La pianificazione d’area vasta, nel nostro paese, non nasce nel 1990. Non nasce con la legge 142, “Nuove norme sull’ordinamento degli enti locali”. Nasce molto prima, sia come esperienze concrete sia come esigenza, dibattito, sperimentazione e ricerca di soluzioni giuste: soluzioni, cioè, culturalmente fondate, amministrativamente valide, politicamente praticabili. Se si vuole comprendere lo stato attuale della pianificazione d’area vasta, i suoi problemi, le sue difficoltà e i suoi successi, è della sua storia che occorre avere consapevolezza.
Della pianificazione d’area vasta si cominciò a parlare e a discutere, e a lavorare, in quello strano decennio del XX secolo (grosso modo dalla fine degli anni Venti all’inizio dei Quaranta) che separa tra loro la grande crisi esplosa a Wall Street e la Seconda guerra mondiale. E si cominciò a farlo non solo negli USA e in Gran Bretagna, ma anche in Italia.
Tra le esperienze italiane vorrei ricordare la bonifica delle Paludi pontine e la conseguente realizzazione di città e paesi, di canali, strade e ferrovie, di zone industriali e di parchi. Tra gli istituti amministrativamente validi (quegli istituti giuridicamente fondati che quasi sempre seguono le esperienze pratiche e tentano di generalizzarne gli esiti) vorrei ricordare due delle figure pianificatorie introdotte dalla legge 1150 del 1942: il piano intercomunale in primo luogo, che avrebbe dovuto consentire di governare le trasformazioni territoriali nelle aree più dense, e il piano territoriale di coordinamento, che avrebbe dovuto consentire il governo delle realtà più ampie: quelle che dalla dimensione dell’intercomunalità si allargano a quella, appunto della “area vasta”.
Perché per mezzo secolo la pianificazione d’area vasta non è stata praticata se non eccezionalmente? Le ragioni di fondo sono ormai acquisite alla storiografia urbanistica. Concluso, nel 1945, il periodo bellico, la necessità di ricostruire le infrastrutture, il patrimonio edilizio e gli apparati produttivi (questi ultimi, fortunatamente, in gran parte salvati dagli operai) non si utilizzò – come invece fecero altri paesi europei – il metodo e gli strumenti della pianificazione: si abbandonò invece quest’ultima, abbandonando la ricostruzione, e il successivo sviluppo, alla logica del più brutale spontaneismo.
E quando lo sviluppo di forze produttive moderne fece riemergere l’esigenza della razionalità dell’assetto urbano, l’unica pianificazione che venne rilanciata fu quella a livello locale. Del resto, l’unico adeguamento legislativo che era stato compiuto (oltre all’introduzione di provvedimenti che consentissero di derogare alla pianificazione) era stata la sostituzione dei termini del lessico fascista (Podestà, Camera dei fasci e delle Corporazioni, Casa del Fascio ecc.) con quelli del lessico democratico (Sindaco, Parlamento, servizi pubblici ecc.)
Alcuni generosi tentativi compiuti negli anni Cinquanta (il piano del canavese promosso da Adriano Olivetti, quello piemontese del gruppo coordinato da Giovanni Astengo, il manuale per la pianificazione regionale commissionato dal Ministero dei Llpp ad Astengo) restano isolati episodi. È solo nel corso degli anni Settanta che si tenta di riprendere, in modo generalizzato, la sperimentazione di una dimensione d’area vasta nella pianificazione.
Molte sono le soluzioni tentate. Superate le resistenze dei partiti di centro (e in particolare della DC), timorosi di un “potere rosso” nell’area centrale della Penisola, si sono finalmente istituite le regioni (istituto cui gli urbanisti hanno sempre dato notevole rilievo): è da esse che finalmente verrà, si spera, un quadro certo e razionale sull’assetto del territorio, una disciplina che darà coerenza d’insieme alle politiche urbanistiche e a quelle, infrastrutturali e localizzative, che spettano allo Stato: alcune regioni lavorano e producono i primi piani urbanistici regionali, o piani territoriali di coordinamento, o piani territoriali regionali (Governo e Parlamento si guardano bene dal coordinare alcunché), altre lavorano male, o non lavorano affatto: amministrano il giorno per giorno, distribuiscono a pioggia le risorse di cui dispongono.
Ci si rende conto subito che il livello regionale della pianificazione d’area vasta non è sufficiente: troppo ampia è la forbice tra le decisioni che la Regione può governare con efficacia, e quelle proprie del livello comunale. Occorre un “livello intermedio” della pianificazione. Si sperimentano varie strade: quelle che fu tentata più a lungo, è quella dei “comprensori”: enti elettivi di secondo grado (i membri dei consigli comprensoriali vengono eletti dai consiglieri comunali), oppure emanazione delle regioni, oppure – nei casi istituzionalmente più perversi – costituiti a mezzadria tra regione e comuni. Leggi regionali (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto), a volte coraggiose, precisano caratteristiche, poteri, competenze dei comprensori. Ma l’esperienza dura pochi anni. Né più a lungo dura quella del “comprensorio speciale” previsto dalla legge per Venezia.
Perché il fallimento? Una ragione sostanziale fu individuata nel fatto che i comprensori non avevano poteri propri. I soggetti che componevano gli rogani decisionali non erano investiti direttamente dall’elettorato, ma rappresentavano in primo luogo il comune, o la regione, che li aveva eletti come “suoi” rappresentanti nei governi comprensoriali. Poiché gli interessi dei diversi livelli possono essere, e spesso sono, in contraddizione tra loro (con buona pace dei fautori della concertazione ad ogni costo), i contrasti interni provocavano la paralisi di ogni decisione. Fu negli anni Settanta che emerse la posizione più ragionevole: a ogni livello di pianificazione deve corrispondere un livello di governo autorevole, e perciò eletto direttamente dai cittadini.
Fu così che matura, negli anni successivi, la proposta di attribuire potere di pianificazione del “livello intermedio” alle province. Nate sulla scia dell’ordinamento statuale napoleonico come emanazione dei poteri del governo nazionale, trasformate in organi elettivi e articolazioni dell’ordinamento repubblicano con la Costituzione del 1948, le province avevano però poteri debolissimi: caccia e pesca, assistenza psichiatrica, scuole superiori, strade di livello intermedio, e pochissimo altro. Dopo un lungo dibattito, è nel 1990 che, con la legge 142, si assegna alle province il ruolo e le competenze in merito alla pianificazione d’area vasta.
Poiché in Italia, dal 1948, la competenza in materia urbanistica è attribuita alle regioni, è a questa che la legge 142/1990 ha affidato il compito di definire obiettivi, contenuti, procedure, risorse per la formazione della pianificazione provinciale. Alcune regioni hanno legiferato, altre no. Tra le regioni renitenti è allineata anche la Campania.
Ma la pianificazione del territorio non è un ornamento, né l’adempimento di una prescrizione legislativa: la pianificazione del territorio, in una realtà moderna, è una necessità. Soprattutto là dove vi sono risorse ambientali e culturali ingenti, potenziale fonti di sviluppo ma soggette a rischi di degrado, dove l’organizzazione del territorio pone problemi complessi che i singoli comuni non possono risolvere da soli, dove la contraddizione tra aree a sviluppo intensivo e aree caratterizzate da fragilità economica e sociale minaccia di accentuarsi. Per questa ragione, nelle more di un provvedimento regionale, i reggitori della Provincia di Salerno decidono di partire da soli. Nel 1995 il processo si avvia, con un documento d’indirizzo della Giunta provinciale approvato dall’intero Consiglio.
Il documento definisce la pianificazione come “un processo sistematico e continuo di programmazione e gestione del territorio”, volto a “indirizzare le politiche comunali e coordinarle per creare le condizioni di una migliore organizzazione e assetto del territorio che, partendo dalla tutela e valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, consente di far interagire tra loro le diverse componenti che concorrono allo sviluppo socio-economico sostenibile dell’area”.
L’iter di formazione del Piano territoriale è visto come “un processo unitario nel quale i diversi soggetti intervengono per determinare, nell’ambito delle loro competenze, un unico sistema di scelte”. Ove la collaborazione tra tali soggetti non consentisse, su determinati punti, di giungere “ad una convergenza d’intenti”, si assumeranno comunque le decisioni necessarie “la cui responsabilità ricadrà sull’ente al quale la legge affida competenze superiori”[1].
Quest’ultima affermazione tocca un punto di grande rilievo. La pianificazione d’area vasta interviene, nel nostro paese, quando si è già consolidata (dove più, dove meno) una prassi di pianificazione come prerogativa dei comuni, e una prassi di decisioni sul territorio (le grandi infrastrutture, i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, l’approvazione dei piani) affidata allo Stato (e, negli ultimi decenni, in parte alle regioni). È tra questi due livelli, quello statuale (e regionale) e quello comunale, che deve inserirsi la pianificazione d’area vasta provinciale. Essa deve perciò guadagnarsi sul campo i galloni: dimostrarsi utile ai comuni, dimostrarsi efficace e autorevole alla regione e allo stato.
Sul fronte “a monte” la situazione non è certo brillante. Se il Parlamento nazionale ha legiferato sin dal 1990, quello regionale della Campania ha brillato per la sua inerzia. Non solo non esiste una legge urbanistica che attribuisca contenuti, poteri e procedure alla pianificazione provinciale, ma addirittura si è stabilito che alla Provincia è sottratto perfino il potere di approvare i piani comunali della grande maggioranza dei comuni[2]. Vedremo nei prossimi mesi, benché l’alba della nuova Giunta non sembri molto felice[3]
Sul fronte “a valle” la Provincia di Salerno sta conquistando il suo ruolo con una serie di azioni le quali, se a volte corrono il rischio di un eccessivo empirismo, concorrono comunque efficacemente ad affermare il ruolo pratico della Provincia nell’affrontare, e condurre a proposte convincenti e condivise, situazioni territoriali o di settore che i comuni non possono affrontare da soli, e la cui soluzione contribuisce invece a risolvere conflitti nell’uso delle risorse e a migliorare il livello di servizio di ampie zone del territorio provinciale.
Ma dietro queste pratiche si cela una questione più complessa, alla quale la frase citata del documento della Giunta provinciale direttamente si riferisce: Quali sono le “competenze superiori” che la legge affida alla pianificazione provinciale; o meglio, in assenza di una legge chiara, sulla base di quale principio può individuare il discrimine tra competenze provinciali e comunali nella pianificazione?
Il principio al quale ci si po’ riferire è quello “di sussidiarietà”. Poiché se ne parla spesso a sproposito, vediamolo nella sua interpretazione più autorevole. Esso è stato definito compiutamente nell’articolo 3b degli Accordi di Mastricht (che regolano i rapporti tra l’Unione europea e gli stati membri): “Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.
Sulla base di questo principio, sono allora di competenza della pianificazione provinciale quegli interventi, e quelle azioni, che “a causa della loro scala o dei loro effetti” possono essere compresi e governati meglio al livello territoriale della Provincia che a quello del singolo comune.
È chiaro quindi che “appartengono” alla pianificazione d’area vasta provinciale due grandi campi di decisione. Da un lato, quelli che attengono ai sistemi ambientali: alla tutela e all’uso delle risorse naturali e culturali, al paesaggio, alla tutela del suolo e dell’acqua e agli interventi volti alla prevenzione dei rischi. Dall’altro lato, quelli che riguardano la grande attrezzatura del territorio visto come sistema insediativo: come insieme di infrastrutture, attrezzature, servizi, centri i quali sono funzionali non alla vita di questa o quella unità di vicinato, di questo o quel comune, ma del sistema insediativo provinciale nel suo complesso.
È tenendo conto del contesto e dei criteri indicati nelle righe che precedono che si è operato per giungere alla bozza di Piano territoriale di coordinamento provinciale, che la scheda qui accanto illustra nel suo procedimento di formazione e nella sintesi dei suoi contenuti. Poiché peraltro al termine di “pianificazione territoriale” si danno spesso significati molto diversi,opportuno precisare, nel concludere queste note, l’idea di pianificazione cui si è fatto riferimento nel costruire il PTC salernitano.
Intendo per “pianificazione” un’azione, continua e sistematica, condotta dall’ente elettivo rappresentativo della volontà generale dei cittadini, volta a conferire coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio, in vista di un determinato sistema di obiettivi socialmente condivisi. Ciascuno dei termini che ho adoperato meriterebbe di essere discusso. Dall’analisi di ciascuno di essi si potrebbero trarre indicazioni operative. Alcuni rinviano a questioni ancora aperte: penso all’interesse generale, e penso alla condivisione sociale: due questioni sulle quali una contaminazione della nostra disciplina con le scienze politiche, e della nostra tradizione pianificatoria nazionale con le esperienze e tradizioni europee ed americane potrebbe risultare feconda.
E preferisco parlare di “pianificazione” anziché di “piano” perché ritengo che ciò che serve per governare il territorio non è un documento elaborato una volta per tutte, singolare, magari accattivante come un bell’oggetto (e come tale pubblicato su patinate riviste), e neppure una serie o una congerie di piani, ma una pianificazione: un’attività continua, costante e sistematica, che esprima nel tempo la capacità di governare le “scelte politiche tecnicamente assistite” in cui (come afferma Francesco Indovina) si esprime la pianificazione territoriale e urbana, a tutte le scale e i livelli.
Vorrei concludere sottolineando che puntare alla “pianificazione” anziché al “fare un piano” significa anche assegnare un’importanza particolare alla costituzione di una struttura capace di assistere tecnicamente la politica nel governo del territorio: un Ufficio del piano, adeguatamente attrezzato, efficace, autorevole, e di un apparato tecnico capace di costruire, aggiornare e gestire il crescente patrimonio informativo necessario per un avveduto governo del territorio – un Sistema informativo territoriale. Il difficile percorso della formazione di questi due strumenti è perciò parte costitutiva della costruzione della pianificazione territoriale nella provincia di Salerno.
[1] Il documento di indirizzi individua i principali obiettivi cui la pianificazione territoriale è chiamata a fornire idonee soluzioni. Ci si limita in questa sede a sintetizzare i più rilevanti:
1.il ruolo della questione ambientale, individuato nel porre le risorse ambientali “non come vincolo allo sviluppo ma come parametro implicito di qualificazione”;
2.“valorizzazione del sistema dei beni e delle risorse storiche e paesistiche-ambientali per il loro valore intrinseco e per la loro stessa potenzialità economica”, da considerare come “condizione primaria” per gli altri sistemi;
3.il ruolo della pianificazione territoriale “nella determinazione dei criteri di organizzazione degli insediamenti urbani, la localizzazione dei servizi e delle attrezzature di livello sovracomunale, la funzionalità del sistema della mobilità” deve essere finalizzato al miglioramento della qualità del sistema insediativo;
4.assunzione dell’obbiettivo del superamento della “attuale distinzione tra aree forti e aree marginali”, puntanto sd un “modello insediativo pluricentrico sul territorio che miri a correggere la spontanea aggregazione di funzioni ed insediamenti attorno al capoluogo e ai centri maggiori”;
5.riqualificazione e articolazione dell’offerta turistica basata sull’esaltazione della differenza dei siti e assunzione di nuove strategie per il rafforzamento, la razionalizzazione e la riconversione ecologica delle funzioni industriali, commerciali, turistiche e industriali;
6.soluzione del problema della mobilità attraverso una visione integrata delle diverse reti e modalità, e affrontando anche la questione della localizzazione sul territorio delle funzioni generatrici di domanda di traffico;
7.definizione di norme, indirizzi e direttive per la riqualificazione delle aree già urbanizzate e abitate, aumentandola dotazione di verde e di servizi, stmolando il recupero della permeabilità dei suoli, aumentando il grado di ossigenazione, utilizzando i corsi d’acqua previo disinquinamento e rinaturalizzazione ecc..
[2]Infatti i PRG dei capoluoghi di provincia sono approvati dalla regione, quelli dei comuni compresi nelle Comunità montane da queste ultime.
[3] Si veda in proposito l’articolo di Luigi Scano, su questo stesso numero.
Il dibattito è andato molto al di là dell'episodio fiorentino della Fiat-Fondiaria. Aveva ragione chi sosteneva che il gesto compiuto a Firenze dalla segreteria nazionale del Pci voleva essere un segnale così forte e chiaro da poter essere compreso ovunque. La critica del Pci era rivolta a un modo distorto, fuorviante e rischioso di concepire e praticare il rapporto tra pubblico e privato nelle trasformazioni del territorio. Un modo, però, che era ed è ancora molto diffuso. E' per questo che, a partire dall'episodio di Firenze ma andando molto al di là di esso, si sta di nuovo discutendo di urbanistica in molte città italiane, e innanzitutto nel Pci. L'argomento delle discussione è l'urbanistica contrattata: una pratica che il nuovo corso del Pci non ritiene corretta.
Ma che cos'è l'urbanistica contrattata? Quando un termine proprio del gergo d'una disciplina specialistica viene adoperato nel linguaggio politico, è facile che nell'uso si incorra in equivoci, errori, incomprensioni. Non è perciò ozioso domandarsi che cosa sia realmente l'urbanistica` contrattata e perché il Pci non sia d'accordo nell'utilizzarla.
L'urbanistica contrattata si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma Ÿper la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune.
E poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle decisioni comunali, devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.
L'urbanistica contrattata é una prassi che nasce in anni lontani. Basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60, entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dagli "Amici dell'Espresso" e in dagato da Italo Insolera e Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.
Da quegli anni, però, molte cose sono cambiate. Oggi non siamo di fronte a speculazioni selvagge, a rozze colate di cemento. Oggi i promotori delle operazioni di urbanistica contrattata avanzano proposte non prive di apparente dignità. Presentano prodotti accattivanti per la qualità formale degli oggetti (disegni e plastici) in cui si manifestano e per gli autori che li firmano. I loro collaboratori non sono anonimi geometri, ma architetti di fama e cattedratici di prestigio. Questo induce a esprimere giudizi positivi quanti dimenticano una verità non discutibile: che, cioè,la qualità della città non è la somma delle qualità delle sue architetture. E' qualcos'altro.
La qualità urbana è qualità d'insieme. Non si può quindi ambire di raggiungerla se non si tenta di governare insieme lediverse parti che compongono la città e ai suoi diversi aspetti: da quelli formali a quelli funzionali. E' per questo che la qualità é raggiungibile solo mediante quella tecnica che si chiama pianificazione urbanistica: una tecnica, un metodo, una procedura che considerano la città (il territorio urbanizzato) come un sistema, e che ne vogliono governare le trasformazioni valutando gli effetti che ogni intervento esercita sull'insieme. L'urbanistica contrattata non va bene perché è la fuga dalla pianificazione, la sua elusione. E la qualità delle architetture proposte (dei disegni esibiti) è solo l'orpello che nasconde la distruzione della possibile qualità urbanistica.
Anche sull'altro versante della contrattazione, quello degli amministratori, le cose sono cambiate dagli anni dei Lauro e dei Cioccetti. Allora, gli amministratori pubblici delle città guastate dalla speculazione erano strutturalmente subordinati agli interessi economici. Più che contrattare, i sindaci corrotti prendevano ordini dai veri padroni delle città.
Oggi i legami sono più complessi. Oggi, se gli amministratori cercano la scorciatoia dell'intesa sottobanco con la proprietà, è spesso perché non hanno fiducia nelle vigenti regole del governo del territorio, e neppure nella possibilità di sostituirle con regole nuove e più efficaci. Ed é anche perché l'impegno severo e costante, necessario per costruire
una politica della pianificazione, paga meno, e meno rapidamente, dell'accordo raggiunto con un potentato economico per realizzare un'opera vistosa. Si tratta comunque di un atteggiamento che non solo rende gli amministratori esposti al sospetto, e al rischio, della corruzione, ma è anche rinunciatario rispetto ai reali interessi collettivi di qualità e funzionalità urbana.
Non aiuterebbe però a comprendere, e quindi ad agire nella direzione giusta, limitarsi a denunciare un simile atteggiamento ogni volta che si manifesta. Occorre invece riflettere sulle sue cause. E allora appare evidente che esso è in primo luogo l'effetto di quella decennale campagna per la deregulation urbanistica, promossa dallo schieramento moderato ma tollerata dalla sinistra, che ha contrassegnato il decennio trascorso: una campagna che ha distrutto certezze senza costruire alternative, ha screditato strumenti invecchiati ma sperimentati senza ad essi sostituire strumenti nuovi, e ha perfino lasciato spegnere la tensione per una riforma legislativa.
E' un atteggiamento che, oggi, può essere superato solo con un forte impegno politico e culturale che sappia intrecciare la ripresa dell'iniziativa legislativa con le concrete ver- tenze ed esperienze locali. Sul primo terreno d'impegno, la forza del Pci pò essere determinante per sbloccare finalmente l'angosciosa vicenda degli espropri e dei vincoli urbanistici, e per dare all'Italiauna moderna legge sul regime degli immobili (aree od edifici). Ma è anche sul terreno delle mille realtà locali che si misurerà la capacità dei comunisti di fornire risposte adeguate alla crisi delle città: una crisi che è il prodotto di errori culturali e politici, di pigre miopie e di fughe impazienti dalla reale corposità dei problemi, e non di una perversa fatalità determinata da ingovernabili eventi.
Edoardo Salzano
Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, investe il territorio italiano.
Trasformazioni che partono dalla città. Sprawl urbano, città “sguaiatamente sdraiata” sulla campagna, fu la prima denominazione del fenomeno quando si manifestò nel mondo anglosassone. Villettopoli, insediamento disperso, oppure città diffusa, città esplosa, viene denominata oggi in Italia, dai critici più severi o da quanti credono scorgervi i segni di una nuova civiltà urbana. In ogni caso, una marmellata di case e ville e villette e tuguri, mescolati a capannoni e capannoncini, arterie variamente intrecciate e piazzali, shopping centers e rutilanti outlet factories. Le nuove forme informi di quella “repellente crosta di cemento e asfalto” di cui s’indignava Antonio Cederna, che via via cancella la natura e la storia, le testimonianze impresse nel nostro territorio, nella sua forma, nel suo paesaggio.
E partono anche da fuori, dal territorio extraurbano, dove la natura lavora meno disturbata dall’azione superba (e spesso squallida) dell’uomo: si manifesta nelle distese coperte dalle selve e dai boschi, dalla macchia e dai pascoli, dalle campagne coltivate nelle pianure o sulle coste terrazzate o sulle ordinate colline. Là dove le trasformazioni non sono minori e non hanno minore incidenza sul futuro dell’uomo, sulla sua vita, sulla sua sicurezza: sui modi della sopravvivenza di quel vasto deposito di risorse naturali (la terra, l’acqua,la vegetazione e la fauna, la biodiversità, l’energia solare imprigionata dalle masse vegetali) e di memoria e bellezza (i mille paesaggi che compongono la variegata facies della nostra Penisola).
Pochi indagano, misurano, valutano queste trasformazioni, offrendo così informazioni attendibili e sicure a chi deve governare. E pochi dalle informazioni disponibili traggono valutazioni, propongono politiche, suggeriscono azioni. Tra i pochi, Antonio di Gennaro. Questo libretto è un ulteriore testimonianza del suo lavoro e della sua utilità. Lo ha scritto con Francesco Innamorato, con cui da anni esplora, impiegando metodi rigorosi e intuizioni audaci, tecnologie raffinate e appassionate escursioni, i territori rurali delle sue regioni. A cominciare dalla Campania. cui è dedicato questo volume.
Tra tutti gli studi che indagano sulle trasformazioni urbane e territoriali questo lavoro si segnala per due caratteristiche.
In primo luogo, assume come soggetto della sua indagine il territorio. Da mero supporto delle utilizzazioni urbane, delle nuove forme della città, del modo in cui gli uomini soddisfano le loro esigenze di abitazione, movimento, ricreazione, lavoro, oppure delle attività del settore agro-silvo-pastorale e della vita e consistenza delle aziende volte alla produzione, il territorio diventa il protagonista essenziale dell’indagine: la sua storia, la sua forma, la sua bellezza sono il valore implicito nell’analisi.
In secondo luogo, e di conseguenza, attribuisce grande rilievo allo strumento della cartografia: cioè della rappresentazione fedele del territorio. In altre occasioni di Gennaro ha polemizzato con quanti ritengano di poter studiare il territorio, i suoi usi, le sue trasformazioni facendo ricorso unicamente ai moduli descrittivi forniti dalla lettura storica, dalle fonti statistiche, dalla interpretazione economica. In questo, come in altri suoi lavori, conferma come l’uso corretto dello strumento cartografico sia essenziale per comprendere realmente che cosa sul territorio avviene, che cosa lo minaccia, che azioni possono salvarlo.
La Casa delle libertà sta lavorando a una legge urbanistica coerente con gli interessi del proprio blocco sociale. Per comprenderne la natura basta considerarne due elementi.
Il primo è l’abbandono del principio secondo il quale tutto il territorio nazionale deve essere governato mediante atti di pianificazione assunti dagli enti territoriali elettivi. Secondo la proposta le regioni possono invece individuare a loro piacimento sia “gli ambiti territoriali da pianificare”, sia “l’ente competente alla pianificazione”.
Ma la scelta più significativa è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati”. Nella concreta situazione italiana, ciò significa l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.
Questa impostazione è talmente distante da quella non solo della sinistra, ma anche di una corretta tradizione liberale europea, da risultare incomprensibile che, a sinistra e al centro, vi sia ancora chi si attarda in una logica di emendamenti e che addirittura si applauda al ribaltamento della gerarchia tra interesse pubblico e interesse privato (immobiliare). Come fa l’INU, che in un suo documento dichiara di condividere senz'altro che la funzione di governo del territorio “possa essere svolta anche con la partecipazione e il contributo diretto di soggetti privati”.
Intendiamoci. Negare l’impostazione del rapporto pubblico/privato sotteso all’impostazione della Casa delle libertà non significa affatto negare la “contrattazione” (quella esplicita, non quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). Essa fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.
Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno di avere l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e magari contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?
E’ un sistema, quello della pianificazione, che funziona bene? Certo che no. Da molti decenni si propongono le modifiche necessarie. Ma i risultati sono stati raggiunti solo in parte molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire la destra.
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COMMIATO
Per vent'anni ho scritto gli editoriali di questa rivista senza firmarli. Esprimevano la posizione della rivista e, salvo sporadiche eccezioni e rari errori, quella dell'Istituto. L'editoriale di questo numero ha invece la mia firma. Esprime la mia posizione e valutazione personale. E' un mio dovere, visto che é un editoriale di commiato e perciò anche di rendiconto presentato, in prima persona, da chi ha avuto la responsabilità della conduzione (e prima ancora della fondazione) della rivista. Ed é un mio diritto, visto che chiudo, con questo numero, una esperienza ventennale: una esperienza che mi ha dato molto, e mi ha preso altrettanto. Una esperienza della quale sono grato a quanti me l'hanno consentita, e soprattutto a quanti con me hanno collaborato, traendone molti oneri e pochi onori.
I lettori più attenti di Urbanistica informazioni lo sanno: erano alcuni anni che si parlava di modificare l'assetto delle attività editoriali dell'Inu, e io stesso avevo preparato da tempo un nuovo progetto, che avrebbe dovuto vedere una diversa caratterizzazione di questa stessa rivista, e un mio diverso impegno. Ma la rottura é stata precipitosa. Senza che gli organi dell'Inu potessero discutere il progetto editoriale e dargli corpo, il Consiglio direttivo ha deciso, a maggioranza, di annullare "tutti gli incarichi di direzione e redazionali, centrali e regionali".
Perché questo é avvenuto? Credo che la ragione sia, in qualche misura, legata alla stessa storia della rivista. Alla storia della rivista, e alla storia dell'Inu. Più precisamente, al fatto che nell'Inu ha prevalso una posizione culturale che, per semplicità, definirò "di destra".
Una posizione che non sopportava il fatto che su questa rivista ci si fosse sempre nettamente, recisamente schierati contro alcune cose, e a favore di altre.
Contro l'urbanistica contrattata, contro il riconoscimento e il consolidamento dell'appartenenza privata dell'edificabilità, contro la decadenza degli istituti del potere pubblico e la sostituzione ad essi di tecnostrutture private, piccole o grandi. E a favore di un regime degli immobili basato sul primato degli interessi collettivi, a favore d'una visione dell'urbanista come figura che esplica una funzione d'interesse pubblico, a favore d'una pianificazione che affermi la priorità della coerenza sulla flessibilità, del piano sul progetto, del duraturo sull'effimero. Cercherò, nelle note qui accanto, di argomentare quest'affermazione
Edoardo Salzano
VENT'ANNNI DI URBANISTICA INFORMAZIONI
La nascita di Urbanistica informazioni é legata a una fase cruciale della vita dell'Inu: a una fase in cui era grandemente incerta la stessa capacità dell'Istituto di sopravvivere. Alla fine del 1968, al Congresso nazionale di Napoli, la contestazione studentesca aveva dissolto il vecchio Inu. Si tentava di avviare una nuova fase della vita dell'Inu, con elementi di continuità ma anche con rilevanti elementi di discontinuità con il passato. Attorno a Edoardo Detti, eletto Presidente nel 1970, si riunisce un gruppetto di soci che avvia la ricostruzione dell'Istituto: tra i vecchi leader, solo Luigi Piccinato, Vincenzo Cabianca e Alessandro Tutino affiancano il nuovo presidente.
Gli interlocutori principali non sono più i Baroni e i Ministri, le autorità accademiche e quelle governative. Essi vengono scelti nelle forze di base e nei poteri locali; i comitati di quartiere, i comuni e le neonate regioni, i sindacati dei lavoratori e le associazioni più combattive che lottano per la casa, per i servizi, per il verde. Se le ragioni dell'urbanistica vogliono affermarsi, esse devono diventare patrimonio delle parti più attive e combattive della società: soltanto così si potranno compiere progressi anche sul terreno delle istituzioni.Parallelamente, si compie un consistente sforzo culturale per comprendere meglio le regole che di fatto determinano i processi di trasformazione urbana e territoriale. La critica alla speculazione fondiaria ed edilizia diventa più ferma, ma soprattutto più precisa. Si pone attenzione particolare agli esiti sociali delle operazioni e delle politiche urbanistiche. Si scoprono e si indagano le leggi dello "sfruttamento capitalistico del territorio"; a questo tema è dedicato il XIII Congresso nazionale, che significativamente si tiene nella sede della Cgil (il sindacato "rosso" dei lavoratori) ad Ariccia, presso Roma.
