| Copertina "Fondamenti di Urbanistica" |
Nel giugno del 2003 ho aggiornato il libro con la presente quinta edizione. Non ho modificato i primi nove capitoli della precedente edizione. Ho sviluppato invece l’ultima parte. I tre ultimi capitoli di questa edizione ampliano considerevolmente il contenuto delle precedenti, integrandolo soprattutto con informazioni e valutazioni a proposito della legislazione urbanistica delle regioni, e con qualche riflessione su argomenti all’ordine del giorno del dibattito urbanistico (come la governance e, più in generale, i rapporti tra pubblico e privato), oppure riproposti nelle pratiche di pianificazione degli ultimi anni (come la questione dei “vincoli urbanistici”). Infine, qualche ulteriore riflessione sulla figura e il ruolo dell’urbanista è stata provocata da ricerche che ho avuto modo di seguire nell’ambito della facoltà di Pianificazione del territorio e del dipartimento di Pianificazione dell’IUAV.
Per non aumentare il costo dell’edizione (e quindi non costringere l’Editore ad aumentare il prezzo) non ho modificato i primi capitoli. Ciò non mi ha consentito di seguire i consigli, peraltro sensati, di ampliare alcuni momenti del percorso storico o introdurvi altri argomenti.
Mauro Baioni, Ada Becchi, Fabrizio Bottini, Alessandro Dal Piaz, Vezio De Lucia, Marco Guerzoni, Luigi Scano hanno avuto la pazienza di leggere e correggere la nuova edizione e la bontà di darmi utili consigli per le novità introdotte. Li ringrazio (assumendo naturalmente l’intera responsabilità del testo), come ringrazio i colleghi che hanno ritenuto utile questo libro per la didattica universitaria.
X. Un nuovo contesto
La pianificazione all'inizio del nuovo secolo, p. 239
Cambiamenti della società, trasformazioni del territorio, p. 239 - La città: la scimmiotto e la svuoto, p. 240 - La risposta delle istituzioni, p. 242 - Liquidata la politica della casa, p. 244 - Italia S.p.A., p. 245 - Serve ancora la pianificazione?, p. 246
Valori e obiettivi per la pianificazione, p. 248
I valori della collettività, p. 248 –L’uovo o la gallina, p. 249 - La democrazía è sostenibile?, p. 251 - La storia e la natura, p. 252 - Pianificare la conservazione, p. 253 - Il «sistema delle qualità», p. 254
I limiti della pianificazione tradizionale, p. 256
Il piano criticato, p. 256 - Tre versanti critici, p. 256 - Il modello milanese, p. 257 - Un'altra «terza via», p. 260
XI. Una nuova pianificazione: dai principi alle leggi regionali
Dal «piano» alla pianificazione, p. 265
Una definizione della pianificazione, p. 265 - Gli obiettivi della pianificazione, p. 266 - La coerenza nello spazio e nel tempo, p. 267 - Una sintesi tra flessibilità e coerenza, p. 267
Un nuovo meccanismo di pianificazione, p. 268
Scelte strutturali e scelte programmatiche, p. 268 - Un nuovo rapporto tra «piano» e tempo, p. 269 - Due condizioni irrinunciabili, p. 270 - Il nuovo meccanismo nelle legislazioni regionali, p. 270
I livelli della pianificazione, p. 274
Il «principio di pianificazione», p. 274 - Il principio di sussidiarietà, p. 275 - Dall'approvazione alla verifica di conformità, p. 277
Pianificazione ordinaria e pianificazione specialistica, p. 278
Troppi piani?, p. 278 - Piani diversi, per esigenze diverse, p. 278 - I piani per il paesaggio, la difesa del suolo, le aree protette, p. 279
L'ambiente nella pianificazione: qualche passo avanti, p. 281
Le condizioni alle trasformazioni, p. 281 - L'ambiente nelle legislazioni regionali, p. 282 - Le azioni per la tutela e la valorizzazione, p. 285
«Governance»: significato e limiti d'un termine nuovo, p. 286
La «governance», come nasce, p. 286 - Non è vero che tutti gli attori sono uguali, p. 287 - Gli interessi privati, p. 288 - Governare la «governance», p. 289 - E la partecipazione?, p. 290
XII. Requiem per la «riforma urbanistica»?
Tentativi a Roma, nuove leggi altrove, p. 293
Le proposte ci sono, p. 293 - La 1150 era una buona legge, p. 294 - La «mannaia» della Corte costituzionale, p. 295
La questione dei «vincoli urbanistici», p. 296
Una distinzione preliminare, p. 296 - Le sentenze costituzionali, p. 297 - Chi pone i vincoli ricognitivi?, p. 299 - I vincoli «urbanistici»: è incostituzionale non indennizzarli se sono «espropriativi», p. 301 - Ma non è sempre illegittimo reiterare i vincoli urbanistici, p. 301 - Può il prg eliminare senza danni l'edificabilità di un'area?, p. 303 - Il diritto non richiede di «compensare» o «perequare», p. 305
Per concludere, p. 306
Pianificare si può, p. 306 - La questione del consenso, p. 307 - La politica, p. 307 - Gli urbanisti, p. 309 - La stella polare, p. 310
Pomigliano d’Arco, provincia di Napoli. Era un grosso borgo agricolo nella fertile pianura nutrita dalle ceneri del Vesuvio. Lo sviluppo industriale iniziò negli anni Trenta, proseguì negli anni Settanta con L’Alfa Sud e l’Alenia: l’Area di sviluppo industriale è oggi la più grande del Mezzogiorno. Il borgo agricolo è cresciuto, più gonfiato dalla “decompressione” di Napoli che arricchito dall’indotto delle grandi industrie: oggi è una città di quasi 50 mila abitanti. Una città, con tutti i problemi delle città-periferie metropolitane, private dall’antica identità e incerte nella ricerca di una nuova. Una città in un territorio devastato dalle “grandi opere” della gestione dorotea e regionale del dopo-terremoto: giganteschi viadotti stradali e ferroviari, raccordi monumentali che si perdono nel nulla, ruderi di antichi casali e brandelli di ricchi paesaggi agrari devastati dall’intrico delle infrastrutture.
Una nuova amministrazione è subentrata da qualche anno a quelle disciolte per infiltrazioni camorristiche. Sta tentando, con tutte le risorse disponibili, di migliorare la qualità della vita urbana, di costruire una identità che proietti la storia nel futuro: con l’urgenza di chi vuole sottoporsi presto al giudizio dell’elettorato. Da questa volontà sono nate le prime realizzazioni: un grande parco urbano, il restauro di antichi palazzi, la ricostruzione di una piazza centrale: traguardi significativi ma modesti, parziali. In attesa e in vista del nuovo piano regolatore il Sindaco (il diessino Michele Caiazzo) ha sollecitato la cultura dei professionisti della città (gli architetti, gli ingegneri, gli urbanisti) a proporre idee per definire l’assetto fisico e funzionale di un’area strategica.
Si tratta di un’area occupata da qualche brandello di tessuto edilizio, a volte abusivo, da qualche industria abbandonata, da uno stadio e alcuni edifici testimonianze di un discreto razionalismo degli anni Trenta. Un’area davvero strategica per la posizione, e per il ruolo che il bando del Concorso d’idee, promosso dal Comune, le assegna. É collocata tra la Via Roma, tratto urbano dell’antica via che, attraverso Baiano, collegava Napoli alle Puglie, e la Via dell’Impero, matrice mussoliniana della zona delle industrie. E’ collocata quindi tra la città e l’area industriale: una potenziale cerniera tra l’una e l’altra. L’uno dei suoi margini è percorso dal monumentale viadotto della ferrovia Cicumvesuviana: l’ingombro dell’immane struttura determina, sul piano di campagna, un volume vuoto alto sette metri e largo oltre una decina, lungo quanto l’intera area del concorso. L’altro margine è attraversato dalla linea dismessa della ferrovia, che fiancheggia l’intera città giungendo fino al nuovo parco urbano.
Ventotto gruppi di professionisti, da ogni parte d’Italia (ma naturalmente in prevalenza della Campania) hanno partecipato al concorso. Il primo premio non è stato assegnato dalla Giuria[1], che ha diviso il monte premi tra tre ex equo e tre menzioni. Ho partecipato all’esame delle proposte, alla loro valutazione, alla scelta finale. Non scrivo per illustrare e commentare le scelte, ma per esprimere una vivissima preoccupazione, sulla quale mi piacerebbe che si discutesse.
Nessuna proposta (questo è il mio giudizio) ha colto le potenzialità del tema proposto, la contraddittoria ricchezza dell’area, il suo ruolo strategico, le aspettative dell’amministrazione.
Nessuna proposta ha affrontato il grande tema del rapporto tra la città e la zona industriale. Nessuna proposta ha utilizzato la riprogettazione dell’area come momento e punto di partenza per una riqualificazione della città, e nemmeno (il che sarebbe stato comunque riduttivo) dei suoi bordi inclusi nell’ambito di studio. Che l’area non fosse sospesa nel vuoto lo si è compreso solo nei pochissimi progetti che hanno almeno disegnato la rete stradale urbana principale o hanno proteso deboli filamenti di verde verso il parco urbano.
La grande maggioranza delle proposte si è limitata a proporre scampoli di disegno urbano per le aree vuote comprese nell’ambito di studio: a seconda delle propensioni, c’è chi le ha adornate di variegati parchi, e chi le ha riempite di massicce costruzioni. Quasi nessuno ha disegnato un nuovo assetto dell’area (da raggiungere magari con gradualità d’interventi): le preesistenze edilizie sono state o ignorate, oppure rigorosamente perimetrate e congelate nella loro attuale ghettizzata consistenza. Sembrava che l’incarico formulare proposte fosse stato avanzato non da un’amministrazione civica, ma da un promotore immobiliare, di stampo tradizionale (metri cubi a volontà) o aggiornato (praticelli verdi e laghetti artificiali).
Del tutto trascurato è stato il grande tema dell’accesso alla città dalla stazione della ferrovia circumvesuviana, che drena ogni giorno decine di migliaia di cittadini. E nessuno è stato sfiorato dall’interesse per il tema della utilizzazione del grande vuoto costituito dal volume del viadotto ferroviario: eppure l’accattivante e civile stazione, costruita proprio nellain un segmento della cavità sotto la ferrovia, costituiva un evidente esempio.
La partecipazione è stata larga. La maggior parte dei partecipanti giovani. Le idee parziali numerose e utili (la giuria non ha faticato a trovare i sei gruppi da segnalare). Come mai, allora, questo sostanziale fallimento? Come mai una risposta così insufficiente da parte della cultura e della professione? Ho una ipotesi di risposta a questa domanda.
Nelle università (nella maggioranza delle università) e nelle riviste (nella maggioranza delle riviste) non si insegna più l’urbanistica. La progettazione urbana si è ridotta ad architettura.
Ricordiamo la metafora dell’arco e delle pietre nascosta nella descrizione del ponte, con cui il Marco Polo di Italo Calvino risponde alla curiosità del Kublai Kan:
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco.
Ecco. Temo che si debba dire che la funzione ordinatrice dell’arco (l’urbanistica) è scomparsa. La città si è frammentata ed esplosa nella singolarità delle sue pietre, degli oggetti, le ”parti”; il ponte è diventato un cumulo di macerie, di “frammenti urbani”. La contrapposizione del “progetto” al “piano”, che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e la sostituzione del primo al secondo, ha manifestato così i suoi frutti. Questi sono, è facile vederlo, la scomparsa dell’attenzione al contesto (al contesto fisico e funzionale, ma anche al contesto sociale e culturale); l’ignoranza delle relazioni tra le parti, e l’incapacità perfino di governare nel loro insieme oggetti di media complessità (quale è una parte di città).
Lungi dl ricordare, con Eugenio Montale, che “il tutto è più importante delle sue parti”, si è dissolto il tutto nelle sue parti, che così sono diventate inanimate e sterili. Da dove si può ripartire per far sì che gli architetti e gli ingegneri (quelli almeno che lo vogliano) ridiventino urbanisti, e cioè operatori capaci di contribuire ad affrontare i problemi della città, in questa difficile fase della sua esistenza?
Edoardo Salzano
[1] Composta dal Sindaco, da tre esperti (G.C. De Carlo, E. Salzano, M. Zambrini) e da tre rappresentanri degli o0rdini professionali (P. Pisciotta, M. Vinci e …).
Sembra il libro di uno scrittore sconosciuto, che parla di un luogo sconosciuto. L’uno e l’altro collocati, forse, nel mondo arabo. Ismé Gimdalcha è l’autore; “Progetto Kalhesa” il libro. Marsilio è l’editore, ed è l’unico che non sia mascherato. In realtà Ismé Gimdalcha è Giancarlo De Carlo (Ismé, come ci svela la prefazione dello stesso autore in un altro travestimento, significa “io stesso”, e Gim-dal-cha ripete le iniziali del suo nome). Ismè è dunque Giancarlo De Carlo, il grande architetto e urbanista ammirato nel mondo per Urbino, noto e stimato tra gli architetti per tanti altri progetti di grande sapiente qualità. E Kalhesa è, in realtà, Palermo. Il libro è il diario di una esperienza di lavoro, intensa e struggente, disperata e incantata, che De Carlo condusse in quella città tra il 1979 e il 1982, insieme con un altro grande intellettuale dell’architettura e dell’urbanistica, Giuseppe Samonà, e a due professionisti locali, incaricati dal Comune di redigere un progetto di risanamento del centro storico.
Il travestimento non si ferma alla copertina (e alla retrocopertina, nella quale compare una fotografia dell’autore camuffato con baffoni e occhiali neri, cappotto tirato su fino al mento e un improbabile colbaccone). Tutto il libro è in maschera. Si apre con una telefonata di Lucio Corinzio (Luigi Colaianni, allora responsabile regionale del PCI, che implora Ismé perché collabori, designato dalla Confraternita degli Austeri (il PCI), al Progetto Kalhesa, con Aristide Fragalà (Samonà), Alerto Madonnina e Baruffa Gentile, rispettivamente designati dai Reliquari (la DC), dai Ghermiglioni (i socialisti) e dai Diluvioni ed Elleridi (PSDI e PRI).
Sembra che riconoscere i personaggi veri sotto le maschere sia stato uno dei giochi preferiti dagli architetti, nelle piovose vacanze di quest’anno. E non è difficile individuare l’urbanista Teresa Cannarozzo, agitata e generosa sentinella sulle sponde dell’abisso palermitano, sotto le sembianze di Lilluntha Cavez One, i docenti dell’Istituto di ideografia di Lagunia (Architettura di Venezia) Ezra Jashar (Bruno Zevi), Manfredo Tafuri (Otiero Manfurio), Giovanni Astengo (Otto Quanto), Ignazio Gardella Telel Gard’hal), Luigi Piccinato (Kurt Smallish), Vittorio Gregotti (Gregorio Mediotti), Egle Trincanato (Glè Bevier), e ancora Le Corbusier (El Muftì), Elio Vittorini (Tor Eliogallo), Alvar Aalto (Egelin Anf), Carlo Doglio (Celso Foglio), Ernesto Belgioioso (Umberto Pulchris) e molti altri.
Più che Lagunia e gli altri luoghi dell’Internazionale dell’architettura la vicenda descrive Palermo e il suo mondo politico, sociale e culturale. E’ un racconto realistico e vero (De Carlo lo ha vissuto giorno per giorno, e lo analizza con la curiosità dell’esploratore e la freddezza dell’entomologo), ma al tempo stesso è reso astratto, quasi trasfigurato nella narrazione di una vicenda universale, dall’impiego sistematico del travestimento dei luoghi, delle persone e delle istituzioni e da una scrittura scorrevole e sapiente al servizio di un pensiero profondo.
Nel mare delle comparse due personaggi dominano il libro. Il primo è Aristide Fragalà, vero regista della complicata trama del Progetto Kalhesa (mai approdato alla concretezza, come forse si era voluto fin dall’inizio?) verso il quale l’autore rivela (verrebbe voglia di dire “smaschera”) un intensissimo rapporto di sospetto e amirazione, di rispetto e diffidenza, di distacco e di tenerezza: un rapporto complesso restituito nella sua dinamica lungo il percorso del Progetto Kalhesa, per concludersi con accenti di intensa pietas nelle pagine dedicate alla morte di Samonà.
Il secondo protagonista è il clima politico e culturale della Palermo di quegli anni. Nella città, e nel libro, si agitano confusamente i tentativi di rinnovamento degli Austeri, onesti ma impotenti per il loro esiguo peso e per la loro ingenuità, l’apparente disponibilità progressiva dei Ghermiglioni e dei Reliquari, sapienti nella tessitura delle diplomazie consociative. Ma il Deus ex machina, intuìto e ricorrentemente scrutato dalla curiosità forestiera da Ismé ma mai svelato, dissimulato com’è sotto i mille veli dell’omertoso compiacimento dei Reliquari e della Congrega del Dio operoso (l’Opus Dei?), è l’Organika, la Mafia. (Una divinità ancor oggi potente se è vero, come si afferma, che l’autore non riuscì a pubblicare il libro presso un editore siciliano, con il quale aveva già firmato il contratto e al quale aveva già restituito le bozze corrette).
Così, gli sforzi disordinati e le geniali intuizioni dei quattro architetti, diversamente coinvolti negli interessi locali (il più astratto e distaccato è Ismè-De Carlo, vuoi per la sua struttura logica e morale di settentrionale anarchico e illuminista, vuoi perché il suo riferimento è costituito dagli onesti Austeri), si insabbiano su un’inefficienza del potere pubblico generata dalla simbiosi tra la mollezza levantina del costume locale e il potere occulto di Cosa Nostra. Da questo punto di vista, la chiave del racconto è nella pagina in cui appare che l’unico che davvero conosce la città come il palmo della sua mano, e che quindi è capace di governarla, è l’uomo dell’Organika nell’amministrazione, Beppe Cianfrogna (dietro la maschera si intravede Vito Ciancimino): mentre gli uffici non riescono a redigere le carte per il progetto, si scopre che Cianfrogna possiede a casa sua un gigantesco plastico della città in cui, con legni di diverse essenze, sono rappresentati, e via via aggiornati, tutti gli edifici vecchi, nuovi e futuri distinti secondo i loro valori di mercato.
Questo episodio fa intravedere un’ulteriore, e amara, verità, cui l’autoironia di De Carlo più volte rinvia. In fondo, l’avventura cui Lucio Corinzio l’ha chiamato è un’illusione. Le lunghe discussioni, i rarefatti e acuti ragionamenti, gli scontri intellettuali apparentemente fecondi tra i due Maestri, Gimdalcha e Fragalà, non conducono a nulla. Il loro lavoro, l’apparato consociativo che attorno a loro si forma, le stesse regole lottizzatorie applicate della formazione del gruppo, il continuo rinvio della formazione di un ufficio per la pianificazione, la decisione politica di far scaturire le regole per il governo della città da demiurghi chiamati da fuori, rivelano il loro carattere strumentale.
Non è, quello di Giancarlo De Carlo, un romanzo sull’urbanistica: è la denuncia di un’urbanistica in maschera. Ormai consegnata alla storia e descritta cento anni dopo in un manoscritto fortunosamente rinvenuto da un viaggiatore in un caffè dell’Egeo, come appare nella prefazione, oppure, qui e là, ancora attuale? Ma questo è un altro discorso.
Edoardo Salzano
Entusiasmo e coraggio senza precedenti, quello di cui Flavia Schiavo dà prova in questo libro. Sono indubbiamente qualità necessarie per chi si proponga di sottoporre a un’analisi linguistica una realtà così complessa e complicata, un testo (un «tessuto») così ricco e composito, come quello costituito da un piano urbanistico.
Un piano urbanistico è già di per sé un testo assai complesso: norme, disegni, analisi in svariati settori, relazioni illustrative o argomentative o giustificative, deliberazioni e atti specificamente amministrativi. È un testo scaturito non dalla mente di un unico soggetto pensante, ma dalla dialettica di una molteplicità di soggetti, dai pensieri spesso conflittuali e non sempre emergenti dalle “carte”, di attori che parlano linguaggi spesso diversi e rispondono a diverse fedeltà disciplinari e culturali. Ma Schiavo non è contenta di questa difficoltà e l’aumenta dando al termine “piano” un significato più largo, e comprendendo in esso tutto ciò che ne connota il contesto: dagli articoli di giornale alle conferenze, dalle leggi, al quadro politico e amministrativo.
Un’operazione, quindi, davvero piena di rischi. Per cercar di evitarli, o almeno per avere qualche speranza di ridurne l’impatto, Schiavo costruisce un ricchissimo deposito di letture derivate da una congerie ampia di saperi. Dà prova, in tal modo, di saper percorrere e utilizzare una panoplia assai vasta di discipline: è un modo di dimostrare che un urbanista è in primo luogo un esploratore attento dei campi vicini ai suoi. Molto al di là della formazione canonica di un urbanista è però la forte capacità, che Schiavo dimostra, di teorizzare e di creare interazioni suggestive tra concetti e strumenti appartenenti a sfere disciplinari diverse dall’urbanistica ma con essa relazionabili.
In modo spesso spericolato e, per così dire, senza rete: invece di cimentarsi nella «redazione di un elenco, o un lessico su cui operare, per esempio un’analisi semantica, categorizzazioni tematiche o attribuzioni temporali», l’autrice preferisce «l’avvitamento dentro il testo, l’approfondimento a volte ossessivo e insistente che ha portato ad addentrarsi sempre dentro nuove stanze, alcune irrimediabilmente prive di uscita diretta, attraverso la ricerca di una qualche possibile origine dei termini chiave, pienamente consapevoli dell’impossibilità di raggiungere la vera o l’unica origine, attraverso la scoperta delle infinite fluttuazioni di espressione e di contenuto che le parole sanno veicolare» (p. 58).
L’amuleto che, a somiglianza del topolino bianco d’avorio di Dora Markus, le impedisce di cadere nel vuoto è l’inesauribile capacità di aggrapparsi a una sconfinata serie di riferimenti e citazioni, analogie e riscontri, raccolti percorrendo praticamente tutti i campi dei moderni saperi. Giovandosi di una ricca sequela di argomenti e deduzioni, Schiavo costruisce un suo metodo interpretativo: più precisamente, un sistema di coordinate nel quale ordinare gli elementi del linguaggio urbanistico.
Delle ipotesi che orientano il suo lavoro vorrei sottolinearne due, anche per esprimere su di esse alcune osservazioni.
La prima riguarda la centralità che nel libro assume il piano regolatore comunale (quale che sia la sua denominazione). Questo è presentato come un ipertesto, come un documento che di fatto non solo è un atto suscettibile di regolare le trasformazioni fisiche e funzionali della città, ma è anche un «testo formalizzato» nel quale «si coagulano e prendono visibilmente forma le frammentazioni e le ricostituzioni del sapere disciplinare, strutturate (e successivamente osservate) in relazione alle capacità di riconoscere, interpretare ed eventualmente modificare la realtà esterna» (p. 67). Un testo, insomma, capace non solo di esprimere la cultura dell’epoca, ma di formarla ben al di là della cerchia degli esperti, contribuendo poderosamente a foggiare l’immagine collettiva dell’oggetto al quale si riferisce (la città).
Il rischio che vedo allora è quello di una ipostatizzazione del piano che, caricandolo di troppi significati, e in qualche modo idealizzandolo, gli faccia smarrire le caratteristiche di strumento: utile e, allo stato, insostituibile, ma certo limitato, parziale, suscettibile di mille integrazioni con altri strumenti ugualmente finalizzati.
La seconda riguarda l’attenzione al rapporto tra città e spazio extraurbano. Il «rapporto tra città e territorio esterno» viene assunto come «elemento centrale» per la «rifondazione» del contesto territoriale, cioè per lo svolgimento di «un atto – culturale e materiale – che, in quanto pretende di ripartire dal fundus cioè dal residuo più intimo e nascosto, intrattiene dialettici e spesso difficili e conflittuali rapporti con l’idea di Città preesistente» (p. 62). E il modo in cui, nella successione dei piani regolatori di Barcellona, quel rapporto sia stato nominato (pensato, teorizzato, risolto, definito, regolato nelle procedure e negli istituti, suggerito nelle immagini e nelle fantasie) è uno dei fili conduttori del ragionamento. Ma su questo punto occorrerà tornare.
Schiavo prende in esame praticamente tutti piani che hanno caratterizzato la ricca vicenda urbanistica della capitale catalana a partire dalla metà dell’800. Ed è ovvio che dia un rilievo particolare al piano dominato dalla presenza di quel personaggio, decisivo per la formazione della cultura urbanistica moderna, che fu Ildefons Cerdá. Sceglierlo come punto di partenza del suo lavoro (e in qualche modo suo protagonista) è del tutto ragionevole dato l’obiettivo della tesi. Cerdáinfatti è autore, quasi contemporaneamente, del Plan de Reforma y Ensanche de Barcelona del 1859, e della Teoría General de la Urbanización (pubblicata nel 1867), uno dei testi principali della nascente cultura urbanistica.
Per Cerdá, come per Schiavo, le parole sono decisive. Lo rivela questo brano, che nel libro si riporta con evidenza:
«[…] si comprende che le parole rappresentano idee, e che a ciascuna parola corrisponde un’idea determinata, idea che può non esser stata sempre la stessa, che può essersi modificata col trascorrere del tempo, e aver perso tanto della sua forza originaria o averne acquisita in maggior misura; oppure aver subito con l’uso variazioni analoghe, è chiaro che nel ricercare, con le nostre esplorazioni, la fonte o l’origine di una parola, non cerchiamo le precise varianti che hanno subito le lettere o le sillabe, bensì l’idea a cui quella parola fu in origine applicata e la storia, per così dire, dell’idea nelle sue diverse fasi, storia che non poche volte e con piacere indefinibile trova il filosofo indicata, rivelata dalle sue varianti che le generazioni e i secoli hanno introdotto lentamente ed impercettibilmente in quella parola» (Cerdá, p. 75).
La durezza delle parole, la loro forza, e insieme la variabilità dei loro significati, il percorso dialettico che la loro storia esprime: questo è quello che Cerdá sottolinea, e che a Schiavo soprattutto interessa.
Ma innanzitutto, l’impiego corretto delle parole. Citiamo ancora i suggerimenti che Schiavo raccoglie da Cerdá:
«che non si utilizzi una sola parola di cui non si conosca la genuina origine etimologica […] che non si costruisca una frase che non abbia una struttura grammaticale; che non si faccia nessun discorso che non sia frutto di un adeguato ragionamento» (Cerdá, p. 85-86).
Ammonimento validissimo oggi più che ieri; insegnamento che dovrebbero raccogliere, ad esempio, i moltissimi che impiegano il termine “federalismo”, inventato per unire realtà diverse, per indicare invece la divisione di ciò che è uno; oppure quanti, anch’essi numerosi, impiegano il termine “strategico”, coniato per definire la visione generale e la lunga gittata, per elencare invece le cose concretamente fattibili nell’immediato.
Nel racconto di Schiavo, nella sua interpretazione del lascito di Cerdá e del suo contributo all’urbanistica moderna emerge con chiarezza (a partire dalle parole adoperate e dai loro significati) la forza di quella concezione della città e del territorio che ha saputo trasformarli costruendo nuovi valori – e anche la carica distruttiva dei valori preesistenti implicita delle parole stesse della sua missione.
Afferma Schiavo: «I due termini Reforma (riforma) ed Ensanche (espansione) esprimono chiaramente il rapporto con la storia e con le preesistenze. “Riforma” è riferito alla città storica, da modificare, adeguare e riformare ma che viene comunque riconosciuta come preesistenza con la quale misurarsi. Il termine “espansione” è significativo del rapporto con l’intorno agrario; questo non viene né riconosciuto, né identificato come elemento da tutelare o salvaguardare» (p. 93).
La città storica viene trasformata, le preesistenze vengono assorbite, il territorio fino ad allora extraurbano viene conquistato in un nuovo disegno, in un “progetto”, in una nuova “forma urbis” (la scacchiera minuziosamente definita in tutti i suoi elementi e le sue quantità) che si sovrappone a ciò che v’era prima, cancellandolo. «Nella visione di Cerdá non esistono tracce storiche che possiedono un valore particolarmente elevato, e non esiste città ideale se non quella futura» (p. 95) e, come nel piano di Barcellona, così nella Teoría General, continua l’autrice, «muta radicalmente l’idea di città che viene vista […] come sistema territoriale indefinito e in espansione. L’antica reciprocità città/campagna si trasforma passando da un rapporto di dipendenza proprio dell’età feudale […] ad un rapporto di sfruttamento/rimozione, appartenente al modello urbano capitalista: contemporaneamente si dissolve l’antica dicotomia verbale e concettuale, di matrice medievale, tra “extra muros” e “intra muros”» (p. 111).
Come Schiavo ancora annota, inseguendo nei loro significati molteplici parole pronunciate in contesti differenti, la proposta operativa di Cerdá è espressione matura di un’ideologia nella quale il termine “civiltà” viene pressoché interamente ridotto al termine “sviluppo”, e quest’ultimo è a sua volta riconducibile al termine “espansione”. L’urbanista è l’attore che, adoperando gli svariati saperi che le numerose discipline utilizzabili mettono al suo servizio, inventa, propone e rende concreta una “forma urbis” capace di assicurare, attraverso una ben orientata e organizzata “espansione”, l’ulteriore “sviluppo” e quindi il progredire della “civiltà”.
Emblematico di questa ideologia è la rottura fisica delle mura della città. A Barcellona questa era avvenuta, ricorda Schiavo, qualche decennio prima di Cerdá. Ma lui prosegue lucidamente nell’operazione e, in un brano sottolineato dall’autrice descrive l’area limitrofa alle mura storiche come una «zona incolta dove è impossibile costruire», affermando:
«l’azione delle mura è così potente e funesta […] che, dopo aver costretto e compresso le forze di urbanizzazione, naturalmente tendenti all’espansione di un nucleo urbano, trasforma in deserto una grandissima estensione di terreno che avrebbe potuto essere vantaggiosamente urbanizzato» (Cerdá, p. 114).
“Rompere le mura” è un atto che ha avuto un significato simbolico e pratico fino ai giorni nostri. La citazione di Cerdá mi ha fatto venire in mente un altro personaggio, Enzo Miglietta. Era un pittore e poeta naif, di un paese del Leccese, di cui mi capitò anni fa di presentare una raccolta di singolari disegni commentati da poesie. Gli chiesi come mai le sue opere raccontassero la costruzione di strade e case, e insieme di muretti a secco e ridenti campagne. Mi raccontò che il suo lavoro di geometra e imprenditore consisteva nel comprare campi (i bellissimi campi cintati da grigi muretti a secco, rossi di terra e verdi di olivi, che circondano Lecce), buttare giù i muretti, costruire strade e vendere i lotti. Il momento più gioioso – mi disse – era «rompere il muro ed entrare nel campo con la ruspa». Miglietta aveva smesso di portare il suo contributo alla distruzione del paesaggio, ed era diventato pittore e poeta, quando la “legge ponte” del 1967 diede all’urbanistica italiana qualche regola nuova, orientata a una maggior tutela dei valori del territorio. Per proteggere un po’ meglio le campagne italiane bastò la “legge ponte”; per superare l’ideologia civiltà-sviluppo-espansione il cammino è ancora lungo, così radicati sono ancora nella cultura italiana i miti dell’800, che Cerdá limpidamente esprimeva.
Seguire Schiavo nel percorso che la conduce attraverso i piani di Barcellona (da quello di Cerdá del 1859 al Plan de Ordenación de Bercelona y su zona de influencia del 1953, al Plan Director del Área Metropolitana del 1966, al Plan General de Ordenación Urbana y Territorial de la Comarca de Barcelona del 1974) significa viaggiare in molte dimensioni. Significa attraversare le diverse fasi dello sviluppo della città e del suo territorio, il succedersi dei problemi economici e sociali e delle proposte politiche. Significa seguire le trasformazioni e deformazioni e ri-significazioni dei termini consueti, e l’invenzione di termini nuovi: strumenti della volontà di trasformare la realtà fisica e quella sociale mediante il piano. E significa incontrare la parallela evoluzione della cultura urbanistica europea e ragionare sulla formazione di quella disciplina inquietante ed inquieta, di quella «scienza di sintesi» (come giustamente la definisce l’autrice) tra saperi e tecniche mutevoli: appunto l’urbanistica.
Nell’arazzo tessuto da Schiavo, in cui la trama è costituita dalle vicende urbanistiche della città catalana, l’ordito è costituito dalle parole che esprimono i diversi momenti, strumenti, acquisizioni, velleità e illusioni della teoria e della tecnica della pianificazione. Confine, limite, margine, delimitazione, frontiera, interfaccia; città, territorio, spazio, espansione, macchia d’olio, città compatta, dispersione urbana, organico, struttura, città-regione, città-territorio, comarca, area metropolitana, hinterland, area vasta; forma urbis, densità, coefficiente di edificabilità, standard, congestione, riequilibrio, zonizzazione, maglia urbana, maglia isotropa, maglia viaria, rete di connessione; centro, centro storico, suburbio, periferia, centro direzionale.
Le parole dell’urbanistica (o le parole dell’urbanista) sono ovviamente le regine del testo. A volte l’analisi della vicenda catalana, più che l’oggetto proprio del lavoro, sembra un pretesto: l’occasione per parlare delle discussioni di oggi tra gli urbanisti italiani.
Ed è proprio in relazione alle discussioni di oggi che vorrei formulare un’ultima osservazione. Nel lavoro di Schiavo l’analisi si esercita – come ho più volte affermato – sulle parole. Dietro le parole, ci sono le idee e le pratiche: nella fattispecie, c’è il concreto del lavoro dell’urbanista.
Ora, a proposito del “linguaggio urbanistico”, Schiavo osserva che esso “non è una forma espressiva dotata, al di là di pulsioni teoriche tendenti verso monodromia e stabilizzazione, di elevato regime di univocità” (p. 256). Benché siano legittime le ragioni della “tensione disciplinare verso la stabilità, l’unicità dei linguaggi”, benché sia comprensibile l’aspirazione alla “formazione di un linguaggio non arbitrario, normativo, e di codici condivisi”, esse non sembrano convincere l’autrice. Essa sottolinea infatti che “le variazioni dell’objectum (la città e/o il territorio), dei paradigmi e dei riferimenti esterni e interni, e la stessa indeterminatezza di quella scienza vaga, sfuggente e in fieri che è l’urbanistica collocano il ‘linguaggio’ disciplinare in un campo di estrema e feconda instabilità e mobilità”.
Questo atteggiamento mi sembra sensato. Vi è tuttavia il rischio che la “instabilità e mobilità” si riflettano dal linguaggio alla pratica: se panta rei, se tutto scorre, dove poggerò i piedi per rendere migliore l’ordinamento della città e del territorio oggi? Con quali parole esprimerò le certezze, che pur devo esprimere, se voglio che le mie proposte siano convincenti e si traducano in fatti?
A me sembra che la risposta possa essere fornita da un atteggiamento empirico, che si traduca in una chiara enunciazione della interpretazione della realtà che ci si propone di trasformare, degli obiettivi che ci si propone di raggiungere, del percorso che si intende seguire per raggiungerli, degli strumenti che si intende adoperare o foggiare, delle verifiche che si intende compiere lungo il percorso. Ma avendo, come suggerisce Schiavo, “la consapevolezza della provvisorietà dei termini”. Precisando quindi con quale esatto significato si intenda adoperare i termini ambigui, o quelli cui si intende conferire un senso nuovo, o quelli che si coniano ad hoc. Non fece così, del resto, Ildefonso Cerdà?
Two threats hang over Venice. The first comes from inside: the city’s crawling transformation into a chaotic “Disneyland”. The second comes from outside: it is represented by the “MoSE”, a huge dam project whose foundation stone was laid by Mr. Berlusconi (who else?) some weeks ago.
The MoSE (from Experimental Electromechanical Module) is a very “hard” and gigantic system of mobile barrages (they entail huge permanent installations) to block water at the three outlets between the Lagoon of Venice and the sea (the bocche di porto). The Lagoon’s environmental equilibrium depends on the exchange of sea and brackish water through these outlets. This includes the equilibrium of the waters, of vegetation, and of fauna in this precious natural environment. The MoSE would automatically block the access of seawater when tidal surges threaten to flood some of the city’s inhabited areas.
Why is this system judged by many to be of uncertain utility, harmful for the activity of Venice’s port (one of the main economic resources of the city) and devastating for the ecological equilibrium of the lagoon? In short, why do many consider the “MoSE” to be a “Mo(n)S(t)E(r)”. We will try to explain.
Venice was built on low islands and sandbanks in the middle of a rich coastal lagoon. For over 1,000 years storm surges have washed exceptional high tides into Venice’s squares and alleys. Venetians call them acque alte – high waters – and, typically, they last two to three hours at a time.
In November 1966 pounding rain and an exceptional wind-swept tide flooded nearly all the city streets for 24 hours. The storm focused world attention on Venice. The reason? Venice had “sunk”.
Since the early 1920s mainland factories have tapped underground freshwater, depressing the land under Venice in the process. By the time pumping was finally stopped in the 1970s, Venice had sunk by about 12 centimeters (almost five inches) – a small but important altitude change for a sea-level city.
In addition, deep shipping channels were dredged through the lagoon’s three inlets to transport raw materials – including crude oil for a neighboring petrochemical complex. The deeper channels brought stronger currents, speeding the Adriatic’s high tides towards Venice, exacerbating flooding and eroding the lagoon’s salt marshes.
And, the final nail, the northern Adriatic has risen by about 10 centimeters over the past century.
Today waters wash across St Mark’s Square – Venice’s lowest point – 50 or more times a year. Heavier storm surges now flood higher sections of Venice, too, forcing residents to don waterproof boots to reach their offices and schools.
The November 1966 event led to a far-sighted 1973 law to protect Venice, much discussion, and limited action. In the early 1980s, a new organization was created: the Consorzio Venezia Nuova (the New Venice Consortium), uniting private and state-owned companies vying for what promised to be fat public works contracts to protect the city.
The Italian government soon named the New Venice Consortium its ‘exclusive concessionaire’ for public works to safeguard Venice. This means that the consortium essentially holds a monopoly on state-funded work to ‘save’ Venice and protect its lagoon, for everything from strategic planning to research, project design and construction. And since 1984 the Italian government has provided the consortium with over two billion Euros to study the lagoon’s ecology and hydrology, rebuild sea walls along the lagoon’s barrier islands, restore salt marshes and much more. All without any competitive bidding.
Of course, the great prize is the “MoSE”, the system of dams that the Consortium designed and now wants to build. To stop the flooding, Consorzio Venezia Nuova (the New Venice Consortium) has proposed a gigantic dam system: a line of 78 huge metal containers – each at least 20 by 20 metres in size – nestled in underwater foundations stretching across the three inlets between the Adriatic and the lagoon (each inlet is up to half a kilometre wide). For most of the time the hollow containers would be filled with water. To stop a storm surge from the Adriatic, air would be pumped into the containers – causing them to rise like enormous teeth across the inlets.
Look here to understand better what Mo.S.E. is Ú
Behind the Consortium (holding 40 per cent of its shares), is Impregilo – a Milan-based construction giant that builds dams, highways and power plants in over 40 countries.
The supervision of the concessionaire provided by the national government’s office in Venice (the Magistrato alle Acque), has been weak at best. The Consortium rather than the Magistrato holds nearly all the technical capacity and knowledge. Indeed, the Magistrato has hardly ever made a public proposal that differs from the Consortium’s position.
The Consortium and its allies are masters at PR. One little event can help to understand how they are able to employ the resources provided by the Italian Government to overcome all, even official, opposition to their “MoSE” project. In December 1998, Italy’s national Environmental Impact Assessment Commission failed the “MoSE” project. The next month, four professors from the Massachusetts Institute of Technology (MIT) flew to Rome and held a press conference criticizing the decision. The dams, they said, were the best solution for Venice. They spoke, the Italian press reported, for MIT and for the ‘international scientific community’. Few papers noted that they were paid consultants to the consortium.
