbe aprire un nuovo capitolo, la cui ampiezza non sarebbe conciliabile né con gli spazi né con i tempi assegnati a questo contributo.

Edoardo Salzano

[1] Per un racconto più ampio di ciò che è successo in Italia nell’ultimo mezzo secolo suggerisco la lettura del libro: Vezio De Lucia, Se questa è una città. Editori Riuniti, Roma 1992.

[2] Ada Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998, p.52.

[3] Ministero dei lavori pubblici, Commissione d’indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministra, on. Giacomo Mancini, Roma, 1966

[4] Una splendida descrizione del processo di privatizzazione del suolo urbano è costituita da: Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Vallardi, Milano 1951

[5] Un’analisi anche urbanistica di Tangentopoli à contenuta nel libro: P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco: Come e perché, Editori Riuniti, Roma 1995 .

[6] Leonardo Benevolo, , Le origini dell’urbanistica moderna, Bari, Laterza 199111

[7] Francesco Indovina, La città diffusa, in Aa.vv, “La città diffusa”, Daest, Venezia 1990.

[8] Ho trattato più ampiamente questo argomento, e altri contenuti in questo scritto, in: Edoardo Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Giuseppe Laterza Editori, Bari-Roma 1998.

La stagione è forse opportuna per riproporre il problema di quale debba essere il centro dell’azione e della riflessione dell’urbanistica: quel centro che, volta a volta, è stato visto nella razionalizzazione dei processi di uso del territorio o nella riforma del regime dei suoli, nelle conquiste ( e delusioni) sul terreno legislativo o nella pratica amministrativa e tecnica degli enti locali, nel ruolo delle regioni o nel nodo del “livello intermedio”.

In una fase in cui, per cambiare quel che c’è da cambiare, tutto è posto in discussione, è probabilmente opportuno partire da una base molto elementare, da una matrice indiscutibile: dall’affermare, cioè, che l’oggetto primordiale della nostra disciplina, al quale bisogna guardare con un’attenzione più marcata, e certo più incisiva e coerente, è il territorio, come realtà fisica nella quale è sedimentata e materializzata la storia della nostra civiltà e che costituisce non solo una primaria risorsa economica, ma la base stessa per la sopravvivenza, e per ogni possibile sviluppo, della nostra società.

A questa considerazione, molti eventi e molte esigenze, anche esterni, sollecitano. Le frane, gli smottamenti, le alluvioni, gli inquinamenti mortiferi (Severo) o morbosi (le metropoli, le fabbriche, i fiumi, i mari): i fatti, insomma, della vita e della cronaca quotidiana sono una prima indubbia sollecitazione in tal senso. Ma come non riconoscere e ricordare che l'impegno per la preservazione della base materiale della nostra esistenza è il portato della “tradizionale” cultura urbanistica italiana (quella dei Piccinato, dei Detti, degli Astengo)? Che gli effetti che oggi registriamo sono la derivazione immediata di cause lucidamente indicate, e combattute dai protagonisti della storia del nostro stesso istituto?

E c'è una seconda sollecitazione che spinge nella medesima direzione. Essa sta nel fatto che oggi, nel clima di diffusa sfiducia verso i temi e i modi più tradizionali dell'azione politica, una delle poche spinte sociali che esprimono una resistenza e una reazione nei confronti delle tendenze al riflusso verso il “privato” o al ripiegamento verso il “corporativo”, è quella che si manifesta nelle azioni e rivendicazioni e proteste e proposte sul tema dell'ambiente e della sua difesa: una spinta aggregante che va al di là delle pur rilevanti formazioni e organizzazioni ecologistiche. Le esigenze in tale direzione espresse, nelle quali è riconoscibile la vitale attenzioni di nuovi strati sociali verso il territorio, sono davvero distanti dalla nostra disciplina?

Ancora. È chiaro a tutti (fuorché ad alcuni “potenti”) che l'era dell'espansione è terminata. Ed è chiaro a noi che il tema determinante è oggi quello di «legare e cucire» (come scrive Bernardo Secchi); quello insomma di recuperare e riutilizzare e ricomporre case e infrastrutture, centri antichi e periferie moderne, tessuti degradati e tessuti sbrindellati. Ebbene, il recupero va limitato ad alcune “aree” o “zone”, è il contenuto di alcuni piani, o deve diventare il parametro essenziale dell'insieme della nostra azione? E non è allora il territorio in quanto tale, nella sua specificità fisica, storica, economica, sociale, nella sua unità strutturale e nelle differenze delle sue connotazioni e delle sue “densità”, a dover essere l'oggetto primario di ogni analisi e il punto di partenza di ogni progettazione della “città futura”?

Un'ultima considerazione. È viva l'esigenza (ne parlerà il presidente dell'Inu nella relazione al congresso di Genova) di ribadire e rafforzare l'autonomia dell'istituto dai partiti (come dai sindacati, dalle accademie e dalle altre organizzazioni e dimensioni della società). Ed è ovvio che questa autonomia ha un senso, ed è feconda di risultati anche sulla politica e sui partiti, se essa è l'espressione di un punto di vista, di un approccio alla realtà, di una dimensione dei problemi che sia propria della nostra disciplina, e a cui questa sia in grado di offrire sbocchi di analisi e di proposte. Dove ha sede, però, la matrice della distinzione che non ci oppone, ma ci distingue dalla politica e ci colloca con essa in posizione dialettica?

Sta, forse, nel fatto che la politica, in democrazia, è fortemente condizionata dalla ricerca del consenso, ed è quindi prevalentemente tesa alla conquista del consenso, ed alla soddisfazione delle esigenze, che si manifestano qui e oggi. Mentre, viceversa, l'urbanistica, proprio perchè ha quale proprio centro ed oggetto la difesa e valorizzazione e trasformazione del territorio secondo modi che non lo neghino ma ne esaltino le qualità, impone ed esige di guardar lontano e avanti: pretende la lungimiranza di chi, per mestiere, sa che occorre salvaguardare oggi e prevedere oggi, per rendere possibili condizioni di vita domani, esigendo la vista su un domani anche lontano.

Con un po’ d'ambizione, e con molto schematismo potremmo dire che la politica si occupa soprattutto degli uomini di oggi, e l'urbanistica soprattutto degli uomini di domani; e ciò proprio perchè essa si occupa di quel particolare oggetto che è il territorio come sede della vita e dell'attività degli uomini del presente e del futuro. È allora il caso, anche per questo, di occuparsi in modo più attento dell'oggetto (vorrei dire del protagonista) della nostra disciplina. E non sarebbe male proporci l’impegno di redigere, pubblicare, divulgare (e tentare di rendere efficace) una carta dei diritti del territorio): che, alla fine, coinciderebbe con la carta dei diritti dell’uomo di domani.

In calce il sommario del numero speciale "In fondo ai Fori"

Era archeologo. Scrisse: “Il bello dell’archeologia è che la scoperta di un oggetto antico (qualora non si sia dei retori crepuscolari in cerca di assurde evasioni) è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perchè dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d’aver perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria”. Credo che in questo pensiero, contenuto in un suo scritto del 1951[1], ci sia la chiave del suo percorso: la ragione del suo diventare, da archeologo, combattente per la difesa delle risorse del territorio, giornalista e urbanista.

Come archeologo aveva compreso che la terra che calpestiamo, coltiviamo, abitiamo è un deposito di storia: contiene le radici del nostro essere partecipi della civiltà cui apparteniamo, rappresenta il mondo che è dentro di noi perchè è venuto prima di noi, e che dobbiamo trasmettere al futuro, ai nostri eredi. Il territorio era un valore inestimabile, ma veniva trattato come se fosse solo un’entità geometrica: mero recipiente neutrale per la costruzione di oggetti spesso privi di qualunque giustificazione, quasi sempre disposti con rozzezza. L’espansione disordinata delle città che avveniva in quegli anni (gli anni dei Vandali in casa e dei Brandelli d’Italia) trasformava le campagne e i paesaggi in una “repellente crosta di cemento e asfalto”. Un meccanismo mostruoso era in moto, distruggeva valore trasformandolo in merce, macinava bellezza e storia, minacciava la salute e la qualità della vita per produrre rendita nelle tasche degli speculatori e dei loro scherani.

Con l’indignazione, cresceva in Cederna la volontà di comprendere: per denunciare, con la rabbia del giusto, ma anche per ammaestrare, per spiegare come si poteva fare, come si era fatto e si faceva altrove, per evitare gli errori e gli scempi, per soddisfare le esigenze del presente senza sacrificare né passato né futuro.

Dal risvolto positivo della sua indignazione nacque così il suo interesse per l’urbanistica:

"La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese"[2].

Roma era al centro della sua passione. Lì raggiungevano il più alto livello sia il valore del lascito storico sia l’aggressiva ferocia della speculazione immobiliare:

"Distruzione di monumenti antichi e rovina del loro ambiente, sventramento di antiche città, trasformazione in sordidi agglomerati di cemento di colli, parchi e campagne, tali e non altri sono i risultati dell’attività della Società generale immobiliare. Ad essa manca qualunque principio urbanistico, che sia minimamente organico e unitario: suo unico scopo, al pari di qualunque piccolo affarista, è di sfruttare al massimo i propri terreni: un po’ poco, se si pensa alla prosopopea con cui essa presenta i suoi progetti, alla rispettabilità cui essa tiene e alla grande considerazione in cui è tenuta dai più. Guardiamo Roma. I mille tentacoli di questa piovra agiscono indipendentemente da qualunque visione generale: sia che costruisca a Monte Mario, sulla Trionfale, sulla Camilluccia, sulla Cassia, sulla Casilina, sulla Tuscolana, sull’Appia Antica, sull’Ardeatina o sulla C. Colombo, l’Immobiliare non fa che stirare ciecamente Roma in tutti i punti cardinali, e quindi realizzare trionfalmente l’espansione della città a macchia d’olio, incrementando paurosamente e rendendo cronica l’anarchia, stabile il caos e il fallimento dell’urbanistica romana"[3].

Implacabile è Cederna nel denunciare, oltre ai promotori delle devastazioni sistematiche del centro storico e della campagna romana, dei beni culturali e della vivibilità, anche i poteri pubblici inetti e i loro accomodanti tecnici (memorabile in proposito è la poesiola “A un architetto impegnato” che apre Brandelli d’Italia). A loro spetterebbe il compito di esprimere l’interesse generale di tutelare i valori comuni e di rendere civile la città, di dotarla di una struttura funzionalmente idonea (perciò la sua difesa tenace della strategia del Sistema direzionale orientale e della liberazione del centro storico dalle attività amministrative), di arricchirla di verde pubblico come tutte le grandi città europee, di commisurare l’invasione dell’Agro allo stretto fabbisogno indispensabile di nuove urbanizzazioni.

