Dalla fine degli anni Sessanta Edoardo Salzano ha incarnato e praticato l’urbanistica in tutte le sue forme: come intellettuale, professionista, politico, amministratore e professore. Napoletano d’origine, consigliere a Roma, assessore a Venezia dal 1975 all’85, preside allo IUAV, autore di moltissimi libri e piani, l’ultima sua creatura è il sito Eddyburg.it, un sito frequentatissimo di urbanistica e molto altro.
Perché ritieni che quello dell'urbanista sia un mestiere?
Dire che è un “mestiere”, e non un’”arte” o una “scienza”, significa mettere in evidenza l’aspetto dell’utilità dell’urbanistica. Quello che mi interessa sottolineare è che urbanistica ha senso se è qualcosa che serve. Chi fa quel mestiere non è – non deve essere – interessato a esprimere se stesso, o a proclamare verità assolute: deve contribuire a costruire una società più equa. Poi, naturalmente, l’urbanistica ha anche la sua verità, la sua componente di scienza e arte, legata alla comprensione della città e del territorio e dei modi di governare le sue trasformazioni.
Perché oggi si chiede agli architetti più che agli urbanisti di pronunciarsi sulla città?
Perché l’ideologia dominante è schiacciata sul presente e non riesce ad avere una visione d’insieme: e allora è più semplice rivolgersi all’architettura, che realizza degli oggetti singoli in tempi relativamente brevi, che all’urbanistica, che si occupa della città come sistema di elementi, in cui il tutto è più importante delle sue parti, e che soprattutto richiede tempi lunghi. Ma se una volta il sindaco era espressione di un partito che aveva un progetto di società, di cui la città doveva essere un’espressione coerente, oggi invece è dominato dall’ansia di essere riconfermato alle elezioni. Il tempo del suo “fare” è due o tre anni, i risultati deve vederli subito. Allora una torre o un ponte o un palazzo che “buca lo schermo” è più funzionale alla vittoria e anche alla competizione tra città: il mio grattacielo è più lungo del tuo, la mia città è più importante, più turisti più investitori più clienti la affolleranno.
Tu hai sempre considerato l'urbanistica indissociabile dalla politica, mentre si diffonde sempre di più un'idea della disciplina come una tecnica "neutrale". Quanto è credibile questa idea?
L’urbanistica è indissociabile dalla politica perché è indissociabile dalla società. La politica è l’arte, o la scienza (o il mestiere) del governo della società. In qualche modo si può dire (Leonardo Benevolo lo dice) che l’urbanistica è una parte della politica. Io dico che ne è uno strumento tecnico. Dire questo significa anche dire che l’urbanistica è non neutrale, ma partigiana. L’urbanistica può essere di destra o di sinistra, può aiutare la politica ad accentuare le differenze di classe, o a privilegiare una classe su un’altra. L’urbanistica, come la politica, può anteporre l’interesse della maggioranza a quello dei pochi, o viceversa.
L’urbanistica moderna nasce all’inizio del XIX secolo, quando si comprende che il mercato risolve un sacco di problemi ma ne genera altri, che la spontaneità delle forze in gioco non sa risolvere e anzi peggiora. Da qui l’urbanistica come visione d’insieme delle trasformazioni del territorio, come attenzione a quello che nel territorio c’è e non si vede se non con uno sguardo esperto: anzi, con l’aiuto di più discipline. Perché l’urbanistica è anche questo: il prodotto della collaborazione di molte discipline. Senza il sociologo e il geologo, lo storico e l’economista, senza il giurista e l’architetto, l’urbanista è cieco e monco.
Quali sono state le battaglie più importanti della tua vita? le rifaresti?
Non contano le singole battaglie. Le fai non perché le scegli, ma perché ti trovi in quel luogo, sai quelle cose, vedi quello che sta succedendo e ti sembra giusto o ingiusto, ti sembra che vada favorito od ostacolato e lo fai. Mi sono trovato a essere consigliere comunale d’opposizione a Roma mentre stavano per attuare una previsione del piano regolatore che mi sembrava folle, costruire 5000 ville nella foresta di Capocotta; con Piero Della Seta riuscimmo a bloccare quello scempio. Mi sono trovato nel comitato scientifico per il piano paesaggistico regionale della Sardegna, ho aiutato il presidente Renato Soru e i suoi uffici a fare un piano che tutelasse il grande patrimonio mondiale della costa, in parte deturpata da realizzazioni e progetti nefasti, e sono contento del risultato. Adesso sto cercando di aiutarli a difendere una straordinaria ricchezza unica al mondo, la grande necropoli fenicia di Tuvixeddu, a Cagliari, che dissennate scelte del passato sacrificano alla costruzione di 400000 metri cubi di palazzoni: è una questione che dovrebbe interessare tutto il mondo, e che invece sembra interamente gettata sulle spalle di Soru e dei sardi che hanno buonsenso.
Ti sembra che la situazione italiana conservi ancora una specificità rispetto all'Europa o al resto del mondo?
Una specificità negativa. In Italia gli interessi che cospirano contro la città sono diventati negli ultimi decenni più forti che altrove. Mi riferisco soprattutto a una forza e a una debolezza. La forza negativa è nel peso straordinario che ha in Italia la rendita fondiaria, e la connessa speculazione urbanistica. Negli altri paesi europei la rendita urbana viene “tosata”, se ne impiega parti più o meno consistenti per finanziare l’attrezzatura del territorio e i servizi urbani, e in ogni caso non è così onnipotente sulle decisioni che riguardano lo sviluppo della città. La debolezza negativa è quella dell’amministrazione pubblica, ora debole, screditata, mal pagata, sempre meno autorevole e quindi inefficace a difendere il bene comune dal prevalere degli interessi individuali.
Sembra che in questo momento storico l'attenzione delle persone comuni nei confronti della città e della sua organizzazione sia interamente assorbita dal problema della sicurezza, mentre tutto il resto passa in secondo piano. Quali sono le ragioni di questo indebolimento?
La politica non ha saputo affrontare decentemente i problemi nati dalla globalizzazione, in primo luogo l’accoglienza di tutti i migranti che arrivano perché sono strettamente necessari alla sopravvivenza della nostra economia. Invece di moltiplicare i luoghi e le occasioni d’incontro, si è gonfiata artificialmente la sensazione di insicurezza. Le piazze e gli altri spazi pubblici sono stati sostituiti dagli outlet, dai mall, dai centri commerciali, luoghi finalizzati a racchiudere persone capaci di spendere: clienti, non cittadini. E nella città è aumentata la segregazione. Sempre più forte la zonizzazione sociale: qui i poveri, lì i ricchi, racchiusi nei cancelli virtuali o – sempre più spesso – concreti. Vogliamo stupirci se cresce il potenziale di ribellione? L’uomo sopporta l’ingiustizia sociale fino a un certo punto, poi, se è sano, esplode.
Come ti è venuto in mente di mettere in piedi un sito come eddyburg?
La consapevolezza che da soli non si combina niente, che un primo passo per lavorare con gli altri è condividere. Considero eddyburg un po’ come l’espansione del lavoro che ho fatto come docente e come pubblicista: divulgare senza troppa presunzione, consapevole della mia verità ma disposto a discuterla con gli altri. È stato un successo che ha condizionato moltissimo la mia vita: dedico gran parte della giornata a selezionare e inserire nel sito le decine di suggerimenti che mi arrivano ogni giorno da amici e collaboratori, ma anche da persone che non conosco affatto. Mi sento responsabile verso questi lettori sempre più numerosi.
La Sardegna ha seguito il percorso virtuoso suggerito dalla vicenda della Legge Galasso. Prima un vincolo indiscriminato e geometrico su tutta la costa, per 2.000 metri, bloccando così circa 70 milioni di metri cubi di lottizzazioni turistiche previste nei piani comunali. Poi, in tempi strettissimi, discussione e approvazione di un piano paesaggistico regionale su 27 ambiti di paesaggio che comprendono nel loro insieme il 15% del territorio regionale. Fra un paio di mesi si aprirà la discussione sul completamento del piano, e otterrà una disciplina ispirata alla tutela del paesaggio tutto il territorio della Sardegna.
Dal vincolo temporaneo e di salvaguardia indiscriminata, al piano: anzi, alla pianificazione. Una pianificazione che tutela le qualità del territorio individuando con la massima precisione possibile a quella scala tutti i beni meritevoli d’essere protetti, definendo per ciascuna delle categorie in cui sono “tipizzati” le regole che le trasformazioni e gli usi devono rispettare. Una pianificazione che analizza le relazioni e connessioni tra i beni (le dune e le falesie, le foreste e i corsi d’acqua, i lasciti della storia e le forme che la geomorfologia ha disegnato, le specificità della geografia vegetale e le dinamiche dell’ecologia) e di questi con gli interventi, creativi o distruttivi, che l’uomo ha operato nel corso dei secoli. Una pianificazione che distingue le prescrizioni immediate, ossia le regole che l’esigenza di tutelare fin da subito beni d’interesse generale impone alla Regione, e gli indirizzi e le direttive che le comunità locali, con la pianificazione urbanistica, dovranno sviluppare nei diversi “ambiti di paesaggio” dove le differenti fisionomie del paesaggio diventano la testimonianza e l’espressione delle diverse identità dei territori e dei popoli.
Quali sono le premesse da cui si è partiti? Le aveva riassunte, con l’efficacia delle parole semplici e immediate, il presidente della Regione (ha sempre rifiutato di essere chiamato “governatore”) Renato Soru, nell’insediare, nel maggio 2005, il Comitato scientifico che ha affiancato l’Ufficio regionale che ha elaborato il piano.
Con il piano, ha detto Soru, “innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano”. Conservare quello che è bello e ha valore, per il valore intrinseco che ha, e non per quello meramente economico che i proprietari potrebbero ottenerne trasformandolo in merce, degradandolo e rendendolo irriconoscibile: “quella valorizzazione non ci interessa”.
Valore per tutta l’umanità, e valore perché esprime l’identità del popolo sardo: “Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola”.
Soru arriva al governo e alla politica partendo dall’economia e dall’impresa: la dimensione economica non gli sfugge; ma a lui e alla sua maggioranza non sfugge neppure la dimensione economica della ricchezza paesaggistica dell’Isola. Anzi. Se “non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale”, siamo interessati invece “a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo”. Un paesaggio che vogliamo difendere per due ragioni: sia perché pensiamo che sia necessario in se, “ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico”. La Sardegna, giustamente e con un’ottica capace di guardare al futuro, non vuole competere “con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre”.
Il piano paesaggistico è un programma d’azione di lunga durata, che si proietta nel futuro. Lo indicano con chiarezza la critica delle tendenze degli ultimi decenni, e le proposte alternative. Nel passato, “abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano; abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo resi fantasmi i villaggi vivi”. Nel futuro, innanzitutto “non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene”, poi “ripuliamo e correggiamo quello che non va bene”. Liberate dalla lottizzazioni degradanti l’ampia fascia costiera, determinata con criteri scientifici e non più meramente geometrici, proponiamoci di far rinascere i paesi e le aree dell’interno.
Spazi interessanti possono aprirsi così alle attività legate al territorio e alla sua trasformazione: dalla manutenzione del paesaggio dove merita di essere conservato, alla sua trasformazione dov’è degradato. Invece dei “villaggi fantasmi”, avviare con i piani comunali una vasta azione per riabilitare e risanare e completare i vecchi paesi all’interno e dietro la fascia costiera. Impiegare le risorse del territorio con saggezza e lungimiranza può produrre un ciclo virtuoso dell’economia, alternativo al ciclo “usa e getta”.
Una domanda mi è tornata alla mente, leggendo le pagine di Sandro Roggio, ripercorrendo con lui la vicenda del Piano paesaggistico regionale e, prima ancora, riflettendo sull’acuta analisi del turismo “industria pesante” e dei suoi effetti in Sardegna. Una domanda che mi si era già affacciata, sia leggendo gli antichi articoli di Antonio Cederna su Arzachena e la Costa Smeralda, sulla Sardegna “isola di cemento” e su “l’Aga Khan del cemento”, sia quando - nelle sale nelle quali decine di tecnici stavano redigendo il Piano paesaggistico - vedevo scorrere le immagini delle innumerevoli macchie rosacee (le famigerate “zone F”, gli insediamenti turistici contenuti nei piani regolatori comunali) che impestavano le coste della Sardegna. Come sarà mai possibile sconfiggere interessi così corposi e vasti, rovesciare abitudini così consolidate, affermare verità così forti ma così controcorrente come quelle che Renato Soru testardamente proclama e rende concrete con coerenti atti di governo?
Mi venivano in mente tentativi analoghi, speranze in altri tempi sollevate da interventi di amici e compagni sardi, conosciuti e ascoltati in riunioni di partito o di associazioni culturali: Gianni Mura, in una riunione del PCI a Palermo, nella quale si affrontavano quanti, in quel partito, erano tolleranti nei confronti dell’abusivismo e quanti si battevano per sconfiggerlo; e Luigi Cogodi, approdato a responsabilità di governo regionale mentre stendevamo a Roma e a Cagliari una prima valutazione della “Legge Galasso”, e Cogodi combatteva con nuova energia episodi di degradazione del bene comune delle coste dell’Isola. Nel succedersi conseguente degli atti legislativi e amministrativi del Presidente della Sardegna vedevo quei tentativi e quelle speranze diventar concrete: segni, durevolmente espressi nel territorio, di una nuova storia.
A quella storia sono stato poi chiamato a partecipare, come membro del Comitato scientifico incaricato di suggerire soluzioni culturali e tecniche ai progettisti del piano. Non conoscevo Soru, m’incuriosiva la determinazione che rivelava nei pochi incontri che ebbe con il comitato. Registrai le parole che pronunciò quanto aprì i nostri lavori, le pubblicai nel mio sito, eddyburg.it. Ne riporto gran parte, anche perché rimangano in un testo cartaceo:
“Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale.
”Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che va fatto, ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre”.
Quando si esprimeva con queste parole il suo viso rivelava una volontà cocciuta, le cui radici affondavano in esperienze lontane. “Presidente – gli domandai – quali sono le sue radici culturali, quali letture e quali persone hanno contribuito a formare le sue convinzioni?” Mi rispose che era nato in un piccolo paese dell’interno dell’Isola, e che tra le sue letture preferite c’erano le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Credo che senza quella volontà cocciuta, senza quella determinazione che veniva da antiche solitudini, non sarebbe stato capace di condurre all’attuale punto di approdo la vicenda che Sandro Roggio racconta. Un punto di approdo che non è definitivo, ma che segna un punto di svolta dal quale nessuno potrà prescindere nei prossimi anni. Né in Sardegna, né nel continente. Un punto d’approdo scandaloso. Costituisce infatti la testimonianza che, almeno in una parte dell’Italia, si è stati capaci di ribaltare il primato della merce sul bene, del valore di scambio sul valor d’uso, di sconfiggere lo sfruttamento miope del paesaggio mediante “valorizzazioni” cementizie che lo degradano e sostituirlo con decisioni e azioni che tendono alla messa in valore delle qualità costruite dalla natura e dalla storia.
Se si può farlo in Sardegna, si può farlo anche altrove. Anche altrove si può affermare, nei fatti, che la Regione assume in pieno il compito che la Costituzione affida all’intera Repubblica di tutelare il paesaggio. Anche altrove si possono utilizzare gli strumenti forniti dalle leggi degli ultimi decenni (dal decreto Galasso del 1985 fino all’ultima stesure del Codice del paesaggio) per affermare la priorità della tutela del bene comune del paesaggio su ogni sua trasformazione per le necessità dell’oggi. E’ questa, del resto, la verità profonda dello “sviluppo sostenibile”; un termine (sostenibile appunto) che in Italia tende a essere interpretato come sopportabile”, mentre nel resto del mondo è tradotto con durevole, e quindi indica in modo non equivoco la volontà di trasmettere alle generazioni future valori e qualità non inferiori a quelli che abbiamo a nostra volta ereditato.
L’azione di Soru non è priva di ombre e di errori, che Roggio non nasconde. E’ probabilmente un errore (e forse non è l’unico) il fatto che gli spazi e i patrimoni delle antiche testimonianze minerarie siano disponibili alla cessione in proprietà a operatori privati. Un errore non comprendere che il sacrosanto obiettivo di dare risposte positive al turismo dopo aver decretato la fine delle “seconde case”, di puntare sul recupero del patrimonio edilizio esistente dopo aver proibito l’ulteriore urbanizzazione della fascia costiera, può essere raggiunto anche concedendo agli utilizzatori il diritto di superficie di beni pubblici, anziché la loro proprietà. E che, come ha scritto Arnaldo (Bibo) Cecchini su eddyburg.it, “l’impronta del turismo di lusso è enorme e fetida” mentre una regione all’avanguardia può proporsi di promuovere e sperimentare forme innovative, socialmente aperte e consapevoli, di turismo diverso da quello allevato nel villaggi della Costa Smeralda.
Roggio afferma anche che ci sarà qualche ragione se “si è fatto strada il sospetto che il Ppr sia l’esito della visione illuminata di un uomo solo”, e aggiunge che:
“Si sa, è la democrazia, senza scorciatoie, che rende più difficile la pianificazione. Se è audacemente partecipata produce esiti mirabilmente imperfetti. Ma può valere la pena di rinunciare agli esiti perfetti: esponendo i progetti alla ricerca del consenso attraverso le pratiche faticose della mediazione, in quella selva di fantasie e di diritti che sono propri di una società molto complessa”.
Sono interrogativi che anch’io mi sono posto e mi pongo. Anch’io avrei preferito che il punto d’arrivo si fosse raggiunto mediante un’ampia partecipazione popolare, attraverso il consenso convinto di un arco vasto di forze politiche, consolidando e non impoverendo il gruppo dirigente che con Soru ha condiviso l’avvio della nuova Sardegna. Ma non so rispondere a due domande.
La prima: la relativa solitudine di Soru non è forse l’altra faccia di quella cocciuta determinazione che è stata decisiva nel raggiungere quel risultato, di sconfiggere i cementificatori delle coste sarde? Mi hanno sempre detto che, se si prende una medaglia, bisogna accettarne entrambe le facce.
La seconda: i processi di partecipazione che riescano ad attivare il consenso consapevole delle cittadine e dei cittadini (e non solo dei grandi e piccoli proprietari immobiliari e altri operatori della rendita) richiedono altissime professionalità e, soprattutto, percorsi di maturazione molto lunghi. Siamo certi che allungare di molto i tempi dell’approdo avrebbe consentito di salvare qualcosa dei territori coperte da quelle orribili macchie rossastre, le “zone F”, dei piani urbanistici comunali?
Del resto, ciò che si è visto nell’ampia discussione che sul PPR adottato vi è stata (con una disponibilità dei materiali che raramente si è registrata) rivela scenari scoraggianti. Se è vero che la maggior parte della discussione “politica” è stata sulle deroghe alla prosecuzione delle lottizzazioni turistiche, consentite dall’articolo 15 delle norme tecniche. Se è vero che si è contestata l’illegittimità di una modifica, già richiesta sul piano culturale dal Comitato scientifico, imposta sul piano della legge dal nuovo Codice del paesaggio. Se è vero che la richiesta di autonomia, invocata da ogni parte, mirava a scalzare un preciso dettato costituzionale (i beni paesaggistici non sono disponibili per una sola delle articolazioni della Repubblica), rendendo arbitri esclusivi quei comuni che hanno promosso, favorito o – nel migliore dei casi e salvo eccezioni – osservato in complice silenzio la distruzione delle coste più belle.
Se la politica territoriale di Renato Soru ha un torto è quella di essere tardiva; ma non è a lui che se ne può far colpa. Anzi, occorre dargli atto che è stato ben consigliato quando, delle due vie consentite dalle leggi vigenti, ha scelto quelle del piano paesaggistico rispetto a quella del piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”. Certo che la seconda via sarebbe stata preferibile in un territorio già saldo nelle sue regole e nelle prassi dominanti: un territorio in cui la salvaguardia delle risorse culturali e ambientali fosse stata pratica comune, in cui la mercificazione del bene comune fosse sentita come un’eresia. Ma è questa la Sardegna, è questa l’Italia dei nostri anni? Non mi risulta.
Voglio precisare: non sono tra quelli che ha consigliato l’Amministrazione di preferire un piano orientato alla tutela del paesaggio a un piano più compiutamente territoriale e urbanistico. Anzi, delle due formule è la seconda che mi sembra in generale preferibile. Ma alla condizione di formare, preliminarmente, una salvaguardia a tempo indeterminato dei beni paesaggistici individuati, o anche soltanto presunti. Il principio di precauzione deve essere adoperato soprattutto quando governiamo un bene che appartiene alle generazioni future, e della cui utilizzazione dobbiamo render conto all’umanità intera. E il primo atto di ogni pianificazione (questa è una verità che sembrava condivisa dalla cultura urbanistica fin dai tempi del decreto Galasso) è quello di procedere alla preliminare ricognizione e tutela delle risorse culturali e ambientali.
Nel presente clima e nel presente assetto giuridico è difficile che una salvaguardia a tempo indeterminato – o di portata sufficientemente ampia – possa essere tentata con speranze di successo. Se si voleva impedire la prosecuzione a tappeto di ciò che è già avvenuto in una parte del territorio sardo, la strada del piano centrato sulla tutela del paesaggio era obbligata. Il risultato che il PPR ha felicemente raggiunto è stato possibile anche in ragione della scelta di partenza sulla “forma” di piano.
Certo, i giochi non sono conclusi. Quelli che una volta si chiamavano “gli speculatori” stanno continuando a giocare le loro carte e ad adoperare i loro molteplici strumenti. Non mi preoccupano i ricorsi amministrativi nè quelli costituzionali. Mi preoccuperebbe invece se la perdita del senso delle proporzioni impedisse di attribuire il ruolo giusto al nucleo dell’impresa che Renato Soru e i suoi collaboratori hanno, per ora, vittoriosamente portato a un suo significativo approdo, ma che deve essere protetta, e prolungata nelle politiche urbanistiche comunali e in quelle più compiutamente territoriali, sociali ed economiche della Regione. Il rischio maggiore che vedo nell’immediato è che le critiche su punti non fondamentali appannino, e mettano in pericolo, il significato profondo, innovativo e controcorrente, della “nuova storia” della Sardegna.
Nel 2000 la Regione Sardegna, il Comune di Cagliari e gli uffici dei Beni culturali fecero un clamoroso errore. Con un “accordo di programma” decisero di smembrare il sistema collinare che conteneva la più grande necropoli punico-fenicia e romana del Mediterraneo (cioè del mondo intero, e di edificarvi ulteriori 400mila metricubi di costruzioni. Nel frattempo un dissennato piano regolatore consentiva di costruire giganteschi palazzoni al piede e sulle prime pendici del colle, tagliando la storica visuale verso i luoghi del primo insediamento della città e demolendo 431 tombe puniche, fenicie e romane. Una piccola parte dell’area (22 ettari) era stata assoggettata dalla sovrintendenza nel 1996 al vincolo archeologico. Un successivo vincolo paesaggistico su tutto il colle era stato violato dalla stessa regione, che aveva dato il nulla osta paesaggistico agli interventi previsti dal nefasto “accordo di programma”.
Complici oggettivi del misfatto: il comune, la regione, la sovrintendenza ai beni culturali. Egemone e vincitore: un costruttore, proprietario dell’area. Il grimaldello: la perequazione, questa turpe invenzione dell’urbanistica mercificata. Vittima: una preziosa area archeologica, unica al mondo. Modalità del crimine: la divisione della necropoli in tre parti, una riempita da palazzi, una seconda coperta da un giardinetto alla Milano 2, una terza ceduta dai proprietari, bontà loro, alla pubblica amministrazione.