With its powerful, legally sanctioned role and its combination of PR savvy, technical expertise and political connections, the consortium has pushed its dam project steadily – like a steamroller.
Attempts to reform the state’s curious institutional structure in Venice have come to naught. For example, a 1995 law ended the system of exclusive concessionaire. The Italian Senate the next year passed a resolution calling on the government to carry out this law immediately. Nothing happened. Nor has Italy’s government created an independent strategic planning office for Venice and its lagoon, despite official decisions to do so.
Even European law has been interpreted in unexpected ways. Responding to the Green Party and Italy’s leading environmental group Italia Nostra in 1999, the European Commission opened an investigation into whether EU directives requiring competitive bidding for government contracts had been violated. Brussels initially took a hard line. But two years later the commission closed the case, accepting a proposal from the Italian government: components of the dam project (perhaps worth half its total value) would be open for bidding, but the bidding would be organized not by the government but the Consortium. Thus, the concessionaire was given even more power.
To understand why we call the Mo.S.E. “A Dangerous Monster”, we must note that the equilibrium of the lagoon has depended for centuries on daily work to manage its numerous elements (the length and depth of the thousands of canals, characteristics of the vegetation, defence of the coastline, extension of the brackish basin, level of sediment supplied by the rivers).
This human intervention has for centuries protected and maintained a precious natural environment. Only thanks to this control has it been possible to defend the lagoon from the two natural destinies it could face: to become a swamp and eventually mainland, if the sediment flows were to prevail, or to become an open bay, if the force of the sea was to prevail.
Only a modern systemic vision allows us to preserve that equilibrium today. The solution to the exceptionally high tides (acque alte) is closely connected. As noted above, these acque alte have become steadily more aggressive as a consequence of several factors:
- the (now ceased) extraction of underground waters for industrial purposes in the Marghera industrial plants;
the reduction of the area where the tide can expand (caused by filling in parts of the Lagoon and the closure of fishing areas to the tides);
- the gigantic increase in the cross-section of shipping channels, allowing high tides to rush towards the city (in particular through the oil tanker); and finally
- a rise in the sea level (due to the global climatic events).
In the debate over the “MoSE”, local political forces concerned about the environment and interested in a sustainable development are opposed to those interests seeking economic opportunities linked to the public works. This debate can be summarized in the contrast between two projects: the MoSE and a low-impact alternative that has never been considered at official level.
Very schematically, the alternative approach has as its primary aim re-balancing the complex system of the lagoon, by acting on the whole set of elements that compose it. In a recent document (see in Annex) the main lines of the project include:
1. Reducing the depth, width and wind exposure of the Lagoon's three outlets to the sea. These measures can be compatible with current port traffic, and they would be experimental, gradual and reversible.
2 Completing work to raise the lowest parts of the city. The Venice City Administration is now systematically raising low points of the city as it undertakes urban maintenance, By raising and protecting low areas such as St. Mark’s Square, high-water flooding events could occur an average of less than 4 times a year, in most cases for only a limited duration and for only a small part of the city.
Together, these two first types of actions would reduce current flooding events to an average of only once every five years.
3 Removing oil tanker traffic from the Lagoon - as specified under Italy's 1973 special law for Venice - and building a dock along the Lido, outside the Lagoon, for the largest cruise ships that visit Venice would allow a further reduction in the depth of outlets and of shipping channels, eliminate additional flooding events, and help restore the Lagoon's environmental equilibrium.
Other vital actions are needed to protect this World Heritage Site: the Lagoon's morphology and its hydrodynamics need to be restored, water pollution in the Lagoon and its water basin should be reduced, and the production and movement of dangerous goods in the Lagoon should be stopped. (from the Appeal to UNESCO by the Committee to Save Venice with its Lagoon – see Annex.)
The official project (Mo.S.E.) proposes a heavy engineering approach that is pharaonically expensive, of uncertain effectiveness, potentially very harmful for the relevant elements of the ecosystem of the lagoon (and for its whole equilibrium) and irreversible.
But let us look a little closer at this “Mo(n)S(t)E(r)”.
The political and PR power of the New Venice Consortium has heavily conditioned all the information about the Mo.S.E.. A propaganda campaign has convinced Italian and international public opinion that the Mo.S.E. is necessary to save Venice. But the Consortium’s propaganda omits some basic information.
1 The proposed dams failed their official environmental impact review in 1998.
2 The consortium wants to dredge about five million cubic meters of the Lagoon’s bed and dump almost eight million tons of rock and 700,000 tons of concrete in its place: altogether, enough material to build the three great Egyptian pyramids at Giza! At the Lido inlet, the consortium wants to build a new, artificial island. Over 50,000 tons of sheet metal would be submerged in the form of the container-shaped gates.
3 During long closures the dams could bottle up industrial and agricultural pollution in the lagoon, which is now flushed by the regular tides. The city also lacks modern sewage treatment. The 1998 review noted that predicting exceptional high tides is an uncertain business. The dams may need to be raised following many false alarms, thus increasing pollution risks.
4 Anodes to protect the metal gates from sea-water corrosion would release over 10 tons of zinc into the lagoon a year. The toxic metal could accumulate in the food chain.
5 The consortium’s project ignores a fundamental cause of flooding in Venice – the deep shipping channels through the lagoon’s inlets. The consortium wants to open them even further, replacing their current V shapes with straight cuts across the full width of each inlet. This, warns Paolo Perlasca of WWF/Italy’s Venice office, risks accelerating erosion in the lagoon and endangering its remaining salt marshes and mud flats, which are protected (at least on paper) by the European Union’s Habitats Directive.
6 The dams would be expensive to build. The consortium estimates total costs at over three billion Euros, but critics warn that the never-before-built system could cost far more.
7 After construction, the Consortium could then reap millions of dollars a year for their operation and maintenance. These costs are also extremely difficult to estimate, as the underwater structure would face ongoing corrosion and encrustation and would require extensive maintenance.
8 The dams may not even protect Venice from flooding. Global warming and sea-level rise could make them obsolete within a few decades. Renowned Venetian climate change scientist Paolo Antonio Pirazzoli writes that the dams ‘could hardly cope with a relative sea-level rise much greater than about 0.3 meters’. In its 2001 report, the UN’s Intergovernmental Panel on Climate Change gives as its most likely estimate for 2100 a 0.48-metre sea rise. The UN’s worst-case scenario forecasts this rise occurring within a few decades. Pirazzoli also predicts that water would pass between the dams’ containers, which would be an important factor during long closures. Also, in Venice’s worst flooding (as in 1966) torrential rains and swollen rivers add to the rising tides.
Business and politics in Italy have become in the last years two faces of the same coin. The prime minister is the country’s richest man and owner of a sprawling media empire that includes three national TV networks. Berlusconi’s government has shown little interest in the environment: last October, his environment minister sacked 23 of the 40 members of the national environmental impact commission. The government appears to have wiped negative impact assessment of the “MoSE” from its memory.
Last year the new government allocated 450 million Euros for the first tranche of the dam project: a series of ‘complementary works’, including shipping locks to appease the Port of Venice (the only major economic interest with reservations about the scheme). Berlusconi has cut all other national money for Venice: all its funds for architectural restoration, for the city’s unique maintenance needs, and more.
Flooding is not Venice’s only environmental crisis. The nearby petrochemical complex is a highly polluting time bomb. In November, a toxic fire there nearly engulfed storage tanks containing deadly phosgene gas. In addition, mechanical clam-fishing techniques are destroying the ecology of the lagoon’s shallows. And motorboats bringing tourists and cargo through the city erode the canal walls – the foundations of Venice’s palaces. All these problems need public funds to help find solutions.
In Venice opposition to the dams continues. In September 2002 both the city and the provincial councils voted against the ‘complementary works’. In December an environmental alliance called Salvare Venezia con la Laguna (Save Venice with its Lagoon) presented its strategy to restore the lagoon’s equilibrium. Unlike the consortium’s risky surgery, the environmental proposal targeted Venice’s underlying illness. And in January 2003, political parties in the city sponsored public debates on the dams and possible alternatives – alternatives that the national government ignored when it approved the “MoSE” later this year.
What Venice needs, wrote US scientists Albert Ammerman and Charles McClennan in the journal Science two years ago, is ‘fresh thinking in the search for new, alternative solutions’. In Rome’s halls of power, however, there’s only one official project.
But time is running out: in April 2003, Italy’s national government gavea final go-ahead to the dams, and Berlusconi himself went in Venice to inaugurate what he called the beginning ofconstruction. Must we conclude that “ tout les jeux sont faits ”? I don’t think so. The Consortium will be busy for a couple of years building preliminary works – not the dams themselves.
If all those who oppose the Mo. S. E. and all those that have doubts about its utility couldexplain to international public opinion the real dimensions of the problem, perhaps we could stop this project that threatens to cancel the Lagoon of Venice and its environment, not less precious than the city’s stones, palaces and campi. This is our hope.
(This paper is based on an earlier article, “Death of Venice”,
by Anthony Zamparutti, The Ecologist, London, March 2003.)
This Appeal to Unesco was promoted from the “Committee to Save Venezia with its Lagoon”. The following groups support the Committee: Wwf-Italia, Italia Nostra, Verdi Ambiente Società, Sinistra Ecologista, Medicina Democratica, Camera del Lavoro Metropolitana di Venezia-Cgil, Associazione Airis, Associazione Bortolozzo, Associazione Batteria Rochetta e Dintorni, Associazione per la Difesa dei Murazzi Circolo Margaret Thatcher, Comitato Certosa-Sant'andrea Ecoistituto "Alex Langer" Del Veneto Estuario Nostro; Gruppo per la Difesa del Litorale – Cavallino, Gruppo Salvaguardia Ambiente "La Salsola".
We present this appeal about the grave risk facing Venice and its Lagoon to the leaders gathered here in Venice on the 30'` anniversary of UNESCO's World Heritage Convention.
Italian special laws protect this World Heritage Site, comprised of Venice jointly with its Lagoon.
Over nearly 20 years, however, the capacity of the Italian State to manage and protect Venice and its Lagoon has been steadily weakened. Since 1984, the Italian government has delegated all state actions - from studies and research to project design and construction - to a single, exclusive, private concessionaire, the Consorzio Venezia Nuova. Thus far, this Consortium has received 2.5 billion Euros of public money for such works. The Consortium has proposed a colossal system, commonly called "MoSE": three mobile dams across the Lagoon's three outlets to the sea to counter high-water flooding in Venice.
Italy's National Environmental Impact Assessment Commission, whose review was required under law, gave the dams a negative judgement. The entire project is unsustainable and obsolete:
• Both its construction and maintenance would have heavy and permanent impacts on the Lagoon.
• It is neither experimental, nor gradual, nor reversible - key requirements under Italy's special' laws for Venice - and thus does not respect the precautionary principle.
• The project is not able to respond to fast-rising high waters (unless there are frequent "false closures" - i.e., the mobiles dams are often shut for false alarms).
• The project will not defend Venice from flooding in the event of worst-case scenarios for sealevel rise caused by global climate change.
The "MoSE" is presented as a project that will "save" the city from high water flooding, a message broadcast at international level with expensive public relations. The Italian government appears ready to build this obsolete design, whose negative impacts have been increased by the recent addition of "complementary structures", including shipping locks. The national government, in its 2003 budget, proposes 600 million Euros for the first phase of the "MoSE" project, but earmarked nothing for other essential protection measures in Venice - such as the architectural restoration of the city, pollution control and environmental re-equilibrium of the Lagoon, and alternative measures to reduce flooding.
In September of this year, the Venice City Council and the Venice Provincial Council both voted a negative assessment on the initial, "complementary structures" of the MoSE, specifically the shipping locks. Both Councils called for the design and construction of alternative works, independent of the "MoSE", to increase effectively the "dissipative capacity" of the Lagoon's three outlets and thus to reduce high tide peaks.
Indeed, effective and sustainable alternatives exist to defend the city now from most flooding and help return the Lagoon to environmental equilibrium. Among actions to be taken immediately:
1. Reducing the depth, width and wind exposure of the Lagoon's three outlets to the sea. By eliminating the majority of flooding events. These measures can be compatible with current port traffic, and they would be experimental, gradual and reversible.
2 Complete work to raise the lowest parts of the city. Venice lies between +80 and +200 cm above the mean sea lever mark. The Venice City Administration is now systematically raising low points of the city as it undertakes urban maintenance.
Protecting St. Mark's Square, the lowest part of the city and thus the most exposed to flooding, is slightly more complicated. Now at last, the separate work to raise the borders of the St. Mark's area will begin.
By raising and protecting low areas to +110 cm above the mean sea level mark, high-water flooding events would occur an average of less than 4 times a year, in most cases for only a small part of the city. Raising and protecting them to +120 cm will cut flooding to an average of only 1.5 times a year, for a total duration of little more than 2 hours a year.
Together, these two types of actions would reduce current flooding events to an average of only once every five years.
3 Removing oil tanker traffic from the Lagoon - as specified under Italy's 1973 special law for Venice - and building a dock along the Lido, outside the Lagoon, for the largest cruise ships that visit Venice would allow a further reduction in the depth of outlets and of shipping channels, eliminate additional flooding events, and help restore the Lagoon's environmental equilibrium.
Other vital actions are needed to protect this World Heritage Site: the Lagoon's morphology and its hydrodynamics need to be restored, water pollution in the Lagoon and its water basin should be reduced, and the production and movement of dangerous goods in the Lagoon should be stopped.
Once all these actions are taken to protect the city and its Lagoon, together with the sea defense system already built along the Lagoon's outer coast, an effective, environmentally compatible, and affordable system to protect Venice will be in place. Following- this, an appropriate project to protect against sea-level rise could be realized.
Venice jointly with its Lagoon is a unique part of the world's common heritage. They deserve the most sustainable strategies for protection and restoration.
Comitato "Salvare Venezia con la Laguna"
La maggior parte di noi vive in città. Il più delle volte in modo passivo: come fosse una prigione dalla quale, una volta all’anno, in occasione delle ferie, si evade. Eppure è il luogo in cui viviamo la maggior parte della nostra vita. Come sarà la città del futuro? La città del futuro come metterà d’accordo l’esigenza di spazi verdi e di sempre più sofisticati sistemi di comunicazione?
Dal punto di vista dell’organizzazione dello spazio, queste esigenze non mi sembrano alternative. Un cavo può tranquillamente passare sotto un campo sportivo o il sagrato di una chiesa senza dare fastidio a nessuno. Un commento va fatto sull’impiego del tempo da parte degli uomini, anche se, da questo punto di vista, l’urbanista può fare ben poco, se non cercare di organizzare la città in modo che determinati problemi che gli uomini e le donne cercano di affrontare utilizzando gli strumenti dell’informatica siano risolti in modo più completo. Penso ad esempio al fatto che una parte del tempo che viene dedicato all’informatica è un rifugio rispetto all’assenza di luoghi di incontro e di comunicazione. Ma penso anche alle grandi possibilità che la Rete può offrire: attraverso la Rete posso consultare la biblioteca del Congresso, fare una ricerca bibliografica, sapere quali sono tutti i prodotti di una marca che mi interessa, scambiare messaggi in tempo reale con persone che stanno molto lontane. Tutte queste cose fanno guadagnare tempo e risorse, riducono le distanze e il tempo per cose che altrimenti richiederebbero molto più impegno. Una parte consistente del tempo che molti spendono davanti allo schermo del computer è dovuta al fatto che quello è diventato anche un luogo di incontro proprio perché la città non offre più spazi dove incontrarsi. Una delle mostruosità accadute nella storia recente delle nostre città, e di cui noi non ci siamo accorti, è che le piazze sono diventate parcheggi; come dire che l’accetta o la zappa sono diventate armi di criminali invece che strumenti per soddisfare un’esigenza fondamentale della gente. La piazza, nata come luogo di incontro tra le persone, è diventata un parcheggio, è pavimentata in funzione di questo, è arredata per questo, è resa accessibile pensando alle auto e non più alla sua funzione originaria. Nei nuovi quartieri ci si occupa del traffico, dei parcheggi, non ci si occupa degli spazi dove la gente può incontrarsi, parlare, mischiarsi tra generazioni diverse, imparare l’uno dall’altro.
La solitudine e l’individualismo non sono un rischio anche per la città tecnologica o, come si dice oggi, cablata? Si è partiti dalla piazza luogo di incontro, si è arrivati al parcheggio: la Rete informatica apre nuovi orizzonti e, al tempo stesso, ci isola in casa.
Non esattamente. I bambini e gli anziani sono stati cacciati dalle piazze mentre la Rete non caccia nessuno, tuttavia è difficile accedervi. È molto più facile andare a imbucare una lettera o a comprare il giornale o le sigarette o a prendere un caffè e così incontrare persone, di quanto non sia accendere il computer, collegarsi, cercare di mettersi in Rete. Soprattutto è più piacevole vedere le facce direttamente o sentire il profumo del sigaro.
Io non penso agli spazi verdi, ma alle piazze, che sono un’altra cosa. Penso a luoghi contenuti, pavimentati, arredati per gli incontri: non interessa che ci siano panchine, anche i bancali di pietra dei vecchi palazzi o i basamenti dei monumenti, o i tavolini dei caffè sono altrettanto utilizzabili, meglio delle panchine. Penso a luoghi nei quali c’è un controllo sociale, perché ci sono le case che ci si affacciano sopra, ci sono i commercianti che vendono. Anche gli spazi verdi sono necessari. Penso a parchi frequentati dalla gente, penso a impianti sportivi affollati da quelli che fanno lo sport. Penso a luoghi facilmente accessibili non con l’automobile ma con itinerari pedonali protetti in modo che le carrozzine non corrano il rischio di essere investite.
Questa può essere una visione dello sviluppo della città; cerchiamo di chiarire qual è la definizione di sviluppo e di progresso, in rapporto anche al “consumismo” che ogni tanto viene confuso con questi.
Fin qui ho parlato di progresso, non di sviluppo. Bisogna ragionare su tre termini: “sviluppo”, “progresso” e “crescita”. Io credo che sia possibile uno sviluppo senza crescita. Sviluppo significa che l’uomo ha raggiunto il soddisfacimento di determinate esigenze e quindi se ne pone di nuove, e si industria per trovare il modo per soddisfarle. L’importante è che le esigenze nuove nascano da un reale bisogno di sviluppo e non siano indotte dall’esterno: comprare un’automobile più veloce o comprare un detersivo che sbianca più del bianco non è un’esigenza endogena dell’uomo, non nasce da un bisogno, nasce semplicemente dal bisogno di un’industria di vendere di più e di sconfiggere la concorrenza, di sopravanzare qualcuno per diventare più grande. Questo non è sviluppo; non è lo sviluppo che aiuta l’uomo a progredire, non è né sviluppo né progresso. Quello a cui dobbiamo incominciare a pensare è che le cose possono crescere in modi diversi; le cose possono crescere come le piante, utilizzando l’energia del sole e la funzione clorofilliana, oppure possono crescere a detrimento delle altre. Io credo che, in una visione corretta di sviluppo che sia progresso, noi dobbiamo far crescere le cose che non vanno a detrimento di altre. Per estremizzare ed esemplificare, la crescita di un bosco mi interessa, mentre la crescita della rete stradale non mi interessa. Certo, se noi pensiamo alla “crescita della città” oggi in genere non la associamo a sviluppo e progresso. Non si deve neppure fare demagogia: se la popolazione in una città aumenta, se la condizione abitativa è tale da non poter soddisfare quantità crescenti di popolazione con un miglioramento delle abitazioni esistenti, e sono necessarie nuove aree per costruire, questa crescita non è di per sé negativa. A condizione che vi sia reale necessità e che le aree utilizzate siano poco utilizzabili per usi alternativi.
Non è facile distinguere sviluppo e crescita perché le mode condizionano pesantemente sia l’uno che l’altro. Nel discorso della piazza diventata parcheggio è fondamentale lo status symbol “automobile”, che è stato portato all’eccesso al punto che ogni singola persona sente la necessità di possedere una vettura che non sa poi dove parcheggiare.
Ripartiamo dall’automobile. Siamo passati in pochi anni da 10 a 23 milioni di automobili mentre siamo calati come popolazione. L’automobile è uno status symbol, ma ci hanno costretto ad assumerla anche come una necessità. Mi spiego. La scelta è stata fatta negli anni immediatamente successivi alla guerra, quando si è affidata la ricostruzione del Paese all’evoluzione spontanea dei centri imprenditoriali disponibili. Allora si è assegnata la prevalenza all’edilizia, ai lavori pubblici e quindi alle strade, all’automobile perché era l’impresa più forte in Italia e soprattutto si è lasciata la massima mano libera poiché sembrava la scelta più giusta per accelerare la ripresa economica, grazie allo spontaneismo e all’individualismo. C’è stata una fortissima spinta in questa direzione. Mentre gli altri Paesi hanno utilizzato la ricostruzione post bellica per rafforzare gli strumenti dell’intervento pubblico, da noi si è scelta una strada liberista; non a caso Einaudi è stato l’uomo della ricostruzione economica del Paese. Questo ha provocato un enorme sviluppo dell’edilizia - la più brada, la più sciatta, la più speculativa – mentre la legge urbanistica italiana (una buona legge) approvata nel 1942 quando, subito dopo la guerra, era il momento per utilizzarla, è stata accantonata. La pianificazione, secondo regole corrette, è stata ripresa nella seconda metà degli anni 60, quando il più era fatto, quando le vacche erano scappate. Abbiamo avuto uno sviluppo enorme, abbiamo investito in strade e autostrade, abbiamo sovvenzionato la FIAT fino all’inverosimile, e non abbiamo costruito tram, né tanto meno metropolitane, non abbiamo costruito ferrovie efficienti. Mentre per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi abbiamo un’eredità storica, in cui ritroviamo le piazze e i centri storici, l’esigenza di organizzare collettivamente il trasporto di massa è una novità, è un campo in cui non abbiamo eredità storica alla quale riferirci e da cui imparare. Avremmo dovuto inventare noi il modo di soddisfare questa nuova esigenza di massa, ma non vivevamo più in una società nella quale i valori collettivi avessero il primato. Vivevamo in una società in cui avevano il primato i valori individuali, il “fai da te”, “l’arrangiati”, così l’individualismo ha portato a soluzioni individualistiche per risolvere un’esigenza di massa: abbiamo perduto il treno e abbiamo preso l’automobile. Questo è il nostro dramma e per questo dico che il problema del traffico è il problema più angoscioso e la contraddizione è la più forte che vediamo nella città vista come il luogo della preminenza dei valori collettivi. Se in questa costruzione in cui prevalgono i valori comunitari sovrapponiamo l’organizzazione di una esigenza fortissima che è quella della mobilità, dell’accessibilità, risolvendola con metodi individualistici di massa, questo contenitore si rompe e dire che la città scoppia dal traffico è un’osservazione assolutamente calzante. I marciapiedi sono fatti per i pedoni ma nelle grandi città sono diventati parcheggi, le piazze pure.
Siamo partiti dalla piazza, poi con l’automobile siamo arrivati alle reti delle strade risalendo verso orizzonti più ampi del comune o della regione. In una visione sempre più vasta è possibile parlare di qualcosa che possa definirsi “urbanistica del mondo” con enormi periferie e un centro ricco?
Non diamo troppa importanza all’urbanistica. Nel rapporto tra il nostro mondo industrializzato e il resto del mondo, io vedo un grande rischio. Il rischio che il nostro modello venga esportato, provocando un ulteriore indebolimento del resto del mondo. Per quanto importino il nostro modello non potranno mai utilizzarlo come abbiamo fatto noi, saranno sempre su un piano diverso non avendo vissuto la nostra storia; il nostro modello non avrebbe nessun legame reale e, senza radici, sarebbe una nuova forma di colonialismo. Mi ha colpito molto un’osservazione che ha fatto Piero Bevilacqua nel suo ultimo bellissimo libro “Utilità della storia” quando osserva che questi ragazzi senegalesi che vendono i poster con Charlie Chaplin o Marilyn Monroe, sono schiavi due volte. La prima volta perché fanno quel mestiere senza nessuna garanzia, la seconda perché sono distributori di cose che nel loro linguaggio non significano assolutamente niente. È una doppia alienazione. Esportare il nostro modello significa questo. Un lavoro estremamente difficile, che è in primo luogo culturale, è quello di capire le altre culture e comprendere in che modo possiamo mettere i nostri saperi a loro disposizione senza corromperle; il secondo aspetto del problema è che poiché inevitabilmente, almeno per ora, il nostro modello è quello che si impone - pensiamo a quello che sta succedendo in Cina – occorre come minimo insegnare a non ripetere i nostri stessi errori. Aiutiamoli almeno a fare in modo che non passino dall’avere 600 milioni di biciclette a 600 milioni di automobili, insegniamogli a fare fabbriche che non inquinano. Invece, purtroppo, vendiamo loro i nostri prodotti obsoleti e le cose che a noi puzzano.
L’unica volta che sono andato in Cina, diversi anni fa, ho chiesto come mai le loro biciclette non avevano i catarifrangenti. Mi hanno detto: si rende conto cosa significa costruire catarifrangenti per tutti i milioni di biciclette che abbiamo? dovremmo realizzare una serie di fabbriche, molte fabbriche ma non abbiamo le risorse per farlo. Quindi si erano posti il problema e l’avevano già risolto.
All’aprirsi del mercato cinese, qualche imprenditore italiano ha fatto sogni di gloria pensando di dare una lavatrice a tutte le famiglie cinesi, mentre c’è stato chi si è chiesto se esiste tanto acciaio nel mondo per fare una cosa del genere…
Potremmo approfittare proprio di questo per spiegar loro che il progresso significa fare scelte diverse. A New York, dove abita mia figlia, in un grosso palazzo universitario con alcune centinaia di persone, nel seminterrato ci sono tre lavatrici e tre essiccatori a gettone: sono comodissimi, non hai manutenzione, costano poco e sono velocissimi. Il messaggio potrebbe essere questo. Insegniamo loro quello che l’esperienza ci dice: evitare il consumismo perché il consumismo è spreco di risorse, è spreco di tempo, è spreco di energie. E tanti auguri.
Le "aree dismesse" (fabbriche obsolete, caserme inutili, scali ferroviari in abbandono, carceri ingestibili) potrebbero fornire occasioni strategiche per il futuro delle città. Non solo in Italia, anche in Europa: il Libro verde per l'ambiente urbano, recentemente approvato dal Parlamento europeo, dedica infatti una particolare attenzione alle aree dismesse, definite come occasioni da non perdere per riqualificare e umanizzare le città. Gli stabilimenti Fiat-Lingotto a Torino, Pirelli-Bicocca e Alfa-Portello a Milano, Fiat a Firenze, le caserme del quartiere Prati a Roma, la Marittima a Venezia, il parco ferroviario a Pescara, l'Italsider a Napoli: sono solo alcuni degli esempi più noti. Ma anche ogni città media e piccola ha almeno un caso di area dismessa. Ed è, quasi sempre, un argomento di discussione, di progetti alternativi, di scontri culturali e sociali, di contrasti d'interessi economici, anche di crisi politica (Milano insegni). A volte, anche di scandali che giungono fino alle scrivanie dei magistrati e alle aule dei tribunali.
Di che cosa si tratta? La forte e sregolata espansione urbana, che si è avuta nell'ultimo mezzo secolo, ha inglobato vasti complessi (produttivi, militari, civili), nati originariamente ai margini della città, o fuori di essa. La loro stessa acquisita centralità li ha resi poco idonei a svolgere la funzione originaria. Le strutture edilizie e gli impianti sono divenuti superati. Di qui, la propensione a dismetterli, ad abbandonarli. Si tratta di aree oggi collocate tra il centro, spesso soffocato dal traffico, e la periferia quasi sempre invivibile.
Aree che potrebbero essere utilizzate per sanare, almeno in parte, il deficit di servizi, e soprattutto di verde, che rende spesso ostile e alienante la città contemporanea, Aree dalle quali dovrebbero comunque essere escluse utilizzazioni che siano "attrattrici di traffico", che aumentino il "carico urbanistico" di queste zone delicate, che aumentino la già parossistica congestione del traffico.
D'altra parte, si tratta anche di aree il cui valore di mercato è aumentato a dismisura, proprio a causa della posizione che quei complessi sono venuti ad assumere grazie all'espansione urbana, che in gran parte è il prodotto degli investimenti della collettività. Forte è quindi, da parte delle società o degli enti proprietari, l'interesse a trasferire altrove gli impianti e a lucrare sull'area. Ecco allora innumerevoli progetti, spesso resi accattivanti da orpelli culturali, per la valorizzazione di questa o di quell'altra area dismessa.
Lo scontro è sempre lo stesso. Deve prevalere l'interesse generale, e quindi la scelta delle soluzioni più idonee per migliorare la condizione urbana? Oppure deve vincere l'interesse economico immediato dei proprietari? Non dovrebbe essere difficile rispondere. E ancora più facile dovrebbe essere comprendere che il potere pubblico deve spostare il pendolo verso gli interessi generali. Purtroppo non è così. Moltissimi esempi dimostrano anzi il contrario. Dimostrano l'incapacità degli enti locali di comprendere da che parte sta l'interesse della collettività.
Dimostrano addirittura il prevalere di collusioni e complicità con gli interessi economici: con la speculazione, per adoperare un termine non più di moda.
Un caso emblematico: la Zanussi di Conegliano. 17 ettari tra il centro e la periferia. Un'area grande come l'intero centro storico. Una fabbrica che il Piano regolatore del 1982 conferma nella sua funzione, ma che la proprietà vuole ora abbandonare. Che cosa avrebbe fatto un'amministrazione corretta? E' evidente. La dimensione dell'area e la sua posizione sono tali che è impensabile cambiare la sua utilizzazione senza riprogettare l'intero assetto della città: senza fare un nuovo piano regolatore generale, senza studiare quali sono le soluzioni più opportune tenendo conto di tutto l'organismo urbano, del suo funzionamento complessivo, dell'insieme delle esigenze sociali. Invece no. La giunta, a maggioranza democristiana, approva un progetto, limitato all'area Zanussi, "in variante" al piano regolatore vigente. Un progetto che prevede la realizzazione di 600 mila metri cubi (di uffici, residenze, centri commerciali): quanti se ne sono costruiti a Conegliano in 10 anni.
In città si apre un dibattito acceso. Lo animano il Pds. i Verdi, alcuni tecnici. Interviene anche la Diocesi. La Commissione pastorale afferma che la città è in preda a "spinte interessate, ispirate da interessi economici consistenti: dalla politica urbanistica del Comune emerge l'ambiguità di obiettivi e metodi". I metodi seguiti dal Comune sono pesantemente criticati dalla Regione, dove sembra che gli argomenti degli oppositori abbiano la meglio. Il Comitato tecnico esprime un giudizio senza appello: è illeggittimo, oltre che tecnicamente inammissibile, introdurre con il meccanismo della "variante parziale" modifiche così stravolgenti. Identico il parere degli esperti legali cui la Giunta regionale si rivolge. Alle interpellanze del Pds e dei Verdi l'assessore regionale risponde condividendone il giudizio e impegnandosi a operare di conseguenza. Ma il comune tira diritto. Approfitta del ritardo con cui la Regione risponde ufficialmente per dichiarare esecutivo il progetto per "silenzio-assenso". La Giunta regionale ricorre al Tar. Ma non sta bene litigare troppo a lungo tra amministrazioni dello steso colore politico. Si trova la strada d'un accordo. Il Comune ottiene che la Regione inserisca la "pratica" del "fascicolo" di un'altra variante, che era in viaggio indipendentemente dal progetto Zanussi e cha aveva seguito, stancamente, un iter "regolare". Sul treno prossimo alla stazione d'arrivo si fa insomma salire, come un passeggero clandestino, il progetto Zanussi. Il Comitato tecnico regionale, spaccato al suo interno, approva il pasticcio. Il giorno dopo, in assenza perfino della relazione tecnica (che non è stata ancora stesa) la Giunta regionale approva. La sera, a Conegliano, il trevigiano ministro dei trasporti brinda col Sindaco. Ma il gruppo consiliare del Pds decide di ricorrere alla magistratura. C'è da scommettere che dell'area Zanussi di Conegliano si parlerà ancora.
Edoardo Salzano
La ragione della città, il motivo del suo storico affermarsi come luogo della civiltà, nella possibili per il cittadino e per il produttore - di fruire della complessità di funzioni che in essa sono concentrate: di muoversi dall'una all'altra in un breve spazio di tempo; di avere "il mondo ai propri piedi". Oggi, proprio la mobilità che in crisi profonda. Spostarsi da un luogo all'altro un problema, a volte un dramma, sempre un costo e uno spreco.
E' allora del tutto ragionevole che il Ministro per le Aree urbane, uomo d'esperienza metropolitana (é stato Sindaco di Milano), abbia iniziato l'attività del suo Ministero affrontando, come questione prioritaria, quella del traffico. In questi giorni si aprirà nelle Commissioni parlamentari la discussione sul disegno di legge, presentato dai Ministri per le Aree urbane, e per i LL.PP., Tognoli e De Rose: un provvedimento intitolato "Disposizioni in materia di parcheggi e programma triennale per le aree maggiormente popolate".
E' bene dire subito che la proposta di Tognoli e De Rose non sembra tale da affrontare risolutivamente la questione, mentre può costituire un contributo ulteriore ai processi in atto di consolidamento della motorizzazione individuale, di svuotamento della pianificazione urbanistica e di rafforzamento del potere dei grandi consorzi di imprese.
Obiettivo del provvedimento la definizione e realizzazione, in tutti i comuni nei quali il traffico pone problemi, di "programmi urbani dei parcheggi". Il disegno di legge non privo di una sua organicità. Gli undici comuni più grandi (Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania e Palermo) sono obbligati a formare, entro 60 giorni, un "programma urbano di parcheggi per il triennio 1988-1990"; altri comuni saranno obbligati a farlo con un decreto ministeriale. Una volta approvato il programma da parte del Governo, i comuni devono attuarne le previsioni con "piani annuali degli interventi", contenenti l'indicazione precisa delle opere che si intendono realizzare e delle loro caratteristiche tecniche ed economiche, selezionando le opere sulla base dell'analisi costi-benefici, il Governo concede contributi pari al 90% degli interessi sui mutui da contrarre con la Cassa depositi e prestiti; per un importo complessivo di opere pari a 200 miliardi nel triennio. Le opere possono essere progettate ed eseguite utilizzando tutta la gamma delle possibili consentite dalle leggi vigenti: ma chiara la sollecitazione ad adoperare la formula della concessione a imprese o consorzi di imprese.
Le connessioni del programma con una più complessiva strategia dei trasporti sono quasi nulle: i comuni dovranno "tener conto del piano urbano del traffico, ove esistente" (sic), e nella formulazione del programma dovranno preoccuparsi di "favorire il decongestionamento dei centri storici, l'istituzione di isole pedonali, la creazione di parcheggi adiacente alle fermate di trasporto collettivo a grande capacità". Nessun riferimento ai programmi e alle politiche per il trasporto collettivo. Come se l'utilità dei parcheggi non fosse subordinata al loro ruolo di elementi di un complessivo sistema della mobilità, fondato su un trasporto collettivo efficiente: un sistema che tutti dicono di volere, ma che resta scritto sui "Libri dei sogni".
Le connessioni con la pianificazione urbanistica sono invece del tutto ignorate. anzi, per consentire pi chiaramente ai comuni di liberarsi dai "lacci e lacciuoli" dei piani regolatori, si prescrive che le opere previste possono essere in deroga ai piani, riesumando un'antica e nefasta Legge del 1978, approvata allora per accelerare, congiunturalmente, la realizzazione delle opere pubbliche. Ma l'elemento forse più significativo, a questo proposito, é il rigoroso silenzio sullo strumento che dovrebbe assicurare la coerenza degli interventi puntuali con la strategia urbanistica definita dal piano regolatore: al programma pluriennale d'attuazione, - obbligatorio per i grandi comuni fin dal 1977, e considerato allora una importante innovazione volta a conferire ordine e razionalità alle trasformazioni urbane. E' noto che la ventata della deregulation, provocando legislazioni regionali lassiste e comportamenti comunali spesso dominati dall'occasionalità e dalla discrezionalità nalità, ha lasciato quasi cadere in desuetudine il programma pluriennale di attuazione. Il Governo non ha coraggio di proporre l'abrogazione di questo strumento: più facile ucciderlo silenziosamente, ignorandolo e sottraendo di fatto alle sue coerenze gli interventi pi massicci, come appunto quello di parcheggi.
Il disegno di legge Tognoli-De Rose allora davvero un segnale importante d'un clima e d'un destino. Le città (e soprattutto le grandi aree urbane) sono in preda a una crisi profonda. Una crisi che si manifesta in numerosi aspetti materiali: al dramma del traffico si accompagna il degrado fisico sempre più pronunciato di aree sempre più vaste, poiché scomparsa da decenni la cultura, e la prassi, della manutenzione urbana; le condizioni delle primordiali componenti dell'ambiente (la terra, l'aria, l'acqua) sono caratterizzati dai veleni che ospitano e diffondono; alcuni dei tradizionali bisogni (la casa, determinati servizi) sono ben lungi dall'essere soddisfatti a livelli socialmente ed economicamente sopportabili, nonostante le ingenti risorse investite.
E' facile rendersi conto che tutti gli elementi della crisi urbana hanno un denominatore, e una causa, comuni. Essi sono il prodotto di una accumulazione d'individualismo, che ha raggiunto il livello di guardia. Ha raggiunto quel livello al quale la complessità e la ricchezza (di funzioni, di relazioni, di occasioni) si rovesciano in anarchia e povertà. Si può uscire da una crisi siffatta utilizzando gli strumenti adeguati al governo di una realtà sistemica, qual' indubbiamente la città: privilegiando quindi le ragioni della ricerca di una coerenza complessiva delle trasformazioni, e della prevalenza delle soluzioni collettive ai problemi di massa: pianificazione e programmazione urbanistica, dunque, e trasporto pubblico. Il Governo ha scelto invece la strada opposta: quella di isolare singoli problemi, selezionando quelli sui quali si può trovare il consenso più forte e più immediato, e concentrare su di essi tutti gli sforzi, anche a costo di lacerare il tessuto complessivo.
E non c' dubbio che la proposta dei parcheggi ha, da punto di vista che il Governo ha non da oggi assunto, vantaggi considerevoli.
Promettere un sollievo immediato alle migliaia di automobilisti impaniati nel traffico, i quali preferiscono trovare un parcheggio che trasformarsi in utenti del trasporto pubblico. Offre alle grandi imprese un consistente volume d'affari, finalmente regolato da procedure efficienti e rapide. Allarga gli spazi dell'intermediazione, palese e oscura, che agli appalti fa da alone. Elimina alcune strozzature che minacciano di restringere il mercato della maggiore industria italiana. Infine, consente di ridare slancio alle classiche operazioni di valorizzazione e sfruttamento della rendita immobiliare, indubbiamente provocate dalla localizzazione e realizzazione di quei grandi attrattori di traffico che sono i parcheggi.
Sono vantaggi solo per il breve periodo, e per alcune categorie già privilegiate? Non importa. Le categorie premiate sono quelle che contano. E per il futuro, dopodomani ci si penserà: anzi, ci penseremo.
Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.
Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai regnatori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini. E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.