E a loro, ai politici e ai tecnici che tradivano la propria missione, si rivolgevano le sue più laceranti staffilate. E’ facile pensare alle espressioni che riserverebbe oggi a chi si propone di rendere urbanizzabili, senza alcuna necessità, 16mila ettari di Agro romano per rispettare inesistenti “diritti edificatori”

[1] “Il tempio sotto il melo”, ora in Antonio Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton editori, Roma 1991, pp. 17-23.

[2] A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, p. 18.

[3]A. Cederna, “Il leviatano Immobiliare”, in Il mondo, 26 giugno l956, ora in A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, pp. 411-412.

Sommario

del numero speciale di Carta Qui

"In fondo ai Fori"

Cederna, Petroselli il progetto dei fori [ Vezio De Lucia]

Lo chiamavano Tonino [ Giuseppe Cederna]

Le invasioni barbariche [ Edoardo Salzano]

Il triste destino della "sua" terrazza [ Italo Insolera]

Il foro nel parco [ Cartaqui]

La città è come un'infezione in mano ai trafficanti di suolo urbano [ Paolo Berdini]

Chi strangola il parco dell'Appia [ Anna Pacilli]

Il disegno della città non si fa a pezzi [ Antonello Sotgia]

Caro Rutelli, e il parco? [ Antonio Cederna]

Non ha suscitato grande attenzione la presentazione di alcune proposte di legge in materia di governo del territorio (dall’on. Lupi e altri per la “ Casa delle libertà” e dall’on. Mantini e altri per la Margherita). Siamo molto lontani dal clima degli storici dibattiti sulla “ riforma urbanistica”, che investivano l’intera società. Del resto, non di riforma si tratta, ma di piccoli aggiustamenti. Spesso su punti di un certo rilievo. Spesso con soluzioni pessime.

Cominciamo dalle definizioni. Non si tratta più di “ urbanistica”, ma di “governo del territorio”. Per la proposta Lupi il governo del territorio consiste nella disciplina degli usi del suolo e della mobilità, nel rispetto della tutela del suolo, dell'ambiente e dei beni culturali e ambientali” (art.1, c. 2). Per Mantini, il governo del territorio “disciplina la gestione, la tutela, l'uso e le trasformazioni più rilevanti del territorio nonché la valorizzazione del paesaggio” (art. 1, c.2). Un po’ meglio Mantini, che – almeno a livello di definizione – inserisce la “tutela” (solo delle “trasformazioni più rilevanti”) e il “paesaggio” (ma solo la “valorizzazione”) tra gli aspetti da disciplinare; per Lupi si tratta schiettamente di altre cose, da “rispettare”.

Vale la pena di ricordare la classica definizione di urbanistica, elaborata da Massimo Severo Giannini e inserita nel decreto presidenziale 616 del 1977. Allora (altri tempi, altra Repubblica, altra cultura) si definiva l’ urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente” (art. 80). Una definizione ben più comprensiva e ampia.

Ma entriamo nel merito. Cominciamo dalla proposta della “Casa delle libertà”. Quattro aspetti mi hanno soprattutto colpito.

Il primo. Secondo Lupi la pianificazione del territorio avviene “sentiti i soggetti interessati” (art. 3, c. 2). Si precisa che “le funzioni amministrative” (la pianificazione) “sono svolte in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati ai quali va riconosciuto comunque il diritto alla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti” (c. 3). Fino ad oggi il piano urbanistico esprimeva la volontà ; dell’amministrazione elettiva, e solo dopo veniva sottoposta al parere dei privati. Adesso il procedimento è invertito: il piano è redatto sulla base delle espressioni di volontà dei “soggetti interessati”. Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di “soggetti intere ssati” ci si riferisca alla cittadina e al cittadino? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare.

Il secondo. Per la proposta Lupi “Le regioni individuano gli ambiti territoriali da pianificare e l’ente competente alla pianificazione” (art. 4, c. 1). Fino a oggi l’ambito e l’ente competente erano quelli dei comuni, della cui competenza a pianificare nessuno aveva mai dubitato. In nome dell’efficienza ci si propone di affidare alle regioni la facoltà di annullare una delle fondamentali storiche competenze dei comuni. E’ lecito sollevare dubbi molto seri su questo modo (è costituzionalmente corretto) di modificare la corrispondenza tra assetto istituzionale e titolarità della pianificazione urbanistica.

Il terzo. L’attuazione del piano urbanistico (è il titolo dell’ ;articolo 7) configurata dalla proposta Lupi non può essere illustrata in poche righe. Mi limito a osservare che, assumendo in pieno le posizioni in proposito dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, la “Casa delle libertà” sollecita l’impiego di “strumenti e modalità di perequazione e di compensazione” (art. 7, c. 2), e propone di introdurre per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di “diritti edificatori” i quali vengono attribuiti dal piano urbanistico nei modi che dovranno essere regolamentati dalla regione. Ciò palesemente significa ribadire e rafforzare i poteri della proprietà immobiliare. Tutta la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel sostenere che nessun “diritto edificatorio” (termine comunque assolutamente improprio, dicono i giuristi, perché non di un diritto si tratta ma di facoltà) viene attribuito da una scelta del piano urbanistico, e che quindi perequazioni e compensazioni possono essere strumenti utili dal punto di vista pratico (e come tali furono già introdotti dalla legge 1150/1942 e dalla 765/1967). Stabilire oggi per legge che i piani attribuiscono quel diritto significa quindi conferire alla proprietà fondiaria un peso che il diritto non le aveva mai riconosciuto 1 . Ma questo, evidentemente, è coerente con quel poco di impostazione “culturale” comune che le variegate componenti della “Casa delle libertà” possiedono.

Il quarto. La proposta Lupi prevede che il proprietario di un’area destinata a servizi pubblici (un parco, una scuola, un ospedale) può chiedere al comune “la realizzazione diretta degli interventi d’ interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’ amministrazione per la gestione dei servizi” (art. 7, c. 5). La questione dell’attuazione delle previsioni relative alla realizzazione e gestione degli spazi pubblici è certamente questione complessa, nell’ambito della quale il concorso dei privati nella gestione (e magari nella realizzazione) di certi impianti e attrezzature può utilmente essere configurato. Affrontata in modo così grezzo e semplicistico la proposta ha un solo significato, sintetizzabile in una frase: prosegue la marcia verso la privatizzazione di tutto ciò che, dopo la rivoluzione borghese del 18° secolo, si era mano a mano affidato al pubblico ne l corso dei successivi due secoli, per correggere le storture di un sistema imperfetto. Così, del resto, si sta procedendo nel settore del patrimonio pubblico esistente e dei beni culturali 2.

Questi sono allora, in sintesi, le tendenze più rilevanti (e i rischi più gravi) che si manifestano nella proposta di legge della “Casa delle libertà”: indebolimento del potere pubblico nei confronti dei privati e, in particolare, della proprietà immobiliare; devoluzione particolarmente ampia del governo del territorio al livello regionale; scissione della forma di governo che si esprime con la tutela da quella che si esplicita con le trasformazioni.

Non sono molto diverse le critiche che si possono muovere alla legge presentata dai deputati della Margherita (primo firmatario l’on. Mantini), sebbene in essa non manchino spunti interessanti e una certa maggiore dignità.

Cominciamo dalla questione, davvero centrale, del rapporto tra pubblico e privato. La proposta Mantini afferma che “il governo del territorio è ispirato al rispetto degli interessi pubblici primari indicati dalla legge e al perseguimento dell'interesse pubblico concreto individuato attraverso il metodo del confronto comparato tra interessi pubblici e privati” (art. 5, c. 2). Leggiamo la relazione per comprendere meglio. A proposito del “confronto comparato tra interessi pubblici e privati” vi si afferma: “Si evidenziano, in tal modo, la natura inevitabilmente pubblicistica della funzione e, nel contempo, la flessibilità e l'articolazione dei mezzi e degli strumenti (urbanistica negoziale, programmazione partecipata, società di trasformazione urbana, eccetera) superando gli anacronistici caratteri di unilateralità e di autoritativa tipici degli atti urbanistici tradizionali”. Il punto è che gli strumenti cui si riferisce (urbanistica negoziale, programmazione partecipata) sono i veicoli attraverso i quali non interviene nelle scelte un generico “ ;privato” (cittadina o cittadino, associazione o comitato portatore di interessi diffusi), e neppure un generico “privato economico” (operatori finalizzati alla realizzazione di impianti produttivi di merci o di servizi), ma quello specifico “privato economico parassitario” che, in Italia, è l’unico storicamente presente nelle “ negoziazioni” e “partecipazioni” in materia di trasformazioni urbane e territoriali. Possibile che non sappiano questo, l’on. Mantini e i suoi colleghi co-firmatari della proposta di legge? Evidentemente non lo sanno, dato che insistono su questa linea.

Nell’articolo che si riferisce alla “partecipazione al procedimento di pianificazione” la proposta Mantini distingue due categorie di soggetti: le “associazioni economiche e sociali” da una parte, e dall’altra parte i “cittadini” e le “associazioni costituite per la tutela di interessi diffusi”. Ma mentre per le prime si prevede “il coinvolgimento […] in merito agli obiettivi strategici e di sviluppo da perseguire”, per le seconde ci si limita ad assicurare “le forme di pubblicità e di partecipazione […] in ordine ai contenuti degli strumenti” di pianificazione(art. 7, c. 1). Due pesi e due misure, insomma. La Confedilizia, ad esempio, sarà “coinvolta” nella definizione delle scelte strategiche sullo sviluppo, la povera Legambiente, invece, sarà informata dei “contenuti” del piano.

Ma non basta. Per garantire ulteriormente gli interessi economici tradizionali, si propone di prescrivere che “nell'ambito della formazione degli strumenti che incidono direttamente su situazioni giuridiche soggettive deve essere garantita la partecipazione dei soggetti interessati al procedimento, attraverso la più ampia pubblicità degli atti e dei documenti comunque concernenti la pianificazione, assicurando il tempestivo e adeguato esame delle osservazioni dei soggetti intervenuti e l'indicazione delle motivazioni in merito all'accoglimento o meno delle stesse”.

Chi sono i soggetti sulla cui “situazione giuridica soggettiva” il piano può incidere? I giuristi rispondono: i proprietari immobiliari. Per questi è definita, ope lex Mantini et alii, una corsia privilegiata. I loro interessi non sono tutelati solo, come oggi spesso avviene, dall’assessore compiacente o dal funzionario infedele, ma dalla stessa legge!

Un interessante risvolto è costruito dall’articolo che si riferisce agli “accordi con i privati”. Si afferma che “gli enti locali possono concludere accordi con i soggetti privati, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell'atto amministrativo e attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi, al fine di recepire negli atti di pianificazione proposte di interventi, in attuazione coerente degli obiettivi strategici contenuti negli atti di pianificazione e delle dotazioni minime di cui all'articolo 9, la cui localizzazione è di competenza pubblica” (art. 8, c. 1).