Cambia la maggioranza regionale: nasce la giunta presieduta da Renato Soru. Ma nel frattempo gli interessi dei costruttori si tramutano in progetti, che ottengono le prescritte autorizzazioni. Il silenzio è rotto da una provvida iniziativa: Italia nostra organizza un convegno, invita il presidente della Regione che va a visitare il luogo, ne comprende l’importanza e avvia un nuovo procedimento di vincolo. Mentre il Piano paesaggistico regionale riconosce l’intera area (corrispondente a circa … ettari) come meritevole di particolare tutela, Soru insedia una commissione invitandola a riprendere in esame il prezioso patrimonio e a individuare le modalità più opportune per assicurarne la conservazione e la contemplazione. La commissione opera, conclude i suoi lavori, specifica – in un’ampia relazione – le ragioni della tutela e le caratteristiche dei provvedimenti da assumere. Questi ovviamente comportano la revoca unilaterale dell’accordo di programma, consentito dalla legge che disciplina questo istitutose sussistono regioni d’interesse pubblico. Ma i costruttori, e i loro complici, naturalmente non si arrendono. Ricorrono alle giustizia amministrativa. Questa invalida, poche settimane or sono, le conclusioni della Regione per alcuni errori procedurali.
Tripudio dei costruttori. Angoscia e trepidazione da parte di chiunque conosca il complesso di Tuvixeddu-Tuvumannu e ne comprenda il valore. In Sardegna si è sollevato un vasto movimento di protesta contro la decisione di invalidare il vincolo. La Regione ha deciso di utilizzare ogni strumento disponibile per riproporre il vincolo e salvaguardare l’inestimabile patrimonio.
Chi scrive è stato cittadino romano. Ricorda quando un lungimirante ministro, Giacomo Mancini, con un atto di autorità impose la tutela del comprensorio dell’Appia Antica: un patrimonio dello stesso ordine di grandezza di quello di Tuvixeddu. Quella necropoli, quella collina, quel paesaggio non sono un patrimonio che appartenga solo alla Sardegna: è un patrimonio dell’Italia, dell’Europa, del Mondo. Non può essere abbandonato alle sole difese della Regione e degli abitanti. Per questo eddyburg.it e il manifesto sardo hanno lanciato un appello, e invitano tutti ad aderire.
Stanno distruggendo tutto. Dai valori fondanti del nostro Stato al ruolo del lavoro, dai bilanci delle famiglie alla solidarietà. Operano modificando il modo in cui le persone pensano, giudicano, valutano, scelgono, e le abitudine quotidiane, ciò che si compra, si mangia, si indossa, si guarda. Non ci sarebbe nulla di male, se distruggessero ciò che non serve più. Invece no. Stanno distruggendo tutto quello che conta, tutto quello che è stato costruito in un faticoso processo di sviluppo: quello vero, quello che migliora le persone e il loro modo di vivere con gli altri, di essere e di sentirsi uguali e ugualmente degni di rispetto, non quello consistente nel’aumento della produzione di merci utili, inutili o dannose.
Stiamo parlando dei nuovi barbari, quelli che sono rappresentati e conquistati da Silvio Berlusconi. Ma in realtà dovremmo parlare, più che di Berlusconi, del “berlusconismo”: quella ideologia che pervade larghissimo parte dello schieramento politico, che nacque con le “modernizzazioni” di Bettino Craxi e con l’insofferenza delle regole comuni, che ha la sua cornice mondiale in ciò che Oltralpe e Oltreoceano si chiama “neoliberalismo”. È un’ideologia che ha il suo centro nella affermazione più piena, sfrenata, “libera” dell’individuo, il cui metro di misura è costituito unicamente dalla ricchezza e dal potere che è in grado di accumulare, quali che siano i mezzi impiegati. L’unico strumento valido per misurare le cose (tutte le cose, dalle merci ai sentimenti) è il mercato; l’unica dimensione della vita sociale che conti è quella economica (e dell’economia data, dell’economia capitalistico-borghese).
Molti hanno compreso e denunciano numerosi aspetti di questa ideologia, e delle pratiche sociali che ne conseguono: nella sinistra “radicale”, nei gruppi intellettuali e sociali che criticano la globalizzazione neoliberista, in parti consistenti del mondo dell’ambientalismo e di quello cattolico. Molto scarsa è invece la consapevolezza del danno enorme che i barbari stanno apportando nel campo dell’organizzazione dell’habitat dell’uomo: nella città e nel territorio.
Qui, nella città e nel territorio la devastazione che sta avvenendo è immane. E che il grosso dell’opinione pubblica (a partire dai politici) non se ne accorga rende il danno ancora più preoccupante. Riflettiamo su alcuni aspetti di ciò che sta avvenendo.
Gli spazi pubblici
Gli spazi e gli edifici destinati alla vita e alle funzioni sociali (dalle piazze alle scuole, dai parchi agli ospedali) sono spazi pubblici per definizione, e aperti alla pubblica fruizione: tali sono stati da quando la città esiste (la nostra città, la città europea, la città come luogo del municipio e della libertà, dell’autogoverno e della cittadinanza). Il loro peso nella città è cresciuto, nella storia, man mano che si sono sviluppate le funzioni legate alla solidarietà, alla diffusione della cultura, alla cura della salute, agli impieghi del tempo libero. Sono stati una componente di rilevo del welfare state. In Italia la loro conquista è stato il risultato di una lunga lotta del movimento delle donne, del sindacato dei lavoratori, della cultura progressista, dei partiti della sinistra. Si era ottenuto che nei piani urbanistici venissero riservati a queste necessità aree di dimensioni adeguate, da acquisire alla proprietà pubblica e alla pubblica gestione (gli standard urbanistici, con una legge del 1967). Si era ottenuto poi che ogni intervento edilizio dovesse destinare una quota del maggior valore ottenuto dai proprietari alla realizzazione delle previsioni pubbliche dei piani (gli oneri di urbanizzazione, con una legge del 1977).
Oggi è in marcia la loro demolizione, adoperando tre strumenti. (1) La riduzione delle risorse destinate alla loro acquisizione, realizzazione, gestione: quegli “oneri di urbanizzazione” che erano destinati a ciò sono utilizzati dai comuni per coprire i loro deficit di bilancio, per pagare stipendi e altre spese correnti. (2) La progressiva privatizzazione degli spazi pubblici: il percorso era stato avviato trasformando le piazze in parcheggi, prosegue oggi sollecitando i comuni a “valorizzare” le proprietà pubbliche (venderle o trasformarle in utilizzazioni commerciali), e proponendo di utilizzare le aree vincolate a spazi pubblici per realizzarvi edilizia residenziale solo provvisoriamente “sociale”, poi utilizzabile dagli immobiliaristi più o meno “furbetti”. (3) l’abolizione dell’obbligo di rispettare gli standard urbanistici, prevista da una legge bloccata in extremis nella scorsa legislatura e ripresentata in quella attuale, ma già anticipata in alcune regioni.
Il diritto alla casa a un prezzo equo
La rivendicazione popolare della “casa come servizio sociale” era stata tradotta, negli anni Settanta, in una strategia che prevedeva la programmazione decennale dell’intervento pubblico nel settore (con l’edilizia pubblica per i ceti meno abbienti e quella privata convenzionata e agevolata, l’una e l’altra su aree parzialmente depurate degli incrementi della rendita fondiaria) e il controllo dei prezzi del mercato edilizio esterno all’area dell’intervento pubblico (l’equo canone), Tutto ciò è stato smantellato. Non solo: fedeli al principio di utilizzare anche la povertà per arricchire i già ricchi, prevedono di finanziare interventi immobiliari privati, agevolati dal contributo pubblico, con il solo vincolo di affittare le case a prezzi contenuti ai meno abbienti.
Tutto ciò costituisce la sostanza della politica aggressiva della destra al potere. Ma è stato avviato per più d’un aspetto nella politica del centrosinistra, ogni volta che si è dimenticato che il mercato, se è utile per misurare il valore delle merci, non serve né a comprendere né a governare qualcosa che merce non è: come la città e il territorio. La speranza di arrestare la privatizzazione dell’habitat dell’uomo è affidata soprattutto alla resistenza di chi ha compreso ciò che sta accadendo, e sa unirsi agli altri per difendere ciò che fa della città un bene comune: a partire dagli spazi pubblici.
Ha ragione Salvatore Settis a criticare i governi (e soprattutto quello attuale) per la loro disattenzione ai problemi della tutela dei beni culturali e del paesaggio, nei confronti dei quali tutte le istituzioni della Repubblica - e quindi in primo luogo lo Stato - hanno rilevanti responsabilità costituzionali. E ha ragione a criticare, in particolare, il decreto legge 112/2008, che il Parlamento dovrà convertire fra poco. E si deve essere lieti che la stampa, grazie al contrasto tra Settis e gli uomini di Bondi, abbia dato rilievo alla sua critica. Preoccupa però il silenzio non solo dei media, ma anche della politica d'opposizione nei confronti di altri pesantissimi guasti provocati dalla linea di governo cui quel decreto dà le gambe. In particolare, dalle scelte di politica urbanistica che ne emergono. Due sono i binari sui quali corre il treno del berlusconismo urbanistico: libertà di costruire ovunque infrangendo ogni regola, e privatizzazione dei patrimoni pubblici territoriali.
Due obiettivi, due pratiche che costituiscono un dispositivo con pericolosi elementi di trasversalità partitica, testimoniato se non altro dall'indifferenza con la quale le opposizioni guardano a ciò che sta accadendo. Nella XIV legislatura si era riusciti a fermare la Legge Lupi, che privatizzava la pianificazione urbanistica e la consegnava ai promotori immobiliari. Nella XV, grazie ai parlamentari della sinistra e dei Ds si stava approdando a un risultato condiviso e convincente La XVI appare come quella che rende concreti - surrettiziamente - i progetti di sregolazione del territorio e privatizzazione dei beni pubblici teorizzato e avviato in Lombardia e abbracciato dal neoliberalismo all'italiana.
Che prevede in materia il decreto? Quattro articoli almeno incidono pesantemente sul territorio e sui beni comuni. Ne riassumo i contenuti. Il patrimonio di edilizia abitativa degli istituti delle case popolari deve essere venduto a prezzi stracciati: prioritariamente agli attuali inquilini, ma poi sul mercato libero (articolo 13). Comuni, province e regioni sono stimolati a redigere il Piano delle alienazioni immobiliari: per sopperire alle decrescenti risorse concesse dalla fiscalità statale sono sollecitati a vendere suoli ed edifici, modificando le destinazioni d'uso se serve ad accrescerne il valore di mercato: naturalmente, in deroga alla pianificazione urbanistica (articolo 58). Ma le deroghe sono ancora più consistenti per interventi ancora più suscettibili di indurre trasformazioni sull'assetto delle città e dei territori: chi vuole costruire una fabbrica o un albergo - o una pluralità di fabbriche e di alberghi - su una parte del territorio dove la pianificazione urbanistica prevede altre utilizzazioni, e magari la presenza di beni culturali e paesaggistici e le condizioni di rischio prescrivano tutele, può farlo con procedure acceleratissime e senza praticamente la possibilità di interferire nel processo della decisione, sostanzialmente affidata all'autocertificazione (articolo 38). Ulteriori deroghe e ulteriori trasferimenti di risorse dal pubblico al privato promuove il "piano casa": per realizzare edilizia sociale i comuni sono sollecitati a cedere suoli (magari destinati a spazi pubblici o al verde o all'agricoltura) a imprese private che si impegnino a realizzare edilizia residenziale da assegnare a determinate categorie di utenti a prezzi concordati; trascorso un decennio, entreranno in pieno possesso degli immobili realizzati con le aree, le edificabilità e le risorse finanziarie della collettività (articolo 11).
Qual è il significato di queste norme? E' lo stravolgimento di regole, procedure e pratiche che furono avviate nell'ambito dello stato liberale tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, con i primi piani regolatori, gli espropri per pubblica utilità, la realizzazione di edilizia residenziale pubblica, i primi vagiti della tutela de beni culturali e del paesaggio. L'evoluzione proseguì nell'epoca fascista, con l'ampliamento degli interventi di edilizia sociale, le leggi di tutela dei beni artistici e storici e del paesaggio, una più matura disciplina urbanistica. Si sviluppò - conclusa la fase anch'essa per altri versi devastatrice della ricostruzione postbellica - nel nuovo clima della democrazia popolare e di massa con il consolidamento e la generalizzazione della pianificazione urbanistica, un coerente dispositivo di intervento pubblico nell'edilizia abitativa finalizzato a soddisfare in modo differenziato le diverse fasce di esigenze, l'introduzione generalizzata delle tutele tra le componenti prioritarie dell'uso programmato del territorio.
Un'evoluzione che non aveva condotto ancora a un quadro privo di contraddizioni e di carenze. Non era stato risolto il nodo dell'appropriazione privata delle rendite causate dalle scelte e dagli investimenti pubblici. Si erano comunque tenuti fermi, e anzi consolidati, due cardini: il primato delle decisioni e degli interessi pubblici nel governo delle trasformazioni del territorio e nella garanzia, attraverso la pianificazione, di una sua visione sistemica, la presenza e l'allargamento di una quota del patrimonio immobiliare di proprietà collettiva. Sono questi due cardini che la politica urbanistica promossa del governo Berlusconi IV sta precipitosamente smantellando. Esistono nella maggioranza parlamentare e di governo spazi che possano far pensare a correzioni di questa linea? Francamente non se ne vedono. Lo stesso Bondi, cui Settis sembra dare un qualche credito, non ha mancato occasione per rilasciare dichiarazioni da cui emerge che per lui i beni culturali vanno difesi solo perché producono reddito, che il ricorso agli operatori privati è visto come la soluzione d'ogni problema, che il ruolo di presidi territoriali svolto dalla gestione pubblica del patrimonio culturale per lui è del tutto irrilevante, e che alle regole di un'urbanistica volta alla tutela dei beni comuni e alla vivibilità per tutti bisogna preferire, e sostituire, la creatività degli architetti capaci di colpire l'immaginazione con la gestualità dell'oggetto bizzarro.
Come si può reagire a questa deriva? Il clima è pesantissimo. Regioni, province, comuni, cui è affidata la gestione delle norme perverse del decreto, potrebbero limitarne i danni. Ma le prime si battono per strappare allo Stato pezzi di autonomia che poi, in materia di governo del territorio, subdlegano ai comuni o addirittura alle imprese, rinunciando alla pratica politica della pianificazione del territorio. Le province vivacchiano nell'incertezza del loro destino. I comuni sono abbandonati alla contraddizione tra lo strangolamento finanziario e le aspettative della popolazione in materia di welfare, oggettivamente sollecitati a svendere il territorio agli interessi della rendita per ottenere un po' d'ossigeno. Su tutto grava la pesante nuvola di un'ideologia, largamente condivisa, che vede nella crescita del PIL l'unica speranza di salvezza e nel mercato l'unico regolatore di ogni attività sociale.
Se la reazione non comincia dalla politica il malessere popolare assumerà sempre di più le forme dell'antipolitica: per colpa non di chi protesta, ma di chi alle proteste si rivela incapace di rispondere.
Vedi anche l’eddytoriale n. 116
1. Perché la questione del condono edilizio ha aperto contraddizioni così clamorose? Le ragioni sono numerose, e sono state poste in evidenza (ora l'una, ora l'altra) dai molti che di quella contraddizione hanno commentato l'episodio più vistoso: la manifestazione - pacifica nella forma, venata di tensioni e slogan eversivi nella sostanza - dei quarantamila abusivi meridionali. Trascorso qualche giorno, diradatosi il polverone della polemica, è utile approfondire il ragionamento e tentar di rispondere a quell'interrogativo cercando di comprendere se, tra le numerose ragioni che hanno provocato e reso potenzialmente esplosiva quella contraddizione, ve ne sia una che prevalga sulle altre: che indichi perciò anche, per converso, il punto su cui è possibile far leva per risolverla.
Certo, le ragioni individuate esistono tutte: l'assenza, in numerosissimi comuni del Mezzogiorno, di strumenti urbanistici; l'assenza, da troppi anni, di una politica statale dell'abitazione; l'incertezza delle prospettive economiche e quindi la persistenza della concezione della casa come «bene rifugio»;l'atteggiamento di palese disprezzo delle leggi sul territorio dimostrato dalle autorità governative; l'abbandono di ogni tensione sui problemi complessivi dell'assetto del territorio (il regime dei suoli, la riforma urbanistica, la programmazione ecc.); l'oggettivo confluire delle tendenze alla deregulation con le tirate d'orecchio al giacobinismo degli urbanisti»; le interne, pesantissime contraddizioni della legge sull'abusivìsmo (viziate nella radice dall'impostazione fiscalistica), e il fatto che per due anni l'attività del Parlamento in materia di territorio si sia impantanata nella discussione delle mille versioni di tale legge.
La mia impressione è però che queste ragioni, sebbene colgano ciascuna un importante aspetto del problema, non siano di per sé in grado di coglierne il centro, il nucleo essenziale. Non a caso, esse non spiegano una questione che è apparsa come fondamentale: perché il Mezzogiorno? E allora, bisogna provare a scavare più a fondo.
2. Perché è nel Mezzogiorno che la contraddizione tra abusivismo e rispetto della legge è esplosa? Perché è nel Mezzogiorno che la «cultura della pianificazione» si è manifestata più debole, e in larghe zone inesistente? Non credo che una risposta adeguata possa emergere dalla considerazione che le leggi urbanistiche sono costruite avendo quale riferimento le regioni più evolute, e precostituirebbero un «modello» non applicabile ad altre regioni. Chi propone questa tesi, non la argomenta: non spiega perché e in che cosa quelle leggi non sarebbero applicabili nel Mezzogiorno. E così, non mi convince la tesi secondo cui l'arretratezza urbanistica del Mezzogiorno deriverebbe, quasi immediatamente, dal colore politico delle maggioranze colà prevalente: questa tesi non spiega perché al Nord siano frequenti casi di «buongoverno urbanistico» anche in amministrazioni tradizionalmente «bianche», né perché la manifestazione dei 40mila abusivi sia stata guidata, fra gli altri, anche da un sindaco comunista.
C'è una considerazione, che a me sembra centrale, che può forse fornire un inizio di risposta più convincente. Ecco il punto. Il metodo capace di assicurare - nella società moderna - una sintesi trauso corretto della risorsa territorio e soddisfacimento dei bisogni sociali che richiedono, per essere soddisfatti, trasformazioni del territorio, è stato individuato, nelle società dell'Occidente europeo, nella pianificazione. Ma la pianificazione non si riduce alla elaborazione, una tantum, di un piano. Essa è un'attività continua, costante, sistematica di governo delle trasformazioni territoriali. Non è un evento straordinario, è un'attività ordinaria della pubblica amministrazione. Non è un'attività separata dalle altre sfere dell'azione pubblica (il bilancio, gli investimenti, i trasporti, il personale, il patrimonio), ma è componente e regola di tutta l'attività amministrativa: soprattutto a livello degli istituti cui la pianificazione è sostanzialmente affidata, gli enti locali.
Ma se è così (e io non ho dubbi su questo punto) allora è evidente che la pianificazione esige, quale sua condizione di fondo, più ancora che nuove leggi, nuovi strumenti, nuovi finanziamenti, la presenza di una efficace ed efficiente amministrazione pubblica, soprattutto a livello degli enti locali. Ed esige - dappertutto, ma soprattutto là dove questa presenza non c'è, o non è adeguata - un massimo di sforzo, di impegno politico, di tensione culturale volti a far sì che questa presenza vi sia, che questa condizione si realizzi.
3. Ebbene, che cosa si è costruito, dal dopoguerra a oggi, in tutto l'arco temporale della Repubblica, perché nel Mezzogiorno questa condizione vi fosse? Il ritardo è davvero gigantesco, ma è essenziale ed urgente colmarlo. E io credo che è a partire da questo punto che si debbano anche valutare alcune iniziative in atto nel Mezzogiorno: non foss'altro perché il giudizio politico sui fatti (e il segno, la direzione di questo giudizio) è ciò che può esprimere nell'immediato una linea politica, una strategia, più generali.
È nella chiave di questa valutazione, ad esempio, che si deve anche giudicare l'iniziativa per il Ponte sullo Stretto. Che è una iniziativa che va combattuta per molte ragioni; ma in primo luogo perché esprime il proseguire, rafforzato, della tendenza a risolvere il problema del Mezzogiorno in termini di interventi straordinari, di gestioni speciali, di opere faraoniche e prestigiose, anziché d'investimenti, magari eccezionali, nella soluzione di problemi ordinari con strumenti anche essi ordinari.
Ed è nella chiave di questa valutazione, per fare un altro esempio, che si è dato e che si deve consolidare un giudizio positivo sull'intervento straordinario per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto (mentre deve essere negativo, per le ragioni simmetriche il giudizio sulla ricostruzione di Pozzuoli). È infatti evidente scelta di atfidare la ricostrtirionc di Napoli alla struttura ordinaria del Comune e ai poteri del sindaco, l'una e l'altro rafforzati nella loro efficacia e nei loro poteri, facendone un momento dell'attuazione di scelte consolidate della politica urbanistica comunale, come il «piano delle periferie» (mentre per Pozzuoli 1'esautoramento del Comune, l'affidamento delle scelte alla Università di Napoli, la negazione di ogni politica urbanistica sono gli elementi a mio parere più criticabíli).
4. Per concludere questo invito a una riflessione collettiva su ciò che sta dietro la manifestazione dei 40mila, credo in sostanza che il punto su cui far leva, su cui quindi impiegare il massimo di risorse politiche, culturali, sociali, sia quello dell'amrnitnistrazione ordinaria della cosa pubblica, e in particolare del goverrno del territorio. Da questa punto di vista, mi sembra che anche all'interno del partito alcune modifiche sostanziali debbano essere introdotte, alcuni ritardi gravi debbano essere superati.
Ad esempio, non è forse indice di una sottovalutazione grave del problema cui ho accennato il fatto che mai, nei dieci anni in cui abbiamo goveato le maggiori città italiane, non vi sia stata una riunione generale di partito nella quale amministratori e dirigenti abbiano discusso sul complesso dei problemi della pianificazione, del governo del territorio, della «amministrazione dell’urbanistica»?
Sono convinto che limitarsí ad affrontare i problemi dell'emergenza , delle «situazioni calde», degli eventi eccezionali, mentre da una parte indebolisce lo sforzo per realizzare le condizioni per un'azione ordinaria (e perciò continua, sistematica, capace di durare e di crescere), dall'altra cornsolida la convinzione diffusa che i problemi più scottanti possono risolversi soltanto sostituendo, con la soluzione eccezionale e straordinaria, magari con la geniale improvvisazione, quell'azione tenace di costruzione di un'azione pubblica capace di affrontare, e di risolvere, tutti i problemi che volta per volta si pongorno. Problemi che - come il caso dell'abtlsivìsmo nel Mezzogiorno dimostra - il più delle volte sono solo il risultato del lungo accumularsi di ritardi, inadempiernze, inefficacíe, pigrizie, nell'affrontare le questioni ordinarie del governo del territorio e dei bisogni che nel territorio devono essere soddisfatti.
La cosidetta “tassa sul lusso” (ma vedremo che è tutt’altro) mi sembra esemplare per ragioni di politica del territorio, di equità sociale, di sviluppo economico.
Intanto, di che cosa si tratta. È un provvedimento della Regione Autonoma della Sardegna che istituisce tre imposte: la prima è prelevata una tantum sul plusvalore determinatosi nell’atto della compravendita di fabbricati destinati a residenze turistiche (seconde case) nella fascia compresa entro tre chilometri dal mare, e consiste nel prelievo del 20 % della differenza tra il prezzo di vendita dichiarato e quello originario d’acquisto o di costruzione; la seconda è annuale, è applicata agli stessi fabbricati ed è proporzionale alla dimensione delle unità immobiliari (va da un minimo di 900 € per unità fino a 60 mq a un massimo di 3.000 € e oltre per unità oltre i 150 mq); la terza imposta è prelevata una tantum agli aeromobili e alle imbarcazioni da diporto che approdano negli aeroscali e negli approdi dell’Isola nel periodo estivo, ed è anch’essa proporzionale alla dimensione del mezzo.