La ricostruzione dell'Inu dopo il '68
Fu in quegli anni, all'inizio del 1971, che Detti, colpito da un mio articolo sull' Unità in cui polemizzavo con una operazione "di destra" in corso nella Sezione campana, mi chiese di occuparmi della stampa. Così nacque la proposta di una rivista che rendesse l'Inu presente nella società e nell'immediatezza degli avvenimenti che incidevano sul territorio
Il progetto iniziale, per la verità, era diverso da quello che poi é stato attuato. Volevamo fare un mensile in collaborazione con altre organizzazioni culturali e sociali. Ma dopo un anno di tentativi, non si riuscì a raggiungere una decisione operativa. Si decise allora che l'Inu sarebbe partito da solo. Si era convinti che l'Inu rinnovato, finalmente liberato dalle collusioni con il Potere e con l'Accademia, aveva bisogno d'una voce, sia pure modesta, utilizzabile per ricostituire una base associativa e per radicarsi nella società civile. E non si riteneva opportuno riprendere la gestione di Urbanistica, in quegli anni affidata a Giovanni Astengo: sia per la pesante situazione di deficit che già caratterizzava la rivista ufficiale dell'Inu, sia, e soprattutto, per rispetto al suo direttore e alle sue fatiche.
Urbanistica informazioni per essere nella società
Così, all'inizio del 1972, uscì il primo numero di Urbanistica informazioni, stampato a Torino, nella stessa tipografia dove veniva stampata Urbanistica. In tutta la prima fase l'artigianalità era massima. Io stesso feci il progetto grafico. Con Vezio De Lucia costruivamo l'impaginazione incollando le bozze dei pezzi, che in grandissima parte scrivevamo noi stessi. Giulio Tamburini, Valeria Erba, Sandro Dal Piaz, Laura Falconi Ferrari, Felicia Bottino, Giusa Marcialis, Luigi Falco, Antonino Trupiano erano, nella fase iniziale, i collaboratori più assidui. Solo le iniziali, tra parentesi, siglavano gli articoli: volevamo evitare ogni personalizzazione. Non v'era personale retribuito. Le spese (poche) erano direttamente a carico dell'Istituto, i cui soci erano duecento: la rivista serviva anche per far conoscere l'Inu, aumentarne la base associativa. La rivista era semplice, severa, povera; tentava di non essere, né apparire, sciatta. Tutto era affidato alla ricchezza informativa, al contenuto, alla scrittura (tagliavamo e correggevamo impietosamente, a volte riscrivendo da capo).
Non ricordo la tiratura, che era comunque tra le 2 mila e le 3 mila copie, né il costo. La contabilità dell'Inu, e conseguentemente quella della rivista, era tenuta alla buona. Neppure c'erano archivi organizzati. A quei tempi, e per molti anni ancora, erano cose che non ci potevamo permettere: ci rimettevamo di nostro, a volte non solo il tempo.
Fin dall'inizio si impostò una struttura sostanziale della rivista che rimase immutata nelle sue linee essenziali, che furono - nelle differenti versioni ed edizioni - modificate e arricchite ma non stravolte.
Quattro erano le componenti essenziali di ogni fascicolo: gli editoriali; una parte informativa, formata da numerosi pezzi brevi (via via, nel tempo, diventarono ahimè meno numerosi e più lunghi); le cronache dell'Inu, che rappresentavano l'apporto ufficiale dell'Istituto; i dossier monografici, che col tempo diventarono una componente essenziale della rivista e, oltre a ciò, diedero luogo ai Quaderni.
In tutto il primo periodo (fino al 1978) gli interventi esterni, i veri e propri "articoli" firmati, erano eccezionali. Ma si aprì un dibattito, avviato da un intervento critico di Sandro Tutino il quale rilevava l'assenza di voci che esprimessero opinioni diverse da quelle della redazione o esplicitamente (come negli editoriali) oppure implicitamente (nella selezione e titolazione dei pezzi informativi). Da allora si promosse programmaticamente la ricerca di contributi diversi, che furono sollecitati sia aprendo dibattiti su determinati temi individuati dalla redazione, sia sollecitando l'espressione di "opinioni" che fossero chiaramente espresse come tali
Mentre la "struttura sostanziale" della rivista si è modificata gradualmente, la sua struttura formale ha conosciuto invece due cambiamenti di rilievo. Il primo ha coinciso con il mio trasferimento da Roma (dove la rivista veniva redatta e, dopo i primissimi numeri, anche stampata) a Venezia, e con la ricerca di qualche elemento di maggiore professionalità e di un carattere più strutturato e "ricco". Il secondo ha coinciso con la ripresa, da parte dell'Istituto, del possesso di Urbanistica, e con la volontà di avvicinare la grafica delle due riviste per dare un'immagine unitaria delle pubblicazioni dell'Inu.
Il primo cambiamento avvenne alla fine del 1976. Il progetto grafico fu disegnato da uno specialista. L'obiettivo era quello di rendere la rivista più visibile, data la discreta fortuna della vendita nelle librerie specializzate, che con grande fatica si era riusciti ad avviare. Il secondo cambiamento avvenne nel 1985, in occasione della nuova edizione di Urbanistica, ripresa in gestione dall'Istituto che ne affidò la direzione a Bernardo Secchi e l'edizione alla Franco Angeli. Per la grafica ci rivolgemmo allora alla stessa specialista che aveva disegnato la nuova veste di Urbanistica. I mutamenti più significativi di sostanza che corrisposero alla nuova forma sono stati l'aumento del numero delle pagine, l'ampliamento degli editoriali, la stabilizzazione delle "opinioni" e l'introduzione della rubrica "Anto-logia".
Il tentativo di unificazione formale e l'aumento di peso di Urbanistica informazioni rese però le due riviste troppo simili. Dopo un paio di annate si decise quindi di "impoverire" la rivista bimestrale. Tenendo conto anche dell' accresciuta offerta di materiale derivante dal consolidarsi dei "dossier", si iniziò la pubblicazione dei Quaderni monografici.
Un bilancio
Un bilancio della funzione sociale della rivista andrebbe commisurato innanzitutto al suo primo obiettivo: aiutare la ripresa organizzativa dell'Inu, far conoscere l'Istituto e diffondere la sua cultura, fornire ai soci un servizio che ne motivasse l'appartenenza. A me sembra che questo obiettivo sia stato raggiunto in misura abbastanza soddisfacente, come testimonia l'andamento di quel significativo "termometro" che é il numero dei soci: questi erano crollati a 231 nel 1979, erano diventati più di 1300 dieci anni dopo.
Il secondo obiettivo era quello di informare, nel modo il più possibile ampio, e "tendenzioso": in piena sintonia, dunque, con la rinnovata cultura dell'Inu, e con l'intento di contribuire all'affermazione (e, quando occorreva, alla difesa) del metodo e della prassi della pianificazione, del primato degli interessi collettivi e del ruolo degli istituti della democrazia. Strettamente connesso con questo obiettivo era quello di intervenire, per denunciare e proporre in relazione a quei medesimi intenti, ispirati a quello medesima cultura.
Abbiamo raggiunto questi obiettivi? Non posso essere io a dichiararlo. Posso però ricordare alcuni temi sui quali il nostro intervento è stato utile, sia perché anticipatore di altri, o addirittura unico, sia perché su quei temi la situazione si è modificata, forse anche per il nostro contributo.
Mi riferisco ai temi dell'intervento sul territorio delle grandi centrali del capitale privato, cooperativo e pubblico (un tema che abbiamo sollevato, con argomentate denunce, all'inizio degli anni '70, che abbiamo seguito nel corso degli anni, ma che é apparso in tutta la sua gravità solo in questi mesi, in occasione di Tangentopoli), del decentramento politico e amministrativo dei comuni e più in generale, dell'ordinamento amministrativo dello Stato (la nuova legge sulle autonomie locali é stata il risultato anche del nostro lavoro), dell'abusivismo edilizio e urbanistico, del recupero edilizio e, più tardi, della riqualificazione urbana, della tutela delle qualità del territorio e della pianificazione paesistica (siamo stati tra i pochi a stimolare un'applicazione corretta della cosiddetta Legge Galasso, e gli unici a documentarne l'attuazione).
Mi riferisco infine alla costante attenzione che abbiamo rivolto alla questione della riforma urbanistica, sul duplice versante del regime degli immobili e dei principi della pianificazione. E alla simmetrica denuncia che abbiamo fatto, ben prima che si parlasse di Tangentopoli, delle pratiche nefaste della "urbanistica contrattata", documentate nella loro consistenza e illustrate nelle loro conseguenze sull'assetto del territorio, sul sistema dei poteri e sulla moralità pubblica.
In relazione a questi temi, come alle concrete vicende della pianificazione a tutti i livelli, i fascicoli di Urbanisticainformazioni rimangono un archivio utile molto al di là della contingenza. Mentre le pagine sparse della Antologia possono, se proseguite, costituire un rilevante e aggiornato "fondo" della cultura urbanistica italiana e un non irrilevante strumento di formazione culturale delle nuove generazioni, e i "dossier" e i "Quaderni", "inventati" e curati in particolare da Filippo Ciccone, costituiscono ormai uno strumento di lavoro per chiunque operi nel campo dell'urbanistica.
Urbanistica informazioni e la cultura dell'Inu
Fino all'inizio degli anni '80 c'era consonanza piena tra le posizioni espresse da Urbanistica informazioni e quelle dell'Inu. Nel corso degli anni successivi cominciarono a registrarsi segni di differenza e di contrasto. Sul loro manifestarsi ha indubbiamente inciso la fase che attraversiamo.
Gli anni '80 sono infatti anni difficili per l'urbanistica italiana. Se il decennio precedente è stato quello nel quale (pur sotto l'infuriare del terrorismo rosso e delle "stragi di Stato") si sono strappati alcuni pezzi di riforma, gli anni '80 sono stati caratterizzati dalla stabilizzazione conservatrice e da una vera "controriforma urbanistica", i cui cardini sono stati lo smantellamento della legislazione riformatrice, l'utilizzazione di tutte le possibili situazioni d'emergenza (vere o inventate) per derogare rispetto agli strumenti e alle procedure della pianificazione, la legittimazione dell'abusivismo edilizio e urbanistico, il progressivo abbandono del principio della priorità dell'interesse generale a vantaggio della prassi dell'attribuzione di un valore salvifico a tutti gli interessi particolari, individuali, locali, privati. La "urbanistica contrattata" é l'espressione più compiuta e matura della nuova tendenza imperante.In quegli stessi anni si modificava la base associativa dell'Inu, e il suo mondo culturale di riferimento. Il "fare urbanistica", che una volta era appannaggio di una coraggiosa pattuglia di anticipatori, era ormai divenuto un'attività svolta da molte centinaia di tecnici, amministratori, ricercatori. Ciò provocava il confluire nell'Istituto di una pluralità di tensioni, di moventi, di interessi culturali, di aspettative professionali e accademiche. Ne nasceva lo stemperarsi graduale della capacità d'intervenire con tempestività e chiarezza sui fatti esterni, la difficoltà ad esprimere posizioni precise sulle stesse questioni di più diretto interesse degli urbanisti, e infine l'appannarsi di una "cultura dell'Inu" come tale riconoscibile.
Con tutte le approssimazioni e semplificazioni inevitabili quando si vuole costringere in poche righe l'illustrazione di una situazione complessa e dinamica, mi sembra che le posizioni, le linee, le tendenze che si sono manifestate all'inizio degli anni '80 possano essere ricondotte (almeno per quanto riguarda la loro incidenza più diretta sulla situazione dell'Inu) a due soltanto: quali che siano le sfumature e le articolazioni con cui ciascuna di esse concretamente si presenta.
Da una parte, quelle posizioni nelle quali è palese ed esplicita la continuità con la tradizione culturale dell'Istituto nei suoi cardini fondamentali: la prevalenza dell'interesse collettivo su quello particolare nelle soluzioni urbanistiche, il carattere strutturalmente pubblico del ruolo dell'urbanista, la stretta integrazione tra aspetti tecnici e aspetti politici, la priorità del momento della pianificazione rispetto a quelli esecutivi, progettuali, architettonici.
Dall'altra parte, le posizioni tendenti di fatto a proporre, e a praticare, una sorta di neutralità tecnica e culturale, di vera e propria indifferenza, dell'urbanista e della sua operazione professionale rispetto alle vicende e alle regole della politica, a privilegiare (se non ad esclusivizzare) vuoi gli aspetti, più che di analisi, di descrizione della realtà, vuoi, e soprattutto, gli aspetti formali, progettuali, morfologici delle trasformazioni urbane, quasi disinteressandosi dei concreti processi di trasformazione territoriale e del loro carattere complessivo. E' quella posizione che Luigi Scano ha definito di "afasia avalutativa", nella quale l'Inu é scivolato sempre di più nel corso degli ultimi anni.
"Complicità oggettive"
Ricordo un editoriale su Urbanistica informazioni del 1982, dove apertamente polemizzavo con quanti (anche nel mondo degli urbanisti) retrospettivamente irridevano agli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare che erano stati compiuti dai padri dell'urbanistica italiana negli anni '50, alle battaglie culturali e all'impegno professionale degli urbanisti che avevano tentato (a volte riuscendovi) di salvare le città italiane con la pianificazione. Una irrisione apparentemente volta al passato, ma in realtà finalizzata a colpire bersagli del presente.
Tira un vento di critica liquidatoria, scrivevo. Ma non si può ignorare che una simile critica esprime una "complicità oggettiva" (questo era il titolo dell'articolo) con la linea controriformista della maggioranza di governo e con la "deregulation" legislativa, Il patrimonio di elaborazioni e iniziative dell'urbanistica italiana, concludevo, deve essere assunto criticamente e, come ogni patrimonio culturale, pretende d'essere superato: non liquidato però, non negato attraverso un rientro dell'urbanistica nel ventre dell' architettura, attraverso l'enfatizzazione del momento individuale del progetto contro il momento collettivo del piano.
All'interno dell'Inu il confronto tra la posizione più critica e quella più difensiva della pianificazione ebbe il suo punto di partenza in una serie di iniziative volte programmaticamente alla "verifica dell'efficacia degli strumenti urbanistici", che culminarono nel Congresso di Genova del 1983. Parve allora ad alcuni che la difesa delle ragioni dell'urbanistica, e del piano, impedisse di porre nel dovuto rilievo la necessità di un rinnovamento dei metodi e degli strumenti della pianificazione. Altri individuavano invece, in una critica troppo unilaterale ai limiti e agli errori della pianificazione tradizionale, una pericolosa tendenza alla liquidazione dell'intero patrimonio culturale dell'urbanistica italiana.
Un mutamentodel patrimonio genetico
Riflettendoci a distanza di anni, mi rendo conto che da tempo si era avviato un vero e proprio mutamento del patrimonio genetico dell'Inu, riflesso e conseguenza del riverberarsi di concreti scontri d'interessi.
Il primo segnale fu forse costituito, verso la fine degli anni '70, dalla proposta di convertire l'Inu in una sorta di centro erogatore di servizi professionali. La proposta non fu accettata, perché si riteneva sbagliato introdurre nell'Inu, dove il lavoro dei membri degli organismi dirigenti era sempre stato volontario e gratuito, interessi di carattere venale e professionale, che avrebbero tra l'altro comportato una riduzione della libertà critica verso quei committenti cui ci si legava economicamente.Un secondo segnale fu costituito dall'incapacità di riprendere e completare la piattaforma di riforma del regime degli immobili, che era stata messa a punto negli anni tra il 1980 e il 1983 da una commissione coordinata da Luigi Scano. Essa era stata presentata alle organizzazioni sindacali, con grande interesse da parte dei loro dirigenti. Avrebbe dovuto essere precisata in alcuni punti di carattere strettamente tecnico (la definizione delle distinzione tra le "trasformazioni aventi rilevanza urbanistica" e le altre): le incertezze finirono per prevalere sull'esigenza di completare la proposta per rilanciarla con forza tra le formazioni politiche e sociali. Quella incapacità probabilmente non rivelava difficoltà tecniche, ma il disagio di proseguire lungo una linea di riforma che conduceva allo scontro aperto con i nuovi interessi immobiliari.
L'episodio più rilevante e significativo riguarda il tentativo di organizzare il XIX Congresso dell'Inu, che si è svolto a Milano nel 1990, come "congresso a tesi". L'intenzione era quella di far emergere, con la massima chiarezza ossibile, le diverse posizioni che nell'Istituto esistevano ma che non riuscivano a manifestarsi in modo compiuto. Solo dal confronto tra posizioni chiare, sostenevo, può nascere un dibattito fruttuoso al termine del quale, se possibile, emerga una sintesi, oppure si organizzi il pluralismo nelle forme della democrazia. Non bisogna temere di esprimere anche tesi contrapposte, se questo può aiutare a chiarire, a comprendere, a confrontare.
Per sollecitare il lavoro in questa direzione, presentai io stesso alcune tesi, sui punti nodali (quali il regime degli immobili, il rapporto pubblico-privato, il ruolo dell'urbanista). E quando altri presentarono tesi nelle quali non riconoscevo le mie posizioni, formulai e illustrai serenamente tesi alternative. Il tentativo di giungere a un compromesso ad ogni costo impedì un fruttuoso dibattito. La linea che prevalse fu quella di stemperare, annebbiare, smussare. Annegare ogni dissenso in un generico unanimismo sembrava essere diventato l'obettivo dominante.
In questa logica, vi furono perfino tentativi di espungere dalle tesi, che avevo presentato come base di discussione al congresso, riferimenti ad alcune situazioni concrete, utili per illustrare le tendenze in atto nella grandi città italiane (Milano, Firenze, Napoli, Roma) e le nuove forme della speculazione. Guarda caso, si trattava degli esempi più vistosi di quella "urbanistica contrattata" che finirà poi sulle prime pagine dei giornali e nelle aule giudiziarie. E significativamente, qualche anno dopo, all'Assemblea nazionale dei soci tenuta a Firenze il 30 maggio 1992, gli stessi che volevano anni prima censurare i riferimenti alle situazioni scandalose si opponevano all'approvazione di un ordine del giorno sui fatti di corruzione politico-urbanistica di Milano.
"Destra", "centro", "sinistra"
Negli ultimissimi anni, più d'un episodio ha reso evidenti due cose. La prima: all'interno dell'Inu si sono manifestati schieramenti, facilmente riconducibili alle classiche definizioni di "destra", "centro" e "sinistra". La seconda: la crisi degli organi dirigenti deriva dal fatto che queste diverse posizioni non si riconoscono in quanto tali, in quanto "diverse", e quindi non si apre tra loro una dialettica, un confronto esplicito, chiaro nei suoi termini e nei suoi sviluppi, che conduca a scelte definite.
Gli schieramenti non sono in alcun modo riconducibili a quelli tra forze politiche: non sono le tessere di partito che contano (esse sono distribuite tra gli schieramenti) ma le posizioni culturali. E il discrimine tra "destra" e "sinistra" é rappresentato da atteggiamenti diversi su alcune questioni di fondo, che sarà utile riepilogare.
Secondo una "parte", é giusto condannare senza mezzi termini la prassi che lega le scelte della pianificazione all'accordo preventivo con questo o quell'altro proprietario immobiliare, e che privilegia la ricerca di intese tra amministratore pubblico e privato proprietario non nella fase di attuazione delle scelte, ma in quella della loro definizione. La posizione di Urbanistica informazioni su questo punto é stata sempre molto rigorosa: siamo arrivati, nel 1986, a chiedere l'attenzione della Corte costituzionale. Ma secondo l'altra "parte" l'"urbanistica contrattata" é invece una strada obbligata per "rendere efficace il piano", per "farsi carico delle ragioni dell'economia" : di un'economia, per la verità, intesa in un modo abbastanza arcaico.
Sulla questione del regime degli immobili, quella medesima "parte" che ha il suo riferimento in Urbanistica informazioni ritiene giusto restar ancorati (come la rivista ha fatto nei venti anni della sua vita) agli obbiettivi della indifferenza alle destinazioni dei piani dei proprietari (tutti, quelli inclusi nelle zone suscettibili di trasformazioni e quelli esclusi), della non appartenenza privata del diritto a operare trasformazioni aventi rilevanza urbanistica, della non appropriazione da parte dei proprietari dei benefici derivanti dalle decisioni della collettività. L'altra "parte", invece, ritiene che si può e si deve riconoscere una determinata edificabilità minima (un plafond di edificabilità) a tutti i proprietari i cui beni siano inclusi in quelli trasformabili, e trattare per ottenere le aree da destinare alle utilizzazioni pubbliche operando trasferimenti di edificabilità.
Un altro punto nodale riguarda il ruolo dell'urbanista. Io resto convinto che la funzione della pianificazione urbanistica é (come alcuni di noi sostenevano nelle tesi presentate al Congresso di Milano) eminentemente di interesse pubblico, e quindi l'urbanista, in quanto responsabile tecnico degli atti di pianificazione, "é costitutivamente una figura pubblica ed esplica un ruolo pubblico" sia quando é un funzionario pubblico sia quando collabora come libero professionista. A questa posizione si contrappongono invece quanti ritengono che l'urbanista debba essere una figura professionale caratterizzata dalla "neutralità" e da una tecnicità al servizio di chiunque: in piena sintonia con quell'Inu "afasico e avalutativo" cui accennavo.
Altri punti di dissenso tra "sinistra" e "destra" certamente ci sono. Mi sembra che quelli che ho enunciato siano però sufficienti per comprendere come sia veramente drammatico che un istituto culturale, quale l'Inu é, non sia riuscito negli ultimi anni a far emergere in modo esplicito e argomentato, riconoscibile e comprensibile anche al di fuori della stretta cerchia degli organi dirigenti, le reali posizioni.
La speranza é che queste note di commiato, se certamente sono il prodotto di una sconfitta di quella posizione che ho definito di "sinistra", consentano almeno l'avvio di una discussione aperta, di un confronto chiaro, che si concluda poi al prossimo Congresso nazionale dell'Inu, che dovrà tenersi a Palermo entro pochi mesi.
Edoardo Salzano
LA CACCIATA DI VEZIO DE LUCIA
Il Ministro per i Llpp, Giovanni Prandini, sta procedendo a un'energica azione di "pulizia" nel dicastero che gli é stato temporaneamente affidato. Nel quadro di questa più ampia operazione Vezio De Lucia é stato rimosso dal suo incarico di Direttore generale al coordinamento territoriale. La motivazione ufficiosa é costituita dal fatto che le "opi nioni" di De Lucia sarebbero "contrastanti con quelle del Governo", cioé del Ministro.
La notizia é molto preoccupante, per l'urbanistica italiana ma anche per ragioni più complessive.
De Lucia é indubbiamente uno dei più preparati e autore voli urbanisti italiani: non lo diciamo tenendo presenti gli incarichi di rilievo che ha svolto nell'Inu, ma soprattutto ricordando la sua energica azione svolta sia all'interno del Ministero (dai tempi di Giacomo Mancini, Michele Martuscelli, Fabrizio Giovenale e Marcello Vittorini, fino a oggi), che al servizio di altre amministrazioni (come il Commissariato per la ricostruzione di Napoli e il Comprenso rio di Venezia). Che a De Lucia fosse affidata l'unica dire zione generale che si occupa di pianificazione territoriale e urbanistica, l'unico punto di riferimento per le politiche territoriali delle regioni e per le politiche di settore delle amministrazioni centrali, era un elemento di fiducia per molti: certamente, per chi ha a cuore le sorti del territorio italiano.
Ma De Lucia é anche un uomo che crede nello Stato e nel l'amministrazione pubblica come agli unici "padroni" che, in una società moderna, meritino di essere "serviti" da chi fa l'urbanista. E' proprio questa convinzione profonda che lo spinse ormai molti anni sono trascorsi ad abbandonare una lucrosa carriera in un'azienda privata per arruolarsi negli scomodi ranghi della pubblica amministrazione.
Davvero suicida, e per più d'una ragione, merita d'esser definito un governo che decide di privare lo Stato d'un simile qualificato, efficace e fedele servitore. Chi percorre simili strade porta un contributo rilevante alla degradazio ne dello Stato e delle sue strutture. Sono strade, sono ten denze (vogliamo annotarlo in questi giorni in cui così facilmente ci si riempie la bocca di richiami all'Europa) di segno opposto a quella perseguita dalle grandi democrazie europee, le quali si adoperano per reclutare funzionari qua lificati contendendoli all'industria privata, e chiedendo ad essi fedeltà alle istituzioni, e non a questo o a quell' altro padrino politico. Episodi come quello cui ci riferiamo ci confermano che a quelle democrazie riusciamo a fingere d'esser vicini solo arrampicandoci sulle statistiche dei dati più materiali.
Ma all'episodio di cui ci stiamo occupando é sottesa un' altra questione che travalica la persona di Vezio De Lucia. Crediamo che sia la prima volta che un alto funzionario dello Stato, cui é stata attribuita una funzione non di generica amministrazione, ma strettamente coerente con la sua specifica professionalità, sia rimosso dal suo incarico sen za che gli sia addebitato, né addebitabile, alcuno specifico errore di valutazione o di comportamento. E ci sembra si gnificativo che l'unica ragione per la rimozione sia la "di vergenza d'opinioni" con il Governo.
Questo é il punto. Questo governo (stavamo per scrivere "questo regime") non tollera che al servizio dello Stato vi sia chi ha autonomia di giudizio e di valutazione, chi non é uno yesman. Nei confronti di costoro non é necessario neppure un pretesto. Bisogna toglierli di mezzo, semplicemente
"Il caso di Milano scrive Campos Venuti nell'introdurre il dossier di questo numero é quello più rappresentativo della deregulation urbanistica italiana". Nella metropoli lombarda "la deregulation urbanistica e l'urbanistica contrattata si sono manifestate più esplicite che altrove", e "il 'non piano' é stato apertamente teorizzato". L'esempio é stato presto seguito; la teoria é divenuta prassi in molte città, é quasi diventata un costume. Ricordiamo i casi più significativi, come promemoria per i nostri lettori. Firenze. Una società privata compra un complesso di aree nella piana a nord-ovest di Firenze: una zona che da decenni é considerata strategica non solo per lo sviluppo della città e per il decongestionamento del centro, ma anche per la riorganizzazione dell'intero comprensorio Firenze-PratoPistoia. Il Comune con una mano sta elaborando una variante generale del Prg, ma con l'altra mano dà il via libera a un progetto di valorizzazione immobiliare del l'area nord-ovest presentato dalla società proprietaria, la Fondiaria (a cui si aggiunge un progetto di valorizzazione immobiliare della Fiat). Insomma, mentre si sta definendo il progetto complessivo dell'assetto della citta, si approva un piano (formalmente, una variante di Prg) redatto in funzione e su misura delle esigenze di valorizzazione immobiliare (una volta si diceva speculazione) di due società private
Napoli. Grandi interessi economici raggruppati sottola sigla del "Regno del possibile" propongono al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupero di quasi 70mila alloggi nel centro storico, inclusi gli oltre 5mila di proprietà dello stesso Comune, da conferire in pro prietà alla s.p.a. Le forme sono certamente ammodernate rispetto a quelle descritte da Francesco Rosi nel film "Le mani sulla città", ma il contenuto sostanziale é identico. Roma. L'Italstat acquisisce il possesso di una parte con sistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale. Su questa base, si propone come capofila di un pool di imprese (a capitale privato,pubblico e cooperativo) che vorrebbe sostituirsi al Comune nella pianificazione, progettazione e realizzazione di un sistema strategico per la trasformazione della città.
Trieste. Il Consiglio comunale di Duino Aurisina, un comune limitrofo al capoluogo giuliano,adotta (e la Regione rapidamente approva) una variante di Prg elaborata direttamente dai privati interessati: cioé da quella società Finsepol che come la Fondiaria a Firenze, come l'Italstat a Roma, come Berlusconi e Ligresti a Milano aveva previamen te acquistato le aree non per esercitarvi un'attività produttiva, ma proprio per compiere una operazione di "valorizzazione immobiliare" (come oggi pudicamente si dice). Un'operazione che, naturalmente, aumenta le cubature rispetto a quelle già consentite dal permissivo Prg vigente, e privatizza uno dai rarissimi lembi non asfaltatì né cementificati della costa giuliana, la splendida Baia di Sistiana.
L'elencazione potrebbe proseguire a lungo. Invitiamo anzi i lettori a segnalarci i casi analoghi, perché la documentazione possa arricchirsi. E invitiamo a intervenire nel dibattito sull'"urbanistica contrattata" anche chi non é d' accordo con la nostra tesi, che vogliamo qui sinteticamente ricordare.
Noi riteniamo che l'"urbanistica contrattata" sia un dan no grave almeno per tre ordini di ragioni. In primo luogo, perché trasforma l'assetto urbano e territoriale per singoli pezzi, impedendo qualsiasi controllo d'insieme sulle con seguenze delle singole trasformazioni e sugli effetti che esse inducono. In secondo luogo, perché distorce profondamente il rapporto tra gli interessi generali espressi dalla pianificazione, e specifici interessi economici di specifi ci operatori, rendendo questi ultimi leader anziché strumen ti attuatori del processo di trasformazione territoriale. In terzo luogo, perché riduce fortemente la trasparenza del processo delle decisioni e aumenta la discrezionalità dei singoli amministratori e delle segreterie dei partiti a discapito del potere delle istituzioni elettive.
DI NUOVO IL GOVERNO
CONTRO LA PIANIFICAZEIONE
Come in Emilia-Romagna (dove fortunatamente il Tar ha accordato la sospensiva alla "bocciatura" governativa del Piano paesistico), come in Sardegna (dove il Consiglio regionale ha riapprovato la legge "bocciata") così in Calabria: anche in questa Regione il Commissario di Governo ha respinto una legge regionale che, nelle more della formazione dei piani paesistici, definisce i contenuti della pianificazione regionale in coerenza con la legge 431/1895 e introduce alcune salvaguardie su determinate, e calibrate, componenti ter ritoriali.
Nel prossimo numero informeremo con ampiezza del contenuto della legge, di quello della pronuncia governativa e degli atti che la Regione avrà compiuto in merito. Qui vogliamo osservare soltanto che la posizione del governo é così contraddittoria, così contrastante con tutta la legislazione e la giurisprudenza vigenti, eppure così devastante nei suoi effetti, che se ne può trarre una sola conclusione. Il Governo é il più tenace e rozzo avversario della pianificazio ne regionale, dell'attuazione della legge 431/1985, e di ogni tentativo di tutelare l'ambiente attraverso la pianificazione e l'esercizio delle competenze costituzionali delle regioni.
Le immotivate bocciature delle leggi urbanistiche di tutela dell'Emilia-Romagna, della Sardegna, e oggi della Calabria appaiono così atti separati posti in essere dai diversi Commissari di Governo competenti (solo territorialmente, beninteso), ma collegati da un unico disegno, che non esitiamo a definire criminoso. A questo disegno la Regione Calabria può contrapporsi in un unico modo: riapprovando la legge così com'é.