Questo dovrebbe significare che i proprietari immobiliari (ciascuno dei quali non è certo in condizioni di concorrenza, poiché è proprietario di un unico bene, ben individuato e definito) sono esclusi dagli “accordi”. Eccezione rispetto a una linea compiacente con gli interessi immobiliari? Errore?

Anche la proposta Mantini separa nettamente il governo delle trasformazioni da quello delle tutele. Si comincia dall’esercizio delle funzioni statali: precisamente, dal contenuto delle decisioni territoriali dello Stato attraverso “l’identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale” (DPR 616/1977).

Queste riguardano unicamente la “articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, dei principali interventi ambientali e di trasformazione mineraria” nonché la “promozione di programmi innovativi in ambito urbano che implicano un intervento coordinato da parte di diverse amministrazioni dello Stato e sono dichiarati di interesse nazionale” (art. 2, c. 1).

Del tutto “separate”, fin dal titolo dell’ articolo 3 che le concerne, le tutele. “Le competenze degli enti parco, delle autorità di bacino, delle sovrintendenze com petenti per i beni storico-artistici e ambientali nonché dei soggetti titolari di interessi pubblici incidenti nel governo del territorio sono definite dalla legislazione statale e regionale ed esercitate in raccordo con gli atti di pianificazione di cui alla presente legge, con l'obiettivo di coordinare, attraverso sedi di co-decisione e intese procedimentali, le tutele settoriali con gli atti di pianificazione urbanistica e territoriale”. Separate, e ovviamente “raccordate”: il che significa nulla (art. 3, c. 1).

Sviluppo da una parte, insomma, tutele dall’altro. Questa separazione è la negazione della pianificazione; è il contrario della sintesi necessaria per trasformare tenendo conto dell’insieme delle esigenze; è una delle cause dell’inefficacia delle scelte, paralizzate dai veti che nascono quando, ad esempio, un traforo per un’infrastruttura o il tracciato di un’altra minacciano una risorsa idrica o una foresta preziosa o un rilevante paesaggio rurale. I conflitti che nascono a posteriori sono evitabili unicamente da quella negoziazione a priori tra gli interessi collettivi in cui risiede la pianificazione territoriale (e la politica).

L’on. Mantini e i suoi colleghi si sono resi conto del problema, e hanno tentato di risolverlo in un successivo articolo; ma non ci sono riusciti. A proposito di “concertazione istituzionale” propongono infatti di stabilire che “ gli atti di pianificazione sono approvati da parte dell'ente competente previa certificazione e verifica di compatibilità con il sistema dei vincoli di natura ambientale e paesaggistica” (art. 6, c. 2). Come avviene però la verifica di compatibilità? “Le verifiche di compatibilità e di coerenza, ove comportino conflitto di previsioni, sono svolte attraverso una apposita conferenza di pianificazione, con la partecipazione degli enti pubblici competenti e dei soggetti concessionari dei servizi pubblici interessati”. Bene. Allora, se il titolare di un interesse ambientale e paesaggistico vuole opporsi a una decisione in contrasto con il bene protetto può farlo? No. Il medesimo comma prosegue e stabilisce che “le decisioni relative al mutamento degli assetti vigenti sono assunte, in difetto di unanimità, a maggioranza dei soggetti partecipanti” (art. 6, c. 3).

Una novità interessante che la proposta Mantini vuole introdurre riguarda le zone agricole. Mantini e i suoi co-firmatari propongono di prescrivere che “il territorio non urbanizzato è edificabile solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente” (art. 8, c. 1). Affermazione giustissima, ma timida. Le opere e le infrastrutture pubbliche sono tra le trasformazioni che più, e spesso più inutilmente, hanno devastato i paesaggi naturali e rurali nel nostro paese (non così in moltissime altre regioni d’Europa). Tra i “servizi per l’agriturismo” legislatori regionali distratti o compiacenti potrebbero includere tutto, e molto potrebbero lasciar passare tra “servizi all’agricoltura” accompagnati da leggi derogatorie sulle conversioni d’uso (quanti magazzi ni e depositi agricoli sono stati legittimamente convertiti in discoteche?). Forse è arrivato il momento di prescrivere che il paesaggio rurale deve avere lo stesso livello di protezione che, negli anni Sessanta, cultura e opinione pubblica riconobbero necessari per i centri storici.

Per concludere. Nonostante le indubbie differenze (tra queste merita d’ essere segnalata l’impostazione corretta che la proposta Mantini formula per la perequazione e le compensazioni), tra le due proposte si colgono numerosi elementi di omogeneità culturale, riconducibili in parte alle posizioni dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, in parte alla nevrosi federalista che da tempo colpisce la maggioranza del Parlamento italiano. Stupisce che nessuna delle formazioni politiche della sinistra (né il DS, né Rifondazione comunista, né i Comunisti italiani, né i Verdi) abbiano, se non anticipato, almeno reagito con una proposta alternativa.

L’INU, dopo il Sessantotto

A Napoli, nel novembre 1968, la contestazione studentesca aveva travolto “l’istituto d’alta cultura eretto in ente morale”. Mentre Bruno Zevi e Mario Fiorentino, Giuseppe Samonà e Luigi Piccinato e gli altri dirigenti dell’INU aprivano il 12° Congresso nazionale, alla presenza delle consuete Autorità (Ministro e Sindaco, Vescovo e Prefetto), ecco che gli studenti delle facoltà di architettura rivestivano la sala di manifesti beffardi, invadevano il palco, e infine lo sommergevano con un lancio di rotoli di carta igienica adoperata a mo’ di stelle filanti. Qualche Autorità, prudentemente eclissatasi dalle quinte del Teatro della Mostra d’oltremare (dove si svolgeva la cerimonia), aveva allertato la polizia: la Celere irruppe dal fondo della sala, con elmetti e manganelli. Giuseppe Campos Venuti, già allora autorevole membro dell’INU, balzò sul palco, afferrò il microfono e scongiurò la polizia di non picchiare gli studenti, “questi nostri figli ed allievi”.

Si chiuse allora una fase della vita dell’INU. I rotoli di carta igienica della contestazione studentesca avevano seppellito (sembrava per sempre) l’INU legato da rapporti di collaborazione professionale e di consulenza critica ai ministri e ai ministeri. Del resto, ogni speranza di riforma urbanistica era scomparsa, e con essa il legame ideale che connetteva figure culturali e professionali diverse.

Una nuova fase

Ma una nuova fase si aprì. Un piccolo gruppo di soci (Edoardo Detti e Marco Romano, Sandro Tutino e Vincenzo Cabianca) riprese a tessere la tela di una proposta culturale e politica. L’interesse si spostò dai rapporti di collaborazione con le autorità, nel tentativo di convincerle ad impostare una politica urbanistica moderna, all’attenzione verso il variegato campo delle forze sociali che animavano la vita politica e culturale dell’Italia di quegli anni. Gli urbanisti ai quali ci si rivolgeva per coinvolgerli nella ricostruzione dell’istituto erano più i giovani e i tecnici delle amministrazioni pubbliche, che i professori e i professionisti. L’elaborazione si rivolgeva più alla definizione di piattaforme di interpretazione e proposta politico-culturale comprensibile ai nuovi interlocutori sociali (sindacati operai, amministrazioni locali, “forze di base”). Il tema che cominciava ad affiorare era quello dello “sfruttamento capitalistico del territorio”: della sua analisi e denuncia, dell’individuazione di alternative praticabili.

L’apertura ufficiale della nuova fase fu il convegno che si svolse a Bologna, nel 1970. Il tema era “Il controllo pubblico del territorioper una politica della casa e dei servizi”. Me ne raccontò Vezio De Lucia, giovane architetto del ministero dei lavori pubblici, con cui dividevo una stanza al Servizio studi e programmazione del Ministero dei lavori pubblici (facevamo parte entrambi, lui come funzionario io come contrattista, di una task force messa su da Marcello Vittorini, nel tentativo di imprimere una svolta riformatrice al ministero di Porta Pia). Vezio, sconosciuto ai membri dell’INU, aveva fatto a Bologna un intervento che era piaciuto molto: argomentava il valore e il significato del ruolo pubblico dell’urbanista. Era stato cooptato nel gruppo dirigente ed eletto membro del nuovo consiglio direttivo nazionale.

“Da che parte sta l’INU?”

Un giorno, reduce da una riunione del direttivo dell’INU, mi raccontò di un evento che aveva scandalizzato i suoi colleghi ma al quale non sapevano come reagire. La seziona campana dell’INU (una delle poche allora esistenti) aveva eletto suo presidente un professionista (l’avvocato D’Angelo) noto per aver difeso un gruppo di speculatori immobiliari contro il Comune di Napoli. “Perché non intervieni sull’ Unità?”, mi chiese (allora avevo facile accesso al quotidiano del PCI). Scrissi una nota, nella quale sottolineavo la contraddizione tra un INU che, a livello nazionale, si rinnovava nel segno di una maggiore radicalità nella critica e nella proposta, riferendosi a interlocutori nuovi rispetto all’ establishment governativo, e che invece, a livello locale, si presentava addirittura come portavoce di interessi economici totalmente agli antipodi sia di quelli tradizionali che – a maggior ragione – di quelli nuovi. “Da che parte sta l’INU?”, titolava la redazione dell’ Unità il mio pezzo, pubblicato con evidenza al piede della terza pagina.

Al gruppetto dirigente dell’INU la mia uscita piacque molto. Edoardo Detti, che allora e per molti anni ne fu l’amatissimo presidente. Incaricarono Vezio di chiedermi se ero disposto a fare l’”ufficio stampa” dell’INU (senza risorse, s’intende). Dopo un incontro con il Consiglio direttivo, preparai un documento nel quale proponevo una piccola iniziativa editoriale, semplice e anzi povera nella forma, ma costruita e gestita insieme a un ventaglio ampio d’interlocutori: quelle “forze di base” alle quali allora si rivolgeva l’attenzione dell’INU. Avrebbe dovuto essere una pubblicazione capace di informare, formare e mobilitare: attivare interessi, iniziative, relazioni soprattutto tra gli “utenti della città”. La proposta fu approvata, l’INU si impegnava senz’altro su quella strada (quanto alle risorse, poi si sarebbe visto).

Partiamo da soli

Cominciai un laborioso percorso di ricerca di consensi. I sindacati in primo luogo: erano loro che avevano ripreso lo scontro, a livello nazionale, sui temi della città e del territorio, con lo sciopero generale del 19 novembre 1969. La CGIL e la CISL si rivelarono subito interessati, ma guardinghi, soprattutto nei riguardi della collaborazione con altre strutture. Poi l’ARCI e l’UISP, due organizzazioni sociali dedicate ad iniziative associative sul terreno della ricreazione e dello sport, entrambe impegnate agli argomenti che erano al centro della nostra attenzione: come mobilitare gli utenti della città per migliorarne le condizioni. E l’Unione donne italiane, organizzazione che si era battuta con grande maturità sulle questioni della città e dei servizi, ed era stata tra le forze che avevano spinto perché si arrivasse al “decreto sugli standard” del 1968. Con le cooperative facemmo una scelta prudente: scegliemmo di assumere come interlocutore la cooperazione di consumo, non quella di produzione: ci sembrava più pertinente al nostro campo d’azione. Infine, le rappresentanze degli enti locali: l’ANCI era troppo “parlamentarizzata” per poter offrire spazi significativi alla nostra azione, preferimmo l’associazione delle amministrazioni della sinistra, la Lega per le autonomie e i poteri locali.