Le prime due imposte (quelle che riguardano le seconde case non appartenenti a cittadini sardi collocate entro la fascia costiera) sono destinate alla costituzione di un fondo regionale, che sarà impiegato per interventi di manutenzione ambientale, di ricostituzione dei paesaggi degradati e di sviluppo del turismo interno. Il fondo sarà ripartito tra progetti di interesse comunale, provinciale e regionale.
Il provvedimento, sul quale si è aperta una discussione ampia sia nell’Isola che nel Continente, è scaturito da una constatazione molto semplice e, a mio parere, totalmente condivisibile. La Regione ha provvidamente deciso di sottoporre a critica il modello di turismo (e di sviluppo economico) fin qui perseguito, basato sulla privatizzazione delle coste, sul loro sfruttamento edilizio, sull’espansione di un turismo di breve durata, e di promuovere al suo posto un modello (e uno sviluppo) alternativo. Il turismo tradizionale ha provocato, come è noto, il degrado di gran parte delle coste sarde, la distruzione paesaggi millenari di grande bellezza e la loro sostituzione con “villaggi turistici” e distese di seconde case di qualità scadentissima, contribuiendo al formarsi di squilibri territoriale e sociali. È un turismo che consuma la materia prima della quale vive (l’ambiente e il paesaggio della Sardegna, la sua identità) e che produce ricchezza soprattutto all’esterno dell’Isola: là dove hanno il loro domicilio fiscale le società immobiliari che costruiscono, vendono, affittano.
Le parole del presidente Soru che riportiamo nel box [stralci da questo documento] qui accanto illustrano a sufficienza le ragioni della critica e le speranze dell’alternativa. Il progetto delineato da Renato Soru ha tra le sue componenti un turismo caratterizzato da flussi di visitatori che della Sardegna frequentino non solo le coste, ma anche le risorse di cultura e di bellezza dell’interno, che non si presentino solo nel breve periodo delle vacanze estive ma in tutte le stagioni in cui l’Isola è bella e amichevole. Un turismo che trovi le sue attrezzature non nei villaggi turistici recintati e nel pullulare di ville e villette collocate a nastro lungo le coste, ma nei paesi e nei borghi posti al di là della fascia costiera, verso l’interno, i suoi paesaggi, i segni della sua identità. Un turismo che rafforzi perciò i sistemi insediativi esistenti, soggetti a un esodo sempre più pronunciato, e dia nuovo alimento alle economie locali: quelle legate alla produzione agricola e zootecnica, quelle legata all’impiego di tecniche, materiali e tipologie costruttive tradizionali, e quelle infine legate alla comunicazione e diffusione della cultura.
Il Piano paesaggistico regionale della Sardegna, al quale ho avuto l’onore di collaborare come membro del Comitato scientifico che ha dato il suo contributo all’Ufficio del piano, redattore del progetto, costituisce un primo passo: definisce una tutela accurata delle risorse d’interesse nazionale e regionale, disegna i lineamenti di progetti di paesaggio da sviluppare soprattutto da parte degli enti locali. Ma un piano non basta senza risorse.
Salvaguardare i paesaggi rimasti intatti, risanare quelli compromessi e degradati, mantenere il territorio e l’ambiente, richiede progetti e finanziamenti. E richiede progetti e finanziamenti anche lo sforzo di far nascere un turismo alternativo quale quello proposto. Ecco perché le nuove imposte, le quali attingono ai portafogli di chi ha ottenuto dallo sviluppo distorto privilegi negati agli altri, di chi ha contribuito alla distruzione di paesaggi straordinari, di chi vede ancora oggi la sua ricchezza privata accrescersi grazie a scelte pubbliche di politica del territorio e a investimenti di risorse collettive cui non contribuisce in misura significativa.
Le imposte che riguardano le costruzioni nella fascia costiera non colpiscono i profitti d’impresa, né tanto meno salari e stipendi: colpiscono la rendita immobiliare, quella che l’economia classica definisce “la componente parassitaria” del reddito. La ricchezza prodotta e goduta (il reddito) è infatti distinto in tre componenti. Secondo la scuola liberale e liberista, il salario (e lo stipendio, che ne è una forma) compensa il tempo di lavoro impiegato: cioè retribuisce chi spende il proprio sapere e mestiere e la propria attività fisica per produrre. Il profitto è, il compenso per l’attività dell’imprenditore: cioè di chi associa tra loro e organizza i vari fattori della produzione. La rendita è la parte della ricchezza collettiva di cui si appropria chi è pervenuto a possedere un bene che è richiesto da altri ed è disponibile in quantità limitata; è quindi la componente del reddito che premia chi si limita a richiedere una taglia per il fatto che gode della proprietà, ma non contribuisce in alcun modo al processo produttivo.
Nelle economie autenticamente liberali si tende a privilegiare, quale parte della ricchezza da cui prelevare le tasse, la rendita, la “componente parassitaria del reddito”. Il pensiero liberale ha considerato nel trasferimento di risorse dalla rendita alle attività produttive un contributo allo sviluppo di un’economia capitalistica sana. L’economista e politico statunitense Henry George divenne famoso nella seconda metà del XIX secolo per aver proposto un prelievo del 100 % della rendita immobiliare come soluzione per vincere la povertà e dare impulso alla produzione [si veda qui]. Il presidente della Fiat, Gianni Agnelli, sostenne pubblicamente, nel 1972, che “in Italia l'area della rendita si [è] estesa in modo patologico” e che, “poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa”. Questo era, secondo il padrone della maggiore azienda capitalistica italiana, “il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire” [si veda qui]
Non chiamiamo dunque “tassa di lusso” il sistema di imposte decise dalla Regione Autonoma Sardegna. Si tratta di tributi finalizzati alla difesa attiva della maggiore risorsa dell’Isola, patrimonio dei sardi e di tutti gli uomini che vogliono e vorranno goderne senza dissiparlo né rinchiuderla negli steccati delle proprietà esclusive; tributi che sottraggono alla “rendita parassitaria” una quota limitata di un plusvalore che è frutto della collettività e del suo secolare investimento nel paesaggio della Sardegna; tributi che incoraggiano uno sviluppo economico meno distorto di quello preconizzato dai difensori dei grandi poteri immobiliari.
Ogni volta che attraverso l’area fiorentina mi colpisce e amareggia il contrasto tra la bellezza del paesaggio, le cui tracce si intravedono ancora, e la capacità di devastazione delle sempre più consistenti infrastrutture stradali che li hanno degradati. Ogni volta che attraverso Firenze e il suo centro storico mi scoraggia e deprime il contrasto tra la bellezza dell’impianto urbano, della grazia delle architetture, della bellezza (nelle aree centrali) degli originari spazi pubblici e l’invasione oscena delle automobili.
Il modo perverso con il quale sono stati adoperati gli strumenti del governo del territorio (come si è ribattezzata l’urbanistica) è testimoniato nella grande maggioranza delle città e dei territori italiani. Ma in Toscana, e a Firenze, ci turba particolarmente perchè in modo più smaccato contrasta con la bellezza di ciò che c’era prima: con quei paesaggi, urbani e rurali, che l’intelligenza estetica di generazioni succedutesi per secoli aveva saputo costruire.
È dagli albori del XIX secolo che si è compreso che regolare le trasformazioni della città in modo ordinato e consapevole era non solo possibile, ma anche necessario. Si è compreso che lasciare libero il gioco alla spontaneità dei processi economici innestati su regimi patrimoniali privatistici, provocava, nei territori urbanizzati, caos, diseconomie, disagi. È da allora che sono stati formati, e via via perfezionati, strumenti capaci di imprimere le regole di una trasformazione ispirata a obiettivi di carattere generale: obiettivi e strategie mirate a una prospettiva più ampia, a una visione più lungimirante, rispetto alle scelte di convenienza economica dei singoli soggetti che sul territorio agiscono.
Sono nati così gli strumenti della pianificazione urbanistica e poi territoriale. Ma erano, appunto, strumenti: utilizzabili per obiettivi e per strategie differenti, anche alternativi. Quali obiettivi avrebbero potuto essere assunti, e ai quali invece sono state di fatto finalizzate le strategie di trasformazione delle città e dei territori? I problemi odierni della mobilità (sia quella fisica, delle persone e delle merci, sia quella sociale, della convivenza e della permeabilità) ci aiutano a comprenderlo.
“Natura di cose altro non è che nascimento di esse”, scrisse Giovan Battista Vico. E sono convinto che per comprendere l’essenza delle cose occorre riflettere sul modo in cui inizialmente furono formate. Voglio perciò domandarmi come si poneva la questione della mobilità (sia quella fisica, dei corpi e delle cose attraverso lo spazio, sia quella sociale, delle persone attraverso i confini delle età, dei mestieri, dei redditi, delle culture) nelle città che precedettero le grandi trasformazioni dell’epoca del sistema economico-sociale nel quale viviamo.
Prima della grandiosa epoca della rivoluzione borghese – e anzi, nella sua prima fase – le ragioni della mobilità erano risolte dalla stessa natura, dalla scelta del sito, dalla configurazione, dall’organizzazione, dalla forma della città. La città era il luogo stesso dell’incontro. Era il luogo nel quale accorrevano i servi per diventare cittadini, cioè portatori di eguali diritti. Era il luogo deputato alla comunicazione, allo scambio, all’incontro. Raramente la specializzazione delle varie parti della città (quelle utilizzate dagli artigiani, dai mercanti e dai borghesi, dagli agricoltori, dai salariati) comportava la nozione di segregazione: bisogna aspettare il trionfo del capitalismo per vedere nel disegno e nella organizzazione della città i segni visibili della divisione in classi. E comunque c’erano i luoghi destinati egualitariamente ai cittadini in quanto tali: le piazze, e gli spazi pubblici costruiti attorno ad esse.
Le piazze sono il simbolo della città. Non solo ne sono (ne erano) i fuochi, i principali elementi ordinatori, ma esprimevano la natura stessa della città: il suo essere il luogo degli interessi comuni, della comunicazione e dell’incontro, e di quello che oggi chiamiamo “mixitè”. Che cosa sono diventate oggi?
Solo raramente – nei paesi, in qualche città piccola o media oculatamente governata, e nell’incomparabile città storica di Venezia – le piazze sono rimaste quello che erano: i luoghi della socialità. Ancora più raramente nei nuovi quartieri e nelle gigantesche espansioni ad alta o a bassa densità sono state create piazze, o simili luoghi d’incontro. Là dove c’erano e sono state vive le piazze sono state trasformate in grandi depositi di automobili o in incroci di traffico – o l’una e l’altra cosa insieme. Il pedone è quasi un intruso: Al massimo è accettato in qualche spazio incatenato come spettatore di qualche monumento più eccezionale degli altri.
In questi ultimi tempi si sta assistendo a uno scimmiottamento perverso dell’idea della piazza, spacciando come nuove piazze quelli che più propriamente sono stati definiti i “non luoghi”: le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, i grandi centri commerciali. Quei luoghi dovunque anonimi, informi, privi di collegamenti vitali con gli spazi dove le persone abitano e lavorano. Quei “non luoghi” il cui frequentatore non è più il cittadino, ma è il cliente. Quei “non luoghi” i cui caratteri dominanti sono lo shopping (la sollecitazione al consumo di merci quali che siano, generalmente tendenti verso l’inutilità, e sempre caratterizzate da anonimia e fungibilità), la sicurezza (cioè l’esclusione degli altri, dei “diversi”, dei soggetti non dotati di capacità di spesa), la mobilità (spesso si tratta infatti di luoghi correlati all’accesso di vettori di trasporto veloci, quali i treni e gli aeroplani).
Ma di quale mobilità si tratta ai nostri tempi? Ecco un’altra domanda rilevante.
La mobilità fisica non è necessariamente un bene in se. È un bene se viene scelta par ciò che il percorso offre. Ma se muoversi significa unicamente spostarsi da un luogo (quello in cui normalmente si abita) verso un altro luogo (dove si lavora, o si può fruire di un determinato servizio, o incontrare qualcosa o qualcuno), se significa dedicare una parte del proprio tempo a qualcosa che non si è scelto di fare, ma a qualcosa che si è obbligati a fare, allora la mobilità non è un bene.
Oggi molto raramente il percorso che si compie e il vettore che si utilizza, sono di per sé piacevoli, interessanti, tali da meritare di per sé uno spostamento e l’impiego di una porzione del proprio tempo. È bello, ed è un valore, muoversi a piedi o in vaporetto a Venezia, oppure in bicicletta o a piedi lungo l’argine di un fiume, oppure in battello lungo il corso del Nilo. Ma non è piacevole né interessante essere obbligati a prendere l’autobus o la metropolitana o il treno per andare la mattina da dove abito a dove lavoro. Né tanto meno è interessante e piacevole chiudersi nell’auto e, intruppati con mille altre simili, gran parte di quei fiumi di ferraglia che percorrono le strade e le autostrade di cui il nostro paese è sempre più ricco.
Non credo che sia necessario essere un urbanista, o un esperto di mobilità e infrastrutture, per rendersi conto che grandissima parte dei nostri movimenti (del tempo e dell’energia che impieghiamo per accedere a luoghi cui vogliamo accedere) dipendono dal modo in cui i luoghi che sono necessari alla nostra vita sono collocati sul territorio. Man mano che il lavoro diventa “flessibile” e precario, e i prezzi delle case più alti, i luoghi dove si abita sono lontani da quelli che si devono raggiungere per lavorare o per fruire dei servizi essenziali.
E sempre più siamo spinti, dal potere delle compagnie law cost e all inclusive, a raggiungere per il nostro tempo libero luoghi lontani ed esotici: quindi a muoverci, a spostarci chiusi nei grandi vettori aerei consumatori di energia e produttori d’inquinamento.
Ma lo spreco d’energia e la produzione di inquinamento sono poderosamente incrementati, al di là da ogni ragionevole necessità, dal modo stesso nel quale l‘assenza di pianificazione e la cattiva pianificazione, saldate con la cattiva politica dei trasporti, hanno plasmato (meglio, hanno lasciato plasmare al mercato) l’organizzazione del territorio e quella il sistema delle infrastrutture. La logica sempre più applicata nella pianificazione è stata quella di rincorrere gli interessi delle proprietà immobiliari e della loro valorizzazione, non quella di porsi obiettivi d’interesse comune ed esigenze degli strati sociali più deboli: massima valorizzazione delle aree e non massima riduzione della mobilità e del disagio urbano.
La crescita indefinita della città, l’accavallarsi di una periferia sull’altra, la promozione (o la tolleranza) nei confronti dello sprawl urbano e della diffusione dell’edificazione su territori sempre più vasti sono stati i risultati. E mentre da un lato si aumentava in tal modo la domanda di mobilità, si affidava l’offerta pressoché interamente all’automoobile: al vettore più consumatore di spazio e d’energia, e più produttore d’inquinamento, tra tutti quelli disponibili.
Ecco allora manifestarsi, nelle città, quello che definisco il paradosso del traffico: la città, luogo nato e foggiato dalla storia per favorire gli incontri, gli scambi, la convivenza è diventata il luogo dove ciò è divenuto impossibile. Ed ecco il proliferare di strade, autostrade, raccordi, bretelle, tangenziali ecc. ecc. che sempre di più devastano i paesaggi rurali; e che, man mano che aumentano, generano altro traffico, reclamano ulteriori aggiunte bdi nastri di cemento e asfalto, sempre più spesso dotate di muraglia di “mitigazione” dei danni e fiancheggiati da capannoni e capannoncini, cartelloni e vetrini. Sempre più intrusivi e devastatori dei paesaggi attraversati.
”Sono tra quelli che, a partire dell’inizio degli anni Ottanta del XX secolo, hanno cominciato a proporre e sperimentare l’articolazione della pianificazione in due componenti: una componente strutturale, una componente programmatica. Le proposte che in quegli anni proponemmo e sperimentammo[1] acquisirono marcata evidenza pubblica nel Congresso dell’INU del 1995, e ispirarono molte legislazioni regionali successive (a partire da quella toscana e quella ligure del 1995-1997) e la formazione di strumenti di pianificazione particolarmente in Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Veneto.
Oggi si discute (ma in cerchie abbastanza ristrette) sull’efficacia di quella articolazione. Una discussione nella quale si sentono molte voci critiche le quali, a mio parere, si riferiscono più all’applicazione concreta dell’articolazione che al suo significato. In questa note vorrei domandarmi se quella articolazione abbia ancora oggi un senso oppure no: se sia sbagliato, o comunque criticabile, il principio in se, il metodo che esso suggerisce, oppure se ne sia stata sbagliata l’applicazione; e se quindi quel principio e quel metodo siano ancora validi, e meritino perciò d’essere riproposti e, dove possibile, praticati.
Esporrò con una certa ampiezza le intenzioni dell’articolazione della pianificazione in due componenti citando i successivi approfondimenti cui ho partecipato, poi esaminerò molto brevemente alcuni aspetti della sua applicazione. E avverto subito il lettore che queste note non hanno un carattere sistematico ed esprimono e illustrano il portato e le opinioni desunte da esperienze personali. Sarebbe a mio parere estremamente utile se in qualche sede si svolgesse una ricerca seria, oggettiva, raccogliendo, raccontando e confrontando riflessioni ed esperienze dei numerosi urbanisti che sulla stessa linea si sono mossi, negli ultimi decenni. Così come sarebbe estremamente utile se le regioni che hanno avviato, ormai da molti anni, l’esperienza dell’articolazione del piano in più componenti promuovessero un serio bilancio critico dell’applicazione delle loro leggi urbanistiche.
LE INTENZIONI E LE PRIME ESPERIENZE
Due esigenze
Cominciammo a ragionare (con Edgarda Feletti e Luigi Scano) sull’articolazione della pianificazione (anzi, allora del “piano”) quando nel 1981 avviammo la redazione di un nuovo PRG per la città storica di Venezia. Proseguimmo il ragionamento,e la sperimentazione, soprattutto con Luigi Scano, in numerose occasioni successive, sia nell’attività culturale e professionale e in quella politica e legislativa, sia nell’ambito dell’INU (di cui sono stato il presidente dal 1983 al 1990). Ciò che inizialmente volevamo risolvere era la contraddizione tra due esigenze, che minava l’efficacia della pianificazione tradizionale.
Da una parte, il fatto che la definizione delle scelte territoriali richiedeva, soprattutto nella fase di prima impostazione, un lavoro di analisi della struttura fisica e di quella sociale del territorio di notevole impegno e durata, e che le scelte strategiche sulle prospettive della città richiedevano – una volta definite – la loro permanenza per un tempo lungo trattandosi di decisioni che richiedevano operazioni complesse e lunghe per essere tradotte in concrete trasformazioni della realtà. Del resto, le scelte derivanti da quelle analisi consistevano soprattutto nelle tutele degli elementi di qualità del territorio e nella definizione della strategia che si configurava per quel determinato territorio(città o ambito d’area vista che fosse. In entrambi i casi, scelte che dovevano avere una certa fermezza e costanza nel tempo, quindi dovevano dettare regole di carattere permanente, o almeno di lungo periodo.
Dall’altro lato, la necessità di poter modificare nel tempo scelte legate ad eventi non prevedibili, o di per sé tali da mutare in tempi medio-brevi: le caratteristiche della popolazione, le trasformazioni nell’assetto delle convenienze sociali ed economiche di utilizzazione degli spazi, i differenti orientamenti politici (e i differenti interessi sociali) prevalenti nelle istituzioni elettive. Si trattava di scelta che non era ragionevole ancorare a tempi indefiniti né lunghi, come non era ragionevole prescrivere procedure complesse per modificarle: purché, ovviamente, fossero coerenti e conformi alle decisioni strutturali e strategiche preliminarmente definite.
Il conflitto tra queste due esigenze diveniva più marcato negli anni in cui le trasformazioni sociali ed economiche subivano vistose accelerazioni, e la pianificazione tradizionale sembrava incapace di assicurare la flessibilità necessaria alle decisioni sul territorio. La pianificazione appariva dominata dalla rigidezza, dalla difficoltà di seguire in tempi ragionevoli il modificarsi delle esigenze e delle opportunità. L’unica risposta era quella di estendere all’inverosimile pa pratica delle varianti al piano parziali, episodiche, discrezionali: una risposta che, inseguendo la flessibilità e tentando di soddisfarla, provocava la perdita di ogni coerenza al sistema territoriale.
Per soddisfare entrambe le esigenze cominciammo a ragionare sulla possibilità di articolare le scelte della pianificazione in due componenti: l’una, contenente le scelte strutturali (in riferimento particolare alla struttura fisica del territorio, urbano ed extraurbano) e quelle strategiche (non fruttuosamente modificabili nel breve periodo); l’altra contenente le scelte, coerenti e compatibili con quelle strutturali e strategiche, concernente le trasformazioni da programmare e operare nel breve periodo, che si convenne coincidere con il mandato amministrativo.
Il piano del centro storico di Venezia
Il primo tentativo al quale partecipai fu in occasione della redazione del nuovo PRG per la città storica di Venezia, avviato nel 1981[2]. L’analisi tipologica strutturale delle unità edilizia (e delle altre unità di spazio) della città storica ci aveva condotto a individuare e definire, per ciascun tipo edilizio, due elementi: le trasformazioni fisiche consentite (che andavano generalmente nella direzione del ripristino degli elementi della tipologia storica originaria) e la gamma (generalmente molto larga) delle utilizzazioni compatibili con quel tipo: cioè tali da non stravolgerne l’assetto fisico e funzionale. Inoltre il piano perimetrava le parti della città in cui si potevano e dovevano effettuare operazioni più consistenti, fino alla ristrutturazione urbanistica; per questa parti il piano stabiliva le caratteristiche fisica e funzionali da rispettare nella formazione dei piani urbanistici attuativi.
Questa scelte dovevano avere carattere di permanenza nel tempo. In occasione di ogni mandato amministrativo si doveva invece decidere che cosa concretamente rendere esecutivo nel periodo successivo: quali destinazioni d’uso erano ammesse nelle diverse tipologie strutturali, naturalmente nella gamma di quelle compatibili; quali specifiche trasformazioni rendere obbligatorie nel periodo considerato; quali piani attuativi formare.
Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali, delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità degli operatori, il Consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna, ove necessario, la parte "fissa" del piano), rielabora integralmente la parte "programmatica" del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell'ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d'uso che devono, o possono essere attivate nel periodo successivo. E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti.
Lungo periodo e breve periodo
Esposi un primo tentativo di generalizzare l’esperienza di Venezia a un convegno organizzato dalla Provincia di Bologna nel 1984, al quale mi invitò l’amico Giorgio Trebbi.
Nella mia relazione, proponendo i requisiti di una nuova pianificazione, sostenevo che il piano “deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse sono certamente disponibili”. Sostenevo di conseguenza che il piano “deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più certo esplica la propria efficacia”, e che esso deve, di conseguenza, “essere contemporaneamente aggiornabile nella sua parte invariabile, o di lungo periodo, e programmabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva”[3].
Dal piano alla pianificazione;
il ruolo delle strutture pubbliche della pianificazione
L’articolazione del piano in due componenti era fin d’allora parte di una convinzione che riguardava l’intero ambito della pianificazione territoriale e urbana: quella che, in un saggio per La Rivista Trimestrale di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, definii come il passaggio dell’urbanistica dal piano alla pianificazione[4].
In quella sede, anche in riferimento alla polemica allora in corso tra i sostenitori del “piano” e quelli del “progetto”, sostenevo che era ormai insufficiente “l'immagine di uno strumento, costruito come la definizione del desiderabile assetto di una determinata parte del territorio, concluso e statico”, uno strumento “che, una volta delineato, verrà poi successivamente attuato mediante una separata attività di gestione e, nei casi migliori, di programmazione dei modi nei quali sviluppare nel tempo la sua attuazione.