Dal volume: Piano Urbanistico Territoriale dell'Area Sorretnino-Amalfitana, a cura di Italia Nostra, Consiglio regionale delle sezioni della Campania e dell'Istituto di studi filosofici, Napoli 2007 *
Nel descrivere la costiera amalfitana potevamo constatare, nel redigere il Piano territoriale di coordinamento della provincia di Salerno[1], che in quel territorio “il paesaggio storico insediativo ed agricolo conserva inalterati i suoi principali connotati, grazie anche alla rigorosa disciplina di tutela che si attua con il Piano urbanistico territoriale dell’area sorrentino-amalfitana”. In quell’area il nostro compito era facilitato. In effetti, quel piano indicava con grande precisione “le linee per realizzare il consolidamento e la conservazione della caratterizzazione insediativa, ambientale, socio-economica dell’area”.
Perciò, nel PTCP di Salerno abbiamo accolto senza riserve, nella sua interezza, il PUT dell’area sorrentino-amalfitana (ovviamente per la parte che ricadeva nel territorio salernitano) e abbiamo proposto “il coordinamento delle iniziative relative al territorio della provincia di Salerno con quelle inerenti le zone ricadenti nella provincia di Napoli, sia per le evidenti connessioni ambientali e funzionali che per le relazioni che hanno connesso storicamente i processi di evoluzione territoriale e socio-economica dell’area sorrentino-amalfitana”.
A differenza del PTCP di Salerno il PUT ha l’efficacia, insieme, di piano urbanistico e territoriale e di piano paesaggistico. La tutela del paesaggio può quindi prolungarsi e divenire operativa proprio attraverso la sua saldatura con le prescrizioni di carattere urbanistico (l’organizzazione delle diverse parti e componenti del sistema insediativo, le caratteristiche fisiche e funzionali degli edifici e degli altri manufatti) e quelle di carattere territoriale (la grande organizzazione del sistema cinematica e degli altri elementi territoriali alla scala di area vasta). Solo così è possibile tutelare la conformazione di un paesaggio nel quale l’intervento dell’uomo è stato profondo e costitutivo.
Questa natura del PUT, cui è affidata la sua virtuale efficacia, non può essere trascurata nel discutere sul “che fare” nel nuovo assetto degli strumenti di pianificazione introdotti dalla nuova legge urbanistica regionale. Se si volesse effettivamente “superare” il PUT con il piani provinciali di Salerno e Napoli, e si volesse al tempo stesso raggiungere il medesimo livello di tutela, occorrerebbe conferire ai piani provinciali contenuti e livello di dettaglio analoghi a quelli del PUT. Non solo, ma bisognerebbe risolvere il problema del coordinamento delle previsioni e degli interventi sull’uno e sull’altro lato del confine tra le province: un coordinamento che nel PUT è affidato all’unico piano, mentre nella prassi dei “ccordinamenti” e delle “intese” è affidato all’effimera liturgia dei “tavoli” e delle “conferenze”.
Il PUT rivendica con chiarezza il “ruolo prioritario della salvaguardia paesaggistica e ambientale”[2]. Le altre componenti del territorio, gli altri aspetti della sua conformazione fisica e funzionale sono disciplinati e progettati perché solo così, solo dettando regole precise alle azioni trasformative dell’uomo, si può ottenere una efficace tutela del paesaggio. Gli elaborati arrivano a decisioni e precetti di grande dettaglio: assumono la conformazione di una manualistica, di una guida attenta a chi deve operare offrendo puntuali indicazioni sulle stereometrie, sui materiali, sulle tecniche costruttive: su tutto ciò che concorre a determinare la forma della terra. Le proposte di riorganizzazione degli elementi funzionali del territorio (come il progetto di nuova configurazione del sistema della mobilità) e l’attenzione agli aspetti economici della sua utilizzazione (come l’attenzione alle esigenze della produzione agricola) sono finalizzate alla ricostituzione delle condizioni che consentano di conservare, ai nostri giorni, l’assetto territoriale peculiare di quei paesaggi.
Il grande merito del PUT è l’aver consentito di conservare sostanzialmente intatto uno dei paesaggi più belli e più interessanti del mondo: un paesaggio che testimonia i risultati eccezionali che si possono raggiungere quando tra il dato originario della natura e il lavoro e la cultura dell’uomo si raggiunge una sintesi creativa. Le condizioni materiali e culturali che consentirono, in molte parti del nostro paese di raggiungere (in misura maggiore o minore) risultati analoghi non esistono più. È difficile prevedere quando potranno essere ricostituite. Per farlo, occorrerà liberare la società contemporanea di credenze, miti e poteri che oggi appaiono fortemente radicati: l’ideologia della crescita indefinita di tutte le grandezze materiali, quella della modernizzazione come valore in sè, la prassi della riduzione d’ogni bene a merce e d’ogni valore a moneta, l’impegno nella cancellazione delle differenze (quelle biologiche come quelle culturali, quelle delle abitudini come quelle dei materiali) mediante l’omologazione ai modelli dettati dai poteri globali.
Un percorso lungo e aspro sarà necessario. Esili (sebbene crescenti) sono le forze che hanno consapevolezza della necessità di un’alternativa allo sviluppo in atto,e perciò la perseguono; fortissime, invece, quelle che non vedono altro orizzonte che la prosecuzione acritica delle tendenze. Anche per questo squilibrio, e per l’incapacità dei “modernizzatori” di concepire soluzioni diverse da quelle che rompono la continuità con il migliore passato, la conservazione deve essere oggi l’imperativo dominante: perché è necessario in se, e perchè possa essere testimoniata la possibilità di raggiungere, in un domani, risultati simili a quelli che i nostri antenati ci permettono oggi di ammirare.
Una conservazione che non sia l’alternativa allo “sviluppo”, ma la base per un altro sviluppo. Uno sviluppo che non cancelli il valor d’uso riducendo ogni bene a merce, ma metta in risalto la qualità dei beni disponibili. Che “valorizzi” nel senso di esaltare e amorevolmente curare, proteggere, restaurare, porre in evidenza il valore intrinseco presente nelle cose che il passato ci ha lasciato: dai paesaggi agli usi, dai sapori agli oggetti, dalle architetture ai mestieri. Che protegga le differenze e le individualità, difendendole dall’omologazione e dall’appiattimento.
Percorrere questo cammino è una scommessa per il futuro. Raccoglierla è perciò quello che ci si aspetterebbe da un ceto politico consapevole dell’abisso che sempre più si sta aprendo tra le sue pratiche e la società. Un abisso che può essere riempito solo dalla capacità di aprire la prospettiva di un futuro diverso. Si vogliono forse mobilitare le speranze per una Penisola sorrentino-amalfitana che diventi simile a Rapallo o ai Colli Aminei, o alla paccottiglia degli insediamenti turistici che si vedono nei cataloghi della agenzie di viaggi, oppure si vuole conservare e restaurare un territorio incomparabile, unico al mondo, riscattarlo nella sua unicità?
Questa è la scommessa. E il PUT precisa accuratamente le condizioni che devono realizzarsi, i percorsi che devono essere seguiti, per vincerla. Chiamano tutti in causa poteri che sono più alti di quelli delle singole amministrazioni comunali, che sono più generali dei singoli uffici dello stato. Sono soprattutto i poteri della Regione. È essa che ha compiuto il primo passo: la benemerita approvazione nel 1987 - quindici anni dopo aver fatto proprie le Ipotesi di assetto territoriale del Comitato regionale per la programmazione economica - del PUT, è ad essa che spetta il dovere di compiere i passi successivi.
Mi riferisco al sostegno alle attività agricole e silvo-pastorali tipiche del versante sorrentino, di quello amalfitano e della conca di Agevola e dei Lattari. Attività essenziali per il loro valore intrinseco e per il loro insostituibile ruolo ai fini della tutela del valore paesaggistico e della difesa del’integrità fisica del suolo. Mi riferisco al sistema cinematico, in cui le previsioni del piano (l’asse infrastrutturale dorsale di alimentazione del “pettine” di percorsi monti-costa e degli itinerari vallivi) sono essenziali per un corretto assestamento del turismo, per la vitalità quotidiana dei centri urbani e per la protezione dei paesaggi oggi più minacciati.
E mi riferisco alla gestione della tutela, della difesa dei beni culturali, architettonici, paesaggistici riconosciuti. Non si può mancar di sottolineare a questo proposito le parole del documento illustrativo del piano[3]: “Anche un notevole incremento del personale” addetto alla tutela dei beni culturali e paesaggistici non basterebbe a soddisfare l’esigenza di proteggere la ricchezza del territorio. I danni maggiori, e le peggiori devastazioni, hanno la loro causa principale nella “assenza di reale impegno di tutte le autorità pubbliche alle quali competeva la difesa del bene comune […] nell’enorme influenza negativa che i caotici interventi del capi tale privato hanno esercitato, e tuttora esercitano, sull’ambiente umano”, nella “sfiducia, così largamente diffusa nella pubblica opinione [che] è stata ed è purtroppo motivata dai numerosi e gravi crimini, urbanistici ed edilizi, che sono restati impuniti o, peggio ancora, colpiti da sanzioni talmente lievi e trascurabili da aver già costituito una previsione di spesa nel calcolo degli imprevisti”.
Parole scritte vent’anni fa, cui poco ci sarebbe da aggiungere. E non di positivo.
[1] Ho partecipato alla redazione del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Salerno. Il lavoro è iniziato nel 1996 e si è concluso con l’approvazione del piano nel 2004.
[2] Regione Campania, Assessorato all’urbanistica e all’assetto del territorio, Piano territoriale di coordinamento e Piano paesistico dell’area sorrentino-amalfitana – Proposta, Napoli s.d., p. 12.
[3] Regione Campania cit., pp. 108-109.
* Il volume ripubblica il testo integrale del PUT, una serie di contributi di R. Di Leo, V. De Lucia, E. Salzano, A di Gennaro, B. Rossi Doria, M. De Cunzo, L, De Falco e un testo di Luigi Scano
Pianificazione
Scritto per la rubrica “Glossario” de I frutti di Demetra, bollettino di storia e ambiente, n. 5/2005, marzo 2005. Tratta, molto sinteticamente, della pianificazione territoriale e urbanistica e della pianificazione strategica
La moderna pianificazione nasce sostanzialmente quando l’affermazione del sistema capitalistico di produzione, e il parallelo affermarsi della borghesia, si trovano a fare i conti con alcune contraddizioni nel funzionamento della città: contraddizioni che la spontaneità del mercato - rivelatasi decisiva per sviluppare la produzione - non solo non riusciva a risolvere ma anzi aggravava.
Oggi generalmente si intende per pianificazione territoriale ed urbanistica il metodo, e l’insieme degli strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni. Le trasformazioni territoriali oggetto della pianificazione sono quelle, sia fisiche che funzionali, suscettibili (singolarmente o nel loro insieme) di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma di parti significative del territorio, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.
Gli obiettivi posti alla pianificazione variano in relazione al contesto storico. Tutti i possibili sistemi di obiettivi oggi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.
Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazione sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.
Uno dei compiti della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti. Questa è la ragione per cui in Italia la pianificazione è sempre stata (fino alle recentissime rotture costituzionali) competenza specifica ed essenziale degli istituti elettivi di primo grado, nei quali si esplica nel nostro paese la democrazia; e anche la ragione per cui, nell’ambito delle istituzioni elettive, le scelte di maggior respiro (quelle relativa agli strumenti di pianificazione generale, dai piani regolatori comunali a quelli territoriali provinciali e regionali) sono state di competenza degli organismi consiliari, nei quali sono rappresentate anche le minoranze (scelta contraddetta da recentissime, e improvvide, leggi regionali, come quella della Campania).
La pianificazione territoriale e urbanistica nei termini in cui l’ho ora sintetizzata è soggetta in Italia a tensioni, che si esprimono sia in tentativi di adeguamento alle nuove esigenze e ai nuovi strumenti che è possibile impiegare, sia a tentativi di radicale stravolgimento.
Tra i primi collocherei gli sforzi che molte regioni hanno fatto, soprattutto tra il 1995 e il 2000, per introdurre nella legislazione urbanistica procedure e strumenti volti a privilegiare la considerazione degli aspetti ambientali e culturali, ad aggiornare sistematicamente le scelte sul territorio sulla base del ruolo rilevante dei quadri conoscitivi e del monitoraggio degli effetti, a snellire le procedure conservando, e anzi rafforzando, il carattere democratico e la trasparenza del processo delle decisioni.
Tra i secondi porrei in grande evidenza i tentativi compiuti (e malauguratamente vicini a cogliere l’obiettivo, se passa la cosiddetta Legge Lupi) di sostituire all’urbanistica “autoritativa” o “regolativa”, cioè tradotta in regole d’azione sul territorio stabilite dai poteri pubblici espressi dalle istituzioni democratiche, l’urbanistica “negoziata” con i poteri economici dominanti nei differenti contesti territoriali; quindi, in Italia, soprattutto con la proprietà immobiliare e con gli interessi finanziari ad essa legati.
In una posizione intermedia porrei i tentativi, di introdurre, prevalentemente accanto o indipendentemente dalle procedure tradizionali di pianificazione, procedure e strumenti definiti di “pianificazione strategica”. Su questa vale la pena di soffermarsi.
In Italia spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deforma il significato, il contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Anche per questo è utilissima una rubrica, come “Glossario”, che si preoccupa di stabilire il senso delle parole. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jacques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche nella sinistra si sia adoperato quel termine per dire “privato è meglio” sconcerta. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo severo significato reale. Così vale per la parola “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.
Sappiamo che è un termine relativo all’arte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).
Nel campo del territorio e del suo governo la strategia ha allora a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro. E assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso: deve fare i conti con il sistema delle istituzioni, nelle quali il consenso oggi si esprime.
Ulteriore segno dell’italiana confusione dei significati, da noi per pianificazione strategica si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni
Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.
Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorre, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, nella pratica delle istituzioni e impadronendosi di esse e delle loro regole, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti della pianificazione, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.
Edoardo Salzano, 27 febbraio 2005
È vero quello che molti hanno detto. I crolli delle case (a Foggia come a Roma), le frane e le colate di fango e l’esondazione dei fiumi e dei torrenti (in Campania e in Sicilia come in Liguria e in Piemonte) non testimoniano solo né tanto la fragilità dei nostri territori. Essi disvelano ogni anno, e più volte all’anno, i gravissimi guasti che alcuni dissennati decenni di rapine e di saccheggi hanno provocato: dagli anni forsennati di una ricostruzione postbellica all’insegna dell’ ognuno si arrangi come può , a quelli del boom dell’edilizia e dell’automobile. Ha ragione Franco Botta, quando sull’ Unità di ieri scrive: “L’arte dell’arrangiarsi ha consentito agli interessi miopi e speculativi di avere campo libero, e tutto questo ha prodotto città che sono invivibili e fragili”.
Non da oggi questo avviene. Non da oggi le case crollano e le montagne vengono giù a pezzi e le alluvioni travolgono paesi e città. Il guaio è che a questi eventi ci siamo assuefatti. Fanno parte della routine, ormai: ci si commuove per un po’, si accusano i soliti ignoti, e poi si dimentica, senza neppure provare a cambiare qualcosa nei meccanismi che di quei drammi sono all’origine.
Una volta non era così, giova ricordarlo. Giova ricordare quello che accadde, per esempio, nel 1966, all’indomani del crollo di Agrigento (decine di palazzi crollarono in una notte, miracolosamente senza vittime), e delle alluvioni dell’Arno e dell’eccezionale alta marea di Venezia (sorella acqua minacciò di affogare due gioielli della civiltà mondiale). L’opinione pubblica insorse, il Parlamento denunciò, discusse, e subito legiferò. Venne approvata (nel 1967) una legge urbanistica: non “la riforma”, ma alcune norme semplici e razionali. Si rafforzarono le regole di controllo dell’uso del territorio, si impose la pianificazione urbanistica ai comuni diventati complici dell’”arte di arrangiarsi” a danno della collettività, si disciplinarono le lottizzazioni dei terreni imponendo standard di spazi pubblici e perequazione tra i proprietari.
Poi vennero (nel 1970) le regioni, cui la Costituzione affidava importanti compiti di governo del territorio. Con esse, emersero con evidenza le differenze nei comportamenti pubblici delle diverse parti del paese: in alcune regioni (poche) si fecero delle buone leggi e si provò a pianificare l’uso del territorio e delle sue risorse, nelle altre ci si limitò a sommare i difetti della miopia dello stato centralistico con quelli della permissività delle amministrazioni locali.
Negli stessi anni si sviluppò (grazie anche al maggiore benessere) una nuova attenzione all’ambiente, al paesaggio, alla qualità della vita. Ciò provocò, dopo anni di dibattiti e di lavoro, alcune leggi positive: sulla difesa del suolo e delle acque, sulle zone protette, sul paesaggio. Leggi che davano strumenti per un governo del territorio le cui regole fossero ispirate alla prevenzione dei rischi, alla tutela delle risorse naturali, alla salvaguardia dei patrimoni della storia e del paesaggio.
Ma negli stessi decenni maturarono tendenze di segno opposto. L a compiacenza verso l’abusivismo, e addirittura la sua legalizzazione con i condoni. Lo svuotamento dei tentativi delle pianificazioni regionali, l’ insabbiamento delle leggi di tutela, l’allargamento delle deroghe concesse per ogni evento “eccezionale”: dalle alghe in Adriatico ai Mondiali di calcio. Mentre la crescente fragilità del territorio, devastato da decenni di spreco, avrebbe chiesto regole più rigorose, controlli più accurati, impiego delle risorse più mirato, pianificazione del territorio più generalizzata e penetrante, la moda (e gli interessi emergenti) spingevano nella direzione opposta: verso la deregolamentazione, anzi, verso il disprezzo di ogni regola, e la sostituzione ad esse del’ autocertificazione. (Sapete che una Regione ha introdotto l’ autocertificazione, cioè la dichiarazione unilaterale dell’ interessato, alla concessione edilizia anche in caso di costruzioni del tutto nuove?).
Sembrava che la scoperta e la denuncia di Tangentopoli, la rivelazione dei nessi tra il sistema della corruzione e quello della deregolamentazione urbanistica e dell’elusione dei controlli, aprissero una stagione nuova. Le indagini e i processi avviati dalle preture di Mani pulite sembravano aver aperto la strada alla riscossa di una politica capace di restituire centralità all’interesse collettivo (delle generazioni presenti e di quelle future). Sembrava che la riduzione dell’ingerenza dello stato (e dei partiti) dalla gestione delle aziende e dell’economia potesse aumentare l’efficienza dello stato nella sua autorità di costruttore e custode delle regole valide per tutti, e delle infrastrutture essenziali per la vita delle aziende e delle famiglie (il suolo e la città sono una di quelle essenziali).
Molti di noi pensano che così non siano andate le cose. E allora alcuni sono sollecitati, dal crollo di Foggia, a una conclusione amara. Piangere per i morti di Foggia sembra naturale. Lo è, se in un animo alberga la pietà. Dati i tempi, e il segno che in essi sembra prevalere, sarebbe forse più saggio rassegnarsi a convivere con i lutti del territorio.
Avevamo scherzato nel numero scorso di questa rivista, inducendo il lettore ad attribuire al Presidente del Consiglio italiano (che, mentre scrivevamo, non era stato ancora designato dal Presidente della Repubblica), le frasi molto decise, a favore dell'urbanistica e della pianificazione che il prémier francese, Bérégovoy, aveva da poco pronunciato. La nostra ironia si é rivelata profetica. Infatti il Presidente del Consiglio della nostra Repubblica, l'on. Giuliano Amato, ha inserito nelle sue dichiarazioni programmatiche una frase nella quale solennemente il Governo si impegna a riformare le norme che riguardano "regime giuridico dei suoli e indennità di esproprio". E' la prima volta che capita, dopo moltissimi anni: forse bisogna tornare con la memoria ai governi dei primi anni '60 per trovare l'urbanistica tra le questioni prioritarie che un governo dichiara di voler affrontare.
Poco importa che la frase pronunciata dall'on Amato sia ripresa testualmente dal documento che il leader del Pds, l'on. Occhetto, aveva illustrato a nome del suo partito al Presidente della Repubblica nel corso delle consultazioni per la formazione del Governo. Il fatto che il premiér abbia accolto, nel suo programma, un tema proposto da un leader dell'opposizione adoperando le sue stesse parole rafforza semmai l'importanza politica della dichiarazione.
E poco importa rilevare che promettere adempimenti legislativi su un tema particolare (regime degli immobili) può sembrare riduttivo rispetto al più ampio impegno di Bérégovoy, il quale, come il lettore ricorderà, ha dichiarato a Mulhouse di voler fare "della pianificazione territoriale una vera priorità nazionale". E in effetti nel nostro paese (ancor più nella vicina Repubblica) la questione del regime immobiliare é il vero nodo sul quale s'infrangono, o restano insabbiate, i tentativi della pianificazione.
Interessa invece sottolineare le ragioni per cui Amato si é sentito sollecitato ad assumere quell'impegno. Per Bérégovoy, l'interesse per gli attrezzi dell'urbanistica nasce dalla consapevolezza che la pianificazione é uno strumento indispensabile alla Francia per reggere vittoriosamente alla concorrenza europea. Per il nostro prémier, risolvere la questione del regime immobiliare é necessario, come egli stesso ha affermato, "per consentire alle amministrazioni locali di superare definitivamente la pratica dell'urbanistica contrattata". Per la Francia, insomma, il rilancio dell'urbanistica serve per guardare al futuro, per vincere, per andare avanti. Per l'Italia, il ritorno all'urbanistica serve per difendersi dalla melma della corruzione politica ed economica. Per la Francia, l'urbanistica é un treno per l'Europa; per l'Italia, una corda afferrata per tentar d'uscire dalla palude di Tangentopoli.
Resta comunque il fatto, per noi rilevante, che si é ricominciato, ai massimi livelli di governo del paese, a parlar d'urbanistica. E resta il fatto che é la prima volta che il termine "urbanistica contrattata" entra nel linguaggio politico ai livelli più rappresentativi, e che la "pratica" che quel termine esprime viene additata come qualcosa da contrastare. Era necessario un trauma per giungere a tanto: il trauma determinato dal fatto che non solo faccendieri e palazzinari, ma anche costruttori seri, presidenti e amministratori delegati di prestigiose società, e soprattutto assessori, sindaci, dirigenti politici influenti, deputati, e perfino potenti ministri ed ex ministri, sono stati acchiappati, da un pugno di magistrati coraggiosi, nella rete del codice penale. Era necessario, insomma, che esplodesse Tangentopoli.
I nostri lettori sanno bene che cos'è l'urbanistica contrattata. Molte volte infatti, su queste pagine, abbiamo documentato e denunciato sia singoli episodi, sia le più complessive politiche di cui l'urbanistica contrattata é l'espressione. Gioverà tuttavia tornare sulla questione, approfittando dell'impietoso fascio di luce che su di essa ha gettato lo scandalo di Tangentopoli per riaprire la riflessione.
In sintesi, l'"urbanistica contrattata" é la sostituzione, a un sistemadiregole valide ergaomnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazionediretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere: dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.
L'urbanistica contrattata é allora in primo luogo il trionfo della discrezionalità. Ma perché una prassi discrezionale possa affermarsi, é necessario che il sistema di regole cui essa si sostituisce venga preliminarmente screditato. Il tentativo, largamente riuscito, di screditare la pianificazione urbanistica é infatti il filo rosso che percorre gli anni dell'urbanistica contrattata. Si é cominciato con il condono dell'abusivismo, varato nel 1984 a conclusione di un quinquennio ricco di tensioni e di colpi di scena.
Nella strada che conduce a Tangentopoli il condono dell'abusivismo é stato un momento decisivo proprio perché ha costituito la testa d'ariete per smantellare l'edificio della pianificazione. E infatti, per poter condonare così estesamente come allora si tentò (riuscendovi in larga misura) gli interventi posti in essere contro la pianificazione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella pianificazione. E' proprio questo ciò che avvenne, nel corso del primo quinquennio degli anni '80.
Molti lettori lo ricorderanno. In quegli anni si attribuiscono all'urbanistica le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". L'urbanistica é un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo é nato e si é sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". (Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione")..
Nel commentare a caldo, nella primavera del 1985, la conclusione della vicenda potevamo legittimamente osservare, sul n.80 di questa rivista, che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato" Una parte consistente dell'opinione pubblica era giunta ormai a considerare l'abusivismo come qualcosa che non é un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pagare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a saldarvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abusivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. "Sicché - scrivevamo - in definitiva l'abusivismo appariva come qualcosa di assimilabile a una disubbidienza civile nei confronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si proponeva di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica".
Alla delegittimazione culturale, sociale e politica dell'urbanistica si é accompagnata (come su queste pagine abbiamo puntualmente registrato) la costruzione di un vero e proprio sistema di strumenti idonei a rimpiazzare le regole date del governo del territorio con procedure di supporto alle operazioni, d'interesse smaccatamente privatistico, che scacciavano la pianificazione, così come, secondo gli economisti, "la moneta cattiva caccia la moneta buona". Si trattava delle deroghe e della sempre più ampia estensione della loro portata, delle infinite e incontrollate varianti agli strumenti urbanistici frettolosamente formate ad hoc per ogni occasione (migliaia a Firenze, per una decina di milioni di metri cubi a Milano), dell'impiego sempre più esteso dello strumento della concessione (cioè della delega ad aziende private di poteri pubblici), della formazione di consorzi di aziende (in un sapiente mix di capitale publico, spesso capofila, privato, e cooperativo rosso, bianco e rosa) come attrezzo utile per garantire un ampio consenso.
E' attraverso questo sistema di strumenti che si é costruita Tangentopoli. E' solo ripristinando gli strumenti della pianificazione urbanistica (di una pianificazione all'altezza dei problemi, delle esigenze e delle possibilità di oggi) che Tangentopoli potrà essere distrutta. Ma é un'azione allora che, prima ancora che sul piano della legislazione, dovrà essere condotta su quello della cultura politica. Occorre insomma, in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del governo del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò nei terribili anni '80 é stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti
In altri termini, solo se la politica assumerà di nuovo piena consapevolezza dell'indispensabilità del metodo della pianificazione territoriale e urbane potranno poi, da questa convinzione, scaturire leggi adeguate e (quello che più é mancato anche nei periodi di sufficiente produzione legislativa) una loro coerente applicazione.
All'inizio dell'XI legislatura, é stata presentata alla Camera, dai deputati Enrico Testa, Sauro Turroni ed altri, una proposta di legge volta a dare risposte, transitorie ma immediate, ai tre più gravi nodi che stanno ponendo ostacoli quasi insormontabili alla pratica di un corretto ed efficace governo del territorio. E cioè a quello della determinazione delle indennità di espropriazione, a quello dell'efficacia e della durata dei cosiddetti vincoliurbanistici, ed infine a quello dell'adeguamento automatico dei contributi afferenti le concessioni edificatorie. Un provvedimento redatto secondo le linee che erano emerse al convegno dell'Inu tenuto a Firenze nel ... scorso.
In sede di conversione in legge del decreto-legge n. 333/1992 ("Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica") l'on. Botta ha un emendamento (accolto dal Governo ed approvato) mediante il quale si é stabilito che. "fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni", l'indennità di espropriazione per le aree edificabili è determinata a norma della legge di Napoli (n. 2892/1885), "sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi", e riducendo l'importo così determinato del 40 per cento. Torneremo nel prossimo numero su questo provvedimento, per illustrarlo esaurientemente e chiarirne non solo i limiti (anche al confronto con la proposta Testa-Turroni), ma anche gli errori. Qui vogliamo limitarci a osservare che un risultato, quanto meno, si é raggiunto. Si é infatti tolto ai fautori dell'urbanistica contrattata l'alibi che ne sorreggeva le argomentazioni. Quanto volte, infatti, si é detto che bisognava ricorrere all'accordo con i proprietari, condizionando a questo accordo preventivo le scelte della pianificazione, sol perché altrimenti non era possibile acquisire le aree necessarie per le esigenze collettive!
Adesso l'espropriazione per pubblica utilità é di nuovo possibile, e a prezzi contenuti. Non c'è più alcuna ragione, e neppure alcun alibi, per adoperare la prassi dell'urbanistica contrattata.
Ha vinto la ragione. La pressione dei cittadini veneziani e del Comune, l'appello dell'opinione pubblica internazionale e della cultura europea e mondiale, il solenne monito del Parlamento europeo, hanno infine prevalso. Il Parlamento della Repubblica è riuscito a far sentire la sua voce e il suo peso. E il Governo dopo aver dato l'impressione di non saper far altro che giocare allo scaricabarile, ha avuto un soprassalto di buon senso e di dignità: ha ritirato la candidatura di Venezia per l'Esposizione universale del 2000.
Ricordiamo tutti la vicenda. L'idea di fare a Venezia una Expo era stata lanciata da Gianni De Michelis nell'autunno 1984, alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative. Le reazioni di una parte consistente dell'opinione pubblica veneziana e italiana furono immediate, ma De Michelis avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell'Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell'industria, si assicurò l'appoggio di prestigiosi esponenti della cultura, costruì una solida piattaforma d'intesa con i dorotei veneti fingendo d'allargare l'impatto dell'Expo all'intero Veneto. Con procedure discutibili, una "prenotazione" ufficiale per l'Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), il quale svolse l'istruttoria preliminare.
Sembrava che i giochi fossero fatti.Mentre lavoravano i promotori dell'Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta sarebbe stata una rovina per Venezia. Si accumularono materiali di conoscenza e di analisi che consentirono di comprendere (e di far comprendere) in che modo l'Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle "pietre" della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l'assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi.
Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell'area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto.Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero. pubblicato su L'Unità del 13.6.1990.
Ho due ragioni per essere contrario alla costruzione dell’auditorium a Ravello: 1) l’intervento è illegittimo, e battersi per ottenerlo significa avallare la pericolosissima teoria e prassi secondo cui se una legge ostacola ciò che voglio fare, beh, abroghiamola o scavalchiamola; 2) è sbagliato perché non ha senso modificare un paesaggio già perfetto di per sé, che non ha bisogno d’aggiunte.