E’ una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il ruolo che ogni volta svolge di nuovo, ombra sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. E’ stato facile allora, per Rosi, scegliere fare un attore da un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano
La Provincia, oggi
Mi sembra utile ricordare quanto la provincia, in Italia, sia cambiata. Una volta, fino al secondo dopoguerra, era un mero organo decentrato dello Stato: anzi, era solo la sede decentrata di alcuni poteri centrali. E’ con la costruzione dello Stato democratico che la Provincia è diventata un istituto elettivo di primo grado (insieme al Parlamento, alla Regione e al Comune), dotato di alcuni poteri: non rilevanti però, come tutti ricordiamo. La grande innovazione, e la grande iniezione di potere, è avvenuta con la legge 142 del 1990. E vorrei ricordare (perché mi sembra un punto centrale dei ragionamenti che facciamo oggi) il motivo per cui la discussione che si è svolta nel corso degli anni Ottanta si è conclusa con il rafforzamento della Provincia. Vorrei ricordarla anche perché allora ho partecipato con molta passione (come urbanista e come politico) al dibattito che a quella legge condusse
Il dibattito sull’”ente intermedio”
La discussione era aperta da tempo. L’entrata in funzione delle regioni aveva fatto comprendere che nell’attività di programmazione e pianificazione del territorio era necessario un livello intermedio tra le regione e il comune: la prima troppo grande, il secondo troppo piccolo per poter governare fenomeni nuovi e fronteggiare nuove esigenze: dai pendolarismo casa-lavoro-servizi alla gestione dell’ambiente, dalla politica delle localizzazioni di servizi sovracomunali alla protezione del paesaggio e dei beni culturali. Vi furono vari tentativi, che fallirono presto perché (come testimoniò l’esperienza dei comprensori) non riuscivano ad avere vitalità istituti rappresentativi di secondo grado, e perciò stesso privi d’un mandato democratico diretto e d’una identità riconosciuta.Anziché abolire la provincia (come pura allora qualcuno proponeva) si decise di rafforzarla. I suoi nuovi poteri furono una delle novità sostanziali della 142/1990. Essi trovarono la loro espressione più compiuta nell’attribuzione alla provincia della responsabilità, e della competenza, di formare i Piani Territoriali di Coordinamento. E’ attraverso questo strumento che le province ottennero il loro nuovo riconoscimento e, nella pratica, la base del loro rafforzamento.
Due destini della Provincia
La legge, qualsiasi legge, indirizza e dà degli strumenti: non opera da sola le trasformazioni cui allude e che rende possibili. Per operare è necessario tradurre la legge in atti politici e amministrativi, imprimere il segno di una volontà. Così, non è detto che la provincia – o che qualche provincia – non torni ad essere quella del passato: un ente di categoria B, trampolino di passaggio verso destini più “alti” (sindaco o consigliere regionale), oppure sedi di pensionamento anticipato..
E’ uno dei destini possibili. L’altro destino possibile è quello di utilizzare davvero, e con pienezza, le possibilità che la legge le ha dato. Fare il salto rispetto alla vecchio modo di amministrare ritagli di competenze altrui, e afferrare in pieno la responsabilità di governare il territorio alla scala propria della provincia.
I responsabili politici e amministrativi della Provincia di Foggia hanno scelto questa seconda strada, e ne hanno percorso un primo tratto significativo. Hanno costruito i primi strumenti con cui lavorare. Qui vorrei toccare alcuni temi: quali sono lo spazio, i compiti, i contenuti di un piano provinciale; qual è il quadro di scelte che emerge dal documento che abbiamo consegnato ai governanti della Provincia di Foggia;
Lo spazio di un piano provinciale
La provincia (la Nuova provincia) è nata molti secoli dopo il comune, e quando le regioni si erano già consolidate. Naturale perciò che fatichi a trovare il suo spazio operativo.
Aiuta a trovarlo una circostanza. Il fatto, cioè, che esistono fenomeni che il comune è palesemente troppo piccolo per governare: problemi che, per la loro natura, trascendono l’ambito del confine comunale. Ho già esemplificato questi fenomeni. Ma qui, nella provincia di Foggia, nella Daunia, c’è una ragione di più. Forse a differenza che in altre province questa terra ha una sua identità.
Su questo punto abbiamo ragionato in un convegno, indetto dalla Provincia, nel 2002. In quella sede sostenevo che la Provincia è un organismo o, meglio, che può esserlo. Può essere, o meglio può diventare,. un organismo le cui parti (il Gargano e i Monti della Daunia e il litorale e i corsi d’acqua, la città capoluogo e gli altri centri rilevanti della Capitanata, l’aeroporto e il porto e gli ospedali e le scuole superiori e i centri sportivi, e il sistema delle comunicazioni per la mobilità delle persone e delle merci) siano tutti elementi legati dalla complementarietà dei ruoli, dalla integrazione delle funzioni, dalla frequenza dei flussi, dalla reciprocità delle relazioni.
E’ anche attraverso la vita in comune che questa organizzazione del territorio può determinare che può nascere, o può consolidarsi, quel comune sentire, quel partecipare a un comune destino e a una comune ricchezza, che sono i connotati più profondi dell’identità di un territorio.
I tre compiti della pianificazione territoriale
Prima di illustrare sinteticamente le proposte contenute nella bozza di piano (proposte su cui mi sembrerebbe indispensabile aprire un largo dibattito con gli enti locali, le associazioni rappresentative degli interessi economici e di quelli culturali, le categorie professionali e gli altri leader della comunità locali)vorrei ricordare i tre compiti che, in Italia, si tende ad affidare alla pianificazione territoriale.
Un primo compito è quello di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società.
Un secondo compito è quello di indirizzare a priori (anziché controllare a posteriori, come oggi avviene) le attività sul territorio degli enti sott’ordinati, in primo luogo i piani urbanistici dei comuni: svolgere cioè una effettiva responsabilità di coordinamento.
Un terzo compito, infine, è quello di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia.
Vale la pena di sottolineare, a questo proposito, il fatto che oggi queste competenze non si limitano più soltanto alla viabilità infraregionale, all’istruzione superiore, alla caccia e pesca e a determinati rami dell’assistenza sanitaria, come una volta. Oggi alla provincia competono forti poteri in materia di ambiente, di paesaggio, di agricoltura, di uso e gestione delle risorse.
I contenuti della pianificazione provinciale
Ecco quindi i contenuti della pianificazione provinciale:
Tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla sua capacità di sopportazione (carrying capacity), valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva.
Scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale, richiedono ugualmente un inquadramento, per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale.
Corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale;
I sei slogan del PTCP di Foggia
L’intenzione della bozza di PTC può essere espressa in una frase, che è il titolo di questa nota: il futuro non si prevede, si prepara. In sostanza, essa vuole promuovere la definizione di una strategia, volta alla costruzione di una “visione al futuro” del territorio provinciale, la quale indirizzi e coordini l’insieme delle azioni e delle regole di tutti gli operatori (in primo luogo pubblici, ma anche privati) che concorrono a trasformare le condizioni date.
Essa è un documento smilzo e maneggevole: lo abbiamo costruito così proprio perché pensiamo che più largo è il dibattito su di esso maggiore è la sua utilità. Per conoscere il merito delle proposte, e le argomentazioni e gli studi che le sorreggono, rinvio perciò alla sua lettura, e mi limito qui a sottolineare i cardini delle scelte. Essi possono sintetizzarsi in sei slogan:
1.Costruire una rete ecologica. Per salvare la natura occorre valorizzare il suo carattere sistematico. È ciò che ha spinto i governi europeo e italiano a promuovere la costituzione di una rete ecologica europea e nazionale. La provincia di Foggia si inserisce in questo disegno proponendo di collegare i principali sistemi naturali (il litorale e il Gargano, il Preappennino, i numerosi corsi d’acqua che li legano) in un unico sistema, per i cui elementi vengono puntualmente proposte regole e azioni di tutela e valorizzazione.
2.Ripensare il territorio aperto. La rete ecologica italiana punta prioritariamente a rafforzare il legame fra ambiente e comunità insediate: non solo la conservazione o il ripristino di condizioni di naturalità, in ambiti di particolare protezione concepiti come isole, ma promozione di uno spettro di attività radicate nelle vocazioni e nel consenso locale, per generare azioni di conservazione e valorizzazione del patrimonio ambientale e di assicurare opportunità di lavoro stabili. La tutela ambientale non soltanto un “requisito di qualità” per le politiche di sviluppo, ma il fulcro dello sviluppo stesso.
3.Valorizzare il patrimonio culturale. Il territorio è un deposito di storia; più che la conservazione dei singoli elementi, è necessario acquisire la comprensione sia del significato complessivo che essi assumono nella loro integrazione, sia delle regole che hanno presieduto alla costruzione del territorio e della città. Gli elementi che possiedono un valore storico, ambientale, paesaggistico costituiscono perciò i capisaldi per una riorganizzazione del territorio finalizzata alla valorizzazione delle qualità presenti e potenziali nonché dell’identità delle sue singole parti. Nelle realtà locali a economia più fragile la tutela del patrimonio storico-ambientale, oltre a un valore culturale, possiede anche un concreto significato socio-economico.
4.Integrare i centri minori. Nelle aree interne la maglia degli insediamenti si allarga e le relazioni si diluiscono, configurando una rete di piccoli centri isolati. Lì occorre affrontare la ricerca di un assetto territoriale che favorisca uno sviluppo sociale ed economico stabile in equilibrio con il contesto ambientale. La riproposizione di modelli urbani e una localizzazione “casuale” di funzioni superiori, già tentata in passato, non ha prodotto gli esiti sperati. Si propone di agire attraverso accorte politiche di gestione delle risorse esistenti (infrastrutture ferroviarie e stradali edifici dismessi, masserie e centri storici minori, beni culturali) più adatte a rispondere ai bisogni espressi dalle popolazioni locali.
5.Oltre la Pentapoli. Le analisi condotte sottolineano con forza la presenza nella provincia di Foggia di realtà territoriali assai differenti per disponibilità di risorse (economiche, sociali, infrastrutturali). Tale condizione non può essere ridotta alla contrapposizione tra aree forti (sotto il profilo insediativo ed economico-sociale) e perciò privilegiate, e aree marginali. Oltre la Pentapoli costituita, “terra di mezzo” fra i centri principali e la maglia dei piccoli insediamenti, si collocano tutte le aree nelle quali si registrano timidi segnali di vitalità economica, (micro-agglomerazioni produttive, comparti agro-industriali, vocazione all’artigianato, presenza di associazioni e cooperative sociali). Il radicamento della Pentapoli – ovverosia il rafforzamento del sistema costituito dai cinque centri principali della Provincia – va dunque integrato con iniziative che consentano di cogliere i germi di sviluppo presenti nel resto della Capitanata.
6.Aprire all’esterno. I confini amministrativi rappresentano sempre più un riferimento troppo angusto per qualsiasi politica territoriale. Le esigenze di integrazione tra realtà amministrative vicine sono del tutto evidenti nei settori della difesa del suolo, della protezione della natura, del sostegno alle economie locali, delle politiche dei trasporti.Non vi è in questo nessuna contraddizione con la spinta al decentramento (purché correttamente interpretata e non confusa con le pulsioni alle chiusure localistiche) né con la maggiore attenzione alle specificità locali. Ogni livello di governo del territorio deve pertanto aprire il proprio sguardo verso l’esterno e attivare processi di collaborazione onde garantire maggiore coerenza ed efficacia alle proprie decisioni e rendere un migliore servizio alle proprie popolazioni.
Le condizioni dell’utilità del PTCP
Il PTCP ha certamente una sua utilità nel porre a disposizione dei cittadini un quadro di conoscenze e di proposte, che costituiscono un indubbio apporto culturale. Ma se a questo si limitasse la sua utilità, davvero l’impresa non varrebbe la spesa. Perché il piano sia utile – come deve essere – ai fini della trasformazione delle condizioni di vita nel territorio, per le generazioni presenti e per quelle future, sono necessarie alcune condizioni.
La prima condizione è evidentemente quella legata alla volontà, da parte di chi ha responsabilità di governo, di far svolgere effettivamente alla Provincia qual ruolo di direzione attraverso il coordinamento attivo e la promozione che la legge 142/1990 le ha reso possibile. La seconda condizione è che, a partire dalle proposte formulate, si formi un progetto condiviso del futuro del territorio provinciale, per il quale la bozza di PTCP offre il punto di partenza. La terza condizione è che le attività connesse alla formazione e alla gestione del PTCP siano intese e organizzate come un lavoro stabile e permanente dell’Amministraziine provinciale, in stretta sinergia con le comunità locali. A questo fine nella Bozza si sottolinea come sia necessario rendere stabile la struttura che ha avviato la formazione del PTCP e ne ha costruito i primi strumenti.
La pianificazione necessaria per un moderno ed efficace governo del territorio non consiste infatti nel fare un piano ogni dieci anni, ma nel seguire giorno per giorno le trasformazioni fisiche e funzionali del territorio (per conoscerle, interpretarle, indirizzarle, disegnarne il futuro correggendo via via le non desiderate anomalie). È perciò essenziale che il potere pubblico disponga di una struttura tecnica adeguata: professionalmente qualificata, motivata, adeguatamente attrezzata, disposta a collaborare con l’insieme della struttura dell’Amministrazione provinciale, consapevole dell’autonomia culturale e tecnica del suo ruolo ma insieme della sua funzione di servizio nei confronti degli eletti e dei cittadini.
Un ecosistema unico al mondo (e poi spiegherò perché), il cui territorio appartiene oggi a 9 comuni[1], ma le cui vicende sono strettamente dipendenti dall’evoluzione di un bacino che a sua volta ne comprende 110, appartenenti a quattro province[2]. Se c’è un’area vasta che ha bisogno di un governo unitario è questa, la Laguna di Venezia. E infatti, un governo unitario quest’area l’ha avuto, per 1000 anni. Dalla fine del XVIII secolo non ce l’ha più, nonostante tentativi compiuti negli ultimi decenni.
Un accidente della natura
È al suo governo unitario, garantito per dieci secoli dalla Serenissima Repubblica di Venezia, che la Laguna deve la sua sopravvivenza. È l’unica laguna al mondo rimasta tale per tanti secoli. La laguna è infatti, per definizione, un sistema in equilibrio instabile: un accidente della natura.
È formata dall’equilibrio tra due forze concorrenti. Le acque dei fiumi portano verso il mare gli apporti solidi che strappano alla terra, li accumulano alla loro foce, lì si depositano assumendo – per l’effetto delle correnti marine – la forma di lunghe “barre” semisommerse che, poco a poco solidificandosi, generano i più stabili “lidi”. Tra i lidi e i margini della terraferma si forma così uno specchio d’acqua irrorato dalla acque dolci dei fiumi e da quelle salate del mare, che penetrano dalle “bocche” rimaste aperte tra i lidi. Acque ormai né dolci né salate, ma dotate d’una differente natura rispetto alle une e alle altre: acque “salmastre”.
Lo specchio d’acque salmastre è un ambiente diverso da ogni altro. Il suo fondale non è regolare come quelli imbutiformi dei laghi o digradanti delle baie e dei golfi o ripidi delle coste a falesia: è formato dagli innumerevoli letti dei meati fluviali che nei secoli lo hanno percorso, scavando dove più dove meno, depositando detriti in misura più o meno vistosa. E dove il gioco meandriforme del sistema dei canali sommersi ha lasciato sponde più alte, lì – per qualche ora al giorno o qualche settimana all’anno – il terreno rimane emergente dalle acque, e ospita variabili vegetazioni e specie animali.
(Nella laguna formata dalle foci del Brenta, del Sile, del Musone, del Piave e di altri numerosi corsi d’acqua a settentrione della foce del Po e dell’Adige, su qualcuno degli isolotti semisommersi le prime famiglie di pescatori, e poi i popoli fuggitivi dall’entroterra sospinti dalle ondate dei “barbari”, hanno consolidato il terreno, costruendovi dapprima le loro abitazioni e i loro villaggi, poi la loro città, Venezia, dotandosi nel tempo d’una rigida pianificazione regolativa, unica garanzia della saggia amministrazione d’un suolo scarso e costoso).
Tutto ciò, fino a quando le due forze contrapposte, quella dei fiumi e quella del mare, restano in equilibrio, come una pallina al culmine di una superficie convessa.
Due destini naturali
Ecco allora i due diversi e opposti destini cui ogni laguna è, per natura, condannata.
Se vince la forza dei fiumi terragni, se prevale l’accumulo dei depositi solidi che essi portano con sé (le ghiaie, la sabbia, il limo, i residui vegetali delle foreste travolte dalle alluvioni), ecco allora che la laguna (ogni laguna) da instabile e multiforme specchio d’acqua salmastra si trasforma in uno stagno, poi in una palude, e finalmente, magari bonificata dalle umane opere, in un campo.
Se vince la forza delle onde marine, l’erosione asporta gli apporti solidi consolidati nel tempo, trascina via ciò che contende spazio all’acqua salata e oppone la sua salmastra immobilità alla forza delle correnti: la laguna (ogni laguna) si trasforma in un braccio di mare, baia o golfo che sia.
Contro questi due destini la Serenissima Repubblica di Venezia ha combattuto per 1000 anni. Vittoriosamente, solo perché ha impegnato verso questo obiettivo tutte le intelligenze disponibili, tutte le tecnologie adeguate, tutte le risorse mobilitabili, tutta l’autorità disponibile (e non era poca), tutte le capacità di amministrazione saggiamente costruite[3].
Il nido del potere
Conservare la Laguna era vitale per la Serenissima. La Laguna era il rifugio che garantiva sicurezza dai possibili attacchi da terra e dal mare; era il luogo dove lo strumento essenziale dell’egemonia statale sul suo vasto impero commerciale, la flotta, poteva essere costruita, armata, trovare riparazione e rifugio; era il luogo al quale affluivano, grazie al controllo dei fiumi e della loro navigabilità, le materie prime (soprattutto il legname) necessarie per consolidare il suolo, per fondare le costruzioni ed erigerle (finché terribili incendi suggerirono di sostituire almeno in parte l’infiammabile legno con le leggere argille cotte); era la vasta fabbrica dei prodotti essenziali per l’alimentazione e la conservazione degli alimenti: le molte specie di pesci e molluschi, parsimoniosamente regolamentate nel loro prelievo [4], i volatili attirati dal particolare habitat, il sale dei vasti depositi costieri, le verdure delle isole maggiori e dei lidi.
Tutto questo era la Laguna per la Serenissima: il nido all’interno del quale la sua forza si manteneva, si sviluppava, diventava capace di gareggiare e di vincere, di difendersi e di ritemprarsi. Per renderlo possibile la Laguna doveva venir conservata, doveva rimanere tale pur trasformandosi al mutare delle condizioni e delle necessità. L’accidente della natura doveva diventare un sistema permanente.
Un sistema permanente.
Un sistema permanente: in queste due parole sta tutta la scommessa di Venezia e della sua Laguna. Un sistema: un organismo costituito da un complesso di elementi, ciascuno dei quali essenziale e vitale, e ciascuno legato agli altri da precise relazioni, non modificabili ad libitum senza condurre il sistema al collasso. Permanente, cioè capace di rimanere nel tempo tale, governato dalle medesime leggi mutevoli della natura, benché soggetto agli ulteriori elementi di cambiamento che gli eventi al contorno e l’azione dell’uomo producevano.
Realizzare questo miracolo, lasciare che le contrastanti forze dei fiumi e del mare, della terra e dell’acqua, collaborassero senza che l’una prevalesse sull’altra, e al tempo stesso introdurre le trasformazioni necessarie a vivere la Laguna (approfondire un canale o aprirne uno nuovo, consolidare un isolotto o aprire varchi in un altro) significava sottoporre la Laguna a un governo minuzioso, fondato sulla quotidianità dell’intervento, sulla continuità della vigilanza, sulla più accorta gradualità e sperimentalità delle innovazioni (un nuovo canale, un nuovo argine, un nuovo consolidamento, una nuova immissione) e sul monitoraggio dei loro effetti.
Soprattutto, significava adoperare le leggi della natura con un’accortezza ancora maggiore di quelle che la natura stessa avrebbe impiegato, poiché si trattava di rendere permanente un sistema che essa avrebbe cancellato, in un modo o nell’altro.
Tutte le armi del buongoverno veneziano vennero impiegate in questa logica e a questo scopo. Come ha scritto Piero Bevilacqua, la storia di Venezia è
“La storia di un successo […] nel governo dell’ambiente che ha le sua fondamenta in un aguire statale severo e lungimirante, nello sforzo quotidiano e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città” [5]
Cade il governo della Lagunae cambia il mondo
La caduta della Repubblica di Venezia, l’anno 1797, fu senza dubbio la causa più appariscente del cambiamento: della fine di un governo unitario della Laguna finalizzato a quel sistema di obiettivi e regolato da quel sistema di strumenti. Eventi più vasti erano accaduti, e non potevano non riverberarsi in quello specchio d’acqua, in quell’angolo del Mare Adriatico.
Il mondo era cambiato. Eventi accaduti a Londra e a Parigi avevano trasformato le condizioni di base della sua evoluzione. L’avvento e il trionfo del sistema economico-sociale basato sul modo capitalistico della produzione e sull’affermarsi della borghesia aveva introdotto, e tendenzialmente generalizzato, modi del tutto nuovi di governare i rapporti tra gli uomini e quelli degli uomini con la natura e il mondo circostante.
La produzione industriale si era rivelata in grado di moltiplicare all’infinito le quantità di merci disponibili, emancipando l’uomo dal vincolo ai ritmi parsimoniosi della natura. Ogni frutto prodotto dall’uomo o dalla natura, da “bene”, oggetto dotato d’una sua individualità e di un suo valore d’uso era stato trasformato in “merce”: mero deposito di valore di scambio, oggetto fungibile con qualsiasi altro. L’individualismo, molla potente del progresso quantitativo, aveva via via cancellato le regole della comunità, soprattutto là dove queste minacciavano il “diritto” all’appropriazione privata dei beni disponibili. Le grandi possibilità offerte dalle nuove tecnologie basate sull’impiego dell’acciaio e del cemento, sulla sostituzione delle macchine semoventi alla fatica dell’uomo e dell’animale, avevano rivoluzionato il modo di realizzare strade, canali, argini e dighe, ponti e nuove infrastrutture.
L’ambiente naturale, fino ad allora rispettato e temuto compartecipe dell’uomo nel suo progetto di trasformazione e utilizzazione del mondo, era diventato semplice materia prima per una continua ri-creazione delle condizioni date. E lo Stato (che a Venezia era stato il grande garante di un equilibrato rapporto tra l’uomo e l’ambiente) era diventato in ogni paese d’Europa strumento per l’affermazione d’ogni borghesia capitalistica, nella concorrenza feroce con quella d’ogni altra nazione: per l’impossessamento di “ambienti” diversi, di “nature” diverse da sfruttare, trasformare, alienare.
La stessa cognizione del tempo era mutata. Non più misurato sulla durata lunga degli eventi, sui ritmi delle ricorrenze naturali, sulla gittata pluriennale delle trasformazioni più consistenti (la messa a dimora di un bosco, il consolidamento di un lido, il rimodellamento d’un sistema fluviale), l’unità di conto del tempo si avvicinava sempre di più alla frantumazione della giornata: all’ora, al minuto, al secondo. La prospettiva non era più il succedersi delle generazioni: era una stagione della vita dell’uomo cui altre, più ricche, dovevano seguire.
La Laguna si trasforma
Basta osservare una mappa della Laguna di Venezia per rendersi conto degli effetti dei grandi mutamenti intervenuti nelle coscienze e nella realtà mondiale, dalla caduta della Repubblica ai tempi nostri.
Dissolti l’ombrello protettivo delle regole che tutelavano i regimi proprietari, e la stessa consapevolezza della Laguna come bene comune, parti estese del territorio Lagunare sono state privatizzate e usate in vista di tornaconti immediati. Alcune bonificate e ridotte a campagne, altre trasformate in bacini chiusi da argini (le “valli da pesca”) in cui praticare lucrose attività itticole, altre ancora, più tardi, “imbonite” e convertite in zone industriali: porzioni consistenti del bacino sono state sottratte ai ritmi delle acque e al gioco delle alluvioni e delle maree. Ridotto così (di circa un terzo in mezzo secolo) l’ambito dove potevano estendersi le maggiori alte maree e le piene dei fiumi sversanti in Laguna, sono aumentate le frequenze e le intensità delle inondazioni dei centri abitati.
Analogo effetto ha avuto l’approfondirsi dei maggiori canali d’accesso (disegnati ormai come rettilinei stradali, e non più assecondando il disegno naturale delle acque), e delle stesse “bocche di porto”, sia per i dragaggi effettuati onde consentire l’ingresso alle zone industriali di navi di grande pescaggio, sia semplicemente per l’abbandono delle pratiche di monitoraggio e manutenzione continua che la Serenissima aveva sistematicamente condotto. Masse imponenti d’acqua si sono riversate dal mare alla Laguna ogni volta che la fase lunare, il vento e la depressione atmosferica aumentavano il dislivello tra l’acqua esterna e quelle interne [6].
Gli effetti dell’accresciuta immissione di acque marine e della ridotta superficie del bacino d’espansione sono stati aggravati da due ulteriori eventi. Da un lato, il venir meno dell’attività di manutenzione continua della rete canalicola nelle zone più lontane dalle “bocche di porto” ha reso le parti marginali della Laguna più difficilmente raggiungibili dall’onda di marea, e quindi ha ridotto ancora il bacino d’espansione efficace. Dall’altro lato, le esigenze della produzione industriale hanno provocato, nella terraferma, l’attivazione di numerosi pozzi di prelievo dell’acqua di falda, causando l’abbassamento del livello di quest’ultima e, con essa, di quel soprastante strato solido di argilla compattata da millenni (il “caranto”) che sorregge i limi e le sabbie su cui sorgono Venezia e gli altri centri Lagunari.
Il collasso e i suoi frutti
Il 4 novembre 1966 l’effetto congiunto della tracimazione dei fiumi e di un’eccezionale alta marea marina fece aumentare il livello delle acque ad un’altezza inusitata, per molte ore. Si sfiorarono i 200 cm sul livello medio marino, mentre l’altezza media su tale livello del piano stradale e dei piani terra delle abitazioni e dei negozi si aggirava tra i 100 e i 150 cm. Si gridò alla catastrofe. L’opinione pubblica mondiale si commosse temendo che Venezia scomparisse tra i flutti: se non oggi, in un domani non lontano.
Si dibattè, si studiò, si comprese, si tentò di fare. Il lungo lavoro pre-legislativo che si svolse tra Roma e la Laguna con il puntuale controcanto dei maggiori quotidiani, e si concluse con la discussione parlamentare sulla legge 171/1973, approdò a una nuova consapevolezza del problema, delle sue cause, delle sue possibili soluzioni.
Si comprese che ogni ulteriore sottrazione di area alla superficie lagunare doveva essere vietata, e che bisognava studiare i modi per ripristinare l’antica estensione. Di conseguenza, si abbandonò per sempre la devastante iniziativa della realizzazione di una nuova gigantesca “Terza zona industriale”, più grande della somma delle precedenti: le “casse di colmata” già realizzate dovevano essere restituite al gioco delle maree.
In termini più generali, lo Stato assunse il compito di assicurare la “regolazione dei livelli marini in Laguna, finalizzata a porre gli insediamenti urbani al riparo dalle acque alte”, mediante “opere che rispettino i valori idrogeologici, ecologici ed ambientali ed in nessun caso possano rendere impossibile o compromettere il mantenimento dell'unità e continuità fisica della Laguna” [7].
Cominciò d’altra parte ad affacciarsi l’ipotesi di operare sulle “bocche di porto” con restringimenti fissi e, se necessario, mobili per regolare l’afflusso delle acque marine, ma si completò questa soluzione con un mosaico ricco di altri tasselli. Si prescrisse che nella definizione delle soluzioni tecniche si considerasse “l'influenza sul regime idrodinamico dell'apertura alla espansione delle maree delle valli da pesca nonché delle aree già imbonite dalla cosiddetta terza zona industriale”, che si operasse per “la riduzione delle resistenze alle maree della zona nord orientale della Laguna”, per “la riduzione a livello normale dei fondali, ora profondamente erosi dalle correnti, nel canale di S. Nicolò nonché allo sbocco in Laguna dei porti-canale di Malamocco e Chioggia”, per l'aumento ”delle dissipazioni di energia del flusso di marea lungo il percorso entro i porti-canali” [8].
Una visione sistemica e una visione ingegneristica
Si cominciò a comprendere, insomma, che la Laguna era un sistema, e come tale doveva essere trattato. Non a caso, si affidò a un “piano comprensoriale dei comuni della Laguna di Venezia e Chioggia” il compito di delineare l’insieme delle soluzioni territoriali da adottare per l’insieme dell’area.
Il piano comprensoriale venne tempestivamente redatto, ma non giunse mai all’approvazione finale. All’unità di governo dei tempi della Serenissima la pasticciata Repubblica italiana aveva saputo sostituire solo un farraginoso meccanismo, espressione delle volontà contrastanti (e quindi paralizzanti) di poteri dei comuni e della regione, e per di più sottoposto all’approvazione finale di quest’ultima. Un meccanismo che non funzionò perché non poteva funzionare.
Ma accanto ad esso, lo Stato, e per esso il Ministero dei lavori pubblici (e il suo braccio operativo locale, quale era divenuto l’antico e glorioso Magistrato alle acque) agiva secondo le sue logiche. Partiva l’ideazione e la progettazione di quello che fu poi denominato Mo.S.E. (Modulo Sperimentale Elettromeccanico), e la costituzione del soggetto privato cui lo Stato avrebbe delegato poteri, competenze e risorse pubbliche per studiare, progettare ed eseguire il complesso delle opere ritenute necessarie.
Mentre lo Stato proseguiva in un’ottica che è definibile solo tardo-ottocentesca (come argomenterò meglio più avanti), e la Regione affossava il Piano comprensoriale, il Comune di Venezia si attrezzava per poter collaborare dialetticamente con gli altri soggetti nell’ambito delle sue limitate competenze istituzionali (ma dei suoi non marginali poteri politici). Si affinavano sul versante comunale, sia pure con risorse limitatissime, gli studi e le analisi sulla Laguna.
Ripristino dell’ecosistema lagunare
Particolare rilievo ebbe quello intitolato al “Ripristino, conservazione ed uso dell’ecosistema lagunare” [9]. Dopo aver segnalato come il progesso degenerativo della Laguna tendeva a farne scomparire i connotati specifici e aver descritto le tendenze in atto e le loro cause, il documento forniva un quadro organico degli interventi necessari.
Preso atto che “la difesa della Laguna e degli insediamenti umani dalle acque alte eccezionali deve essere affrontata con la processuale realizzazione di specifiche opere di sbarramento manovrabile per la chiusura temporanea, ma totale, delle tre bocche di porto” si afferma che
“per bloccare ed invertire la tendenza degenerativa in atto e per condurre l'area lagunare in una situazione nella quale si possano controllare in modo continuo i processi evolutivi ambientali e necessario attuare un insieme di decisioni coordinate che può essere elencato come segue:
- esclusione di ulteriori emungimenti di falda al fine di arrestare la subsidenza di origine antropica;
- recupero di una capacità moderatrice dei flussi mareali in laguna, operando sull'attuale assetto delle bocche di porto, sul sistema di propagazione delle acque nel bacino lagunare e sull'estensione dell'ambito di espansione delle maree, così da pervenire ad una riduzione dei volumi d'acqua scambiati tra mare e Laguna (in termini non implicanti negative conseguenze sulla qualità delle acque lagunari, in relazione all'attuazione dagli interventi di tutela dagli inquinamenti) e da mitigare la dinamica delle acque lagunari, conseguendo una consistente attenuazione dei processi erosivi e di degrado ambientale nonché la riduzione dei livelli e delle ampiezze di marea in Laguna, e quindi della frequenza con cui le maree medio-basse determinano il fenomeno delle acque-alte;
- tutela dei litorali, a partìre priorìtariamente da Pellestrìna, attraverso interventi finalizzati al riassetto della loro struttura, alla realizzazione di opere di difesa dall'erosione costiera, al ripristino di una dinamìca naturale di trasporto costiero ed al ripascimento anche artificiale dei lidi e dei fondali;
- determinazione degli usi e dei modi d'uso congruenti con le diverse parti dell’area lagunbare, dei litorali, dell’entroterra, e pertanto in ezsse ammissibili;
- abbattimento e controllo degli inquinamenti dell’acqua e dell’aria”. [10]
Un’eco dei risultati di questa impostazione risuona nelle formulazioni della legge che, dopo un lungo e accanito dibattito parlamentare, integrò nel 1984 la legge speciale del 1973. In essa infatti si dichiarava che gli interventi dovevano essere volti
“al riequilibrio della Laguna, all'arresto ed all'inversione del processo di degrado del bacino Lagunare ed all'eliminazione delle cause che lo hanno provocato, all'attenuazione dei livelli delle maree in Laguna, alla difesa con interventi localizzati delle insulae dei centri storici, ed a porre al riparo gli insediamenti urbani lagunari dalle acque alte eccezionali, anche mediante interventi alle bocche di porto con sbarramenti manovrabili per la regolamentazione delle maree” [11].
Un compromesso dinamico
In realtà la legge apparve sul momento il frutto del compromesso tra due logiche, descritte da Luigi Scano: quella che “concepisce la Laguna veneziana come un comune bacino d'acqua regolato da leggi essenzialmente meccaniche”, e quella che “intende invece la Laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabili alla cibernetica, e rivolge i propri interessi alla conservazione ed al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi” [12].
Non a caso, gli interventi alle bocche di porto, i “rubinetti” mediante i quali si sarebbe potuto regolare l’afflusso delle acque marine erano, secondo il dettato della legge, uno (e non il primo) di una serie di interventi che si dovevano programmare e, sistematicamente, realizzare. Ma così non fu. A volte il potere del legislatore è meno efficace di quello del gestore della legge. L’applicazione della legge fu sostanzialmente affidata al Ministero dei lavori pubblici, in quegli anni, e non solo allora, saldamente in mano a quelle forze (il PSDI di Franco Nicolazzi, la corrente craxiana del PSI e il potente De Michelis, parti rilevanti della DC) che avevano sposato con entusiasmo la logica “meccanicista” e la soluzione dei “rubinetti”.
Da allora, tutto il dibattito su Venezia e la sua Laguna si è ridotto al dibattito sul MoSE. E la stragrande maggioranza dei fondi (pubblici) investiti nella salvaguardia della Laguna sono andati a quello straordinario colosso (e a quel monstrum istituzionale) che è il Consorzio Venezia Nuova. Ma di questo parleremo dopo, Vediamo prima che cos’è il MoSE.
Che cos’è il MoSE
Il MoSE (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) è, in estrema sintesi, un sistema costituito da 79 cassoni metallici, la cui superficie maggiore è di oltre 20 metri per 20, suddivisi in quattro serie nelle tre Bocche di porto: 21+20 alla Bocca di Lido, 20 a Malamocco, 18 a Chioggia. Ogni paratia è incernierata in una grande struttura di calcestruzzo sommersa e, normalmente, è piena d’acqua. Secondo il progetto, ogni volta che le previsioni lasciano presagire che il livello di marea supererà l’altezza desiderata (si parla generalmente di +110 cm sul livello medio marino), un sistema di pompaggio dovrebbe immettere aria nei cassoni i quali si solleverebbero e ostacolerebbero così l’ingresso delle acque marine.
Il sistema prevede consistenti opere sussidiarie e accessorie, che nel loro complesso richiederebbero la movimentazione di 5 milioni di metri cubi di materiali inerti e comporterebbero l’immissione di 12.055 pali di cemento lunghi dai 10 ai 19 metri e fino a una profondità di -42,5 metri, di 5.960 palancole metalliche lunghe da 10 a 28 metri, di 157 enormi cassoni di calcestruzzo armato, di 560.000 metri quadrati di pietrame, e infine la realizzazione di un’isola artificiale di 135.000 metri quadrati, con edifici alti dai 4 ai 10 metri e una ciminiera di 20 metri.
Le critiche al MoSE
Il progetto ha sollevato numerose e argomentate critiche. È stato gratificato d’un ampio e articolato parere negativo dalla commissione incaricata dal Governo (ministri Ronchi e Melandri) di effettuare la Valutazione d’impatto ambientale [13], è stato lungamente contrastato dal Consiglio comunale di Venezia, al quale un parere ambiguo finale è stato estorto con una di quelle capriole interpretative delle quali la bassa politica italiana è maestra [14]. Le critiche sono riassunte in modo efficace in alcuni documenti della Sezione veneziana di Italia Nostra. Esse possono riassumersi in un numero relativamente limitato di punti.
Il progetto provoca danni certi e misurabili all’ambiente lagunare sia nella lunga fase di cantiere, nel corso della quale verrebbero distrutti luoghi di grande rarità e bellezza (come le dune di Ca’ Roman e degli Alberoni e la Secca del Bacan), sia per le stesse trasformazioni progettate (basti pensare che le gigantesche strutture sommerse in cui sono incernierati i cassoni metallici interromperebbero definitivamente la continuità naturale tra i fondali della Laguna e quelli marini negli unici tre segmenti sopravvissuti nel processo di formazione della Laguna).
Il progetto difenderebbe i centri abitati solo dalle alte maree di origine marina, non dalle alluvioni fluviali (rispetto alle quali costituirebbe invece un ostacolo al deflusso delle acque). Si fa osservare che negli eventi eccezionali del 1966 l’apporto della rottura degli argini dei fiumi fu determinante, e che a tutt’oggi le condizioni dell’assetto idraulico sono addirittura peggiorate. Sarebbe perciò, oltre che scarsamente efficace al medesimo fine cui è esclusivisticamente ordinato, anche rischioso.
Il progettato sistema reagirebbe ad eventi (alte maree superiori a 110 cm) di cui è assolutamente incerta la frequenza. Se il limite dei 110 cm venisse superato troppo spesso (una delle ipotesi formulate è di 400 chiusure all’anno) la Laguna diventerebbe un bacino chiuso e l’inquinamento sarebbe letale [15], e il porto non funzionerebbe più. Se il livello degli oceani aumentasse oltre i +30 cm il sistema diverrebbe obsoleto, e i portelloni sarebbero scavalcati dai flutti [16].
Il progetto è costosissimo per quanto riguarda la sua realizzazione (le stime sono crescenti di anno in anno: ultimamente raggiungono 7-8.000 milioni di €). La cosa più straordinaria è che non si sa quanto costerà la gestione del complesso meccanismo, né a chi essa sarà affidata, né chi e come ne sosterrà le spese. Basta pensare che su un metro quadrato di cassone metallico si depositano all’anno tra i 10 e i 35 kg. di incrostazioni biologiche, eliminabili solo smontando i giganteschi portelloni e lavorandoli a terra.
Il progetto è pericoloso per l’equilibrio complessivo della Laguna anche per due ulteriori sue conseguenze. Si calcola che esso rilascerebbe 12 tonnellate/anno di zinco per effetto della protezione anodica delle paratoie dalla corrosione; si fa rilevare che ciò corrisponde al 50% dell’intero carico ammissibile per l’intero bacino idraulico gravitante in Laguna, e che lo zinco si accumula nel ciclo alimentare. E si calcola inoltre che l’ulteriore approfondimento dei canali, previsto dal progetto, e il più intenso scambio con il mare che ne consegue, comporterebbe un consistente aumento dell’erosione dei fondali della laguna: quindi un salasso permanente della materia stessa di cui, insieme all’acqua, la Laguna è costituita
Gli errori di fondo del sistema MoSE
Al di là delle critiche specifiche mi sembra che al sistema progettato si debbano muovere due critiche di fondo.
In primo luogo, esso è centrato su uno solo degli obiettivi che devono essere perseguiti: la riduzione degli effetti sui centri abitati delle alte maree eccezionali. Pur tralasciando il fatto che neppure questo obiettivo sembra raggiungibile con attendibili garanzie di successo (nonostante il costo elevatissimo, e per una parte rilevante neppure determinato), esso considera del tutto marginali tutti gli altri danni subiti dall’ecosistema lagunare, non interviene su di essi [17] ed anzi in buona misura li accentua. Così, ad esempio, invece di prevedere la riduzione dei fondali dei canali principali che adducono le acque marine, ciò che di per sé limiterebbe drasticamente gli effetti delle alte maree, se ne prevede addirittura l’approfondimento e l’ampliamento della sezione rispetto a quelle attuali. E per di più tali trasformazioni sarebbero irrversibili, poiché realizzate con gigantesche cementificazioni.
Ciò significa che a tutti gli altri interventi necessari per ripristinare l’equilibrio dell’ecosistema lagunare (dalla vivificazione delle zone di Laguna interna alla riapertura delle valli da pesca, alla manutenzione della rete canalizia minore al reimpianto della vegetazione degradata ecc.) vengono destinate risorse del tutto marginali e insufficienti, senza alcuna garanzia di continuità e sistematicità nell’azione.