Occorreva spostare “l'accento dallo strumento del ‘piano’ all'attività di ‘pianificazione’ significa non concepire e praticare più l'uso dei tre momenti tradizionali del ‘piano’ (ossia del disegno dell'assetto desiderato), del ‘programma’ (ossia della scelta, all'interno dell'universo delle opportunità definite del ‘piano’, di quelle da realizzare in una fase determinata), e della ’gestione’ (ossia dell'attuazione concreta, attraverso ‘progetti’ esecutivi, degli interventi previsti dal ‘programma’) come tre operazioni separate e successive, ma concepire invece, e praticare, i tre momenti suddetti come momenti logici di un'attività (la ‘pianificazione’, appunto) che si svolge con una stretta e continua interazione tra l'uno e l'altro momento”.
Una condizione essenziale perché si potesse compiere il passaggio “dal piano alla pianificazione” e perché quest’ultima potesse essere organizzata in modo nuovo (in particolare procedendo con continuità in un’attività sistematica di programmazione, esecuzione, monitoraggio delle scelte operative conseguenti dalle condizioni e dalle strategia dettate dalla componente strutturale della pianificazione, era costituita dalla presenza di adeguate strutture pubbliche specificamente adibite all’attività di pianificazione.
Lo avevamo già avvertito nell’esperienza veneziana, come sottolineavo nell’illustrazione del piano del centro storico, dove sottolineavo che l’impostazione proposta richiedeva, “per il suo pieno esplicarsi - una condizione irrinunciabile: una struttura di pianificazione e gestione comunale solida, efficiente, autorevole, e dotata degli attrezzi necessari per operare con continuità, sistematicità ed efficacia”.
Lo ribadivo nel saggio de La Rivista Trimestrale, dove ricordavo che “é da decenni che la migliore cultura urbanistica sostiene che la possibilità di esercitare un effettivo ed efficace governo del territorio ha il suo passaggio obbligato nella formazione di strutture pubbliche di pianificazione” e osservavo che “questo problema, mai risolto in modo compiuto, è oggi più urgente che mai proprio per le novità che sono intervenute”.
L’esperienza dell’INU prima della “svolta”
Ero presidente dell’INU quando (1988-89) avviammo la preparazione del XIX congresso nazionale. Proposi di lavorare per un congresso a tesi, al fine di consentire alle varie posizioni che venivano a manifestarsi nell’ampio gruppo dirigente dell’Istituto di esprimersi nel modo esplicito. La discussione fu ampia e, a mio parere, proficua. Non si riuscì, se non parzialmente, a giungere all’esplicitazione chiara di ipotesi alternative su cui votare all’Assemblea dei soci, coinvolgendo tutta la base associativa in una discussione che mi sembrava fondamentale. Si approdò invece a un documento unitario, approvato a maggioranza[5].
Al congresso, che si svolse a Milano dal 27 al 29 settembre 1990, presentai nella loro formulazione originaria le proposizioni che avevo avanzato nel corso dei lavori preparatori. Si trattava di due gruppi di tesi, che riguardavano argomenti nodali: l’efficacia del sistema di pianificazione e il rapporto tra pubblico e privato. Su quest’ultimo punto rendevo esplicita e argomentata con episodi concreti la critica alla “urbanistica contrattata”, che poi emerse con forza negli anni successivi con l’inchiesta giudiziaria “mani pulite e lo svelamento di Tangentopoli[6]. Ma la maggioranza dell’INU preferì glissare.
Sul primo argomento (l’efficacia del sistema di pianificazione) proponevo sostanzialmente un metodo basato sulla concezione della pianificazione come attività continua e sistematica, la preliminare considerazione dell’analisi delle risorse territoriali e della definizione delle invarianti strutturali e delle “regole della trasformabilità”, l’articolazione del piano in due componenti.
Proponevo in particolare “di porre la lettura delle qualità del territorio e la definizione delle regole della trasformabilità alla base dei processi di pianificazione non solo in tutta la pianificazione regionale ma anche nella pianificazione territoriale e urbanistica ai livelli provinciale o metropolitano e comunale”. E proponevo di definire successivamente “quali sono, all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione del territorio, lo operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla”[7].
Le mie proposte non vennero accolte.
La proposte dell’associazione culturale Polis
Il Congresso di Milano dell’INU aveva comportato la sconfitta della posizione culturale che esprimevo. Non ne fui più il presidente, né partecipai al gruppo direttivo e, successivamente, diedi le dimissioni dall’Istituto[8]. Con un gruppo di amici costituimmo un’associazione, che doveva consentirci di proseguire l’elaborazione che avevamo avviato nell’INU. Dopo una serie di seminari e di convegni approdammo, soprattutto grazie al lavoro di Luigi Scano, a definire una proposta legislativa compiuta. Essa fu presentata a un convegno nazionale, organizzato a Venezia dal PDS e dalla Sinistra europea, dedicato a una riflessione in occasione al cinquantesimo anniversario della legge urbanistica del 1942[9].
Per quanto riguarda le caratteristiche della pianificazione, nella posizione di Polis si sottolineava in primo luogo la necessità di provvedere, “ad ogni livello, a determinare, in via preliminare, le disposizioni finalizzate alla tutela sia dell'"integrità fisica" che dell'"identità culturale" del territorio interessato, da porre come "condizioni" (da intendersi sia come "limiti", sia come "prerequisiti") ad ogni possibile scelta di trasformazione (fisica e/o funzionale) del medesimo territorio”. Era, questo, un assunto che derivava anche dalla riflessione sulla legge 431/1995 (Legge Galasso) e dall’esperienza di formazione, ai sensi di quella legge, del piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna. Questo piano era stato considerato dai suoi protagonisti come la prima fase di un processo di pianificazione, che avrebbe dovuto completarsi con la formazione di un piano territoriale regionale[10].
La preliminare definizione delle regole di tutela non veniva considerato solo fine a se stesso, cioè come funzionale all’esigenza di difendere prima d’ogni altra scelta le qualità naturali e storiche del territorio, ma anche come necessaria premessa “per un'attività pianificatoria altamente, e correttamente, flessibile”. Una pianificazione, si sottolineava, “non soggetta a più o meno frequenti, e più o meno semplificate, ma comunque indiscriminate, variazioni delle scelte o delle disposizioni del piano, sulla base di ‘urgenze’ e di ‘nuove dinamiche’ troppo spesso insufficientemente valutate o neppure verificate nei loro effetti sull'assetto complessivo del territorio”, ma una pianificazione, “capace di assumere la gerarchia degli interessi e degli obiettivi che la comunità esprime e di dare tempestivamente, ma in costante riferimento ad essi, le risposte ai nuovi problemi via via insorgenti”.
Ecco che, sulla base di questa premessa, Polis riproponeva nella sua proposta di legge urbanistica l’articolazione della pianificazione, a tutti i livelli, in due componenti: “quella strutturale, rivolta al perseguimento dei principali obiettivi ambientali, culturali e socio-economici, e comprendente la definizione delle condizioni alle trasformazioni e delle trasformazioni strategiche, che costituisce la parte più solida, più duratura, della pianificazione, e che, quindi, richiede procedure di formazione di maggiore garanzia istituzionale”, e quella “programmatica, rivolta alla precisazione, alla configurazione ed all'organizzazione specifica delle trasformazioni, che costituisce la parte flessibile, e più agilmente modificabile, della pianificazione, e che, quindi, deve disporre di procedure più semplici e tempestive”.
La proposta al XXI Congresso (Bologna, 1995)
Nel 1995 si tenne a Bologna il 21° congresso nazionale dell’INU. Inviai un contributo che fu inserito negli atti del congresso[11]. Ribadivo “la possibilità, l'opportunità e l'utilità di una trasformazione del tradizionale strumento di pianificazione (il PRG)” mediante la “articolazione degli elaborati. grafici e normativi del piano comunale (ma analogo criterio viene proposto per gli atti di pianificazione degli altri livelli) in due serie di componenti” la strutturale e la programmatica.
La prima ”rappresenta e disciplina le decisioni relative alla tutela ambientale e della riduzione dei rischi, e quindi definisce, per ciascuna unità di spazio, le condizioni che l'esigenza suddetta pone alle trasformazioni territoriali, e inoltre individua (rappresentandole e disciplinandole) le scelte relative a opere e interventi di carattere strategico, e cioè riferite al lungo periodo e governabili solo in una prospettiva lunga. Essa ha validità a tempo indeterminato, viene periodicamente verificata (e aggiornata solo se ciò si rivela necessario), e comporta un iter procedimentale più garantistico dell'altra componente.”
La seconda componente “definisce le destinazioni d'uso attivabili, nonché le trasformazioni fisiche operabili (le une e le altre, ovviamente, nell'ambito e nel rispetto delle condizioni definite dalla componente strutturale e in coerenza con la sua stralegia), […] “ha validità per un quadriennio, cioè per un periodo coincidente con il mandato amministrativo; alla fine di tale periodo essa decade, e deve essere sostituita da un nuovo analogo atto. L'iter procedimentale della componente programmatica si esaurisce nell'ambito dell'ente territoriale che l'ha adottata (comune, provincia o città metropolitana, regione)”.
La proposta trovò un’eco che giudicai limitata nella proposta finale avanzata dall’INU.
Riepilogando: i contenuti essenziali della proposta
Possiamo adesso riepilogare sinteticamente i contenuti essenziali del modello di pianificazione che, a partire dall’esperienza del piano per il centro storico di Venezia, si era venuto via via precisando.
L’articolazione della pianificazione in due componenti è ritenuta utile a tutti i livelli, sulla base del cosiddetto “principio di pianificazione”[12].
Il contenuto della componente strutturale è costituito da due elementi: le regole che garantiscono la tutela delle qualità naturali e storiche del territorio e la salvaguardia dai rischi, le strategie definite per quel determinato territorio, sia nel loro aspetto di “progetto” di lungo periodo che in quello di trasformazioni di vasto respiro strategie. Dato il suo contenuto, le sue scelte sono valide a tempo indeterminato e definite con “rigidezza”, con una condivisione interistituzionale (“interscalare”), necessaria perché esse coinvolgono interessi non disponibili esclusivamente per la comunità direttamente interessata, ma anche per quelle più e meno vaste..
Il contenuto della componente programmatica è costituito dalle decisioni che possono o devono essere operative nel breve periodo, ovviamente nell’ambito e nel rispetto delle regole e delle strategie definite dalla componente strutturale. Esse sono valide a tempo determinato, e costituiscono il luogo della flessibilità nel rispetto delle rigidezze definite dalla componente strutturale. La responsabilità si esaurisce nell’ambito del territorio di competenza dell’ente proponente, e quindi le procedure di formazione si concludono entro il livello proprio.
Un corollario che ne discende è il passaggio dall’approvazione alla verifica di conformità. Poiché ogni istituzione esprime la proprie scelte mediante un atto di pianificazione, invece dell’approvazione da parte dell’ente sovraordinato delle scelte del livello sottordinato, o di complesse procedure di co-pianificazione, il ruolo dell’ente sovraordinato si esaurisce nella definizione del proprio piano e nella verifica di conformità del piano sottordinato rispetto ad esso.
Due condizioni sono indispensabili perché un simile modello funzioni.
La pianificazione non deve consistere più nella formazione di piani, ciascuno caratterizzato da un inizio e una fine del suo percorso (della sua storia), ma si invera in un’attività sistematica e continua nel tempo, nella quale le varie fasi dell’analisi, delle scelte, del monitoraggio e della formulazione delle nuove scelte si susseguono ciclicamente. Un’attività della quale il quadro conoscitivo, sistematicamente aggiornato e condiviso con tutti gli attori direttamente e indirettamente coinvolti è la base indispensabile.
Ma perché questa condizione possa verificarsi è indispensabile che, a ciascun livello, operino strutture pubbliche tecniche dotate di tutte le competenze e le attrezzature necessarie per svolgere con efficacia le operazioni necessarie. Strutture la cui qualificazione sia tale da consentir loro di individuare i supporti di consulenza necessari nelle diverse fasi del processo e in relazione ai diversi contenuti specialistici necessari, sia in termini di conoscenze esperte che di progettazione di singoli aspetti o settori od oggetti.
Una terza condizione, sulla quale in questa sede non mi soffermerò ma che è anch’essa essenziale, è la volontà politica e culturale, da parte degli eletti, di adoperare effettivamente un metodo e un procedimento siffatto per decidere sulle trasformazioni territoriali, nel breve e nel lungo periodo.
LA PRATICA SUCCESSIVA,
NELLE LEGGI E NEI COMPORTAMENTI
Le leggi regionali
Si può dire che tutte le leggi regionali approvate a partire dal 1995 prevedono l’articolazione del piano secondo criteri analoghi a quelli che ho enunciato. Esse adottano, sia pure in maniera molto diversificata, la distinzione di due (o più) componenti, o parti, o disposizioni, nell’ambito degli atti di pianificazione generale, o, più ampiamente, di più piani con differenti denominazioni, contenuti, procedure.
Nelle proposte che avevo contribuito a definire l’articolazione riguardava la pianificazione a tutti i livelli. La quasi totalità delle leggi regionali l’applica invece solo al livello comunale. Esse attribuiscono alla pianificazione di livello comunale, e ai relativi documenti, un carattere complessivo e riassuntivo di tutte le scelte sull’assetto del territorio.
La Toscana (1995) articola la pianificazione comunale in “piano strutturale”, “regolamento urbanistico” e “programma integrato d’intervento”: il primo con un carattere di individuazione e classificazione delle risorse territoriali, il secondo con efficacia di attribuzione di prescrizioni (e valori) agli immobili, il terzo con funzione programmatica e operativa.
L’Umbria (1995) articola il piano comunale in una “parte strutturale, che individua le specifiche vocazioni territoriali a livello di pianificazione generale in conformità con gli obbiettivi ed indirizzi urbanistici regionali e di pianificazione territoriale provinciale”, e una “parte operativa, che individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti nella parte strutturale”. La Liguria (1997) articola il “piano urbanistico comunale” in “descrizione fondativa”, “documento degli obiettivi”, “struttura del piano”, “norme di conformità e di congruenza”. Il Lazio (1999) articola il “piano urbanistico comunale” in “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche”. La Basilicata (1999) e l’Emilia Romagna (2000) articolano analogamente, alla legge toscana, la pianificazione comunale in “piano strutturale comunale”, “piano operativo” e “regolamento urbanistico”. La Calabria (2002) prevede un “piano strutturale comunale”, peraltro ricco di articolati contenuti precettivi, un “regolamento urbanistico ed edilizio”, che contamina contenuti propriamente “urbanistici” con quelli tipici del più tradizionale regolamento edilizio, e un “piano operativo temporale”, con forte valenza di programmazione temporalizzata degli interventi, arricchita di alcuni elementi di specificazione della disciplina urbanistica.
Come si vede, alcune regioni prevedono più piani, tra loro connessi ma reciprocamente autonomi, per le componenti strategico-strutturali e per quelle più direttamente operative; altri invece articolano in più componenti un’unica figura pianificatoria generale.
Alcune leggi regionali attribuiscono l’articolazione della pianificazione in più parti o componenti anche ai livelli sovraordinati. Così la Liguria prevede a ciascuno dei tre livelli un documento di analisi fondativa (“quadro descrittivo” a livello regionale, “descrizione fondativa” a livello provinciale e comunale), una trascrizione precettiva di tale analisi (“quadro strutturale” e “struttura del piano”). Il Lazio prevede la distinzione tra “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche” anche a livello regionale e provinciale. In particolare, la legge laziale stabilisce che “la pianificazione territoriale ed urbanistica generale si articola in: previsioni strutturali, con validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio regionale, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata; previsioni programmatiche, riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali”.
In sostanza, l’impostazione delle legislazioni regionali rimane fedele ad alcuni dei criteri emersi dalle elaborazioni culturali degli anni precedenti. In particolare, per la parte strutturale della pianificazione comunale sono sempre presenti tre elementi: la preliminare individuazione degli elementi del territorio che ne condizionano l’integrità e ne connotano l’identità; la definizione delle regole che ne assicurino la corretta utilizzazione anche per i posteri; l’individuazione delle direttrici strategiche dell’azione di trasformazione.
A causa di questa sua natura, il piano strutturale parte generalmente da una descrizione, la assume come fondativa delle scelte di lungo periodo (lo “statuto dei luoghi”), la traduce in regole di lunga durata (di carattere “statutario”).
L’attuazione
Non mi risulta che sia stata compiuta una seria analisi comparativa delle esperienze di applicazione dell’articolazione del piano in più componenti. Sarebbe a mio parere un lavoro estremamente utile. Un’analisi che parta da una chiara enunciazione degli obiettivi che si volevano raggiungere, dalle intenzioni che li sorreggevano, che esponga il modo in cui i precetti sono stati applicati nelle diverse situazioni (o almeno in un certo numero di casi oculatamente scelti come rappresentativi), che misuri la distanza tra gli obiettivi e i risultati, che formuli alcune ipotesi sullo scarto maggiore o minore tra gli uni e gli altri. Ma non sembra facile, ai nostri tempi e nel nostro paese, fondare l’attività legislativa su un’analisi rigorosa dell’attuazione delle leggi che si vogliono cambiare, e di cui semplicemente di vuole verificare l’adeguatezza.
Mi limiterò quindi, per ora, a formulare alcune osservazioni sulla base delle conoscenze più ravvicinate di cui dispongo.
Credo di poter innanzitutto sostenere che gia nelle leggi regionali, e ancor di più nella loro attuazione, si siano trascurati due aspetti della questione che a me sembrano essenziali.
In primo luogo, non si è applicato quello che ho definito il “principio di pianificazione”. Stato, regioni, province non hanno espresso le loro scelte territoriali sulla base di metodi e procedimenti di pianificazione, ossia traducendo in quadri coerenti e olistici, trasparentemente formati, l’insieme delle loro decisioni, ma hanno proceduto per singoli programmi, settori, opere, politiche, spesso occasionati dall’emergenza o da motivazioni di prestigio e d’immagine, o meramente di potere.
In secondo luogo, si è completamente trascurato il fatto che il nuovo modello avrebbe richiesto un poderoso rafforzamento delle strutture pubbliche adibite alla pianificazione. L’aggiornamento della base conoscitiva e la sua alimentazione con i risultati del monitoraggio sui piani e sulle trasformazioni da essi indotte, l’aggiornamento della componente strutturale e la sistematica riformulazione della componente operativa, il prolungamento dell’azione di pianificazione territoriale e urbanistica nelle attività esecutive (edificazioni private, interventi pubblici di infrastrutturazione e urbanizzazione, definizione di politiche aventi ricadute sul territorio), azione di stimolo nei confronti della partecipazione dei cittadini alle scelte: tutto ciò avrebbe richiesto la presenza di strutture abitate da tecnici qualificati e motivati, dotate di attrezzature efficaci, formalizzate in un’organizzazione autorevole e qualificata.
Un’esperienza diretta
Ho dedicato tutta la prima parte di queste note all’esposizione di proposte maturate nell’esperienza personale. Concluderò questo appunto con alcune considerazioni riferite anch’esse all’esperienza personale: in particolare, alla sperimentazione di una delle migliori leggi in materia, la 5/1995 toscana, nella collaborazione alla formazione degli strumenti urbanistici nuovi (piano strutturale e regolamento urbanistico) del comune di Sesto Fiorentino. Un comune di circa 60mila abitanti, nel quale si sono succedute amministrazioni capaci di condurre politiche urbanistiche lungimiranti.
La premessa politica del nostro lavoro è stata ottima. L’amministrazione ci ha fornito direttive che abbiamo completamente condivise: porre termine all’espansione, salvaguardare il territorio inedificato, garantire le visuali libere e promuovere le connessioni ambientali e di percorrenza tra i due complessi paesaggistici più rilevanti, il Monte Morello e la piana dell’Arno, coordinare le scelte con i comuni limitrofi, accrescere il livello della vivibilità della cittadina, rispettare l’individualità dei singoli paesi che la componevano ma consolidare l’unitarietà del Comune.
Anche sul piano normativo la nostra interpretazione della legge regionale, che gli uffici regionali hanno formalmente dichiarato di condividere, ci ha consentito di utilizzare i diversi nuovi istituti prescritti dalla legge (lo statuto dei luoghi, le invarianti strutturali, i sistemi e sub-sistemi territoriali, le unità territoriali organiche elementari) in modo coerente con il contenuto delle componenti della pianificazione (quella strutturale e quella operativa) che era la nostra.
Su alcuni punti rilevanti delle scelte abbiamo trovato soluzioni a mio parere convincenti, che però sono state frutto di una interpretazione della legge, alla quale numerose altre potevano contrapporsi (e si sono infatti contrapposte). Mi riferisco al rapporto tra dimensionamento di lungo periodo, richiesto dalla legge per il piano strutturale (ma ha senso un dimensionamento di lungo periodo?), e la sua articolazione in una serie di piani operativi. Mi riferisco al rapporto tra aspetti strutturali del piano e aspetti strategici, tra sistema delle tutele e progetto di città. Mi riferisco ancora al rapporto tra la rigidità delle scelte strutturali e strategiche e la flessibilità delle scelte operative: un rapporto difficile, che spinge i comuni a interpretare il piano strutturale o come un documento vago, generico e privo di regole, oppure, al contrario, come un vecchio piano regolatore generale.
C’è poi un paio di problemi per i quali neanche interpretando creativamente la legge abbiamo potuto raggiungere soluzioni soddisfacenti: il livello d’area vasta, i tempi della pianificazione.
In assenza di una pianificazione regionale e provinciale che definisca le scelte territoriali di più vasta portata è particolarmente incerto il rapporto con l’area vasta. Molte delle scelte comunali riguardano aspetti (ambientali, paesaggistici, infrastrutturali) che hanno rilevanza sovracomunale, e che solo operando a questo livello possono essere affrontati seriamente. Ma in Toscana (e, credo, anche altrove) la dimensione d’rea vasta è del tutto trascurata. La regione trascura generalmente la dimensione provinciale della pianificazione (e, in generale, del governo del territorio) e “risolve” i problemi con rapporti bilaterali regione-comune. La provincia continua a essere considerata un ente settoriale, di rango inferiore, e le forme associative volontarie di comuni non hanno preso piede. È probabile che questo limite sia particolare evidente in Toscana, dove l’attuale gruppo dirigente della regione teorizza, oltre a praticare, la centralità del momento comunale risolve la maggior parte dei problemi con il rapporto diretto tra Regione e singolo comune[13]: ciò che indubbiamente accresce il peso delle decisioni regionali e aumenta il suo potere discrezionale.
In Toscana, ma anche in altre regioni, il problema principale è tuttavia rappresentato dalla lentezza con cui si rinnova la pianificazione e dall’inerzia delle decisioni. A Sesto Fiorentino, uno dei primi comuni nei quali si è adoperato l’incerto modello della legge 5/1995, il vecchio PRG è morto nel 2006, cioè 11 anni dopo l’inizio dell’applicazione di quella legge. Nella provincia di Firenze molti comuni hanno approvato il piano strutturale ma non il piano operativo, il Regolamento urbanistico.Clamoroso è il caso di Firenze, che dopo tredici anni dal suo avvio anni non ha concluso l’iter formativo del piano strutturale. Nella più rosea delle ipotesi saranno necessari altri due anni per “superare” il veccguo PRG: cioè saranno trascorsi quindici anni dalla legge.