La prima ragione mi sembra la più grave. Che l’intervento sia in contrasto con la legge regionale 35 (1987), che ha approvato il piano urbanistico territoriale della Costiera in attuazione alla legge Galasso, non è questione di cui si possa dubitare. Lo ha spiegato con molta chiarezza Alessandro Dal Piaz sul Corriere del Mezzogiorno del 14 gennaio 2004. E se qualcuno di quelli che hanno dato il parere favorevole avesse letto il testo della legge regionale e quello del Put non staremmo a questo punto. Del resto, già in una precedente occasione il Tar aveva rilevato che la previsione dell’auditorium è in contrasto con la legge: con l’ordinanza 1350 del 5 luglio 2000, «ritenuto che sussiste il contrasto con il Put» , il Tar sospese la delibera commissariale di adozione del Prg.
Salvatore Settis scriveva su la Repubblica del 23 gennaio: « Chi studierà la svalutazione delle istituzioni? » . E osservava che « l’Italia di questi anni è un eccellente laboratorio d’indagine per chi voglia cimentarsi col tema; specialmente per chi voglia studiare come possano essere le istituzioni a svalutare se stesse, e utilizzando meccanismi istituzionali » .
Questo di Ravello è proprio un caso tipico dell’anomalia italiana descritta da Settis: la Regione promuove un Accordo di programma per tentar di annullare, in un singolo caso, una legge che, viceversa, dovrebbe essere uguale per tutti.
Mi sembra molto grave, e mi dispiace molto che persone come Paolo Sylos Labini e Nicola Cacace, Massimo Cacciari e Franco Barbagallo, Giovanni Valentini e Giorgio Ruffolo — e tanti altri — non se ne siano accorti. So che il clima generale è questo, che la tendenza a privilegiare l’interesse specifico rispetto alla legge è forte, ma a maggior ragione mi preoccupa che nessuno — tra i difensori dell’auditorium — si sia reso conto che anche in questo caso la difesa della legalità deve essere la prima preoccupazione.
Ho parlato e parlo di auditorium, e non di progetto di Niemeyer, perché il progetto non è di Niemeyer. La questione non è di grande rilievo, ma ha avuto un peso strumentale. Non credo che 165 intellettuali si sarebbero spesi per un appello se si fosse trattato di difendere, che so, un progetto dell’architetto Rosa Zeccato. Eppure, stanno difendendo proprio il progetto di Rosa Zeccato, ispirato da uno schizzo di un architetto che, sia pure famoso ( e bravo a costruire nuove città nel deserto), a Ravello non ha mai messo piede. Ce lo dice candidamente il sindaco di Ravello, in un suo ampio intervento sul Corriere del Mezzogiorno del 15 gennaio.
Che il progetto sia di Niemeyer o dell’architetto Zeccato ( che immagino bravissima) a me peraltro poco importa.
Sul merito del progetto per me il punto è un altro. Io sono convinto che non tutte le parti del territorio della nostra civilissima Italia abbiano bisogno di essere trasformate con l’aggiunta di nuovi oggetti. E a me sembra che Ravello abbia una qualità che non tollera né aggiunte né sottrazioni ( salvo forse quelle poche opere abusive che qui o là s’intravedono).
Vogliamo Niemeyer? Benissimo. Ha costruito a Segrate, chiamiamolo a fare un progetto a Scampìa o a Nola o a Soccavo, se la legge e i piani lo consentono. Ma lasciamo in pace Ravello, e per i concerti utilizziamo Villa Rufolo, Villa Cimbrone, e magari San Giovanni del Toro.
Ascoltati gli interventi di quanti sono intervenuti alla trasmissione della Rai Ambiente Italia ( ieri pomeriggio, ndr),
devo dire che le mie preoccupazioni sono aumentate. Non mi hanno convinto le difese della bellezza dell’oggetto, perché non è questo che conta: non stiamo parlando di un quadro attaccato a un muro. Né mi hanno convinto le teorizzazioni di chi sostiene ancora oggi ( come si sosteneva cinquant’anni fa a proposito dei centri storici) che dappertutto si può trasformare a condizione che la trasformazione sia « bella » . Mi ha preoccupato il fatto che il tentativo di scavalcare la legge ( perché è questo che si è fatto) sia stato ridotto dal rappresentante di Legambiente a una questione di « prob lemi legali » , come se si trattasse di un affare di condominio o di eredità. Mi ha preoccupato che si sia addirittura proposto al Consiglio regionale ( come ha fatto il direttore del Wwf) di fare una legge eccezionale per Niemeyer. Dopo il « Lodo Schifani » siamo al « Lodo Benedetto » ? Il paesaggio non si salva se si avalla la teoria secondo la quale la legalità è qualcosa che si può aggiustare, come certi giudici disonesti, pagati da certi avvocati malfattori, aggiustavano certi processi.
Edoardo Salzano
IL PASTICCIO URBANISTICO NON E' PASSATO
Tristi questi tempi. Bisogna gioire del fatto che una legge, partita con l'ottima intenzione del legislatore di regalare al paese la riforma del regime degli immobili (o almeno del regime dei suoli) che aspettiamo da un quarto di secolo, sia restata impaniata nella precoce fine della legislatura. Ce ne dispiace per tutti quelli che, alla Camera e al Senato, con molta buona volontà e molto impegno, si sono adoperati per discuterla, correggerla, verificarla. Ce ne dispiace meno per quegli urbanisti che, fin quasi alle ultime battute, hanno lavorato perchè in qualche modo venisse approvata. Ma ne siamo lieti per le città e il territorio, e per il loro governo.
Quella legge (non abbiamo mai mancato di dirlo e di dimostrarlo) era un pasticcio. Era sbagliata fin dall'inizio, fin dall'originaria impostazione del sen. Cutrera. Ma era allora, quattro anni fa, un meccanismo correttamente basato su un principio perverso (quello della "spalmatura", dell'attribuzione a ogni proprietà fondiaria di un diritto di edificabilità), sebbene temperato dal riconoscimento della non edificabilità delle aree di oggettivo interesse paesaggistico. Via via era diventata un pasticcio che avrebbe seppellito ogni residua possibilità di governo del territorio mediante la pianificazione.
Nel numero scorso di questa rivista abbiamo pubblicato un ampio e documentatissimo dossier di Maurizio Coppo, i cui argomenti sono stati decisivi per indurre i parlamentari del Pds a "togliere la legislativa" (cioè a ritirare l'autorizzazione alla maggioranza a votare la legge direttamente in Commissione), e per sollecitare i deputati della Sinistra indipendente e della Lista verde a praticare in Aula un robusto filibustering l'ultimo giorno di validità parlamentare. Vogliamo ricordare un paio di dati di fatto illustrati nella ricerca di Coppo, perchè in essi sono le ragioni della nostra odierna soddisfazione per lo scampato pericolo.
I più gravi vizi sostanziali della proposta di legge erano in due aspetti: quello economico e quello urbanistico.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è dimostrato innanzitutto che la variazione del rapporto tra valori dell'indennizzo e valori di mercato sarebbe elevatissima (dal 10 al 250 per cento). Ciò contraddirebbe pesantemente il principio di equità, cui la Corte costituzionale è particolarmente legata, e inoltre obbligherebbe i comuni ad esborsi elevatissimi nella situazioni sopravvalutate e a subire contenziosi infiniti in quelle sottovalutate.
In secondo luogo, nella maggior parte dei comuni gli introiti derivanti dai contributi di maggiore edificazione sarebbero stati tali da non compensare nemmeno gli indennizzi per l'acquisizione delle aree occorenti per gli standard urbanistici necessari per i nuovi insediati. Lungi dal risolvere positivamente i problemi della gestione urbanistica dei comuni, la legge li avrebbe addirittura aggravati.
Dall'analisi di Coppo appare evidente che nessuna correzione del sistema previsto dalla legge avrebbe potuto emendarne i vizi che danno luogo a risultati così scoraggianti. Ma ancor più evidente è il vizio di fondo della proposta se se ne esaminano gli aspetti urbanistici: le perverse ricadute sulla pianificazione urbana e territoriale.
"Data la diretta relazione tra indici fondiari, valori degli indennizzi e valori dei contributi per la maggiore utilizzazione fondiaria, le scelte urbanistiche determinerebbero, anche più che nella situazione attuale, pesantissime implicazioni d'ordine economico; tali implicazioni renderebbero da un lato la pianificazione urbanistica oltremodo complessa e dall'altro la sua gestione ancor più conflittuale di quella attuale".
Con buona pace per chi pensa (come noi pensiamo) che obiettivo di una riforma deve essere quello di tendere verso "l'indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani", per adoperare l'espressione di Aldo Moro all'epoca del primo governo di centro-sinistra.
Alla soddisfazione per lo scampato pericolo vogliamo aggiungere la speranza che il Parlamento che eleggeremo sia più maturodi quello appena sciolto, e meglio capace di affrontare, e finalmente risolvere, il problema sotteso al pasticcio urbanistico della X legislatura.
La prima sezione della Cassazione civile ha pronunciato una sentenza d'importanza capitale (21 ottobre 1991, n.11133). Ancora più importante oggi, dopo il definitivo arenarsi della legge sul regime dei suoli.
La Cassazione ha infatti decretato che, in caso di esproprio di un'area per la quale uno strumento urbanistico formato a norma di legge prevede un vincolo di inedificabilità, l'indennità espropriativa non deve essere riferita ai valori di mercato conseguenti dalla potenzialità edificatoria, perchè l'edificabilità di quell'area è stata legittimamente cancellata.
Il compenso dovuto dal proprietario può invece tener conto delle utilizzazioni legittime in atto o possibili quali, esemplifica la sentenza, quelle per parcheggio, oppure per l'installazione di chioschi o di altre strutture mobili. (La sentenza è pubblicata e commentata sul Corriere giuridico, n.1/1992, con un acuto commento di Antonio Catalano).
Il fatto più rilevante è che la sentenza non si riferisce ai vincoli cosiddetti "ricognitivi" (quelli cioè derivanti dalla "ricognizione", e dalla puntuale individuazione, di beni appartenenti a categorie vincolate da una legge, come ad esempio i beni culturali o le emergenze naturalistiche). Essa si riferisce,nella fattispecie, a un vincolo cemeteriale, con argomentazioni che sono immediatamente e quasi meccanicamente estensibili a tutti i vincoli derivanti da leggi, e più in generale sono riferibili a qualsiasi vincolo posto dallo strumento urbanistico.
Singolare è infine che il Consiglio di Stato abbia fatto riferimento a un criterio di valutazione dell'indennità (quello basato sul valore derivante dalla utilizzazione legittima in atto) che è esattamente quello previsto dalla proposta di legge di riforma del regime degli immobili Cervati-Scano che l'Inu elaborò tra 1l 1979 e il 1983.
UN NEONATO, UN ALBERO,
QUATTRO AUTOMOBILI
Lo stesso giorno, il 28 gennaio 1992, sono uscite sui giornali due notizie, che la stampa non ha collegato.
Gli onorevoli Rutelli e ... hanno presentato una proposta legislativa che prevede l'obbligo che in ogni comune si metta a dimora, per ogni nuovo nato, un nuovo albero. Una proposta sacrosanta. Nell'ultimo secolo abbiamo così pesantemente impoverito il potenziale biologico del nostro pianeta, ne abbiamo così radicalmente compromesso e indebolito la capacità di rigenerazione, che ogni iniziativa volta ad aumentare, sia pur di poco, sia pur solo quasi simbolicamente, la produzione di ossigeno, è la benvenuta: va sostenuta, difesa, attuata.
L'altra notizia, nei titoli dei giorali, è anch'essa riferita ai neonati. Non si tratta di una promessa, ma di una realtà. Anzi, di una statistica. A Roma, ogni giorno, per un bambino che nasce vengono immatricolate quasi quattro automobili (per la precisione, 3,8).
Un bambino, un albero, quattro automobili. Così non ce la faremo mai. Se la motorizzazione privata prosegue con i ritmi attuali si potrà anche aumentare il numero di alberi da piantare per ogni nuovo nato. Non si troverà più posto per piantarli. Così come già, da molto tempo, nelle città non si trova più posto per passeggiare, poichè le strade i marciapiedi le piazze i viali sono otturati dall'orrida lamiera.
Dio sa se siamo teneri con le Regioni. Non abbiamo mancato di criticarne le inerzie, le pigrizie, il burocratismo. Non abbiamo mancato di denunciare il boicottaggio che gran parte di esse hanno esercitato nei confronti di quelle poche leggi di riforma che il Parlamento ha prodotto: dalla "legge Galasso" (in quante regioni vigono piani efficienti ed efficaci formati "con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali"?) alla nuova legge sull'ordinamento degli enti locali (sul fallimento della speranza dell'istituzione delle città metropolitana occorrerebbe pronunciare un'invettiva, non scrivere un articolo). E abbiamo anche sostenuto che il "nuovo regionalismo", di cui tanti parlano e che sembra dover contrassegnare la fase politica che si aprirà dopo le elezioni, ha senso se ha la sua premessa in una seria autocritica del modo (inerte, pigro, burocratico) in cui le regioni hanno fino ad ora funzionato.
Ciò detto, e confermato, noi non siamo perchè si facciano surrettiziamente passi indietro rispetto ai traguardi raggiunti.
Noi non siamo perchè si stravolgano le regole che esistono senza neppure riconoscerlo, surrettiziamente. Noi non siamo perchè alle regioni, quali che siano gli errori in cui sono incorse, si sottraggano clandestinamente i poteri e le competenze che la Costituzione ha affidato loro (bene o male che le esercitino).
Eppure, è proprio questo che è stato fatto non solo dagli onorevoli Botta e Ferrarini, firmatari della legge sull'intervento pubblico nell'edilizia residenziale, ma anche dal Parlamento che, a larga maggioranza, l'ha recentemente approvata.
E' una legge che disciplina cose che al Parlamento nazionale non spettano più, da quando è diventato operativo quell'articolo della Costituzione che attribuisce alle regioni la competenza legislativa in materia di urbanistica: come quando inventa nome, contenuto, finalità e procedure di un un nuovo piano urbanistico "progetto integrato d'intervento"). Con buona pace, tra l'altro, di quanti predicano la semplificazione, delegificazione, snellimento ecc. E' una legge che contraddice perfino una recentissima legge, come dicono gli esperti, di "rango subcostituzionale", quale è la legge 142/1990, poichè sottrae ai comuni la facoltà di approvare la neonata figura pianificatoria.
Si può dire tutto degli onorevoli Botta (DC) e Ferrarini (PSI);non che siano inesperti della disciplina che regola il settore (il primo, del resto è stato fino a ieri presidente della Commissione Ambiente della Camera, e il secondo era sottosegretario ai Llpp), e neppure che siano degli eversori.
Nemmeno si può dire che quello appena dissolto sia stato un Parlamento antiregionalista. Se allora le cose sono andate così, vuol dire davvero che la nebbia che grava sulle istituzioni è fitta come mai non è stata.
IN LIQUIDAZIONE
IL MEGLIO DI UN SECOLO
Fu agli inizi del secolo, dalla tradizione laburista e socialdemocratica della solidarietà operaia, che nacquero in Italia gli Istituti delle case popolari. Fu allora che iniziò, e poi via via si sviluppò, la storia dell'intervento pubblico nell'edilizia volto a consentire l'esercizio del diritto a un tetto per le classi e i soggetti meno abbienti. Nel tempo, si comprese sempre meglio che la finalità dell'edilizia residenziale pubblica non era solo, e neppure prevalentemente, quella di assistere (più o meno temporaneamente) le categorie sociali deboli.
Il ruolo dell'edilizia residenziale pubblica non era solo assistenziale, era anche strategico. Era un ruolo di possibile orientamento del mercato privato: ne avrebbe potuto condizionare (solo che si fosse provveduto a riformare le attuali strutture, portando a conclusione le iniziative legislative da tempo avviate) le tipologie, i sistemi costruttivi, i prezzi. Era un ruolo di possibile guida dello sviluppo urbano e della riorganizzazione della città: ruolo decisivo oggi, che la riqualificazione è divenuta obiettivo centrale e il risanamento urbanistico dei complessi pubblici (spesso a cerniera tra le aree centrali e i quartieri delle nuove periferie) potrebbe diventare davvero determinante. Ed era poi, soprattutto negli ultimi anni, la garanzia almeno oggettiva della presenza di uno stock di alloggi da assegnare in affitto: strumento essenziale dunque, in una società moderna, per una sufficiente mobilità dei soggetti sul territorio.
Tutto questo l'improvvida miopia dei governanti e l'opaca distrazione dei legislatori ha voluto cancellare, con i provvedimenti per la liquidazione del patrimonio pubblico (sia quello residenziale che quello demaniale) approvati mentre nel Palazzo risuonavano, sterili e devastanti, le "picconate". Chissà se c'è qualcuno che si è reso conto che, con quei provvedimenti, si liquidava il meglio di un secolo di Stato sociale.
Venezia, 1 febbraio 1992
Chissà dov'era il ministro Prandini negli ultimi trent'anni, chissà di che si occupava. Certo non seguiva, neppure con un occhio distratto, i faticosi tentativi di varare, all'inizio degli anni '60, una riforma urbanistica, nè gli sforzi di approdare almeno, come poi si approdò, a una razionalizzazione degli strumenti di governo del territorio.
Chissà dov'era quando, all'inizio del decennio successivo, i limiti della riforma tentata e le carenze della razionalizzazione raggiunta esplosero con violenza e condussero al l'introduzione di qualche ulteriore elemento di razionalità e di modernizzazione nella legislazione per l'urbanistica e per la casa. E chissà dov'era e a che cosa pensava quando le regioni, in quei medesimi anni, quasi avendo compreso la centralità del problema del governo del territorio, cercavano di ricondurre alla logica di quella razionalità e di modernizzazione i loro codici e comportamenti.
In tutto quel vasto arco di anni, l'attuale ministro per i Lavori pubblici evidentemente non seguiva neppure come cittadino il dibattito sul governo del territorio. Non parteci pava perciò ai sentimenti di indignazione, o anche semplicemente di addolorato stupore, che scuotevano uomini d'ogni partito, autorevoli od oscuri, per gli scempi di Agrigento o il sacco di Napoli, la devastazione delle coste o il degrado dei centri storici e dei vecchi quartieri. Non condivideva la convinzione che accomunava persone diverse per posizione culturale, per milizia politica, per condizione sociale. La convinzione cioè che il territorio, questa risorsa che è di tutti, si può tutelare nell'interesse comune solo mediante una pianificazione efficace: rigorosa perchè equanime, trasparente perchè democratica, realistica perchè calibrata sui bisogni e sulle possibilità.
In quegli anni negli anni di Giacomo Mancini e di Ugo La Malfa, di Aldo Natoli e di Leone Cattani, di Aldo Moro e di Fiorentino Sullo, di Mario Alicata e di Alberto Todros. di Michele Achilli e di Lorenzo Natali, e poi in quelli di Pie tro Bucalossi e di Pietro Padula, di Guido Alborghetti e di Achille Cutrera, l'attuale Ministro dei Lavori pubblici sta va altrove, e pensava ad altro. Non sappiamo dov'era, non sappiamo a che cosa pensava.
Sappiamo però (più precisamente, immaginiamo) dove stava ne gli anni che vennero poi. Negli anni in cui cominciò e si sviluppò quella che venne definita "deregulation". Allora, egli doveva seguire con attenzione quel che facevano i suoi predecessori e i loro alleati. Quelli insomma che, articolati in un ampio "partito trasversale" cominciavano a smantellare, con sapiente gradualità, quel complesso di strumenti che si era venuti costruendo (con limiti ed errori, ma camminando nella direzione giusta ed arricchendo le possibilità dell'azione collettiva) negli anni del centrosinistra e in quelli della solidarietà nazionale.
2Maestro di Prandini è stato certamente Franco Nicolazzi; ma quanto l'allievo abbia superato il maestro. lo testimonia con evidenza il suo più recente prodotto: lo "Schema di disegno di legge recante disposizioni in materia di edilizia residenziale".L'Inu sta elaborando uno specifico documento di analisi puntuale del testo proposto dal Ministro. Qui vo gliamo limitarci a porre in evidenza alcuni punti particolaremente rilevatori, e rilevanti.
Sorvoliamo sulla riduzione delle quantità di spazi pubblici e di verde, che il ministro preconizza e decreta perchè (si legge sulla Relazione) i comuni hanno calcolato gli standard "in misura eccessiva, rapportati cioè a popolazione te orica e non alla popolazione effettiva" (sic). Sorvoliamo, oltre che sulla grammatica, sull'aumento delle cubature con sentito nei centri storici e nelle zone di completamento (il massimo passa dai 5 mc/mq attuali a 7 mc/mq) e nelle zo ne agricole (dai 300 mc/ha attuali a 650 mc/ha). Sorvoliamo insomma sui dati quantitativi. Anche se non si può mancar di esprimere sconcerto per il fatto che, dopo anni di maturazione di una sensibilità ambientalistica, e dopo che sembrava unanime il riconoscimento che la fase espansiva e quantitativa è, piaccia o non piaccia, dietro le nostre spalle, c'è chi viene oggi a proporre di aumentare, in modo quasi indiscriminato, l'entità dell'edificazione rispetto ai valori stabiliti vent'anni fa!
Ma più che questa incredibile arretratezza culturale, ci preoccupano due aspetti più strutturali del disegno di legge: lo scardinamento definitivo del metodo e degli strumenti della pianificazione urbanistica; l'abbandono di ogni tentativo di assicurare al potere pubblico locale la possibilità di condurre una strategia delle trasformazioni urbane e una politica delle aree autonome rispetto alla spe culazione immobiliare.
3Se passasse il disegno di Prandini la pianificazione urbani
stica sarebbe totalmente svuotata. Con un piano di lottizzazione o un piano particolareggiato (cioè con un'operazione comunque limitata a un pezzo del territorio comunale) si potrebbero variare "l'altezza (degli edifici), la distanza dei confini, gli allineamenti su fronti stradali, i rapporti di copertura, le percentuali di destinazione d'uso, l'in dice volumetrico virtuale, la distanza dalle sedi stradali" (art.15). Insomma, tutto.
E se qualche comune si incaponisse a non approvare piani esecutivi totalmente difformi rispetto al piano generale? Se la facoltà di trasgredire e di derogare non fosse esercitata? Ecco allora un altro modo per scardinare la pianificazione. Si stabilisce "che le modifiche di destinazione d'uso dei fabbricati o di parte di essi non comportano richiesta di alcuna autorizzazione o concessione"(art.17).
Una liberalizzazione totale, quale neppure ai tempi della discussione della legge sul condono edilizio era stata pro posta. Questo significa che si può trasformare un convento in un albergo, un quartiere residenziale in un quartiere di uffici, un gruppo di fattorie in una zona industriale,senza che il Comune possa obiettare alcunchè; con quali effetti sulla rete dei servizi e sul sistema dei trasporti, e con quali pesanti e ingovernabili modificazioni del funzionamen to dell'intero sistema urbano, è facile immaginare.
Perchè non dire più chiaramente che il piano generale (e cioè l'unico strumento finora inventato per dare una coerenza d'insieme alle trasformazioni urbane) è soppresso? Per ipocrisia? O perchè non si è capaci di vedere le conseguenze delle proprie proposte? Forse, più semplicemente, perchè non si vogliono suscitare reazioni corporative, e quindi si è disposti a tollerare che si prosegua a far piani,anche se ormai non servirebbero più a nulla.
4L'ente locale, quindi, è espropriato del suo diritto-dovere di guidare le trasformazioni territoriali. Ma a vantaggio di chi? Qui è il secondo aspetto nodale del disegno di Prandini. Questo prevede la formazione di "Programmi integrati di riassetto urbano", cui dedica l'intero quarto titolo del la legge. Esigenza giusta, da decenni sollevata, quella di rendere possibile l'esecuzione integrata delle opere e degli interventi necessari per l'urbanizzazione, o per la ristrutturazione urbanistica, o per il risanamento di interi pezzi di città. I "programmi integrati" di Prandini, però, non sono l'attuazione efficace delle scelte d'insieme, non sono lo strumento della strategia territoriale del comune. Sono l'alternativa ad essa, la sua vanificazione in termini di possibili contenuti e in termini di effettivi poteri.
Secondo Prandini i "progetti integrati" possono essere defi niti, "oltre che dagli organi competenti in materia urbanistico/edilizia anche da operatori pubblici e privati" (art. 21). Hanno "valore di piani particolareggiati" (art.20), e quindi nella logica, e nel lessico, di Prandini possono modificare integralmente le previsioni del piano regolatore generale. Non bastasse il già citato art.15, uno specifico articolo precisa che, "nel caso in cui il programma integrato non sia conforme alle previsioni degli strumenti urba nistici", alle norme e ai regolamenti, "l'approvazione dello stesso costituisce adozione di variante di detti strumenti"(art.21). E naturalmente (!) il programma integrato non richiede il preventivo insserimento nel programma pluriennale di attuazione" (art.21).
E se poi i programmi "riguardino immobili o aree (Prandini crede che le aree siano "mobili" n.d.r.) oggetto di vinco li"? Se qualche autorità dovesse opporre obiezioni per moti vi di salvaguardia ambientale o di tutela culturale o di rischio idrogeologico? La soluzione è presto trovata, con una saggia utilizzazione dei tempi della burocrazia italiana. I programmi vengono trasmessi "all'ente competente per la gestione del vincolo, il quale deve motivatamente pronunciarsi entro 40 giorni dal ricevimento; la mancata pronuncia equivale all'autorizzazione, al nulla osta od al parere favovorevole che siano all'uopo richiesti" (art.21).
Ma la prudenza non è mai troppa, Se un gruppo di imprenditori, o di proprietari di aree, o magari un'Italstat o una Fondiaria, oppure (come è più probabile) un consorzio che comprenda imprenditori e speculatori, multinazionali variamente tinteggiate e aziende locali) dovessero trovarsi di fronte un soprintendente o un geologo di Stato o un funzionario regionale svelti ad esprimere un parere "motivatamente" negativo?
Ecco la soluzione. "Nel caso di pareri negativi e/o discordanti la Giunta interessata o il diretto interessato (il corsivo è nostro n.d.r.) trasmette al Presidente della Giunta regionale copia del programma integrato". Il Presidente convoca entro 15 giorni una riunione con i rappresentanti di tutti gli enti interessati; chi non c'è, è come se avesse dato parere favorevole. Se il Presidente della Giunta regionale non provvede, provvede in sua vece il Ministro dei Lavori pubblici,
E se fosse il Comune ad opporsi, o ad essere almeno perlesso e desideroso di verifiche? Presto fatto. "Qualora la giunta comunale non si pronunci sul programma integrato di riassetto urbano entro 60 giorni dalla presentazione, il diretto interessato può richiedere al Presidente della Giunta regionale (...) che sul programma stesso si pronunci la Giunta regionale (...)". Se neanche la Giunta regionale si esprime, ecco che subentra, e "provvede in via sostitutiva", l'onnipotente ministro dei Lavori pubblici (art.21).
Il potere, insomma, passa dal pubblico al privato, e quel che resta nelle mani del pubblico si trasferisce dai consigli alle giunte, dal comune alla regione, dalla regione al governo centrale. Lo scardinamento dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio si completa con lo svuotamento dei poteri pubblici locali. Questo, almeno, è quanto risulta a una lettura cui sia sfuggita una "norma fina le" del seguente tenore: "Le precedenti norme non si applicano perchè sono solo la provocazione di un ministro distratto". Purtroppo questa norma è solo implicita.
23.11.1989
Sono molti i temi che alimentano la discussione e le cronache di questi giorni. Temi che ruotano attorno ai nodi della trasformazione del territorio, della richiesta di partecipazione dal basso nelle scelte di governo, che non riconoscono alla politica un elemento di efficacia nella mediazione all’interno di processi democratici; della scelta da parte del movimento ambientalista se collocarsi tra istanze di salvaguardia e di conservazione o se invece provare a misurarsi in un processo di trasformazione in chiave ecologica e quindi interloquire con la controparte che di volta in volta si pone di fronte, ora istituzionale ora del mercato. Sul ruolo stesso della politica nei processi di trasformazione della società.
A partire da questi temi abbiamo chiesto una riflessione a Edoardo Salzano, urbanista con una lunga esperienza dell’amministrazione pubblica sia per i ruoli di consulenza nella pianficazione, sia come amministratore lui stesso.
Partecipazione, trasformazione del territorio, politica che, dopo aver abdicato ai tecnici, si riprende il suo ruolo ma con una scarsa capacità di leggere il futuro. Proviamo a dipanare questa matassa?
«La prima cosa da dire è che la partecipazione è una componente essenziale della democrazia ma che spesso oggi il ricorso alla partecipazione, l’enfasi che vi viene messa e la ricerca affannosa della partecipazione da una parte e l’utilizzo strumentale della partecipazione dall’altra, sono tutti sintomi della crisi della democrazia. Il meccanismo della partecipazione dovrebbe essere interno ad un sistema democratico funzionante. Il nostro sistema democratico ormai non funziona più. Ci sono molti libri su questo tema che condivido e che rappresentano molto chiaramente gli elementi di crisi della democrazia attuale».
Volendoli riassumere?
«Utilizzerei le parole di Luciano Canfora per farlo, che a mio avviso sono molto eloquenti: “impoverimento dell´efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo”. La partecipazione è utilissima, ma è una supplenza temporanea a qualcosa che non c’è e dovrebbe esserci».
E volendo affrontare in questa chiave almeno un corno delle tematiche in discussione, per esempio il tema della trasformazione del territorio?
«Partiamo dal caso Asor Rosa. Grazie alla capacità di forare lo schermo e il turbamento che ha causato l’accostamento del termine ecomostro ad un territorio come quello della Val d’Orcia si è scatenato un polverone proprio in Toscana, che è la regione dove il territorio è mantenuto meglio. L’attenzione alla Toscana fa dimenticare tutto il resto del territorio italiano dove succede molto di peggio. Guardiamo cosa succede a Napoli, giriamo il Lazio, la Calabria, il Veneto le coste della Liguria. Sta succedendo molto di peggio. Quello che avviene in Toscana scandalizza perché avviene proprio lì. Ma chiediamoci perché non ci si accorge dove succede di peggio e perchè quando Soru interviene con politiche molto rigide sul paesaggio è considerato come un pazzo dai suoi colleghi amministratori.
Si continua parlare dello sviluppo del territorio che è un aberrazione secondo me. E questa osservazione me l’ha suggerita la proposta di legge urbanistica presentata recentemente dai Ds. Lì si parla di sviluppo del territorio.
Ma sviluppo del territorio significa lottizzazioni, copertura del territorio con una serie di costruzioni che servono soltanto a chi le fa e non rispondono minimamente al fabbisogno del territorio ma solo alle società immobiliari. Nessuno si accorge che tutte le risorse che vanno in quella direzione, vengono tolte all’industria. La Pirelli o la Fiat che investono nelle società immobiliari, ad esempio, significa che destinano risorse in investimenti più lucrosi anzichè in ricerca e innovazione produttiva.