I colloqui furono positivi. L’interesse dei nostri interlocutori vivo. Ciò che era del tutto assente erano le risorse: non solo quelle finanziarie, perfino le persone fisiche con le quali incontrarci e preparare il progetto erano un problema. Eccetto Bruno Roscani, della CGIL, che seguì sempre in modo realmente fraterno il mio sforzo, gli altri erano tutti sopraffatti dai problemi e dai compiti delle rispettive organizzazioni (tutte poverissime e basate sul volontariato: lì non arrivavano soldi né da Mosca né da Tangentopoli).

Riferii al Consiglio direttivo. La risposta fu: partiamo da soli. Con qualche amico (soprattutto Vezio) preparai un progetto molto artigianale, una struttura articolata di argomenti e rubriche, un menabò e un progetto grafico, una rete di collaboratori. La proposta fu discussa, approvata. Partimmo. Si riuscì a racimolare una piccola somma per un incarico di collaborazione nel suolo di segreteria di redazione che fu svolta (insieme a Giulio Tamburini) da Laura Falcone Ferrari.

Gli obiettivi della nuova rivista

Nacque così Urbanistica informazioni. L’obiettivo primario e istituzionale era quello di dar voce all’INU. La rivista ufficiale, Urbanistica, era in crisi profonda. Giovanni Astengo, fondatore ed artefice (con il mecenate Adriano Olivetti) della prestigiosissima rivista italiana di urbanistica, non riusciva a risolvere la pesantissima situazione debitoria e a far uscire gli elaboratissimi fascicoli con una qualche continuità. La nuova pubblicazione non doveva in alcun modo contrapporsi alla maggiore: secondo l’espressione di Detti doveva essere “un bollettino”. Ma la strategia politico-culturale che l’Istituto aveva scelto richiedeva che si facesse qualcosa di più che informare i soci delle iniziative, dei documenti e delle posizioni dell’INU.

Le finalità erano espresse nell’editoriale del numero 1 (gennaio 1972). Esse erano al servizio della nuova linea culturale dell’Istituto, la quale

si caratterizza per alcune scelte fondamentali. In primo luogo, il rifiuto di un collegamento con le forze dirigenti del paese che si riduca alla ricerca di accordi ai vertici governativi e ministeriali, e l'impegno, invece, a porsi come strumento di stimolo e di servizio nei confronti delle classi lavoratrici, delle forze popolari, delle organizzazioni che le esprimono e le rappresentano, delle istanze sociali di base. In secondo luogo, il rifiuto di ogni collegamento - che non sia quello della critica e dello scontro aperto - con le forze, i gruppi e le persone che tendono a utilizzare il territorio come luogo sul quale operare, in forme vecchie o nuove, per lo sfruttamento sull'uomo, per l'appropriazione individualistica o aziendalistica, o per la dilapidazione, delle risorse della collettività. In terzo luogo, il superamento della tradizionale concezione « liberal-professíonitica » del ruolo dell'urbanista, e quindi la sollecitazione e il sostegno al formarsi di strutture tecniche pubbliche e democraticamente controllate per la gestione del territorio, a livello dei comuni, dei comprensori, delle regioni e degli organi centrali dello stato. In quarto luogo, infine, l'impegno all'approfondimento dell'analisi scientifica dei feno- meni che si manifestano sul territorio, delle forze che li determinano, delle alternative proponibili.

Nel quadro di questa linea, e degli strumenti necessari per costruirla, Urbanistica informazioni assumeva come suoi obiettivi essenziali quelli di

fornire ai suoi lettori un panorama, il più completo possibile, degli avvenimenti che più incidono sull’assetto territoriale e urbanistico del paese, di raccogliere e render note le prese di posizione degli organi dell'Istituto, di attivare il lavoro delle sezioni regionali, di facilitare il raccordo, attorno a queste, dei sociali e degli enti locali che operano nella nostra stessa direzione.

Priorità all’informazione

La strada che si scelse fu insomma quella di una informazione a tutto campo: ricca nel numero degli eventi riferiti, e perciò sintetica nell’esposizione; rivolta a informare su ciò che avveniva in tutti i luoghi, non solo sugli avvenimenti del Palazzo; non dedicata solo né primariamente agli aspetti tecnici e “disciplinari” ma soprattutto a ciò che modificava i poteri e i modi di vivere. Una informazione utilizzabile dagli urbanisti, ma anche da parte di tutti i soggetti impegnati nella concreta trasformazione delle condizioni d’uso della città.

La redazione era formata interamente da soci dell’INU, che lavoravano volontariamente. Alla redazione centrale era affidato il coordinamento e la redazione delle parti di carattere nazionale, ma in ogni regione venne individuato un redattore regionale, il cui compito era quello di sollecitare e predisporre informazioni sulle situazioni locali. Il ruolo dei redattori locali fu molto importante: essi infatti costituirono l’innesco del processo di regionalizzazione dell’INU, che allora si cominciava a perseguire (le sezioni regionali erano solo la lombarda e la campana, e praticamente non svolgevano attività).

I “pezzi” (non li chiamavamo articoli, per sottolineare il loro carattere meramente strumentale alla copertura dell’informazione) non erano firmati, ma recavano solo la sigla dell’autore. Anche con questo volevamo sottolineare il carattere collettivo del prodotto, l’attenzione per la (tendenziale) completezza del panorama fornito più che per l’espressione delle “idee” dell’autore. Del resto, gran parte del lavoro mio (e di quelli che più direttamente mi aiutavano) era quello di asciugare i pezzi che arrivavano: di eliminare il superfluo e di ridurne lo spazio a una dimensione coerente con l’importanza della notizia. Eravamo noi stessi che impaginavamo la rivista. Io avevo fatto il progetto grafico;con Vezio De Lucia costruivamo l'impaginazione incollando le bozze dei pezzi, che in grandissima parte scrivevamo noi stessi. Giulio Tamburini, Valeria Erba, Sandro Dal Piaz, Laura Falconi Ferrari, Felicia Bottino, Giusa Marcialis, Luigi Falco, Antonino Trupiano erano, nella fase iniziale, i collaboratori più assidui.

Molti mi dicono oggi che le annate di Urbanistica informazioni sono un archivio insostituibile per chi voglia conoscere gli avvenimenti che hanno inciso sul territorio, in quegli anni. Credo che questo dipenda proprio dallo sforzo che abbiamo fatto per rendere massima la quantità delle informazioni fornite, rinviando gli approfondimenti ad altre sedi e strumenti. Del resto, che informare fosse un compito particolarmente rilevante derivava anche dal fatto che – allora quasi come oggi – la grande stampa era di un’avarizia e una disattenzione estrema nell’informare sugli eventi dell’urbanistica.

Non solo informazione

Accanto alle informazioni, i commenti: quelli ufficiali dell’INU, cui era dedicata un’apposita rubrica, e quelli della rivista. Questi ultimi trovavano la loro espressione essenzialmente negli editoriali, che scriveva il direttore: li scrissi tutti, (fino a quello dell’ultimo numero da me diretto, il 125/126 del 1992) ad esclusione di due che, a differenza degli altri, vennero firmati dagli autori, Detti e De Lucia. Per molti anni, li sottoponevo all’attenzione del Consiglio direttivo, perché fossero espressione anche della linea dell’Istituto nel suo complesso[1].

Più avanti, introducemmo alcune rubriche che si ponevano compiti più ampi di documentazione e di formazione. Mi sembra ancor oggi una buona idea quella della Antologia, nella quale presentavamo testi molto diversi – come taglio, argomento, autore – tutti volti ad allargare il campo d’interesse dei lettori, soprattuitto i più giovani, e ad attirare la loro attenzione su autori, discipline o temi che andassero al di là dell’immediato: una rubrica sviluppata poi, con intelligenza e curiosità, da Franco Girardi. Buon successo ebbe anche la rubrica Dossier, dedicata ad approfondimenti tematici che richiedevano più ampia articolazione; anche qui ci sforzavamo di fornire materiali per la riflessione, con la massima dose possibile di oggettività, e di scoraggiare i “saggi” nei quali si esprimevano le opinioni, o le ricerche individuali, degli autori. I dossier si trasformarono poi, grazie alla sollecitazione e al lavoro di Filippo Ciccone, nei più ampi Quaderni di Urbanistica informazioni.

Fu a Ciccone che, quando mi trasferii a Venezia e il mio impegno principale divenne quello di assessore comunale, fu affidato (nel ruolo di redattore capo) l’impegno di gestione della rivista. Ma a questo punto siamo già lontani dai primissimi anni e dalla fase iniziale, al cui ricordo mi sono proposto di dedicare queste righe.

Edoardo Salzano

Venezia, 1 settembre 2001

[1] Nel n. 125/126 pubblicai anche, a integrazione dell’editoriale, un pezzo sui “Vent’anni di Urbanistica informazioni”, nei quali davo conto più ampiamente della sua storia. Il lettore che sia interessato può trovarlo nel mio sito, http://salzano.iuav.edu.

Cominciamo dalle parole

Quando ci si parla, e si proviene da esperienze diverse e da linguaggi diversi (com’è oggi il nostro caso), è utile mettersi d’accordo sul significato delle parole.

Perché le parole sono state inventate per rivelare, per comunicare, per esprimere. Invece spesso sono usate per nascondere, per coprire, per dissimulare. Dalle parole nasce la comprensione, ma può nascere anche l’equivoco

E perché spesso nei linguaggi “tecnici”, nei linguaggi delle varie culture e discipline, le parole sono adoperate in un senso un po' diverso, o molto diverso, da quello del linguaggio comune. Quanto più le varie culture, le varie discipline, i vari specialismi sono separati, quanto più insomma manca una cultura comune, tanto più c’è il rischio dell’incomprensione.

Vorrei che almeno su alcune parole chiave noi ci si intenda. Perciò vi dirò che cosa intendo per città, per territorio, e per progettare: le tre parole del tema della mia conversazione. E poi vi dirò che cosa è secondo me l’urbanista, cioè il mestiere della persona che vi sta parlando.

La città

La città nella storia...

La città non è un insieme di case. La città è, semmai, la casa di una società, di una comunità.