Nel frattempo i vecchi PRG e le loro scelte obsolete (generalmente caratterizzate dal sovradimensionamento) pesano. A Firenze oggi si realizza una tramvia pensata 20 anni fa; la progettazione dell’attraversamento del treno ad alta velocità è iniziato negli anni Novanta; l’università a Sesto Fiorentino è attuativa di in un brandello del Piano intercomunale, progettato da Detti negli anni Sessanta, del quale si sono realizzati alcuni tasselli casuali che oggi appaiono del tutto privi di logica urbanistica; il famoso intervento sull’area Fiat-Fondiaria, contestato un quarto di secolo fa, sta per essere completato oggi (e non parliamo del come). In base alla legge (o meglio, alla sua interpretazione corrente) le previsioni obsolete o semplicemente vecchie non decadono: nulla di ciò che è stato promesso può essere messo in discussione, e tutto si somma in maniera casuale.
Se almeno il tempo trascorso fosse stato impiegato per costruire strumenti e strutture di pianificazione efficaci, competenti, attrezzati, autorevoli, se almeno si fosse instaurata una prassi ci collaborazione tra le strutture tecniche dei diversi livelli di governo i cui interessi e le cui azioni si intersecano sugli stessi territori, se fosse maturata una cultura (tecnica, politica, amministrativa) condivisa e capace di durare nel tempo, il tempo impiegato nella prima fase di attuazione del nuovo modello di pianificazione avrebbe potuto dare frutti negli anni a venire. Così – almeno per quanto mi è dato conoscere – non è stato. Spero che altri contributi su questo tema possano consentire di affermare che non dappertutto è così.
Il “Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentin”i è scaricabile qui
[1] Nelle diverse fasi della riflessione e della sperimentazione concorsero alla messa a punto in primo luogo, e decisivamente Luigi Scano, poi Edgarda Feletti, Vezio De Lucia, Giulio Tamburini, Alessandro Dal Piaz, Mauro Baioni, Paolo Berdini.
[2]Mi riferisco alla variante di PRG per la città antica, la cui costruzione fu impostata e iniziato nel 1982, (ero assessore all’urbanistica), interrotto nel 1985, ripreso nel 1987, concluso e reso pubblico nel 1990, e adottato nel 1992 Ho seguito il piano come diretto responsabile nella prima fase, poi come collaboratore esterno negli anni in cui, assessori Boato prima e Salvagno poi, gli uffici diretti da Edgarda Feletti, con la costante collaborazione di Scano, lo conclusero e portarono all’adozione. La Giunta eletta nel 1993 (sindaco Massimo Cacciari), vittima della ventata di neoliberismo che in quegli anni soffiava impetuoso, iniziò subito smantellare quel piano. Esso fu ampiamente rimaneggiato dall’assessore Roberto D’Agostino e dal consulente Leonardo Benevolo, soprattutto nella normativa e, reso ormai irriconoscibile, adottato nel 1996.
[3] “Livelli di pianificazione e livelli di governo: Le tendenze che devono affermarsi per la costruzione di un processo unitario di pianificazione”. Provincia di Bologna, Luoghi e logos - Il territorio fra sistemi di decisione e tecnologie della conoscenza, convegno nazionale, Bologna, 27-28 nov. 1984. Il mio contributo fu inserito nel terzo volume dei materiali preparatori.
[4] “L’urbanistica dal piano alla pianificazione”, La Rivista Trimestrale, n. 4, dicembre 1985
[5] Le tesi sono pubblicate in un supplemento allegato al n. 108, novembre-dicembre 1989, della rivista Urbanistica informazioni.
[6] Si veda P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco. Come negli incredibili anni ’80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma, 1993.
[7] Le tesi alternative sono pubblicate in eddyburg.it, al seguente indirizzo:
[8] Le ragioni sono espresse nell’editoriale di “Commiato” che pubblicai nell’ultimo numero di Urbanistica informazioni che uscì sotto la mia direzione (n. 125-126, settembre-dicembre 1992)
[9] Gli atti furono pubblicati in Cinquant'anni dalla legge urbanistica italiana 1942-92, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma, 1993
[10] Il Piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna fu adottao il 29 dicembre 1986, e approvato
[11]“Nota sulle proposte di riforma urbanistica dell'INU -1995”, in: XXI Congresso Inu, Bologna 23-25 novembre 1995, Atti, Volume secondo - I contributi al congresso.
[12] Principio di pianificazione
[13] Ma non accade così anchein E-R?
Se si esaminassero parallelamente la storia delle teorie e delle proposte via via elaborate nel corso del dibattito, ormai secolare. sul problema dei centri storici, e la storia della nostra realta sociale e politica, non si avrebbe soltanto una puntuale conferma del nesso che collega sempre l'elaborazione culturale con il concrete cammino della realta civile, ma si giungerebbe anche facilmente a comprendere, io credo, quale sia il passaggio obbligato che occorre valicare per poter risolvere oggi, nella pratica, il problema dei centri storici
Un fatto, intanto, emergerebbe molto chiaramente: il singolare coincidere dell'allargarsi e dell’approfondirsi delta vita democratica italiana nei due decenni aperti dalla vittoria antifascista, con il sempre più accentuate liberarsi della cultura sui centri storici dagli originari moventi “aristocratici”. Si può dire infatti, mi sembra, che nel corso degli ultimi vent'anni gli urbanisti abbiano quasi del tutto superato non solo le concezioni piu arcaiche e ormai divenute reazionarie (quelle, per intenderci, basate sull'esclusiva considerazione del monumento isolate come valore da tutelare, e quindi singolarmente predisposte a divenir l'alibi per la prassi degli “sventramenti”), ma anche quelle stesse posizioni - certo ben più comprensive e mature - nel cui ambito il centre storico, se comincia a esser visto come una realta unitaria che ha valore nel sue insieme e non in questa o in quell'altra delle sue parti, rimane comunque ancora considerato come una realtà esclusivamente composta di forme, che è quindi possibile cristallizzare e imbalsamare come un grande museo.
Non a caso, dunque, ma proprio perche la storia del paese e lo sviluppo dell'elaborazione culturale sono venuti via via a dissolvere le radici aristocratiche della “cultura dei centri storici”, si è oggi indotti ad avere una consapevolezza sempre più precisa dell'”aspetto sociale” della questione dei centri storici, del problema dei “contenuti” di questi ultimi e delta loro “funzione” nell'organismo urbano e nell'intera realta nazionale.
Oggi la cultura urbanistica è giunta a comprendere che ogni centro storico ha una duplice caratteristica, una duplice funzione, e pone quindi una duplice serie d'esigenze, le quali altro non sono che le due facce d'una medesima medaglia. Da un lato, vi è la funzione che deriva al centri antichi dalla lore storicità: dal faito cioè che in essi si è verificata, nel corso dei secoli, una intensa accumulazione di valori, la quale fa oggi dei centri storici un patrimonio di grandissima rilevanza. Dall'altro lato, vi è la funzione che deriva dal fatto che nei centri storici si deve vivere, si deve lavorare, si deve abitare: che percio essi devono essere comunque porzioni vive, attive, dinamiche degli organismi urbani e territoriali di cui sono parte.
I due aspetti, come s'è accennato. sono strettamente intrecciati, e si sostengono anzi l'uno con l'altro. Infatti, mentre è ormai chiaro che i centri storici non trovano la ragione della loro bellezza solo nelle pietre e negli intonaci da cui sono costituiti, ma anche (e in modo essenziale) nella vita che in essi si svolge[1], è chiaro altresi che solo nella misura in cui diverranno un patrimonio effettivamente considerato come tale - e percio attivamente tutelato, valorizzato, concretamente utilizzato dalla collettività nazionale - i centri storici potranno diventare ancora una volta luoghi realmente vitali, sedi di attività non lesive dell'assetto formale che il trascorrer dei secoli e l'accumularsi del lavoro umano ha conferito a essi, ma capaci invece di integrarsi fecondamente con gli antichi valori.
Si apre a questo punto un problema di notevole rilevanza metodologica, al quale mi limiterò ad accennare. Tutelare in rnodo effettivo i centri storici significa, per quel che s'è detto, trovare un rapporto equilibrato e organico tra “strutture vitali” e “strutture formali”; significa in altri termini individuare, tra i “tipi organizzativi”, le attivita, le specifiche forme della vita produttiva presenti nella nostra epoca, quali siano quelli che possono non solo non risultar dannose all'assetto formale dei centri storici, ma anzi costituirne il contenuto organico e omo geneo, e perciò ravvivarlo e conferirgli nuova forza[2]. Il problema cui accennavo e appunto quello di individuare, nel concreto, quali siano i “tipi organizzativi” capaci di tanta impresa.
Su questo tema, comunque, la riflessione teorica e la ricerca scientifica sono (per quanto mi risulti) appena agli inizi. Non è tuttavia necessario, per intervenire nella tutela attiiva dei centri storici, attendere che la cultura urbanistica abbia proseguito i'iter della propria elaborazione; l'attesa, anzi, sarebbe estremamente dannosa, sia per il destino dei nostri centri storici (nei quali è in atto un gravissimo processo di disgregazione che deve a ogni costo essere arrestato), sia per la stessa cultura urbanistica, la quale ha oggi palesemente bisogno di verificare nelle con crete operazioni d'intervento le proprie acquisizioni.
Occorre domandarsi allora, a questo punto, quali siano le condizioni che devono realizzarsi se si vuole effettivamente consentire un positivo interi onto urbanistico nei centri storici. A me sembra che tali condizioni siano essenzialmente d'ordine politico.
E in effetti è chiaro, in primo luogo, che utilizzare in modo pieno e adeguato il patrimonio storico-artistico e ambientale dei centri antichi, e rendere cosi possibile una loro tutela attiva, vuol dire fare dei centri storici i poli specializzati di una vita culturale intensa. dispiegata, che coinvolga l'intera collettività nazionale: vuol dire percio rovesciare l'indirizzo attuale seguito nel nostro paese dai gestori del sistema capitalistico, e fare della cultura (e in particolare di quella umanistica) non piu la cenerentola, ma la regina nella nostra società. In secondo luogo, poi, è altrettanto evidente che se i centri storici devono essere considerati come parti integranti dellorganismo urbano, è indispensabile che l'insieme dell'assetto urbanistico del nostro territorio sia regolato da una discipiina urbanistica realmente innovatrice: ben diversa, dunque, da quella che l`attuale centro-sinistra ci promette. In terzo luogo, infine, è chiaro altresi che, se per dare un'adeguata sistemazione ai centri 'storici e necessario (come ormai la cultura urbanistica ha acquisito) affrontare con decisione il problema del rapporto tra gli uomini, il loro lavoro e la loro residenza, e perciò altrettanto necessario adottare tutti gli strumenti che possano consentire, attraverso una maggiore articolazione della vita democratica. una partecipazione sempre piu ravvicinata dei cittadini alle scelte in cui sono colnvolti.
Da qualunque punto insomma si affronti l'argomento, ci si rende conto che uno soltanto è il nodo da sciogliere: quello di giungere finalmente a vedere il problemi dei centri storici come un aspetto particolarmente qualificante delle grandi questioni nazionali: di quelle questioni, cioè, alla cui risoluzione tutte le forze positivamente presenti nella società civile sono vitaimente interessate, e su cui esse misurano la propria capacità rinnovatrice.
Se questo vero e proprio passaggio obbligato non venisse valicato, se il problema dei centri storici restasse ancora confinato nei limiti degli interessi particolari di questa o di quella categoria di specialisti, molte suggestive invenzioni la cultura urbanistica potrebbe ancora produrre; ma essa ormai verrebbe sernpre più a rinchiudersi nel ghetto angusto delle esercitazioni accademiche, mentre - quello che conta ancora di più - le nostre antiche città correrebbero. sempre piu velocemente, verso la loro totale disgregazione.
[1] “Nessuno può oggi seriamente ritenere utile la conservazione di pezzi di città come pezzi pregiati privi di sostanza attiva e di un ben definito ruolo nel contesto urbanistico” M. Manieri-Elia, Relazione al I Congresso nazionale dell’associazione “Italia nostra”, Roma novembre 1966.
[2] Cfr. l’intervento di G: C: De Carlo al Convegno nazionale sull’edilizia residenziale, Roma, febraio 1964.
La moderna pianificazione nasce sostanzialmente quando l’affermazione del sistema capitalistico di produzione, e il parallelo affermarsi della borghesia, si trovano a fare i conti con alcune contraddizioni nel funzionamento della città: contraddizioni che la spontaneità del mercato - rivelatasi decisiva per sviluppare la produzione - non solo non riusciva a risolvere ma anzi aggravava.
Oggi generalmente si intende per pianificazione territoriale ed urbanistica il metodo, e l’insieme degli strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni. Le trasformazioni territoriali oggetto della pianificazione sono quelle, sia fisiche che funzionali, suscettibili (singolarmente o nel loro insieme) di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma di parti significative del territorio, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.
Gli obiettivi posti alla pianificazione variano in relazione al contesto storico. Tutti i possibili sistemi di obiettivi oggi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.
Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazione sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.
Uno dei compiti della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti. Questa è la ragione per cui in Italia la pianificazione è sempre stata (fino alle recentissime rotture costituzionali) competenza specifica ed essenziale degli istituti elettivi di primo grado, nei quali si esplica nel nostro paese la democrazia; e anche la ragione per cui, nell’ambito delle istituzioni elettive, le scelte di maggior respiro (quelle relativa agli strumenti di pianificazione generale, dai piani regolatori comunali a quelli territoriali provinciali e regionali) sono state di competenza degli organismi consiliari, nei quali sono rappresentate anche le minoranze (scelta contraddetta da recentissime, e improvvide, leggi regionali, come quella della Campania).
La pianificazione territoriale e urbanistica nei termini in cui l’ho ora sintetizzata è soggetta in Italia a tensioni, che si esprimono sia in tentativi di adeguamento alle nuove esigenze e ai nuovi strumenti che è possibile impiegare, sia in tentativi di radicale stravolgimento.
Tra i primi collocherei gli sforzi che molte regioni hanno fatto, soprattutto tra il 1995 e il 2000, per introdurre nella legislazione urbanistica procedure e strumenti volti a privilegiare la considerazione degli aspetti ambientali e culturali, ad aggiornare sistematicamente le scelte sul territorio sulla base del ruolo rilevante dei quadri conoscitivi e del monitoraggio degli effetti, a snellire le procedure conservando, e anzi rafforzando, il carattere democratico e la trasparenza del processo delle decisioni.
Tra i secondi porrei in grande evidenza i tentativi compiuti (e malauguratamente vicini a cogliere l’obiettivo, se passa la cosiddetta Legge Lupi) di sostituire all’urbanistica “autoritativa” o “regolativa”, cioè tradotta in regole d’azione sul territorio stabilite dai poteri pubblici espressi dalle istituzioni democratiche, l’urbanistica “negoziata” con i poteri economici dominanti nei differenti contesti territoriali; quindi, in Italia, soprattutto con la proprietà immobiliare e con gli interessi finanziari ad essa legati.
In una posizione intermedia porrei i tentativi, di introdurre, prevalentemente accanto o indipendentemente dalle procedure tradizionali di pianificazione, procedure e strumenti definiti di “pianificazione strategica”. Su questa vale la pena di soffermarsi.
In Italia spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deformano il significato, il contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Anche per questo è utilissima una rubrica, come “Glossario”, che si preoccupa di stabilire il senso delle parole. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jacques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche nella sinistra si sia adoperato quel termine per dire “privato è meglio” sconcerta. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo severo significato reale. Così vale per la parola “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.
Sappiamo che è un termine relativo all’arte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).
Nel campo del territorio e del suo governo la strategia ha allora a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro. E assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso: deve fare i conti con il sistema delle istituzioni, nelle quali il consenso oggi si esprime.
Ulteriore segno dell’italiana confusione dei significati, da noi per pianificazione strategica si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni.
Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.
Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorre, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla dalla tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse è solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, nella pratica delle istituzioni e impadronendosi di esse e delle loro regole, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti della pianificazione, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.
Nel descrivere la costiera amalfitana potevamo constatare, nel redigere il Piano territoriale di coordinamento della provincia di Salerno[1], che in quel territorio “il paesaggio storico insediativo ed agricolo conserva inalterati i suoi principali connotati, grazie anche alla rigorosa disciplina di tutela che si attua con il Piano urbanistico territoriale dell’area sorrentino-amalfitana”. In quell’area il nostro compito era facilitato. In effetti, quel piano indicava con grande precisione “le linee per realizzare il consolidamento e la conservazione della caratterizzazione insediativa, ambientale, socio-economica dell’area”.
Perciò, nel PTCP di Salerno abbiamo accolto senza riserve, nella sua interezza, il PUT dell’area sorrentino-amalfitana (ovviamente per la parte che ricadeva nel territorio salernitano) e abbiamo proposto “il coordinamento delle iniziative relative al territorio della provincia di Salerno con quelle inerenti le zone ricadenti nella provincia di Napoli, sia per le evidenti connessioni ambientali e funzionali che per le relazioni che hanno connesso storicamente i processi di evoluzione territoriale e socio-economica dell’area sorrentino-amalfitana”.
A differenza del PTCP di Salerno il PUT ha l’efficacia, insieme, di piano urbanistico e territoriale e di piano paesaggistico. La tutela del paesaggio può quindi prolungarsi e divenire operativa proprio attraverso la sua saldatura con le prescrizioni di carattere urbanistico (l’organizzazione delle diverse parti e componenti del sistema insediativo, le caratteristiche fisiche e funzionali degli edifici e degli altri manufatti) e quelle di carattere territoriale (la grande organizzazione del sistema cinematica e degli altri elementi territoriali alla scala di area vasta). Solo così è possibile tutelare la conformazione di un paesaggio nel quale l’intervento dell’uomo è stato profondo e costitutivo.
Questa natura del PUT, cui è affidata la sua virtuale efficacia, non può essere trascurata nel discutere sul “che fare” nel nuovo assetto degli strumenti di pianificazione introdotti dalla nuova legge urbanistica regionale. Se si volesse effettivamente “superare” il PUT con il piani provinciali di Salerno e Napoli, e si volesse al tempo stesso raggiungere il medesimo livello di tutela, occorrerebbe conferire ai piani provinciali contenuti e livello di dettaglio analoghi a quelli del PUT. Non solo, ma bisognerebbe risolvere il problema del coordinamento delle previsioni e degli interventi sull’uno e sull’altro lato del confine tra le province: un coordinamento che nel PUT è affidato all’unico piano, mentre nella prassi dei “ccordinamenti” e delle “intese” è affidato all’effimera liturgia dei “tavoli” e delle “conferenze”.
Il PUT rivendica con chiarezza il “ruolo prioritario della salvaguardia paesaggistica e ambientale”[2]. Le altre componenti del territorio, gli altri aspetti della sua conformazione fisica e funzionale sono disciplinati e progettati perché solo così, solo dettando regole precise alle azioni trasformative dell’uomo, si può ottenere una efficace tutela del paesaggio. Gli elaborati arrivano a decisioni e precetti di grande dettaglio: assumono la conformazione di una manualistica, di una guida attenta a chi deve operare offrendo puntuali indicazioni sulle stereometrie, sui materiali, sulle tecniche costruttive: su tutto ciò che concorre a determinare la forma della terra. Le proposte di riorganizzazione degli elementi funzionali del territorio (come il progetto di nuova configurazione del sistema della mobilità) e l’attenzione agli aspetti economici della sua utilizzazione (come l’attenzione alle esigenze della produzione agricola) sono finalizzate alla ricostituzione delle condizioni che consentano di conservare, ai nostri giorni, l’assetto territoriale peculiare di quei paesaggi.
Il grande merito del PUT è l’aver consentito di conservare sostanzialmente intatto uno dei paesaggi più belli e più interessanti del mondo: un paesaggio che testimonia i risultati eccezionali che si possono raggiungere quando tra il dato originario della natura e il lavoro e la cultura dell’uomo si raggiunge una sintesi creativa. Le condizioni materiali e culturali che consentirono, in molte parti del nostro paese di raggiungere (in misura maggiore o minore) risultati analoghi non esistono più. È difficile prevedere quando potranno essere ricostituite. Per farlo, occorrerà liberare la società contemporanea di credenze, miti e poteri che oggi appaiono fortemente radicati: l’ideologia della crescita indefinita di tutte le grandezze materiali, quella della modernizzazione come valore in sè, la prassi della riduzione d’ogni bene a merce e d’ogni valore a moneta, l’impegno nella cancellazione delle differenze (quelle biologiche come quelle culturali, quelle delle abitudini come quelle dei materiali) mediante l’omologazione ai modelli dettati dai poteri globali.
Un percorso lungo e aspro sarà necessario. Esili (sebbene crescenti) sono le forze che hanno consapevolezza della necessità di un’alternativa allo sviluppo in atto,e perciò la perseguono; fortissime, invece, quelle che non vedono altro orizzonte che la prosecuzione acritica delle tendenze. Anche per questo squilibrio, e per l’incapacità dei “modernizzatori” di concepire soluzioni diverse da quelle che rompono la continuità con il migliore passato, la conservazione deve essere oggi l’imperativo dominante: perché è necessario in se, e perchè possa essere testimoniata la possibilità di raggiungere, in un domani, risultati simili a quelli che i nostri antenati ci permettono oggi di ammirare.
Una conservazione che non sia l’alternativa allo “sviluppo”, ma la base per un altro sviluppo. Uno sviluppo che non cancelli il valor d’uso riducendo ogni bene a merce, ma metta in risalto la qualità dei beni disponibili. Che “valorizzi” nel senso di esaltare e amorevolmente curare, proteggere, restaurare, porre in evidenza il valore intrinseco presente nelle cose che il passato ci ha lasciato: dai paesaggi agli usi, dai sapori agli oggetti, dalle architetture ai mestieri. Che protegga le differenze e le individualità, difendendole dall’omologazione e dall’appiattimento.
Percorrere questo cammino è una scommessa per il futuro. Raccoglierla è perciò quello che ci si aspetterebbe da un ceto politico consapevole dell’abisso che sempre più si sta aprendo tra le sue pratiche e la società. Un abisso che può essere riempito solo dalla capacità di aprire la prospettiva di un futuro diverso. Si vogliono forse mobilitare le speranze per una Penisola sorrentino-amalfitana che diventi simile a Rapallo o ai Colli Aminei, o alla paccottiglia degli insediamenti turistici che si vedono nei cataloghi della agenzie di viaggi, oppure si vuole conservare e restaurare un territorio incomparabile, unico al mondo, riscattarlo nella sua unicità?
Questa è la scommessa. E il PUT precisa accuratamente le condizioni che devono realizzarsi, i percorsi che devono essere seguiti, per vincerla. Chiamano tutti in causa poteri che sono più alti di quelli delle singole amministrazioni comunali, che sono più generali dei singoli uffici dello stato. Sono soprattutto i poteri della Regione. È essa che ha compiuto il primo passo: la benemerita approvazione nel 1987 - quindici anni dopo aver fatto proprie le Ipotesi di assetto territoriale del Comitato regionale per la programmazione economica - del PUT, è ad essa che spetta il dovere di compiere i passi successivi.
Mi riferisco al sostegno alle attività agricole e silvo-pastorali tipiche del versante sorrentino, di quello amalfitano e della conca di Agevola e dei Lattari. Attività essenziali per il loro valore intrinseco e per il loro insostituibile ruolo ai fini della tutela del valore paesaggistico e della difesa del’integrità fisica del suolo. Mi riferisco al sistema cinematico, in cui le previsioni del piano (l’asse infrastrutturale dorsale di alimentazione del “pettine” di percorsi monti-costa e degli itinerari vallivi) sono essenziali per un corretto assestamento del turismo, per la vitalità quotidiana dei centri urbani e per la protezione dei paesaggi oggi più minacciati.