In secondo luogo, questo stesso obiettivo è perseguito attraverso tecniche che definire dure e pesanti è perfino riduttivo. Tecniche, comunque, ben lontane da quei criteri di “gradualità, sperimentalità, reversibilità” che la Serenissima Repubblica di Venezia aveva perseguito per secoli, che la cultura nazionale aveva finalmente compreso essere le parole chiave per la sopravvivenza della Laguna, e che lo stesso Parlamento italiano aveva inserito nel corpus legislativo [18]. Che cosa di graduale, sperimentale e, soprattutto, reversibile vi sia nel sistema proposto è impossibile comprendere.
Una soluzione semplicistica, meccanicistica, tecnicistica, rigida, parziale – là dove la realtà e la storia pretenderebbero una soluzione complessa, sistemica, flessibile, governabile: l’unica adeguata al corpo vivo della Laguna, riduttivamente assimilato dai promotori del MoSE a un vascone dotato di tre rubinetti.
Una matrice ideologica…
A ben vedere, le matrici di questi errori sono riconducibili a due, l’una sul versante della cultura e dell’ideologia, l’altra a quello istituzionale.
Potremmo definire il sistema MoSE come l’estremo canto di quella ideologia ottocentesca che affidava la soluzione dei conflitti, inevitabilmente nascenti dalla dialettica tra società umana e natura, alla pesante sostituzione di elementi artificiali ad ambienti naturali ogni volta che questi pongono un ostacolo a un’esigenza, reale o indotta, della società. L’intervento dell’uomo, insomma, come demiurgica sostituzione alla natura. Sostituzione delle leggi della tecnica delle costruzioni e della meccanica e delle potenzialità delle relative tecnologie a quelle della natura. O più esattamente, poiché le leggi naturali non sono eliminabili per decreto, progressiva riduzione dell’area in cui prevalgono le leggi naturali ed espansione dell’area dominata da quelle della tecnica (e del cemento, dell’acciaio, dell’asfalto). In definitiva, divisione del pianeta in due aree, rigidamente distinte, affidate l’una alla tecnica l’altra alla natura.
Quanto ci sia d’illusorio in questa ideologia demiurgica, in questo revival tardo-ottocentesco, ce lo ricordano ogni anno gli eventi che devastano regioni sempre più vaste del pianeta. Le vicende della Laguna di Venezia l’avevano preannunciato nel lontano 1966. Sembrava che chi sulla Laguna governa (prevalentemente in capitali lontane da essa) l’avesse compreso. Così è stato per una stagione troppo breve per produrre effetti significativi. Le Grandi Opere sono tornate di moda. Per ragioni non solo ideologiche, ma anche molto materiali. Per comprenderlo veniamo all’altro aspetto: quello istituzionale.
La matrice istituzionale
Non è un’autorevole istituzione pubblica, non è un “pezzo dello Stato” il protagonista dell’intera operazione di studio preliminare, spermentazione, progettazione, esecuzione dei lavori per la salvaguardia della Lagune. È un’associazione di industrie private: in grande prevalenza, industrie del settore delle costruzioni. Le principali sono la Impregilo spa (39,4%) , la Grandi Lavori Fincosit (16,65), la Società Italiana Condotte d’Acqua (2,5%), la SAIPEM del gruppo ENI (2,5%), La Mazzi Scarl (1,85%). Il resto è suddiviso da alcuni sottoconsorzi, che raggruppano imprese di minori dimensioni.
Attraverso una serie di passaggi e di atti amministrativi a questo pool di imprese è stato affidato uno straordinario e inusitato i sieme di compiti: è il concessionario esclusivo per lo Stato per lo studio, la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione delle opere necessarie per la salvaguardia della Laguna, tutte finanziate con fondi pubblici. Le risorse di straordinaria entità messe a disposizione di questo monstrum istituzionale sono tali che esso ha avuto la possibilità di esercitare un vero monopolio sulla ricerca e sulla promozione delle soluzioni volta a volta proposte.
I tentativi di far valere, di fronte ai tribunali internazionali, l’anomalia di un affidamento così ampio di compiti senza alcun ricorso a procedure concorsuali (e quindi al di fuori delle norme di tutela della concorrenza) sono state abilmente eluse. Italia Nostra aveva presentato (luglio 1998) un ricorso alla Commissione europea. Questo era stato accolto ed era stata aperta una procedura di infrazione alle direttive europee nei confronti del governo italiano.
Ma dopo una fase interlocutoria la Commissione europea ha scelto di dare una soluzione politica alla questione, e con un compromesso ha chiuso la procedura. Pur riconoscendo la complessità della questione e ammettendo di non avere raggiunto certezze in materia, ha cercato di risolvere la illegittimità con una soluuzione cucita al filo bianco. Si è deciso che il Consorzio si impegna a dare in subappalto una parte dei futuri lavori, tramite gara pubblica organizzata dal Consorzio stesso. I lavori alle bocche di porto (MoSE) vengono peraltro lasciati alla piena gestione del Consorzio Venezia Nuova, che dunque continua ad essere il concessionario degli interventi più delicati e più discussi per la salvaguardia della Laguna.
Di fatto, si è creato in Laguna un potere, più forte di tutti quelli presenti nell’area, nell’ambito del quale la missione degli attori più rilevanti (la totalità dei membri del Consorzio) è quella di aumentare il volume degli affari, quindi la qualità delle opere da realizzare e dei materiali da impiegare (acciaio, ferro, cemento). È ben difficile che, in un simile quadro, l’opera del Consorzio possa ispirarsi a quei saperi, a quelle procedure tecniche, a quel saggio equilbrio di sperimentazione, gradualità, reversibilità che secoli di saggezza amministrativa avevano distillato e che la politica italiana (in una sua fase certo non eccelsa, ma infinitamente più alta di quella attuale) aveva compreso e adottato.
Le alternative possibili
Le cose da fare sono note da tempo [19].
Si tratta in primo luogo di ridurre l’afflusso delle acque marine, riportando le sagome delle bocche di porto e dei canali d’accesso alle condizioni compatibili con la navigazione sostenibile dalla Laguna. Questo essenziale intervento evidentemente contrasta con le esigenze del traffico petrolifero, il quale dovrebbe di per sé essere eliminato (la legge lo prevede dal 1973) e con quelle della permanenza del transito delle gigantesche navi di crociera. Ed esso imporrebbe di affrontare seriamente il problema del disinquinamento, soprattutto di quello dovuto dalle immissioni dalla Terraferma.
Si tratta di ridurre, analogamente, il rischio di inondazioni da parte dei fiumi, che contribuirono notevolmente alle eccezionali acque alte del 1966. Anche la regolazione dei corsi d’acqua dell’intero bacino gravitante sulla Laguna è impresa prevista da anni, e in parte già finanziata.
Si tratta poi di lavorare perché la Laguna viva possa riappropriarsi di una parte almeno degli spazi che le sono stati sottratti nell’ultimo secolo: oltre alle “casse di colmata” della prevista Terza zona industriale (cioè di quelle vaste aree lagunari già interrate ma non utilizzate dall’industria), si tratta di riaprire alle correnti le “valli da pesca” privatizzate, sostituendo gli argini in terra con le tradizionali griglie permeabili alle maree, e si tratta di riprendere l’opera di manutenzione della rete canalicola.
Si tratta di ristabilire il rapporto tra terra e acqua nella morfologia della Laguna, proteggendo e recuperando le barene (le formazioni solide volta a volta sommerse ed emerse per il gioco delle maree), erose dal moto ondoso e dalla aumentata idrodinamica del bacino lagunare, avvalendosi di tecniche di ingegneria naturalistica molto diverse da quelle hard impiegate dal Consorzio Venezia Nuova, reimmettendo in modo controllato e reversibile una parte delle piene dei fiumi nel bacino lagunare, al fine di arrestare il processo erosivo con l’apporti di sedimenti.
Si tratta di proseguire il lavoro sistematico, da tempo iniziato da un’apposita azienda comunale, di difesa locale degli abitati insulari, cioè di rialzo della pavimentazione veneziana alla quota di +110/+120: ciò che consentirebbe di eliminare il disagio degli abitanti per la stragrande quantità degli eventi di “acqua alta”.
Si tratta, infine, di approfondire proposte diverse dal MoSE per ridurre ulteriormente l’immissione di acque marine in caso di alte maree eccezionali. Idee e proposte sono state avanzate negli ultimi anni. Che l’approfondimento progettuale non sia stato pari a quello che si è avuto per il MoSE è una ulteriore testimonianza dell’errore di fondo: che è stato quello di affidare a un unico attore, in condizioni di monopolio assoluto, le ingenti risorse statali destinate a studiare, sperimentare e progettare, con l’unica bussola dell’interesse del Consorzio. I cui componenti sono, ricordiamolo, imprese di costruzioni: strutture degnissime, la cui missione, la cui cultura e i cui interessi sono però ben diversi di quelli necessari per affrontare il problema della Laguna in coerenza e continuità con la tradizione, e quindi con la salvaguardia di un bene universale.
[1] Venezia, Chioggia, Campagna Lupia, Mira, Quarto d'Altino, Codevigo, Iesolo, Musile e, oggi, Cavallino.
[2] Venezia, Padova, Treviso, Vicenza.
[3]Si veda: Bevilacqua P., Venezia e le acque, Donzelli, Roma 1995, soprattutto pp. 85 e segg.; I. Cacciavillani, Le leggi veneziane sul territorio 1471-1789. Boschi, fiumi, navigazioni, Signum, Limena 1984.
[4]In molti luoghi di Venezia campeggiano ancora, accanto alle Piscine (i luoghi dedicati alla vendita del pesce) le targhe in marmo con le dimensioni minime d’ogni specie vendibile.
[5]P. Bevilacqua cit., p. 21.
[6] “Ai primi dell’Ottocento la profondità delle tre bocche di porto si attestava tra i -3,5 e i -4,5 m. […] Alla fine dell’Ottocento la profondità raggiungeva i -7 m al Lido e i -10 m a Malamocco. Nel secolo scorso l’industria portuale in rapida ascesa e l’espansione delle attività industriali necessitavano di fondali ancora più profondi. Si diede avvio dunque a campagne di scavo che portarono la bocca di Malamocco a -14,5 m e si tracciarono i canali Vittorio Emanuele (-10 m) e Malamocco-Marghera o dei petroli (- 14,5 m) che attraversano la Laguna come una profonda ferita. La gran massa d’acqua che entra ora in Laguna da questi varchi così profondi, com’era prevedibile, ha innescato fenomeni di auto-erosione: nel 1997 la bocca di Malamocco si era portata a -17 m. Sempre a Malamocco, dentro la bocca, si trova ora il punto più profondo dell’Adriatico, -57m!” Dalla sintesi dei dati pubblicati in varie sedi ufficiali redatta per il sito web di Italia Nostra – Sezione di Venezia (http://www.provincia.venezia.it/italianostra/3laguna/)
[7]Legge 16 aprile 1973, n. 171, articolo 12, comma 2, lettara a).
[8]Indirizzi per la redazione del piano comprensoriale di Venezia approvatri dal consiglio dei ministri nella seduta del 27 marzo 1975.
[9] Comune di Venezia, Ripristino, conservazione ed uso dell’ecosistema lagunare, Venezia 1982. Autori erano Corrado Avanzi, Valentino Fossato, Paolo Gatto, Riccardo Rabagliati, Paolo Rosa Salva, Andreina Zitelli; collaboratori Giampaolo Rallo, Roberto Stevanato; coordinatori Augusto Ghetti, Roberto Passino. Il documento costituì la base delle Osservazioni del Comune di Venezia al progetto di piano comprensoriale, Venezia 1982, da cui sono tratte le citazioni che seguono.
[10]Osservazioni del Comune di Venezia cit.
[11] Legge 29 novembre 1984 n. 798, articolo 3, comma 1, lettera a).
[12] Luigi Scano, Venezia: Terra e acqua, Edizioni delle autonomie, Roma 1985
[13]Le ampie conclusioni di questo documento, insieme ad altri testi relativi alle fasi più recenti della lunga vicenda del MoSE, sono disponibili sul sito web: http//eddyburg.it.
[14] La maggioranza del Consiglio ha approvato un documento che poneva undici tassative condizioni, la cui accettazione avrebbe comportato la revisione integrale del progetto. Il documento è stato presentato dal Sindaco allo speciale Comitato incaricato di approvare il progetto. In tale sede le “condizioni” più rilevanti sono state respinte, e quelle accettate lo sono state come mere raccomandazioni di cui tener conto nella fase operativa!
[15] Si tenga presente che tutti i liquami della città sversano in Laguna, e la depurazione è oggi assicurata dal ricambio provocato dalle maree.
[16] Le previsioni di innalzamento del livello medio marino sono previste, negli scenari calcolati dall’Intergovernamental Panel of Climate Change per il prossimo secolo, in valori variabili tra i +9 e +88 cm, con una maggiore probabilità per il valore +48 cm. Il MoSE è basato invece sulla previsione di un aumento massimo di soli +22 cm. Paolo Antonio Pirazzoli, (Centre National de la Recherche Scientifique, Meudon, France), “Did the Italian Government Approve an Obsolete Project to Save Venice?”, in Eos,Transactions, American Geophysical Union , Vol. 83, No. 20,14 May 2002, pp 217-223.
[17] E quando interviene sul resto della Laguna lo fa con tecniche e risultati molto criticabili.
[18] Legge 798 del 1984. È opportuno ricordare a questo proposito che un ulteriore provvedimento legislativo speciale, la legge 139 del 1992, prescrive che prima di avviare la costruzione del Mo.S.E. si debba provvedere al riequilibrio idraulico della Laguna, all’estromissione del traffico petrolifero e alla apertura delle valli da pesca.
[19] Una sintesi esauriente degli interventi proposti è nel sito http://www.provincia.venezia.it/italianostra/3laguna/3laguna.htm, e nel fascicolo La salvaguardia di venezia dalle acque alte. Un piano di azione strategico alternativo al Mo.S.E., a cura della Sezione di Venezia di Italia Nostra e del Comitato Salvare Venezia e la Laguna, gennaio 2003.
L’urbanista si occupa della città: lo dice la parola stessa. E le città sorgono sulle pianure, nei fondi valle, dove più vie, di terra o d’acqua, s’incrociavano; dove era più facile incontrarsi, scambiare prodotti e conoscenze, irrigare la terra e coltivarla, far nascere le fabbriche. Che cosa ha da dire un urbanista della montagna? La montagna è, quasi per definizione, la “non città”. È, rispetto alla città, l’altro estremo del territorio: tra l’una e l’altra c’è la vasta gamma delle campagne via via più lontane dalla città, delle colline oggi combattute tra la coltura e l’inselvatichimento.
Città e montagna, i due estremi: ma quanto strettamente, intrinsecamente legati! Basta ripercorrere la storia dei loro rapporti per comprenderlo. Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città era il chiuso, il difeso, l’artificiale, il costruito, il denso, il dinamico, mentre il territorio (il resto del territorio, le pianure e i boschi, le colline e le montagne) era il luogo aperto, dove si poteva essere attaccati, dove dominava esclusiva la natura, dove la presenza dell’uomo era rada e discontinua, dove le trasformazioni erano lente: avevano la lentezza e la sicurezza dei ritmi della natura.Il “territorio urbanizzato”
Nel corso del processo di espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio si è progressivamente trasformato. La città ha cominciato ad “esportare” parti scomode della sua struttura: le prime sono state le fabbriche, allontanate a causa dell’inquinamento e collocate nelle nuove “zone industriali” in periferia. Si è enormemente accresciuta l’importanza dei trasporti, e il territorio ha cominciato a essere segnato da infrastrutture come le strade, le ferrovie, i canali navigabili.
La mobilità sul territorio è aumentata in misura parossistica: è aumentata la rete delle infrastrutture del trasporto, ed è aumentata la loro utilizzazione. E le infrastrutture hanno creato a loro volta nuove convenienze per l’insediamento di funzioni specializzate: ospedali e caserme, carceri e strutture commerciali, stadi e discoteche sono stati localizzate sempre più frequentemente fuori dalle città, in prossimità dei caselli autostradali o delle superstrade. Hanno consentito di raggiungere luoghi via via più lontani, siti sempre più impervi, resi raggiungibili con le nuove tecnologie.
Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere e usare il territorio. Oltre alle ragioni derivanti dal fatto che determinate funzioni (quelle di cui ho parlato or ora) sono state localizzate fuori, oltre alle ragioni derivanti dal fatto che è più conveniente che in passato accedere a servizi localizzati in città diverse dalla nostra (per l’ospedale specializzato, per l’università, per l’acquisto di merci rare o specializzate, per il concerto o la mostra o lo spettacolo), nuove ragioni sono nate da nuove esigenze: di contatto con la natura, con ambienti incontaminati: esigenze di rigenerazione psicofisica, di sport attivo, di ricreazione all’aria aperta. La villeggiatura, le gite di fine settimana in collina o nel bosco o al mare, le settimane bianche sulla neve, lo sci e l’alpinismo: tutte queste pratiche della vita di ciascuno di noi, inesistenti o del tutto marginali fino a qualche decennio fa, ci hanno condotto a usare il territorio in modo sempre più ampio e frequente.
Oggi possiamo dire (e io lo ripeto spesso) che il territorio non è più in opposizione alla città: non è l’altro, non è il fuori. Oggi, la città comprende il territorio. Oggi non è più il caso di parlare di città e territorio come di due realtà antitetiche. Oggi è più esatto parlare di territorio urbanizzato come una realtà che comprende insieme le città e il territorio. Solo che questa unificazione tra città e territorio è avvenuta nelle forme di una “colonizzazione” dell’extraurbano da parte dell’urbano: la città si è impadronita delle campagne e delle colline, dei boschi e dei monti, ha tentato di cancellare le “loro” regole per imporre le proprie.
Oggi, quello che ho definito “territorio urbanizzato” è formato da realtà tra loro molto diverse. In alcune parti l’urbanizzazione è più densa, la presenza umana è più forte, i flussi di relazione che legano tra loro le diverse persone e attività sono più intensi, la presenza della natura è più debole. In altre parti invece succede il contrario: la presenza della natura è più marcata e più debole è invece la presenza dell’uomo, minore la densità dell’urbanizzazione, l’intensità dei flussi. La montagna è proprio la parte dove l’insediamento è più debole e la natura è sovrana. L’antica diversità si è modificata, ma non è scomparsa. Come si è modificata?
Trecento o duecento o cent’anni fa il territorio extraurbano non era, in Italia e in Europa, un luogo selvaggio e aspro. Fino a cento anni fa il territorio extraurbano era tutto curato, amministrato, gestito. Non solo quello agricolo, che occupava un’area enormemente più estesa di quella odierna, ma anche quello utilizzato per la pastorizia e la silvicoltura, e perfino quello del tutto “selvatico”. Perfino i monti più impervi e i boschi selvaggi, quelli dove le bestie addomesticate non potevano pascolare e che non venivano curati dai boscaioli, erano soggetti a quel minimo di cura che consiste nel togliere via i rami e i tronchi secchi per arderli nei focolari (impedendo così che il corso delle acque nei torrenti tracimasse dagli alvei naturali e rovinasse a valle).
Tutta la natura, insomma, anche quella più selvatica, entrava nel ciclo economico della società. Tutta la natura era “casa della comunità”. E basta studiare gli usi civici, la loro minuziosa regolamentazione comunitaria volta in larghissima misura all’appropriazione dei prodotti dell’incolto, per comprendere quanto la società, nelle sue forme arcaiche ma non più elementari, fosse presente sull’insieme del territorio. Un territorio sottoposto a simili regole, finalizzate a simili necessità (riscaldarsi, ripararsi, nutrirsi), era anche un territorio custodito. Era un territorio sul quale si esercitava un controllo sociale. Era un territorio che veniva sentito e vissuto dall’uomo come un patrimonio, perché immediatamente ne traeva elementari ma indispensabili benefici. Era un territorio in qualche modo integrato a quello urbanizzato.
Nell’ultimo secolo, e in modo particolarissimo negli ultimi cinquant’anni, la città si è estesa a macchia d’olio, e ancora più vaste sono proliferate le sue propaggini “rururbane”. La campagna coltivata si è enormemente ridotta, abbandonando tutti i terreni acclivi e gran parte delle zone interne. La pastorizia si è ridotta ad attività marginale e di risulta. Dalle montagne e dalle colline l’insediamento è “franato”, la popolazione ha abbandonato i borghi ad alta quota e si è trasferita verso le grandi città, i fondi valle, le coste.
Non è stato solo uno spostamento di residenze e una trasformazione della produzione. E neppure è stato solo un fenomeno quantitativo. Il salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall’economia e dalla società. L’extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d’attesa per l’ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell’urbano, luogo delle discariche, dell’esportazione “fuori” degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti.
Ora lo sappiamo. L’aver considerato il “non urbano”, e particolarmente la montagna, come un territorio da abbandonare od occupare volta per volta per i propri comodi non è stato privo di effetti, per le stesse città. Non più mantenuta né custodita, dall’uomo o dalla natura, malamente occupata da persone e attività che non ne volevano conoscere le regole (lottizzazioni turistiche, strade a mezza costa, incendi dolosi o colposi, dighe e condotte forzate ecc.), la montagna si è vendicata. Le acque, non più trattenute dalla vegetazione, incanalate nei tratti verso valle nelle guaine cementizie dei canali, hanno provocato alluvioni distruggitrici. Le pendici montuose, non più ricoperte dalla coltre di vegetazione, hanno franato minacciando (e a volte distruggendo) i paesi di cresta e quelli di valle. L’erosione ha scavato i fianchi, ha indebolito le strutture geologiche, ha provocato dissesti nelle infrastrutture.
Occorre intervenire sul “non urbano” in modo nuovo: come, però?
Un primo punto è chiaro: il territorio, tutto il territorio, deve essere governato da una volontà intelligente e unitaria, espressione di tutta la società. La spontaneità, la casualità, l’affidamento esclusiva all’intervento del singolo producono effetti devastanti in una società complessa, quale indubbiamente è quella contemporanea. Il governo del territorio deve manifestarsi attraverso la pianificazioneterritoriale: attraverso un insieme di strumenti che diano coerenza, nello spazio e nel tempo, all’insieme delle trasformazioni fisiche e funzionali che modificano l’assetto del suolo.
La pianificazione non può consistere solo nel fare piani, ma deve tramutarsi in un’attività continua e costante, sistematica, nella quale la formazione del piano si prolunghi nella sua attuazione, nel monitoraggio dei suoi effetti, nel suo sistematico aggiornamento. La pianificazione deve essere gestita dai rappresentanti delle popolazioni interessate, da queste liberamente eletti.
La pianificazione deve essere un processo unitario, che leghi insieme, in un unico disegno e un’unica strategia, città e campagna, pianura e montagna; che dia coerenza e garantisca cooperazione tra gli enti elettivi che hanno competenze territoriali: il comune, la provincia, la regione, lo stato. Tutti devono cooperare, ma su ciascuna questione deve esser chiaro chi è quello cui fa capo, in caso di dissenso o disparità di vedute, la responsabilità di decidere. Il principio cui far riferimento è quello della sussidiarietà, secondo il quale ad ogni ente elettivo territoriale spettano tutte, e solo, le competenze relative a oggetti e aspetti che sono efficacemente dominabili al suoi livello: talché non potrà spettare, per esempio, al singolo comune la decisione sull’opportunità o meno di localizzare un aeroporto o una strada di grande comunicazione, e non potrà essere la regione o la provincia arbitra della localizzazione di un asilo nido in un quartiere.
In che modo la pianificazione deve farsi carico dei problemi, e delle potenzialità, della montagna? Credo che si debba in primo luogo evitare di cadere negli errori che sono già stato compiuti. La montagna non deve essere vista in opposizione alla città, né deve essere da questa occupata. Imporre alla montagna le stesse regole nelle lottizzazioni a fini edificatori, nell’apertura di strade per ogni dove, nella progressiva sottrazione di elementi di naturalità, sarebbe un errore altrettanto grave che quello di abbandonare la montagna al degrado.
Nella montagna occorre soprattutto riscoprire, tutelare e valorizzare gli elementi di qualità presenti, essenziali per l’uomo di oggi e per quello di domani. Essi consistono in primo luogo nella biodiversità, nella presenza di specie vegetali e animali diverse, a volte rare, sempre preziose nella loro associazione oltre che nella loro singolarità: nelle caratteristiche degli ecosistemi che determinano oltre che in quelle specifiche delle singole specie e individui. Consistono poi nell’enorme potenziale di biorigenerazione che le grandi riserve di naturalità conservate nella montagna costituiscono: un potenziale decisivo per la sopravvivenza del genere umano, minacciato dalla progredente artificializzazione dell’habitat che esso stesso ha prodotto.
Ma gli elementi di qualità dell’ambiente montano stanno anche in una serie differenziata di realtà che la plurimillenaria fatica di addomesticamento della natura ha prodotto. Mi riferisco al paesaggio, in tante parti della montagna eccezionale espressione di un rapporto fecondo tra l’uomo (le sue necessità, il suo lavoro e la sua cultura), e la natura (le sue leggi e i suoi ritmi, le sue potenzialità e le sue minacce). Mi riferisco a piccole produzioni dell’economia agro-silvo-pastorale, ricche di differenziate qualità così distanti dai sapori e odori omologati dei prodotti di un’industria sempre più lontana dalla natura e dalle sue diversità (chi ci darà più il sapore delle bruttissime mele annurche?).
Si tratta di qualità (quelle prodotte dalle varie forme di simbiosi tra uomo e natura) che già oggi trovano l’interesse di numerose “nicchie” di mercato, e che sempre più incontreranno la crescente domanda di qualità.
È insomma nella direzione della riscoperta, della tutela e della valorizzazione delle qualità specifiche e tipiche dei differenziati ambienti montani che occorre lavorare, con gli strumenti adeguati, per ritrovare un ruolo specifico e autonomo della montagna, non in opposizione alla città né subendone l’assimilazione omologante, ma fornendo alla società dell’uomo nel suo complesso il contributo “diverso”, e perciò prezioso, delle qualità che la storia ha sedimentato nelle aree più difficili dell’habitat umano.
La montagna pone problemi specifici anche dal punto di vista degli istituti e strumenti della pianificazione In Italia, lo strumento più consolidato della pianificazione ‘ il piano regolatore comunale (PRG). Ma il PRG è pensato e costruito per dominare i problemi delle città, e in particolare delle grandi città. Esso è di per se poco adatto (e comunque insufficiente) di fronte ai problemi di un insediamento molto rado e disperso, qual è quello montano. Ed è d’altra parte uno strumento foggiato per affrontare i problemi del sistema insediativo, non quelli dell’ambiente naturale, così dominanti in ambito montano.
La legge, d’altra parte, non ha avuto il coraggio di attribuire alle Comunità montane la pienezza di poteri che sarebbe stata essenziale per dotarle di competenze di pianificazione territoriale e urbanistica (questa infatti è riservata, giustamente, agli enti elettivi territoriali a rappresentanza generale).
Il nuovo ordinamento dei poteri locali, definito nel 1990, attribuisce alle province la competenza in merito alla pianificazione territoriale di livello intermedio tra regione e comune, concludendo così (a mio parere positivamente) un dibattito e una ricerca iniziati alla fine degli anni Cinquanta. Ma le province amministrano spesso territori troppo vasti per poter efficacemente cogliere, interpretare e portare a soluzione problemi molto differenziati di singole parti del territorio.
Il comune, in altri termini, è troppo piccolo, la provincia troppo grande e la comunità montana povera di poteri. La soluzione può allora essere ricercata in una collaborazione tra questi tre livelli di governo. In questo quadro alla provincia (e alla sua pianificazione) potrebbe spettare l’individuazione delle direttive generali per l’assetto del territorio, l’individuazione degli ambiti intercomunali, tendenzialmente coincidenti con le comunità montane, all’interno dei quali approfondire (con una sorta di “zoomata”) le determinazione della pianificazione provinciale. Alle comunità montane e ai comuni, opportunamente associati anche in forme volontaristiche, potrebbe essere affidato il compito di definire la pianificazione nei suoi aspetti più specifici, coordinando (o, al limite, sostituendo) la pianificazione generale a scala comunale.
Lungo questa direzione vale forse la pena di lavorare, integrando in un processo di pianificazione cooperativo e flessibile anche la pianificazione “specialistica” più rilevante per la montagna: da quella dei piani di bacino, cui è affidata l’individuazione delle condizioni e delle opere necessarie per la salvaguardia delle acque e dalle acque, dai piani delle zone protette, cui penso debba essere affidata soprattutto la gestione naturalistica e la sperimentazione scientifica della aree di maggiore valore naturalistico, a quella del paesaggio, che dovrebbe essere ricompresa in una pianificazione regionale, provinciale e comunale “con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”, per adoperare i termini (e l’intenzione) della Legge Galasso.
Naturalmente, un processo di pianificazione così delineato dovrebbe poggiarsi su due presupposti: la verifica, nella primissima fase di lavoro, dell’esistenza di adeguati strumenti di salvaguardia delle qualità esistenti; la formazione di strutture tecniche e amministrative capaci di gestire il processo di pianificazione, con l’autorevolezza, la competenza e l’attrezzatura indispensabili. In assenza di queste due condizioni (e di una determinata volontà politica da parte degli amministratori) ogni speranza di rinascita delle aree montane resterebbe delusa.
Edoardo Salzano
Venezia, Pasquetta 1999
La ragione che ci ha spinto a cercare e a pubblicare questo testo pronunciato da Capo Sealth (o Seattle) dei Salish è in primo luogo nella sua straordinaria bellezza: nella sua toccante poeticità, e nella sua sconvolgente forza profetica. È poi nella nitidezza con cui traspare (ma più giusto sarebbe dire irrompe) quell'intenso e profondo legame dell'uomo con la natura che è tipico, ci dicono, delle società tribali che popolavano quella che oggi chiamiamo America, prima che gli uomini sbarcati dall'Europa distruggessero ciò che preesisteva al loro arrivo. Non crediamo di esagerare troppo se confidiamo al lettore che il testo di Capo Sealth ci è sembrato raccontare l'amore dell'uomo per la natura con una capacità di esprimere sentimenti con immagini paragonabile a quella rivelata dall'ignoto autore del Cantico dei cantici per raccontare l'amore dell'uomo per la donna.
Il testo che pubblichiamo ci è stato fornito, e tradotto dall'inglese, da Domenico Buffarini. È la traduzione del testo originario (qui per la prima volta pubblicato in Italia in versione integrale) raccolto, con il titolo «A long speech of Chief Seattle or Sealth of the Dwamisch tribe», in Oregon historical review, Portland 1885, XXII, pagg. 1033-1035.
Esso induce a riflettere per piú d'una ragione. Rivela una capacità di adesione poeticamente (e quindi primitivamente) consapevole al mondo delle cose, che indica all'umanità di oggi traguardi che devono essere riconquistati anche in un mondo (e un'epoca) in cui la natura è stata profondamente plasmata e trasformata dalla storia.
Denuncia la perdita di valori provocata da quel determinato sviluppo che la rivoluzione capitalistico-borghese ha impresso all'evoluzione dell'umanità. Squarcia dinnanzi allo sguardo il velario che celava (quando Capo Sealth parlava) una prospettiva catastrofica che, dopo Hiroshima e Three Miles Island e Chernobyl, sappiamo possibile. E dimostra, infine, che il termine "recupero" deve comprendere più cose che i beni immobili: civiltà vicine alle nostre, minoranze etniche sconfitte dalla storia, sono portatrici di verità che devono essere non solo rispettate per ciò che sono state, ma, appunto, "recuperate" per il messaggio universale che contengono.
A mo' d'illustrazione, e a commento contemporaneo della profezia di Capo Sealth ("la vostra civiltà produce immondizie ed esse, un giorno, vi annegheranno "), pubblichiamo una pagina di un altro poeta, Italo Calvino, tratta da Le città invisibili (ed. Einaudi, Torino, 1972).
E invitiamo il lettore a fare dell'uno e dell'altro testo una lettura non reazionaria né disarmata, ma a cercare di riflettere su di un punto che a noi sembra accomunare i due scritti al di là dei riscontri più superficiali: che, cioè, per stabilire, nel mondo contemporaneo, un rapporto umano tra la società e l'ambiente fisico, bisogna scavare e trasformare nel profondo. nelle regole di base.
Ne parla ampiamente questo sito
Mi sembra che alcune cose avvenute nel nostro paese negli ultimi tempi, non soltanto offrano più d'una conferma alle tesi che abbiamo esposto nei documenti preparatori di questa Conferenza, ma soprattutto illuminino con una luce diversa, più cruda e più chiara, alcune delle affermazioni che abbiamo fatto, delle analisi che abbiamo avanzato, delle esigenze che abbiamo prospettato.
Voglio soffermarmi brevemente su due punti, tra loro strettamente collegati: le tendenze e le iniziative che si manifestano da parte delle grandi aziende capitalistiche, e il ruolo necessario e possibile del tessuto delle autonomie locali.
Già nell'autunno scorso avevamo individuato e denunciato, praticamente in tutti i documenti preparatori di questa Conferenza, il senso che assumevano le iniziative delle grandi aziende monopolistiche, pubbliche e private, nel settore del' turismo e del tempo libero. A quelle iniziative noi attribuivamo un significato negativo non soltanto per gli effetti che producevano all'interno del settore, ma anche per il più grande disegno politico che ad esse vedevamo sotteso.
Quel disegno politico è diventato oggi del tutto esplicito e chiaro. Con il « programma di emergenza » di Rumor e Giolitti, con i « progetti speciali » predisposti su misura per la FIAT, la Montedison,l'Efim, l'IRI, l'ENI, con l'istituto della « concessione » propagandato dai professorini del Ministero del Bilancio, noi abbiamo visto manifestarsi, in tutta la sua globalità e coerenza, una strategia di lungo periodo; una strategia che mira, con l'alibi di una presunta e non dimostrata « efficienza » e « modernità », a utilizzare strumentalmente la grande domanda insoddisfatta d'investimenti sociali per sostituire, a una Repubblica fondata sugli istituti democratici e sul primato della politica, uno Stato fondato sugli interessi immediati delle grandi aziende monopolistiche e sul primato del profitto.
Questo è il senso che il nostro partito, con la grande maggio ranza delle Regioni e del movimento autonomistico, con il movimento sindacale, ha riconosciuto e contestato nelle proposte del « piano d'emergenza ». Ed è grazie all'opposizione che in tal modo è venuta a determinarsi, che l'ambizioso progetto dei Cefis, degli Agnelli e dei Fanfani sembra oggi ridimensionarsi e offuscarsi. Ma credo che commetteremmo un grave errore se ritenessimo d'aver già vinto, con il successo d'una battaglia, una guerra che è solo alle prime scaramucce.
In realtà, nell'analizzare il ruolo delle grandi aziende monopo listiche nel settore del turismo e del tempo libero, noi non abbiamo affatto sottovalutato gli elementi che forniscono, alle proposte di
quelle aziende, una oggettiva forza di convinzione e una presa reale. Di fronte a una offerta turistica atomizzata, irrazionale, largamente dominata da elementi di speculazione, divoratrice delle risorse naturali e ambientali; di fronte all'incapacità di questo tipo di offerta di fornire una risposta adeguata alla domanda di massa del tempo libero, le grandi aziende monopolistiche hanno veramente buon gioco.
Occorre fornire - abbiamo detto - una risposta che sia alternativa rispetto a quella del monopolio, ma che sappia misurarsi con la novità dei problemi e con la nuova qualità e quantità della domanda. Una risposta che sia basata su un ruolo nuovo dell'impresa privata piccola e media, non più intrisa di elementi di speculazione e di rapina; che sia basata su una rigorosa ed efficiente organizzazione della domanda, gestita dalle associazioni democratiche, dai sindacati, dagli enti locali, da una scuola profondamente rinnovata; che sia basata, soprattutto, su una capacità nuova dei Comuni e delle Regioni di amministrare il territorio e le sue trasformazioni e utilizzazioni, adoperando tutti i possibili strumenti per rendere concreto il principio, per noi irrinunciabile, che l'ambiente, la natura, il paesaggio, la cultura, rappresentano aspetti diversi di un patrimonio collettivo e sociale, che non può essere utilizzato a vantaggio di pochi privilegiati.
Ora il punto che voglio sottolineare è che la nostra capacità di reagire vittoriosamente e di battere fino in fondo la strada delle grandi centrali capitalistiche è interamente affidata alla nostra capacità di realizzare nel concreto, e anche in tempi molto brevi, quella alternativa che proponiamo.
Non nascondiamocelo, compagni, poiché faremmo un errore che pagheremmo a caro prezzo: non solo l'alibi, ma la concreta occasione par passare, è fornita alle grandi aziende dallo stato profondo d'inefficienza, d'incapacità amministrativa, tecnica ed ecenomica, in cui 25 anni di gestione democristiana del potere hanno lasciato precipitare gran parte degli strumenti dell'azione pubblica, a livello degli organi centrali dello Stato come a livello delle Amministrazioni locali.
Non è un caso se le :grandi aziende capitalistiche hanno scelto come terreno di pascolo il Mezzogiorno e le zone montane. Non è un caso se quelle stesse aziende si presentano invece in punta di piedi
e col cappello in mano nelle regioni dove il tessuto dei poteri locali è forte, consolidato dalla tradizione e dall'esperienza politica, radicato nelle masse popolari, consapevole ed efficiente.
Per battere l'avversario di classe nelle forme in cui esso oggi è costretto a presentarsi, dobbiamo fare un salto di qualità. Un salto di qualità che non può manifestarsi soltanto con una nuova e diversa produzione legislativa, ma che si realizza soprattutto nella gestione e nell'amministrazione quotidiana, e che sa però trasfondere in questa la carica politica e ideale che sappiamo impiegare nelle grandi battaglie.
Dovremmo fare un'analisi seria, io credo, degli strumenti che abbiamo già conquistato nelle battaglie generali e nazionali, e che non riusciamo ad utilizzare; scopriremmo di avere un arsenale coperto spesso di polvere. Voglio fare un esempio solo. Nel 1971 abbiamo conquistato, con una lotta lunga e faticosa, una legge che ci consente - fra l'altro - di espropriare, praticamente senza limitazioni, tutte le. aree da destinare agli insediamenti turistici e al tempo libero. Con questa legge il Parlamento ha messo nelle mani dei comuni - abbiamo detto - « uno strumento che può essere decisivo non solo per abbattere la speculazione fondiaria vecchia e nuova ma anche per promuovere forme nuove e avanzate di turismo ».
Ebbene, oggi, in Italia, quanti Comuni sono in grado di utilizzare e gestire questo strumento? Quanti Comuni hanno la capacità tecnica ed amministrativa, oltre che politica, di sfruttare le possibilità che l'art. 27 della 865 loro offre? Quante Regioni hanno promosso una politica di incentivazioni finanziarie e procedurali per aiutare e sollecitare i Comuni in questa direzione? Quanto impegno politico si è speso, abbiamo speso, per aiutare i Comuni a rafforzare le proprie strutture tecniche, per persi concretamente in una dimensione comprensoriale, per rendersi capaci di utilizzare gli strumenti strappati dal movimento di lotta?
E' indubbio che possiamo registrare più di una iniziativa e più di un successo in questa direzione. Ma a parte il fatto che spesso adoperiamo più spazio; sui nostri giornali, per illustrare le mirabilia di un impianto di depurazione che per spiegare i contenuti e gli strumenti di esperienze avanzate nella politica del territorio, a parte questo, mi sembra che stentiamo ancora a porre in modo generalizzato il problema della rifondazione, del rafforzamento, del salto di qualità degli enti elettivi come un grande e centrale problema politico e ideale.
Credo che sia necessario un deciso impegno del partito, di noi tutti, in questa direzione. Solo a questa condizione, solo alla condizíone di riuscire a costruire un tessuto di istituti elettivi democratici ed efficienti in tutto il Paese, e soprattutto là dove esso è oggi più stentato e precario, solo così potremo riuscire a far passare la linea alternativa che proponiamo per i problemi del turismo e del tempo libero.