La città è il luogo che gli uomini hanno creato quando hanno dovuto vivere insieme per svolgere una serie di funzioni che non potevano svolgere da soli: custodire e difendere i frutti del proprio lavoro, il sovrappiù della loro produzione; scambiare il sovrappiù tra loro, e con gli abitanti di altri luoghi.

La città è originariamente legata alla difesa e allo scambio: le mura e il mercato sono i primi elementi fondativi della città, le prime funzioni urbane. E il luogo della città, il suo sito, è scelto in funzione delle esigenze della difesa e del commercio: le alture, e le isole nei fiumi, l’incrocio di itinerari terrestri e di vie d’acqua sono gli elementi fisici, geografici, che riconosciamo nella prima storia di quasi tutte le città del mondo.

Me le funzioni urbane si sono via via arricchite. Altre necessità e funzioni comuni si sono aggiunte a quelle della difesa e del commercio e si sono via via affermate: la celebrazione dei valori e delle speranze comuni - la religione -, la tutela dei diritti e la decisione sulle liti - la giustizia -, lo scambio di informazioni e di conoscenze, e l’apprendimento di esse - la scuola -, la rappresentanza e l’azione nell’interesse della comunità - la politica e il governo.

A queste funzioni hanno corrisposto specifici luoghi: i templi e le cattedrali, la piazza e il foro, il tribunale, il bargello, il palazzo del governo, si sono aggiunti al mercato e alla rocca per costituire i luoghi della comunità in quanto tale. I luoghi che si sono differenziati e distinti dalla casa, dal luogo della famiglia, in quanto erano finalizzati ad esprimere, rappresentare e servire non gli interessi del singolo individuo, ma la comunità in quanto tale; non i consumi individuali, ma i consumi collettivi, dell’uomo in quanto membro della società.

Ecco allora in che senso è giusto dire che la città non è un ammasso di case, ma è qualcosa di più: è - come dicevo poc’anzi - la casa della società. E ha, nel suo insieme, un disegno, un armonia, che ne fa un organismo unitario, riconoscibile, dotato da una sua identità e d’una sua bellezza.

Più esattamente: la città è stata questo, fino a quando sono successi avvenimenti che hanno prodotto uno sconquasso pesante. Poiché la città di oggi è certamente molto diversa da quella che le millenarie vicende della civiltà occidentale hanno formato: da quella che possiamo conoscere, e amare, nei centri storici.

...e ai tempi nostri

La città, oggi, è in una crisi profonda. E’ difficile riconoscerle come la “casa della società”: è più facile definirla il luogo della lacerazione della società. Ricordiamo alcuni aspetti della sua crisi attuale: aspetti che sono presenti nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi.

Ricordiamo la crisi d'identità personale e sociale che si consuma nelle metropoli. Ricordiamo il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell' homo socialis (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Ricordiamo le difficoltà crescenti a usare abitazioni adeguate, per località, tipologia e canone d'uso, alle esigenze delle famiglie. Ricordiamo come la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, delle persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri. Ricordiamo l'inquinamento dell'aria e dell'acqua, l'abnorme produzione di rifiuti che minacciano di seppellirci, i rumori che ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio.

E ricordiamo, soprattutto, quell'aspetto della crisi della città che definisco "il paradosso del traffico". Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente - l'ho accennato poco fa - il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

Le ragioni della crisi della città

Sarebbe lungo raccontare le ragioni della crisi della città. A me sembra che ce n'è una che è centrale e nodale, nel senso che tutte le altre si annodano attorno ad essa e ne sono conseguenze, o aspetti, o riflessi.

La questione può essere sintetizzata nel modo seguente. All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati del conflittuale processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto, fin dalla fine del '700 e dell'800, un poderoso aumento della popolazione, e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Più avanti nel tempo (in Italia tra il 1950 e il 1970), per effetto dell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.

Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città dell'ordine di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. E sono città nelle quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini sono tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendono di essere soddisfatte. Nasce quindi una fortissima domanda di fruizione di funzioni urbane: di mobilità, di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.

Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievolite, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.

[Alcuni esempi:

la mobilità e il trionfo della motorizzazione individuale;

la privatizzazione dell'edificabilità e la questione delle aree;

l'incremento dei consumi privati e il deperimento dei consumi pubblici.]

I valori della città

Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia.

Le città, intanto, sono ancora il luogo dell' homosocialis, dell'uomo sociale. Sono il luogo in cui l'uomo è inevitabilmente condotto a cercare l'incontro, lo scambio, il comunicare, lo stare insieme. Sebbene dominata dall'individualismo, la città è ancora il serbatoio dei possibili valori comunitari, delle potenzialità collettive.

E le città poi, soprattutto nel nostro paese - ma nell’intera Europa - sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle nostre città si é consolidato e conservato qualcosa che é un valore in molti sensi: si è conservato e consolidato nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili.

E' un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).

E’ di qui, è dalla tutela e dalla valorizzazione dei valori sociali e culturali che si può partire, che si deve partire per progettare una città nuova: una città capace di superare la crisi attuale.

Il territorio

Quando città e territorioerano realtà antitetiche

Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città era il chiuso, il difeso, l'artificiale, il costruito, il denso, il dinamico, mentre il territorio era il luogo aperto, dove si poteva essere attaccati, dove dominava esclusiva la natura, dove la presenza antropica era rada e discontinua, dove le trasformazioni erano lente come i ritmi della natura.

Nel corso del grandioso e drammatico processo di espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio è venuto via via a modificarsi. La città ha cominciato ad "esportare" parti scomode della sua struttura: le prime sono state le fabbriche, allontanate dal tessuto urbano a causa dell'inquinamento e collocate nelle nuove "zone industriali" in periferia. Si è enormemente accresciuta, fin dalla metà del secolo scorso, l'importanza dei trasporti, e il territorio ha cominciato a essere segnato da infrastrutture come le strade, le ferrovie, i canali navigabili.

Nella seconda metà di questo secolo la mobilità sul territorio è aumentata in misura parossistica: è aumentata la rete delle infrastrutture del trasporto, ed è aumentata la loro utilizzazione. E le infrastrutture hanno creato a loro volta nuove convenienze per l'insediamento di funzioni specializzate: ospedali e caserme, carceri e strutture commerciali, stadi e discoteche sono stati localizzate sempre più frequentemente fuori dalle città, in prossimità dei caselli autostradali o delle superstrade.

Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere e usare il territorio. Oltre alle ragioni derivanti dal fatto che determinate funzioni (quelle di cui ho parlato or ora) sono state localizzate fuori, oltre alle ragioni derivanti dal fatto che è più conveniente accedere a servizi localizzati in città diverse dalla nostra (per l’università, per l’ospedale specializzato, per l’approvvigionamento di merci rare o specializzate, per il concerto o la mostra o lo spettacolo) nuove ragioni sono nate da nuove esigenze: esigenze di contatto con la natura, con ambiente incontaminati, esigenze di rigenerazione psicofisica, di sport attivo, di ricreazione all’aria aperta. La villeggiatura, le gite di fine settimana in collina o nel bosco o a mare, le settimane bianche sulla neve, lo sci e l’alpinismo e la vela: tutte queste pratiche della vita di ciascuno di noi, inesistenti o del tutto marginali fino a qualche decennio fa, ci hanno condotto a usare il territorio in modo sempre più ampio e frequente.

Il “territorio urbanizzato”

Oggi possiamo dire, in definitiva, che il territorio non è più in opposizione alla città: non è l’altro, non è il fuori. Oggi, la città comprende il territorio. Oggi non è più il caso di parlare di città e territorio come di due realtà antitetiche. Oggi è più esatto parlare di territorio urbanizzato come una realtà che comprende insieme le città e il territorio.

Certo, il territorio urbanizzato è formato da realtà tra loro molto diverse. In alcune parti l’urbanizzazione è più densa, la presenza umana è più forte, i flussi di relazione che legano tra loro le diverse persone e attività sono più intensi, la presenza della natura è più debole. In altre parti invece succede il contrario: la presenza della natura è più marcata e più debole è invece la presenza dell’uomo, minore la densità dell’urbanizzazione, l’intensità dei flussi.

La città come “casa della società” si è insomma estesa al territorio, comprendendolo all’interno della rete delle sue esigenze e della sua organizzazione. Questo fenomeno è avvenuto nel corso della seconda metà del secolo scorso e di questo secolo, con un’accelerazione progressiva. E’ avvenuto insomma nello stesso periodo di tempo, e per effetto delle stesse sollecitazioni, che hanno provocato la crisi della città. Quella crisi, la crisi della città, non poteva allora non riverberarsi sul territorio. E infatti nell’organizzazione del territorio vediamo rispecchiarsi allargati quegli stessi fenomeni di degrado che abbiamo visto nella città. Proviamo a comprendere che cosa è successo al territorio per effetto dell’estendersi su di esso della presa della città: e proviamo innanzitutto a comprendere che cosa era il territorio prima di questa presa di possesso..

Quando anche il selvaticoera sociale

Domandiamoci insomma com’era il territorio, fuori dal recinto della città, trecento o duecento o cent'anni fa. Non era un luogo selvaggio e aspro. Fino a cento anni fa il territorio extraurbano era tutto curato, amministrato, gestito. Non solo quello agricolo, che occupava un'area enormemente più estesa di quella odierna, ma anche quello utilizzato per la pastorizia e la silvicoltura, e perfino quello del tutto "selvatico". Perfino i boschi selvaggi, quelli dove le bestie addomesticate non potevano pascolare e che non venivano curati dai boscaioli, erano soggetti a quel minimo di cura che consiste nel togliere via i rami e i tronchi secchi per arderli nei focolari (impedendo così che il corso delle acque nei torrenti tracimasse dagli alvei naturali e rovinasse a valle)

Tutta la natura, insomma, anche quella più selvatica, entrava nel ciclo economico della società. Tutta la natura era "casa dell'uomo", anzi, della comunità. E basta studiare gli usi civici, la loro minuziosa regolamentazione comunitaria volta in larghissima misura all'appropriazione dei prodotti dell'incolto, per comprendere quanto la società, nelle sue forme arcaiche ma non più elementari, fosse presente sull'insieme del territorio.

È chiaro che un territorio sottoposto a siffatte regole, finalizzate a siffatte stringenti necessità (riscaldarsi, ripararsi, nutrirsi), era anche un territorio custodito. Era un territorio sul quale si esercitava un controllo sociale. Era un territorio che veniva sentito e vissuto dall'uomo come un patrimonio, perché immediatamente ne traeva elementari ma indispensabili benefici.

Le grandi trasformazioni di questo secolo: il non urbano diventa res nullius

Nell'ultimo secolo, e in modo particolarissimo negli ultimi cinquant'anni. La città si è estesa a macchia d'olio, e ancora più vaste sono proliferate le sue propaggini "rururbane": lo "svillettamento" delle campagne di pianura e dei colli, le lottizzazioni a nastro lungo le coste e le vie di comunicazione. La campagna coltivata si è enormemente ridotta, abbandonando tutti i terreni acclivi e gran parte delle zone interne dello stivale. La pastorizia si è ridotta ad attività marginale e di risulta. Dalle montagne e dalle colline l'insediamento è "franato", la popolazione ha abbandonato i paesini ad alta quota e si è trasferita verso le grandi città, i fondi valle, le coste.