La facilità con la quale sono remunerati gli investimenti immobiliari è una delle cause della nostra crisi economica e che questo abbia una qualche parentela con lo sviluppo economico è una grave mistificazione. Non credo che tutti i politici siano stupidi ma l’errore è quello di non vedere al di là del proprio naso. Con un effimero risultato in termini sviluppo economico. Che significa invece produrre fichi laddove sono particolarmente buoni o inventare sistemi innovativi per produrre autobus, tanto per fare qualche esempio».
Quindi lei crede che lo sviluppo economico debba essere letto con la lente della sostenibilità?
«Lo sviluppo sostenibile è un termine che è stato stiracchiato e utilizzato da tutte le parti. Una volta, e mi riferisco all definizione del rapporto Brundtland, significava una cosa molto precisa che era già una mediazione. Un concetto globale che riguarda l’insieme delle risorse è stato poi trasformato in sostenibilità ambientale, economica e sociale con l’esigenza di trovare un equilibrio tra tutti e tre. Bisogna quindi adoperarlo con molta cautela. Io per quanto riguarda il territorio sono conservatore. Ogni riduzione della naturalità del territorio devono dimostrarmi che abbia un vera e provata necessità.
Riguardo ai politici che hanno abdicato ai tecnici, non mi trova consenziente. L’urbanistica l’hanno fatta i politici aiutati dai tecnici. A un certo punto la politica della pianificazione, che è a lungo respiro, è stata abbandonata per progetti più di impatto immediato nell’opinione pubblica. Ma il sindaco che affida la sua campagna elettorale ad un piano strutturale ha una visione di futuro, chi lo fa su progetto seppur apprezzabilissimo, ha una visione schiacciata sul presente. In questo sta la terza delle cause della crisi della democrazia. Una riduzione di ogni interesse collettivo ad un interesse individuale immediato, non c’è più un interesse globale, ma un individualismo esasperato».
L’ambientalismo può essere lo strumento utile a riportare il treno sui binari giusti? «L’ambientalismo è la grande carta da giocare perchè sul territorio si gioca il fatto che esistono obiettivi comuni, beni comuni da giocare insieme. E quel tanto di catastrofismo che c’è anche nell’ambientalismo più avanzato, aiuta e come. La partecipazione è una grande scuola per lavorare insieme e può sostituire quello che una volta era la scuola della fabbrica».
Ma deve confrontarsi con una trasformazione sostenibile o limitarsi al ruolo di testimonianza?
«Si confronta con una trasformazione sostenibile, ma deve sapere con cosa si confronta. Deve avere gli strumenti e le conoscenze giuste. Quando il comune fa i conti con i costruttori per la trasformazione immobiliare si fa ingannare con i conti che fanno gli altri. Riconosce a dismisura la rendita immobiliare.
Un ambientalismo che non ha gli strumenti tecnici per capire gli interessi diffusi e che si presenta così al tavolo della governance è sempre battuto. Deve imparare a fare i conti per potersi confrontare. altrimenti perde. E il suo primo interlocutore deve essere l’istituzione pubblica».
Occorre evitare – scrive Michelangelo Savino – che “ si creino irreparabili fratture tra il dibattito disciplinare e la pratica di pianificazione condotta avanti dalle amministrazioni, rendendo la riflessione teorico-disciplinare sulle prospettive dell’innovazione della nostra disciplina, un esercizio retorico e slegato dalla realtà”. Attenzione sacrosanta. Chiunque riesca a stare con un piede nei dibattiti che si svolgono nell’accademia e con un altro nelle prassi delle decisioni nelle amministrazioni sperimenta una divaricazione crescente.
Da una parte, sul versante accademico, si tende sempre più a immergersi nelle rarefatte atmosfere delle teorie costruite sulla lettura di altre teorie che a loro volta nascono dalla digestione di altre teorie. Ciò non conduce più vicino alla verità del reale, ma spinge a sfuggirle dirigendosi verso territori sempre più irreali e fatui, dilapidando così un patrimonio di intelligenze di di risorse materiali spesso consistente. Ma dall’altro lato, sul versante delle pratiche, si è sempre più spinti ad abbandonare la riflessione critica su ciò che si è fatto e l’attenzione a ciò che altrove si sperimenta e si propone, per rifugiarsi nella quotidianità e nell’emergenza, nella stanca ripetizione del deja vu e deja fait. Ciò rende lo sguardo sempre più miope, sempre più inadatto a comprendere (e quindi a trasformare) quella realtà immanente alla quale pure ci si vorrebbe dedicare.
Questa divaricazione tra riflessione e prassi è oggi pericolosa come non mai. Essa infatti isterilisce risorse e disperde potenzialità proprio in una fase nella quale la massima utilizzazione delle risorse disponibili è conditio sine qua non per evitare il rischio d’una decadenza irreversibile della nostra civiltà, fino al limite della sua scomparsa. Come sfuggirle? In primo luogo, rendendosi conto che una simile divaricazione esiste, che essa allontana tra loro mondi l’uno all’altro indispensabili, che essa deve essere superata: pena, la sterilità della riflessione e l’inefficacia dell’azione. Mi sembra che il taglio che il curatore ha dato a questo volume indichi una chiara presa di coscienza del problema. Il lettore si renderà conto facilmente che i materiali raccolti consentono di compiere qualche passo rilevante nella direzione giusta. Può forse aiutare nella stessa direzione tentar di delineare qualche punto fermo, sul quale chi è più impegnato nella riflessione e chi è più ripiegato sulla prassi potrebbero verificare convergenze potenzialmente utili. Nel mio ragionamento mi riferirò soprattutto alla situazione del Mezzogiorno, ma credo che esso possa valere anche per il resto del paese.
Il ruolo che l’ambiente fisico ha avuto nel condizionare lo sviluppo dell’economia, della società e delle istituzioni è stato analizzato con intelligenza, soprattutto (negli ultimi decenni) da Piero Bevilacqua e dai suoi allievi. Leggere alcune delle monografie del suo libro Tra natura e storia [1] aiuta a comprendere qualcosa che non sfugge a un’analisi anche empirica (ma non viziata dagli idola dell’industrialismo). Il destino economico, sociale e istituzionale del Mezzogiorno è legato alla capacità dei gruppi dirigenti di comprendere che, lì più ancora che altrove, l’ambiente (la sua ricchezza, la sua storicità, la sua bellezza espressa e quella esprimibile) sono, insieme all’intelligenza umana, l’unica base materiale dello sviluppo. E di comprenderlo non in termini meramente accademici, per poi agire in modo opposto a ciò che una comprensione finalizzata all’agire comporterebbe.
A me sembra indubbio che la situazione attuale e le sue prospettive rendano imperativa l’attenzione all’ambiente fisico come base del possibile sviluppo. La produzione manifatturiera generica è in evidente declino, non solo per l’imperizia e la rapacità degli attori determinanti. L’agricoltura generica (quella che produce beni fungibili) non ha alcun futuro, come diventerà palese in modo dirompente con il venir meno dei sussidi europei. A che cos’altro dunque può essere affidata una speranza di sviluppo nelle regioni del Mezzogiorno se non a un’intelligente applicazione della cultura e del lavoro dell’uomo ai dati della natura, nel rispetto e nella sapiente utilizzazione di ciò che l’innesto tra queste due risorse ha prodotto nel passato?
Molti segni in direzione di uno sviluppo simile già si vedono. Essi tralucono però negli interstizi delle politiche ufficiali (della destra come della sinistra), la quale nel suo complesso appare mossa da ispirazioni di segno opposto, obsolete, perdenti e distruttive. L’utilizzazione rapace di ciò che lavoro e natura hanno prodotto nei millenni trascorsi, la sostituzione dei paesaggi di consolidata bellezza con panorami dominati dal cemento e dall’asfalto, la utilizzazione idiota di terreni resi fertili da eventi geologici milionari per la localizzazione di gigantesche aree industriali (destinate a restar deserte di uomini e di attività) o addirittura per impianti di smaltimento dei rifiuti: questi sono gli eventi che ancor oggi si registrano.
Un siffatto modo di procedere non è solo in contrasto con ogni elementare responsabilità civile e culturale nei confronti del mondo attuale e delle generazioni future, ma è insano anche da un punto di vista esclusivamente economico. È infatti evidente a tutti che il turismo ha nel Mezzogiorno una enorme potenzialità di sviluppo proprio grazie alla possibilità di utilizzare il vastissimo patrimonio di natura, paesaggio, storia, arte, costumi, prodotti, intimamente legati al territorio e alla suo millenario processo di formazione. È utilizzando in modo durevole questo patrimonio immenso (ma quindi, in primo luogo, tutelandolo attraverso la conoscenza e la salvaguardia) che il Mezzogiorno può trovare una ragione di sviluppo alternativa rispetto alle produzioni manifatturiere ormai obsolete, o alle produzioni agricole generiche ormai indifendibili in territori come i nostri, oppure rispetto a quelle di un “turismo di quantità” dissipatore della sua stessa materia prima.
L’ubriacatura del “privato e bello”, l’apoteosi del “meno Stato e più mercato”, stanno passando di moda. I risultati che si volevano ottenere si sono rivelati illusori. Il mercato ha confermato la sua insufficienza a svolgere anche solo le funzioni regolatrici del valore di scambio senza una forte presenza pubblica, figuriamoci a tener conto della sempre più estesa domanda sociale di accrescere i valori d’uso.
Tuttavia il danno che la fortuna di quegli slogan ha provocato sono consistenti, soprattutto là dove – come nel Mezzogiorno – la debolezza dello Stato era diventata cronica ed era stata surrogata da un individualismo distruttore e da un familismo spesso criminoso. La questione alla quale generazioni di meridionalisti si erano dedicati (la costruzione nel Mezzogiorno di strumenti di una statualità moderna) mi sembra quindi oggi più centrale che mai. Il rafforzamento delle strutture pubbliche è quindi, oggi, problema prioritario. Senza un potere politico dotato di strumenti efficaci diventa impossibile guidare le forze dell’economia verso orizzonti coerenti con gli interessi generali; diventa impossibile scegliere tra impieghi produttivi e strategici delle risorse disponibili e impegni parassitari e miopi; diventa impossibile scegliere a quali risorse attribuire priorità, per quali loro utilizzazioni, in vista di quali interessi.
In questo quadro due questioni mi sembrano particolarmente rilevanti, entrambe sottese agli argomenti trattati in questo volume: la questione della legalità, la questione della pianificazione.
Perché un’amministrazione pubblica sia efficace, e perciò capace di incidere sulla realtà, essa deve essere rispettata. Può esserlo in due modi: può imporsi col ricatto del terrore (ed è il modo praticato dalla criminalità organizzata: da noi, mafia, camorra, ndrangheta); oppure può guadagnare il consenso dei cittadini. Quest’ultima strada richiede però alcune condizioni che l’amministrazione deve assicurare al cittadino (ricordando che questo temine è sostanzialmente diverso da quello di suddito).
La prima condizione è che al cittadino sia chiara la ragione di ciascuna delle regole che l’amministrazione lo impegna a rispettare. La seconda è che le regole siano rispettate da tutti, ugualmente rigorose per chi può violarle e per chi deve rispettarle. Perciò mi sembra che combattere il burocratismo (imperante in molta parte dell’amministrazione pubblica) sia un impegno civile, e che pratiche come la co-pianificazione e l’intesa interistituzionale siano da praticare largamente. Perciò, soprattutto, mi sembra che il rispetto della legalità sia nel Mezzogiorno un impegno d’onore ancor più necessario che in altre regioni d’Italia e d’Europa.
Ragioni confluenti, sebbene distinte, inducono a ritenere che la pianificazione sia uno metodo (più ancora che un insieme di strumenti) essenziale soprattutto nel Mezzogiorno. Non solo perchè la certezza delle procedure e la trasparenza delle decisioni (caratteristiche esenziali della buona pianificazione) sono connotati rilevanti di un’azione amministrativa tesa al ripristino della legalità. Ma anche perchè è evidente che essa potrebbe svolgere un ruolo decisivo come strumento di uno sviluppo basato – come non può non essere nelle regioni meridionali - su un’attenta considerazione delle risorse dell’ambiente. Sempre che essa sia, beninteso, una “buona pianificazione”.
Per meritare tale attributo essa dovrebbe essere il luogo nel quale tutte le scelte degli enti pubblici suscettibili di indurre trasformazioni territoriali (da quelle dello “sviluppo” a quelle della “tutela”) trovino la loro sintesi. Tanto per fare un esempio, i contenuti dei “piani operativi regionali” (POR), i programmi e i progetti di infrastrutture d’interesse regionale, le politiche regionali per l’abitazione, il turismo, l’agricoltura, dovrebbero trovare la loro coerenza – e la coerenza con le regole per il corretto impiego delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali e con i relativi vincoli – in un atto di pianificazione unitario, sottoposto al vaglio del confronto pubblico, impegnativo nei suoi esiti prima di dar luogo a decisioni operative. È così che succede nel Mezzogiorno? Non mi sembra.
Una “buona pianificazione”, perciò utile ad affrontare i problemi del Mezzogiorno in coerenza con le tesi ra sostenute, dovrebbe avere nella lettura attenta (e sistematicamente aggiornata) delle risorse territoriali la base conoscitiva d’ogni decisione. Da tale lettura dovrebbe discendere un sistema non di “vincoli”, ma di definizione delle opportunità e delle condizioni che l’esigenza di non dissipare o degradare il valore delle risorse territoriali, pongono a ogni ipotizzabile trasformazione. Quante e quali sono le banche di dati sistematicamente aggiornate disponibili nelle regioni, nelle province (e nei comuni) del Mezzogiorno? Quanti sono i sistemi informativi territoriali vivi (cioè sistematicamente aggiornati) che possano sorreggere le scelte di localizzazione sistematiche (della pianificazione) o episodiche (dell’emergenza)? Non mi sembra che ci sia da rallegrarsi del bilancio.
Anche nel Mezzogiorno ha preso piede l’impiego di “nuovi strumenti” mediante i quali determinare le trasformazioni territoriali. Non più strumenti di “governo”, ma di “governance”. Non più piani regolatori generali o piani territoriali di coordinamento, ma patti territoriali, programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione urbana, i programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio e così enumerando. E negli ultimi tempi, i piani strategici.
In termini generali, questi strumenti hanno un aspetto positivo e uno negativo. Il primo sta nel fatto che essi tendono a superare limiti oggettivi degli strumenti tradizionali, e in tal senso offrono possibilità aggiuntive. L’aspetto negativo sta nel fatto che invece tendono a essere utilizzati come alternativa alla pianificazione tradizionale. Questo è un errore gravissimo. Tutti quegli strumenti (con una sola eccezione) premiano le esigenze, le opportunità, le disponibilità del breve periodo, e offrono spazi consistenti agli interessi privati, in particolare a quelli più forti. Sono quindi utilmente impiegabili a due sole condizioni: che vi sia un rigoroso sistema di regole certe e forti sul territorio, mediante le quali siano garantite le prospettive di una utilizzazione durevole delle risorse disponibili, e quindi un efficace sistema di pianificazione; che il potere pubblico sia autorevole, qualificato, decisamente orientato a favorire la prevalenza degli interessi generali e la tutela degli interessi “deboli”.
Non mi sembra che queste due condizioni siano diffusamente presenti nel Mezzogiorno. Se è così (e dove è così, e finché è così), sostituire governance a government, affannarsi nella formazione di strumenti urbanistici “anomali” invece di quelli ordinari, altro non significa che premiare, una volta ancora, gli interessi forti e le opportunità di breve periodo rispetto a ogni altro interesse e opportunità. Nel concreto, nelle regioni del Mezzogiorno questo quindi significa privilegiare, una volta ancora, le utilizzazioni edilizie dei suoli e la valorizzazione della rendita fondiaria alle utilizzazioni coerenti con l’esigenza di uno sviluppo durevole e con l’opportunità di un pieno impiego delle risorse territoriali. Significa premiare e promuovere il consolidamento delle attività economiche parassitarie anziché lo sviluppo di quelle innovative e produttive nei settori dell’agricoltura di qualità e di sito, dei servizi alle persone e alle imprese, del turismo di conoscenza e di fruizione evoluta del territorio, delle produzioni avanzate ad alta intensità di intelligenza e a bassa intensità di consumo di territorio e di energia.
Diverso è il ragionamento per quanto riguarda la pianificazione strategica. Per la verità con questo termine si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica italiana) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni
Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “anomali” prodotti a go-go dalla fertile fantasia derogatoria degli anni 90, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.
Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorrere, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo quando si vota; ma soprattutto nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse è solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.
Edoardo Salzano
4 settembre 2004
[1] Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1966
La Laguna di Venezia è un bene prezioso dell’umanità. Pochi si rendono conto che quella di Venezia è l’unica laguna che è rimasta tale, sfuggendo al destino comune a tutte le lagune: trasformarsi in un pantano e poi in un campo, oppure diventare una baia marina. Questo destino è stato evitato alla Laguna di Venezia grazie al saggio impiego, per molti secoli, di tutte le risorse disponibili (politiche, amministrative, culturali, tecniche, finanziarie). Con l’Ottocento le cose sono cambiate. La tecnica non ha più assecondato e guidato la natura, l’ha contrastata e negata. La prospettiva temporale non è stata il lungo periodo, il domani, il futuro, ma l’oggi, l’immediato, il contingente. L’interesse dominante non è stato quello della comunità, ma quello dell’individuo (e naturalmente del più forte e più furbo).
Le stesse regole del governo del territorio (i piani urbanistici) hanno avuto il loro centro e il loro motore nella crescita dell’urbanizzato ed edificato, nella trasformazione della natura in cemento e asfalto, nell’espansione delle città. Solo da pochissimi decenni la pianificazione si è finalmente fatta carico anche delle esigenze della “altra parte” del nostro mondo: quella nella quale il lavoro dell’uomo si compone con la natura rispettandone le leggi e i ritmi. Sono nati così, accanto ai piani tradizionali (il PRG, il PTC) dei piani specialistici: orientati ad affrontare non l’insieme dei temi e degli obiettivi del governo del territorio, ma un particolare aspetto: i piani per la difesa delle acque e del suolo, i piani per la tutela del paesaggio, i piani per le aree protette. Questi piani non regolano tutti gli aspetti della vita dell’uomo sulla terra: solo quelli (e tutti quelli) che hanno a che fare con la loro specifica missione. Dettano legge solo per un aspetto, ma per quell’aspetto la loro legge non è appellabile, prevale su qualsiasi altra.
La costituzione del Parco della Laguna nord si pone in questa logica. Rispetto ad altri strumenti della pianificazione specialistica esso ha anche un’altra valenza: non è solo un Piano, è anche una Istituzione. Spesso l’urbanistica è fallita perché si è ridotta a documenti di carta, non tradotti in una gestione del reale. L’Istituzione garantisce che, per la Laguna, questo non avverrà. Essa garantisce che la tutela della Laguna diventi un fatto dinamico: un disegno che si traduce in azioni. In questa logica la prospettiva possibile è che il Parco della Laguna nord sia destinata a perdere il suo riferimento geografico: che diventi un modo nuovo (ma simile a quello del passato più lontano e sapiente) di governare l’insieme della Laguna.
Per affrontare le questioni poste da Gazzetta Ambiente occorre partire da lontano. Occorre innanzitutto definire l’oggetto attorno al quale ragioniamo: il paesaggio. A me preme allora ricordare che il paesaggio è il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura. Nel paesaggio, nella forma del territorio così come ci appare, natura e storia si integrano variamente nelle varie parti del pianeta. Essi formano così tipi diversi di paesaggio (naturale, agrario, urbano), ciascuno dei quali è caratterizzato da genesi, caratteri, significati, utilità, problemi diversi. È proprio la loro genesi, caratterizzata dalla sintesi tra evento e sito, che definisce quindi l’identità dei luoghi: elemento costitutivo della stessa identità delle comunità, nazionali e locali, che quei luoghi abitano. Prodotto della storia, e identità dei luoghi e delle comunità: questi sono gli attributi del paesaggio che soprattutto mi interessano.
Non sto proponendo qui una particolare interpretazione del paesaggio. Se l’accentuazione del ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi nella comprensione dei suoi valori) è propria di alcuni rilevanti scuole di pensiero (da Emilio Sereni a Piero Bevilacqua, per rimanere in Italia), nella vicenda culturale italiana ed europea il paesaggio è stato oggetto di interpretazioni diverse: da quella estetica a quella storicistiche, dall’”archeologia del territorio” alla “ecologia del paesaggio”. Non credo però che si debba scegliere tra l’una o l’altra interpretazione. Non si tratta dell’espressione di posizioni antitetiche, ciascuna delle quali si contrapponga alle altre, ma della messa in luce di differenti punti di vista, ciascuno dei quali sottolinea uno degli aspetti del paesaggio, rivelandone la ricchezza e la complessità. Il paesaggio, la storia, l’uomo
Sottolineare, come mi sembra giusto fare, il ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi del suo valore) significa porre l’accento sul ruolo dell’uomo. Occorre allora riconoscere che l’intervento dell’uomo sulla natura ha avuto ed ha segni diversi. A volte (in certe epoche, in certe società, in certi luoghi) un ruolo positivo: ha costruito paesaggi (urbani, agrari, naturali anche) ai quali riconosciamo oggi valore d’insegnamento e valore estetico: con la semplice manutenzione, oppure con la formazione di nuovi paesaggi agrari, oppure con la creazione di opere integrate nel paesaggio preesistente, l’uomo ha aggiunto insomma valore alla forma della Terra.
Ma altre volte (con l’incuria e l’abbandono, con l’eliminazione dei segni del passato in nome del profitto immediato, con l’artificializzazione dissennata) ha sottratto valore e distrutto il patrimonio culturale e storico costituito dal paesaggio, ha ridotto la ricchezza della civiltà umana. Una domanda inquietante dobbiamo allora proporci.
È in grado la società di oggi, la cultura che essa esprime, di porsi nei confronti della natura e della costruzione del paesaggio nello stesso modo nel quale si sono posti gli uomini il cui prodotto oggi ammiriamo, e nel quale riconosciamo una componente essenziale della nostra identità? I paesaggi urbani e periurbani la devastazione delle campagne, la distruzione di ambienti naturali, realizzati in Italia nell’ultimo mezzo secolo, non lasciano dubbi in proposito, e invitano alla massima attenzione di fronte alla tentazione di “abbassare la guardia” dell’azione di tutela.
Per invertire la tendenza, per imparare di nuiovo a governare la natura senza negarla, occorre che la tutela del paesaggio diventi una priorità sociale. Perché ciò avvenga, è necessario rendere evidente a tutti quali sono le ragioni per cui è socialmente necessario tutelare e arricchire la qualità del paesaggio (dei paesaggi). Perché, insomma, il paesaggio serve?
In primo luogo, il paesaggio è memoria. Il paesaggio è un deposito di storia. In esso è rappresentato e testimoniato il nostro passato, il passato della nostra civiltà. Esso è dunque il fondamento della identità delle diverse comunità che abitano il pianeta (dalle nazionali alle locali). Esso serve (a noi, e alle generazioni future) perché è una insostituibile risorsa della civiltà, è la materia vitale che alimenta il futuro. Basterebbe questo a comprendere come una società che voglia esistere debba custodire il paesaggio come una propria risorsa primaria.
Ma il paesaggio è anche risorsa economica. Sempre più, nell’economia moderna, tendono ad accrescere il loro peso (fino a diventare dominanti) i settori legati alla produzione di “beni immateriali”, tra i quali i comparti legati alla ricreazione e al benessere fisico, al turismo, alla conoscenza e al godimento estetico assumono crescente rilievo. In moltissime aree dell’Italia (e dell’Europa) il paesaggio di qualità è luogo e condizione per produzioni enogastronomiche “di nicchia”, caratterizzate dalla qualità e dall’identità, fondamentali sia lo sviluppo economico e sociale delle aree coinvolte che per la conservazione di valori universali.
A proposito del ruolo economico del paesaggio nei prossimi decenni non va trascurato il peso che può avere per lo sviluppo dell’occupazione in molte regioni italiane un’azione di manutenzione del suolo, di riduzione dei rischi e dei costi del degrado ambientale, di avvio di un’azione di presidio ambientale. Si tratta di ricostituire e manutenere ambienti naturali distrutti dall’incuria dell’uomo (e minacciosi per la sopravvivenza nelle aree a valle del degrado), oppure ambienti caratterizzati da un assiduo rapporto di costruzione del paesaggio agrario.
Alla qualità del paesaggio è legata anche la qualità della vita: La bellezza dei panorami, l’armonia dei luoghi nei quali si svolge la sua vita sono essenziali per il benessere della donna e dell’uomo, del bambino e dell’anziano. Nell’epoca della globalizzazione, la concorrenza tra le regioni e le città assume sempre di più la qualità dell’ambiente (come componente della qualità della vita) come un valore economico da mettere in gioco nel “marketing urbano”. Ciò pone, una volta ancora, l’esigenza economica di migliorare la qualità del paesaggio anche là dove (come nelle periferie urbane) non si è stati capaci di creare qualità nuove, ma solo di distruggere quelle preesistenti.
Obiettivo primario è quello di conferire piena efficacia alla protezione e al godimento dei beni paesaggistici (di quelli esistenti e di quelli da realizzare) da parte delle generazioni presenti e future. La pianificazione territoriale e urbanistica, come insieme di metodi e strumenti volti ad assicurare coerenza alle trasformazioni del territorio garantendo trasparenza e partecipazione al processo delle decisioni, è l’ambito entro il quale tale obiettivo può essere raggiunto.
A me sembra particolarmente significativo, da questo punto di vista, il modo in cui la legge 431/1985 (la cosiddetta Legge Galasso) ha posto le premesse per innovare il sistema di pianificazione. La legge è stata attuata solo parzialmente, e spesso la sua attuazione è stata una elusione delle sue finalità. Ma l’esperienza di attuazione di quella legge (là dove un’attuazione positiva vi è stata) induce ad sottolineare, e a proporre alcuni indirizzi particolarmente significativi. Li enuncerò in termini molto sintetici:
La “attenta considerazione delle valenze paesistiche e ambientali”, che la legge 431 chiede alla pianificazione ordinaria perché abbia efficacia, deve diventare una costante nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale.
Più precisamente, la prima fase della pianificazione deve essere costituita dall’assidua ricognizione delle qualità naturali e storiche del territorio, come si tentò di fare nell’esperienza della Regione Emilia Romagna del 1985-86 e come hanno prescritto, in modi più o meno chiari, le nuove leggi urbanistiche della Toscana e della Liguria.
La ricognizione delle qualità del territorio deve condurre precettivamente all’individuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili con le caratteristiche proprie di ogni unità di spazio, come condizionenon negoziabile per ogni decisione sulle trasformazione da promuovere o consentire;
La tutela attiva del paesaggio richiede che nel processo di pianificazione vengano integrati tutti gli strumenti disponibili: le politiche e le azioni di settore, gli incentivi finanziari, la partecipazione a programmi e progetti nazionali e sovranazionali, il ricorso all’imprenditoria privata. Questi strumenti non devono essere adoperati in contrasto alla pianificazione oppure come alternativa ad essa, ma - appunto - come suoi strumenti.
Sottolineare l’utilità della pianificazione (come mi sembra indispensabile) significa riconoscere la parzialità, e quindi l’insufficienza della protezione passiva costituita dai vincoli di tutela). Ma credo che il clima culturale e morale che stiamo attraversando (gli anni Ottanta non finiscono mai!) impongano al tempo stesso di ribadirne l’utilità. I vincoli, ancorché non sufficienti, sono utili sotto un duplice profilo. In primo luogo, il vincolo è necessario come difesa temporanea, in attesa che la pianificazione consenta di articolare le politiche, sia attive che passive, di tutela. In secondo luogo perché (come dimostra l’esperienza della legge 431/1985) il vincolo agisce strumentalmente come sollecitazione alla pianificazione, e quindi alla possibilità di una tutela più compiuta e di una fruizione dei beni paesaggistici che ne garantisca la conservazione.
Un ultimo punto vorrei brevemente toccare. La tutela e valorizzazione del paesaggio esprime una pluralità d’interessi collettivi: da quelli nazionali a quelli locali. Occorre evitare sia il rischio del conflitto paralizzante sia quello della negazione di uno o l’altro degli interessi coinvolti.
Il principio di sussidiarietà è il criterio utilizzabile per individuare a chi spetta la responsabilità della scelta in relazione agli oggetti e aspetti su cui occorre decidere.. Lo è, beninteso, se è assunto nella sua accezione corretta, quella elaborata nella recente cultura europea. Non il principio di sussidiarietà inteso come “tutto il potere alla periferia”, ma come riconoscimento del fatto che per ogni decisione c’è un livello giusto al quale quella decisione può essere presa efficacemente. Ma valga il testo ufficiale:
Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità [1],
È davvero difficile pensare che il paesaggio, essendo elemento fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, non rientri pienamente nelle responsabilità (e delle competenze) dello Stato, essendo appunto questione che si pone a una scala nazionale.
Ma se gli organi centrali dello Stato hanno la responsabilità dell’azione di tutela, essi hanno anche quella di promuovere la concorrenza dei poteri nell’azione di tutela. Se la responsabilità primaria in materia di paesaggio spetta allo Stato, anche i livelli di governo regionale e locale sono legittimati (credo d’averlo argomentato a sufficienza) a concorrere con esso nella azione di individuazione, definizione, tutela.
Come può esercitarsi la concorrenza nel campo della pianificazione territoriale e della tutela del paesaggio? Anche qui vi è un principio, e un istituto già introdotto nel nostro ordinamento, che possono aiutare. È il principio secondo il quale gli strumenti di pianificazione, laddove disciplinino beni dello Stato in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possono diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato. Questo principio, del resto, stato introdotto recentemente nell'ordinamento, seppure limitatamente alla pianificazione provinciale, dall'articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, il quale stabilisce che:
la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale [...] assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.
Come propone l’associazione Polis, tale testo normativo può costituire, può essere esteso al di là del suo specifico contesto, e costituire un modello sulla cui base affrontare compiutamente la questione. È un modello, del resto, che è già stato più volte proposte e applicato in concrete esperienze di governo del territorio e può dar luogo, come è stato osservato, a utili semplificazioni e snellimenti delle procedure. Ciò che è nell’interesse di tutti.
[1] Trattato di Maastricht, art.3B.