E mi riferisco alla gestione della tutela, della difesa dei beni culturali, architettonici, paesaggistici riconosciuti. Non si può mancar di sottolineare a questo proposito le parole del documento illustrativo del piano[3]: “Anche un notevole incremento del personale” addetto alla tutela dei beni culturali e paesaggistici non basterebbe a soddisfare l’esigenza di proteggere la ricchezza del territorio. I danni maggiori, e le peggiori devastazioni, hanno la loro causa principale nella “assenza di reale impegno di tutte le autorità pubbliche alle quali competeva la difesa del bene comune […] nell’enorme influenza negativa che i caotici interventi del capi tale privato hanno esercitato, e tuttora esercitano, sull’ambiente umano”, nella “sfiducia, così largamente diffusa nella pubblica opinione [che] è stata ed è purtroppo motivata dai numerosi e gravi crimini, urbanistici ed edilizi, che sono restati impuniti o, peggio ancora, colpiti da sanzioni talmente lievi e trascurabili da aver già costituito una previsione di spesa nel calcolo degli imprevisti”.
Parole scritte vent’anni fa, cui poco ci sarebbe da aggiungere. E non di positivo.
[1] Ho partecipato alla redazione del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Salerno. Il lavoro è iniziato nel 1996 e si è concluso con l’approvazione del piano nel 2004.
[2] Regione Campania, Assessorato all’urbanistica e all’assetto del territorio, Piano territoriale di coordinamento e Piano paesistico dell’area sorrentino-amalfitana – Proposta, Napoli s.d., p. 12.
[3] Regione Campania cit., pp. 108-109.
Il piano ”per la città antica” di Venezia., presentato nel luglio scorso dalla Giunta comunale, è il risultato di una manipolazione, non sempre abile, della variante al PRG per la città storica, la cui elaborazione era stata iniziata nel 1981 (all’epoca ero assessore all’urbanistica, e ho continuato a lavorarci anche successivamente) e conclusa, dopo alcuni stop and go, nel 1992, con l’adozione e la successiva pubblicazione e raccolta delle osservazioni. La prima domanda che sorge è quindi la seguente: perché la Giunta, invece di introdurre le modifiche in sede di controdeduzione alle osservazioni, ha voluto ricominciare l’iter da capo? Il guaio è che, in questo modo, gli interventi di trasformazione edilizia nella città storica sono bloccati, a meno di non essere autorizzati illegittimamente o realizzati abusivamente.
Al di là della scelta di fondo, contraddittoria con l’impostazione storica delle forze culturali e politiche progressiste, di accentuare la polarizzazione della città verso la radice del Ponte della Libertà (che emerge con chiarezza dall’altro documento presentato, riguardante “il nuovo PRG comunale”), le modifiche introdotte nel piano della città storica sono molto significative sotto il profilo culturale, sociale e politico. Delineano una tendenza grave e pericolosa: in sintesi, quella di affidare le decisioni sulle trasformazioni della città all’accordo, volta per volta, tra assessorato e proprietà immobiliare, rendendo elusive, generiche, meramente indicative, suscettibili di interpretazioni molteplici e soggettive le decisioni del piano. Cercherò di illustrarle molto sinteticamente. Poiché il PRG di D’Agostino è il risultato di aggiunte, cancellazioni e sostituzioni del PRG del 1992, è a quest’ultimo che sarò costretto a riferirmi.
Il piano del 1992 definiva, per ciascuna unità edilizia storica, tutte le trasformazioni fisiche ammissibili: chiunque volesse intervenire sapeva esattamente quali elementi poteva modificare, costruire o ricostruire e quali doveva conservare o ripristinare. Con il nuovo piano il proprietario può dichiarare che la sua unità edilizia ha perso le caratteristiche storiche che ne richiedevano la tutela e proporre una disciplina diversa; il giudizio è affidato a una fantomatica “commissione scientifica” oppure, decorsi 20 giorni, alla decisione di un funzionario comunale. Naturalmente, la conseguenza è che le trasformazioni possibili diventano molto più vaste.
Il piano del 1992 stabiliva, per ciascuna unità edilizia, quali erano le utilizzazioni compatibili con le caratteristiche fisiche (generalmente una gamma molto ampia) e quali erano, per i successivi 4 anni, le specifiche destinazioni d’uso che dovevano essere rispettate. Queste ultime prescrizioni non riguardavano né tutte le unità edilizie né tutte le utilizzazioni, ma miravano a tutelare oltre (ovviamente) le attrezzature pubbliche e d’uso pubblico, anche gli alberghi (come è richiesto da una legge regionale), la residenza (che a Venezia ha particolari ragioni per essere tutelata) e determinate attività produttive. Con il nuovo piano sono praticamente ammessi tutti i cambiamenti d’uso che ricadono entro la vastissima gamma delle “utilizzazioni compatibili”: nella sostanza, non c’è più nessun controllo sulle destinazioni d’uso.
Il piano del 1992 stabiliva, per una serie di “ambiti” comprendenti le aree dove si prevedeva la possibilità di trasformazioni urbanistiche anche sostanziali (Piazzale Roma, Tronchetto, Marittima, Junghans, Stucky, San Basilio, Sacca dell’Inceneritore, Cantieri a Sant’Elena, per non citarne che alcuni) l’obbligo di redigere specifici piani attuativi e, per ciascun ambito, stabiliva esattamente le funzioni, le quantità edilizie, l’organizzazione morfologica che il piano attuativo doveva rispettare. Con il nuovo piano le prescrizioni diventano assolutamente generiche, evasive, indicative: tutto si può fare, tutto si può modificare.
Difficilmente un assessore di una giunta di centro-destra avrebbe potuto soddisfare più largamente le attese della proprietà immobiliare, e degli interessi ad essa collegati. Difficilmente un apostolo della deregulation più sfrenata avrebbe potuto sostituire in modo più smaccato la certezza del diritto, la trasparenza del procedimento, la chiarezza della norma con l’indeterminatezza, la discrezionalità, la valutazione caso per caso, e soggetto per soggetto. (Sul fatto, poi, che questo governo della città è stato eletto per attuare il piano del 1992 e non per rovesciarlo nel suo contrario, parleremo un’altra volta).
Edoardo Salzano, pianificatore, già preside della facoltà di Pianificazione, è autore di molti saggi. L'ultimo è Ma dove vivi? La città raccontata.
Continua l'indifferenza della «politica» per la città. Nessun programma si occupa della questione, neanche quello della Sinistra. Non ti pare che questa indifferenza sia molto grave, non solo per la città ma per la stessa qualità della politica, essendo la città il luogo della «condensazione», delle contraddizioni e ineguaglianze della nostra società?
È grave e incomprensibile. Non solo per le ragioni che dici tu, ma anche perché la città è il luogo della possibile speranza. Le contraddizioni e le ineguaglianze possono essere risolti in tanti modi: emarginandone i portatori, cioè espellendo e ghettizzando i soggetti più deboli oppure trasformando la protesta che nasce dal disagio e dalla sofferenza in una carica di rinnovamento. La prima strada è quella seguita dalle destre italiane (quella di Berlusconi e quella di Veltroni), che la persegue abbandonando la città al mercato, al potere degli immobiliaristi, alla deregolamentazione e alla rinuncia del potere pubblico. Non afferrare il nodo della questione urbana significa perciò per la sinistra abdicare a una delle poche possibilità di rappresentare un'alternativa.
D'accordo, anche perché nella città si costruisce il senso collettivo, senza il quale non c'è politica, non c'è rappresentanza, ma solo rappresentazione. Si dice che l'intervento pianificato nella città sia di ostacolo allo sviluppo, alla crescita, fa fuggire investitori, mentre noi insegniamo che un intervento ordinatore crea opportunità non di speculazione ma di crescita ordinata, quindi socialmente più produttiva. Come mai questo semplice concetto non riesce a fare breccia nell'opinione pubblica?
Se andiamo al fondo delle cose troviamo che esistono concetti e connessioni che non sono veri, ma sono diventati, nell'ideologia corrente, verità assolute. Tra queste due pesano particolarmente nell'annebbiare e distorcere la consapevolezza della condizione urbana. La prima è la convinzione (il dogma) che ci sia una connessione ineliminabile tra sviluppo economico dell'economia data (ritenuta l'unica ipotizzabile), crescita di determinate grandezze (quelle misurate con il termometro del Pil), e il mercato (cioè la libertà per qualsiasi proprietario di qualsiasi cosa di farne ciò che vuole). È solo il mercato che consente, attraverso la crescita, di conseguire uno sviluppo (quello sviluppo). Quindi, viva il mercato. Questo dogma è anche molto comodo perché rinunciare, nel campo dell'organizzazione urbana, alla pianificazione e abbandonarsi alla spontaneità del mercato riduce la responsabilità del politico, e gli consente di giocare a tutto campo sulla «scena urbana» per svolgere il suo ruolo di «rappresentazione». La seconda verità è l'annebbiamento di una delle due componenti ineliminabili della natura dell'uomo moderno, cioè della sua dimensione pubblica. La bilancia si è nettamente spostata sulla dimensione individuale (vedi Richard Sennett, Il declino dell'uomo pubblico). Questo è nefasto per la città, la quale può esistere, può essere trasformata secondo una logica olistica (quale è quella che la città necessariamente richiede) solo se l'uomo si sente ed è cittadino. Ove si riduca a cliente, tutto è perduto.
Ma c'è una realtà non eliminabile: nella città ci si rende conto che non tutto può essere risolto individualmente, la dimensione non solo della collettività ma anche della soluzione collettiva di molte nostre necessità si tocca con mano. Non ti pare che mettere in evidenza, politicamente, questa dimensione sia anche un modo per combattere il declino dell'«uomo pubblico»?
Non c'è dubbio. Ma quella che tu chiami «realtà non eliminabile» è stata eliminata dalla maggioranza delle coscienze. Perciò credo che ci sia da compiere in primo luogo un duro lavoro culturale, non più solo sulle élites universitarie; perciò ho scritto quel libro che hai citato all'inizio, che è rivolto a tutti. Perciò credo che uno dei pochi segni di speranza siano in quei comitati, gruppi, associazioni che nascono per affrontare insieme un, sia pur piccolo, problema comune nell'assetto della città. Si tratta di lavorare perché imparino a passare dal particolare al generale e poi dal sociale al politico, perché solo in una politica rinnovata c'è un futuro accettabile.
Com'è oggi la situazione delle diverse città? Un tempo alcune erano esaltate per il loro livello di pianificazione e di crescita ordinata. Oggi la situazione è ancora articolata e differenziata?
Molto, molto meno che nel passato. C'è una forte tendenza all'omogeneizzazione. La politica come spettacolo, l'amministrazione come rappresentazione, la ricerca di uno «sviluppo» a qualsiasi costo, perfino l'introduzione della concorrenza contro le altre città come impegno decisivo (ecco un'altra applicazione ideologica del mercato a realtà che col mercato non c'entrano), tutto questo mi sembra caratterizzare le città italiane in modo generalizzato. Ricordo sindaci che legavano il loro ruolo e il loro orgoglio al fatto di aver dato alla loro città un buon piano regolatore, pur sapendo che gli effetti di quel progetto di città si sarebbe visto a lunga scadenza. Oggi anche le istituzioni, come la politica, sono appiattite sul breve periodo: quello spendibile alla scadenza del mandato amministrativo. Del resto, se non c'è più un progetto di società come può esserci un progetto di città?
Oggi la città si estende nel territorio, dando luogo a nuove conformazioni urbane. La comprensione del fenomeno è ancora non piena, la discussione sugli strumenti vaga. Ci si riferisce con insistenza al «piano di area vasta», ma senza un'autorità in grado di governarlo rischia di essere solo una speranza. Lo sviluppo urbano nel territorio quali problemi pone al pianificatore?
Invece di città e territorio, da vedere come due entità separate, preferisco parlare dell'ambiente della nostra vita sociale come territorio urbanizzato. I principi da seguire, e anche le regole, secondo me sono le stesse nell'affrontare le trasformazioni della città e quelle del territorio. Non pone quindi problemi nuovi dal punto di vista metodologico, ma semplicemente problemi diversi dal punto di vista dei fenomeni. Direi che gli urbanisti avevano compreso che i fenomeni urbani richiedevano una capacità di controllo e di governo a livello di area vasta. La politica non li ha seguiti. Pensa allo stesso tentativo di riforma della legge 142 del 1990, che prevedeva un riordinamento dell'assetto territoriale in funzione del diverso assetto delle urbanizzazioni. Una riforma modesta, che comunque poteva permettere (attraverso le città metropolitane in alcune aree, un nuovo ruolo delle province altrove) di governare i fenomeni di diffusione. Ma si è ritenuto che fosse complicato modificare i cristallizzati equilibri politici tra comuni maggiori e minori, comuni grandi e province e così via. Si è preferito non applicare la legge. Si è lasciato che l'espansione delle città, abbandonata agli interessi fondiari e allo spontaneismo, provocasse quelle nuove estese periferie a bassissima densità (e altissima domanda di energia) che conosciamo.
L’urbanistica non è l’architettura. La pianificazione della città e del territorio ha poco a che fare con la progettazione di un edificio. Il fatto che l’urbanistica sia nata come una costola dell’architettura è una caratteristica propria dell’Italia. Altrove non è così. Ed è noto che, nella prima metà degli anni Venti del secolo scorso ci fu una discussione accesa tra due tesi alterative: l’una vedeva l’urbanistica come figlia dell’amministrazione e dell’ingegneria delle reti, l’altra come un’estensione della progettazione fisica alla città. Prevalse la seconda.
La formazione dell’urbanista in modo radicalmente diverso da quello dell’architetto avvenne, ad opera soprattutto di Giovanni Astengo, in un duro confronto all’interno dell’IUAV. Si accetto di costituire un corso di laurea in urbanistica, con una sua spiccata autonomia da tutti i punti di vista: da quello della sede a quello del percorso formativo. Come negli altri paesi europei la matrice architettonica fu profondamente integrata con le scienze della sociologia, del diritto, dell’ecconomia, della geografia, della statistica, della geologia e, più tardi, delle altre scienze dell’ambiente naturale. Alcuni architetti-urbanisti di grande rilievo culturale, come Giancarlo De Carlo e Giuseppe Samonà si opposero allora alla “separazione” dell’urbanistica dall’architettura: essi temevano che gli architetti, senza l’urbanistica, avrebbero perso il contatto con la visione della città, e più in generale del contesto, che un buon architetto deve avere. Ma non credo che sia dipeso dalla formazione di una specifica scuola di urbanistica se, negli anni recenti, l’architettura si sia “deterritorializzata”, e spesso ridotta alla produzione di oggetti avulsi dal contesto.
La trasformazione del corso di laurea un una facoltà (di Pianificazione del territorio) fu una conseguenza naturale di quella prima decisione, e avvenne quando l’IUAV si trasformò, da ateneo monofacoltà, in ateneo articolato – come tutti gli altri in Italia – diverse facoltà.
Ai tempi di Giovanni Astengo, e della formazione dei primi corsi di laurea in urbanistica, il clima politico e culturale era molto diverso da quello attuale. Allora, la pianificazione urbanistica era sentita come una rilevante necessità sociale. Era la fase delle riforme, che condussero ad amplissime discussioni politiche sui contenuti- Alla fine, cadute le illusioni di una riforma che incidesse sui modi di esercitare il diritto di proprietà, il dibattito politico e culturale e la conseguente azione legislativa condussero comunque a riforme consistenti (dalla generalizzazione della pianificazione comunale e dagli standard urbanistici e dal loro finanziamento, fino all’edilizia sociale e alla programmazione temporale dell’attuazione dei piani). Il mestiere dell’urbanista era essenziale per le forze politiche diversamente impegnate in un rinnovamento socialmente orientato del paese (dai socialisti e comunisti, fino ai democristiani, ai repubblicani, perfino ai liberali).
Oggi non è più così. L’ideologia della prevalenza del mercato in tutte le dimensioni della società ha portato a dimenticare che la pianificazione urbanistica era nata, nei regimi borghesi, proprio per risolvere i problemi che il mercato non poteva risolvere. Il “declino dell’uomo pubblico” (per adoperare le parole di Richard Sennett), ossia la spiccata prevalenza data nell’ideologia dominante alla dimensione del privato e dell’individuale ha logorato quella consapevolezza degli interessi comuni che era la base per una partecipazione dei cittadini alla pianificazione. La prevalenza dei poteri economici su quelli politici ha indotto questi ultimi a sacrificare la regolazione della città, e a preferire di dedicare l’uso della città allo sviluppo delle componenti parassitarie del reddito. Siamo arrivati addirittura a leggere, nel programma della maggiore formazione nata dall’eredità dei novecenteschi partiti di sinistra che “in tema di pianificazione dell’uso e di governo del territorio, l’ideologia della regolamentazione è cattiva consigliera”!
Ha senso, in una situazione come questa, proporsi di istituire una facoltà di pianificazione del territorio? Io penso di si, alla condizione che si sappia restare ancorati ai principi dell’urbanistica (primato dell’interesse comune, responsabilità pubblica della pianificazione, carattere olistico delle scelte sul territorio, interdisciplinarietà della formazione e del lavoro dell’urbanista). E che si sappia evitare di scendere a patti con i “poteri forti”, o addirittura di porsi al loro servizio
2. La questione femminile
La tradizionale condizione femminile (quella condizione la cui presa di coscienza determinò il sorgere del movimento di emancipazione) ha una sua fondamentale caratteristica sociale nel fatto che tutti i consumi che si svolgono nell’ambito familiare vengono organizzati e gestiti dalla donna, la quale, privata di qualunque libertà nella scelta delle proprie opportunità di lavoro, è esclusivamente relegata al ruolo di erogatrice dei servizi necessari a fruire di tali consumi. Una simile situazione (che si risolve di fatto, quali che possano essere le coperture e le mistifìcazioni, in una piena servitù della donna) poteva comunque venir subita tranquillamente e quasi naturalmente, finché il lavoro femminile extra-domestico rimaneva un’eccezione; essa doveva però rivelare tutta la sua insopportabilità umana e sociale quando l’affermarsi della produzione capitalistica, con il suo progressivo allargarsi fino a investire l’ «esercizio di riserva» costituito dalla forza-lavoro femminile, conduceva all’ingresso di quest’ultima, in aliquote sempre più ampie, nell’attività produttiva.
In effetti, all’impiego capitalistico della forza-lavoro femminile non è venuta a corrispondere una sufficiente assunzione, da parte della società, dei compiti del lavoro casalingo. Di conseguenza, nel momento stesso in cui la donna, con il suo ingresso nel mondo del lavoro, ha dato inizio al processo della propria emancipazione, essa ha dovuto però pagare lo scotto d’essere sottoposta a un doppio lavoro: quello della fabbrica, o comunque delle sue mansioni nel processo produttivo al livello sociale, e quello casalingo della ‘gestione domestica.
È appunto per tutto questo, è appunto per liberare la donna dal peso inumano e insopportabile di un simile doppio lavoro, che i più consapevoli settori del movimento di emancipazione, mentre dovevano salutare, come un positivo portato allo sviluppo storico e come una sostanziale affermazione della libertà femminile, l’ingresso delle donne nella dimensione sociale della produzione, dovevano però, al tempo stesso, lottare perché le donne fossero affrancate dalla servitù dell’altro lavoro; perché dunque la custodia e l’istruzione della prole, la cura e la manutenzione degli alloggi, la preparazione dei pasti tutti gli aspetti, insomma, dell’”economia domestica” fossero progressivamente svolti sulla base, nelle forme e con l’efficienza di un vero e proprio lavoro, e non più attraverso la servile supplenza del «lavoro casalingo».
Ma uscire effettivamente dal «lavoro casalingo», organizzare come un vero e proprio lavoro i servizi tradizionalmente svolti dalla donna nell’ambito della famiglia, è evidentemente possibile solo se i consumi cui quei servizi sono ordinati mutano anch’essi radicalmente di segno; poiché è chiaro che i consumi domestici possono essere soddisfatti mediante l’erogazione di un lavoro che sia realmente tale ( di un lavoro cioè pienamente economico, nel senso di qualificato, efficiente, socialmente organizzato), soltanto se escono dall’individualismo che inevitabilmente li caratterizza finche vengono esclusivamente vissuti nell’ambito familiare, e si sviluppano in consumo comune.
Non è questa però - ormai lo abbiamo ampiamente argomentato - la strada seguita dal processo opulento; il consumo individualistico non si muta in consumo comune, ma viene anzi esaltato e sviluppato in modo parossistico e abnorme. Non si realizza perciò quella condizione necessaria, che sola può consentire alla donna di uscire dalla condizione inumana del “doppio lavoro”, senza nulla perdere della conquista raggiunta nel processo emancipatorio. Ma v’è di più. Nella società opulenta le donne non solo non vengono liberate dalla servitù casalinga; esse, mentre vengono ribadite nella loro condizione di erogatrici di servizi domestici, sono contemporaneamente sospinte ad abbandonare quell’unica e decisiva posizione che avevano raggiunto nella loro lotta emancipatoria. Le donne, infatti, vengono indotte dall’opulentismo a lasciare il mondo del lavoro e a chiudersi in quello di una “mistica femminile” nella quale rivivono, aggiornati e ammodernati, quegli antichi e mitici “valori femminili” che avevano mistificato e coperto la servitù casalinga della donna, presentandola come la connaturata e positiva prerogativa dell’ “angelo del focolare”.
Chiara è la ragione di ciò: non è forse il lavoro, nella società opulenta, economicamente inutile? E non sono ovviamente le donne le prime a essere sollecitate e praticamente costrette ad abbandonare quel mondo della produzione nel quale esse sono ancora, in definitiva, delle parvenues? È l’esperienza di questi anni, ormai, a dimostrarlo e a confermarlo in modo inoppugnabile.
Il testo integrale del libro Urbanistica e società opulenta, articolato in capitoli, è inserito nell'apposita cartella di eddyburg
E’ facile dire che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica. Lo è in modo così evidente!
Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.
Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai reggitori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini.
E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film, l’antagonista dello speculatore Nottola (splendidamente interpretato da Rod Steiger), è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.
È una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film, Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il medesimo ruolo che svolge sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. È stato facile allora, per Rosi, scegliere come attore un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano di quegli anni.
Molti anni sono passati. Grazie anche agli uomini e ai partiti che allora combattevano contro chi metteva “le mani sulla città” oggi le cose sono un po’ migliori. Ma è segno dei tempi che oggi non ci siano forze politiche come quelle che allora si adoperavano per un’urbanistica riformata e, nel frattempo, là dove potevano amministrare, applicavano le regole del buongoverno.
Venezia, 8 novembre 2003
Appendice
dal sito www.filosofia.unina.it
La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche.
Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni.
"I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce"
Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni.
L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività.
Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città.
Audio
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Scheda tecnica del film:
Francesco Rosi "Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105')
Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella.
Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo
d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale
Tratto da http://www.filosofia.unina.it/corsoperf/corsoperf01/qmfad/QPol_eco/lemani.html
Eddyburg è una piazza virtuale, luogo di incontro e confronto pubblico. Da quale urgenza nasce?
Avevo un piccolo sito nell’ambito del sito della mia università, l’IUAV. Oltre alle lezioni e all’altro materiale didattico ho cominciato a inserire altre cose, nelle “pagine personali”: articoli che mi sembravano interessanti, poesie e altre cose belle, ricette,e altre cose che mi sembrava interessante condividere. Questa parte ha cominciato a diventare via via più ampia e a interessare molti navigatori. Allora gli stessi responsabili del sito web dell’IUAV mi hanno consigliato di rovesciare la struttura e di rendere autonomo il mio sito a partire dalla “pagine personali”. Così è nato Eddyburg. L’abbonamento a un servizio di statistiche e la realizzazione di una newsletter, cui i lettori si abbonano automaticamente,mi ha permesso di constatare che il numero di frequentatori è aumentato a dismisura: oggi tocca i 2000 visitatori unici” al giorno, e la media supera i mille.