Non è stato solo uno spostamento di residenze e una trasformazione della produzione. Non è stato neppure solo un fenomeno quantitativo. Il possente salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall'economia e dalla società. L'extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d'attesa per l'ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell'urbano, luogo delle discariche, dell'esportazione "fuori" degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti serrati nella loro scatola di latta.

Vorrei leggervi a questo proposito una pagina di Italo Calvino. Nel suo splendido libro Le città invisibili, Calvino descrive una città che invade il territorio con i suoi rifiuti, e ne muore soffocata.

La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall'ultimo modello d'apparecchio.

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d'ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali :d'imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. [...]

Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s'espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l'imponenza del gettito aumenta e le cataste s'innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l'arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne . [...]

Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell'estremo crinale, immondezzai d'altre città, che anch'esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. [...] Più ne cresce l'altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d'anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori :per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, :ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai [1].

.

Questo di Calvino è evidentemente un paradosso. Ma nasconde una verità profonda ed evidente. Se non sappiamo governare il territorio, se non sappiamo evitare che l’urbanizzazione diventi degrado e distruzione della natura, se non sappiamo evitare che l’urbanizzazione si riduca ad esportazione dei rifiuti della crisi urbana, il territorio si vendicherà nei confronti della città. Le alluvioni che oramai sono parte della cronaca stagionale, e gli incendi dei boschi che ogni anno distruggono vegetazione, fauna - e ahimè anche uomini - sono testimonianze ricorrenti di un rapporto perverso tra la città e il “fuori”, l’extraurbano, e sono campanelli d’allarme minacciosi.

Progettare oggi

La pianificazione urbanisticae la pianificazione territoriale

Per domandarci come si può, oggi, progettare una città e un territorio adeguati alle esigenze di oggi, e capaci di superare la crisi in atto, dobbiamo innanzitutto domandarci quali siano gli strumenti di cui disponiamo. Quello che conosco meglio, e che mi sembra si possa adoperare con una qualche efficacia, è la pianificazione territoriale e urbanistica, come componente e metodo guida di un’azione pubblica democratica di governo del territorio. Domandiamoci allora che cos’è questa cosa, la pianificazione.

La pianificazione nasce, nei tempi moderni, come tentativo di dare una risposta positiva alla crisi della città dell’Ottocento. Il prevalere dell’individualismo nell’organizzazione della città aveva dato luogo ad anarchia, disagio, inefficienza. Occorreva regolare lo sviluppo urbano con uno strumento che riuscisse a dare coerenza a cose che erano diventate incoerenti e contraddittorie. La pianificazione nasce così come insieme di regole, dettate dall’autorità pubblica, miranti a dare ordine alle trasformazioni della città e a fornire una cornice all’interno della quale potessero esplicarsi le attività di costruzione e utilizzazione poste in opera da operatori privati.

La struttura della città e dell’urbanizzazione è molto mutata da allora. Abbiamo visto alcuni rilevanti aspetti del cambiamento. Voglio richiamare l’estensione del processo di urbanizzazione all’intero territorio. Se è successo quello che è successo, se la città si è “impadronita” dell’intero territorio, allora oggi non basta più imprimere, attraverso la pianificazione, regole alle trasformazioni della città. Bisogna estendere la pianificazione all’intero territorio. Nasce così, come estensione e proiezione della pianificazione urbanistica, la pianificazione territoriale.

Nuove esigenze, nuovi obiettivi

E cambiano gli obiettivi specifici della pianificazione territoriale e urbana. Fino a qualche decennio fa l’esigenza primaria era l’espansione: la pianificazione era lo strumento per governare la crescita. Si espandevano le città, e nuove aree dovevano essere sottratte alla natura e impegnate dalle costruzioni. Cresceva a dismisura la motorizzazione individuale, e occorreva costruire nuove strade, superstrade, autostrade.

Oggi si è preso atto che l’espansione non è più il problema centrale: la popolazione non aumenta, è c’è addirittura un eccesso di costruzioni sulle necessità della popolazione e delle attività. Il problema centrale è diventato quello della riqualificazione delle immense periferie costruite negli anni ‘50 e ‘60 e ‘70: di renderle umani, civili, abitabili per tutte le donne e gli uomini, i bambini e i ragazzi, gli anziani.

E si è preso atto che l’espansione della motorizzazione individuale e su gomma pone più problemi di quanti ne risolva. Non occorre incentivarla con la costruzione di nuove strade, superstrade e autostrade. Occorre invece dirottare quote consistenti della domanda di mobilità urbana e interurbana dall’automobile alla metropolitana, al tram, al filobus, e quote rilevanti della domanda di trasporto delle merci dal camion al treno e alla nave. Occorre insomma allargare l’impiego di mezzi di trasporto meno costosi, meno inquinanti, meno consumatori di spazio e di energia di quelli oggi prevalenti.

Infine, è nata l’esigenza di porre al centro della pianificazione l’esigenza della tutela e della valorizzazione dell’ambiente naturale e storico. Come garanzia di un futuro possibile (una progrediente degradazione dell’ambiente minaccia di distruggere le stesse possibilità di vita delle generazioni future) e come risorsa per lo sviluppo economico (sappiamo che la qualità dell’ambiente diviene sempre più una delle carte vincenti nella concorrenza internazionale tra le città e le regioni).

Sviluppo, qualità, ambiente

Quest'ultima considerazione ci conduce a un tema che oggi mi sembra centrale: quello del rapporto tra questione urbana e questione ambientale. Progettare oggi una città e un territorio adeguati significa affrontare in modo soddisfacente entrambe le questioni. Significa avviare la costruzione di una città e un territorio nei quali sia superata l'antinomia tra sviluppo e tutela dell'ambiente: in cui anzi la tutela delle qualità dell'ambiente sia vissuta come la premessa e l'occasione e la materia stessa d'un nuovo sviluppo economico e sociale.

Mi ricollego qui a una concezione del rapporto tra ambiente e sviluppo che è ancora controcorrente, nel nostro paese. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si

garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo

economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati

livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo

allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un

sensibile miglioramento dell'ambiente. Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è

insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione

preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. Questa affermazione oggi è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto:

nell'affermazione, appunto, che, come afferma la C.E.E., [2] la qualità dell'ambiente è "una

precondizione di base" per lo sviluppo economico.

Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Voglio limitarmi a sottolinearne una, posta in evidenza anch'essa dalla C.E.E. Questa afferma in termini espliciti che

"la qualità della città é stata riconosciuta come un valore

nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e

la qualità della vita dovrebbero diventare elementi

essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della

città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo

sviluppo economico".

E' insomma la maggiore o minore qualità urbana che consente alle città d'Europa di concorrere più o meno

vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è

in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno

sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e

del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la

penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.

Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa

nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e

materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità

finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di

obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che

storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari,

proprie di questa o di quella città e fondative della sua

individualità; conservare la bellezza esistente e costruire

bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.

Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è

oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù

di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità

assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori

dalla concorrenza nazionale e internazionale.

Non ho la pretesa di aggiungere alcunché al dibattito che da

tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei

limitarmi a ricordare che se al termine "sviluppo" vogliamo

attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente

separarlo dal termine "crescita".

Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo

sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune

tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O

almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti

da tali grandezze sono crescenti.

La "città sostenibile"

In effetti, quanto parlano di sviluppo molti di noi si

riferiscono a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel

rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'O.N.U.

che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo

sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel

Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del

presente senza compromettere la capacità delle generazioni future

di soddisfare i propri" [3].

La mia proposta è appunto quella di applicare la definizione della Commissione dell'O.N.U. alla città, con una sola correzione: sostituendo cioè la parole "senza compromettere" con la parola "migliorare". Questa correzione mi sembra importante per due ragioni. In primo luogo perché

ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta,

e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne

abbiamo ricevuta. In secondo luogo perché la condizione delle nostre

città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è

tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo

assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia

ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di

oggetti e di persone.

L'obiettivo insomma che dobbiamo proporci è allora quello di costruire una città (e un territorio) sostenibili, tali cioè da soddisfare i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni futura di soddisfare i propri.

Alcuni temi più urgentiper la pianificazione territoriale e urbana

Quali sono, oggi, alcune cose concrete che si possono fare, nella progettazione della città e del territorio, per avvicinarsi all'obiettivo della città sostenibile? Vorrei proporne due.

Sulla prima mi sono già soffermato, quindi vi accennerò soltanto: si tratta della questione della mobilità: di una nuova organizzazione del sistema dei trasporti che consenta di spostare quote importanti dal trasporto individuale su gomma a quello collettivo su ferro. E di una nuova organizzazione della città che, giocando sulle localizzazioni e sugli orari, riduca la domanda di mobilità.

La seconda questione urgente e concretamente affrontabile oggi, è quella che definisco come la costruzione, nella città e nel territorio, di un "sistema delle qualità". Su questo voglio indugiare qualche minuto.

Ciò che vorrei proporre è di rovesciare il modo di considerare la città. Vorrei proporre di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltatore. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi dedicati alla ricreazione e alla ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al consumo comune (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).

Vorrei proporre di costruire un "sistema" costituito dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali (le aree e gli elementi a prevalente connotazione naturalistica, il centro antico e le altre testimonianze ed emergenze storiche, le attrezzature e gli altri luoghi destinati alla fruizione sociale), collegandole fra loro sia - dove possibile - attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale alberato protetto) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.

L'urbanista, l'architetto

Mi tocca adesso affrontare un ultimo tema: che cosa è l'urbanista, l'addetto alla progettazione della città e del territorio. In particolare, in che cosa l'urbanista si differenzia dall'architetto, che storicamente ha svolto questa funzione. Sarò brevissimo, perché mi limiterò a leggere un piccolo brano di Italo Calvino.

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual'è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non e sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell'arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? E' solo dell'arco che m'importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.

Ecco, l'urbanista si occupa dell'arco, l'architetto delle pietre. L'architetto progetta singoli oggetti, e definisce le regole secondo le quali essi devono essere costruiti. L'urbanista si occupa di definire le regole secondo le quali essi devono essere composti perché raggiungano, nel loro insieme, un'armonia e una funzionalità complessive.

L'architetto disegna la casa dell'uomo, l'urbanista la casa della società. Ma su questo punto potremo intrattenerci sulla base delle domande che porrete voi stessi. Intanto vi ringrazio per l'attenzione e la pazienza.

[1]Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi.

[2] Si veda il "Libro verde sull'ambiente urbano" approvato dalla Cee. E' pubblicato in Italia nel volume La città sostenibile, Edizioni delle autononomie, Roma 1991.