Non è un caso, d'altra parte, se oggi registriamo un attacco concentrico contro 1e autonomie locali, o più in generale, contro gli istituti rappresentativi. Se ci riflettete, noi siamo riusciti a porre al centro dell'attenzione del paese una serie di problemi, siamo riusciti a far emergere nelle masse lavoratrici e popolari una serie di esigenze, siamo riusciti a far prevalere nell'opinione pubbblica intera una serie di proposte e indicazioni nostre, che realmente sono capaci di mutare il quadro complessivo della società italiana. Quando noi parliamo - nel caso specifico di cui qui ci occupiamo - di un turismo come diritto e come servizio sociale, noi realmente introduciamo una proposta rivoluzionaria, una proposta che tende a trasformare fin dalle radici il modo in cui fino a oggi è concepito il turismo e il tempo libero. E' una reale e integrale alternativa rispetto a un tempo libero dominato dall'individualismo, dal privatismo e dal privilegio, a un turismo come evasione e come fuga dall'alienazione del lavoro verso un'alienazione diversa e complementare
E questa nostra proposta è forte, ed è virtualmente vincente, non solo perché è l'unica pienamente omogenea al carattere sociale della classe operaia, ma anche e soprattutto perché offre una base e uno strumento serio alla politica delle alleanze della classe operaia: nei confronti dei ceti medi produttivi, che solo in una seria programmazione possono trovare l'occasione per uno sviluppo senza crisi laceranti; nei confronti delle popolazioni residenti nei luoghi del turismo, che solo in un turismo strettamente integrato alle economie.
Salvatore Settis, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha scritto su Repubblica (18 novembre 2006) un interessante articolo. In esso, partendo da una valutazione della proposta di Rutelli di «un rinnovato impegno per l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole italiane di ogni ordine e grado», affronta la questione dello “scandalo” di Monticchiello da un punto di vista utile e corretto: che cosa fare per evitare che quello scandalo continui ogni giorno a ripetersi, in ogni parte d’Italia? Tra le molte considerazioni giuste di Settis qualcuna merita precisazioni, anche per il ruolo che oggi riveste.
Leggendo l’articolo si ha l’impressione che la legislazione italiana in materia di paesaggio sia stata - dal 1939 a oggi - una serie continua di errori e limiti, e di “continui slittamenti” della responsabilità dallo Stato verso le istituzioni sottordinate. Le cose non stanno così; il sistema legislativo italiano ha conosciuto un continuo progresso da una posizione meramente vincolistica (quale del resto non era neppure interamente la legge del 1939) a una posizione basata sulla considerazione e sul governo integrale di tutti gli aspetti che determinano il paesaggio. E credo che vada in primo luogo ricordato che la tutela del paesaggio è, secondo la nostra Costituzione, impegno della Repubblica, non solo dello Stato. Se a questo spettano le responsabilità maggiori, ci sembra che la «assidua riconsiderazione del territorio nazionale alla luce e in attuazione del suo valore estetico-culturale», cui rinvia sistematicamente la Corte costituzionale, sottolinei la necessità di un impegno altrettanto rilevante delle regioni, delle province, dei comuni.
Ciascuna istituzione con le proprie specifiche responsabilità. Così ci aspettiamo che lo Stato eserciti i propri poteri (e non faccia come a Monticchiello, dove ha dimenticato di pronunciarsi in tempo utile). Aspettiamo che lo Stato si muova oggi, in attuazione al Codice dei beni culturali e del paesaggio, che costituisce il punto più avanzato dell’evoluzione culturale, avviata dalla legge Galasso; che ci ha portati ben lontani dalle logiche meramente vincolistiche e procedimentali. Quelle logiche per le quali lo Stato vincola un bene, e l’effetto del vincolo è che si deve sottoporre alla soprintendenza il progetto di trasformazione, e l’ufficio risponde caso per caso: tegole verdi invece che rosse, un piano di meno, qualche “mitigazione” e così via, discrezionalmente. Una logica alla quale invece Settis sembra ancora legato, se ritiene ancora che si possano applicare oggi le pecette del vincolo procedimentale, forse utili quando il territorio tutelato era del 2 o 3%, mentre oggi, grazie alle leggi degli ultimi 20 anni, è certamente oltre il 50%.
E’ certamente da condividere il giudizio di Settis sulla «infelice riforma del titolo V della Costituzione». E sarebbe davvero una buona cosa se dall’organo presieduto da Settis, e dal ministro Rutelli, partisse una vigorosa iniziativa per correggere il grave errore compiuto dal Parlamento nel 2001. Ma nell’attesa, non adoperiamo la pistola scacciacani dell’antico vincolo procedimentale, ma gli strumenti difensivi foggiati in tempi più recenti.
Oggi lo strumento è l’applicazione rigorosa, integrale, consapevole, e in primo luogo informata, del Codice del paesaggio. Questo dispone che le regioni formino un piano paesaggistico di cui vengono precisati con ampiezza i contenuti. Non potranno essere piani di chiacchiere (come quello preannunciato nelle 99 pagine del documento preliminare al Pit della Toscana), ma piani che censiscano con accuratezza, su una base cartografica adeguata e per tutto il territorio regionale, i beni paesaggistici di cui è già prescritta la tutela (quelli individuati a partire dalla Legge Galasso) o comunque ritenuti d’interesse nazionale e regionale; che dispongano per ciascuna categoria di essi specifiche regole di tutela di ciò che c’è da tutelare; e che indirizzino i comuni a concorrere nella “assidua considerazione”, proseguendo alla scala locale nell’individuazione di ulteriori beni, e tutelando le specifiche qualità dei diversi “ambiti di paesaggio”.
Le regioni sono obbligate, dalla legge, a fare ciò. Se lo fanno d’intesa con le amministrazioni dello Stato (Beni culturali e Ambiente e tutela del territorio), allora le procedure abilitative degli interventi nelle aree tutelate sono semplificate e snellite, e la garanzie della tutela è fornita dal rispetto formale e sostanziale del piano paesaggistico. Altrimenti le procedure restano definite nell’attuale modo, da tutti giudicato complicato e farraginoso.
Certo, per i ministeri coinvolti dalla legge il concorso con le regioni nel redigere i piani paesaggistici non è compito che i loro organi possano fare rimanendo organizzati così come lo sono ora. Ma è certo incomparabilmente meno pesante, e certamente più efficace, la riorganizzazione da compiere per assolvere i compiti nuovi, che quella che sarebbe necessaria se si volessero rincorrere centinaia di migliaia di autorizzazioni paesaggistiche o altri simili atti discrezionali.
Lavorerà in questa direzione il Ministero del quale Settis è autorevolissimo consigliere? C’è da augurarselo. Altrimenti, “ecomostri”, ben peggiori di quello di Monticchiello, continueranno ad accumularsi sul nostro territorio. E si dovrà additare come complice la miopia di chi oggi guarda unicamente all’apprendimento dell’arte del passato (certo utilissimo), e trascura l’applicazione delle buone leggi attuali. Dimenticando che, come afferma Settis, che «il centro del problema si è spostato», e alla «storia delle arti belle» va aggiunta «quella del paesaggio e dell’ambiente, del loro delicato innestarsi sul tessuto urbano», perché «è qui, nella non-tutela del paesaggio e dei tessuti urbani, che si compiono i maggiori scempi, ed è qui che la coscienza civica deve farsi adulta»: anche conoscendo le leggi le ragioni e i modi mediante i quali il territorio viene devastato, e gli strumenti mediante i quali è possibile impedirlo.
Non dobbiamo dimenticare i benefici ottenuti in quella vicenda epica, che è partita dall’abbattimento dei variopinti vincoli feudali, ha condotto al benessere e alla democrazia rappresentativa una larga parte dell’umanità, ed ha avuto l’industria come suo apparato tecnico e – alla fine – sua cultura dominante. L’uscita dalla miseria e dalla fame, il prolungamento dei tempi di vita, la conquista di diritti sempre più larghi sono stati il risultato della dinamica che il Nord del mondo ha dialetticamente raggiunto grazie a quello "sviluppo" che ha avuto l’industria al suo centro. Francesco Indovina lo ricordava ieri ponendo questo aspetto al centro del suo interventi; concordo con lui su questo punto: non dobbiamo dimenticare i benefici di quello sviluppo.
Ma i danni compiuti non possiamo dimenticarli: sono sotto i nostri occhi. Sono all’ esterno di quel sistema, nel rapporto tra il sistema di cui l’industrializzazione è stata lo strumento e il motore (il Nord del mondo, dal Mar del Giappone agli Urali) e il resto del mondo: ogni giorno ne vediamo nei media i segni sanguinosi nei conflitti che lo incendiano. E sono all’interno di quel sistema: nelle storie dei suoi protagonisti, gli operai; nelle storie delle sue città, le città che ha formato, plasmato e deformato; e nelle storie dei territori che ha divorato e poi, troppo spesso, rigettato resi sterili e velenosi. Giorgio Nebbia ce lo ricordava ieri con la consueta efficacia.
Ha certamente senso domandarsi se quegli errori potevano, allora, essere evitati: se era possibile una industrializzazione diversa da quella che ha provocato morte di uomini e devastazione di ambienti a Porto Marghera e a Manfredonia, ad Ancona e a Priolo. Non ha senso solo per gli storici, e per quanti devono chiedere i risarcimenti dei danni perpetrati ieri. Ha senso per chiunque voglia debbba operare oggi e vuole comprendere come non commetterli più.
E tra gli errori non dobbiamo dimenticare (tanto più che siamo in una sede universitaria) quello che oggi stesso è stato ricordato e denunciato da parte degli amministratori: la mancata collaborazione tra Università e amministrazioni locali, che ha reso queste ultime più deboli di fronte ai "poteri forti" aggregati attorno all’industria. Non vorrei però che, da parte degli amministratori, ci fosse un’attesa troppo grande nei confronti dell’università italiana. Questa non è una struttura coesa, concorde, univocamente orientata in funzione di un servizio da rendere alla società (salco quello dell’erogazione dell’insegnamento). Per il resto l’Università è un serbatoio di competenze, più o meno valide, orientate in modi diversissimi.
Non può bastare all’amministratore rivolgersi genericamente "alla università", magari a quella territorialmente più vicina o merceologicamente più affine al tema trattato: è l’amministrazione locale che deve diventare così competente e aggiornata, così "colta", da sapere a chi rivolgersi per che cosa, a saper scegliere gli interlocutori giusti ponendo le domande giuste. E’ l’amministrazione locale, in altri termini, che deve avere una sua cultura. Impresa certamente difficile, in questi anni di tagli drammatici al pubblico addirittura utopistica, ma tuttavia indispensabile.
Ha senso, dunque, riflettere sugli errori ed evitare di ripeterli. Ma credo che oggi sia soprattutto necessario ragionare non sugli errori dello sviluppo basato sull’industria, ma sull’ insufficienza di quel modo di impostare il rapporto tra economia e risorse naturali. Che sia soprattutto necessario domandarsi che cosa è mutato adesso rispetto a ieri, e pone oggi non la possibilità, ma la necessità assoluta di impostare quel rapporto in modo del tutto diverso che nel passato.
Qualche mese fa da sei Camere del lavoro della CGIL hanno dato luogo a una interessante iniziativa, volta ad affrontare il grande tema della qualità dello sviluppo. Il sindacato ha ampliato e reso centrale la sua riflessione sul come superare quella contrapposizione tra lavoro e ambiente che più d’uno ha sottolineato in queste due giornate. Leggendo in questi giorni gli atti di quella iniziative (sono pubblicati in un numero speciale della rivista Carta dedicato alle Camere del lavoro) mi ha molto colpito un intervento di Carla Ravaioli. Espone tesi non nuove ma che mi sembrano rilevanti in sé, e ancor più per la sede che le ha accolte. Per quanto riguarda il tema che in questa sede mi interessa svolgere la tesi della Ravaioli si articola in una premessa e due punti.
La premessa. Dice Ravaioli: "La quantità, e la sua continua dilatazione, è indubbiamente la categoria che meglio caratterizza la società moderna, in tutte le sue principali espressioni. Cito alla rinfusa cose diversissime. Popolazione, agglomerati urbani, macchine di ogni tipo, reti stradali, trasporti, mezzi di comunicazione, burocrazie, traffici, carta stampata, spettacolo, pubblicità, scolarizzazione, turismo, velocità, informazione, ricerca: tutto ciò e molto altro nel secolo scorso ha conosciuto aumenti spettacolari."
Il primo punto. La quantità della produzione (di qualsiasi tipo di merce) è dunque in continuo e vertiginoso aumento, ma non esiste alcun ragionevole collegamento tra questa crescita e due realtà decisive: il bisogno umano, e l’occupazione dei lavoratori. E tuttavia, "di fronte a questa drammatica situazione la parola d'ordine, delle sinistre come delle destre, continua ad essere crescita".
Il secondo punto. "La produzione, di qualsiasi tipo, è consumo di natura: minerale, vegetale, animale. Ma la natura terrestre, cioè il nostro pianeta, è una quantità data e non estensibile a piacere, e in quanto tale non è in grado di alimentare indefinitamente un'economia in continua crescita, fornendole le quantità di natura a ciò necessaria. E nemmeno è in grado di metabolizzare e neutralizzare indefinitamente gli scarti che ne derivano, i rifiuti (solidi, liquidi, gassosi). Parrebbe un'ovvietà, anzi è un'ovvietà – prosegue Ravaioli - che però nessuno, o pochissimi, soprattutto tra economisti e politici, di destra o di sinistra, sembrano considerare tale.
Tralascio una serie di considerazioni di grande interesse che Ravaioli svolge nell’articolare e sviluppare la sua analisi. Vorrei soffermarmi su un solo aspetto della questione e riproporlo con parole mie.
Riducendo ogni bene a merce e ogni valore a valore di scambio si è prodotto un impoverimento delle ragioni e delle possibilità dello sviluppo umano (dello sviluppo personale delle donne e degli uomini e dello sviluppo della civiltà umana). Una volta raggiunto il soddisfacimento dei consumi elementari (mangiare, bere, coprirsi, abitare, spostarsi) non è stata socialmente stimolata la nascita di nuovi bisogni, non più legati alla sussistenza. Gli unici consumi solvibili (cioè i consumi che possono trovare soddisfazione nella produzione data) sono rimasti ridotti a quelli della sussistenza: di una sussistenza via via più complicata e artefatta, più sofisticata e confezionata.
Poiché la logica del sistema economico-sociale dato (che non è l’unico possibile, ma è l’unico che c’è) è basata sulla crescita indefinita della produzione (sulla vendita indefinita delle merci), la spontaneità del sistema lo ha condotto a complicare sempre più i modi di soddisfacimento di quei determinati bisogni. La metafora di Leonia – la "città invisibile" di Italo Calvino che continuamente muore sepolta dalle montagne di immondizie che la sua ricchezza produce – esprime efficacemente l’odierna civiltà del Nord del mondo.
Questo processo di crescita, che non ha più alcun rapporto con il bisogno dell’uomo, non ha più relazione neppure con l’occupazione la quale, come Ravaioli dimostra, non cresce affatto con l’aumento quantitativo della produzione. Mentre ha invece un effetto devastante sulle risorse naturali e sul logoramento delle basi materiali della vita del genere umano (e delle altre specie) sul pianeta Terra.
Del resto, che la crescita dell’industria produttrice di merci sia nel nostro paese in forte e irrimediabile crisi è ormai un dato di fatto indiscutibile. Il problema che quindi si pone è come garantire adeguata occupazione e adeguati livelli di reddito in una situazione così radicalmente mutata. L’opinione che condivido è che sia necessario fare riferimento alla produzione, alla promozione e al consumo di un’altra categoria di beni ( beni, prima di, o invece di, merci): quelli legati alla cultura, alla conoscenza, al piacere, alla comunicazione tra persone, allo svago, alla rigenerazione psico-somatica, all’espressione.
Ecco allora come vedere la questione delle localizzazioni industriali oggi. Non si tratta di scegliere i siti nei quali collocare nuovi grandi complessi industriali, e neppure di resuscitare quelli obsoleti. Si tratta invece, a proposito delle "zone industriali" lasciate in eredità da un passato miopemente "sviluppista", di riorganizzare in modo più decente i siti degradati. Si tratta di diversificare e legare al territorio le aree per quella quota di produzione manifatturiera che è necessaria in relazione alle specifiche potenzialità dei siti, alle produzioni "di eccellenza" o "di nicchia" legate alle risorse locali. Si tratta di adeguare l’infrastruttura del territorio, i "sistemi territoriali", alle esigenze di una industria moderna.
Ma tutto questo non garantisce, soprattutto nella prospettiva, uno sviluppo. Credo che si debba invece preparare un futuro diverso applicando l’intelligenza, la creatività, l’innovazione, l’interesse – che nei secoli trascorsi di è applicato alla produzione industriale di merci – a una realtà diversa.
Con una frase che può sembrare contraddittoria con quanto ho detto finora, si tratta, insomma, di rendere "industria" l’insieme del territorio: di utilizzare gli elementi, fisici e sociali, ai quali è attribuibile valore e qualità, in esso disseminati, organizzandoli nel loro insieme, rendendoli fruibili mediante la conoscenza e l’uso, attivando le attività necessarie per valorizzarli (nel senso di mettere in evidenza il loro valor d’uso), per curarne la manutenzione e il miglioramento, per implementarne la qualità.
Se pensiamo alla quantità di valori presenti nei nostri territori – in particolare nel Mezzogiorno, in particolare in Puglia, in particolare in Daunia – ci sembra addirittura stravagante che nessuno sforzo serio sia stato compiuto in passato in questa direzione. Ciò dipende forse da due circostanze.
La prima, che le stesse attività economiche legate a questo tipo di risorsa (il paesaggio, i beni culturali, la natura) hanno risentito delle logiche quantitative prevalenti nell’ideologia corrente. Si è sviluppato quindi un "turismo di quantità", che ha provocato danni analoghi a quelli prodotti dall’industria. Che questo sia l’unico tipo di turismo possibile è un errore di immaginazione che spesso viene compiuto: lo faceva, ieri, Indovina quando liquidava tout court i tentativi fatti di individuare alternative allo sviluppo della grande industria.
La seconda circostanza è che una "domanda" di quel tipo di bene di una certa consistenza si sta manifestando ora, ma nel passato era del tutto marginale. Ciò mi induce a pensare quanto potrebbe aumentare quella domanda di beni territoriali se una vertenza per la promozione della "industria del territorio", nei termini in cui l’ho proposta, si legasse a una vertenza per una riduzione del tempo di lavoro, che le immani quantità della produzione di merci e la rivoluzione informatica avrebbero da tempo consentito.
La bozza di Piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP), elaborata nell’ambito di un ufficio dell’Amministrazione con l’apporto di consulenti esterni, fu consegnato alla Giunta nel luglio 2003. Essa è ora in corso d’esame da parte della nuova Giunta, al fine di riprendere i lavori a partire da un’ampia consultazione.
Non è una proposta utopistica. A partire da uno studio attento del territorio essa individua una dotazione inaspettatamente vasta di risorse (naturali e storiche, fisiche e sociali) da valorizzare, una serie di punti critici da rimuovere (soprattutto nelle infrastrutture, inadeguate non per la loro quantità, ma per il loro uso), e alcuni germi di possibile dinamica economica e sociale endogena.
Su questa base la bozza si pone due ordini di obiettivi. Da un lato, aiutare a costituire adeguate "condizioni di sistema" per aiutare il sistema produttivo attuale a sopravvivere e a consolidarsi, rimuovendo una serie di strozzature e di anacronismi, mettendo in rete risorse di capitale fisso sociale malamente utilizzate, sostenendo i germi di possibile sviluppo. Dall’altro lato, mettere in salvaguardia e in valore l’immenso patrimonio naturale, storico e culturale al quale è affidato il compito di fornire la materia per lo sviluppo di un’altra economia: spero che i colleghi economisti non inorridiranno se dirò "un’economia finalizzata al valore d’uso e non al valore di scambio".
Nel documento si indicano tre funzioni essenziali cui la pianificazione territoriale provinciale (e in generale la pianificazione territoriale, a tutti i livelli) deve adempiere:
Una funzione strategica. Si tratta di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società.
Una funzione diautocoordinamento. Si tratta di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia.
Una funzione diindirizzo. La coerenza tra le scelte dei diversi enti, e la loro riconduzione a finalità d’interesse generale, non deve avvenire soltanto con i tradizionali sistemi di controllo a posteriori sulle decisioni degli enti sottordinati, ma indirizzandoa priori, mediante opportune norme, la loro attività sul territorio.
Sulla base del principio di sussidiarietà (nell’accezione europea più che in quella "devoluscionista") si assume che quando un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione, dove la scelta del livello giusto va compiuta (come appunto suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Da questo punto di vista, e tenendo conto delle posizioni adottate nella quasi totalità delle legislazioni regionali, si assume che le competenze della Provincia si esplichino in tre grandi aree:
a) la tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla sua capacità di sopportazione ( carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva;
b) la corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale;
c) le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale, richiedono ugualmente un inquadramento per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale.
Proprio in relazione alle caratteristiche specifiche del territorio della Daunia (esplorato in una serie di specifiche analisi e rappresentato in un sistema informativo territoriale montato ad hoc), e all’ipotesi di promezio della "industria del territorio", nella Bozza si propongono due scelte come particolarmente rilevanti:
1. la priorità logica e culturale della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale come pre-condizioni delle decisioni di trasformazione,
2. un progetto di assetto territoriale "soft" incentrato su qualità, identità, equità, bellezza.
L’esigenza di tutelare risorse ambientali (naturali e storiche) e di valorizzare gli elementi capaci di conferire una identità riconosciuta e condivisa al territorio provinciale, costituisce una forte indicazione di priorità. Significa assumere, come prima fase logica del processo di pianificazione, quella della individuazione di tutti gli elementi del territorio caratterizzati da qualità oppure da rischio, attuale e potenziale. Significa poi individuare, per ciascuno di tali elementi, le condizioni (ovverosia i limiti e le opportunità) che l’esigenza della tutela pone alle trasformazioni fisiche e funzionali di quell’elemento e indicare le azioni necessarie per la riduzione dei fattori di rischio e di vulnerabilità.
Definire il quadro dei limiti e delle condizioni dello sviluppo non è però sufficiente per fare di un piano un vero strumento di guida per l’azione di governo delle trasformazioni. Anzi, laddove non è stata accompagnata da un coerente progetto di trasformazione sufficientemente esplicito e riconoscibile, l’attenzione riservata a questa priorità ha contribuito a dare staticità e rigidità al sistema delle scelte del territorio. Nelle esperienze più recenti la "visione del futuro" contenuta nei piani è focalizzata su una concezione tutta "mercatistica" dello sviluppo. In poche parole, molti pianificatori sostengono, con convinzione, che il piano debba, prevalentemente o esclusivamente, fornire una cornice (possibilmente poco dettagliata e vincolante) alle iniziative dei proprietari immobiliari, nella convinzione che il loro supposto dinamismo imprenditoriale sia la chiave per lo sviluppo urbano e territoriale. In questo modello l’iniziativa viene lasciata esclusivamente ai privati (beninteso, col sostegno economico dello Stato).
Viceversa, è possibile ridare il giusto spazio a valori come qualità, identità, equità, bellezza. Questi ultimi non determinano solo le "pre-condizioni" per le trasformazioni, ma costituiscono i cardini di un progetto di assetto territoriale. Per questo si propone che il piano di Foggia si preoccupi di una distribuzione equa delle opportunità sociali, di un progetto di accoglienza dei visitatori e di promozione delle attività produttive che sia fondato sulle risorse e identità locali, di una riorganizzazione della mobilità che sappia sfruttare le diverse potenzialità dei sistemi di trasporto e che non rincorra ciecamente il mito che più strade equivalgano a più ricchezza.
Ciò richiede di investire sulla capacità delle amministrazioni (dalla Provincia ai Comuni, dal Parco alle Comunità montane), stimolandole ad "agire" oltre che ad esercitare la potestà di controllo.
Tralascio del tutto di illustrare la fase di analisi e i suoi risultati. Mi limito ad affermate che, nella legislazione e nella letteratura, si attribuisce importanza rilevante al sistema delle conoscenze, e all’obiettivo di legare con intelligenza le scelte sul territorio alla valutazione del patrimonio conoscitivo, prevedendo la formazione (o l’implementazione) di un sistema informativo regionale, coordinato (o coincidente) con quelli delle province e dei comuni. Due questioni sembrano decisive a questo proposito:
1. la pianificazione deve rendere esplicite le motivazioni che hanno portato alla definizione delle scelte, consentendo a chiunque di ripercorrere (e giudicare) la sequenza logica delle operazioni effettuate;
2. la costruzione del quadro conoscitivo, così come l’attività di pianificazione, è un’attività che si svolge in continuo: un attento e costante monitoraggio delle dinamiche di trasformazione e dell’esito prodotto dalle decisioni di piano sono attività decisive per conseguire efficacia all’azione di governo del territorio.
È quindi evidente l’importanza di dotarsi degli strumenti necessari per costruire, aggiornare e implementare l’acquisizione delle conoscenze e assistere tecnicamente il processo di pianificazione in tutte le sue fasi di svolgimento.
Quello che vi sto sinteticamente illustrando non è un "piano": è una bozza, un documento costruito per avviare una discussione ampia, una fase di ascolto, fondata però su alcune idee proposte alla discussione, e su una base di conoscenze utilizzabili (almeno nel progetto) in modo ampio da tutti gli interlocutori.
L’intenzione della bozza di PTC può essere espressa in una frase: il futuro non si prevede, si prepara. In sostanza, essa vuole promuovere la definizione di una strategia, volta alla costruzione di una "visione al futuro" del territorio provinciale, la quale indirizzi e coordini l’insieme delle azioni e delle regole di tutti gli operatori (in primo luogo pubblici, ma anche privati) che concorrono a trasformare le condizioni date.
Essa è un documento smilzo e maneggevole: lo abbiamo costruito così proprio perché pensiamo che più largo è il dibattito su di esso maggiore è la sua utilità. I cardini delle scelte proposte possono sintetizzarsi in sei slogan:
Il PTCP ha certamente una sua utilità nel porre a disposizione dei cittadini un quadro di conoscenze e di proposte, che costituiscono un indubbio apporto culturale. Ma se a questo si limitasse la sua utilità, davvero l’impresa non varrebbe la spesa. Perché il piano sia utile – come deve essere – ai fini della trasformazione delle condizioni di vita nel territorio, per le generazioni presenti e per quelle future, sono necessarie alcune condizioni.
La prima condizione è evidentemente quella legata alla volontà, da parte di chi ha responsabilità di governo, di far svolgere effettivamente alla Provincia qual ruolo di direzione attraverso il coordinamento attivo e la promozione, che la legge 142/1990 le ha reso possibile. La seconda condizione è che, a partire dalle proposte formulate, si formi un progetto condiviso del futuro del territorio provinciale, per il quale la bozza di PTCP offre il punto di partenza. La terza condizione è che le attività connesse alla formazione e alla gestione del PTCP siano intese e organizzate come un lavoro stabile e permanente dell’Amministrazione provinciale, in stretta sinergia con le comunità locali. La quarta condizione è che il PTCP costituisca il quadro di riferimento di tutte le azioni di concertazione e di governance, esprimendo il primato dell’interesse pubblico sugli interessi privati.
La questione dell’Enichem ha costituito il centro del nostro dibattito. Non tanto in se, quanto come paradigma delle contraddizioni, delle difficoltà, dei problemi e delle prospettive di uno sviluppo del Mezzogiorno. Non voglio riprendere qui tutte le cose che sono state dette; del resto Franco Mercurio ha tracciato ieri sera un disegno esemplare della vicenda, cui ci sarebbe poco da aggiungere, salvo quell’ulteriore elemento di riflessione che è stato posto or ora da Gaetano Prencipe, sindaco di Manfredonia negli anni in cui dalla logica dell’Enichem si tentò di uscire.
Vorrei riprendere proprio una osservazione di Prencipe, il quale sottolineava come il contratto d’area (lo strumento mediante il quale si è tentato di avviare uno sviluppo alternativo) altro non fosse che uno strumento d’emergenza, e come tale vada valutato, e vadano valutati e compresi quanti si sono affannati a renderlo, nell’emergenza, uno strumento utile.
Uno strumento d’emergenza, d’accordo. Il rischio che vedo nel nostro paese è proprio questo: che si tenda a rendere generali e permanenti gli strumenti dell’emergenza, dell’eccezionalità, e inevitabilmente della deroga e della sospensione dell’ordinarietà e della legittimità. Il primo esempio è stato costituito da una legge lontanissima, la legge 1 del 1970, con la quale si dispose che, appunto in nome dell’emergenza, una serie di interventi sul territorio potevano, eccezionalmente, essere in contrasto con le prescrizioni dei piani urbanistici. La legge doveva durare tre anni: una transitorietà ben circoscritta. Fatto sta che fu prorogata di triennio in triennio, fino a diventare definitiva.
Ciò che mi sembra che si debba invece chiedere a chi ci governa – a tutti i livelli – è proprio quello di avere la capacità di guardare lontano, oltre l’emergenza, perché solo in tal modo i problemi possono essere risolti, e non invece allontanati nel futuro (e restituiti aggravati ai nostri posteri). Oggi, che si consumano a Porto Marghera gli ultimi atti della morte della chimica di base, mi torna alla memoria come 24 anni fa, quando Porto Marghera aveva oltre 40 mila addetti contro i 14 mila attuali, un autorevolissimo dirigente politico veneziano impedì che nel Piano comprensoriale si avanzassero cautissime e preoccupate previsioni di riduzione dell’occupazione: nascondere i segni della crisi è il portato inevitabile della miopia dell’emergenza, ma non è il modo migliore per preparare il futuro.
Gabriella Corona ha lucidamente illustrato ieri il parallelo tra Manfredonia e Bagnoli, ed ha ricordato la capacità della prima giunta Bassolino di affrontare correttamente la riconversione di una zona industriale nel quadro di una efficace strategia urbanistica. Anch’io voglio ricordare un episodio della politica urbanistica napoletana, più antico di quello ricordato ieri. Dopo il terremoto del 1982 a Napoli la giunta Valenzi decise di utilizzare i finanziamenti pubblici non per operare in deroga alla pianificazione, per scardinare il territorio e provocare sprechi giganteschi – come avvenne nel resto della Campania – ma per attuare una strategia urbanistica definita dagli strumenti della pianificazione: per attuare il PEEP e il piano per il recupero delle periferie. Utilizzare correttamente l’emergenza è dunque possibile, quando ci sono volontà politica e strumenti urbanistici adeguati.
A quanti scegliamo perché governino dobbiamo chiedere di non essere miopi, di guardare lontano; altrimenti, oltre tutto, non si realizzerà mai quella saldatura tra lavoro e ambiente la cui necessità è stata sottolineata da molti, e che è essenziale per la sopravvivenza del pianeta. Nella gestione dell’ambiente si faranno inevitabilmente errori, le cui conseguenze si pagheranno presto. Come si stanno pagando in questi giorni, proprio sullo stesso parallelo di Manfredonia, sull’altro versante. Mi riferisco ad Acerra, e alla vertenza sugli impianti per il trattamento dei rifiuti.
Un episodio che forse Francesco Indovina etichetterebbe come "Qui no" (traduzione in lingua neolatina dell’anglosassone NIMBY, Not In My BackYard). Ma quella protesta ha origine in un errore di governo, compiuto a suo tempo dal governo regionale di destra e non riparato dal centro-sinistra: l’errore di affidare a un’impresa privata, con la tecnica del project financing, tutte le complesse e delicatissime scelte riguardanti la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, invece di adoperare le procedure democratiche, trasparenti e capaci di portare a sintesi le diverse esigenze della pianificazione territoriale.
Certamente la protesta (il "qui no") non sostituisce il buon governo: svelandone gli errori ne stimola però la correzione. Ben vengano perciò le reazioni forti degli interessi locali colpiti dagli errori dei governanti, se servono a far rientrare scelte sbagliate e dannose per l’umanità di oggi e quella di domani.
Il dato, la risorsa. Guardando dal mare: a sinistra, un’alta falesia alleggerita da chiazze di macchia mediterranea (nella quale d’autunno spicca il rosso sommàco), percorsa in cima dal Sentiero di Rilke; a destra, la lunga bassa costa rocciosa della Costa dei Barbari; al centro, l’incavo verdeggiante della Baia, occupata alla base dal relitto di un antico albergo austriaco, da qualche costruzione utilitaria, dalla darsena ripiena di imbarcazioni da diporto e, alla sua destra, l’ampia ferita della Cava.
La Baia è il naturale sbocco a mare degli abitanti del Carso e dei suoi borghi, e dei triestini, che d’estate affollano la spiaggetta della Baia e la Costa dei Barbari. La proprietà è tutta di una unica società, salvo una porzione del demanio regionale (sta per essere svenduta ai privati). L’utilizzazione consolidata nelle proposte di tutte le componenti dell’opinione pubblica locale e regionale è quella turistica.
L’antefatto. Baia Sistiana è venuta alla ribalta nel 1990, quando un progetto attuativo del PRG fu presentato al Consiglio comunale. Del progetto, redatto da Renzo Piano per la proprietà (allora Finsepol), non piacevano le cubature eccessive, la trasformazione edilizia della Baia, l’eccessiva altezza delle costruzioni nella Cava, la minaccia di privatizzazione della fruizione del litorale. L’operazione fu bloccata da una campagna di stampa e da un NO all’ultim’ora del ministro Facchiano (Beni culturali).
Fu redatto un nuovo PRG (alla cui progettazione fui chiamato a collaborare) che ridimensionò fortemente le cubature, previde un sistema di parcheggi a monte e l’eliminazione del traffico lungo la costa, definì le garanzie per la fruizione libera degli spazi balneari. L’obiettivo era quello di promuovere, accanto alla balneazione, un turismo a rapida rotazione d’uso e lunga durata, legato alla convegnistica e ad altre funzioni di profilo internazionale. La prospettiva di Baia Sistiana era inquadrata in una serie di scelte per l’intero territorio comunale che attribuiva il primato alla tutela del paesaggio carsico, alla difesa delle attività agro-silvo-pastorali dalla pressione della domanda di seconde case dei triestini, alla tutela dell’identità dei borghi carsici e al rilancio del loro ruolo.
Oggi, 2003. La polemica è divampata di nuovo. Sono in corso d’approvazione una piccola variante al PRG e il PP attuativo, ed è stato presentato dalla proprietà un progetto architettonico che chiarisce la prospettiva verso la quale si muove.
La variante, il PP e il connesso progetto preoccupano per motivi condivisibili e gravi: 1) la modifica delle utilizzazioni consentite nelle nuove costruzioni, che prefigurano un destino di “villaggio residenziale al mare”: una periferia di Trieste; 2) la tendenza strisciante verso la privatizzazione della fruizione balneare (altro non significa una “regolamentazione degli accessi” affidata alla proprietà); 3) il livello modestissimo della progettazione architettonica, ispirata a modelli assolutamente inaccettabili (si ricostruisce in vitro un falso stile locale, mai esistito, denominato “istro-veneto”).
Una opinione. L’esito dell’operazione è deludente. Perché? La debolezza sta nel fatto che non si è mai posta sul tappeto la “opzione zero”: nessuno, né il Comune, né i suoi collaboratori, né le forze politiche, né la cultura urbanistica né quella ambientalista, nessuno ha proposto l’ipotesi che Baia Sistiana restasse così com’è. D’altra parte, il privato giocava in una situazione di monopolio: il Comune poteva trattare con lui e solo con lui. Regione e provincia sono stati latitanti, e anzi la prima di fatto collusa con la proprietà, cui ha svenduto l’unica parte pubblica dell’area.
In certe situazioni si deve avere il coraggio di dire che, se la proprietà non è all’altezza della soluzione desiderata, se non si può far ricorso a un’imprenditoria all’altezza del bene in gioco, allora meglio non far nulla e aspettare tempi migliori. Chi ha questo coraggio, oggi?
La citta' sostenibile
Relazione di Edoardo Salzano al convegno Ambiente urbano delle città d'Europa: La città sostenibile, organizzato da PDS - Direzione nazionale - Sezione Ambiente, EP. PE - Groupe pour la gauche unitaire européenne, ENE - Euronordest - Fondazione in Venezia ; Venezia, 4-5 ottobre 1991
Per città sostenibile intendiamo una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.
"Ogni lettura di un testo, di un documento - e soprattutto di un documento complesso quale é il Libro verde per l'ambiente urbano - é in qualche modo orientata, mirata. Ogni lettura, insomma, è una interpretazione: una traduzione di quel testo nel linguaggio più vicino alla sensibilità e agli interessi culturali del lettore, e alle concrete esigenze che lo spingono a leggerlo. Molti di quanti hanno lavorato a organizzare questo convegno conoscevano già il Libro verde. Hanno deciso di promuovere una iniziativa pubblica che da esso traesse lo spunto perchè hanno ritenuto che fosse particolarmente utile, in questa fase iniziale della vita del Pds, partire da quel documento, da quella formulazione di temi per molti di noi consueti, per tentar di costruire - in un confronto largo - alcuni elementi di una possibile piattaforma per la sinistra italiana. Nell'ambito di questa lettura, che è indubbiamente soggettiva ma che spero non sia troppo distante da quella autentica, è sembrato a noi di cogliere il centro ideale del documento in una consapevolezza che lo pervade. Nella consapevolezza, cioè, che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente (delle qualità del territorio) non c'é sviluppo della società e della città.
"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica": così afferma esplicitamente il Libro verde (p. 51). E non è chi non veda come questa impostazione costituisca un ribaltamento completo non solo della prassi finora (e ancora oggi, nel nostro paese) praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione nelle città, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento della qualità insediativa. Forse sentiremo esporre e argomentare una simile tesi nel corso stesso del nostro convegno. Ma sono certo che nelle comunicazioni e negli interventi che si riferiranno a concrete situazioni locali (penso alle città del Mezzogiorno, ma non solo a quelle) ascolteremo testimonianze dirette sulla pervasiva presenza di una simile, obsoleta concezione del rapporto tra sviluppo e qualità urbana. Sentiremo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in variante o in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o alla ricettività turistica, o a quei "centri direzionali" che da un paio di decenni sembravano abbandonati tra i ferrivecchi dell'urbanistica del boom edilizio.
Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità urbana. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente urbano è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico. Molte ragioni concorrono a formulare quest'affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamenteambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica. Rinvio per questo aspetto alla lettura delle chiarissime pagine che il Libro verde dedica all'argomento, e rinviosoprattutto alle comunicazioni presentate da autorevoli ambientalisti, che ascolteremo e leggeremo in queste due giornate. E consentitemi di rinviare, oltre che alla scienza, anche alla letteratura e alla poesia. Consentitemi allora di rinviare anche alla rilettura di alcune delle Città invisibili di Italo Calvino, nelle quali molti di noi hanno trovato l'espressione perfetta dei loro sogni, e dei loro incubi.
Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico" (p. 42).
Le vicende di ciascuna delle nostre città (le grandi, le medie, le piccole) lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende produttive di beni o di servizi, è in proporzione diretta con la qualità urbana. E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale, un sito, piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di monumenti e luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti; un'attrezzatura urbana efficiente, che consenta al cittadino di accedere con facilità e comodità ai luoghi urbani e di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta. E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere in una gara in cui non é in gioco un premio simbolico o un primato di mero prestigio, non è in palio un Oscar o un Leone d'oro o una citazione nel Guinness dei primati, ma è in gioco una posta molto più concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza. Il governo del territorio - nel suo versante politico e amministrativo come in quello urbanistico - deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana. Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.
Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato. Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell'organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere. E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità. Non ho la pretesa di aggiungere alcunchè al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che, sul terreno molto pratico che ci è proprio sia come urbanisti che come politici, se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti. Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sè un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sè un segno positivo del suo manifestarsi.