Ho intenzione di fare della pianificazione territoriale, nella prospettiva della realizzazione dell'Europa, una vera priorità nazionale". Così ha affermato il nuovo Primo ministro della Repubblica. Ai deputati, sindaci, amministratori regionali e provinciali, urbanisti, geografi, storici riuniti per discutere "Le reti di città" era già sembrato una grande e rincuorante novità il fatto che il nuovo Presidente del Consiglio avesse scelto quell'occasione, quel tema, quella platea per parlare per la prima volta in pubblico: tanto più che gli organizzatori non l'avevano previsto né richiesto.
Il fatto é che il Primo ministro aveva piena consapevolezza di ciò che comportava, per il paese che gli toccava governare, "l'ingresso in Europa": per tanti anni sperato e ora, che era giunto, anche temuto. Come reggerà una realtà come la nostra alla concorrenza degli altri paesi? Ormai la concorrenza si vince o si perde a seconda di ciò che si riesce a mettere in campo sul terreno della qualità territoriale e urbana.
Se non abbiamo reti regionali e urbane dei trasporti collettivi che funzionano, se l'assistenza sanitaria e i servizi sociali sono così inadeguati, se la ricchezza di beni culturali è soffocata e negata dalle condizioni deplorevoli in cui li abbandoniamo, se la campagna è continuamente erosa dalla disseminazione delle case e casette, se la natura è devastata da ogni sorta di inquinamento, se le città si espandono a macchia d'olio e il turismo da rapina rovina le coste e i monti, se i fiumi sono ridotti a fognature civili e industriali, perché mai le aziende della produzione moderna e del terziario avanzato dovrebbero scegliere le nostre città per insediarsi? E perché i lavoratori europei e le loro famiglie dovrebbero frequentare i nostri lidi e i nostri monti, percorrere le nostre colline, nei sempre più frequenti periodi di tempo libero?
No, deve aver pensato il nuovo Primo ministro, così non può andare avanti. Corriamo un rischio grave, gravissimo: il rischio di diventare la periferia dell'Europa. Anzi, se si pensa a che cosa sono le periferie nelle lustre città di altre nazioni europee (la Germania, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna), dell'Europa rischiamo di diventare il Bronx.
E su che cosa mai si può far leva per ottenere un assetto territoriale e urbano all'altezza di quello dei nostri concorrenti? Non sono un urbanista, si deve esser detto il Primo ministro, mi sono occupato più di finanza e di politica che di territorio, ma il mio buonsenso di statista mi dice che, per vincere, bisogna finalmente far decollare la pianificazione del territorio, a tutti i livelli. Su questo impegnerò tutte le energie del nuovo governo, lo prometto.
Lettore, stupisci? Non hai letto sui giornali di una dichiarazione così forte e così nuova come quella da cui siamo partiti? Forse ti sei sbagliato, non hai letto i giornali giusti. Quella dichiarazione non è stata pubblicata dai giornali italiani, ma da quelli francesi. Perché il Primo ministro che l'ha pronunciata non è il successore di Giulio Andreotti, ma quello della signora Cresson: é Pierre Bérégovoy, prémier della Repubblica di Francia. L'ha pronunciata a un convegno che si é tenuto a Mulhouse, in Alsazia, il 28 aprile scorso, organizzato dalla Delegazione per la pianificazione territoriale e l'azione urbana del governo francese.
Eravamo lì, l'abbiamo sentito. Abbiamo pensato all'Italia. Questa volta, senza nostalgia.
Città senza automobili
E' andato nella tana del lupo Carlo Ripa di Meana, il ministro europeo per l'Ambiente.te. Ha scelto Torino, la città della Fiat, per presentare in Italia il più recente prodotto del suo dicastero il documento dall'ambizioso titolo "Città senza automobili".
L'avvocato Agnelli era lì presente, a fare gli onori di casa. Si è mostrato signorilmente interessato, non pregiudizialmente ostile. Eppure ciò che la Commissione europea per l'ambiente si propone (lo avevamo già letto nel "Libro verde per l'ambiente urbano") è qualcosa che deve stridere alle orecchie degli uomini che hanno costruito le loro fortune, e la loro potenza, sull'assoluta, e quasi divinizzata, indispensabilità dell'automobile. Lo slogan di Ripa di Meana è infatti: "l'automobile deve diventare un'opzione". Basta pensare a ciò che è oggi, nelle città italiane, la mobilità per rendersi conto del carattere rivoluzionario di quest'affermazione.
L'avvocato Agnelli ha sollevato una questione, ed espresso una perplessità. Non dimentichiamo, ha detto, che l'automobile é anche "uno strumento di libertà". Ragioniamo pure sull'ipotesi di avere "città senza automobili", ha aggiunto, ma prima bisogna che mi spieghiate che cosa intendete per aree urbane.
Non sappiamo se qualcuno ha risposto all'autorevole industriale. Noi vogliamo provarci. A noi sembra che la risposta stia proprio in quello slogan "l'automobile deve diventare un'opzione". Le città potranno essere senza automobili in quelle loro parti in cui il sistema delle convenienze nella scelta del mezzo di trasporto più opportuno (in termini di velocità, comodità, prezzo) sarà reso tale da indura la grande maggioranza degli utenti a preferire l'opzione del trasporto collettivo. Le aree urbane quindi discendono da un progetto: un progetto urbanistico, particolarmente preciso nella definizione del sistema della mobilità, ed accompagnato da adeguate e coerenti politiche finanziarie e tariffarie.
In questo quadro, interventi volti a rendere più costoso rispetto ai livelli attuali l'uso del mezzo individuale é altrettanto legittimo (dal punto di vista dell' "automobile come libertà") quanto gli interventi nel campo delle tariffe dei mezzi collettivi. Avranno un significato pienamente "liberale" se i loro proventi, oltre a scoraggiare l'impiego dell'automobile, aiuteranno a realizzare un sistema di trasporto collettivo efficace.
Certo è, però, che rendere le "città senza automobili" richiede uno sforzo molto consistente per la realizzazione di servizi collettivi di trasporto efficienti. Uno sforzo, in primo luogo, di coordinamento. Si può mai pensare, in un paese appena appena evoluto, che Ferrovie, metropolitane, autobus e parcheggi vadano ciascuno per conto suo? L'integrazione dei modi del trasporto é una necessità assoluta.
E uno sforzo, in secondo luogo, finanziario. Dove attingere per gli investimenti (in conto capitale e in conto per le spese correnti) che sono necessari? Varie ipotesi sono state formulate. Ma a noi non sembra che si riesca a fare quanto è necessario se non si rinuncia all'illusione di poter fare, contemporaneamente tutto: in particolare, per poter dare priorità, insieme, alla realizzazione di reti urbane e regionali efficienti e alla prestigiosa alta velocità. Governare è, in primo luogo, scegliere.
Attenti a Metropolis
Un patrimonio di 16mila-21mila miliardi, che "con gli opportuni investimenti" può arrivare a valere 60mila miliardi di lire. Con queste cifre i giornali danno notizia della costituzione di Metropolis, la società cui l'Ente Ferrovie affiderà il compito di riqualificare e valorizzare il patrimonio ferroviario.
Ci si domanda se la costituzione di un'apposita struttura finalizzata alle operazioni immobiliari non renderà più aggressiva la tendenza delle Ferrovie di partecipare in grande scala alla nuova speculazione sulla città. Su questa tendenza l'ente diretto da Lorenzo Necci si era già mosso con una certa grinta innovativa. Architetti prestigiosi hanno studiato i nodi ferroviari delle maggiori città italiane, e in più d'una sono state configurate operazioni di nuova edificazione dei vastissimi piazzali ferroviari obsoleti e delle stazioni ferroviarie che sarebbe opportuno trasferire. Solo a Roma, si parla di una proposta dell'Ente Ferrovie (con il quale, evidentemente, il Comune è interessato ad avere un buon rapporto) per la costruzione di 8 milioni di metri cubi.
Saremo dei "vetero urbanisti", ma a noi piacerebbe che il destino di queste aree fosse determinato dagli interessi della città, e non da quello di un' azienda per quanto prestigiosa e utile nella sua attività primaria. E ci piacerebbe anche che l'Alta velocità (e gli altri programmi di adeguamento della rete del ferro e del servizio collettivo del trasporto) non fosse finanziato da una più potente speculazione fondiaria.
LA "DAZIONE AMBIENTALE"
Non vogliamo assolvere né i corruttori né, tanto meno, i concussori. Tuttavia ci sembra che la "dazione ambientale" (per usare il brutto ma efficace neologismo del giudice Di Pietro) induca a guardare un pò al di là della morale e del codice. A guardare, appunto, all'"ambiente" in cui la "dazione", lo scambio dell'"obolo" contro la compiacenza amministrativa, ha potuto così ampiamente e perversamente allignare.
Scrivevamo su queste pagine, ancora nel 1986, rivolti in quell'occasione ai senatori che stavano discutendo le proposte in materia di riforma urbanistica: "Siamo convinti, e non da oggi, che l'attuale regime degli immobili sia una delle cause più gravi della pubblica corrizione. Se é da un atto discrezionale dell'amministrazione che discende il fatto che un immobile (...) vale 10 e il vicino vale 10mila, é facile comprendere che l'humus sul quale nasce la corruzione é fecondato dal più fertile dei concimi" (n.86). Sempre su queste pagine, commentando il bilancio di un trentennio di Corte costituzionale e denunciando l'affermarsi della prassi dell'"urbanistica contrattata", scrivevamo ancora: "Non ci stanchiamo di sottolineare il potenziale di corruzione che simili procedure contengono. La mancanza di riferimenti certi, chiari e costanti nella determinazione dei valori immobiliari é la matrice della discrezionalità più sfrenata, del soggettivismo più devastante, delle tentazioni più turpi" (n.87).
Dell'"urbanistica contrattata" Milano è stata la culla. Nel presentare il dossier che questa rivista ha dedicato all'urbanistica milanese Campos Venuti ha scritto che "il caso di Milano é quello più rappresentativo della deregulation urbanistica italiana" e che, nella metropoli lombarda "la deregulation urbanistica e l'urbanistica contrattata si sono manifestate più esplicite che altrove", al punto che "il non piano è stato apertamente teorizzato" (n.107). Nello stesso numero, ricordando che Milano non è sola (richiamavamo alla memoria dei lettori gli altri casi di Napoli e Trieste, Roma e Firenze), ribadivamo in queste Note le ragioni della nostra preoccupazione per il dilagare dell'"urbanistica contrattata". Tra queste, il fatto che essa "riduce fortemente la strasparenza del processo delle decisioni e aumenta la discrezionalità dei singoli amministratori e delle segreterie dei partiti a discapito del potere delle istituzioni".
Il giudice Di Pietro, e quanti con lui hanno collaborato, hanno insomma sollevato il coperchio d'una pentola di cui era facile avvertire il tanfo. Benemerita é certo la loro azione, ma non è sufficiente. Basta a restituire fiducia nella prevalenza del codice penale sugli interessi personali, di cordata e di partito, e non è poco. Ma non basta, da sola, a sterilizzare l'ambiente della "dazione".
Occorrono anche altri interventi, altre iniziative tenacemente costruite e gestite, altre strategie e altre incursioni, in campi che hanno a che fare con codici diversi da quelli impugnati dal coraggioso magistrato: i codici della politica, dell'amministrazione, dell'urbanistica infine.
Occorre la capacità di trasferire la conclamata volontà di trasparenza in un sistema di regole non derogabili, non soggette a "variante". E oltre alle regole che riguardano (e che devono impedire) l'invadenza dei partiti negli organismi di gestione, oltre a quelle che riconducano la politica da una parte, l'amministrazione dall'altra, all'interno dei loro impegnativi campi di responsabilità, occorrono le nuove regole per il governo del territorio, per l'urbanistica. Occorre insomma ripristinare la legittimità, e valorizzare il ruolo, della pianificazione territoriale e urbana.
Questa, la pianificazione, è stata accusata d'essere un insieme di "lacci e lacciuoli"; rispettarli, avrebbe forse evitato a qualcuno le manette.
VIVA L'AUSTRIA!
"Viva l'Austria, nemica dei Tir": particolarmente indovinato il titolo con il quale Repubblica (23 settembre) ha sintetizzato il commento di Antonio Cederna ai fatti del Brennero. Moltissimi italiani hanno infatti compreso che la fermezza con la quale, al di là dei confini, si difendeva il territorio dal sovraccarico di gas di scarico, rumore, usura e degrado provocati dall'invasione dei Tir era più utile per l'obiettivo di un più razionale sistema dei trasporti in Italia dell'infinit di convegni, articoli, denuncie, inchieste, proteste, promesse che si sono fin qui succeduti.
La questione dei trasporti é davvero emblematica, nel nostro paese, del fallimento d'una classe dirigente: bravissima in tante cose, non sempre futili, ma assolutamente incapace di affrontare in termini moderni il rapporto della societ con il territorio.
L'aggrovigliato nodo dei trasporti strangola l'economia: il suo costo grava sul prezzo finale delle merci per un'incidenza del 20 %: più dell'Iva. Le città sono rese invivibili, le relazioni umane ostacolate, il tempo dissipato nell'inutile (o almeno ampiamente sovrabbondante) lunghezza dei percorsi. Il territorio é devastato, sia per l'intrecciarsi barocco dei nastri d'asfalto, sia dall'escavo di ghiaia e cal care necessario (si fa per dire) per la costruzione di sempre più "arditi" manufatti, testimonianze di un impiego socialmente ed economicamente ozioso dell' "italico genio". La salute é resa più precaria per le miriadi di malanni connessi alla "via italiana alla mobilit": da quelli definitivi degli incidenti mortali, a quelli permanenti dello stress e delle malattie polmonari. Il futuro é reso più incerto e rischioso per i danni permanenti all'ambiente: gli attentati alla stabilit dei versanti e all'assetto idrologico,l'accu mulo nell'aria, nell'acqua e sulla terra di sostanze inquinanti.
Abbiamo scelto, per trasportare le merci, il vettore più costoso, più dissipatore d'energia, più inquinante. Abbiamo abbandonato l'impiego di quelle grandi vie d'acqua che rendono eccezionale la nostra penisola, e che hanno prodotto, nei secoli da cui siamo nati, le fortune storiche di Roma e di Palermo, di Napoli e di Ravenna,di Venezia e di Genova, di Pisa e di Amalfi (e insomma dell'intero paese): i nostri mari, da quando é divenuto pericoloso o sgradevole tuffarvisi, sono ormai impiegati solo come argomento di qualche canzonetta, e come ornamento retorico per qualche discorso. Abbiamo cancellato, dalle strade delle nostre citt, gli economici tram per lasciar campo ai veicoli della dominante motorizzazione individuale.
E cogliamo ogni occasione per proseguire su questa strada dissennata. Le Olimpiadi e i Mondiali di calcio, i periodi di boom e quelli di crisi, ogni occasione é buona per costruire nuove strade, per accrescere la dipendenza della mobilit dal vettore dimostratamente più nefasto: meno "moderno", anche, ciò che dovrebbe far nascere qualche soprassalto di coerenza in quei "decisori" che hanno eretto la modernit in valore supremo.
La vicenda del Brennero é davvero una bruciante sconfitta, per tutti coloro che, avendone il potere, non hanno affrontato il problema della mobilit con la lungimiranza e con il coraggio che richiedeva, che non hanno saputo sottrarsi al ricatto dell'emergenza continua (deus ex machina della recente storia italiana), né a quello dei potentati dell'automobile, del cemento, della gomma e dell'asfalto.
Qualcuno, rievocando altre vicende per l'Italia più fauste accadute ai confini con l'Austria, ha detto che gli autotrasportatori, di fronte alla fermezza del ministro Streicher, inutilmente blandito dal suo omologo Bernini, "hanno ridisceso in disordine e senza speranza le valli che avevano risalito in orgogliosa sicurezza". Agli occhi dell' opinione pubblica, gli autotrasportatori non erano soli nella fuga e nella disfatta: li guidavano gli uomini che, da quasi mezzo secolo, occupano il Palazzo.
LE SORPRESE DELLA "FINANZIARIA"
E' una calza della Befana piena di carbone, la Finanziaria di quest'anno. Il pezzo più grosso dal nostro punto di vista é certamente costituito dal disegno di legge per la casa. Scardina molto più di quando abbia fatto l'intera fase della deregulation, di cui costituisce l'apoteosi. Ottomila miliardi sottratti alla programmazione ordinaria, e distribuiti con procedure che consentono la massima discrezionalit agli organi ministeriali. Per realizzare 50 mila alloggi destinati, di fatto, al "libero mercato" (ma in gran parte pagato dai contributi Gescal). Naturalmente, su aree scelte in deroga a qualunque piano regolatore, piano per l'edilizia economica popolare, normativa urbanistica.
Insomma, un capovolgimento radicale dell'intero sistema dell'intervento pubblico nell'edilizia residenziale, senza peraltro sostituire ad esso nulla se non il semplice ritorno al passato: a quel passato di disordine insediativo, di premio alla speculazione, di incentivo all'"arraffa-arraffa" che ha provocato danni di cui ancor oggi paghiamo i prezzi.
Ma nell'epifanica calza della Finanziaria c'é anche qualche caramella. Consideriamo tale la proposta, avanzata dal ministro Formica, di unificare in un'unica imposta quelle che oggi incidono sul patrimonio immobiliare, destinandone i proventi ai comuni e, soprattutto, collegando le indennit di esproprio ai valori dichiarati. Non sarebbe male se, chi su altri tavolo discute le proposte sul regime degli immobili, cogliesse la buona occasione. L'Inu sostiene da decenni che occorre stabilire un unico sistema di valori degli immobili (aree ed edifici), che valga in qualunque rapporto tra pubblico e privato. L'unificazione dell'imposta immobiliare e delle indennit espropriative può essere un passo importante in questa direzione: un passo, del resto, che gi nei primi decenni del secolo governanti non estremisti, come Giovanni Giolitti, avevano ritenuto essenziale.
IL TERRITORIO DELL'URBANISTICA
"Il territorio dell'urbanistica": questo il titolo, ancora provvisorio, che il Consiglio direttivo nazionale dell'Inu ha scelto per il 19o Congresso dell'Istituto. Ha una valenza molteplice. Evoca l'oggetto del nostro lavoro e del nostro interesse; forse é la parola che più spesso adoperiamo, fuori dal privato. Esprime la propensione a legare i nostri ragionamenti a qualcosa di concreto, di stabile: qualcosa che sia soggetto alle trasformazioni della vita, ma non alle mode della vanit. E soprattutto indica la volont di comprendere meglio qual'é il campo che dobbiamo occupare (quali sono le sue coordinate, i suoi confini, la sua forma e consistenza, le sue asperit e le sue delizie),e qual'é il modo nel quale oggi dobbiamo occuparlo. nel quale oggi dobbiamo occuparlo.
Del campo dell'urbanistica sappiamo gi molto. Sappiamo che occupa il medesimo spazio occupato dalla societ in cui viviamo. Sappiamo che gli intrecci tra l'urbanistica e la societ sono così essenziali da non poter essere recisi senza negare l'urbanistica; ma sappiamo anche che essi sono così complessi da esigere sempre (e forse oggi più che ieri) lo sforzo di comprendere qual'é l'ambito dell'autonomia della nostra disciplina, della nostra "funzione", del nostro punto di vista.
E sappiamo anche che il modo della nostra operazione é quello volto a vedere lo spazio fisico della vita della società come sede di una serie di eventi suscettibili di trasformare la sua consistenza fisica e il suo assetto funzionale; eventi che possono essere dominati ove se ne sappia comprendere il carattere complesso e sistemico, e definire una coerenza, attraverso quella specifica procedura che chiamiamo pianificazione territoriale e urbana.
Nel nostro 19° Congresso cercheremo di ragionare collettivamente su come sia oggi necessario adeguare gli strumenti del governo del territorio (della pianificazione) alle nuove esigenze e alle nuove possibilit, traendo tutto il frutto possibile dalle esperienze parziali che sono state compiute in questi anni in più parti d'Italia, molte delle quali sono state illustrate e discusse nella 2a Rassegna urbanistica nazionale. E svilupperemo questo ragionamento collettivo gi in queste settimane, con i seminari preparatori che si terranno a Perugia e a Modena.
La base del congresso non sar questa volta costituita da una o più relazioni, ma da un documento aperto, che i partecipanti al Congresso saranno chiamati a discutere, ad emendare, a votare: un documento a tesi, elaborato in modo da favorire il dibattito e il confronto. Questa decisione non ha una ragione organizzativa, ma nasce da una valutazione della presente situazione dell'Inu.
Siamo convinti che l'Istituto, negli ultimi anni, sia molto cambiato. Da un organismo culturale molto coeso e compatto, dotato di una propria linea nella quale tutto il quadro attivo si riconosceva (e che era facilmente riconoscibile dall'esterno), siamo diventati un insieme molto pluralista, dove convivono posizioni diverse, su determinati punti anche alternative: é probabilmente una mutazione legata al fatto che, oggi, nell'Inu esiste un'ampia articolazione organizzativa, e una ricchezza di presenze favorita dalla vitalita di moltissime sezioni attive.
Le diverse posizioni presenti nell'Inu, espressione di quelle che esistono nel mondo che dentro l'Istituto si riflette, devono esprimersi con la massima chiarezza, perché tra esse nasca un fruttuoso confronto. A favorire una siffatta espressione saranno volte le tesi; per stimolare il confronto, e per avviare la costruzione di una sintesi, sar organizzato il Congresso. Oltre al territorio dell'urbanistica, esso servir dunque a definire e investigare il territorio dell'Inu.
Il territorio cambia, e con esso cambia la vita degli uomini. Non tutti se ne rendono conto, ed è per questo che il suo governo (la pianificazione delle città e del territorio) è così trascurato. Quando poi impieghiamo ore nevrotiche nel traffico, o vediamo i paesaggi dell’infanzia scomparire, o non troviamo alloggio a prezzi ragionevoli là dove ci serve, o non troviamo vicino casa quello che nei paesi civili è la dotazione di ogni abitazione (il verde, la scuola, il negozio), allora di fatto lamentiamo, tardivamente, gli effetti di scelte compiute, nella distrazione di tutti, molti anni prima.
Benché nessuno se ne scandalizzi più che tanto, le decisioni attraverso le quali l’organizzazione e la forma del territorio (il suo “assetto”) vengono modificati non sono decisioni prese consapevolmente, da chi ha l’autorità morale per farle, nell’interesse degli utenti del territorio: sono (almeno nel nostro paese) il risultato di scelte conseguenti ad altri interessi. Interessi magari in se legittimi, ma orientati a obiettivi che non comprendono il maggiore benessere collettivo.
Così, quando si sono realizzate le ferrovie ci si è preoccupati di collegare il più velocemente ed economicamente possibile mercati tra loro connessi da ragioni commerciali, senza curarsi dei paesi tagliati in due (pensiamo a tante città italiane), delle spiagge allontanate dai suoi fruitori (pensiamo alla costa marchigiana e abruzzese), dei versanti dei monti tagliati e resi pericolanti e instabili. Quando si sono costruite le fabbriche ci si è preoccupati di avere il terreno a basso prezzo, la mano d’opera vicina, l’acqua a portata di mano: dell’inquinamento delle falde acquifere, degli effetti sul traffico nelle strade circostanti, dei rischi derivanti dalle specifiche produzioni industriali non ci si è preoccupati affatto.
E così, più recentemente, quando si sono aperti alle periferie delle città supermercati e ipermercati si è pensato alle quote di consumo che potevano essere accaparrate vendendo vasti assortimenti di merci a basso costo a un numero elevato di consumatori, non si pensato né alla congestione del traffico che ne derivava nella viabilità circostante né allo svuotamento dei centri antichi e dei quartieri urbani dalle attività ivi insediate. E’ stata, questa, una causa non piccola del degrado delle città, e in particolare delle parti più antiche. Ha incoraggiato la riduzione delle periferie in dormitori e dei quartieri antichi in luoghi fittiziamente animati solo dal turismo e dagli uffici.
Il commercio, lo scambio di beni e merci ha sempre avuto un ruolo particolare nella città. Alle origini, ne ha provocato la nascita e le fortune. La collocazione sul territorio dei nuclei originari delle nostre città è stata determinata, oltre e forse più ancora che dalle ragioni della difesa, da quelle dello scambio. Intrecciandosi con la vita civile e quella religiosa ha dato vita a una tipologia di luoghi che costituisce – insieme alla città – una delle invenzioni più rilevanti della creatività comune dell’umanità: le piazze, i luoghi dell’incontro, della socialità, dello scambio di beni, informazioni, esperienze, emozioni. Quando poi il commercio si è separato dalle altre funzioni urbane sono nate le periferie-dormitorio, la specializzazione funzionale delle diverse parti della città, la segregazione sociale – in una parole, una componente vistosa del disagio urbano.
Se questo è vero, se quindi la configurazione spaziale del commercio e la sua relazione con le altre funzioni urbane è essenziale per la città, e se questa è in una fase di veloce trasformazione, allora è evidente che il campo di ricerca di Fabrizio Bottini presentato in questo volume è importante non solo per gli studi urbanistici, ma per gli interessi degli abitanti delle città. Bottini indaga infatti sulle logiche interne che determinano l’attuale tendenza delle attività commerciali e delle loro connessioni con l’ambiente, sui modi in cui esse si esprimono e sulle mode che li alimentano, sugli effetti concreti che esse generano nei concreti territori della nostra vita.
Due sono gli spazi geografici privilegiati dall’analisi di Bottini: gli USA e quell’area pianeggiante, una volta irrorata dal Po e oggi da un rutilante sistema di comunicazioni, che l’attuale pubblicistica ha denominato Padania.
Evidente è la scelta del primo riferimento. Gli USA sono infatti l’ambito entro il quale è più facile osservare i risultati di uno sviluppo basato sulla netta prevalenza (sul dominio) delle ideologie liberiste e della concorrenza economica come motore esclusivo della macchina sociale. Una delle tendenze (delle ideologie) che attualmente si contendono il diritto di governare nel nostro paese: forse la più forte, certo la meno contrastata. Del resto, il pragmatismo americano è stato anche capace di comprendere per primo i limiti del mercato e di applicare alcuni empirici strumenti per non farli divenire catastrofici: non dimentichiamo che fu nell’America del nord (a New York, nel 1811) che si produsse il primo piano regolatore per disciplinare una città resa inutilizzabile dallo spontaneismo delle decisioni sul territorio, e che fu negli USA (col roosveltiano New Deal) che si applicò in grandi dimensioni la pianificazione territoriale per sanare gli effetti sulla società americana della crisi del capitalismo.
Studiare gli Stati uniti, comprendere e documentare come lì vanno le cose, le tendenze che si manifestano, i benefici e i danni che provocano, i soggetti tra cui si distribuiscono gli uni e gli altri, i modi in cui si cerca di governare e contenere gli effetti negativi è quindi molto utile non solo per acquisire consapevolezza di ciò che accade oltreoceano, ma per saper leggere e correggere in anticipo (prevenire) ciò che sta già avvenendo qui, da noi.
Qui da noi, e soprattutto nelle pianure del Nord evoluto e regressivo. Quel Nord padano lacerato tra l’antica propensione europea prima che europeista, e il più arcaico idiotismo delle valli chiuse e degli orizzonti ristretti, tra le consolidate tradizioni di saggezza amministrativa e di solidarismo sociale e le spinte individualistiche del guadagno rapido e certo. Quel Nord nel quale si sono sperimentati i più evoluti meccanismi di pianificazione e le più regressive pratiche di deregulation: per esemplificare, da Giovanni Astengo a Giovanni Verga. Qui, nelle sue terre che ancora gli suscitano commozioni, Bottini descrive e analizza, con il rigore dello scienziato, la passione dell’abitante, la penna del giornalista (e con un’ironia costante, che è insieme saggio distacco dalle cose e mitigazione di quanto in esse c’è di sgradevole e perverso) ciò che sta avvenendo, a prefigurazione di quanto potrebbe consolidarsi, ingigantirsi e propagarsi dappertutto.
Nel libro troverete dunque un’analisi appassionata di ciò che sta avvenendo in Italia, alla luce di ciò che è avvenuto negli Stati uniti: a partire dalla pompa di benzina (in cui Bottini vede il primissimo germe di quella connessione extraurbana, e intimamente antiurbana, tra commercio e autostrada) e dello shopping mall, passando per il factory outlet village, per giungere alla forma attuale del big box, la “grande scatola”, che in qualche modo sembra riassumere e concludere un percorso storico di nuova barbarie.
Intendiamoci: gli accenti perentori e indignati verso questa forma di distruzione della città sono miei, non dell'autore del libro. Bottini riesce infatti sempre ad avere un atteggiamento di comprensione nei confronti delle novità che si affacciano e delle esigenze cui rispondono. Sebbene metta sempre in evidenza i giudizi critici (gli è sempre presente lo slogan del sito Sprawlbusters!, “la qualità della vita vale più di un paio di mutande a poco prezzo”), lo spirito con il quale egli descrive e valuta è quello che emerge nelle conclusioni, dove precisa che il suo lavoro “non può e non vuole suggerire soluzioni, almeno non più di quanto implicitamente inteso nelle sequenze di casi e problemi esaminati”, e richiama “l’obiettivo di approfittare il più possibile delle opportunità offerte dai nuovi modi di uso dello spazio metropolitano e regionale, ferme restando le cautele di carattere sia ambientale che sociale su cui si è più volte tornati”.
Resta però, conclude Bottini, “la necessità di fare l’abitudine ad un rapporto fisiologicamente più conflittuale, a livello meno localistico, fra società e impresa commerciale; perché pare, e non da oggi, che solo dai conflitti nascano le innovazioni, in questo come in altri campi”.
Certo, il conflitto, la dialettica, è la molla che muove il mondo e lo fa progredire. Ma perché il percorso dialettico conduca alla sintesi, e non allo schiacciamento della tesi da parte dell’antitesi (o viceversa), occorre che vi sia un certo equilibrio tra le forze in campo. Non mi sembra che, sull’argomento specifico questo equilibro vi sia, almeno nel nostro paese e negli USA.
Sconfinato sembra infatti il potere di quella che Bottini definisce “impresa commerciale”: il mondo delle grandi holding, delle multinazionali dirette da un gruppo sempre più ristretto di soggetti, espressioni di una cultura dominatrice più che egemone. Un mondo il cui obiettivo è la maggiore ricchezza e il maggior potere acquisibili mediante l’impiego di tutti gli strumenti: il mercato e il monopolio, il liberismo e il protezionismo e l’assistenzialismo, la persuasione occulta e la guerra.
Esile invece, incerto sulla sua “missione”, affascinato dall’ideologia della “impresa commerciale” è dall’altro lato il mondo che del primo dovrebbe costituire l’antitesi onde costruire la superante sintesi: il mondo dell’amministrazione pubblica. Quel mondo il cui obiettivo istituzionale è difendere e promuovere gli interessi dell’intera società, e in particolare di gli strati e gli interessi dei quali il sistema dominante non si occupa se non residualmente.