[3]Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1989.

Quanto ci muoviamo nella vita d’oggi! Nella città, sul territorio. Ci muoviamo per raggiungere il lavoro dalla casa che abitiamo, e viceversa. Per utilizzare la scuola, l’ufficio postale, il mercato dove ciò che ci serve costa meno, l’ospedale, la palestra, e tutti gli altri servizi sempre più necessari alla nostra esistenza (e sempre peggio disposti sul territorio, rispetto a dove abitiamo e lavoriamo). Per prendere una boccata d’aria in campagna, visto che la città ha sempre meno verde di quello che serve, o per respirare l’aria di città, incontrare persone, attività, occasioni e strapparci dalla segregazione del paesino. E ci muoviamo per raggiungere siti lontani, spinti dalle necessità del nostro mestiere o dalla ricerca di stimoli o di riposi in luoghi diversi.

Non sempre ci rendiamo conto di quanto gran parte del nostro muoversi, e impiegare tempo nel vettore che ci trasporta, dipenda da una cattiva distribuzione degli oggetti che ci servono sul territorio (le abitazioni lontane dei luoghi dove lavoriamo, i servizi disposti avaramente e casualmente). E neppure ci rendiamo sempre conto che solo il prevalere degli interessi più forti ha impedito che si scegliesse volta per volta il sistema di trasporto più comodo per noi. Ma tutti si rendono conto che il disagio e lo spreco (di tempo, di energia, di salute, di risorse d’ogni genere) pesano sempre di più sulla nostra vita, la rendono sempre meno umana, piacevole, utile a noi stessi e agli altri. Soprattutto nelle grandi città, nelle agglomerazioni urbane, che ormai hanno conglobato nella loro anarchica espansione le aree una volta naturali, nelle quali abita e lavora la stragrande parte della popolazione.

Problemi ci sono anche per le comunicazioni a lunga distanza, con ritmi non quotidiani, che interessano meno persone ma soggetti di maggior peso sociale (le aziende interessate al trasporto di merci, gli operatori del terziario avanzato, i turisti). Disagi provocati da strozzature e disfunzioni nel sistema delle infrastrutture, sprechi derivanti dal fatto che i diversi modi di trasporti delle persone e delle merci (la rotaia, la strada, l’aria) si fanno concorrenza tra loro invece di integrarsi un una ragionevole collaborazione, e che altri (l’acqua) sono trascurati.

Disagi e sprechi, ma indubbiamente di tutt’altro peso, rispetto alla vita quotidiana, di quelli che affliggono le aree urbane. Eppure, l’opinione pubblica è informata delle vicende della Grandi Opere (il Ponte sullo stretto, l’Alta Velocità, il Corridoio Cinque transeuropeo) mentre non sa nulla di ciò che si fa nelle aree urbane: dei provvedimenti per rafforzare il trasporto pubblico su ferro (diventato la regina del trasporto urbano nelle città dell’Europa evoluta), per ridurre il peso e la necessità dell’automobile, per rendere sicure e vivibili ampie aree sottratte all’invasione delle semoventi scatole di latta. Non è un oscuramento casuale. Il fatto è che guidano in questa direzione le politiche del governo.

Si guardino i recenti provvedimenti. Per le Grandi Opere si stabiliscono canali di finanziamento speciali, si attivano procedure particolari, si mobilitano risorse eccezionali, si sfidano persino le regole europee (vedi il Ponte sullo Stretto) e di scatenano le forze di polizia (vedi la TAV in Val di Susa). E intanto con l’altra mano si toglie. la finanziaria riduce ancora le già scarse risorse destinate al finanziamento dei progetti per il trasporto pubblico nelle aree urbane.

Da un lato, i monumenti per celebrare il potere e agevolare gli interessi forti, con interventi forzati a prescindere dalla priorità, dalle garanzie di sicurezza, e perfino dall’utilità (come il Ponte). Dall’altro lato, gli interventi diffusi, decentrati, sulla rete dei servizi per la mobilità quotidiana dei cittadini: un aspetto rilevante delle condizioni di vita che lo Stato sociale deve garantire perchè la città e il territorio siano vivibili. Da una parte si dà, dall’altra si toglie. Eppure, gli avvenimenti di Parigi ci ricordano che demolire lo Stato sociale comporta prezzi che, alla fine, pagano tutti.

Il titolo è quello suggerito, Nella rivista l'Opinione non ha titolo

Il nuovo Codice dei beni culturali, per alcuni aspetti sostanziali, costituisce un ribaltamento rispetto a impostazioni che sono maturate, in Italia, fin dalla formazione dello Stato unitario. Giuseppe Chiarante ricordava (l’Unità, 7/2/2004) che già nella prima legge organica sull’argomento[1], si proclamava l’assoluta inalienabilità dei beni culturali: la premessa della “linea italiana” sui beni culturali era insomma la sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica. Nel campo dei beni paesaggistici era stato affermato un altro principio cardine: la rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale. Lo aveva posto con grande chiarezza già Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti: il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo"..

Entrambi questi principi sono capovolti dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Contraddetto è di fatto anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio, non a caso posta tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale.

Nel corso della maturazione delle nuove concezioni della tutela, basata sulla pianificazione del territorio anziché sulle mera apposizione del vincolo, si era raggiunto[2] un delicato equilibrio tra le competenze (e i doveri) dei poteri pubblici espressione dell’unitarietà della nazione e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.

Mentre il Codice Urbani mantiene l’insieme del sistema di tutela/pianificazione definito dalla “legge Galasso” e l’equilibrio tra competenze statali e competenze sub-statali da esso accortamente messo a punto, da esso scompare totalmente il potere di annullamento, tradendo in tal modo un percorso culturale che aveva vittoriosamente attraversato tre stagioni della storia italiana: quella post-risorgimentale e giolittiana, quella fascista, e infine quella repubblicana. Pedaggio alla devoluscion, evidentemente, del quale pagheranno il prezzo le generazioni future; ma la sostenibilità non è di questo regime.

Edoardo Salzano,

Ordinario di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia

[1] Legge 20 giugno 1909 n. 364.

[2] Soprattutto con la legge 8 agosto 1985, n. 431 (“legge Galasso”).

Città e società

Immaginare la città nel Terzo millennio equivale a immaginare la società nel Terzo millennio. La città, infatti, non è una costruzione tecnologica, non è un oggetto fisico, non è un insieme di abitacoli e di collegamenti – non lo è più di quanto l’uomo sia un insieme di molecole, ordinate a formare tessuti, organi, legamenti e sostegni.

È anche quelle cose, ma non è solo quelle: ridurla a quelle significa non comprenderla. Come dico spesso ai miei allievi del corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale, la città non è un insieme di case, ma è la casa della società. Più precisamente, la città è il luogo che la civiltà umana ha inventato quando sono nati, e si sono sviluppati e consolidati, determinati valori, esigenze, funzioni, i quali richiedevano, per essere soddisfacibili e soddisfatti, il sorgere di una organizzazione fisica adeguata: la città, appunto.

Del resto, come spesso accade, l’etimologia aiuta a comprendere: urbs (la città come spazio fisico), civitas (la città come comunità sociale), polis (la città come società organizzata) non sono forse termini strettamente legati? Domandarsi che cosa sarà la città nel Terzo millennio equivale perciò a domandarsi che cosa sarà diventata, in quello stesso periodo, la società.

Una domanda preliminare: che cos’è il Terzo millennio?

Ma intanto, poniamoci una domanda preliminare: che cosa intendiamo dire quando parliamo di Terzo millennio? Come sappiamo dall’esperienza storica un millennio è un periodo molto lungo: il Primo e il Secondo hanno coperto civiltà, culture, costruzioni sociali diversissime: diverse nelle diverse fasi nelle quali i millenni si sono articolati, e nei diversi luoghi nei quali essi hanno dato luogo a storie. Possiamo trovare elementi di identità nella città ridente, gaia e colta dell’impero del Giappone nell’XI secolo di questa era, così come ce l’ha descritta, per esempio, Murasaki[1], e nella Stalingrado degli anni dell’URSS e delle estrema resistenza al nazismo? Possiamo trovare elementi di identità unificando nel ragionamento una città ricca di canali del XIII secolo, come la cinese Suzhou o la veneziana Venezia, e una città ipertrofica di autostrade come la statunitense Los Angeles del XX secolo?

Quando parliamo del Terzo millennio non intendiamo evidentemente proporci di identificare i “connotati medi” di questo sconosciuto arco di tempo: intendiamo semplicemente applicare un po’ di retorica a una domanda molto semplice, che sempre gli uomini si pongono, soprattutto nei momenti di soglia (o ritenuti tali): come diventerà la città (e la società) nel futuro, nel futuro così come oggi possiamo immaginarlo?

Omologazione o differenze?

Anche così semplificato, è un interrogativo irto d’incognite, di domande angosciose perché s’intrecciano con gli argomenti che oggi ci angosciano. Una prima domanda allora s’impone, sollecitata proprio dalla riflessione sulla diversità presente nella nostra storia. Vivremo, nel futuro, una realtà ricca di differenze come quella dei millenni che ci hanno preceduto, oppure una realtà resa omogenea in ogni parte dell’universo conosciuto? Perché una delle ipotesi probabili è appunto quella dell’unificazione e della omologazione. Il modello di città – anzi, la “città unica” – potrà diventare quella Trude che Italo Calvino ha descritto[2].

Trude

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d'essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l'albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire. - Puoi riprendere il volo quando vuoi, - mi dissero, - ma arriverai a un'altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un'unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all'aeroporto.

Italo Calvino

Le differenze spariranno? La ricchezza delle storie, delle culture, delle lingue, delle abitudini, dei sapori e dei colori, dei paesaggi e dei suoni scomparirà annullata dall’omologazione a un unico modello di vita, e di città?

Il caso di Venezia

Abito e lavoro a Venezia, la città che è la protagonista delle Città invisibili di Calvino: il vero modello di città, se ve n’è uno. Venezia è certo diversa dalla città contemporanea tipica dell’Occidente super-industrializzato e super-consumistico. La sua bellezza è nella sua diversità, e la sua forza è nell’insegnamento che propone: un luogo nel quale la città trasforma l’ambiente naturale rispettandone le regole e i ritmi, conservandolo per utilizzarlo.

Ebbene, anche a Venezia sta procedendo, nell’indifferenza generale, un processo di omologazione di questa città unica alla tipica città contemporanea. Sempre meno sono i luoghi dedicati all’artigianato locale, sempre più frequenti invece le botteghe internazionali del fast-food (tenacemente tenute lontane fino a dieci anni fa) e gli spacci delle merci generiche per turisti (quelle che gli anglosassoni chiamano junk, e che sono uguali a Hong Kong come a Manila, a San Marino come, appunto, a Venezia).