In effetti, quando parliamo di sviluppo ci riferiamo a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" (1). Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente. Ma se vogliamo applicare quella definizione all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare - come in questo convegno proponiamo nel suo stesso titolo - di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perchè ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perchè la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua quelità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone %H6%(2)%H6%. Su alcuni rilevanti aspetti di questo trend, e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi che abbiamo proposto per questo incontro: temi ai quali si riferiranno, in modo più o meno diretto, le comunicazioni che saranno illustrate.
La crisi della mobilità è forse l'aspetto più appariscente e drammatico, e certamente il più emblematico, della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressochè interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto. Il Libro verde attribuisce la scelta della motorizzazione individuale anche ai limiti della pianificazione urbanistica. Precisamente al fatto che "la separazione spaziale promossa dalla teoria funzionalista lascia poche alternative all'automobile privata". In altri termini, aver basato la pianificazione sul principio della rigida separazione, in zone collegate solo dalle infrastrutture del trasporto, delle varie funzioni urbane (le abitazioni, le industrie, gli uffici, i servizi ecc. ) ha contribuito ad aumentare sia la domanda globale di mobilità sia la necessità di uno strumento flessibile come l'automobile. E' un'osservazione indubbiamente giusta, ed essa coglie una delle ragioni per cui la cultura urbanistica ha da tempo criticato la rigidità della "zonizzazione monofunzionale". E tuttavia è un'osservazione che ha un valore pratico nelle regioni d'Europa dove le città si sono sviluppate secondo la pianificazione urbanistica. Mi sembra che nelle città italiane, e soprattutto in quelle dove la crisi del traffico è più drammatica (come Napoli e Roma, Palermo e Firenze) la causa urbanistica sia da attribuire molto più alla mancata pianificazione e alla conseguente anarchia degli interventi privati abusivi e di quelli pubblici in deroga, che alla severa applicazione dei canoni dell'"urbanistica funzionalista".
"Quale che sia comunque la miscela di cause che determinal'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti. Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade" (p. 44). Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità". Indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante.
Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti. Forse non ce n'è alcuna oppure, se c'è, è un'eccezione, ed è allora notevole almeno per questo. Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani (magari oggi criticabili e criticati nelle loro regole di fondo) diligentemente attuati; non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente; non abbiamo ricchezza di parchi e boschi nèefficienza di servizi collettivi; non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente. Non abbiamo, in Italia, ciò che tante altre città europee hanno conquistato. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela. E'allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti. Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione "senza opere" che è provocata dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere. (Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte).
Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica, quando leggo le invettive di Argan o di Cacciari. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proposte di Paolo Costa o di Luigi Scano sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, di promuovere quello che Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione". Ma dispero quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiare ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettaremetropolitane nei centri storici, quando vedo i Fori imperiali di Roma o la Piazza San Marco di Venezia ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà, magari sponsorizzati (come il recente episodio veneziano) da autorevoli istituzioni culturali come la Biennale. Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie. E noi stiamo qui come la coda della lucertola, che si agita ancora quando la lucertola è già morta.
Puntare sulla qualità urbana significa indubbiamente guardare alla città con sguardo nuovo. Significa analizzare criticamente la "conurbazione senza confini", che gli anni infiniti del boom edilizio ci hanno regalato. Quella "conurbazione senza confini" che la bella mostra dell'Istituto regionale dei Beni storici e culturali dell'Emilia-Romagna ha qualche anno fa illustrato %H6%(3)%H6%, e la ricerca interuniversitaria condotta da Giovanni Astengo ha puntigliosamente documentato %H6%(4)%H6%. L'assenza di confini certi è ciò che connota la mancanza di identità, di chiarezza di appartenenza, di forma definita e riconoscibile. Ed è infatti ciò che primariamente connota la città insostenibile, costruita dallo spontaneismo e dalla miopia, alleati della speculazione, negli anni della crescita senza forma. Voler raggiungere un sufficiente livello di qualità urbana significa allora anche cercare i confini della città vera, della città umana, della città storica: quei confini tracciati nel centro urbano come nel territorio foraneo organizzato, da antiche culture, in funzione della vita della città. E significa poi intervenire nelle periferie senza forma e senza volto, ridisegnare lì i confini - e la struttura, e le forme - di una città di oggi e di domani nella quale tutti possano riconoscersi, tutti possano ritrovare una identità, una comune cittadinanza.
I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato. Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa: ha vinto la sua storica tenzone con l'alternativa marx-leniniana. Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili (privi cioè di peculiari caratteristiche individuali e perciò sostituibili l'uno all'altro nell'ambito del medesimo genere), il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali. Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene). Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sè capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che dovevamo necessariamente porre all'inizio di questo convegno, anche se non è a questa relazione che tocca svilupparlo, ma alle comunicazioni che le fanno seguito.
A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile - o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili. Una questione che è tanto più importante trattare in quanto essa è totalmente assente dal Libro verde, di cui costituisce l'unica rilevante lacuna. Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.
Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finchè non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.
Su questa affermazione siamo, io credo, largamented'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinti che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi (e non incorrere una volta ancora in una di quelle dichiarazioni d'incostituzionalità che dal 1968 hanno frustrato i tentativi, o conati, di riforma) una riforma dell'attuale assetto del regime immobiliare debba avere alcuni precisi requisiti; alcuni punti fermi, prodotti e raffinati in una elaborazione collettiva che dura da qualche decennio almeno. Varrà la pena di ricordarli.
Le nuove regole del regime immobiliare dovrebbero, innanzitutto, riguardare, e regolare contemporaneamente tutti i beni immobili: cioé sia le aree sia gli edifici. Le concrete trasformazioni territoriali e urbane riguardano infatti sempre di più il già urbanizzato e il già costruito.
Naturalmente, una riforma adeguata dovrebbe definire la questione sia per quanto riguarda i valori che per quanto riguarda i poteri. Dovrebbe cioè risolvere, oltre alla questione delle indennità espropriative, anche quella dei cosiddetti vincoli urbanistici. Che è una questione molto semplice e molto concreta: si riduce alla questione del potere, da parte dell'autorità pubblica, di decidere le "destinazioni d'uso", o più precisamente di decidere le trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, che sono ammissibili in tutte le unità immobiliari, nonché i loro tempi e modi.
Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà, è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso leggittimo del bene. Tanto antico e consolidato è questo principio che essoera già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865. Ma non è solo questa la ragione per cui non sembra a me che esso debba essere abbandonato per assumere criteri (quale quello del plafond de densité) che sono stati abbandonati là dove sono stati inventati.
E ancora a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello riconosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità diespropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fiscale, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.
Ma c'é un punto, un requisito, che voglio soprattutto sottolineare. Ciò che ai fini della possibilità tecnica di ottenere una sufficiente qualità urbana più interessa è che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste censure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.
"Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale" (p. 11). E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti. Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata. Una pianificazione, come afferma il Libro verde, che vada al di là della rigidità razionalistica dello zoning, al di là dell'urbanistica di Le Corbusier e della Carta d'Atene. Ma anche una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell' espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro. Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.
Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità". E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, volta per volta e in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie che altrimenti non sarebbero soddisfacibili.
Se la definizione che prima ho proposto per qualità urbana è condiviso, allora dovremmo convenire che si devono considerare di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.
Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.
"Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde (p. 14). Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico-sociale, non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può appparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.
Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine" (p. 40). Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare alcuniquesiti, indubbiamente inquietanti. E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l'affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la nostra responsabilità, siamo davvero all'altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati - non senza ragioni - di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso il piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov'é sbagliato, o far correre una strada dove non serve, o rivestire d'un retino tecnico una sanatoria che non va concessa.
Per finire, un'ultima domanda. E' davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, nè elettoralmente nè socialmente, perchè ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Anche su questo dovremo insieme riflettere.
NOTE
(1) Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988. Preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinchè uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr. E. Goldsmith e N. Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano.
(2) ". . . quelle pompose Babilonie sono città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: CarloCattaneo, "La città come principio", a cura di M. Brusatin, Marsilio, 1972).
(3) Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, I confini perduti, Graphis, Bologna.
(4) IT. URB. 80, Rapporto sullo stato dell'urbanizzazione in Italia, "Quaderni di Urbanistica informazioni, n. 8, 1990.
|
Premessa
Siamo in questi anni giunti a un singolare crocicchio. Due percorsi sembrano incrociarsi: da una parte, quello dell'evoluzione legislativa e amministrativa e delle tensioni (o distensioni) ideologiche, politiche, culturali che ne condizionano il cammino; dall'altra parte, quello dell'evoluzione della situazione reale delle città e del territorio. L'uno e l'altro percorso, e soprattutto il loro incrociarsi, determinano una situazione di crisi: di frattura rispetto al passato, di necessità di superamento di antiche categorie, di rischio anche acuto di regressione.
2. Limiti e arresto del processo di riforma
A ben vedere, l'evoluzione legislativa e amministrativa avviata con il dibattito sulla “riforma urbanistica” nei primi anni '60, con la legge per l'edilizia economica e popolare del 1962, e poi proseguita con la “legge ponte” urbanistica del 1967, con la “riforma della casa” del 1971, con l'entrata in funzione dell'ordinamento regionale, con le tre leggi degli anni della solidarietà nazionale (la Bucalossi, la legge per l'edilizia sovvenzionata e agevolata, quella per l'equo canone), aveva prodotto un quadro non privo d'una sua intrinseca, sebbene incompleta, coerenza riformativa.
Già nella ultima fase della formazione di un siffatto nuovo quadro normativo i commentatori più attenti avevano rilevato come alcune carenze dell'impostazione legislativa, ove non rapidamente sanate, avrebbero potuto condurre a un indebolimento, se non addirittura a uno sgretolamento, del nuovo edificio legislativo.
Gli elementi di critica principali concernevano quattro aspetti:
1) La scarsa attenzione del legislatore al problema della gestione delle leggi. Un punto di particolare debolezza in proposito veniva individuato nelle disfunzioni e nell'insufficiente livello qualitativo delle strutture dell'azione pubblica, sia a livello nazionale (i Ministeri) che a livello locale (i Comuni).
2) La mancata chiarezza nella definizione del regime immobiliare , e in sostanza nella determinazione di ciò che appartiene al pubblico e ciò che appartiene al privato, in termini di potere e in termini economici, nelle decisioni e nei risultati delle trasformazioni territoriali e urbane. Questa insufficiente chiarezza ha provocato la raffica di sentenze della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato che hanno paralizzato l'attività urbanistica.
3) La scarsa attenzione ai problemi del recupero edilizio e urbano , che cominciava a emergere, fin dai primi anni '70, come il tema centrale degli anni futuri. Solo con la legge 457 del 1978 si cominciò a porre una certa, ma ancora ben troppo modesta, attenzione a questo tema.
4) Il progressivo manifestarsi di tendenze politiche (e poi anche culturali) regressive, di vera e propria controriforma urbanistica , a cui non sembrava rispondere una controtend enza sufficientemente agguerrita, tenace, consapevole, determinata.
Nessuno di questi quattro motivi di debolezza fu sanato negli anni successivi al 1979. Anzi, la rottura della “solidarietà nazionale” provocò il paradosso di indurre lo stesso PCI a esprimere dubbi e incertezze sulla validità della strategia delineata nel “processo di riforma”, fino a divenire permeabile alle tesi della necessità di una deregulation.
Gli sforzi compiuti dalle forze riformatrici e dall'opinione pubblica più ; sensibile negli anni più recenti non hanno condotto perciò a una ripresa, a uno sviluppo e al completamento del “processo di riforma”, ma si sono esaurite nel tentativo di contrastare (esemplare la vicenda del condono edilizio) le più sciatte pratiche e le più aberranti proposte della tendenza controriformatrice.
3. Le trasformazioni decisive degli anni '80
Contemporaneamente, sul piano poco discutibile delle cose, si sono manifestate vistose modificazioni nell'assetto della produzione, della società e del territorio. Alcune di queste modificazioni hanno una particolare rilevanza ai fini dell'urbanistica, ed è perciò ad esse che accennerò.
In primo luogo, si è avuta una netta inversione della curva che rappresenta il rapporto tra abitanti e stanze. Come gli urbanisti avevano pronosticato alla fine degli anni '60, si è passati da una fase dominata da una scarsità diffusa e generalizzata di stanze rispetto agli abitanti, a una fase in cui, mentre a livello statistico generale si manifesta una marcata sovrabbondanza di stanze, nelle diverse realtà italiane i fabbisogni abitativi emergenti riguardano un numero limitato di aree, non sono rilevanti (e tendono a scomparire) in termini quantitativi anche in queste aree, e appaiono determinati più da una inadeguata corrispondenza tra la qualità dell'offerta e quella della domanda (in termini di dimensioni degli alloggi e in termini di prezzi) che da una effettiva scarsità. Parallelamente, l'attività di pianificazione urbanistica compiuta dopo la legge ponte del 1967 (i cosiddetti « piani della seconda generazione ») ha fatto sì che praticamente in tutte le città grandi e medie le aree già utilizzate per servizi e attrezzature, e quelle comunque vincolate a tale destinazione, coprono largamente i fabbisogni.
In secondo luogo, è mutato l'assetto della produzione. Negli anni '50 si avviò in Italia quel tumultuoso e ingovernato processo di riduzione del peso delle attività agricole e di conseguente esodo dalle campagne, i cui modi (cioè l'assoluto “spontaneismo” cui fu lasciato il processo) pesantemente aggravarono i dissesti e gli squilibri della struttura sociale e dell'assetto territoriale del Paese. Negli anni '70 si è avviato un processo di riduzione del peso della produzione industriale, sia in termini di addetti che in termini di spazi fisicamente occupati sul territorio, e di un parallelo incremento delle attività dei servizi. Ogni città italiana ha “il suo Lingotto“: ha l'edificio o il complesso o la zona, fino a pochi anni fa simbolo e motore della vita economica e sociale della città , abbandonato e in cerca di seconda utilizzazione. E ogni città italiana è tesa a indagare (o inventare) la sua vocazione terziaria, a ricercare modi e strumenti e occasioni mediante le quali garantire la presenza di quote crescenti di attività di servizio, possibilmente “di livello superiore”.
In terzo luogo, sta mutando il modo in cui sono organizzati flussi delle comunicazioni di persone, merci, e soprattutto - in questa fase - di informazioni. Il progresso tecnico, applicato alla costruzione di una organizzazione radicalmente diversa di quei flussi che sono stati storicamente determinanti per la stessa nascita, e poi per il consolidamento, della città (e della civiltà urbana), genera tensioni nuove, e apre nuove possibilità, nella distribuzione delle attività sul territorio e nella stessa sua organizzazione. A partire dag', anni '60, le autostrade (come agli inizi del secolo le ferrovie) trasformarono radicalmente, e non in meglio, l'assetto territoriale del Paese, provocando rapidi e drastici mutamenti nella geografia delle città e delle aree, spostamenti di popolazione e di attività, spesso anche (per gli effetti diretti e ancora di più per gli effetti indotti) devastazioni dell'ambiente e della struttura fisica del territorio. A partire dagli anni '80, la posa di un cavo sofisticato per la trasmissione di informazioni potrà provocare gli stessi effetti della costruzione di un'autostrada o di una ferrovia.
In quarto luogo, infine, è mutato il grado di consapevolezza sulla decisività dei valori espressi dall'ambiente naturale, e, più in generale, da quel grande e derelitto giacimento di ricchezza costruito dall'accumulazione storica sul territorio di lavoro e di civiltà. Questi valori sono avvertiti, ormai a livello di massa, come decisivi per più d'un aspetto. Per il rischio che minaccia la stessa sopravvivenza del genere umano a causa della dissipazione forsennata che si è compiuta, e si continua a compiere, della risorsa fondamentale della vita dell'uomo e della società. Per lo spreco di ricchezza che comporta, in termini economici, la distruzione di quella risorsa sia per le spese ingentissime necessarie per ricostituire il territorio e pagare i danni dei dissesti ormai divenuti patologici e ricorrenti, sia per i mancati guadagni derivanti dalla mancanza di una loro saggia amministrazione. Infine, per la crescente presa di coscienza del fatto che il territorio è la vivente espressione e testimonianza della storia della nostra civiltà, la quale, nel suo fluire, ha impresso su di esso i segni ancor oggi visibili della sua evoluzione, dove più concentrati (i centri storici) dove meno :(il paesaggio agrario), ed è perciò componente non eliminabile della memoria storica della società.
4. Sviluppo senza crescita, qualità come obiettivo
L'insieme di queste novità, oggettive e soggettive, lungo l'uno e l'altro dei due percorsi cui ci siamo riferiti, determina una situazione di crisi precisamente nel senso che, mentre si è interrotto quel “ processo di riforma” avviato negli anni '60, si è contemporaneamente prodotta una radicale modificazione dello scenario nel quale si colloca l'azione dell'urbanistica rispetto a quello nel quale la cultura e la prassi avevano foggiato i loro metodi e strumenti. Si rifletta su alcuni elementi che emergono dal quadro che s'è adesso delineato.
Si può intanto senz'altro affermare che l'età della generalizzata espansione quantitativa delle aree urbanizzate (delle città) si è ; definitivamente conclusa. La portata di questa affermazione, sulla quale ormai tutti concordano, è facilmente comprensibile se si riflette sul fatto che le città, e comunque le aree urbanizzate, hanno vissuto una fase (si vorrebbe dire un'epoca) di crescita pressoché continua e generalizzata a partire dalla prima metà del XIX secolo. Ciò dà conto sia dello spessore del cambiamento strutturale che è intervenuto, sia dei problemi d'innovazione che esso pone a una disciplina, l'urbanistica, conformatasi nel suo attuale assetto culturale e tecnico proprio nel secolo a cavallo del 1900. Occorre ormai misurarsi non più con il problema della gestione della crescita continua e costante di tutte le grandezze implicate nel processo di urbanizzazione, ma con il problema, di qualità tutt'affatto diversa, dello sviluppo senza crescita quantitativa.
Ma si può del pari affermare che, all'esaurirsi delle esigenze quantitative che erano state dominanti nei decenni trascorsi (nel campo della residenza come in quello dei servizi, come in quello della produzione), ha corrisposto il maturare e il crescere di un 'esigenza di qualità . Questa si manifesta in più d'un aspetto, nasce da una molteplicità di moventi e interessi. Nasce da quella nuova attenzione nei confronti della risorsa ambientale di cui si è or ora detto. Nasce dal fatto che i bisogni quantitativi si avviano a essere soddisfatti e quindi si affacciano bisogni nuovi. Nasce da una sorta di soprassalto critico nei confronti della repellente immagine offerta dalle squallide periferie costruite negli anni della speculazione ruggente. E nasce anche dalla circostanza che le fasce di forza lavoro a più elevata qualificazione professionale (interlocutori privilegiati, e anzi indispensabili ed essenziali in una società che vuole affidare il proprio sviluppo ad attività ad alta qualificazione) pongono la qualità ambientale come uno dei requisití essenziali per l'accettazione di un'offerta di lavoro.
5. “Deregulation”: una proposta illusoria
Sono appunto queste due connotazioni di fondo dell'epoca che è iniziata (il problema dello sviluppo senza crescita, l'esigenza di qualità) che sembrano decisive nel porre all'urbanistica italiana ed europea i traguardi di una ricerca e una sperimentazione innovatrice. Ma l'esigenza di una modifica del quadro operativo, amministrativo e legislativo dell'urbanistica deriva anche da un altro ordine di questioni, che è sotteso non certo alle posizioni dei profeti della “deregulation” (la cui espressione più grezza ma più efficace è costituita da Franco Nicolazzi, per molti anni Ministro per i LL.PP.), ma a un’esigenza in qualche modo avvertita da una parte di quel fronte ampio che alle posizioni suddette ha finito per aggregarsi: le questioni relative al rapporto tra ruolo del pubblico e ruolo del privato nel processo delle trasformazioni urbane e territoriali.
Nell’urbanistica tradizionale (quella sorta e foggiata nell’epoca dell’espansione) il ruolo del pubblico, con la pianificazione e regolamentazione urbanistica, sostanzialmente si esauriva nel fornire una blanda regolamentazione razionalizzatrice all’attività edilizia dei proprietari privati, e nel gestire direttamente solo il “ritaglio territoriale” costituito dalle opere pubbliche. C’era in sostanza una precisa suddivisione di campi. Il grosso della città era pienamente lasciato all’iniziativa dei privati, garantiti più che vincolati da un insieme di norme che tendevano ad assicurare un minimo di condizioni d’ ;igiene e di regolarità, e sovente un massimo di utilizzazione economica. Il “residuo” costituito dagli spazi pubblici (strade e piazze, scuole, giardini) era invece l’ambito dell’intervento pubblico diretto: anch’esso volto, a ben vedere, a incentivare, regolare, distribuire i valori economici derivanti dalle iniziative edilizie private.
Verso la fine degli anni ‘60 vi fu però una serie di sostanziali modificazioni, non solo quantitative. Aumentò la quantità degli spazi pubblici, soprattutto per effetto della “legge ponte” del 1967, e a essa si aggiunse quella degli spazi dove l’intervento edilizio poteva avvenire su aree espropriate, per effetto della legge 167 del 1962 e della 865 del 1971. Cominciò a porsi il problema di un più penetrante intervento pubblico e furono foggiati alcuni strumenti utilizzabili per risolverlo: per regolare nel tempo l’attuazione dei piani urbanistici con la “legge Bucalossi” del 1977; per governare gli esiti sociali della costruzione di edilizia residenziale privata, con la legge per l’equo canone del 1978; per incentivare i proprietari a recuperare il patrimonio edilizio degradato, con la legge 457 del 1978.
In definitiva, mentre da un lato l’intervento pubblico diretto ruppe gli argini del “ritaglio” entro il quale era confinato e dilagò fino a coincidere (o a poter coincidere) con tutta l’espansione urbana, dall’altro lato esso cominciò a incidere (o a poter incidere) nel patrimonio edilizio esistente, condizionando la proprietà privata anche su questo versante. Il punto è, però, che risultati così innovativi, per il modo stesso in cui vennero gradualisticamente e dialetticamente raggiunti, spesso pagando per i necessari compromessi il prezzo dell’ambiguità e dell’oscurità della formulazione legislativa, non hanno dato luogo a un quadro legislativo organico e chiaro, dotato d’una sua esplicita e formale chiarezza. Essi si sono invece manifestati come aggiunte, innesti, e se si vuole superfetazioni, di un quadro legislativo preesistente, in tutt'altra direzione orientato. E si è pervenuti così alla costruzione di un castello di norme e procedure cui l'ulteriore aggiunta delle legislazioni regionali e dei provvedimenti “per l'emergenza”, per lo “snellimento delle procedure”, e infi ne per il condono edilizio hanno conferito forme che definir barocche è fin troppo benevolo.
Non è allora privo di motivazioni, se non di ragioni, il cittadino che protesta perché, illuminato solo dal corto raggio dei suoi immediati interessi, vede l'urbanistica unicamente come un insieme di “lacci e lacciuoli”, e corre a impigliarsi nella pania di chi demagogicamente gli promette di tagliar via d'un colpo quel groviglio. Solo che, proprio per tutto ciò che abbiamo finora argomentato, a chiunque sappia sollevare un po' lo sguardo (e non molti sono quelli che ci provano) appare subito evidente che è del tutto illusoria la ricetta della “deregulation”, e che neppure un semplice riordinamento del castello legislativo è misura sufficiente. Poiché il compito vero, e risolutivo, che in questa fase di transizione si pone è quella, ben più impegnativo, di riflettere su che cosa occorra modificare per rendere metodi, indirizzi e strumenti dell'urbanistica adeguati alla soluzione dei problemi così come questi oggi si pongono : poi trarre da questa riflessione, naturalmente, tutte le necessarie conseguenze politiche, legislative e amministrative.
6. È ancora necessaria la pianificazione?
Lungo una simile linea di ragionamento occorre porsi una prima e preliminare domanda: è ancor oggi necessario tener fermo il principio base dell’ urbanistica moderna che è la pianificazione ? La domanda non è assolutamente accademica. Si potrebbe trascurarla se emergesse solo dall’ambito del rozzo e sprovveduto empirismo proprio della “filosofia” nicolazziana. Essa però è stata posta anche su un terreno meno volgare, da interlocutori che hanno un peso culturale e pratico non trascurabile.
Così, per cominciare, ha posto quell’interrogativo, per rispondere in termini negativi, una consistente porzione della cultura degli architetti. Il dibattito su una presunta antinomia tra “piano” e “ progetto”, che ha occupato negli ultimi anni le riviste di architettura, tendeva in sostanza a dimostrare che l’istituto stesso della pianificazione era irrimediabilmente obsoleto; che, viceversa e di conseguenza, il compito di conferire ordine, dignità, riconoscibilità, bellezza all’aggregato urbano doveva essere affidato al progetto, all’ ;opera individuale, e immediatamente realizzabile, del singolo architetto.
Ma la tendenza a considerare non più necessaria la formazione di un quadro di coerenze degli interventi sul territorio (di un piano) si manifesta anche in numerosi versanti del dibattito e dell'azione politici e amministrativi. Dai programmi di riordino delle reti infrastrutturali, ai progetti per il ponte sullo Stretto di Messina; dall'uso generalizzato della deroga ope legis per le opere pubbliche rispetto alle prescrizioni dei piani, all'attenzione degli effetti sull'ambiente solo come puntuale e puntiforme verifica di singole opere di grande dimensione: tutto avviene decidendo (quando si riesce a decidere) su singole opere, su singoli settori, su singoli aspetti parzialmente considerati, ricercando al massimo una sorta di razionalità limitata e circoscri tta, e senza tener conto di una razionalità complessiva; quella razionalità complessiva la cui ricerca è peraltro imposta dalle leggi che obbligano a pianificare il territorio ai livelli regionali e comunali, e a formulare a livello nazionale indirizzi che definiscono i lineamenti dell'assetto territoriale complessivo.
E tuttavia, la pianificazione è oggi più che mai necessaria . Non solo per le ragioni di sempre. Non solo cioè perché, in un mondo in cui - con la rivoluzione capitalistico-borghese - si è definitivamente affermato il carattere sociale della produzione, a ciò non può non far riscontro una capacità e volontà di governare le trasformazioni dell'assetto territoriale secondo una logica anch'essa sociale. Non solo perché il territorio è un sistema (o se si vuole un “sistema di sistemi”), il cui assetto deve essere guidato tenendo conto delle oggettive ínterrelazioni che esistono tra le diverse componenti della sua organizzazione. Non solo per questo, ma anche per una serie di ragioni più specificamente legate alle novità che si sono manifestate, o che si stanno manifestando, nella presente fase di transizione.
Ma argomentare l' attuale necessità della pianificazione conduce allora inevitabilmente a ragionare su ciò che, del tradizionale modo di pianificare, deve essere cambiato perché la pianificazione sia realmente adeguata ad affrontare la realtà nei termini in cui essa oggi si :pone, a governare le trasformazioni che hanno luogo nell'età dello sviluppo senza crescita, della qualità come obiettivo determinante, della necessità di un rapporto nuovo tra azione pubblica e intervento privato.
7. Dal piano alla pianificazione
Non a caso abbiamo finora adoperato il termine “pianificazione” anziché il termine “piano”. Quest'ultimo termine suggerisce infatti l'immagine di uno strumento, costruito come la definizione del desiderabile assetto di una determinata parte del territorio, concluso e statico. Uno strumento che, una volta delineato, verrà poi successivamente attuato mediante una separata attività di gestione e, nei casi migliori, di programmazione dei modi nei quali sviluppare nel tempo la sua attuazione.
Una simile concezione non è più sufficiente. Essa poteva valere, a livello urbano, in una fase di espansione quando, trascurando le trasformazioni all'interno di quanto già esisteva, si trattava di governare le “aggiunte” alla città costruita. Non è più sufficiente in una fase in cui la rapidità, la diffusione e le caratteristiche delle trasformazioni in atto impongono, a tutti i livelli, un'azione di governo delle trasformazioni urbane e territoriali che sia continua e sistematica, una capacità di adeguare tempestivamente le scelte al mutare degli eventi, un'attenzione, mai praticata nel passato, nei confronti degli operatori, pubblici e privati, delle loro esigenze, delle loro disponibilità, una retroazione costante tra le conseguenze della pianificazione e le sue scelte.
Spostare però l'accento dallo strumento del “piano” all'attività di “pianificazione” significa non concepire e praticare più l'uso dei tre momenti tradizionali del “piano” (ossia del disegno dell'assetto desiderato), del “programma” (ossia della scelta, all'interno dell'universo delle opportunità definite del “piano”, di quelle da realizzare in una fase determinata), e della “gestione” (ossia dell'attuazione concreta, attraverso “progetti” esecutivi, degli interventi previsti dal “programma”) come tre operazioni separate e successive, ma concepire invece, e praticare, i tre momenti suddetti come momenti logici di un'attività (la “pianificazione”, appunto) che si svolge con una stretta e continua interazione tra l'uno e l'altro momento. Talché, ad esempio, ciò che emerge nel momento del programma o della gestione (i momenti più prossimi all'impatto con la realtà economica e sociale) retroagisca sul momento del piano inducendo a modificare, se necessario, le scelte; ma le modificazioni non siano, come adesso avviene, correzioni parziali e puntuali del piano, tali da stravolgere, nella loro successione, l'iniziale coerenza: si traducano invece nella definizione di un diverso quadro di coerenza.
Ciò significa allora, in sostanza, che occorre passare da una concezione del piano come definizione e disegno d'una situazione finale d'equilibrio, da raggiungere successivamente mediante una catena di atti (di programma e di gestione) attuativi di quel determinato e prefissato disegno, a una concezione della pianificazione come la successiva definizione di una serie di situazioni d'equilibrio, ciascuna caratterizzata da una sua intrinseca coerenza.
È probabilmente nel quadro di una simile concezione della pianificazione che potrà essere raggiunta la sintesi tra quei due obiettivi che oggi appaiono spesso le bandiere di due opposti schieramenti: quello della coerenza del disegno complessivo, e quello della flessibilità necessaria per il modificarsi della realtà e delle decisioni politiche e amministrative. Ed è in un quadro siffatto che possono essere trovate anche le risposte ad altre domande che sono poste dalla presente fase di transizione.
8. L'ambiente: il punto di partenza della pianificazione
L'esigenza della qualità, che caratterizza in modo determinante - come abbiamo accennato - l'epoca nella quale senza avvertirlo siamo entrati, ha tra le sue componenti essenziali una nuova attenzione per l'ambiente. E forse la necessità inderogabile di salvaguardare l'ambiente nel suo complesso (subito diremo che cosa intendiamo con questa espressione) è ciò che, mentre da un lato ribadisce e conferma la necessità della pianificazione, dall'altro lato pone ad essa i più impegnativi compiti di innovazione.
Ma occorre innanzitutto precisare che cosa, in queste note, intendiamo per ambiente. Ponendoci dal punto di vista dell'urbanista e non da quello dell'ecologo o del geografo o dell'ambientalista o dello storico o del geologo, consideriamo l'ambiente come il prodotto di un millenario investimento di lavoro e di cultura che l'uomo ha compiuto per trasformare la natura e renderla idonea a ospitare la vita e le attività umane. Ciò che soprattutto ci interessa è cogliere e sottolineare questo intreccio tra natura e lavoro, tra preesistenza fisica e opera di trasformazione, non solo perché è unicamente partendo dalla consapevolezza di questo intreccio che si può conoscere l'ambiente (nella sua qualità, nella sua struttura, nelle sue caratteristiche), ma anche perché è proprio nel delineare le regole mediante le quali occorre oggi proseguire quell'intreccio che si esplica l' azione dell'urbanista.
Considerare in tal modo l'ambiente comporta alcune conseguenze che meritano di essere rese esplicite. La prima è che, ponendosi da un simile punto di vista, l'interesse e l'attenzione per l'ambiente non possono limitarsi ad alcune parti, ad alcuni ritagli dotati di qualità o di rarità notevoli: i centri storici, le porzioni ancora intatte delle coste, i boschi residui, i biotopi di particolare interesse e cosi via. Essi devono invece considerare l'insieme del sistema ambientale , variamente caratterizzato da forme diverse, da diverse incidenze, da diverse qualità dell'intervento storico dell'uomo: in tutta la vasta gamma delle situazioni e trasformazioni che vanno dall'estremo “naturale” costituito dai brandelli di territorio mai trasformato dal lavoro umano (ma ne esistono ancora in Italia?), fino all'estremo “artificiale” costituito da quelle zone nelle quali l'originario dato naturale è stato del tutto cancellato, attraverso la vasta gamma delle situazioni (la natura governata dei boschi, le varie facies del paesaggio agrario, i centri storici) nei quali intervento umano e natura hanno trovato differenti forme d'equilibrio.
La seconda conseguenza, strettamente connessa alla prima, è che l'ambiente, nel suo insieme e nelle sue parti, non può non essere analizzato criticamente , mediante un'operazione culturale che sappia condurre a distinguere ciò che deve essere conservato da ciò che può e deve essere trasformato, e che in secondo luogo - e soprattutto - sappia individuare le regole che devono essere seguite nel trasformare l'ambiente. Regole che - vogliamo precisarlo subito - devono comunque essere orientate alla tutela e alla valorizzazione di tutto ciò che la storia, nella sua mai interrotta vicenda, ha sedimentato nel territorio fino a quel punto di svolta nel quale le ragioni del massimo sfruttamento economico e del massimo privatismo hanno sopraffatto qualsiasi altro valore.
La terza conseguenza, anch'essa strettamente connessa alle prime due, è che l'attenzione e l'interesse per l'ambiente devono tradursi in un'attività di progettazione del territorio . L'analisi critica del sistema ambientale deve infatti dar luogo a una serie di azioni, che nel loro insieme devono determinare una trasformazione del sistema ambientale. Esse dovranno esser volte a una pluralità di obiettivi specifici: dove a vincolare (e a gestire) zone di assoluta immodificabilità, e zone in cui la fruizione deve essere attentamente controllata; dove a definire quali elementi dell'ambiente e del paesaggio, tracce e testimonianze della nostra storia, debbano restar immutati e costituire anzi la trama delle trasformazion i possibili, e in quali modi, e con quali strumenti, e con quale considerazione dei costi e dei benefici economici e sociali; dove, infine, si debba procedere a vere e proprie operazioni di recupero o di riprogettazione dell'ambiente territoriale e di quello urbano.
Ed è qui che vogliamo annotare, come fra parentesi, che non a caso abbiamo interamente ricondotto l'obiettivo della qualità a quello della tutela e della valorizzazione dell'ambiente. Siamo infatti convinti che, anche là dove le tracce della natura e della storia sono più esili, e dove quindi una nuova e sufficiente qualità dell'ambiente può essere raggiunta solo con vistose trasformazioni (con l'opera dell'architetto), queste trasformazioni conseguono realmente una qualità sufficiente solo se assumono come elementi ordinatori, come cardini del nuovo disegno dell'ambiente urbano, quelle tracce impresse dalla natura e dalla storia.
Ecco allora, in definitiva, perché singole azioni di protezione e di vincolo di singole porzioni del sistema ambientale, ancorché necessarie e anzi benemerite in una fase quale quella attuale, sono però tutt'altro che sufficienti. Ecco perché è indispensabile un'azione di pianificazione, un'attività sistematica di governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali che assuma la salvaguardia e la valorizzazione delle risorse ambientali (in quell'accezione, che riteniamo completa più che larga, cui ci siamo riferiti) come obiettivo prioritario e fondamentale: anzi, come criterio di valutazione e di misura della correttezza della pianificazione. Ed ecco, anche, perché il tema dell'ambiente pone all'urbanistica, alla scienza e alla tecnica della pianificazione, un impegnativo compito di rinnovamento.
Ciò di cui si tratta è infatti ribaltare la tradizionale logica pianificatoria, che assumeva come problema e obiettivo centrale (lo abbiamo ricordato più volte) quello della valutazione e della regolazione delle quantità aggiuntive di urbanizzazione. Si tratta di sviluppare i germi già presenti nella storia migliore dell'urbanistica italiana (ricordiamo ad esempio gli orti storici di Siena salvati da Luigi Piccinato, le colline di Firenze, di Assisi, Gubbio e Bergamo, di Bologna, tutelate rispettivamente da Edoardo Detti, da Giovanni Astengo, da Armando Sarti), e dare un più dispiegato valore e significato alle intuizíoni che queste esperienze hanno sorretto. Si tratta, in una parola, di porre il territorio (la sedimentazione storica che in esso è presente, la sua fisicità, il paesaggio, la sua struttura e la sua forma) come la base della pianificazione.
9. Il programma: momento centrale della pianificazione
Pianificare oggi, governare le trasformazioni urbane e territoriali così come è preteso dai nuovi problemi e dalle nuove esigenze, richiede (già lo abbiamo argomentato) un massimo di coerenza e d'unità tra i tre momenti del piano, del programma e della gestione. Ciascuno di questi momenti logici ha però una sua autonomia e perciò, oltre a porsi il problema fondamentale dell'intreccio tra di essi e di un modo di pianificare che fortemente li unifichi, si pongono (si devono porre) in modo innovativo anche i problemi interni a ciascuno dei momenti suddetti.
Abbiamo già affrontato, nel precedente paragrafo, quello che ci sembra il più rilevante problema del “momento logico” del piano. Per quanto riguarda il momento del programma ci sembra che il problema principale sia quello di comprendere che, in un'epoca dominata dalla velocità delle trasformazioni e dalla loro non compiuta configurazione, nonché dalla circostanza che le trasformazioni (sia fisiche che, soprattutto, sociali e funzionali) riguardano prevalentemente ciò che, dall'assetto urbano e territoriale, già esiste, in un'epoca siffatta il programma è davvero, per più d'un aspetto, l'anello decisivo della catena degli atti di pianificazione.
Il programma è infatti il momento in cui si deve compiere il censimento delle risorse disponibili a essere impiegate nell'attività di trasformazione, e quindi anche degli operatori concretamente mobilitabili; in cui, parallelamente, si deve scegliere - tra le varie esigenze sociali che postulano, per la loro soddisfazione, trasformazioni urbane e territoriali - quelle che nel successivo “breve periodo” devono e possono essere soddisfatte; in cui, di conseguenza, si deve decidere quali delle previsioni stabilite nel momento logicamente antecedente del piano saranno attuate, diventeranno cioè esecutive, nel periodo suddetto.
Il momento del programma quindi, oltre a costituire il momento del bilancio e della verifica, e dell'eventuale aggiornamento, del piano, è anche quel momento in cui si devono costruire una serie di raccordi di massima rilevanza ai fini di una pianificazione effettivamente operante.
In primo luogo, il raccordo con l'insieme delle istanze politiche attraverso cui si esprime la sovranità popolare. E' il momento in cui concretamente si sceglie, in cui si trasformano istanze sociali in priorità politiche. In cui veramente si disvela al massimo grado il sistema degli interessi che questa o quell'altra forza politica, questa o quell'altra maggioranza, effettivamente esprimono. In cui quindi è massimamente decisiva la trasparenza del procedimento mediante il quale si perviene alle decisioni.
In secondo luogo, il raccordo con la politica di bilancio dell'istituto cui è affidato il compito della pianificazione (volta per volta, il Comune, la Provincia, la Regione, lo Stato). In effetti, una pianificazione che voglia possedere il requisito dell' efficacia , che voglia non ridursi (come troppe volte nel passato è avvenuto) a un “libro dei sogni”, che voglia tradursi in opere, in concreti interventi, deve poter condizionare le politiche economiche, e in particolare le politiche della spesa: queste sono le gambe con cui solo può camminare. E viceversa, la politica di bilancio ha bisogno della pianificazione come di quell'insieme di scelte e di tecniche che può permetterle di avere una coerenza non solo contabile, ma dispiegatamente sociale.