Io mi limito a pubblicare quello che mi interessa e che trovo sui giornali, sulle riviste, sui libri di poesia, delle ricette, commentando brevemente nella presentazione di più ampiamente nelle postille, quando mi sembra necessario. Ma il motore, da parte mia, è un desiderio di condividere quello che mi interessa e che mi sembra utile.
Poi ci sono le reazioni degli altri, a cui rispondo. Devo dire che non sono moltissime rispetto a quelli che leggono giornalmente il sito. Quelli che si fanno vivi non sono molti, è come se acchiappare la penna e scrivere sia faticoso
La sua è una “comunità” di amici, di pensiero, che esprime insieme un modo di guardare e di “essere nel mondo”…
Direi che la comunità è limitata: quelli che condividono le mie idee, collaborano spesso e mi mandano materiale, sanno tra le trenta e le cento persone.
Che rapporto c’è con i lettori?
Ricevo molte mail, alcune le inserisco nel sito. Molti mi segnalano materiale da inserire nel sito, La grande maggioranza sono persone che non conosco,o non conoscevo: spesso diventiamo amici, e magari non ci siamo mai visti.
Io credo di aver colto un bisogno di informazione, documentazione, orientamento - che è latente nel mondo di quelli che si occupano di pianificazione, urbanistica, città, territorio - che non trova espressione in nessuno strumento di informazione e di formazione dell’opinione pubblica e nemmeno nelle associazioni. Ormai l’associazionismo è quasi tutto locale. Neanche l’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica), di cui sono stato presidente 10 anni, è più un luogo di discussione aperta. Non ci sono più luoghi - pensiamo ai partiti - in cui si discute. Quindi chi è sveglio si accontenta dei siti virtuali che trova, nonostante la loro modestia.
Internet consente un’espressività diversa da parte della società. In che modo l’anonimato modifica la comunicazione?
L’anonimato è scarso. Tutto quello che ricevo è sempre firmato. Io credo che, anzi, ci sia un bisogno di espressione firmata. Chi scrive vuole che si sappia che è lui che si esprime.
Lei dice che “Un politico che ignora la città e la società è un cattivo politico. Come è un cattivo urbanista chi trascura la società”. Si può fare politica in rete? In che modo l’architettura “dialoga” con la realtà attraverso internet?
Domanda difficile…Se devo dirle il mio pensiero fino in fondo, internet è uno strumento secondario, la cui importanza supplisce ad una carenza. La piazza virtuale è una piazza che, in una società giusta, dovrebbe integrare la piazza reale. La piazza reale non c’è, e allora la piazza virtuale si carica di aspettative, attese e bisogni che non trova soddisfatti nella piazza reale.
Nel sito c’è un’attenzione all’attualità, non solo dell’architettura. Mettendo in rilievo alcuni fatti, s’interviene sulla realtà stessa, sulla coscienza che si ha di essa. C’è uno scambio osmotico tra la realtà e il modo di guardarla, di percepirla…
Si certo. Noi ci facciamo condizionare da quello che leggiamo e comunicando quello che vediamo, che selezioniamo - comunicare significa selezionare: privilegiare certe cose e trascurarne molte altre - modifichiamo la consapevolezza comune su quelle cose. Almeno nel piccolo universo che ci segue. Quindi c’è un’interattività in questo senso. La fisica insegna che qualunque strumento di misura modifica il fenomeno a cui si riferisce.
In che modo la sua formazione, anche politica, l’ha portata a comprendere e interpretare il ruolo di internet…
Il rapporto con internet è quello di chi vede uno strumento e riesce ad usarlo; all’inizio quasi per gioco e, mano a mano, grazie alla curiosità ne scopre le possibilità e riesce ad applicarle. È uno strumento come un altro, non sono un apologeta di internet. Lo uso come una volta usavo la penna a sfera.
È uno strumento che offre una possibilità di scambio con la realtà…
È una possibilità che mi lascia sempre qualche perplessità. È troppo casuale per essere del tutto vera. Avrebbe bisogno di strumenti di verifica reali. La piazza reale…ma il problema è che le piazze oggi non ci sono più.
Che ruolo svolge Eddyburg nei confronti dell’architettura e della città?
Non mi occupo molto di architettura, non sono architetto. Ieri ho letto un intervento - che mi sarebbe piaciuto moltissimo mettere nel sito, ma non sono riuscito a scaricarlo - di Vittorio Gregotti in Laboratorio Italia; condivido pienamente quello che dicono persone come lui e Carlo Melograni e pochi altri, è cioè che l’architettura svolge il suo ruolo se rende migliore la città. Mentre oggi l’architettura tende a costruire la città come un insieme di oggetti disparati. I miei interventi sull’architettura, dove non valorizzano posizioni di architetti come quelli che ho citato, è un intervento critico.
In che modo la società civile e politica raccoglie le istanze e i problemi che vengono segnalate sul sito? Avete avuto delle risposte?
No. La politica oggi è sorda e cieca. Cammina a tentoni. Guarda, non dico il breve periodo, ma quello che succede domani. Punto e basta. Rarissime eccezioni. Io spero che siamo in una fase in cui si cominci a capire che, se la politica continua ad andare avanti cosi, perde completamente il contatto con la società. E, dato che in natura non esiste il vuoto, qualche potente barbarie si affaccerà e vincerà definitivamente...Spero che la politica capisca questo.
Pochi gli esiti dalla comunità virtuale a quella reale? C’è uno scollamento
Qualche esito c’è, per l’amor di Dio, almeno si dà un po’ di volontà di resistere a chi è propenso a resistere. Senza falsa modestia, sono convinto che sulla non approvazione della Legge Lupi Eddyburg abbia influito. Non perché abbia smosso i gruppi parlamentari, ma perché ha fatto capire a qualcuno che resistere si doveva; qualcuno ha resistito e qualche granello di sabbia, e magari qualcosa di più, nelle ruote della privatizzazione dell’urbanistica è stato messo.
Internet è democratica, libera, accessibile. Entrando nella rete si diventa “tutti uguali”, si e è al tempo stesso visibili e sommersi da milioni di voci … come si fa a differenziarsi, é una questione di qualità, di stile?
Intanto, deve far parte del proprio stile quello di essere attenti al potenziale lettore o ascoltatore: esprimersi per gli altri, non per se stessi. Poi bisogna ricordare che internet è solo uno strumento e che gli strumento che evono essere usati per comunicare con gli altri sono numerosi. Non ci si può limitare ad uno soltanto. Per esempio noi, il gruppetto di amici che mi dà una mano, che mi consiglia, l’anno scorso abbiamo organizzato una scuoletta, l’abbiamo chiamata la Scuola di Eddyburg, abbiamo fatto una settimana di lezioni, di studio comune sul consumo dei suoli e abbiamo costruito una piccola comunità, che poi si è consolidata nel tempo, ha mantenuto dei legami e così via. Adesso il settimanale “Carta” mi ha chiesto di pubblicare, ogni settimana, un pezzo firmato Eddyburg, Ecco, io credo che bisogna non contentarsi di adoperare un solo strumento, e ogni strumento deve essere integrativo di altri.
Internet è uno strumento “di massa”, la stampa non lo è mai stata. Tuttavia, scrivere su un giornale, può offrire una visibilità maggiore?
Adesso sono felicissimo, per esempio, del fatto che Eddyburg abbia dato luogo a più di un libro: un libro di Fabrizio Bottini su quello che succede nel campo della distribuzione e del commercio, un libro di Lodo Meneghetti in cui raccoglie i suoi scritti su Eddyburg, quel libretto di critica alla Legge Lupi in cui Cristina Gibelli raccoglie i materiali di critica usciti su Eddyburg, fra poco un libro sul consumo di suolo, Carta… Secondo me bisogna sempre usare più strumenti, perchè ogni strumento ha il suo pubblico e il suo specifico.
Abbiamo detto delle potenzialità, quali limiti dell’uso di internet?
È un potentissimo mezzo di comunicazione il cui rischio è l’immensità. C’è tutto dentro internet. Bisogna costruirsi delle nicchie, mettere in rete le proprie nicchie con quelle altrui, rendere identificabile il proprio sito e metterlo in comunicazione con altre realtà analoghe. Io credo che la forza di Internet sia nella sua capacità di mettere in rete.
Oltre ai suoi “Scritti”, “Società e politica”, “Città e territorio”, tra le più visitate, su Eddyburg c’è un’area dedicata alle ricette di cucina e una dal titolo “Poesia e non poesia” in cui raccoglie frammenti di bellezza; È un modo molto affettuoso di condividere…
L’intento è proprio questo. La presenza di cose diverse, che caratterizzano una realtà di vita complessa, non appiattita su una sola dimensione. Penso che “l’uomo a una dimensione” non piaccia più.
Dunque, politica, verità e bellezza stanno assieme…
E certo, devono stare insieme!
Un augurio…
Che la politica riapra le orecchie e gli occhi.
LE CITTÀ D'EUROPA
L'Europa é ancora possibile
Vezio De Lucia ha aperto la sessione di ieri con una relazione rigorosamente segnata dal pessimismo della ragione. L'ha chiusa con un segno di speranza, fornito proprio da questo convegno. E' alla fine della relazione di Vezio che voglio idealmente riallacciarmi per aprire questa seconda sessione, dedicata al "domani", e quindi necessariamente aperta alla speranza. Speranza critica, naturalmente. Ed é questa, mi sembra, l'indicazione che ci viene dall'Europa.
Con la ratifica del trattato di Maastricht l'Europa diventerà una realtà politica ed economica. Ciò non significa che l'unità europea sia dietro l'angolo. Dopo la dimostrata incapacità di governare la crisi monetaria (e ciò che sotto il "velo monetario" si nasconde), e l'impotenza politica rivelata dalla lacerante crisi dei Balcani, é chiaro a tutti che non é più tempo di ottimismi acritici né di fiorita retorica, ma di meditate riflessioni e di azioni calibrate.
Un dato, però, rimane fermo. Le frontiere che separano i cittadini dei paesi dell'Europa (le loro culture, la loro vita quotidiana, le loro curiosità, i loro sentimenti), già diventate sempre più permeabili, dal Capodanno del 1993 saranno scomparse del tutto. 340 milioni di cittadini europei circoleranno liberamente. I viaggi dei turisti e quelli dei capitali, gli spostamenti per il lavoro e quelli per la soddisfazione della curiosità di conoscenza diventeranno - più ancora di quanto già lo siano - un radicato costume. Si imporranno confronti sempre più ravvicinati tra le condizioni di vita al di qua e al di là dei confini delle nazioni europee.
Quali che siano le vicissitudini della congiuntura (e quale che sia la sua durata) l'Europa rimane del resto l'unico orizzonte possibile perché la civiltà della sua storia non si dissolva, nel prossimo secolo, in una miriade di "microciviltà" affidate all'attenzione degli etnologi. Occorre allora pazientemente lavorare per proseguire la costruzione di una unità europea nelle culture specialistiche, nelle politiche nazionali, e nella formazione delle condizioni dell'esistenza e della vita sociale. Gli organizzatori di questo convegno hanno avviato un lavoro in questa direzione, sul terreno circoscritto ma fondamentale delle questioni della città, dell'ambiente, del territorio, nel convegno svolto in questa stessa sala un anno fa. Vogliono proseguirlo adesso.
Le città europee tra qualità e crisi
Parlare di città, in Europa, significa oggi parlare di crisi. I due termini, in questo scorcio di secolo, sono sempre più frequentemente associati. "La ville partout et partout en crise" é il titolo di un dossier di Le monde diplomatique, che inquadra questa crisi nel panorama planetario della crisi ambientale, del conflitto tra i grandi interessi economici dei nuovi imperialismi e da quello tra le culture. Nel convegno dell'anno scorso abbiamo ragionato a lungo, a partire dal Libro verde per l'ambiente urbano della CEE, sulle caratteristiche della crisi. Ricordiamone alcuni aspetti.
Ricordiamo la crisi d'identità personale e sociale che si consuma nelle metropoli. Ricordiamo il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell'homo socialis (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Ricordiamo le difficoltà crescenti a usare abitazioni adeguate, per località, tipologia e canone d'uso, alle esigenze delle famiglie. Ricordiamo l'inquinamento dell'aria e dell'acqua, l'abnorme produzione di rifiuti che minacciano di seppellirci, i rumori che ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Ricordiamo come la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, delle persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri.
E ricordiamo, soprattutto, quello che nel convegno dell'anno scorso abbiamo definito "il paradosso del traffico". Muoversi, spostarsi - dicevamo - è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità - dicevamo ancora - non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.
Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia. Le città dell'Europa sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle città d'Europa (nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili) si é consolidato e conservato, nonostante i saccheggi perpetrati in questo secolo, qualcosa che é un valore in molti sensi. E' un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).
La ricchezza costituita dalla cultura delle città é la maggiore risorsa per il futuro delle città europee. Condizione perché essa non venga dissipata, e possa dispiegare tutte le sue potenzialità, é che la città venga sottratta al suo possibile destino di crisi.
Le città europee tra concorrenza e integrazione
Le città d'Europa sono già in un unico mercato. Ciascuna di esse vuole attirare risorse, investimenti, flussi d'interesse e di visitatori, turisti, valuta. Ciascuna di esse teme che i flussi si dirigono altrove, che il suo rango cali di livello, che il suo peso politico diminuisca. Tra le città é in atto la concorrenza.
Dove i politici e gli amministratori sono più attenti alle ragioni del governo del territorio, si corre ai ripari, si lavora, ci si attrezza. Così, per timore della forza attrattiva già esercitata dalla grande concentrazione che da Londra, attraverso i Paesi Bassi e la Valle del Reno, si prolunga fino a Milano (la "banana blu"), le città della Francia e della Germania si stanno organizzando in reti, tentano di coordinarsi e spesso ci riescono con efficacia: rievocano dalla storia i fasti e i regolamenti della Lega anseatica e della Decapoli alsaziana per realizzare sinergie amministrative, economiche, promozionali all'altezza dei problemi di oggi.
Attraverso l'integrazione, cercano di diventare più forti sul terreno difficile della concorrenza. Per restare vittoriosamente sul mercato, mettono in gioco le loro qualità e si sforzano di accrescerle: le qualità ambientali, storiche, artistiche, e le qualità urbane: qualità dell'attrezzatura e dei servizi, qualità della vita, qualità dell'organizzazione dell'insediamento, qualità dei trasporti, qualità e ricchezza delle occasioni di incontro, di arricchimento culturale, di ricreazione.
L'investimento nella qualità é sempre più considerato, nelle società davvero moderne, la garanzia più forte per un futuro migliore: la socialdemocrazia tedesca l'aveva compreso più di vent'anni fa, nella Ruhr, la terra di Willy Brandt.
Per accrescere la loro qualità urbana e rafforzarsi mediante l'integrazione delle loro differenti potenzialità le città ben governate dell'Europa scelgono, come strumento e come metodo, la pianificazione territoriale e urbana. Lo ha detto recentemente il primo ministro della Francia, Pierre Bérégovoy: "Ho intenzione di fare della pianificazione territoriale, nella prospettiva della realizzazione dell'Europa, una vera priorità nazionale".
In Europa, l'urbanistica (questa pratica sociale vituperata negli anni 80 dai fautori della "modernizzazione" fasulla che ha prodotto Tangentopoli e la crisi economica), é di nuovo all'ordine del giorno. Ma quale urbanistica, per quale città?
UNA NUOVA URBANISTICA
Urbanistica e sviluppo: la città sostenibile
Una nuova urbanistica deve innanzitutto fare i conti con una nuova visione dell'economia.
L'urbanistica moderna, quella che in Italia si é affermata nel segno della legge 1150/1942, si é foggiata misurandosi con i problemi dell'espansione: espansione della città, espansione dell'urbanizzazione sul territorio, ed espansione dell'economia. Lo sviluppo (dell'economia e della città) é stato visto, concepito e misurato in termini meramente quantitativi.
Tutto questo è cambiato. La cultura urbanistica più attenta l'ha scoperto da tempo: l'età dell'espansione é terminata; siamo entrati ormai nell'età del recupero, del riuso, della riqualificazione. La cultura economica lo sta scoprendo anch'essa: misurare lo sviluppo nei termini quantitativi tradizionali significa condannare non solo la società, ma il genere umano alla morte.
Fare i conti con l'economia significa allora, per l'urbanistica, fare i conti con l'ambientalismo, con l'esigenza profonda che questo movimento esprime.
Al convegno dell'anno scorso abbiamo lanciato uno slogan che esprime questa tensione. Ci siamo rifatti alla definizione di "sviluppo sostenibile" coniata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'Onu per applicarla alla città. Per "sviluppo sostenibile" - si legge nel Rapporto della Commissione - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Per città sostenibile, dicevamo, bisogna intendere qualcosa in più. Così grave é la situazione di crisi che non basta "non compromettere" la capacità delle generazioni future. Non basta conservare la qualità urbana esistente, occorre aggiungerne. E abbiamo definito città sostenibile una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.
Io penso che l'obiettivo della città sostenibile debba essere il fondamento della nuova urbanistica.
Urbanistica e politica: l'urbanistica é "una parte della politica"?
A volte si ragiona come se l'urbanistica fosse compito pressoché esclusivo di una determinata categoria professionale. Se il compito dell'urbanistica é quello di costruire la città del futuro, allora é evidente che non può essere così. Leonardo Benevolo, con la sua consueta rigorosa chiarezza, afferma, seccamente, che "l'urbanistica é una parte della politica".
Certo, l'espressione di Benevolo va interpretata. L'urbanistica é una "parte" che richiede determinati specialismi. Che, quindi, richiede un apporto determinante di tecnici determinati, debitamente formati, capaci di esplicare (nella sfera delle loro attribuzioni) l'autonomia necessaria per ogni attività creativa. L'urbanistica pretende un rapporto dialettico tra il personale politico e quello tecnico, tra le responsabilità e le capacità dell'uno e quelle dell'altro.
Ma guai a delegare intieramente all'urbanista tutte le scelte che concernono la città del futuro, e ad attribuire a lui solo le responsabilità di tracciare le linee del percorso, i traguardi, le priorità. E guai d'altra parte a ritenere che queste scelte possano essere tracciate da un mero atto di volontà politica, senza un'accurata prospettazione dei rapporti tra cause ed effetti, una verifica delle coerenze necessarie, una individuazione delle alternative possibili.
Guai a confondere, e guai a separare. Occorre distinguere i ruoli e gli apporti. Ma ciò che oggi soprattutto occorre (De Lucia lo ha detto con molta chiarezza nella sua relazione di ieri) é che, in Italia, la politica si riappropri della responsabilità di dare il suo determinante contributo alla soluzione dei problemi di fondo, delle scelte "di sistema" che sono necessarie per costruire una nuova città. Se così non avvenisse, ogni impegno sul versante della cultura urbanistica servirebbe solo all'accademia. Cioè a nulla.
Urbanistica e morale: uscire da Tangentopoli
Quando la politica non si occupa responsabilmente della città, la crisi investe il terreno della morale: Tangentopoli lo insegna. Non assumere le questioni dell'urbanistica come questioni politiche centrali significa abbandonare la città, e i grandi interessi che la sua trasformazione comporta, ai faccendieri della politica, dell'urbanistica e degli affari. Quando non si occupa dell'urbanistica la politica alta, essa diviene terreno di pascolo della politica bassa: diviene terreno d'impaludamento della politica.
Se appena si esce dalla retorica delle affermazioni generiche e dall'enunciazione acritica di tutti gli obiettivi (magari contrastanti) proponibili e di tutte le priorità (magari contraddittorie) elencabili, le scelte sul futuro della città coinvolgono interessi di grandissime dimensioni. Ogni ipotesi di trasformazione del territorio, ogni "progetto" (sia esso costituito da una sola operazione, come il caso della Fiat-Fondiaria a Firenze e in tutti gli altri episodi di urbanistica contrattata, sia che si tratti degli effetti cumulativi di una miriade di operazioni suscitate da una scelta urbanistica, come nel caso di una modifica delle norme di edificabilità), premia interessi economici di alcuni soggetti, e correlativamente punisce altre aspettative.
Basta un segno con il pennarello, o la correzione di un numero o di un avverbio nelle norme di un piano, per costruire ricchezze senza fatica per nessuno (se non per quei cittadini, di oggi e di domani, che pagheranno per le scelte sbagliate). Se così stanno le cose, come é pensabile che per un decennio almeno si siano calpestate, violate, svuotate le regole, nate dalla legge di cui oggi celebriamo il cinquantennio, cui era affidato quel tanto di trasparenza, di responsabilità, di dimostrabilità delle ragioni e delle conseguenze delle scelte, che il legislatore era riuscito ad escogitare?
Se le regole date non soddisfano, esse vanno cambiate con regole nuove. Non farlo, limitarsi a distruggere senza ricostruire, significa aprire varchi smisurati attraverso cui passano il malaffare, la corruzione, la prepotenza della concussione, e la stessa delinquenza organizzata. Risolvere la questione morale, denunciata da Enrico Berlinguer vent'anni fa e aperta dalla magistratura in questi mesi, significa ricostruire un sistema di regole per il governo del territorio: regole certe, valide nei confronti di tutti, blindate contro le deroghe e le violazioni.
QUALE PIANIFICAZIONE, PER QUALE CITTÀ
La pianificazione, metodo e strumento per il governo del territorio
In che modo però, sulla base di quale ipotesi sul ruolo del potere pubblico nel governo del territorio, con quali rapporti tra i vari livelli del potere pubblico e di questi con i poteri e le iniziative private occorre formare il nuovo sistema di regole? E quali metodi e quali strumenti sono necessari per definire nella chiarezza e nella reciproca responsabilità le scelte politiche e quelle tecniche, e delineare così (e sistematicamente gestire) il "progetto" del futuro della città? Quali attrezzi infine adoperare per avere ragionevoli garanzie del fatto che si progetta e costruisce una "città sostenibile", e non un informe e invivibile agglomerato di squallide e inquinate periferie?
E' necessario in primo luogo ribadire che le scelte che determinano l'assetto del territorio (di quel sistema cioè di cui le città costituiscono i principali punti di forza) sono di competenza degli enti pubblici elettivi, costituzionalmente e costitutivamente rappresentanti della volontà popolare e responsabili dei suoi destini.
Ma é poi necessario completare subito questa affermazione con un'altra, che tarda ancora (almeno nel nostro paese) a farsi strada. Occorre affermare che tutte le scelte suddette, che si tratti di tutele, infrastrutture, opere e politiche di competenza statale o regionale, o che si tratti delle più estese e compiute competenze delle province e dei comuni, non possono essere il prodotto di decisioni casuali, separate le une dalle altre, e quindi di necessità contraddittorie e alla fine inefficaci e inefficienti. E neppure possono essere unicamente il portato di politiche e programmi di settore, talché, ad esempio, con un programma per le autostrade si distrugge quello che si era deciso di conservare con la salvaguardia ambientale, o con un vincolo di tutela si impedisce quello che si era deciso di realizzare con un programma di infrastrutture.
Occorre, insomma, che ad ogni livello di governo le scelte che incidono sul territorio vengano definite, verificate nella loro coerenza complessiva e nei loro effetti, dimostrate nella loro necessità, rese trasparenti nel procedimento della loro formazione e nella loro attuazione, mediante l'applicazione dell'unico metodo il quale, allo stato degli atti, sia stato escogitato (e, fuori d'Italia, anche applicato) come idoneo a ottenere i risultati siffatti: il metodo della pianificazione territoriale e urbanistica.
Una nuova pianificazione
Prima di essere un insieme di strumenti, la pianificazione territoriale e urbanistica é un metodo. Questo metodo evidentemente richiede applicazioni diverse, e strumenti diversi, a seconda delle differenti situazioni alle quali si applica. Una pianificazione foggiata in relazione alle esigenze dell'espansione (qual'é quella che finora abbiamo conosciuto) deve evidentemente essere profondamente modificata in un'epoca in cui altre sono le prospettive e le esigenze. Una pianificazione immaginata quando la tutela dell'ambiente era preoccupazione soltanto di qualche intellettuale e qualche esteta é certamente insufficiente quando la questione ambientale diventa consapevolezza di massa. Una pianificazione costruita quando gli interessi privatistici dominanti erano quelli della grande proprietà fondiaria deve rivedere i suoi strumenti e le sue priorità in una realtà dominata dal grande capitale finanziario transnazionale.