Ma c’è di peggio. In una città la cui modernità in materia di organizzazione del traffico era stata indicata come esempio da Le Corbusier (ne celebrava l’avvenuta separazione del traffico meccanizzato, nei canali acquei, e della mobilità pedonale, nelle calli e sui ponti), in una città nella quale tutti apprezzano la puntualità cronometrica dei mezzi di trasporto pubblici (i vaporetti), si propone l’introduzione di una “metropolitana sublagunare”, utile solo a scaraventare migliaia di turisti nelle calli del centro. È una proposta giustificata solo dal mito della riduzione dei tempi di percorso: come se, più dei tempi impiegati per andare da una parte all’altra della città, non si dovesse ricercare la qualità del tempo in essi impiegato: è più amico dell’uomo il minuto impiegato nella buia metropolitana urbana o nello scuotimento dell’autobus, o il minuto impiegato navigando tra i palazzi del Canal Grande o passeggiando negli spazi antichi e belli di una città amica?

Omologazione o ricchezza delle differenze? Riduzione dei tempi o valutazione della qualità del tempo di vita, nelle sue diverse componenti? Queste sono alcune delle alternative tra le quali si gioca il nostro futuro: le possibili configurazioni della città del Terzo millennio.

Una speranza, e tre requisiti

Più che prevedere i futuri possibili, e scegliere tra loro quello più probabile (operazione per la quale non mi sento per nulla attrezzato) è forse utile ragionare su quali siano le direzioni di marcia verso le quali indirizzare gli sforzi: in primo luogo (a questo sollecita la presenza quotidiana dell’immagine di Venezia) quale sia la speranza che occorre nutrire, per alimentare il lavoro cui ciascuno di noi deve concorrere.

Ebbene, la speranza che è necessario e possibile formulare è che la società comprenda, nell’avviarsi lungo l’ignoto itinerario del terzo millennio, che il modello di città costruito dalla civiltà occidentale del XX secolo non è quello giusto; che esso ha tradito alcuni insegnamenti fondamentali che la storia della città ci ha consegnato, e che da questi insegnamenti occorre partire per realizzare una città giusta.

Questi insegnamenti possono compendiarsi in tre parole, in tre requisiti che sono tutti, a mio parere, necessari perché una città possa dirsi umana: comunità, complessità, sostenibilità. Su queste tre parole vorrei adesso intrattenere i lettori di Universo.

Comunità

Lo dicevo all’inizio: la città è la casa della società: è il luogo inventato, strutturato e organizzato in funzione di interessi ed esigenze collettivi, sociali, comunitari. La città è il luogo della comunità. I suoi luoghi centrali, i suoi “fuochi”, sono i luoghi finalizzati al “consumo comune”, all’uso della comunità: la piazza, il mercato, la cattedrale, il palazzo civico. Senza l’esistenza di una comunità, di valori sociali condivisi, la città si dissolve nell’anarchia[3].

Gli ultimi tre secoli del Secondo millennio sono quelli che hanno visto la piena affermazione della città come luogo dell’insediamento umano. Le città si sono moltiplicate e ingrandite, il loro peso si è accresciuto a dismisura. Ma il punto cruciale è che, parallelamente alle gigantesche trasformazioni quantitative e all’esplosione della potenziale domanda urbana, c’è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventare quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell’individualismo.

Ristabilire, nel concreto, i valori della comunità è quindi il primo obiettivo che bisogna proporsi per avviarsi, nel Terzo millennio, lungo una strada che consenta di restituire all’insediamento dell’uomo la sua funzionalità e la sua bellezza. Lavorare in questa direzione significa affrontare problemi nodali della città di oggi: quello del traffico, in primo luogo. Si tratta infatti di affrontare quell’aspetto della crisi della città che definisco “il paradosso del traffico”.

Tutti si rendono conto (per quanto assuefatti dall’abitudine) che muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un’angosciosa perdita di tempo, un’assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d’inquinamento. Ma non tutti riflettono sul fatto che città è stata storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi.

Ricostruire una città umana significa allora, in primo luogo, affrontare il problema del traffico adottando tutte quelle misure che consentano di eliminare congestione, spreco di tempo e d’energia. Significa allora restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo dell’incontro, dello scambio d’esperienze e di messaggi, di comunicazione e di convivenza. Significa restituire ai marciapiedi la loro funzione di luogo dello spostamento piacevole, della passeggiata, della ricreazione. Significa rendere accessibili, e raggiungibili in condizioni di sicurezza per i deboli come per i forti, i luoghi della vita collettiva e quelli della vita privata.

Si lavorerà in questa direzione nei prossimi anni? Se sarà così, la città del Terzo millennio potrà essere, di nuovo, una città per gli uomini.

Complessità

La città è il luogo della complessità: è il luogo nel quale le differenti funzioni, le differenti “utilità”, le differenti occasioni di lavoro si sovrappongono e si mescolano. Il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, le differenti funzioni sociali, le differenti età, etnie, abitudini, culture si mescolano e scambiano i reciproci insegnamenti. In questo senso la città è stata (e continua a essere) il luogo della libertà e della crescita personale: delle molteplici possibilità per tutti.

Questo requisito (il requisito della complessità) è contraddetto e negato da due ordini di operazioni. Da un lato, l’artificiosa semplificazione della città in zone caratterizzate ciascuna da una sola funzione: l’abitazione, la produzione, la direzionalità, il commercio. Dall’altro lato, l’introduzione delle barriere della segregazione economica, sociale ed etnica.

Eliminare le cause di queste vere e proprie deformazioni della città non è semplice. Nei piani regolatori, e nelle concrete politiche urbane, si cerca di mescolare funzioni diverse, di evitare da un lato i “quartieri dormitorio”, dall’altro lato le aree destinate esclusivamente alle attività lavorative. E in alcune realtà si tenta, da parte delle amministrazioni comunali più avvedute, di condizionare le politiche immobiliari per garantire la compresenza di ceti sociali e gruppi culturali diversi, ottenendo a volte risultati convincenti.

Se si sarà capaci di lavorare in queste direzioni, la città del Terzo millennio potrà essere di nuovo la città di tutti gli uomini; altrimenti, i nostri eredi saranno condannati a vivere nel coacervo di mondi diversi, l’un verso l’altro barricato e armato.

Sostenibilità

Nell’ultimo mezzo secolo la natura è stata devastata come mai era successo. Per dare un’idea di ciò che è avvenuto, basta riflettere sul fatto che in Italia, in soli cinquant’anni, si è urbanizzata una superficie pari a nove volte la superficie che era stata urbanizzata nei millenni della nostra storia. La città ha divorato l’ambiente: ha portato vicino all’esaurimento risorse preziose per la vita, dissipando riserve che si credevano inesauribili. Per fortuna, prima che si arrivasse alla catastrofe definitiva, la saggezza di osservatori attenti ha illuminato la coscienza popolare. Un nuovo comandamento è stato foggiato: è necessario che lo sviluppo sia “sostenibile”, ed è necessario che anche la città sia “sostenibile”. Che cosa vuol dire?

L’espressione “sviluppo sostenibile” fu coniata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, presieduta da Gro Harlem Brundtland. Nel rapporto che è noto appunto con il nome della statista norvegese, si definisce sviluppo sostenibile “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" [4].Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente.

Ma applicare quella definizione all'ambiente urbano, e parlare di città sostenibile, significa introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Affermo questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non solo perché ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che la hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Anche perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.

L’impegno per restituire alla città quella “sostenibilità” che caratterizzava le città delle epoche più felici della storia è quindi un impegno essenziale per ottenere, nel Terzo millennio, una città per tutti gli uomini di oggi e di domani.

Il governo della città: la pianificazione

Come ottenere, però, che la città del Terzo millennio raggiunga davvero i requisiti necessari, e non si trasformi in un’immonda accozzaglia di oggetti sgradevoli e ostili? Come ottenere che il pianeta non si trasformi – per adoperare le parole di Antonio Cederna – in “una repellente crosta di cemento e asfalto”? Il metodo è noto, sperimentati ne sono gli strumenti: la pianificazione urbanistica. Essa – per adoperare ancora le parole di Cederna – “è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità”[5].

La moderna pianificazione urbanistica è nata, all’inizio del XIX secolo, quando ci si è resi conto che la maggiore complessità delle esigenze, la ricchezza delle possibilità, le contraddizioni implicite negli interessi in campo, rendevano necessario un intervento regolatore dell’autorità democratica, che definisse in che modo procedere in quell’incessante opera di successione delle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio in cui consiste il processo di urbanizzazione.

Il primo piano regolatore moderno può essere considerato quello che, nel 1811, i cittadini di New York pretesero dai loro governanti. È una storia emblematica, che ricordo spesso perché esprime con immediatezza la necessità della pianificazione urbanistica per un governo del territorio orientato al bene comune.

La metafora del Piano di New York

All’inizio del XIX secolo New York aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e magazzini. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.

Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo. (Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.)

L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento dello sviluppo.

Ma era un’economia basata su sul principio della più dispiegata libertà individuale nel dominio dell’economia e dell’organizzazione sociale: più l’iniziativa individuale era priva di freni, più sapeva tirare, tanto più si perseguiva, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. In alcuni campi però – questo cominciarono a comprendere i liberali del XIX secolo – la libera iniziativa conduceva all’anarchia: occorreva uno sguardo d’insieme, una capacità di padroneggiare dinamiche complesse, di portare a sintesi interessi contrastanti, che la spontaneità del mercato non poteva possedere. Occorreva un intervento regolatore. Nella città, occorreva un piano regolatore che decidesse dove e quando, secondo quali regole, con quali quantità e funzioni procedere in quella complessa serie di operazioni in cui consiste il processo di urbanizzazione.

Le esigenze di governo delle trasformazioni urbane non sono certo venute meno oggi, né è presumibile che lo diverranno nei prossimi decenni: anzi. L’aumento della complessità delle relazioni, la crescita del benessere e l’esaurirsi delle risorse naturali, l’accresciuta mobilità di tutte le grandezze in gioco, tutto ciò renderà ancora più necessaria la definizione, strategica e al tempo stesso programmatica e operativa, delle regole per la trasformazione del territorio: della pianificazione urbanistica. Di una pianificazione espressione di una volontà della cittadinanza che sia definita con il metodo e gli strumenti della democrazia; una pianificazione che sappia garantire che la molteplicità degli interventi e delle iniziative, la pluralità dei soggetti e degli interessi, agiscano e confluiscano in un unico disegno, finalizzato all’interesse di tutti: dei cittadini presenti, come di quelli che verranno.

[1] Murasaki , Storia diGenji il Principe splendente, Einaudi 1957.

[2] Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi; “Le città continue. 2:”

[3] Questi, e altri temi toccati in questo scritto sono trattati più ampiamente in: E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma.Bari, 1998.

[4] Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988.

[5] Antonio Cederna, I Vandali in casa, Etas Compton, Roma

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