In terzo luogo, infine, il raccordo con quella vasta gamma di operatori pubblici e privati che dovrà re alizzare e gestire le scelte del piano e del programma. Questo ci sembra un punto davvero decisivo, proprio per i mutamenti che sono intervenuti nella società e nella città e che richiedono un rinnovamento coraggioso di tutte le categorie, teoriche e pratiche, dell'urbanistica. È opportuno quindi soffermarvisi con una certa ampiezza.
10. Un nuovo rapporto tra pubblico e privato
Si è già detto che aveva cominciato a “saltare”, negli anni '70, la rigida separazione tra l'area dell'intervento pubblico e quella dell'intervento privato, e si è già visto come il primo avesse iniziato a incidere, in modo sostanziale e non solo nei termini di un quantitativo allargamento dello spazio di sua diretta pertinenza, sullo spazio di pertinenza del privato. Con l'equo canone, con il programma pluriennale d'attuazione ex lege 10/1977, con le iniziative e provvidenze per il recupero dell'edilizia abitativa, l'azione pubblica si dotava infatti di strumenti potenzialmente capaci di condizionare e orientare il mercato privato, in modo fortemente innovativo. (Non a caso vi fu chi ricomprese queste innovazioni in quegli “elementi di socialismo” di cui Enrico Berlinguer segnalava e stimolava l'introduzione nella società italiana.)
Di queste innovazioni non si comprese probabilmente la portata, né, di conseguenza, la necessità di una strategia che le sorreggesse e le sviluppasse: e questa fu probabilmente - già lo abbiamo accennato - una delle cause del “riflusso urbanistico”. (Non a caso, del resto, alla parola d'ordine “di destra” della deregulation corrispose “a sinistra” lo slogan del “giacobinismo degli urbanisti”.) Esse, in realtà, entrarono a far parte del quadro legislativo perché la logica delle cose, perché le novità strutturali, conducevano oggettivamente in una simile direzione.
È infatti evidente che in una fase in cui problema centrale cessa di essere quello dell'espansione e diviene quello dell'intervento nella città esistente, l'azione pubblica non può più concentrare la propria attività nella predisposizione e nella gestione delle “ aggiunte” alla città esistente. Per raggiungere i propri obiettivi essa deve intervenire in ciò che avviene all'interno degli organismi urbani, per favorire e incentivare il recupero delle unità edilizie non occupate o degradate, per evitare fenomeni patologici nel mercato delle locazioni, per riqualificare gli spazi urbani, per controllare le trasformazione delle destinazioni d'uso ecc.
Ma è evidente allora che, in questo nuovo scenario, cambiano gli interlocutori. Le figure dominanti non sono più quelle dell'antica triade (l'amministrazione pubblica, il proprietario fondiario, l'imprenditore capitalistico), e l'azione pubblica non può più semplicemente ridursi a sostituire (o tosare) la proprietà fondiaria, acquistando ed espropriando i terreni per darli in uso o in proprietà all'imprenditore. L'area sociale sulla quale l'azione pubblica opera è un ben più complesso groviglio di figure sociali e di interessi economici, nei confronti dei quali non si possono eseguire tagli netti. Il ruolo del pu bblico tende a divenire, in modo sempre più dispiegato, quello del soggetto che guida e indirizza, stimola, sorregge l'attività di una grande pluralità di soggetti privati (o privatistici), orientandone le convenienze e le azioni in modo che queste, nel loro complesso, siano finalizzate agli obiettivi perseguiti.
Un simile ruolo implica una notevole trasformazione degli strumenti mediante i quali l'azione pubblica si esplica. Non solo una trasformazione dei veri e propri “strumenti urbanistici” (i quali, anzi, hanno una flessibilità tale da consentire consistenti adattamenti ai nuovi problemi), ma una trasformazione che deve incidere soprattutto - a nostro parere - su due problemi, su due nodi ancor oggi irrisolti: quello del regime immobiliare, e quello delle strutture funzionali dell'azione pubblica. La mancata soluzione dell'uno e dell'altro problema è ciò che più pesantemente condiziona il momento della gestione: dell'ultimo, dunque, dei tre momenti logici della pianificazione su cui volevamo soffermarci.
11. La questione del regime immobiliare
C'è ancora oggi chi sostiene che la questione del regime immobiliare si pone nei termini in cui si poneva, in Italia, negli anni '60. Cioè come questione che potesse essere risolta mediante l'acquisizione (a prezzo di mercato o con il compenso di un'indennità espropriativa) di aree da assoggettare a urbanizzazione pubblica e cedere poi agli utilizzatori. Se quanto si è sostenuto a proposito delle trasformazioni avvenute e in atto è vero, allora è del tutto evidente che un simile modo di vedere il problema, e di proporre le conseguenti soluzioni, è del tutto superato, ed esprime un ritardo culturale che deve rapidamente esser sanato.
La questione, oggi, non è quella del regime dei suoli ; è quella, certo più complessa, del regime immobiliare. Il problema non è più (poiché l'epoca dell'espansione, in Italia e in Europa, è terminata) quello di impedire che la rendita fondiaria determini i modi e tempi dell'espansione delle città, incida sul prezzo finale delle costruzioni da realizzare. Il problema è divenuto, da molti anni a questa parte (e precisamente da quando l'attenzione si è focalizzata sul recu pero, sul riuso, sul governo del patrimonio edilizio e urbano esistente) quello del controllo, della tosatura o dell'integrale ablazione della rendita immobiliare urbana, in tutte le forme del suo manifestarsi.
È insomma necessario definire innanzitutto - in termini culturali, politici, legislativi - che cosa appartiene al pubblico e che cosa appartiene al privatonelle decisioni e nei valori economici connessi alle trasformazioni urbane e territoriali . Si tratta, evidentemente, di una estensione del problema, e dell'obiettivo, sotteso all'antica questione del regime dei suoli. Oggi, non si tratta più soltanto di decidere quanto si debba pagare al proprietario del suolo nudo quando lo si voglia espropriare per ampliare la città. Oggi si tratta anche, e soprattutto, di decidere univocamente quanto sia necessario riconoscere al proprietario del valore dell'immobile (dell'area quin di e della costruzione) quando la mano pubblica decida di espropriare, o acquistare, o convenzionare, o tassare, o determinare il canone di locazione d'uso per sé o per qualunque altro soggetto.
Si tratta invero di un problema decisivo, per più di una ragione. Quella economica innanzitutto: perché una quota ingente dei valori derivanti da scelte della pubblica amministrazione deve remunerare la rendita, gravando perciò sul profitto e sul salario? Quella morale: la corruzione diventa inevitabile quando le scelte degli amministratori pubblici determinano ingenti variazioni dei patrimoni dei soggetti privati. Quella dell' efficaciadella pianificazione : è ampiamente dimostrato ormai che le valutazioni tecniche e quelle politiche sono soccombenti, o almeno pesantemente distorte, nel gioco d'interessi conseguenti dall'appropriazione proprietaria della rendita urbana.
Ma perché la questione venga finalmente risolta, è indispensabile che lo sia in modo equo: non solo perché altrimenti la soluzione sarebbe soccombente, come troppe volte è accaduto, sotto la scure della Corte costituzionale, ma anche perché altrimenti non verrebbe realizzata quella “indifferenza dei proprietari alle destinazioni di piano” che, già un quarto di secolo fa, Aldo Moro poneva come un obiettivo irrinunciabile. E l'unico modo equo appare, appunto, quello di definire un regime generale degli immobili , che sia assunto in ogni operazione pertinente agli immobili in cui la pubblica amministrazione abbia un ruolo diretto o indiretto.
Alla questione del regime immobiliare è del resto legata un'altra questione che è essenziale risolvere per poter governare le trasformazíoni urbane e territoriali (per poter pianificare) : quella della capacità della pubblica amministrazione di decidere le cosiddette “destinazioni d'uso”, stabilendo quali sono le utilizzazioni consentite in ciascuna unità di spazio. L'una e l'altra questione sembrano poter essere risolte cogliendo e sviluppando l'intuizione originariamente espressa da Aldo Sandulli, allora presidente della Corte costituzionale. Affermando cioè, in termini giuridicamente chiari, che il diritto di decidere circa le trasformazioni che hanno incidenza, o singolarmente o negli effetti cumulativi che ne conseguono, sull'assetto delle città e del territorio, appartiene alla mano pubblica: sicché è a questa che spettano non solo le scelte, ma i valori economici che da tali scelte derivano.
12 La questione delle strutture pubbliche per la pianificazione
Pianificare oggi, governare le trasformazioni territoriali e urbane in modo adeguato alle esigenze e ai problemi dell'attuale fase di transizione, è certo - lo si sarà compreso per tutto quel che finora si è detto - operazione ben più complessa e impegnativa di quanto prima non fosse. Basta pensare alla nuova esigenza di qualità che oggi emerge. Basta pensare alla differenza che c'è tra il redigere un “piano” una volta per tutte e il condurre un'attività sistematica e continua di pianificazione , a sua volta basata su un'attività continua e sistematica di analisi, ed entrambe finalizzate a definire successive configurazioni, tutte trasparentemente formate, d'un quadro di coerenza delle trasformazioni territoriali e urbane. Basta pensare al maggiore impegno tecnico e amministrativo richiesto da un'azione che è sempre meno di regolazione astratta degli interventi privati e sempre più di guida e indirizzo e sostegno alle operazioni di una molteplicità di soggetti.
È da decenni che la migliore cultura urbanistica sostiene che la possibilità di esercitare un effettivo ed efficace governo del territorio ha il suo passaggio obbligato nella formazione di strutture pubbliche di pianificazione . Questo problema, mai risolto in modo compiuto, è oggi più urgente che mai proprio per le novità che sono intervenute. Non è (neppure questo) un problema quantitativo; per meglio dire, non è un problema che ha nei dati quantitativi il suo aspetto essenziale. L'aspetto essenziale può esser colto, invece, se si comprende quale dovrebbe essere il ruolo d'una struttura tecnica adeguata, soprattutto in relazione a due suoi interlocutori primari: i rappresentanti politici dell'amministrazione, le competenze e professionalità esterne all'amministrazione.
Nei confronti del primo interlocutore (la rappresentanza politica) il ruolo della struttura tecnica non è solo quello di garantire la “ continuità” dell'Amministrazione: anche se si deve sottolineare la maggior rilevanza di questo aspetto in una fase in cui ciò che conta non è il “piano”, formato una volta per tutte, ma la continuità e sistematicità di un processo di pianificazione. L'elemento fondamentale sta invece nel compito della struttura tecnica di definire, col massimo di responsabilità, quali sono i dati oggettivi e non rinunciabili dell'assetto del territorio e del governo delle sue trasformazioni che devono essere assunti come vincoli, o come obiettivi, nelle scelte politiche, e conseguentemente di rendere espliciti quali sono gli ambiti di discrezionalità politica e amministrativa entro i quali può e deve esercitarsi l'azione delle rappresentanze politiche. Non quindi un rapporto di subordinazione, ma un rapporto di interazione basato sulla definizione e delimitazione dei due diversi ambiti di autonomia, professionalità (e potere) del tecnico e del politico.
E nei confronti del secondo interlocutore (le professionalità e competenze esterne all'Amministrazione), se il ruolo della struttura tecnica è fondamentale e ineliminabile sì da non essere surrogabile dal ricorso ad apporti esterni, esso tuttavia non può essere visto come esclusivo e omni-assorbente. Sarebbe sbagliato configurare la struttura tecnica pubblica come qualcosa che esegue per l'Amministrazione tutte le operazioni che normalmente le strutture professionali e di consulenza svolgono per le imprese private. Loro compito specifico è invece quello di avvalersi, nel modo più largo possibile, di apporti esterni, sia per utilizzare tutte le competenze specialistiche necessarie per il governo del territorio, sia per avvalersi delle collaborazioni opportune per i compiti che non rientrino nel l'attività ordinaria dell'Amministrazione. Ma è evidente che è la struttura tecnica pubblica che deve decidere per che cosa, a chi, come richiedere apporti esterni, che ,è essa che deve impostarne e indirizzarne l'operato, valutarne i. risultati, utilizzarne i prodotti.
Ma se così stanno le cose (o meglio, se così dovrebbero stare), allora è chiaro che le strutture tecniche pubbliche per il governo del territorio dovrebbero essere dotate di un elevatissimo grado di professionalità. Non di professionalità generica, o derivante dal ricalco di professionalità nate e formate in funzione di committenze generiche: ma di quella specifica professionalità che è necessaria per dirigere e coordinare le attività tecniche necessarie per governare le trasformazioni territoriali e urbane.
È a partire da questa necessaria caratteristica, da questo essenziale requisito, che devono essere visti i problemi delle modalità di reclutamento dei dipendenti pubblici, della loro formazione, della loro retribuzione. Sono problemi nei confronti dei quali non solo l'elaborazione, ma anche solo l'attenzione delle forze politiche e sindacali è ancora del tutto insufficiente. Ma sono problemi davvero nodali per chi ritenga che il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali sia più che mai essenziale, in questa difficile fase di transizione dal regno della quantità al regno della qualità.
13. Crisi del processo di riforma?
Qual è allora il significato di quella “crisi dell'urbanistica” ; di cui parlavamo all'inizio di queste note? È davvero necessario registrare il fallimento di quell'azione di rinnovamento che si è mossa verso l'obiettivo della “riforma urbanistica”? Ci sembra di dover sostenere che hanno torto quanti affermano che la crisi sostanziale coincida con il fallimento di quel “processo di riforma” che, avviato nei primi anni '60, era proseguito fino alla fine degli anni '70. Certo, quel processo ha incontrato limiti, ha conosciuto errori; epperò, ha anche accumulato positivi fattori di crescita. Ha contribuito in modo non irrilevante a produrre alcuni almeno di quegli elementi di novità che indubbiamente caratterizzano il nostro presente. Non abbiamo del resto già osservato, sia pure di sfuggita, che la stessa esigenza e domanda di qualità dell'assetto urbano e territoriale nasce anche dal fatto che i fabbisogni quantitativi, che esigenze minime di razionalità nell'uso almeno dei territori urbani, sono stati raggiunti?
Occorre allora - più che porre l'accento sulla sprovveduta e devastante rozzezza dell'on. Nicolazzi, sulla sordità delle forze politiche, sulla scarsa determinazione e continuità delle forze sociali, sugli equivoci e sui velleitarismi del mondo culturale - concentrare l'attenzione su di un nodo più interno. Crediamo infatti si possa sostenere che quel processo di riforma si è arrestato perché erano esaurite le ragioni che l'avevano provocato, erano divenute obsolete le forme nelle quali si era sviluppato, erano mutate le esigenze che ne costituivano il riferimento.
Tornano alla memoria le parole con cui Tolst oi descrive la morte del Generale Kutusov, l'uomo che esprime la Russia contadina e comanda l'armata dello Zar fino alla sconfitta di Napoleone, fino alla liberazione della Russia. Scrive Tolstoi: “Al rappresentante del popolo russo ora che il nemico era stato distrutto, la Russia liberata e posta al massimo della gloria, al russo come russo non restava più nulla da fare. Al rappresentante della guerra nazionale non restava altro che la morte. Ed egli morì”.
Quel “processo di riforma” si è arrestato non perché alcuni becchini lo hanno sepolto, ma perché è mutato il quadro delle esigenze e delle realtà che l'avevano reso necessario: perché non restava altro che arrestarlo. Non però - questo risulterà del tutto evidente al lettore - perché non sia più necessario realizzare le condizioni idonee a garantire l'esercizio di un efficace e trasparente governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali; non perché non siano necessarie profonde riforme nell'assetto proprietario, in quello delle istituzioni, come in quello degli strumenti e delle tecniche. Ma perché è oggi necessario un nuovo “processo di riforma”, che sappia assumere come proprie coordinate i nuovi affioranti bisogni, le nuove condizioni strutturali, e insomma quel complesso di elementi che determinano, nel nostro Paese, una realtà soggettiva e oggettiva profondamente diversa rispetto a quella che, trentacinque anni fa, stimolò e alimentò il processo rinnovatore che abbiamo conosciuto.
È così, è lavorando in questo spirito, che è possibile uscire dalla “crisi” dell'urbanistica. Cogliendo appunto, come all'inizio dicevamo, il suo carattere di frattura rispetto al passato, la necessità che essa pone di superare antiche categorie, il rischio in essa implicito (ma implicito in ogni crisi) di regressione. Cogliendo però anche tutte le potenzialità presenti: da quelle soggettivamente maturate nella fase ormai trascorsa, a quelle oggettivamente provocate dalle mutate condizioni strutturali.
Perché, quando, come fu prodotto il fotopiano? A queste domande voglio sinteticamente rispondere per far sì che il lettore, navigando all’ interno di questo meraviglioso prodotto della scienza e della tecnica moderne (lo strumento, il CD-rom) e della scienza e della tecnica storiche (l’ oggetto, Venezia), sappia un po’ del suo spessore.
Nel 1980, a Venezia, era stata rieletta la maggioranza di sinistra e ricostituita la giunta. Esaurito il tentativo di correggere e attuare i piani particolareggiati del 1974, mi posi l’obiettivo (ero di nuovo assessore all’urbanistica) di avviare una pianificazione del tutto rinnovata. Per farlo, strumento indispensabile era una cartografia di qualità adeguata. Per la città storica, la qualità del sito e il livello di dettaglio che volevamo dare al nuovo PRG erano tali da richiedere un prodotto d’eccezionale contenuto cognitivo. Da qui nacque la decisione di avere, tra gli strumenti, un fotopiano a colori in una scala di precisione topografica: quella del rapporto 1:500 ci parve adeguata.
Edgarda Feletti, allora dirigente dell’ufficio centro storico dell’ assessorato all’urbanistica e protagonista della costruzione e della gestione del fotopiano, gettò le basi del progetto. Insieme scegliemmo gli esperti che avrebbero dovuto aiutarci come collaudatori (Rosa Bonetta dell’IUAV e Corrado Mazzon del SIFET ), e per la messa a punto e l’attuazione del progetto (l’ impareggiabile Mario Fondelli, che ci guidò passaggio dalla concezione tradizionale a quella digitale del sistema cartografico, di cui il fotopiano costituiva il primo tassello).
Le gare (per il fotopiano, per le riprese aeree per la cartografia, per la restituzione cartografica) furono bandite nel 1981. La commissione giudicatrice scelse la Compagnia Generale Ripresearee del comandante Licinio Ferretti. Mai scelta si rivelò più oculata. Ferretti fece un lavoro splendido, e seppe rischiare. Prima ancora che il contratto con il Comune fosse stipulato e che fossero rilasciate le autorizzazioni, la CGR non seppe rinunciare ad approfittare di una giornata eccezionalmente limpida (il 25 maggio 1982) e volò: eseguì le riprese (78 strisciate, 1129 fotogrammi) in un solo giorno per il centro storico, in tre giorni successivi per il resto del territorio della Laguna e della Terraferma.
Un anno quasi impiegammo nel tentativo di rimuovere le richieste dell’ amministrazione militare di cancellazione degli “obiettivi strategici” ;. Ci aiutò Andrea Manzella, allora Capo di gabinetto del ministro della Difesa Spadolini. Ma raggiungemmo il successo solo quando, ottenuto un appuntamento con il comandante dell’IGM, gli portammo a Firenze i primi campioni del fotopiano. Il generale Zanetti comprese che non si poteva mutilare un’opera così eccezionale (per l’oggetto, e per la tecnica impiegata) mascherando con i mprobabili aiuole l’Arsenale o l’Ospedale civile: come era stato fatto, pochi anni prima, per il fotopiano alla scala 1:5.000 della Regione.
Secondo il contratto la CGR doveva consegnarci tre copie fotografiche delle 186 tavole a colori relative alla città storica: una per lavorarci, una per il pubblico, la terza da archiviare. Appena vedemmo il prodotto comprendemmo subito che non era possibile tenerlo per noi: chiunque, a Venezia e nel mondo, avrebbe voluto vederlo, goderne, utilizzarlo. Facemmo una gara ulteriore. Scrivemmo a 22 editori italiani chiedendo chi fosse interessato alla commercializzazione del prodotto. Ponemmo una sola condizione: il primo dei prodotti ricavati dal fotopiano doveva essere la sua riproduzione originale e integrale, in piena fedeltà del formato, dei colori, dei segni; la precisione doveva restare quella di una carta topografica alla stessa scala.
Solo la Marsilio Edizioni si dimostrò interessata, e chiese di vedere le tavole. Emanuela Bassetti, amministratore delegato, s’innamorò del prodotto. Lavorò intensamente per trovare sponsor che condividessero le ingenti spese d’impianto, e per risolvere i mille problemi tecnici che si ponevano. Nacque così l’edizione Venezia forma urbis , presentata all’opinione pubblica nel 1985, e poi i fortunati “sottoprodotti” ;. L’ Atlantedi Venezia (poi tradotto in edizioni inglesi e francesi, dalla Princeton Press e da Flammarion), e il diffusissimo poster miniaturizzato alla scala di 1:3.623.
Con questo CD-Rom il fotopiano acquista un’altra dimensione ancora. Si può navigarci dentro, percorrerlo in tutte le direzioni, scegliendo quale, dei mille luoghi di Venezia, ammirare da 1.000 metri d’altezza. Una sensazione altrettanto intensa quanto quella che dovettero avere i tecnici della flotta del comandante Ferretti quando, quel 25 maggio 1982, sorvolarono la città più bella del mondo per assicurarne a tutti la veduta dall’alto.
Una legge di sinistra? No, una legge liberale, quella che un gruppo di “amici di Eddyburg” ha presentato alla Sala delle colonne della Camera dei deputati.
Liberale come erano quegli uomini che, per promuovere la crescita del profitto e del suo reinvestimento nel processo produttivo, contrattavano il prezzo dell’indispensabile “merce” costituita dalla forza lavoro, ma colpivano senza risparmio la rendita, considerandola una componente meramente parassitaria dell’economia. Colpivano oppure, in Italia, predicavano la necessità di colpire, non avendo avuto compiutamente la forza di farlo. “Prediche inutili” intitolò un grande liberale, Luigi Einaudi, una collana di aurei libretti.
Liberale come erano quegli uomini che compresero molto presto che esistono questioni che il mercato, essenziale per misurare il valore di scambio delle merci, non solo non sa affrontare, ma anzi continuamente aggrava se lasciato libero a se stesso. Il metodo della pianificazione urbanistica, ossia della decisione a priori delle trasformazioni da promuovere o consentire nel territorio della città (del suo disegno) non fu inventata nei paesi del socialismo reale, ma in quelli del capitalismo avanzato. E ovunque vigesse un regime democratico la responsabilità ne fu affidata agli istituti che esprimevano la collettività: le comunità locali, lo stato,le “autorità” espressive del popolo.
L’Italia è un paese strano. La rendita (immobiliare e finanziaria) non è avvertita come un impiego alternativo di risorse rispetto alla crescita dell’accumulazione (quindi alla ricerca di innovazioni, al miglioramento della qualità del prodotto, all’aumento dei salari e quindi del potere d’acquisto dei consumatori), da contrastare e ridurre per aumentare il “tasso di capitalismo”, il peso e l’efficacia della produzione industriale, la concorrenza sul mercato globale. È considerata invece come un fattore di sviluppo. Certo che lo è, ma solo per le ricchezze personali dei suoi percettori, non per la ricchezza del paese.
Del tutto omogenea a questa impostazione italiota è la “legge Lupi” sulla pianificazione urbanistica, approvata dalla Camera (ma non dal Senato) nella passata legislatura. Una legge che smantellava il potere pubblico della pianificazione e attribuiva un ruolo centrale alla proprietà immobiliare, Una legge che, sull’onda delle fortune del neoliberismo e della diffusione di slogan come “meno stato e più mercato”, “privato e bello” e simili, ha incontrato qualche simpatia anche a sinistra, tanto che si è potuta chiamarla una legge bipartisan.
La legge degli “amici di Eddyburg” nasce per contrastare la legge Lupi e per dare una risposta positiva alla domanda di rilancio della pianificazione del territorio: un rilancio aggiornato, che risponda alle nuove domande e alle nuove attese. La legge si apre con un’affermazione forte: il territorio è un bene comune, e la responsabilità del suo governo appartiene ai poteri pubblici, che la esercitano impiegando il metodo e gli strumenti della pianificazione territoriale e urbana.
Oltre al ripristino dei principi cardine della pianificazione, due temi sono posti al centro della legge: il consumo di suolo e i diritti delle cittadine e dei cittadini all’uso della città.
Ridurre il consumo di suolo, contrastare la proliferazione delle urbanizzazioni e la sottrazione di terreno al ciclo naturale, eliminare gli sprechi (di tempo, soldi, energia, terra) dovuti alla disseminazione di funzioni urbane su vaste aree: sono tutte facce d’un fenomeno che moltissimi stati europei (e USA) stanno contrastando da molto tempo. In Italia, non c’è nemmeno una misura ufficiale dell’entità del fenomeno: si sa solo che è gigantesco e che distrugge qualità, funzionalità, risorse in misura crescente. La stessa pianificazione urbanistica corriva agli interessi immobiliari e a uno ”sviluppo” misurato in metri cubi edificabili, spesso lo promuove. La proposta di Eddyburg suggerisce alcune prescrizioni che, se adottate, permetterebbero finalmente di combatterlo.
Nella stagione delle riforme (quelle vere, negli anni 60 e 70), grazie alla sollecitazione del movimento delle donne e delle più avanzate esperienze amministrative, si era riconosciuto il diritto di ogni cittadino della Repubblica a godere di una determinata dotazione minima (standard) di aree da utilizzare per spazi e servizi pubblici. Questo diritto era stato “regionalizzato” e reso opzionale dalla legge Lupi. Il testo di Eddyburg lo conferma e lo ribadisce, e lo estende ad altri diritti sociali cui la pianificazione urbanistica deve dare il suo contributo: il diritto a un’abitazione decorosa a un prezzo compatibile con la capacitò di spesa, il diritto ad accedere alle diverse funzioni presenti sul territorio con un sistema di mobilità efficace e non costoso. Il che non significa solo mezzi di trasporto efficaci, ma in primo luogo corretta distribuzione degli insediamenti sul territorio.
Camminerà la proposta degli “amici di Eddyburg”? Lo vedremo, forse, già nei prossimi giorni.
Qui l'articolato e qui la relazione della proposta di legge di principi per la pianificazione del territorio
Nella stessa pagina un servizio del giornale annunciato così: «Marco Di Lello, dopo la bocciatura del Tar dell'Auditorium di Ravello, promette: cambieremo il Piano urbanistico. E Bassolino telefona al sindaco di Ravello: Insisti, sono con te»
Non erano pretestuose le critiche, non erano infondati gli allarmi sollevati per fermare chi pretendeva di costruire una “opera d’arte” là dove la legge non lo consentiva. Realizzare un auditorium lì, in quel posto, è illegittimo. Così ha stabilito il TAR, rivelando la fragilità delle spericolate “relazioni tecniche stragiudiziali” con le quali (generosamente arrampicandosi su lucidi specchi) si pretendeva di giustificare l’ingiustificabile. Intendiamoci, quella del TAR non è una sentenza definitiva. È aperta la strada del ricorso al Consiglio di Stato, sebbene non sembri (a scorrere i primi commenti) che i promotori dell’auditorium vogliano ricorrervi. A proposito dei commenti, meraviglia la meraviglia manifestata da molti per la sentenza del TAR. Il tribunale amministrativo si era già pronunciato una volta, quando aveva sospeso l’approvazione del PRG proprio perché localizzava lì un auditorium; perché mai il medesimo collegioavrebbe dovuto valutare legittimo ciò che pochi anni fa legittimo, a suo parere, non era?
Colpisce invece l’arroganza di quanti (come De Masi, come Di Lello) dichiarano subito che si dovrà fare (o che si farà) una variante ad hoc per poter eludere la legge. Colpisce e scandalizza, non meraviglia: questi anni ci hanno abituato all’impiego personalizzato della legge. Il maestro di questo sistema siede a palazzo Chigi (anzi, a palazzo Grazioli). Al di là della ferita al paesaggio (che per me sarebbe tale, ma che è certamente questione sulla quale sono legittime opinioni diverse) ciò che mi ha preoccupato fin dal primo momento è stato proprio questo atteggiamento. La legge, che vale per tutti, non consente di realizzare un interventi che a Tizio o a Sempronio sembra interessante? Ebbene, modifichiamo le legge per Tizio o per sempronio. Un uomo di governo dovrebbe sapere che, una volta che ha concesso questo strappo, altri ne seguiranno, e quello che oggi concede a Ravello domani dovrà consentirlo a Maiori o ad Atrani, che presenteranno magari progetti firmati da Libeskind o da Isozaki, magari per realizzare un albergo essenziale per l’agibilità di una grande mostra del cinema.
So bene (l’ho documentato sul mio sito eddyburg.it) che la costa su cui si voleva costruire l’auditorium è scempiata da interventi brutti, abusivi e comunque tollerati da attori insensibili al bello. Vi sembra proprio un pretesto per continuare ad aggiungere nuove illegittimità? È questo il “senso dello Stato” che è maturato in questi anni, in intelligenze aperte e sensibili come quelle di molti difensori dell’auditorium? Constatarlo mi amareggia. Come mi amareggia leggere, da chi ha responsabilità di governo, che si vorrebbe non sostituire il PUT con un altro piano paesistico, ancora più serio, accurato, documentato di quello oggi vigente, ma violentarlo con una variante ad hoc. Negando, con l’esprimere questa intenzione, il principio stesso della pianificazione, sulla cui corretta applicazione ogni amministratore pubblico dovrebbe invece vigilare.
Sullo stesso argomento:
Eddytoriale n. 35 del 19 gennaio 2004
Eddytoriale n. 42 del 2 maggio 2004
e molti altri scritti nella cartella
SOS -SOS - SOS / Ravello
Il rogo che ha devastato una parte del mulino Stucky di Venezia farà ancora discutere nelle sedi giudiziarie, dove andranno accertate eventuali responsabilità. Tra le fiamme è andata distrutta proprio l'area del complesso che nei piani originari «avrebbe dovuto essere utilizzata dal Comune per ospitare diversi archivi attualmente sparsi nella città» - spiega Edoardo Salzano, professore ordinario di urbanistica del Dipartimento di pianificazione dell'Università degli studi Iuav e consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale. Al di là dei risvolti giudiziari futuri, l'incendio dello Stucky è l'occasione per ragionare con Salzano - un artefice del piano regolatore generale del centro storico di Venezia nei primi anni Ottanta - di politiche urbanistiche, del ruolo dell'intervento pubblico e delle trasformazioni che molte città subiscono in seguito alla dismissione delle aree industriali. Sul complesso del mulino Stucky esistevano già da tempo dei progetti nei piani regolatori di Venezia. E' così?
Ai tempi della prima giunta Cacciari, quando hanno cambiato il piano regolatore che avevamo fatto noi qualche anno prima, hanno trasformato la destinazione d'uso anche nel caso dello Stucky. Nel piano precedente lo Stucky doveva essere destinato per un quarto ad alberghi, un quarto a centro congressi, un quarto all'edilizia convenzionata - alloggi a costi moderati - e un quarto al Comune. Al Comune doveva andare la parte dei silos - peraltro difficilmente utilizzabile per altre cose senza distruggerla completamente. Si tratta, infatti, di un edificio cieco con grandi solai e tramogge, un magazzino dove in origine erano conservate le granaglie. Per questo pensavamo di concentrare là tutti gli archivi del Veneto - oltre a quello di Stato ci sono una serie di archivi sparsi per la città. A me sembra che sia proprio una singolare coincidenza che si sia bruciata proprio questa parte. Qualche dubbio mi viene.
Sta di fatto che è andata distrutta l'unica porzione del complesso che doveva ospitare servizi pubblici. Per quanto riguarda le responsabilità saranno le autorità giudiziarie, naturalmente, ad indagare. Diversamente, per la valutazione politica si possono già fare alcune riflessioni. Negli ultimi anni la preponderanza del privato nell'urbanistica e nella gestione del territorio ha prodotto molti danni. Non è ora di ripensare a un rilancio del pubblico?
Si è fatta, a mio parere, un'operazione politicamente sbagliata, cioè rinunciare ad avere una presenza pubblica là dentro e dare ai privati e alla destinazione alberghiera la prevalenza. Ora, anche quella parte che difficilmente potrebbe essere trasformata in un albergo senza distruggerla completamente, viene fortunosamente colpita da un incendio. La mosca nel brodo c'è.
A quali anni risale il piano originario?
Si iniziò a discuterne alla fine degli anni Settanta. La linea della giunta della sinistra - non solo, anche di tutto il consiglio comunale di allora - era che a Venezia si dovessero fare case nuove ma pubbliche. Dato che la possibilità di costruire nuovi alloggi erano - e sono - pochissime, si era deciso di affidare quel poco esclusivamente all'edilizia pubblica. La massima tolleranza verso il privato era prevista con lo Stucky. Il complesso è una sorta di lotto allungato e diviso in quattro quadranti. I due quadranti sul davanti che affacciano sul canale della Giudecca sono monumentali, mentre l'architettura sul retro è in uno stato fatiscente, passibile quindi d'esser fortemente ristrutturata. Avevamo quindi destinato uno dei quadranti posteriori all'edilizia residenziale convenzionata, cioè fatta dal privato ma con una convenzione molto rigida con il Comune e a prezzi controllati. Avevamo aperto una trattativa con la proprietà che era d'accordo su tutto, salvo sulle case. Si era d'accordo sull'affidare al Comune la gestione di quell'ala ora andata distrutta, sull'albergo verso il canale della Giudecca, sul centro congressi e sulle residenze convenzionate. Quando la giunta in cui era assessore Stefano Boato, ha presentato il piano regolatore del centro storico - che ho iniziato a fare io - e portato all'approvazione del consiglio dalla giunta di centrodestra di Laroni, addirittura, lì, nella scheda relativa all'area Stucky, sono state riprese queste indicazioni. Questo accadeva, se non ricordo male, nel '92. Poi quando è subentrata la giunta Cacciari hanno privatizzato tutto. Più nel dettaglio, hanno reso private le case nuove che si costruiscono dietro e dato agli alberghi anche i silos che avevano una destinazione pubblica.
Come riflessione più generale bisogna affrontare il nodo della gestione del patrimonio artistico delle città italiane nel quale non rientrano soltanto i monumenti tradizionalmente intesi, ma anche quelle aree ex-industriali abbandonate nel tempo che assumono un valore urbanistico, se non persino artistico. Non crede che occorra ridefinire l'idea di territorio e rilanciare l'intervento pubblico?
Sì. Accanto allo Stucky - è una curiosità - lo stesso architetto ha costruito un edificio molto più piccolo, la Birreria Dreher. La comprammo come Comune per attuare una bella riconversione. Ne ricavammo 44 appartamenti in edilizia popolare.
Con la giunta Cacciari le cose son cambiate, e hanno iniziato a prevedere anche l'edilizia privata.
Il quartiere della Giudeca, limite estremo meridionale della città verso la laguna aperta, è sempre stato un quartiere popolare. Mantiene tuttora questo profilo?
In origine era un quartiere di orti e conventi, poi è diventato un grosso quartiere operaio legato a quei tentativi di industrializzazione moderna, falliti abbastanza rapidamente, che vanno dallo Stucky alla Dreher alla junghans, una fabbrica di strumenti di precisione, fino ai tradizionali cantieri. Quell'industria, eccetto la cantieristica, è crollata. La Giudecca è stata un quartiere di edilizia economica popolare, cresciuto soprattutto negli anni Sessanta. Un esempio di questa edilizia comunale è l'intervento che facemmo dietro lo Stucky, nell'area Trevisan. E' sempre stata una zona popolare. Ma in questi ultimi anni sta avendo una fortissima trasformazione, sia con le case nuove che hanno costruito nell'area ex-junghals e nel lato opposto dell'isola, sia con il mega-albergo di lusso attualmente in costruzione. E' in atto una trasformazione surrettizia degli alloggi in camere d'affitto, un fenomeno devastante.
La legge urbanistica del 1942
Una buona legge urbanistica, quella che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni approvò nel luglio del 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale [1]. A rileggerla oggi così come allora fu approvata, sfrondata cioè dalle integrazioni e superfetazioni che la imbarocchirono, essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile e implementabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti: come del resto è necessario che una buona legge sia.
E’ questa legge che costituisce il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente (sia quelle nazionali fino al 1970, sia quelle emanate dalle regioni dopo la loro istituzione) hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte (soprattutto nell’immediato dopoguerra e nel corso degli anni ‘80) hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Conviene perciò ricordare gli elementi essenziali della “legge madre” dell’urbanistica italiana.
Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.
Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio. A ben vedere, il rapporto tra PRG e PPE prefigura la distinzione tra due componenti della pianificazione, quella “strutturale” valida a tempo indeterminato, e quella “programmatica” riferita al tempo del mandato amministrativo, che è da qualche anno al centro del dibattito sull’urbanistica [2].
.La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Essa prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare,”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG, “le aree inedificate e quelle su cui insistano costruzioni che siano in contrasto con le destinazioni di zona ovvero abbiano carattere provvisorio”. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica fu adoperata, nell’immediato dopoguerra, dal Comune di Grosseto e da un piccolo comune in provincia di Roma, Vicovaro [3].
Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi di “area vasta”. Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.
Una buona legge quindi, quella del 1942, una legge moderna. Afferma l’urbanista Vezio De Lucia,
La nuova legge era stata preceduta da lunghi studi e non può essere liquidata tout court come una legge fascista. Nelle commissioni legislative del Senato e della Camera dei fasci e delle corporazioni si scontrarono i difensori ad oltranza della proprietà privata con quelli che alla proprietà intendevano porre dei limiti. Intervenne anche l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) che aveva elaborato una proposta basata sull'esproprio preventivo delle aree urbane. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva comunque dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”[4].
E il giurista Gianni Lanzinger:
La legge urbanistica approvata nell’agosto 1942 confermava e sistemava definitivamente non solo la destinazione delle aree ad opera dei pubblici poteri, ma conteneva anche una nuova conformazione della proprietà edilizia tale da superarne la concezione antistorica di inviolabilità. Ne veniva cioè cambiato regime e struttura senza cambiarne l’appartenenza. (...) La legge 1150/1942 è dunque un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio”[5]
La legge urbanistica del 1942 aveva posto le premesse per un possibile razionale governo del territorio e dell’attività edilizia. Come mai i suoi esiti sono stati così deludenti? La risposta è negli avvenimenti della guerra e del dopoguerra. Negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione, fino al 1945, gli eventi bellici non permisero di applicarla, e - più sostanzialmente - provocarono distruzioni ingenti e diffuse. E’ poi nell’immediato dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà (a volte contraddetto e contrastato, a volte sviluppando una piena e dispiegata egemonia) nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.
I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. È colpito il patrimonio abitativo, le infrastrutture: sono distrutti più di tre milioni di vani, un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono accentuati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Drammatico il problema della casa; già prima della guerra la siduazione era pesante: nel censimento del 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze.
In molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione[6]: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto: qualche macchia di colore su di una carta per indicare le zone d’espansione, qualche segno nella città edificata per indicare i nuovi allineamenti.
Finalità dei piani di ricostruzione doveva essere di “contemperare le esigenze inerenti ai più urgenti lavori edilizi con la necessità di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati, e ciò attraverso soprattutto una procedura più semplice di quella prevista per i piani regolatori”[7]. In realtà la logica dei Prg fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.
La legislazione speciale per l’”emergenza” della ricostruzione fu impiegata per molti anni, ben al di là del cessare dell’esigenza che l’aveva giustificata: i piani particolareggiati del centro storico di Venezia adottati nel 1974, trent’anni dopo la fine della guerra, furono formati sulla base di quelle semplificate disposizioni. In realtà la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni (a differenza che in altri paesi europei) fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.
Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.