Un simile squilibrio tra le forze in campo non stupisce negli USA, dove al potere pubblico è stato originariamente assegnato un ruolo di mero sostegno al mercato, e dove quindi il tentativo che si compie è quello di contrastare le iniziative della “impresa commerciale”, o più spesso di moderarne gli effetti più dannosi. Può stupire in Italia, parte di quell’Europa nella quale la relativa debolezza del sistema capitalistico-borghese ha storicamente condotto l’attore pubblico a svolgere un ruolo di guida e di supplenza al mercato e alle sue imperfezioni, e dove comunque gli interessi comuni, “cittadini”, hanno sempre costituito un potere strutturato, capace di confrontarsi in modo non subalterno con gli interessi dell’impresa.
Ma in Italia la capacità di governo del territorio si è manifestata unicamente a livello locale. Non a caso, in epoca contemporanea l’unico strumento di pianificazione adoperato è stato il piano regolatore comunale. Ora che i fenomeni (come Bottini limpidamente ed efficacemente illustra) sono diventati sovracomunali, si rivelano in tutta la loro gravità, da un lato, il ritardo con cui in Italia si è posto mano alla pianificazione territoriale (ai livelli provinciale, regionale e nazionale), e, dall’altro, lato la subalternità culturale della grande maggioranza delle forze politiche (e dello stesso mondo accademico) nei confronti dell’ideologia mercantilistica.
Non può considerarsi casuale il fatto che, mentre le strategie territoriali delle “imprese commerciali” si svelano nella loro lucida aggressività, la pianificazione territoriale delle regioni italiane si traduce nella predisposizione di testi ampiamente descrittivi, illustrativi e interpretativi delle situazioni di fatto, ma privi di qualsiasi operatività. Quest’ultima viene lasciata alle decisioni caso per caso, assunte giorno per giorno dal “governatore” o dal suo staff, aperte alla più scatenata discrezionalità. Ciò proprio mentre oltreoceano si ascoltano sempre più numerose le voci e le proposte che mirano a un’azione pubblica volta a contenere, regolamentare, controllare a priori le trasformazioni indotte dal sistema delle “imprese commerciali”.
L’invincibile provincialismo dei ceti che dirigono il Belpaese e ne determinano il futuro emerge ogni volta che, come nel libro di Fabrizio Bottini, vengono forniti onesti materiali di confronto. La speranza è che questi libri aiutino anche a superarlo.
Edoardo Salzano
Sorano, 31 ottobre 2004
La città è un’invenzione dell’uomo
Oggi consideriamo la città il luogo naturale della vita dell’uomo. In effetti, la stragrande maggioranza della popolazione vive nelle città. Oggi, in Italia la popolazione urbana è quasi il 70%, ma in Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito, si avvicina al 90%, in Germania, Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Corea, Giappone supera l’80%. [1]
Ma non è sempre stato così. L’uomo non ha sempre vissuto in città. La città è una invenzione dell’uomo. Per moltissimi secoli i nostri progenitori vivevano errando su territori sconfinati, seguendo gli animali delle cui carni si nutrivano e delle cui pelli si coprivano, raccogliendo frutti e radici, riparandosi in rifugi di fortuna quando le intemperie li colpivano o le belve li minacciavano. Erano associati in piccoli gruppi o in occasionali orde, quasi come i branchi di animali che inseguivano o con cui competevano. Non avevano regole comuni, se non quelle della sopravvivenza e del dominio del più forte.
Poi impararono alcune cose che gli altri esseri non conoscevano: ad adoperare il fuoco e a farlo vivere, a seminare i frutti degli alberi e delle piante e a far crescere e moltiplicare i prodotti della natura. Inventarono l’ agricoltura e l’ allevamento degli animali.
Ciò produsse una vera e propria rivoluzione nel loro rapporto con il territorio; non furono più “ nomadi” (errabondi sul territorio), divennero “ stanziali”: si fermarono in un sito, dove poter custodire il fuoco, coltivare piccoli appezzamenti di terreno, allevare gli animali addomesticati. Scelsero siti difesi dalle intemperie e dalle belve, terreni fertili, abbondanza di risorse (l’acqua, i prodotti del bosco, quelli del fiume e del mare). Vi costruirono gruppi di abitazioni, i villaggi: più stabili dove la loro attività principale era l’agricoltura, aggregazioni più mobili di capanne (ricordate i wigwam dei pellirosse?) dove praticavano l’allevamento
La stanzialità diede luogo a forme sociali un po’ più ricche del branco o dell’orda: si formarono tribù, famiglie ramificate o gruppi di famiglie. La convivenza stabile impose la necessità di regole: come governare i conflitti che insorgevano tra le persone, come ripartirsi gli incarichi utili a tutti, come proteggere i beni comuni.
Mano a mano che imparavano a migliorare le loro capacità di agricoltori, di allevatori o di pescatori gli uomini scoprirono che dalla natura potevano trarre più di quanto serviva loro per le esigenze elementari: più di quanto fosse necessario per nutrire se stessi e la prole, per coprirsi e ripararsi, per mettere da parte le sementi per la prossima annata e le scorte per i periodi di carestia. Una volta soddisfatte queste esigenze, restava un sovrappiù di beni. Che farne? Cominciarono a scambiarlo tra produttori dei villaggi vicini: chi aveva pelli le dava in cambio di grano, chi aveva pesci li scambiava con i prodotti del latte.
La necessità di scambiare i prodotti in eccesso rispetto alle esigenze di consumo condusse i villaggi ad accrescere le relazioni tra loro. Il territorio fino ad allora poteva immaginarsi costituito da una serie di villaggi da ciascuno dei quali si irraggiava una serie di percorsi, che solo casualmente si incontravano con quelli dei villaggi vicini. Da quel momento (da quando cominciò lo scambio del sovrappiù) si costituì via via una rete di tragitti che congiungevano villaggi diversi: una rete di sentieri, o di percorsi acquei, tracciati dai gruppi di uomini e donne che portavano i loro prodotti ai villaggi vicini, per scambiarli con i loro sovrappiù.
Man mano che le innovazioni introdotte nella loro attività aumentavano la loro produttività (la quantità di prodotto che erano in grado di formare ogni anno), aumentava il sovrappiù. L’esigenza di conservarlo, di difenderlo mentre si accumulava, di scambiarlo, fece nascere nuove necessità e nuove invenzioni, che modificarono l’organizzazione sociale e il rapporto con il territorio. Il villaggio si arricchì di nuove funzioni e nuove costruzioni. Si costruirono magazzini e difese per il sovrappiù, si attrezzarono luoghi dedicati allo scambio: nacque il mercato, là dove arrivavano le carovane che portavano i prodotti dagli altri villaggi, e gli abitanti che volevano scambiare i loro prodotti con quelli portati dai mercanti.
Con il mercante è nata una nuova funzione sociale. Accanto al produttore (agricoltore o allevatore o pescatore che fosse), è nato un soggetto la cui attività economica è quella di aiutare lo scambio: non è più il produttore che va al mercato del villaggio vicino a scambiare la sua produzione, ma è il mercante, che si fa dare il sovrappiù prodotto in un villaggio, lo porta in un altro villaggio, lo scambia. (Nel frattempo è nata la moneta: un equivalente universale di tutti i prodotti. Un prodotto si può scambiare con moneta, questa servirà a comprare un altro prodotto quando ciò sarà necessario o conveniente).
Aumenta il sovrappiù, aumenta lo scambio, si trasforma il territorio. Cresce l’importanza delle strade che collegano tra loro i villaggi (i mercati). Cresce importanza dei luoghi dove s’incrociano più percorsi: sono più facilmente raggiungibili da più punti, sono più accessibili. Il ruolo dei villaggi si diversifica: diventano più rilevanti, più dotati, più abitati i villaggi che si trovano accanto ai mercati dove affluiscono più mercanti. Dunque, quelli posti all’incrocio di itinerari di rilievo. (Avete mai osservatato quante città odierne, trasformazione di antichi villaggi divenuti via via più importanti, sono collocate in un punto dove un corso d’acqua e un percorso di terra si incrociavano, grazie a un guado o a un ponte? Oppure dove una strada di valle o di crinale raggiungevano un sito costiero dove l’approdo era facile?).
Là dove il sovrappiù prodotto dalla comunità non viene portato via da un padrone o da un brigante (ricordate il film “I Magnifici Sette”, o il suo bellissimo antenato “I Sette Samurai”?), là dove rimane nelle mani delle famiglie dei produttori, la società si arricchisce e diviene più complessa. Nascono nuove funzioni: al produttore e al mercante si è aggiunto l’artigiano (che dedica il proprio tempo e la propria intelligenza e fatica a riparare gli attrezzi). Alle funzioni propriamente economiche si aggiungono via via quelle sociali: l’amministrazione della giustizia, la difesa verso i nemici esterni, la celebrazione dei valori comuni, il governo degli interessi condivisi.
Nascono e si arricchiscono i luoghi destinati alle funzioni comuni. Accanto al mercato, diventano più belli e più complessi i luoghi dove ci si riunisce per decidere insieme, o per assistere alle celebrazioni comuni, o semplicemente per incontrarsi (così nascono le piazze, che rendono belle le città dell’Europa). Sorgono, e diventano via via più ricchi e adorni, gli edifici destinati alla celebrazione del culto, all’amministrazione della giustizia, al governo della cosa pubblica.
Dal villaggio è nata così, a conclusione di un lungo percorso storico, la città. Se riflettiamo sulle vicende della sua nascita e del suo sviluppo, scopriamo subito qual’è la ragione di fondo della sua invenzione. La città è nata come luogo finalizzato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze che i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano risolvere da soli. La città, insomma, è nata per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali.
E i luoghi, gli spazi, gli edifici dedicati a queste esigenze e funzioni hanno caratterizzato le città, hanno dato a ciascuna di esse una particolare identità e riconoscibilità, sono state la ragione della sua particolare bellezza. Osservate i centri storici delle città italiane o francesi, tedesche od olandesi, spagnole o austriache: quali immagini evocano alla vostra memoria? Ricordate certamente alcuni grandi edifici, adorni e ricchi, più maestosi degli altri, collocati al margine o al centro di piazze, o sistemi di piazze, a loro volta abbellite da fontane e statue e da studiate pavimentazioni. E ricordate i disegni antichi e le antiche storie che vi raccontano come in questi luoghi, nella piazza della cattedrale o in quella del palazzo del governo o in quella del mercato, donne e uomini, vecchi e bambini si incontravano nelle ore del lavoro e in quelle dello svago, e come in quegli stessi luoghi i cittadini accorrevano a frotte, in ogni occasione gioiosa e festosa, o ad ogni allarme o pericolo.
Attorno a questi edifici e spazi, potete osservare ancora oggi il regolare allinearsi delle casette “normali”, dove abitano e lavorano i cittadini e le loro famiglie: case uguali nelle strutture (le altezze, le larghezze, la forma del tetto, il modello delle finestre, nelle regioni piovose il portico sulla strada principale). Come nel contrasto armonico tra il coro e la voce solista, l’uniformità regolare della “edilizia minore” sottolinea l’importanza, la centralità, il ruolo dominante dei grandi volumi e dei grandi spazi (la cattedrale, il mercato, il palazzo del governo, il tribunale): i grandi volumi e i grandi spazi nei quali si identifica e si celebra la città.
La città, insomma, non è un insieme di case: è la casa della società.
Nella città tutti avevano diritti. Diritti non uguali: c’era il ceto dei più ricchi e potenti, come i mercanti, i possidenti, più avanti nel tempo gli imprenditori capitalisti; c’erano gli artigiani dei molti mestieri, i padroni di bottega e i semplici lavoratori, i garzoni, i manovali, più tardi gli operai delle fabbriche. Tutti avevano però una base comune di diritti: erano cittadini, quindi, a differenza di quanto non fossero nei villaggi, asserviti a un padrone della terra, erano liberi. Un antico detto medioevale afferma che “l’aria della città rende liberi”.
La comune libertà, il comune diritto di cittadinanza, non impediva i conflitti tra i membri delle diverse classi sociali. Ma i conflitti urbani avevano un carattere diverso rispetto alle sanguinose ribellioni che percorrevano le campagne, opponendo le torme dei miseri servi alle guardie dei ricchi: erano lotte per costruire, per cambiare qualcuna delle regole che garantivano la convivenza civile.
Così fu, ad esempio, nella “rivolta dei Ciompi”, nella Firenze del XIV secolo. I Ciompi erano gli operai della lana, cui si unirono garzoni e operai degli altri mestieri. Rovesciarono con la forza il governo del “popolo grasso” (i mercanti e i padroni delle fabbriche), sostituendovi un governo più vicino al “popolo minuto”. Non saccheggiarono né distrussero la città (come fece più volte il popolo servile delle campagne con i castelli dei signori), ma la governarono con moderazione.
E così fu – per fare un altro esempio classico - nella lotta sindacale che oppose a Lione, la capitale francese della seta, i “ canuts” (gli operai setaioli che, a domicilio, tessevano per i padroni) ai capitalisti e ai mercanti. Un rincaro dei prezzi dei beni d’uso comune li aveva spinti a chiedere un prezzo più alto per il loro lavoro. I padroni lo negarono; i canuts si asserragliarono nel loro quartiere (la Croix Rousse) e resistettero per tre giorni all’assedio e al bombardamento della guardia nazionale. Si giunse a un accordo, grazie alla compattezza dei canuts e delle loro famiglie. La città non fu distrutta e l’economia fiorì più prospera.
L’aria della città non rende solo più liberi: rende anche più solidali i cittadini.
Questa era la città, quando l’uomo la inventò e la rese la più bella e ricca delle sue costruzioni. Ma poi è cambiata. Oggi non è più così. La città, oggi, è in una crisi profonda. È difficile riconoscerla come la “casa della società”: è più facile definirla il luogo della lacerazione della società. Ricordiamo alcuni aspetti della sua crisi attuale: aspetti che sono presenti nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi.
Oggi moltissimi vivono il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell’uomo e della donna dei nostri tempi (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Oggi la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, per persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri: a causa del traffico e del rumore, del pericolo, del prezzo delle case, dello stesso disegno degli spazi pubblici. Oggi la nostra salute è minacciata dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, i rumori ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Oggi l'abnorme produzione di rifiuti minaccia di seppellirci..
E ricordiamo, soprattutto, quell'aspetto della crisi della città che è il traffico. Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico e paradossale. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.
Sarebbe lungo raccontare le ragioni della crisi della città. Ce n'è una che è centrale e nodale. La questione può essere sintetizzata nel modo seguente. All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati dal processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto in Europa, fin dalla fine del '700 un poderoso aumento della popolazione e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Più avanti nel tempo, per effetto dell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.
Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città dell'ordine di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. E sono città nelle quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini sono tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendono di essere soddisfatte. Nasce quindi una fortissima domanda di fruizione di funzioni urbane: di lavoro “libero” (affrancato dalla servitù), di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.
Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.
Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia.
Le città, intanto, sono ancora il luogo dell'homosocialis, dell'uomo sociale. Sono il luogo in cui l'uomo è inevitabilmente condotto a cercare l'incontrarsi, lo scambiarsi informazioni ed esperienze, gioie e paure, a cercare e trovare il comunicare, lo stare insieme. Sebbene dominata dall'individualismo, la città è ancora il serbatoio dei possibili valori comunitari, delle potenzialità collettive.
E le città poi, soprattutto nel nostro paese - ma nell’intera Europa - sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle nostre città si é consolidato e conservato qualcosa che é un valore in molti sensi: si è conservato e consolidato nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili.
È un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).
È di qui, è dalla tutela e dalla valorizzazione dei valori sociali e culturali che si può partire, che si deve partire per progettare una città nuova: una città capace di superare la crisi attuale.
Abbiamo parlato della città. Ma per comprendere la città oggi, dobbiamo parlare di un altro protagonista: dobbiamo parlare del territorio.
Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città era il chiuso, il difeso, l'artificiale, il costruito, il denso, il dinamico, mentre il territorio era il luogo aperto, dove si poteva essere attaccati, dove dominava esclusiva la natura, dove la presenza dell’uomo era rada e discontinua, dove le trasformazioni erano lente come i ritmi della natura.
Nel corso del grandioso e drammatico processo di espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio è venuto via via a modificarsi. La città ha cominciato ad "esportare" parti scomode della sua struttura: le prime sono state le fabbriche, allontanate dal tessuto urbano a causa dell'inquinamento e collocate nelle nuove "zone industriali" in periferia. Si è enormemente accresciuta, fin dalla metà del secolo scorso, l'importanza dei trasporti, e il territorio ha cominciato a essere segnato da infrastrutture come le strade, le ferrovie, i canali navigabili.
Nella seconda metà di questo secolo la mobilità sul territorio è aumentata in misura parossistica: è aumentata la rete delle infrastrutture del trasporto, ed è aumentata la loro utilizzazione. E le infrastrutture hanno creato a loro volta nuove convenienze per l'insediamento di funzioni specializzate. Gli ospedali e le caserme, le carceri e le strutture commerciali, gli stadi e le discoteche, contenitori di funzioni che una volta animavano la vita urbana, sono stati localizzate sempre più frequentemente fuori dalle città, in prossimità dei caselli autostradali o delle superstrade.
Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere e usare il territorio. Oltre alle ragioni derivanti dal fatto che determinate funzioni (quelle di cui ho parlato or ora) sono state collocate fuori, oltre a quelle derivanti dal fatto che è più conveniente accedere a servizi localizzati in città diverse dalla nostra (per l’università, per l’ospedale specializzato, per l’approvvigionamento di merci rare, per il concerto o la mostra o lo spettacolo), nuove ragioni sono nate da nuove esigenze: esigenze di contatto con la natura, con ambiente incontaminati, esigenze di rigenerazione psicofisica, di sport attivo, di ricreazione all’aria aperta. La villeggiatura, le gite di fine settimana in collina o nel bosco o a mare, le settimane bianche sulla neve, lo sci e l’alpinismo e la vela: tutte queste pratiche della vita di ciascuno di noi, erano inesistenti o del tutto marginali fino a qualche decennio fa. Oggi, ci hanno condotto a usare il territorio in modo sempre più ampio e frequente.
Oggi possiamo dire, in definitiva, che il territorio non è più in opposizione alla città: non è l’altro, non è il fuori. Oggi, la città, o più precisamente la vita urbana, comprende il territorio. Oggi non è più il caso di parlare di città e territorio come di due realtà antitetiche. Oggi è più esatto parlare di territorio urbanizzato come una realtà che comprende insieme le città e il territorio.
Certo, il territorio urbanizzato è formato da realtà tra loro molto diverse. In alcune parti l’urbanizzazione è più densa, la presenza umana è più forte, i flussi di relazione che legano tra loro le diverse persone e attività sono più intensi, la presenza della natura è più debole. In altre parti invece succede il contrario: la presenza della natura è più marcata e più debole è invece la presenza dell’uomo, minore la densità dell’urbanizzazione, l’intensità dei flussi.
La città come “casa della società” si è insomma estesa al territorio, comprendendolo all’interno della rete delle sue esigenze e della sua organizzazione.
Questo fenomeno è avvenuto nel corso della seconda metà del secolo scorso e di questo secolo, con un’accelerazione progressiva. È avvenuto insomma nello stesso periodo di tempo, e per effetto delle stesse sollecitazioni, che hanno provocato la crisi della città. Quella crisi, la crisi della città, non poteva allora non riverberarsi sul territorio. E infatti nell’organizzazione del territorio vediamo rispecchiarsi allargati quegli stessi fenomeni di degrado che abbiamo visto nella città. Proviamo a comprendere che cosa è successo al territorio per effetto dell’estendersi su di esso della presa della città.
Com’era il territorio, fuori dal recinto della città, trecento o duecento o cent'anni fa? Non era un luogo selvaggio e aspro. Il territorio extraurbano era tutto curato, amministrato, gestito. Non solo quello agricolo, che occupava un'area più estesa di quella odierna, ma anche quello utilizzato per la pastorizia e la silvicoltura, e perfino quello del tutto "selvatico". Perfino i boschi selvaggi, quelli dove le bestie addomesticate non potevano pascolare e che non venivano curati dai boscaioli, erano soggetti a quel minimo di cura che consiste nel togliere via i rami e i tronchi secchi per arderli nei focolari (impedendo così che il corso delle acque nei torrenti tracimasse dagli alvei naturali e rovinasse a valle)
Tutta la natura, insomma, anche quella più selvatica, entrava nel ciclo economico della società. Tutta la natura era "casa dell'uomo", anzi, della comunità. E basta studiare gli usi civici[2], la loro minuziosa regolamentazione comunitaria volta in larghissima misura all'appropriazione dei prodotti dell'incolto, per comprendere quanto la società, nelle sue forme arcaiche ma non più elementari, fosse presente sull'insieme del territorio.
È chiaro che un territorio sottoposto a simili regole, finalizzate a simili stringenti necessità (riscaldarsi, ripararsi, nutrirsi), era anche un territorio custodito. Era un territorio sul quale si esercitava un controllo sociale. Era un territorio che veniva sentito e vissuto dall'uomo come un patrimonio, perché immediatamente ne traeva elementari ma indispensabili benefici.
Nell'ultimo secolo, e in modo particolarissimo negli ultimi cinquant'anni, la città si è estesa a macchia d'olio, e ancora più vaste sono proliferate le sue propaggini "rururbane": lo "svillettamento" delle campagne di pianura e dei colli, le lottizzazioni a nastro lungo le coste e le vie di comunicazione, la formazione di ampie “città diffuse” o “città spalmate” o “città esplose” (i francesi parlano appunto di ville étalée e di ville éclateé) nelle regioni attorno alle città più grandi. Se andate da Treviso a Padova, o da Milano a Cantù, o da Macerata a Civitanova, o da Napoli a Nocera, vedete un paesaggio formato da case, ville e villette, capannoni e discariche, depositi e parcheggi, tra i quali pochi brandelli di campagna vi ricordano l’antico paesaggio agrario.
La campagna coltivata si è enormemente ridotta, abbandonando tutti i terreni acclivi e gran parte delle zone interne dello nostra Italia. La pastorizia si è ridotta ad attività marginale e di risulta. Dalle montagne e dalle colline l'insediamento è "franato", la popolazione ha abbandonato i paesini ad alta quota e si è trasferita verso le grandi città, i fondi valle, le coste.
Non è stato solo uno spostamento di residenze e una trasformazione della produzione. Non è stato neppure solo un fenomeno quantitativo. Il possente salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall'economia e dalla società. L'extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d'attesa per l'ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell'urbano, luogo delle discariche, dell'esportazione "fuori" degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti serrati nella loro scatola di latta.
Per domandarci come si può, oggi, progettare una città e un territorio adeguati alle esigenze di oggi, e capaci di superare la crisi in atto, dobbiamo innanzitutto domandarci quali siano gli strumenti di cui disponiamo. Quello che conosco meglio, e che mi sembra si possa adoperare con una qualche efficacia, è la pianificazione territoriale e urbanistica, come componente e metodo guida di un’azione pubblica democratica di governo del territorio. Domandiamoci allora che cos’è questa cosa, la pianificazione.
La pianificazione nasce, nei tempi moderni, come tentativo di dare una risposta positiva alla crisi della città dell’Ottocento. Il prevalere dell’individualismo nell’organizzazione della città aveva dato luogo ad anarchia, disagio, inefficienza. Occorreva regolare lo sviluppo urbano con uno strumento che riuscisse a dare coerenza a cose che erano diventate incoerenti e contraddittorie. La pianificazione nasce così come insieme di regole, dettate dall’autorità pubblica, miranti a dare ordine alle trasformazioni della città e a fornire una cornice all’interno della quale potessero esplicarsi le attività di costruzione e utilizzazione poste in opera da operatori privati.
Forse il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, è nato nel 1811, in quella città delle Americhe che da New Amsterdam (come l’aveva battezzata il primo nucleo d’emigranti arrivati dall’Olanda) era diventata New York. Aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e fabbrichette. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.
Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo. Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di un’area corrispondente a circa centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.
L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento provocato dallo sviluppo.
Ma era un’economia basata su due principi. Il primo era la libertà individuale: più questa era priva di freni, più sapeva perseguire, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. Il secondo principio era la riduzione d’ogni bene a merce, d’ogni valore a valore di scambio. Una cosa non aveva valore di per sé, per l’uso che se ne poteva fare, per l’utilità o per il piacere che se ne poteva trarre, ma per il fatto di essere scambiata con altre merci: in particolare, con la merce che le vale tutte, la moneta. (Come conseguenza di ciò i beni che non possono essere ridotti a merce, come l’acqua, l’aria, la bellezza, sono scomparsi dall’attenzione dell’economia e della società: non valgono nulla, quindi possono essere sprecati, distrutti).
Questi due principi costituivano anche due limiti pericolosissimi per quel sistema economico-sociale. Il primo limite lo si scoprì prestissimo: appunto a New York, nel 1811. Il secondo limite lo si scoprì molto più tardi, quando nacque la questione ambientale; su questo torneremo più avanti.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pianificazione urbanistica divenne una procedura normale per regolare le trasformazioni e, soprattutto, l’espansione delle grandi città (nelle società industrializzate come nelle terre colonizzate dal capitalismo europeo). Poco più tardi leggi specifiche generalizzarono il metodo, le tecniche e le procedure della pianificazione a tutte le realtà territoriali nelle quali si manifestavano, o si prevedevano, trasformazioni significative dell’assetto fisico o dell’organizzazione funzionale. L’Italia arrivò con un certo ritardo. Dopo un dibattito durato oltre un decennio, solo nel 1942 venne approvata la legge urbanistica ancora oggi in vigore. Ma già prima, negli anni immediatamente successivi all’a costituzione dello stato unitario, le grandi città avevano deciso di adottare un piano urbanistico: a Torino nel 1864, Firenze (prima capitale del Regno d’Italia dopo Torino) nel 1865, Roma nel 1873, Milano nel 1885.
La struttura della città e dell’urbanizzazione è molto mutata da allora; soprattutto, in Italia, nei trent’anni del secondo dopoguerra. Abbiamo visto alcuni rilevanti aspetti del cambiamento: in particolare, l’estensione del processo di urbanizzazione all’intero territorio. Se è successo quello che è successo, se la città si è “impadronita” dell’intero territorio, allora oggi non basta più imprimere, attraverso la pianificazione, regole alle trasformazioni della città. Bisogna estendere la pianificazione all’intero territorio. Nasce così, come estensione e proiezione della pianificazione urbanistica, la pianificazione territoriale.
E cambiano gli obiettivi specifici della pianificazione territoriale e urbana. Fino a qualche decennio fa l’esigenza primaria era l’espansione: la pianificazione era lo strumento per governare la crescita. Si espandevano le città, e nuove aree dovevano essere sottratte alla natura e impegnate dalle costruzioni. Cresceva a dismisura la motorizzazione individuale, e occorreva costruire nuove strade, superstrade, autostrade.
Oggi si è preso atto che l’espansione non è più il problema centrale: la popolazione non aumenta, e c’è addirittura un eccesso di costruzioni sulle necessità della popolazione e delle attività. Il problema centrale è diventato quello della riqualificazione delle immense periferie costruite negli anni ’50, ‘60 e ’70 del secolo scorso. L’obiettivo è di renderle umane, civili, abitabili per tutte le donne e gli uomini, i bambini e i ragazzi, gli anziani e gli infermi.
E si è preso atto che l’espansione della motorizzazione individuale e su gomma pone più problemi di quanti ne risolva. Non occorre incentivarla con la costruzione di nuove strade, superstrade e autostrade. Occorre invece dirottare quote consistenti della domanda di mobilità urbana e interurbana delle persone dall’automobile alla metropolitana, al tram, al filobus, e quote rilevanti della domanda di trasporto delle merci dal camion al treno e alla nave. Occorre insomma allargare l’impiego di mezzi di trasporto meno costosi, meno inquinanti, meno consumatori di spazio e di energia di quelli oggi prevalenti.
Infine, è nata l’esigenza di porre al centro della pianificazione l’esigenza della tutela e della valorizzazione dell’ambiente naturale e storico. Come garanzia di un futuro possibile (una progrediente degradazione dell’ambiente minaccia di distruggere le stesse possibilità di vita delle generazioni future) e come risorsa per lo sviluppo economico (sappiamo che la qualità dell’ambiente diviene sempre più una delle carte vincenti nella concorrenza internazionale tra le città e le regioni).
Quest'ultima considerazione ci conduce a un tema che oggi mi sembra centrale: quello del rapporto tra questione urbana e questione ambientale. Progettare oggi una città e un territorio adeguati significa affrontare in modo soddisfacente entrambe le questioni. Significa avviare la costruzione di una città e un territorio nei quali sia superata l'antinomia tra sviluppo e tutela dell'ambiente: in cui anzi la tutela delle qualità dell'ambiente sia vissuta come la premessa, l'occasione e la materia stessa d'un nuovo sviluppo economico e sociale.
Mi ricollego qui a una concezione del rapporto tra ambiente e sviluppo che è ancora controcorrente, nel nostro paese. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento dell'ambiente. Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, per molti, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. Questa affermazione oggi è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che, come afferma la Commissione europea[3], la qualità dell'ambiente è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico.
Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Tutti gli studiosi concordano nel sostenere che la qualità della città é riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale, e che perciò l'ambiente e la qualità della vita devono diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico.
È insomma la maggiore o minore qualità urbana che consente alle città d'Europa di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.
Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. È allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.
Tentare di raggiungere questi obiettivi non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il superfluo: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.
Se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti.
In effetti, quanto parlo di sviluppo mi riferisco a una categoria che la Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'ONU ha definito "sviluppo sostenibile". Per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" [4].
Bisogna provare ad applicare la definizione della Commissione dell'O.N.U. alla città, con una sola correzione: sostituendo cioè la parole "senza compromettere" con la parola "migliorare". Questa correzione mi sembra importante per due ragioni. In primo luogo perché ognuna delle civiltà del passato ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. In secondo luogo perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in assoluta controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.
L'obiettivo che dobbiamo proporci è allora quello di costruire una città (e un territorio) sostenibili, tali cioè da soddisfare i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni futura di soddisfare i propri.
Per fare questo occorre riconoscere che il territorio (la superficie del pianeta Terra che ci ospita) non è un semplice “contenitore” di ogni possibile trasformazione e manufatto, non è una pagina bianca sulla quale possiamo tracciare i disegni o gli scarabocchi che vogliamo. Esso è un soggetto, ha una sua individualità, è una risorsa vivente. Il territorio deve essere in primo luogo conosciuto e rispettato: nei beni naturali (l’acqua, la terra, la vegetazione, la flora e la fauna) che contiene, e in quelli storici (le antiche città, i casali e le masserie, i filari e i percorsi storici, i conventi e i castelli, i paesaggi agrari).