Da una parte, su terreno strettamente economico, a differenza dell’industria, “iI settore edilizio si prestava ottimamente al ruolo trainante, o quanto meno di collaborazione” alla ripresa economica, “sia perché non richiedeva in partenza né impianti costosi, né imprenditori particolarmente esperti, né mano d'opera qualificata, né materiali di importazione. sia perché rispondeva ad una esigenza sociale sentitissima che era quella della ricostruzione fisica delle città e della dotazione individuale di una dimora sicura come bisogno primordiale”[8]. E del resto, in una fase in cui l’ingresso dell’economia italiana nel mercato internazionale cominciava a svelare la marginalità di parti consistenti del settore agricolo (artificiosamente gonfiato dalla politica fascista dell’autarchia), e si manifestavano i primi segni di quel drammatico esodo dalle campagne che caratterizzò gli anni ‘50 e ‘60, il settore delle costruzioni si dimostrava particolarmente idoneo a svolgere una funzione di volano nel passaggio della mano d’opera dall’agricoltura all’industria. Per un contadino, il passaggio a manovale e poi a muratore era l’inizio di un’apprendistato che lo avrebbe reso idoneo alla “moderna” catena di montaggio dell’industria.
Dall’altra parte, il ruolo socialmente stabilizzatore della proprietà della casa contribuiva a rinsaldare ed estendere il consenso attorno al blocco politico aggregato attorno alla Democrazia cristiana. Era un ruolo, insomma, in piena sintonia con le politiche di consolidamento ed espansione della piccola proprietà contadina, e di forte sostegno allo sviluppo della motorizzazione individuale di cui in quei medesimi anni si ponevano le basi.
Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.
Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, come osserva AlessandroTutino
richiede che non si pianifichi: per molto tempo infatti, dal dopoguerra fino praticamente agli anni '60, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o apertamente boicottata dagli organi più politicizzati del governo, cioè soprattutto dal ministero dell'interno tramite le prefetture. Per questo preciso scopo dunque dal 1945 al 1964 circa i comuni sono stati assiduamente educati a non pianificare: quelli che, ribelli all'autorità educatrice, hanno voluto farlo a tutti i costi, si sono trovati in pratica a operare come isole di difficile penetrazione dell'iniziativa privata in un mare aperto dove viceversa tutto era possibile, e si sono trovati perciò rapidamente in oggettiva difficoltà di fronte ai loro stessi elettori [9].
E mentre su un versante si ostacola l’impiego degli strumenti della legge urbanistica del 1942, dall’altro lato si avvia un’azione di smantellamento del patrimonio abitativo pubblico. Come affermavano allora i governanti, bisognava sostenere la proprietà privata a spese del denaro pubblico: occorreva dare “a riscatto” agli assegnatari le case costruite dallo Stato:
l'assegnazione di case a riscatto non soltanto fa fare notevoli economie sulle spese di manutenzione e di amministrazione, ma influisce moltissimo sulla psicologia morale e politica dell'assegnatario (...). Sul piano sociale, su quello politico, su quello morale ritengo che accrescere le garanzie delle libertà degli italiani, costituendo per ciascuno di essi un patrimonio (mobiliare o immobiliare), sia una buona cosa [10].
Con quest’obiettivo, poco prima delle elezioni politiche del 1958 [11], il Parlamento approva una legge-delega, che demanda al governo la formulazione di norme per la “cessione in proprietà a favore degli assegnatari degli alloggi di tipo popolare ed economico costruiti o da costruire a totale carico dello stato, ovvero con il suo concorso o contributo”; di tutte le abitazioni, cioè, di proprietà pubblica. Carlo Melograni, Aldo Natoli e Franco Berlanda furono tra i pochissimi che presero una posizione decisamente contraria.
Così, a conclusione di un dibattito evidentemente troppo affrettato, si e deciso di liquidare un grande patrimonio pubblico, risultato di un’attività di più di cinquant'anni (...). La nuova legge segue un indirizzo, oggi in voga, da combattere: quello di rifiutare le soluzioni di fondo ricorrendo ad accomodamenti caso per caso; di far tacere una parte di coloro che reclamano un giusto diritto, come quello di avere un alloggio con una pigione non alta, dando loro un singolare vantaggio: quello di poter acquistare un alloggio a condizioni speciali [12].
Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.
All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola. Nel 1951 l'agricoltura assorbe il 42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali. Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel decennio 1961-1971 il processo continua: malgrado il raddoppio degli investimenti industriali nel sud, gli addetti all'industria crescono solo di 80 mila unità mentre al nord salgono di 350 mila unità. Contemporaneamente il meridione perde altri 900 mila addetti al settore agricolo. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6% [13].
Accanto a questa trasformazione, un’altra se ne registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Come afferma lo storico Paul Ginsborg
nel ventennio 1951-1971 la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963 (...).In tutto, fra il 1955 e il 1971, 9.140.000 italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali[14]
La coesistenza di un accentuato processo di urbanizzazione e di un forte esodo, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese. determinano due fondamentali ordini di problemi. Nelle zone di esodo, la scarsità di popolazione in ampie zone del territorio nazionale da luogo a gravissimi danni economici e compromette l’equilibrio ecologico e ambientale (mancanza di presidio fisico del territorio, sottoutilizzazione del “patrimonio fisso sociale” rappresentato dai centri urbani. dalle infrastrutture ecc.). Nelle zone di concentrazione, all'opposto. l’eccessiva “presenza” di abitanti negli spazi urbani genera notevoli inconvenienti che si ripercuotono sulle condizioni di vita nelle grandi città (carenza di alloggi a basso costo, di servizi, di trasporti pubblici, alto costo della vita, inquinamento, ecc.). Questi inconvenienti non dipendono tanto dalle dimensioni assolute delle maggiori città italiane (dimensioni che potrebbero apparire relativamente modeste se confrontate con quelle delle maggiori metropoli mondiali), quanto piuttosto dal modo disordinato con cui tali dimensioni sono state raggiunte.
Quello che comincia a delinearsi nella prima metà degli anni ‘60 è una crisi del modello di sviluppo economico-sociale che aveva prevalso negli anni precedenti. In effetti, all'inizio degli anni '60 lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica.
È l’Inu [15] a rompere il ghiaccio. All'VIII congresso, nel dicembre del 1960, viene presentata una proposta di riforma: è il cosiddetto Codice dell'urbanistica. L’Inu auspica l'istituzione delle Regioni e tenta di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica (di cui si comincia a parlare), attraverso l'istituzione di un Comitato nazionale di pianificazione (formato da ministri e presidenti delle regioni) e di un Consiglio tecnico centrale (a livello di alta burocrazia e di esperti urbanisti ) .
Il “codice” dell’Inu del 1960, a differenza delle proposte formulate nel corso della formazione della legge urbanistica del 1942, non prevede l'esproprio generalizzato dei suoli destinati all'edificazione, se non in casi eccezionali e territorialmente limitati. Per pubblicizzare, sia pure parzialmente, gli incrementi di valore delle aree urbane, e per stabilire, entro certi limiti, una perequazione di trattamento tra i diversi proprietari, viene proposto il meccanismo del comparto [16], oppure l’obbligo ai proprietari di cedere gratuitamente al comune, nelle zone di espansione, una quota del 30 per cento dell'area totale da destinare ad attrezzature pubbliche e di sostenere le spese di urbanizzazione primaria. Per incidere sulla rendita fondiaria è previsto anche un più deciso ricorso agli strumenti fiscali.
La proposta dell’Inu si inquadra nel cambiamento politico in corso, che vede spostarsi la DC, dall’alleanza con i partiti “minori” del centro (repubblicani, liberali e socialdemocratici), spesso aperta verso le formazioni della destra, all’alleanza con il Partito socialista italiano (PSI), in quegli anni ancora solidamente legato al PCI. La programmazione economica, la riforma urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica sono alcuni dei temi sui quali si polarizza il dibattito politico in vista della partecipazione dei socialisti al governo. Di riforma urbanistica si comincia a parlare concretamente anche in sede ministeriale. Ministro dei Lavori Pubblici del governo Fanfani è Benigno Zaccagnini, che insedia nel 1961 una commissione per la riforma urbanistica [17]. La proposta è resa pubblica nel settembre del 1961: resta sostanzialmente nel solco dei princìpi della legge del 1942, pur contenendo perfezionamenti di carattere tecnico e procedurale. Anche questa proposta non risolve il problema dell'acquisizione, a favore della collettività, della plusvalenza delle aree e della disparità di trattamento fra i proprietari immobiliari in relazione alle destinazioni d'uso stabilite dai piani.
Autore della proposta più innovativa e coraggiosa è Fiorentino Sullo ministro dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962, esponente dell’ala riformista della DC. Preso atto che “la stragrande maggioranza degli urbanisti non si dichiarava d'accordo” con lo schema elaborato dalla commissione insediata da Zaccagnini, ricostituisce la stessa commissione, integrandola con giuristi, economisti, sociologi[18].
La riforma è impostata su basi completamente nuove. Il progetto stabilisce che l'indirizzo e il coordinamento della pianificazione urbanistica debbono attuarsi nel quadro della programmazione economica nazionale ed in riferimento agli obiettivi fissati da questa. La pianificazione urbanistica si articola, sia nella fase regionale che statale, agli stessi livelli previsti dal progetto Zaccagnini: piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato.
Il piano regolatore generale e quello comprensoriale sono obbligatoriamente attuati per mezzo di piani particolareggiati, nel cui ambito il comune promuove l'espropriazione di tutte le aree inedificate e delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato, nonché delle aree che successivamente all'approvazione del piano particolareggiato vengano a rendersi edificabili per qualsiasi causa. E’, in sostanza, una ripresa e, soprattutto, una generalizzazione della facoltà ammessa dall’articolo 18 della legge urbanistica del 1942.
Acquisite le aree, il comune provvede alle opere di urbanizzazione primaria e cede, con il mezzo dell'asta pubblica, il diritto di superficie sulle aree destinate ad edilizia residenziale, che restano di proprietà del comune. A base d'asta viene assunto un prezzo pari all'indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione e di una quota per spese generali. L'indennità di espropriazione è determinata, per i terreni non edificati e non aventi destinazione urbana prima dell'approvazione del piano, in base al prezzo agricolo; per i terreni non edificati, ma aventi già destinazione urbana, in base al prezzo dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione, aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo fissato da un comitato di ministri, e infine, per i terreni edificati, in base al valore di mercato della costruzione.
Lo schema Sullo modifica profondamente il regime proprietario delle aree: di proprietà privata resta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree - edificate o edificabili - passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani. In un primo momento sembra che la proposta sia destinata a passare. Ma nell’aprile 1963 (le elezioni sono fissate per il 28 aprile) si scatena “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa contro il Ministro dei lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. È lo stesso Sullo che racconta:
A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa. (...) Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento, nell'ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si sarebbe potuto fare a meno. Non c'era che una strada: spiegare al video a milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito dalle mie. Fui sbalordito per l'oggettiva ingiustizia morale verso di me [19].
Con una “dolorosa nota” del 13 aprile Il Popolo comunica che la DC dissocia la propria responsabilità dall'operato del suo ministro. “Sullo era stato piantato in asso, e così ogni prospettiva di una reale pianificazione urbanistica in Italia”, commenta Paul Ginsborg[20].
Sullo resta ministro dei Lavori pubblici nel “governo ponte” presieduto da Leone nell'estate del 1963, ma alla costituzione del primo governo organico di centro sinistra, nel dicembre 1963, viene sostituito dal socialista Pieraccini.. Negli accordi interpartitici per la formazione del governo Moro, viene concordato che la riforma urbanistica deve assicurare la preminenza dell'interesse pubblico, attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie e la posizione di “indifferenza” dei proprietari rispetto alle scelte di piano. Su queste basi viene elaborato il disegno di legge Pieraccini: si conserva il principio dell'esproprio generalizzato, l'indennizzo però non è pari al prezzo agricolo ma è rapportato al valore di mercato del 1958. Il diritto di superficie è abolito e sono esonerati dall'esproprio le aree interessate da progetti presentati prima del 12 dicembre 1963. Mentre la proposta di legge cade insieme al governo, in tutta Italia vengono rilasciate una valanga di licenze edilizie.
Nella vicenda della riforma urbanistica aveva vinto in definitiva quello che Valentino Parlato, qualche anno dopo, definirà “il blocco edilizio”: un blocco sociale ed economico nel quale, attorno agli stati maggiori della proprietà fondiaria urbana, della grande proprietà immobiliare e del capitale imprenditoriale e finanziario (volta a volta alleati alle forze della rendita o in timido conflitto con loro), si aggregano le “fanterie” dei piccoli proprietari di case o aspiranti tali, dei risparmiatori, degli artigiani e dei lavoratori legati alla produzione edilizia[21]. L’asprezza dello scontro, e quindi il peso politico del “blocco edilizio”, è rivelato pienamente da un retroscena che emerse alcuni anni dopo, quando si scoprì che parte determinante nel convincere i leader del centro-sinistra ad abbandonare ogni ipotesi di riforma urbanistica ebbero le voci, rivelatesi fondate, di una minaccia di colpo di Stato guidata dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo[22]
A Sullo Ministro dei lavori pubblici si deve l'approvazione della legge n. 167 del 1962 “per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare”, i cui studi preparatori erano stati avviati fin dal 1951[23].
La “167” è una legge di settore. Essa si propone in primo luogo di porre fine alla prassi seguita fino ad allora nella localizzazione degli insediamenti di edilizia economica e popolare da parte dei comuni, degli Istituti autonomi per le case popolari e dalla miriade di enti che erano stati via via beneficiari di provvedimenti per la costruzione di edilizia a basso costo. Le aree venivano scelte infatti là dove il loro costo era più basso, o magari dove apparenti benefattori le cedevano sottocosto per ottenere la valorizzazione dei terreni circostanti[24]. Ciò provocava effetti distorcenti sull’assetto urbano, ed era una delle cause della vanificazione dei piani regolatori. La legge prescrive preciò che le aree per l’edilizia economica e popolare siano scelte all’interno di quelle destinate dai piani all’espansione.
I quartieri di edilizia economica e popolare avevano dato luogo, negli anni del dopoguerra, alla formazione di quartieri caratterizzati da una forte segregazione sociale. Ciò dipendeva dal fatto che ciascun ente operava in modo del tutto separato dagli altri, ogni intervento era un episodio a se stante. E poiché ogni intervento era finalizzato e riservato a una determinata categoria di cittadini (impiegati dello Stato, o sfrattati, o cittadini appartenenti a categorie particolarmente disagiate e così via), ecco che ogni quartiere era abitato da una sola categoria di inquilini, e generalmente del tutto privo di servizi sociali. La legge prescrive invece che nelle aree individuate dai piani per l’edilizia economica e popolare (PEEP) si inseriscano non solo tutti gli interventi programmati dai vari enti ma anche (per assicurare una composizione sociale più ricca e complessa) una quota significativa di interventi privati non finanziati, diretti cioè al “mercato libero”.
Ma la finalità primaria della legge è l’agevolazione dell’acquisizione, da parte dei comuni, delle aree da destinare all’edilizia economica e popolare, soprattutto al fine di renderne più agevole l’acquisizione e di ridurre l’incidenza della rendita fondiaria sul costo finale dell’alloggio. La legge stimola perciò i comuni a costituirsi patrimoni di aree da urbanizzare e rivendere ai privati per lo svolgimento di attività edilizia di tipo economico e popolare. Ai comuni viene data la possibilità di acquisire le aree mediante esproprio attraverso un meccanismo che avrebbe dovuto assicurare una consistente riduzione delle plusvalenze formatesi in dipendenza dell'espansione delle città ed un'azione calmieratrice sul mercato dei suoli: l’indennità veniva infatti commisurata non al valore delle aree nel momento dell’espropriazione, ma a quello che esse avevano due anni prima della formazione del piano.
Il meccanismo previsto per l'acquisizione delle aree veniva però dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 22 del 1965) in quanto la dissociazione del momento in cui viene determinata la indennità da quello dell'espropriazione, può condurre ad una liquidazione dell'indennità in misura solo simbolica; ad avviso della Corte l'indennità deve costituire invece un “serio ristoro” del danno patrimoniale subìto dall'espropriato. In sostituzione degli articoli dichiarati illegittimi fu promulgata la legge n. 904 del luglio 1965 con la quale, per la determinazione dell'indennità di espropriazione, si fa ricorso alla legge di Napoli del 1885, cioè, sostanzialmente, alla media tra il valore venale e la capitalizzazione del reddito catastale.
Nel 1964 la crisi edilizia, che ciclicamente riaffiora, è decisiva. La parola d'ordine prevalente è che prima di porre mano alla riforma bisogna tornare alla “normalità”. La riforma urbanistica esce di scena.
Il suolo italiano, intanto, viene riempito di lottizzazioni edilizie. Da una inchiesta del Ministero dei lavori pubblici si desume che solo in un quarto dei Comuni italiani (poco più di 2 mila) sono state autorizzate lottizzazioni per circa 115 mila ettari, per oltre 18 milioni di vani, quanti sarebbero sufficienti a colmare l'intero fabbisogno nazionale di alloggi fino al 1980[25]. Le zone investite dalle lottizzazioni sono il triangolo industriale, la pianura veneta, l'area romana e napoletana, nonché quelle di maggior pregio paesaggistico, come le coste. La localizzazione degli insediamenti e l'utilizzazione del suolo ubbidiscono esclusivamente alla convenienza dei proprietari, i quali accollano alle finanze comunali le spese per le opere di urbanizzazione. “Il lottizzatore italiano - scrive Michele Martuscelli, che ha diretto l'inchiesta - non è nemmeno un imprenditore, ma un semplice mercante dei terreni; il suo interesse per il completamento dell'iniziativa cade non appena la maggior parte dei lotti è stata venduta ed è stata intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario”[26].
L’episodio che riapre il dibattito sulla legislazione urbanistica, riportando al centro dell’attenzione il modo in cui avviene l’urbanizzazione del territorio, è la frana di Agrigento, che il 19 luglio 1966 fa crollare centinaia di alloggi e getta sulla strada migliaia di persone, miiracolosamente senza provocare vittime. La frana è stata causata dall'enorme sovraccarico edilizio: ben 8.500 vani costruiti negli ultimi anni, in contrasto con tutte le norme esistenti. Mancini, Ministro dei lavori pubblici, nomina una commissione d'inchiesta, presieduta da Michele Martuscelli. Nel settembre la “relazione Martuscelli” è resa pubblica. Un passo della relazione (che fu stesa da Giovanni Astengo) merita di essere ricordata:
Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l'aspetto sociale, civile ed umano [27].
L'impressione nel paese è enorme. Si apre un’aspro dibattito politico. Mentre una parte della stampa propaganda la tesi dell’imprevedibilità e della “naturalità” dell’evento, l’opinione prevalente è quella che viene efficacemente espressa nella lettera di trasmissione della Relazione Martuscelli, nella quale si sottolinea “la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite”, e si esprime l’augurio “che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Il problema, conclude la Commissione Martuscelli,
non può ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica - la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata - ; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l'adozione - eventualmente anche nella forma del decreto-legge - di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione [28].
Pochi mesi dopo, viene presentata al Parlamento la “legge ponte”: un simbolico ponte tra la situazione attuale (i guasti provocati dall’assenza di un ragionevole governo del territorio erano stati svelati all’opinione pubblica, oltre che dalla frana di Agrigento, anche dalle quasi contemporanee alluvioni di Firenze e acqua alta eccezionale di Venezia) e la riforma urbanistica, di nuovo desiderata e attesa.
Il 1° settembre 1967 viene emanata la “legge ponte”[29]. Essa limita le possibilità di edificazione nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici (che sono la grande maggioranza) e cerca di incentivare la formazione dei piani, anche con la previsione dell'intervento sostitutivo degli organi dello Stato in caso di inerzia dei comuni. L'intervento sostitutivo dello Stato e più rigide sanzioni sono previste anche per punire le illegittimità e gli abusi edilizi.
Uno dei punti centrali della legge è la disciplina delle lottizzazioni edilizie. La legge stabilisce che sono proibite le lottizzazioni nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione ed accolla ai privati le spese per le opere di urbanizzazione primaria (strade, fognature, acqua, luce, verde di vicinato, ecc.), e per parte di quella secondaria (scuole, ambulatori, parchi, centri sociali, ecc.).
Ma l'innovazione fondamentale della legge riguarda i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano deve inderogabilmente riservare all'uso pubblico.
Si intende per “standard urbanistici” la determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi.
Il concetto di standard urbanistici è, per la verità, più ampio. Luigi Falco, ad esempio, ricorda che
la parola standard, parola inglese che aveva originariamente il significato di bandiera, di segno di riconoscimento dei cavalieri, si usa oggi nella lingua originaria per indicare qualcosa di noto, di non discutibile e che può essere usato come elemento di paragone in numerosi campi delle tecnologie e delle scienze. La caratteristica dello standard, di essere legato a una prestazione, ad un livello di funzionamento raggiunto e sperimentato, è evidente in numerosi ambiti disciplinari, nei quali il termine è appunto usato in questo significato [30].
E un significato ancora diverso del termine - non contraddittorio con i precedenti - è quello sottolineato da Alessandro Tutino:
lo standard deve essere una bandiera (stendardo, simbolo) ed una bandiera che ad ogni traguardo va rinnovata perchè mantenga il suo valore[31]
La storia dell’introduzione degli standard urbanistici in Italia dà ragione di entrambe queste interpretazioni: quella quantitativa e normativa, e quella dinamica. In Italia gli standard urbanistici erano noti (negli anni ‘50) alla cultura specializzata. Ad essi faceva riferimento Il Manuale dell'architetto, mitico strumento di lavoro razionalista di generazioni di architetti, urbanisti e ingegneri, prodotto per la prima volta da un ufficio di promozione culturale statunitense (l’Usis, nel 1945), poi aggiornato a cura del Consiglio nazionale delle ricerche nel 1953 e nel 1962.
Si cominciò ad applicare gli standard urbanistici (cioè a riservare, nei piani per le città e in quelle per i quartieri, determinate quantità di aree per spazi pubblici in proporzione agli abitanti previsti) all’inizio degli anni 60. I quartieri popolari dell'Ina-casa e della Gescal, i piani regolatori di Roma, di Torino, di Modena costituiscono in quegli anni le prime esperienze di definizione concreta delle quantità di aree da riservare agli spazi pubblici.
Ma è più tardi, è appunto con la “legge ponte”, che in Italia si vara una normativa nazionale sugli standard urbanistici. Questa normativa, prescritta dalla legge, viene definita tecnicamente in un decreto ministeriale emanato un anno dopo: il decreto n. 1444 del 4 aprile 1968. Il decreto prevedeva standard riferiti a diversi tipi di attrezzature: alcune “d’interesse locale”, cioé tali da dover essere direttamente accessibili dagli utenti con percorsi pedonali o comunque superabili in archi di tempo brevi (non superiori ai 20-25 minuti primi); altre “d’interesse generale”, o “territoriale”, le quali, per la loro natura o per la dimensione funzionale richiesta, dovevano essere localizzate in relazione a bacini d’utenza più vasti.
Il decreto sugli standard è stato successivamente accusato di una certa rozzezza. e in effetti, esso è molto più schematico di quelli adoperati negli stessi anni in altri paesi europei. Non tiene conto dei tempi e dei modi dell’accessibilità, del rapporto tra attrezzatura e sito, delle dimensioni conformi di ogni attrezzatura, delle opportunità di integrazione tra attrezzature diverse ma complementari, della opportunità di diversificare le stesse dotazioni ad abitante in relazione a diverse situazioni demografiche e sociali. Ciò nonostante, come vedremo al prossimo capitolo, esso ebbe un effetto sconvolgente: per la prima volta nella redazione dei piani, e quindi poi nelle politiche di governo del territorio, si doveva destinare agli usi collettivi una consistente e non eludibile quantità di aree.
Ma più che la rozzezza del testo normativo, si deve criticare la superficialità della sua applicazione nella maggior parte della pratica professionale, e nella stessa successiva legislazione regionale di recepimento di quel decreto. Un caso esemplare di questa superficialità è costituito dal modo in cui sono state utilizzate le “zone omogenee” previste dal decreto. Il decreto prevede diverse zone, e per ciascuna di queste prevede norme diverse in relazione al conteggio degli standard e ad altre prescrizioni della legge. Nella volontà del legislatore, insomma, le zone omogenee sono sostanzialmente uno strumento di verifica dell’applicazione degli standard. Nella prassi corrente, invece, sono diventate una tecnica di progettazione della città, consolidando una concezione del disegno urbano basato sulla rigida monofunzionalità delle diverse parti e sulla negazione del carattere complesso tipico e caratterizzante dell’organismo urbano.
C’é da aggiungere, comunque, che la legislazione regionale, che subentrerà negli anni 70, si limiterà a ritoccare (generalmente in aumento) le quantità degli standard fissati nel 1968, ma non modificherà nella sostanza l’impostazione del legislatore nazionale: non ne supererà quindi neppure i limiti culturali. Ciò avviene in molti altri campi. Benché la Costituzione attribuisca alle regioni piena potestà in materia di legislazione urbanistica, nell’ambito dei soli “principi” fissati dalla legislazione nazionale o da essa desumibili, nella realtà le regioni si sono limitate a precisare, commentare, ulteriormente articolare la legislazione nazionale, nell’alveo della “vecchia” legge urbanistica del 1942.
Il decreto sugli standard ha una immediata ripercussione al livello della suprema magistratura. Meno di un mese dopo il decreto, meno di un anno dopo la legge ponte, la Corte costituzionale dichiara illegittimi parte dell'articolo 7 e l'articolo 40 della legge urbanistica del 1942[32].
La tesi della Corte è la seguente. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli che destinano determinate aree ad usi pubblici (strade, scuole, verde ecc.) sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Ma questo vero e proprio vincolo non viene indennizzato: l’indennità sarà corrisposta al proprietario solo se e quando l’esproprio avverrà. Questa situazione, sostiene la Corte, è in contrasto con la costituzione, perché
un vincolo immediatamente operativo, ma il cui indennizzo è rinviato nel tempo, deve ritenersi di carattere espropriativo [33].
Sviluppando il suo ragionamento la Corte (e le successive interpretazioni della sentenza, in particolare ad opera del suo Presidente Aldo Sandulli[34]) sostiene la seguente tesi. Il legislatore ha la facoltà di stabilire che determinati beni (per esempio l’edificabilità) non appartengono al proprietario fondiario. Ma nell’attuale sistema giuridico italiano ciò non è stabilito. Non è allora oggi costituzionalmente legittimo comprimere lo jus aedificandi al di là di un limite ragionevole senza indennizzarlo, o senza almeno stabilire una data certa e vicina nella quale certamente l’indennità verrà pagata.
Se la sentenza per un verso suonava come una campana a morto per quanti erano impegnati nel tentativo di razionalizzazione dell’uso del suolo, per un altro verso indicava una possibile soluzione del problema del regime immobiliare. Nel dibattito che allora si aprì, mentre da una parte venivano proposte soluzioni volte a riconoscere per legge a tutte le proprietà fondiarie un valore minimo (“plafond”) di edificabilità, si avanzava dall’altra parte la proposta di stabilire, sulla base dell’indicazione di Sandulli, che l’edificabilità non apparteneva alla proprietà, ma era il prodotto di una concessione dell’ente pubblico attribuita ai proprietari sulla base dei piani urbanistici.
Si sceglie la soluzione più semplice ed indolore: quella del rinvio. Viene cosi approvata la legge 13 novembre 1968, n. 1187 (subito definita “legge tappo”), con la quale si stabilisce che le previsioni di piano regolatore generale, che comportano vincoli nei confronti dei diritti reali, aventi contenuto espropriativo, cessano di avere vigore qualora entro cinque anni dall'approvazione del piano regolatore medesimo, non siano approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionata.
Gli anni ‘60 si erano aperti con la speranza di una riforma profonda dei modi in cui si esercitava il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Gli anni ‘70 si aprono senza che quest’obiettivo sia stato raggiunto, ma in un clima di grande sommovimento su tutti i terreni Si aprono infatti con le grandi tensioni del Sessantotto studentesco e operaio, si sviluppano, attraverso una serie di crisi politiche e di attentati dinamitardi, attorno ai temi dell’intervento pubblico nel settore della casa, degli espropri, dell’attuazione dell’ordinamento regionale, dei tentativi di programmazione economica.
Il quadro istituzionale dell’urbanistica cambia considerevolmente. La drammaticità degli scontri sociali sulle questioni del territorio e della città sembrano ridare fiato alla riforma urbanistica. La politica della casa entra a far parte dell’armamentario della pianificazione. L’istituzione delle regioni introduce un soggetto pubblico potenzialmente decisivo. Sebbene non si raggiunga una vera riforma del regime dei suoli, vengono introdotte alcune significative innovazioni, in parte vanificate dalle sentenze della Corte costituzionale. Mentre da un lato sembra procedere, attraverso tappe parziali, un disegno di riforma, dall’altro lato si mettono in moto forze controriformatrici, le quali agiscono a volte con gli attentati terroristici, a volte con sottili tattiche di svuotamento delle leggi innovative.
La questione della casa era stata al centro delle lotte sociali. Per la prima volta dalla rinascita della democrazia uno sciopero generale (il 19 novembre 1969) aveva avuto per oggetto una serie di questioni (casa, servizi, trasporti, squilibri territoriali) che esulavano dallo stretto terreno contrattuale. Il confronto tra sindacati e movimenti spontanei da un lato, Governo e parlamento dall’altro, si svilupparono per alcuni anni, punteggiati da attentati dinamitardi e crisi di governo. Un primo risultato si raggiunse nell’autunno del 1971, con una nuova legge per la casa[35].
La legge affronta quattro questioni: la programmazione e il coordinamento dell’edilizia pubblica, le espropriazioni, le modifiche alla legge 167/1962 e il finanziamento di alcuni primi programmi d’intervento. Quest’ultima parte ha carattere dichiaratamente transitorio; più rilevanti e strutturali le altre.
La legge innova profondamente i meccanismi della programmazione pubblica dell’edilizia. Anzichè una miriade di enti, ciascuno caratterizzato da regole, soggetti e procedure diversi (unificati solo “a valle”, a partire dal 1962, da una politica urbanistica unitariamente costituita dai PEEP), la legge prefigura un sistema secondo il quale: spetta allo Strato l’allocazione di tutte le risorse pubbliche nazionali destinate alla residenza nei diversi settori e tipologie d’intervento e nelle diverse regioni, in funzione dei fabbisogni regionali; spetta alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l'edilizia all’interno dei loro territorio; spetta ai comuni la programmazione locale, e spetta ai comuni e agli Istituti per le case popolari la realizzazione e le gestione degli interventi.
Le nuove norme espropriative unificano i procedimenti e i valori del’indennità per tutte le possibili finalità (dai PEEP ai parchi nazionali, dagli interventi nei centri storici alle opere di urbanizzazione). Ancorano tutte le indennità al valore agricolo: per i fondi aventi una effettiva utilizzazione agricola l’indennità è correlata alle colture e alle altre attività aziendali, per i terreni già urbanizzati l’indennità è fissata con un valore parametrico (correlato a quello della cultura più pregiata). Generalizzano la possibilità di assegnare le aree espropriate in concessione, come alternativa alla cessione in proprietà. Ribadiscono infine che l’indennità non deve in alcun modo tener conto dell’incremento di valore acquisito dall’area per effetto delle destinazioni di piano o dall’aspettativa della realizzazione delle opere.
Le modifiche alla legge 167/1962 tengono conto delle esigenze di correzione e miglioramento maturate in quasi un decennio d’applicazione. In particolare viene abolita la disposizione che consentiva ai proprietari di aree comprese nel PEEP di operare direttamente senza essere espropriati: norma che aveva provocato, in molte zone, un aumento consistente del prezzo delle aree comprese nei PEEP.
Secondo la Costituzione italiana la competenza legislativa in materia urbanistica è delle regioni. Questa indicazione si saldava, nel dibattito degli anni ’60, con l’esigenza, affiorata fin dagli anni ‘50 nella cultura urbanistica (e già contenuta in nuce nella legge urbanistica del 1942), di promuovere una pianificazione territoriale, strettamente connessa alla programmazione economica, a partire dal livello regionale. Ma per tutti gli anni ‘50 e ‘60 avevano visto la luce solo le regioni “a statuto speciale” (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Friuuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige), la cui formazione era dovuta più a esigenze d’ordine politico o diplomatico che alla volontà di realizzare il disegno costituzionale[36].
I quindici consigli regionali a statuto ordinario sono eletti per la prima volta nella primavera del 1970, e l'effettivo trasferimento dei poteri avviene nel febbraio del 1972, in base a decreti del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda l’urbanistica, accanto al potere di legiferare già attribuito dalla Costituzione, alle regioni vengono trasferite tutte le funzioni amministrative che la legge del 1942, e le successive leggi di modifica e di integrazione, affidavano agli organi centrali e periferici del Ministero dei lavori pubblici: l'approvazione degli strumenti urbanistici (piani territoriali di coordinamento, piani regolatori generali comunali e intercomunali, piani di ricostruzione, regolamenti edilizi e programmi di fabbricazione, piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate) e dei piani per l'edilizia economica e popolare; il controllo e la vigilanza sull'attività edilizia ed urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario viene anche trasferito il potere di redigere e di approvare i piani territoriali paesistici previsti dalla legge per la tutela delle bellezze naturali del 1939.
Agli organi centrali dello Stato è riservata la funzione di “indirizzo e coordinamento” delle attività amministrative regionali “che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”. Allo Stato sono riservate inoltre le competenze relative alla rete autostradale; alle costruzioni ferroviarie, ai porti, alle opere idrauliche e di navigazione interna di maggiore importanza; all'edilizia statale, demaniale e universitaria, ecc.
Al trasferimento delle materie stabilite dall'art. 117 della Costituzione si affianca la delega delle “funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate”. Viene istituita una commissione (presieduta da Massimo Severo Giannini) le cui proposte forniscono la base al decreto del presidente della repubblica n. 616 del luglio 1977, che chiude quasi un decennio di dibattiti e di produzione legislativa circa l'ordinamento regionale.
Secondo il decreto 616/1977, l'urbanistica è “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”: tutto ciò è di competenza regionale. Allo Stato resta affidata la “identificazione, nell'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento [...], delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”.
Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero inutilmente e si approvò un'altra proroga biennale; poi, ancora un rinvio di un anno, finalmente accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente viene approvato nel gennaio 1977. E’ la legge n. 10 del 1977, nota come legge Bucalossi, dal nome del ministro che ne fu l'autore[37].
Alla base della legge c'è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, proposta inizialmente (come mera ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa dalla parte maggioritaria della cultura urbanistica. L'intesa fra i partiti di governo si realizza, superando le esitazioni della DC, soprattutto grazie all'impegno di Bucalossi che minaccia le dimissioni e la crisi di governo in caso di mancata approvazione. Il principio della separazione viene però affermato in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile anche agli incerti e ai contrari: non costituirà argine sufficiente rispetto alle critiche della Corte costituzionale.
Gli elementi portanti della riforma sono l'istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell'edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.
Passare dalla “licenza edilizia” alla concessione, e per di più a una concessione onerosa, ha come presupposto l’aver ammesso, almeno implicitamente, che esiste una riserva pubblica del diritto di edificare. La concessione di questo diritto è accordato al proprietario dell'area, o a chi ne ha la legittima disponibilità, per edificare opere conformi agli strumenti urbanistici, contro un determinato onere. Questo dovrebbe, sul piano dei principi, essere commisurato al maggior valore all’area viene attribuito per il fatto che essa è divenuta edificabile. In realtà la legge, privilegiandoi anche qui il compromesso rispetto al rigore, stabilisce che il contributo di concessione è formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.
La legge prevede la possibilità di non pagare la parte di contributo concessorio corrispondente a una quota del costo di costruzione, a condizione che il proprietario si impegni a convenzionare il canone d’affitto e il prezzo di vendita dell’edificio realizzato. Si tratta di una innovazione interessante, già introdotta dalla legge per la casa del 1971 all’edilizia economica e popolare che la legge Bucalossi tenta di generalizzare; essa consentirebbe alla mano pubblica di controllare contrattualmente l’esito finale del processo di urbanizzazione e costruzione della città.
L’introduzione del programma poliennale d’attuazione è comunque il più importante contributo della legge allo sforzo di razionalizzare i modi e i tempi in cui avviene il processo di espansione e trasformazione della città, per tentare di ridurne i costi e accrescerne i benefici sociali. L’esigenza di governare nel tempo l’attuazione delle previsioni dei piani regolatori, correlando l’attuazione delle opere di competenza pubblica con quelle d’interesse privato era viva da tempo. Il primo tentativo di soddisfarla fu compiuto, sia pure solo parzialmente a causa delle difficoltà frapposte dal Consiglio di Stato, dal Piano regolatore di Rtoma del 1962.
La legge prescrive sostanzialmente che i comuni, ogni tre o quattro o cinque anni, provvedano a indicare quali saranno gli interventi, pubblici e privati, previsti o consentiti dal piano regolatore vigente, che saranno effettuati o autorizzati nel periodo considerato. Per gli interventi privati inclusi nel PPA ma no attivati alla scadenza del periodo, la legge prevedeva l’esproprio delle aree e l’intervento sostitutivo del comune.
A proposito dell’abusivismo, fenomeno che era già in forte espansione, soprattutto nell’area romana, nel Sud e lungo le coste, la legge prevede, nei casi di maggiore gravità, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva. La demolizione è l'unica sanzione prevista quando l'abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Nel dibattito parlamentare non viene chiarito il nodo di fondo, relativo al regime di proprietà delle aree edificabili. Resta l’ambiguità nelle formulazioni sulla separazione dello ius edificandi dalla proprietà. Puntualmente, nel gennaio 1980, la Corte costituzionale si pronuncia ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica. Nel frattempo, le regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione, e le norme contro l’abusivismo saranno rimaste inapplicate.
Nonostante le riforme legislative operate a partire dal 1962 la questione della casa era ben lontana dall’esser risolta. Il settore era, nel suo complesso, estremamente articolato e ricco di sperequazioni e differenze quasi patologiche. Oltre agli alloggi abitati direttamente dei proprietari, giunti a livelli sconosciuti negli altri paesi europei, vi erano: gli alloggi privati condotti in affitto libero, per i quali si pagavano prezzi crescenti; gli alloggi privati condotti a fitto “bloccato”, cioè ancorato al valore originario senza tener conto dell’aumento dell’inflazione, per effetto di una serie di leggi che, a partire dagli anni della guerra, avevano teso a proteggere gli inquilini dei ceti meno abbienti dai notevoli aumenti dei prezzi; gli alloggi privati realizzati in aree Peep, preventivamente espropriate e assegnati a fitti convenzionati; gli alloggi di proprietà pubblica, assegnati a canone “sociale”.
Gli inconvenienti e le sperequazioni di questa situazione erano notevoli. Particolarmente pesante era il blocco dei fitti. D’altra parte, lo stesso contenimento dei prezzi operato nelle aree Peep (per effetto della decurtazione iniziale della rendita fondiaria e del controllo sul prezzo finale operato con il convenzionamento) veniva vanificato dalla “concorrenza” provocata da un “mercato libero”, libero di spingere all’insù i prezzi degli alloggi. Né era possibile limitarsi a “sbloccare” la parte vincolata dello stock privato, ciò che avrebbe provocato tensioni sociali insostenibili.
Per affrontare la questione non bastava quindi più limitarsi a costruire abitazioni economiche per le fasce più disagiate, ne limitare l’intervento pubblico alla costruzione di nuove case. Del resto, in quegli anni erano emerse due consapevolezze nuove: da un lato, il fatto che l’età dell’espansione continua e indefinita era terminata, che “più case si fanno più ce ne vogliono”, e che non si poteva proseguire con “lo spreco edilizio” [38]; dall’altra parte, il fatto che l’esigenza di disporre di un alloggio ad un prezzo commisurato al reddito e alla conseguente capacità di spesa era un “diritto sociale”, che doveva essere garantito a tutti.
D’altra parte, le leggi per la casa avevano affrontato solo episodicamente il problema del finanziamento dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa. E non era stato affrontato (salvo che nella positiva eccezione del “Peep-centro storico” di Bologna[E.S.1] ) la questione di un intervento volto al recupero dell’edilizia esistente.