Il territorio, insomma, è un patrimonio per l’umanità. Un insieme di beni che vanno preservati, e migliorati nelle loro qualità, perché ne possano godere anche le generazioni future.
Quali sono, oggi, alcune cose concrete che si possono fare, nella progettazione della città e del territorio, per avvicinarsi all'obiettivo della città sostenibile? Vorrei proporne due.
Sulla prima mi sono già soffermato: si tratta della questione della mobilità[5]: È una questione che è indispensabile affrontare, se vogliamo restituire alla città un po’ di quelle qualità che hanno condotto l’umanità ad inventarla e a costruirla: la possibilità d’incontrarsi, di spostarsi agevolmente, di passeggiare in luoghi ameni e piacevoli, di evitare i rischi alla salute derivanti dalla congestione del traffico
Non è un’impresa impossibile, se si individuano bene le origini del problema. La congestione del traffico dipende da una serie di cause. La prima, è l’errata distribuzione delle funzioni nella città. Se, per esempio, i luoghi dove i cittadini vanno a lavorare sono tutti da una parte (le zone industriali, i centri direzionali), e i luoghi dove i cittadini abitano sono da un’altra parte (le zone residenziali), e se magari tra le une e le altre c’è la strada statale, la ferrovia, il centro storico[6], le relazioni si allungano e si concentrano lungo pochi assi che inevitabilmente diventano congestionati.
La seconda è nella coincidenza degli orari di apertura e chiusura delle fabbriche e dei servizi: tutti escono da casa, e vi rientrano, alle stesse ore (tra le 7 e le 8, le 12 e le 13, le 14 e le 15, le 18 e le 19), questo provoca le infernali “ore di punta”, che non ci sarebbero se gli orari fossero articolati diversamente. La terza ragione è che, nonostante i meritori sforzi di un certo numero di amministrazioni comunali, la grande maggioranza degli spostamenti avviene ancor oggi, in Italia, mediante il mezzo di trasporto più costoso, ingombrante e inquinante che sia stato inventato: l’automobile.
Ecco allora che cosa è necessario. In primo luogo, una buona politica urbanistica, che restituisca alle varie parti della città quell’intreccio e vicinanza di funzioni che le ha caratterizzate nei momenti più felici della loro storia. Poi una intelligente politica dei tempi della città che distribuisca maggiormente i viaggi nel corso della giornata. Infine (ma è un aspetto decisivo) una nuova organizzazione del sistema dei trasporti che consenta di spostare quote importanti dal trasporto individuale su gomma (automobile) ai modi collettivi (autobus, e soprattutto tram, metropolitana e ferrovia) ed a quelli in assoluto più sostenibili: i piedi e la bicicletta.
Tuttavia, così radicate sono le abitudini, così forti gli interessi, che non è facile sostituire alla prevalenza del trasporto individuale una efficace ed efficiente rete di trasporti collettivi. Ma è una strada che è indispensabile percorrere, se non si vuole che le città arrivino alla paralisi.
La seconda questione urgente e concretamente affrontabile oggi, è quella che definisco come la costruzione, nella città e nel territorio, di un "sistema delle qualità". Spiego subito che cosa intendo. Ciò che propongo è di rovesciare il modo di considerare la città. Propongo di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi dedicati alla ricreazione e alla ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al consumo comune (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).
Propongo di costruire un "sistema" costituito dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali (le aree e gli elementi a prevalente connotazione naturalistica, il centro antico e le altre testimonianze ed emergenze storiche, le attrezzature e gli altri luoghi destinati alla fruizione sociale), collegandole fra loro sia - dove possibile - attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale alberato protetto) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.
Abbiamo detto che “la città è la casa della società”. Ma in che modo la società partecipa alla costruzione della sua casa? In che modo, insomma, i cittadini esprimono la loro volontà sulle esigenze, la priorità dei problemi, le soluzioni definite nei piano urbanistici? La questione è indubbiamente centrale e, a tutt’oggi, non risolta. Oggi, infatti, la legge prevede soltanto che il cittadino abbia la possibilità di esprimere il suo parere sul piano con una “osservazione”, nella quale può proporre soluzioni alternative su singole scelte del piano già “adottato” (cioè già fatto proprio dal consiglio comunale, sebbene non ancora definitivamente approvato). I limiti di questa impostazione fanno sì che generalmente le uniche osservazioni presentate sono quelle di proprietari che vogliono valorizzare il proprio terreno o il proprio edificio. Si fanno avanti, cioè quasi soltanto gli interessi individuali delle categorie più forti (i proprietari di terreni, appunto).
Varie strade sono state seguite per ottenere una “partecipazione dal basso”, e un intervento della cittadinanza già dalle fasi iniziali della formazione delle scelte. Ma, generalmente, con scarso successo. Il problema non è affatto semplice. Per comprenderne la portata, riflettiamo ancora sul significato di alcune parole.
In primo luogo, sulla parola “urbanistica”. L’urbanistica, in definitiva, è quella pratica di governo (quell’insieme di regole, strumenti e procedimenti) mediante la quale una comunità insediata in una parte del territorio regola le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio. Rientra quindi in quel complesso di compiti che costituisce il governo della società. Detto in altre parole, l’urbanistica è una parte della politica[7].
E che cos’è la “politica”? La politica è l’arte, la scienza, la tecnica del governo di una comunità. In un regime democratico parlamentare (quale quello nel quale fortunatamente viviamo) la politica è espressione dei cittadini, i quali, attraverso le elezioni, scelgono i loro rappresentanti e li delegano a governare per loro conto.
Chiediamoci allora il significato di una terza parola: “partecipazione”. Mi sembra che per “partecipazione” possiamo intendere “il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata”[8].
Chiarito così il significato di alcuni termini, è allora facile comprendere che le difficoltà della partecipazione nel campo dell’urbanistica sono il simmetrico (o forse il riflesso) delle difficoltà della partecipazione nel campo della politica. Non c’è allora da meravigliarsi se è così difficile coinvolgere ampiamente i cittadini di un quartiere o un comune o una provincia a discutere, fin dal principio della sua formazione, su un piano urbanistico o territoriale che riguardi il territorio nel quale vivono. Non c’è da meravigliarsi se le uniche voci che si fanno sentire sono quelle dei grossi proprietari di aree o edifici, oppure quelle della protesta di chi ha qualche ragione (giusta o sbagliata che sia) per opporsi a questa o quell’altra scelta del piano. Non c’è da meravigliarsi se spesso la partecipazione, quand’anche si manifesti, si riduce alla pratica della comunicazione “dall’alto” (da chi fa il piano), volta a conquistare un consenso abbastanza passivo.
Non c’è da meravigliarsi, ma c’è da lavorare, e molto, per sollecitare e aiutare le cittadine e i cittadini, gli abitanti della città, a partecipare alla progettazione del futuro del luogo dove vivono. Non limitandosi ad ascoltare passivamente il racconto del piano, pronunciato dai suoi autori, ma intervenendo attivamente fin dalle fasi iniziali: quella dell’individuazione degli obiettivi, dei problemi, della scelta tra le diverse soluzioni possibili. E proseguendo poi - con la consapevolezza, costanza e pazienza necessarie - fino alle fasi conclusive della traduzione in opere delle scelte definite, e della verifica degli effetti che esse comportano, sulla città e sulla comunità che vi ha stabilito la sua casa.
Edoardo Salzano
4 maggio 2002
Cerco qui di spiegare alcune parole che, nel testo che precede, vengono adoperate in modo non sempre conforme all’uso corrente. Spesso si tratta di termini che normalmente vengono impiegati come equivalenti (sinonimi), ma che invece, nel contesto, hanno significati diversi, che vanno perciò distinti.
A questo proposito è opportuno chiarire subito la differenza che c’è tra i termini distinguere e separare. Spiego facilmente ai miei studenti questa importante differenza facendoli riflettere sul fatto che per distinguere la testa dal corpo basta l’osservazione, o magari un manuale di anatomia, mentre per separarla è necessaria la ghigliottina.
Non inserisco i termini che nel testo ho cercato di spiegare in modo sufficiente, come ad esempio “urbanistica”, “pianificazione”, “piano regolatore”, “sviluppo”, “crescita”, “sostenibile”.
Ambiente, territorio, paesaggio sono termini usati spesso come se fossero equivalenti. È utile invece distinguerli, poiché si riferiscono ad aspetti differenti della medesima realtà.
In ecologia l’ ambiente è, secondo Di Fidio, “l’insieme dei fattori abiotici (fisici e chimici) e biotici (animali e vegetali) in cui vivono i diversi organismi ed in particolare l’uomo. Ma con riferimento specifico alla società umana l’ambiente ha assunto un significato più ampio: esso è tutto ciò che riguarda l’uomo, lo può influenzare e, viceversa, può esserne influenzato”. Nel testo ho attribuito al termine ambiente un significato più restrittivo, che comprenda tutte le entità naturali ed artificiali che circondano l’uomo, ma non le relazioni sociali ed economiche.
Per territorio si intende invece una porzione di ambiente delimitata da un confine. Sovente si tratta di un confine amministrativo a cui corrisponde, in genere, un ente definito, appunto, territoriale. Secondo P. Bevilacqua il territorio è la “natura degli storici: vale a dire l’ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso”.
Il termine paesaggio esprime la forma del territorio, il suo aspetto esterno, fisico . Esso è stato definito e interpretato a partire da considerazioni prevalentemente estetiche, oppure di tipo geografico, riferite ad una serie di variabili più estesa di quelle percepibili visivamente, come il clima, la morfologia, l’idrologia e la vegetazione, per arrivare ad abbracciare nuovamente il rapporto fra l’ambiente naturale e l’azione dell’uomo. Così, ad esempio, per E.Sereni è “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale”.
Beni e merci sono termini che si riferiscono ai medesimi oggetti. Si tratta di punti di vista diversi. Se considero, ad esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne ritraggo, allora quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto parlarne come merce. Il bene è destinato a essere usato, la merce ad essere scambiata. In relazione a questa distinzione gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti come beni o come merci.
Naturalmente, ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, sono certamente beni, ma non sono merci.
In Occidente lo sviluppo delle città (e delle strutture elementari che la costituiscono: le case) non ha conosciuto grandissime trasformazioni fino all’epoca dello sviluppo dell’industria e del sistema capitalistico-borghese. Nel periodo compreso tra il XVIII e il XIX secolo (con differenze legate alle differenti regioni e aree) vi è stata invece una trasformazione radicale, che il testo sinteticamente illustra. Si chiama generalmente centro storico la parte della città precedente a tali trasformazioni: quella, cioè, dove sono ancora oggi riconoscibili le regole che sono rimaste pressoché immutate per secoli: regole espresse dalle dimensioni delle strade, dalla regolarità degli allineamenti stradali e delle strutture degli edifici normali, dalla presenza di spazi destinati agli incontri e alle funzioni comuni (le piazze), dalla maestosa centralità degli edifici rappresentativi della comunità.
Nel linguaggio corrente si tende a confondere privato con individuale , e comune (o collettivo) con pubblico. In realtà sono termini tra i quali è bene distinguere. Parlo di comune e individuale quando mi riferisco all’uso, parlo invece di privato e pubblico quando mi riferisco alla proprietà e alla gestione,
Così, per esempio, un servizio di trasporti collettivi, autobus o treni, può essere organizzato o gestito da un soggetto pubblico (il comune, o la provincia, o un’azienda appartenente a enti pubblici), ma può anche esserlo da un soggetto privato. E un mezzo di trasporto individuale, come ad esempio la bicicletta, può essere messo a disposizione dei cittadini da un soggetto pubblico, come avviene in molte città europee.
Ognuno di noi ha dei vicini, delle persone che incontra con maggior frequenza: parenti e amici, ma anche persone con le quali magari non scambi una parola, ma che sai chi sono (come loro sanno di te), perché gli incontri spesso al bar, e al mercato, e in piazza, e a scuola. Ci sono luoghi (il villaggio, il quartiere, la piccola città) dove questi rapporti di conoscenza sono molto intensi: dove moltissime sono, tra le persone che incontri, quelle di cui sai vita e miracoli. E ci sono invece posti (i grandi e affollati quartieri delle metropoli) dove, per il gran numero di persone, la scarsità dei luoghi e delle occasioni d’incontro, la frequenza dei cambiamenti di casa, ognuno è sconosciuto agli altri.
Il controllo sociale esprime la situazione nella quale la conoscenza reciproca è maggiore, ed è quindi, in qualche modo, il contrario dell’anonimato. Ma nel controllo sociale non c’è solo l’aspetto della conoscenza e della potenziale solidarietà, dell’aiuto reciproco, c’è anche quello del pettegolezzo e del conformismo. Come molti altri, è un concetto complesso, dove il bianco e il nero si mescolano.
Crisi significa, letteralmente, “rottura” (dal greco). Il termine esprime quindi un momento nel quale le cose cambiano, i valori, le abitudini, i rapporti che fino allora erano (o sembravano) stabili e consolidati, non contano più. Un momento drammatico, perciò, aperto all’incertezza. Ma è anche il momento nel quale, dalla rottura del vecchio, si prepara il nuovo: è il rinnovamento, ancora incerto nei suoi lineamenti. Nella storia (del mondo e delle persone) è nella crisi che la libertà di scelta è massima, e il futuro dipende da noi.
Si chiama generalmente legge urbanistica una legge che definisca i principi e le regole secondo le quali si governano le trasformazioni urbane. È la legge urbanistica che stabilisce quali sono i diritti dei proprietari e quelli della collettività, come e dove si edifica, come si pianifica e si programma, con quali soggetti, procedimenti, opere. Nei paesi europei le leggi urbanistiche sono state emanate nei primi decenni del secolo scorso. In Italia, la prima legge urbanistica generale è del 1942. Oggi, dal 1970, il potere di fare leggi urbanistiche è delle regioni, nell’ambito dei principi fissati dalla Repubblica.
La pianificazione della città e del territorio si articola in un gran numero di strumenti (piani) che, in Italia, hanno denominazioni diverse da regione a regione. Essi si distinguono di solito secondo il livello territoriale e amministrativo (cioè in riferimento all’ambito territoriale e all’ente pubblico elettivo che è il protagonista della sua formazione): si hanno così piani comunali, provinciali, regionali.
Altre distinzioni rilevanti riguardano il carattere più o meno operativo del piano e il suo specifico contenuto. Per il primo aspetto si distingue la pianificazione generale, che concerne l’insieme del territorio del comune (o della provincia, o della regione), e imprime una disciplina di carattere generale, e la pianificazione attuativa, che riguarda in genere limitate zone nelle quali, a causa delle profonde trasformazioni previste, è necessaria una disciplina più di dettaglio. Per il secondo aspetto si distingue la pianificazione ordinaria (che è quella di cui si parla nel testo) e la pianificazione specialistica, che concerne solo alcuni aspetti particolari del territorio e del suo governo (la difesa del suolo, il paesaggio, il traffico ecc.)
Nell’attività economica si distinguono due momenti principali: la produzione (che è l’attività di formazione di beni nuovi mediante l’impiego di beni esistenti, ivi compresi il lavoro e la cultura del produttore) e il consumo (che è l’impiego dei beni prodotti, o di altri beni esistenti in natura, da parte del produttore o del processo produttivo. Il produttore consuma abiti, cibo, aria e acqua, cultura e altri beni materiali o immateriali, il processo produttivo consuma materie prime naturali, o a loro volta prodotte da un altro processo produttivo, e lavoro.
È opportuno distinguere il consumo, che è destinato al proseguimento del processo produttivo, dalla fruizione, che è invece finalizzata alle esigenze dell’uomo. Riferendoci a una distinzione che abbiamo già esaminato, possiamo dire che si tratta della medesima attività, ma quando parliamo di consumo la riferiamo alla merce (e al valore di scambio), quando parliamo di fruizione ci riferiamo al bene (e al valor d’uso)
Il termine latino res nullius (letteralmente, cosa che non appartiene a nessuno) esprime, nel linguaggio giuridico, la condizione di quei beni che, appunto, non appartengono a nessuno e che, per questa loro condizione, possono essere usati da chiunque senza alcuna preoccupazione.
Si definisce sistema qualcosa che è composto da varie parti, ma nel quale le parti sono organicamente collegate tra loro, anche nel senso che la mancanza di una o più parti rende quel qualcosa incompleto o mal funzionante. Un mucchio di grano non costituisce sistema, una spiga di grano invece si.
Nel linguaggio economico si definisce sovrappiù ciò che resta alla fine del processo produttivo, quando l’insieme dei beni prodotti supera la quantità di beni impiegati, o che è necessario impiegare, per il consumo e per le scorte necessarie per proseguire il processo produttivo. Il sovrappiù può essere destinato a vari usi: può essere consumato, oppure può essere reinvestito nel processo produttivo: in questo caso si parla di accumulazione: questa è dunque (a differenza che nel linguaggio corrente) l’investimento del sovrappiù nel processo produttivo, di cui comporta perciò l’allargamento.
Quando parliamo di traffico ci riferiamo ai mezzi (automobili, vagoni, biciclette, navi, fluidi) che percorrono linee (strade, canali, binari, fiumi, condotti). Quando parliamo di mobilità ci riferiamo invece all’esigenza (spostarsi o spostare, accedere) che provoca il traffico.
Distinguere traffico e mobilità è quindi molto importante non solo concettualmente, ma anche ai fini pratici. Se parliamo di traffico i problemi che ci poniamo è di renderlo più veloce, o più sicuro, o più scorrevole (questi obiettivi sono spesso contrastanti tra loro). Se parliamo di mobilità ci viene subito in mente che, per risolvere i problemi dell’eccessivo traffico, uno degli strumenti impiegabili è la riduzione della mobilità (con una corrette collocazione delle funzioni sul territorio), o comunque il suo governo (per esempio, con una programmazione dei tempi: orari degli uffici, delle scuole, dell’apertura dei negozi ecc.).
Gli argomenti che ho trattato nel testo, e molti altri ad essi connessi, sono stati sviluppati in modo più ampio in: Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica
Ha vinto la ragione. La pressione dei cittadini veneziani e del Comune, l'appello dell'opinione pubblica internazionale e della cultura europea e mondiale, il solenne monito del Parlamento europeo, hanno infine prevalso. Il Parlamento della Repubblica è riuscito a far sentire la sua voce e il suo peso. E il Governo dopo aver dato l'impressione di non saper far altro che giocare allo scaricabarile, ha avuto un soprassalto di buon senso e di dignità: ha ritirato la candidatura di Venezia per l'Esposizione universale del 2000.
Ricordiamo tutti la vicenda. L'idea di fare a Venezia una Expo era stata lanciata da Gianni De Michelis nell'autunno 1984, alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative. Le reazioni di una parte consistente dell'opinione pubblica veneziana e italiana furono immediate, ma De Michelis avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell'Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell'industria, si assicurò l'appoggio di prestigiosi esponenti della cultura, costruì una solida piattaforma d'intesa con i dorotei veneti fingendo d'allargare l'impatto dell'Expo all'intero Veneto. Con procedure discutibili, una "prenotazione" ufficiale per l'Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), il quale svolse l'istruttoria preliminare.
Sembrava che i giochi fossero fatti. Mentre lavoravano i promotori dell'Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta sarebbe stata una rovina per Venezia. Si accumularono materiali di conoscenza e di analisi che consentirono di comprendere (e di far comprendere) in che modo l'Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle "pietre" della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l'assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi.
Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell'area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto. Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero.
Mentre si apre la nuova legislatura, è forse utile mettere in fila alcuni avvenimenti che si sono susseguiti sul finire di quella consegnata agli archivi. Avvenimenti che non hanno trovato una eco adeguata non solo perché coperti dal clamore della campagna elettorale e degli eventi che l'hanno preceduta e accompagnata (le picconate, le guerre di mafia, gli scandali, le censure), ma anche perché, da qualche tempo, le norma che riguardano il governo della città e del territorio sono sempre più spesso dissimulate nelle pieghe di provvedimenti che riguardano tutt'altra materia.
Da qualche tempo ogni legge, che formalmente riguardi l'edilizia sovvenzionata o il potenziamento delle forze di polizia, la gestione economica del patrimonio pubblico o la proroga di termini amministrativi, introduce qualche nuova rottura nell'ordinamento urbanistico. Così, copertamente ed opacamente,
con buona pace della "trasparenza" di cui tutti predicano l'assoluta indispensabilità, si stanno cambiando radicalmente le regole del gioco e si stanno travolgendo, fuori d'ogni esplicito e dichiarato disegno, il sistema di garanzie e l'equilibrio dei poteri costituzionali.
Sforziamoci allora, correndo il rischio d'esser definiti "dietrologi", di comprendere meglio qual'é il disegno che l'ultima fase della X legislatura ha espresso e che, per qualche segno,
l'XI minaccia di proseguire e consolidare. E partiamo da una legge di cui ci siamo già in queste note occupati, la Botta-Ferrarini: la n.50 del 1992, concernente le "norme per l'edilizia residenziale pubblica".
Programmi integrati d'intervento...
Questa legge introduce, come è noto, un nuovo e ambiguo strumento urbanistico: il "Programma integrato di intervento". Uno strumento di cui non è definito il contenuto tecnico (per esempio, la scala in cui è disegnato, seppure vi siano dei disegni), ma che ha l'efficacia di una concessione edilizia. Uno strumento che innesca operazioni di grande trasformazione urbana (è caratterizzato "da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana"), ma è preferibilmente d'iniziativa privata. Uno strumento che è svincolato alla subordinazione al programma pluriennale d'attuazione, come se fosse una qualsiasi istrutturazione edilizia, e può essere in variante al Prg, ma è ammesso con priorità ai finanziamenti regionali ed è assistito dal contributo dello Stato.
I Programmi integrati d'intervento, se sono in variante al Prg, devono essere approvati dal Consiglio comunale e dalla Regione (ma per quest'ultima vale il silenzio-assenso). Ma se, insieme alla Botta-Ferrarini, leggiamo il decreto concernente "trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali e alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica", scopriamo un risvolto che per taluni e' certamente interessante.
...e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico
Il decreto sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, convertito in legge nelle ultime settimane di vita del Parlamento, dispone che i "programmi di alienazione, gestione e valorizzazione dei beni immobili" che il demanio statale intende dismettere, oppure valorizzare economicamente, sono approvati con una "conferenza a cui partecipano tutti i rappresentanti delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici comunque tenuti ad adottare atti d'intesa, nonché a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta previsti da leggi statali e regionali".
A chi è affidata l'individuazione dei beni in tal modo "suscettibili di gestione economica"? Forse ad un'attenta ricognizione svolta dall'Amministrazione del demanio e dagli enti locali interessati? No: a "consorzi di banche ed altri operatori economici o società, specializzati nel settore". E l'approvazione di siffatti programmi da parte della "conferenza" comporta "variazione anche integrativa agli strumenti urbanistici ed ai piani territoriali": la presenza del Sindaco alla Conferenza decisionista sostituisce l' istruttoria tecnica, il dibattito nel consiglio comunale, i pareri di merito, la decisione della Regione e cosi'via.
Non c'è bisogno della palla di vetro per sapere che i maggiori immobiliaristi stanno preparando programmi e progetti per utilizzare la grande occasione fornita dal "congiunto disposto" dei due provvedimenti cui ci siamo riferiti. E' facile valutare l'appetibilità, ad esempio, di un Programma integrato d'intervento ex lege Botta-Ferrarini applicato alle aree delle ex Caserme di Prati a Roma, o all'Arsenale di Venezia, o alle numerosissime caserme dismesse o dismettibili collocate nelle aree strategiche (non più in termini militari!) delle cento città italiane. Oltre ai vantaggi e agli snellimenti della legge suddetta, gli immobiliaristi promotori di una tale operazione potrebbe beneficiare anche della deroga a ogni previsione degli strumenti di pianificazione, e alla stesse approvazione da parte degli organi consiliari dei comuni.
Intervengono anche le forze di polizia?
Lette nel quadro delineato dai due provvedimenti suddetti, suscita inquietanti perplessità anche un'altra norma che con l'urbanistica sembrerebbe aver poco a che fare: ci riferiamo al decreto, anch'esso convertito in legge al tramonto della X legislatura, recante "disposizioni urgenti per il potenziamento delle forze di polizia". Si tratta di un decreto-legge (n.9 del 1992) che apparentemente finanzia e disciplina interventi di adeguamento e potenziamento delle infrastrutture necessarie per lo svolgimento dei compiti istituzionali della polizia.
La dilagante criminalità rende indubbiamente necessario rafforzare i dispositivi di sicurezza e di vigilanza sul territorio: caserme e casermette, centrali d'ascolto, banche dati protette e così via.
Ma se questo è l'obiettivo che ci si propone di perseguire con urgenza, non si comprende allora perché la legge destini il 30 % del finanziamento a interventi, da operare da parte dei cosiddetti "investitori istituzionali" (enti e società previdenziali, assicurativi ecc.), per l'acquisto di fabbricati e di aree edificabili destinati a essere in un primo momento ceduti in locazione alle forze di polizia, e poi ad essere venduti, presumibilmente al migliore offerente, salvo il diritto di prelazione da parte dell'amministrazione pubblica.
Se si tratta di costruire bunker e caserme, non si comprende l'interesse di eventuali acquirenti. Se invece, come è più probabile, l'intenzione è quella di costruire alloggi, magari in parte destinati alle famiglie dei carabinieri, poliziotti, finanzieri e vigili del fuoco, non si comprende perché i relativi programmi siano svincolati da ogni controllo di comuni e regioni come "opere destinate alla difesa dello Stato". A meno che non si tratti di adoperare anche l'emergenza criminale per agevolare operazioni immobiliaristiche, che con quell'emergenza hanno poco a che fare.
"Picconate" anche le regioni
Non solo per i Programmi integrati d'intervento della Botta-Ferrarini vale, in caso di ritardo della Regione, la regola del silenzio-assenso. Con una norma surrettiziamente introdotta in un provvedimento dall'anodino titolo "Differimento di termini previsti da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti" (decreto legge 1 marzo 1992, n.195) si dà un deciso colpo di piccone alla competenza costituzionale delle regioni in materia urbanistica.
Quella norma prescrive infatti che, se entro 180 giorni (non si sa a partire da quale termine) la regione non ha approvato un piano regolatore generale, questo si intende perentoriamente approvato. Se si pensa che il tempo medio di approvazione di uno strumento urbanistico è di 7 anni nel Lazio ed è divenuto di 180 giorni in Emilia-Romagna (dove la cultura e la prassi della pianificazione sono radicate da decenni, e l'efficienza dell'amministrazione pubblica non è un mito) solo negli ultimissimi anni, ci si rende conto che questa norma, se potrebbe forse produrre effetti negativi modesti nelle regioni più evolute (dove il territorio è già garantito) produrrebbe invece effetti devastanti proprio là dove il territorio, e quindi le prospettive di uno sviluppo civile, sono già più compromessi.
E chi può pensare, del resto, che il piano regolatore di città come Roma o Milano, Torino e Firenze, Palermo o Napoli, Genova o Venezia, possa essere esaminato e valutato in modo ragionevolmente approfondito nel giro di sei mesi? Oppure che non vi sia una esigenza di coerenza nell'assetto territoriale regionale, per cui "non importa" che la verifica regionale avvenga?
Che la cultura urbanistica, che la consapevolezza delle esigenze del territorio e dell'ambiente, siano ospiti poco accetti nella aule del Parlamento, si poteva pensarlo da qualche tempo. Che la Costituzione venga calpestata come se fosse una logora moquette è invece il frutto velenoso degli anni più recenti.
Quando la sinistra rincorre la destra
La trasformazione delle aree strategiche, e la gestione "economica" del patrimonio immobiliare dello Stato, sono sempre più sottratti alla verifica di coerenza complessiva (alla pianificazione territoriale e urbana) e sempre più affidati alle centrali del capitale finanziario. Ma che cosa succede sul versante del patrimonio abitativo pubblico consolidato.
Con la legge 412 del 1991 il governo, e la maggioranza parlamentare, hanno decretato la svendita degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai loro inquilini. Un atto di vera "modernità", e coerente con le fervide dichiarazioni di europeismo!
E' noto infatti che in Italia il patrimonio residenziale pubblico non tocca il 5 % del totale, e rappresenta meno di un quinto del patrimonio in locazione, mentre nel resto dell'Europa (o dovremo dire, più semplicemente, in Europa?) lo stock pubblico supera sempre il 15 % del totale, ed è tra metà e i tre quarti del patrimonio in locazione. E' noto che in Italia la percentuale di case in proprietà è la più alta d'Europa, che il divario tra offerta e domanda di abitazioni in locazione è tale da penalizzare soprattutto le categorie più dinamiche (in primo luogo i giovani). Ed è noto che tutti i lavoratori hanno pagato e continuano a pagare la possibilità, per alcune migliaia di "fortunati", di fruire degli alloggi pubblici.
Nonostante tutto questo, e nonostante le proteste che da ogni parte sono state sollevate contro la smobilitazione del patrimonio residenziale pubblico, governo e maggioranza sono andati avanti: la legge, come si è detto, è stata approvata. Come abbiamo scritto in un editoriale dello scorso numero, "l'im provvida miopia dei governanti e l'opaca distrazione dei legislatori" hanno posto in liquidazione il meglio del secolo della mutua solidarietà sociale.
Ma non è finita qui. Si poteva pensare che la sinistra si preparasse, nel nuovo Parlamento, a dare battaglia perché si facesse marcia indietro rispetto alle tendenze e tentazioni francamente reazionarie che quella legge manifestava. Invece no. Due autorevolissimi esponenti del Pds hanno presentato, nel pieno della campagna elettorale, un disegno di legge che, anziché contrastare la svendita del patrimonio pubblico, tende ad agevolarlo introducendo sconti consistenti a favore degli inquilini. Questi, tanto per fare un esempio, potrebbero pagare un alloggio di 100 mq, in una città di medie dimensioni, 66-98 milioni, invece degli attuali 100-150. E alla fine dei conti, per ogni quattro alloggi venduti se ne potrebbe realizzare uno scarso.
Un bel terno al lotto per quei fortunati che hanno acquistato il biglietto vincente. Una ulteriore beffa per quei lavoratori che continuano a versare i contributi. E una ulteriore, pesante mortificazione per chiunque ritenga che le attuali condizioni della società italiana rendono necessario un rilancio della presenza pubblica nel mercato dell'edilizia residenziale.