Quale deve essere oggi la pianificazione? Per le cose che ho appena detto, certo una pianificazione diversa da quella del passato. Intanto, non dovrà ridursi a formare, una volta ogni tanto, un pacco di documenti contrassegnati dal nome "piano". Occorre passare "dal piano alla pianificazione". Occorre dar luogo a un'attività continua e sistematica di governo delle trasformazioni urbane e territoriali, caratterizzata dai due requisiti complementari, sussidiari, della coerenza e della flessibilità.
Ma per comprendere quale pianificazione é necessaria, occorre domandarsi: quale città vogliamo costruire con la pianificazione?
La premessa necessaria: il regime degli immobili
Vogliamo costruire innanzitutto una città libera di disporre del suo destino, e quindi affrancata dal dominio della proprietà immobiliare e della rendita. La questione del regime degli immobili é perciò basilare, oggi più che mai. L'attuale assenza di certezza e chiarezza é alla radice sia delle condizioni disastrose del nostro territorio urbano ed extraurbano, sia della diffusione di Tangentopoli.
Il Presidente del consiglio dei ministri in carica, accogliendo una proposta del Segretario del Pds, ha promesso di porre la questione all'ordine del giorno dell'attività legislativa proprio per "consentire ai comuni di superare la prassi dell'urbanistica contrattata". Non si tratterà quindi solo di indennità di espropriazione, si tratterà di regime degli immobili: di decidere che cosa appartiene alla collettività e che cosa appartiene al proprietario, in termini economici e in termini di poteri, in ogni trasformazione di rilevanza urbanistica operata sugli edifici e sulle aree.
Alcuni princìpi vanno affermati con forza, e devono costituire i cardini di una nuova politica in materia. Voglio proporli alla discussione appunto come punti politici, sui quali il confronto non può essere solo specialistico.
Il primo punto é che il potere di decidere quali trasformazioni aventi rilevanza urbanistica siano ammissibili e quali no (ossia, in concreto, il potere di decidere le scelte sul territorio) spetta al potere pubblico, il quale lo esercita mediante gli strumenti della pianificazione. E lo esercita davvero, non mettendo lo spolverino alle decisioni prese dal capitale finanziario o immobiliare, come nell'urbanistica contrattata.
Il secondo punto é che il valore riconosciuto alla proprietà immobiliare (in caso di espropriazione, o di acquisto, o di convenzionamento dell'uso, o in qualunque altra transazione tra pubblico e privato) non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso legittimo del bene. Questo principio, del resto, era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865.
Il terzo punto cardine di una nuova politica immobiliare é che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo principio é essenziale per ottenere la perequazione tra le differenti situazioni proprietarie. Esso é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se non fosse ottenuto, e quindi delle censure di costituzionalità, ma anche perché non raggiungerlo significherebbe subordinare di fatto la pianificazione alla contrattazione con i proprietari, e quindi perpetuare le condizioni che hanno favorito l'espansione di Tangentopoli.
Il quarto punto é che la determinazione dei valori degli immobili deve essere tale da non essere punitiva nei confronti dei proprietari e da non privarli dell'investimento che hanno effettuato. Questo risultato deve ovviamente essere raggiunto secondo modalità che non siano contraddittorie con i punti precedenti. Ciò é possibile consentendo al proprietario di ottenere, in alternativa al "valore standard" l'equivalente del prezzo che é stato corrisposto, e dichiarato in atti pubblici, nell'ultima transazione.
La proposta di legge che Luigi Scano ha predisposto per l'associazione Polis, e che illustrerà più tardi, é una delle possibili traduzioni (a mio parere particolarmente rigorosa e completa) di questi punti politici in una più complessiva normativa dei modi e degli istituti attraverso i quali esplicare un efficace governo del territorio. Ma disporre di un testo legislativo idoneo non é sufficiente per condurre davvero una politica fondiaria efficace e moderna. Così come, del resto, non disporne ancora non é una buona ragione per accodarsi agli interessi fondiari e subirne la volontà, come troppe amministrazioni pubbliche ancora fanno.
I contenuti: qualità ambientale, qualità sociale
Qualità ambientale, qualità sociale: queste due espressioni racchiudono l'insieme dei requisiti che chiediamo alla città del futuro.
Qualità ambientale. Significa in primo luogo tutela delle qualità naturali e storiche presenti: tutela dei centri storici (ancora oggi devastati dalla miopia culturale dei progettisti e dalla miopia politica degli amministratori, come la Città vecchia di Trieste, minacciata in questi giorni di distruzione da un devastante "piano di recupero"), nelle loro caratteristiche fisiche e nella loro struttura sociale; tutela delle ville ancora presenti, delle pendici collinari, dei lembi di campagna e dei casali interclusi nelle periferie; tutela di tutti i segni che il sapiente intreccio tra storia e natura hanno lasciato a testimonianza di una civiltà.
Significa poi costruzione di qualità nuove, soprattutto là dove la speculazione, l'incuria e l'individualismo sfrenato di diplomati o laureati presuntuosi o avidi hanno costruito ambienti invivibili. Qualità nuove da realizzare in primo luogo ridisegnando il sistema degli spazi ed edifici pubblici e del verde, costituendo in essi un sistema delle qualità, una trama continua di percorsi pedonali e ciclabili nel verde che leghi in un'unica trama i luoghi della bellezza, della ricreazione, della socializzazione: i luoghi propriamente "urbani".
Significa infine protezione delle risorse e dell'integrità fisica della terra, dell'acqua e dell'aria. Significa disinquinare e smaltire i rifiuti senza produrre ulteriore inquinamento, ma significa in primo luogo produrre meno inquinamento, meno rifiuti. Significa sottrarre meno terreno possibile al ciclo naturale, asfaltare e cementificare nella più stretta misura possibile, occupando prima degli altri (se impermeabilizzare nuovi terreni é davvero indispensabile), i suoli già sottratti al ciclo biologico. Significa progettare la città in modo da risparmiare energia e ridurre l'impatto delle costruzioni sul clima, e quello del trasporto sulla produzione di aeriformi nocivi. Significa perciò anche più tram e meno automobili, ma significa in primo luogo progettare città dove l'energia (e il tempo) necessari per i percorsi casa-lavoro, casa-servizi, servizi-lavoro siano i minori possibili.
Qualità sociale. Significa certo, in primo luogo, una città che funzioni. Una città nella quali i luoghi in cui il cittadino deve recarsi (per lavorare e per riposarsi, per curarsi e per educarsi, per nascere e per morire, per comprare e per vendere, per incontrare altri o per meditare da solo) siano riconoscibili, piacevoli, raggiungibili con il minimo dispendio di tempo e di energia.
Significa una città che funzioni per tutti: una città al cui interno non ci sono barriere, e quelle che ci sono siano facilmente superabili dai forti e dai deboli: penso, più che alle "barriere architettoniche", a quelle barriere invisibili costituite dalla selezione sociale a sua volta determinata dai prezzi delle case. Significa perciò anche una città nella quale le qualità e i luoghi d'attrazione (i grandi servizi urbani, il terziario, gli spettacoli) non siano tutti localizzati nel centro della città, ma siano adoperati come elementi di riqualificazione e di vitalizzazione delle periferie e facciano di queste non le parti subalterne e marginali della città, il "rovescio" del centro, ma parti dotate delle stesse qualità e degli stessi diritti.
Significa una città nella quale le infrastrutture per il trasporto siano organizzate per il cittadino e non per l'automobilista. In cui sia realizzato quell'obiettivo che il Libro verde sull'ambiente urbano della Cee proponeva: "rendere l'automobile un'opzione, non una necessità". In cui il trasporto pubblico abbia la priorità assoluta degli impegni, degli investimenti, degli spazi urbani. In cui i parcheggi non siano collocati nei luoghi centrali (o addirittura nei centri storici o ai loro margini), ma nei punti di scambio periferici dove si può lasciare l'automobile e prendere il tram o la metropolitana. Una città, un sistema urbano in cui i diversi vettori del trasporto pubblico (i treni, la metropolitana, i tram e gli autobus, l'aereo, le navi e i traghetti) non siano progettati e gestiti come entità separate, ma come elementi d'un unico sistema: al servizio del cittadino, non dell'azienda.
A ben vedere, una città dotata di qualità urbana é una città dotata di qualità ambientale. I requisiti necessari per costruire la "città sostenibile" sono ben più che la base di partenza per conquistare la "città sociale": ne costituiscono parte sostanziale. La "città sostenibile" é già, in una misura ampia, anche la "città sociale".
Le procedure: chiarezza, responsabilità trasparenza,
Le procedure di formazione di un qualsiasi atto esprimono il modo in cui le diverse volontà, i diversi poteri coinvolti in quell'atto concorrono a formarlo. Gli atti della pianificazione esprimono (dovrebbero esprimere) la volontà d'un unico potere: la collettività, l'insieme dei cittadini. Nel nostro regime la volontà dei cittadini é espressa nelle forme della democrazia parlamentare, fissate dalla costituzione repubblicana. E' a quelle forme, é agli istituti che esse configurano che occorre quindi riferirsi: in particolare, agli istituti a rappresentatività generale e territoriale, cioè al Comune, alla Provincia o alla Città metropolitana, alla Regione, allo Stato. Oggi i rapporti tra questi istituti (tra questi livelli di governo) sono caratterizzati dalla confusione e dall'incertezza, dalla deresponsabilizzazione e dalla prepotenza. I giuristi dicevano che gli atti di pianificazione sono atti amministrativi complessi: in realtà sono diventati, a causa del sovrapporsi caotico di leggi, decreti, regolamenti e comportamenti, soltanto atti complicati. Occorre riordinare profondamente la materia, ispirandosi a pochi princìpi chiave.
Occorre stabilire in primo luogo quali sono gli oggetti e gli aspetti di competenza di ciascun livello di governo. L'ipotesi più convincente é che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o metropolitano, comunale) la determinazione prima (propositiva) e ultima (decisionale) circa quegli elementi e aspetti della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello.
Per dirlo in termini formalmente più corretti, si tratta di assumere come criterio quello per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le funzioni relative ad aspetti che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste. Si tratta, in sostanza, di quello che la Cee definisce "principio della sussidiarietà".
Una volta stabilite quali sono le competenze di ciascun livello, diventa poi agevole stabilire procedure che consentano precisa attribuzione di responsabilità, concorso di ogni livello sulle decisioni di competenza degli altri, tempestività e anzi automaticità dei tempi. Alcuni di noi stanno lavorando da molti anni a proposte che possano risolvere in modo soddisfacente il problema. Questo convegno potrà essere l'occasione per verificare se il lavoro merita di essere proseguito, e portato a una conclusione politica.
La chiarezza delle responsabilità e delle competenze aiuta poi a risolvere l'altro grande problema: quello di render chiare ed esplicite al cittadino le scelte, le loro motivazioni e conseguenze, le responsabilità circa la loro formazione e la loro attuazione. Si tratta del grande problema della trasparenza. Parlo di problema, perché mi sembra che ancora non sappiamo bene che cosa bisogna intendere con questo termine, e soprattutto in che modo dobbiamo attrezzarci per raggiungerlo. Non basta cambiar nome all'Ufficio reclami o all'Ufficio informazioni. Occorre un'operazione più complessa, che forse esige specifiche e nuove professionalità, modi nuovi di elaborare i media: non come semplificazione spesso distorcente, ma come compiuta interfaccia degli atti tecnici, amministrativi e legislativi, per loro natura complessi e perciò stesso poco comprensibili a chi non abbia le conoscenze necessarie.
Gli strumenti: competenze, strutture, partecipazione
Sappiamo ormai da tempo che la pianificazione, se deve servire davvero a costruire una città migliore, non può essere un'attività episodica. Essa é un modo di governare le trasformazioni territoriali da parte della pubblica amministrazione: un modo nuovo, profondamente diverso da quello tradizionale. Ma se é così, allora certamente la questione che viene prepotentemente in campo é la necessità assoluta e urgente che la pubblica amministrazione, a tutti i livelli, si attrezzi per divenir capace di assumere davvero il metodo della pianificazione quale suo generale criterio di condotta.
E' finito, deve essere finito il tempo in cui la pianificazione si riduceva ad affidare a un'équipe tecnica estranea alla pubblica amministrazione il compito di redigere il piano, poi consegnandolo infiocchettato al Sindaco o al Presidente. E' esperienza comune di tutti i paesi realmente "moderni" dell'Europa, e anche delle regioni italiane dove la cultura della pianificazione non é una parola vuota: si può governare il territorio in modo efficace, conforme agli obiettivi politici e culturali che la collettività si pone, solo là dove l'amministrazione pubblica é dotata di strutture efficienti, autorevoli, competenti, capaci di richiedere e di utilizzare competenze esterne senza delegare ad esse la propria responsabilità.
In questa direzione c'é moltissima strada ancora da compiere nel nostro paese. Per percorrerla fino in fondo c'é da risolvere una questione di non piccolo momento: é quella del rapporto tra responsabilità del politico, dell'amministratore, e responsabilità del tecnico, del funzionario comunale o provinciale o statale che sia. E' un aspetto del problema, cui prima ho accennato, del rapporto tra urbanistica e politica: ma é un aspetto che rinvia a sua volta a questioni ancor più generali, che riguardano la distinzione (e l'intreccio) tra le sfere della politica, delle istituzioni, della società. Sembra a me che un modo di concepire la pianificazione, distinguendo in essa le parti, e le scelte, che hanno un maggior carattere di "tecnicità" o di "oggettività" da quelle che rivestono una più marcata rilevanza "sociale" o "politica" (come alcuni di noi da qualche tempo si sforzano di proporre) possa aiutare in questa direzione.
C'é moltissima strada da compiere, soprattutto in alcune aree. Penso in particolare alle strutture degli enti locali, che mi sembrano, nelle zone più "felici" del paese, in uno stato di profonda e regressiva demotivazione, e nelle altre zone praticamente inesistenti. E penso in particolare al Mezzogiorno, dove paradossalmente l'intervento straordinario sembra aver spento del tutto - anziché stimolare e sorreggere - la possibilità di costruire gli strumenti di un'azione ordinaria per il governo del territorio. Peggio ancora, ha contribuito a ridurre il ruolo del potere pubblico a quello, più che di mediatore, di complice e socio di gruppi d'interessi privati, spesso malavitosi.
Questo é davvero l'obioettivo e l'impegno centrale: la ricostruzione (e, spesso, la costruzione ex novo) di una burocrazia pubblica autorevole ed efficiente, a tutti i livelli ma soprattutto e in primo luogo a livello degli enti local. Si tratta davvero di un'impresa politica così ardua da far tremare le vene e i polsi a chi voglia impegnarvisi. Ma senza affrontare e risolvere con risolutezza questo problema é impensabile che il nostro paese possa effettivamente "modernizzare" la propria vita sociale e la propria struttura economica, che possa tenersi al passo con quelli che guidano la costruzione dell'Europa. Ed é altrettanto impensabile (concordo pienamente con le posizioni espresse in più occasioni da Sabino Cassese) che si possa davvero sconfiggere la corruzione politica, che é indubbiamente alimentata anche dalle disfunzioni e dalle sregolatezze dell'amministrazione pubblica.
La responsabilità del futuro
Per accontentare questa o quest'altra categoria di cittadini (i pensionati o i farmacisti, i metalmeccanici o i pacifisti, gli imprenditori o i risparmiatori, i cacciatori o i commercianti) possono bastare impegni politici congiunturali, o al più di medio periodo. Per affrontare in modo non effimero la questione urbana é indispensabile un impegno di lunga lna: é necessario saper guardare a un futuro che si prolunga molto al di là del mandato elettorale.
Questa é probabilmente la ragione per cui l'urbanistica, in Italia, ha avuto la fortuna dell'attenzione solo nei grandi momenti di progettualità politica: solo quando la politica era essa stessa proiettata verso il futuro - e verso un futuro di cambiamento radicale, nutrito da una critica impietosa della situazione data. E questa é anche (e per converso) la ragione per cui l'urbanistica é stata gettata alle ortiche quando hanno prevalso l'opportunismo, la rincorsa dell'emergenza, la ricerca del potere per il potere, l'indifferenza ai contenuti e ai discrimini tra le posizioni. Quando insomma la forza vincente é stata costituita dal connubio tra doroteismo (non solo democristiano) e rampantismo pseudo modernizzante (non solo socialista).
Oggi, però, siamo chiaramente a un bivio. O la politica - la politica della sinistra - ha la forza di superare i modi della politica dell'ultimo ventennio, e insomma ha la capacità indicare un futuro convincente e credibile nel quale tutti i cittadini possano riconoscersi e per il quale possano lavorare e sperare, e allora essa stessa ha un futuro, una prospettiva. Oppure, se ciò non accadrà, allora sarà inevitabile la vittoria di quelle forze disgregatrici che si alimentano, lusingandole, della miriade di insoddisfazioni, frustrazioni, mortificazioni che la nostra disordinata società, e i suoi obsoleti ma ancora irremovibili reggitori, producono a getto continuo.
Come poche altre questioni, quella urbanistica offre alla politica l'occasione di costruire un progetto e un programma per il futuro. Sta alla politica coglierla, smettendo di oscillare tra delega ai tecnici e indifferenza per le loro ragioni.
Possibilita e condizioni di un nuovo assetto della residenza
di Edoardo Salzano
Da La Rivista Trimestrale. Storia, economia, politica, letteratura, diretta da Franco Rodano e Claudio Napoleoni, dita da Paolo Boringhieri, n. 15-16, settembre - dicembre 1965, pp. 572-605
Se non ci si lascia ingannare dalle molteplici sfumature, dalle coloriture particolari, dalle diverse sfaccettature nelle quali si riflette l'intricata sedimentazione di opinioni, esigenze, ideologie, interessi, tradizioni e consuetudini, situazioni storiche e sociali, che si aggroviglia attorno alla questione della casa, e se ci si studia invece di distinguere - al di sotto di un simile variegato intreccio - quali siano le posizioni di fondo relative a tale questione, ci si accorge facilmente che esse, in ultima analisi, sono riconducibili a due soltanto.
Da un lato, infatti, v'è quella che potremmo definire “concezione individualistica della casa”; la concezione cioè, ancestrale, tradizionale e oggi divenuta dominante, per cui si considera la casa come un qualsiasi bene di consumo fruibile individualmente: nel caso specifico, come il luogo entro il quale l'individuo - con la sua famiglia - esaurisce tutte le sue esigenze relative all'abitare, nella più assoluta indifferenza per quanto avviene al di là dell'uscio.
Dall'altro lato si va affermando una posizione - certamente diversa dalla prima, sebbene non ancora esplicitamente antitetica rispetto a essa -nel cui ambito la casa, pur definita ancora in modo approssimativo e generico come un “servizio sociale”, viene comunque concepita, in sostanza, come uno dei vari momenti della residenza (l'alloggio, la scuola, il parco, la chiesa, l'ospedale, il negozio, la biblioteca, la strada) intrinsecamente legato agli altri: strettamente e organicamente integrato, in particolare, a quei momenti della residenza, a quegli elementi dell'habitat, che costituiscono da sempre il luogo delle esigenze soddisfacibili mediante un consumo comune, e che gli urbanisti non a caso definiscono “attrezzature collettive”.
La casa come isola, come luogo di abitazione esclusivizzato e chiuso secondo le esigenze dell'individuo e della sua famiglia; la casa, invece, come elemento - uno degli elementi - dell'habitat civile, come cellula elementare e organica della struttura urbana, come parte della città: queste sono dunque, nel loro nocciolo, le due fondamentali posizioni in merito alla concezione della casa; questi sono i due modi, tendenzialmente cotrapposti, di concepire la casa dell'uomo e, conseguentemente, di analizzare i suoi problemi e di configurare le possibili soluzioni. Ma - vogliamo domandareí ora - quali sono, se non le origini, le più immediate radici storiche e culturali dell'una e dell'altra posizione? A quali eredità esse si riallacciano, di quale patrimonio ideale costituiscono il prolungamento?
È chiaro che una risposta esauriente a un simile interrogativo pretenderebbe uno studio assai ampio, che non può essere compiutamente affrontato nello spazio di queste note; tuttavia, basandoci anche sui risultati di una ricerca sulla città che abbiamo svolto nei precedenti fascicoli di questa rivista, ci proveremo a dare almeno un inizio di risposta.
Per quanto riguarda la prima delle due concezioni sopra enunciate, si può intanto osservare che la casa è sempre stata vissuta individualisticamente dall'uomo; e non a caso abbiamo già affermato che la concezione individualistica della casa è quella ancestrale, poiché essa affonda certamente le sue radici nel più oscuro e remoto passato della storia del genere umano.
Tuttavia, come vedremo meglio in seguito, una simile concezione è esplosa, fino a ridurre interamente a se medesima tutto l'habitat, nel momento del trionfo della borghesia; in essa infatti si riflette e si esprime pienamente - sul terreno specifico della questione della casa - quell'índividualismo prevaricatore, aggressivamente proteso a informare di sé l'intera realtà sociale, che costituisce una caratteristica peculiare dell'ideologia e della stessa figura sociale del borghese.
Per quest'ultimo invero, mentre l'unica dimensione in qualche modo comune è quella, oggettivamente e strumentalmente “sociale”, della produzione, l'intera vita personale e familiare - la vita degli affetti, delle consuetudini quotidiane, delle attività disinteressate, delle necessità dei consumi - si risolve tutta sotto il segno del privatismo e dell'individualismo connaturato allo spirito borghese.
Certo, sul piano storico un simile individualismo ha dovuto trovare, nel periodo della nascita e della prima affermazione della classe borghese, il suo limite e il suo condizionamento nella promozione di determinati interessi comuni; ed è appunto per questa necessità - in concreto per le esigenze politiche e militari della lotta contro il signore[1] - che la borghesia, nel suo autonomo affermarsi, mentre è stata intrinsecamente condotta a determinare il sempre più largo e irreversibile passaggio dell'insediamento umano dalla forma dispersa a quella forma concentrata che è la sola omogenea al carattere “sociale” del capitale, e mentre quindi ha dato materialmente vita al trionfo della città, ha potuto poi conferire a quest'ultima una forma autonoma unicamente perché (e solo nella misura in cui) è stata costretta a configurarla come il luogo della comunità in quanto tale.
E però - come abbiamo ampiamente argomentato nella nostra precedente ricerca - quando quelle esigenze politiche e militari sono venute a cessare, l'individualismo peculiare alla borghesia ha ripreso il sopravvento e ha continuamente teso a negare e a contraddire quella dimensione del consumo comune che è necessaria alla pienezza della città. Così quest'ultima, nonostante i tentativi di recuperare almeno parzialmente taluni elementi di quella sua dimensione comune, è stata sempre più sospinta verso la dissoluzione della sua forma, verso la sua trasformazione appunto in un aggregato informe - solo estrinsecamente e sempre parzialmente ordinabile - di particelle proprietarie e di privati edifici, e non ha potuto comunque conseguire alcun dispiegato sviluppo; così, parallelamente, la residenza si è sempre più risolta in un insieme di individuali dimore, cui le residue “attrezzature comuni” non erano più capaci di conferire alcun organico legame, alcuna autonoma forma.
Una conclusione si può dunque trarre da tutto ciò: l'ancestrale concezione individualistica della casa, esaltata ed esclusivizzata dalla borghesia, è antitetica rispetto a quel processo storico che ha condotto dall'insediamento disperso alla città, e tende anzi a negare la città medesima. E tuttavia, basta guardarsi intorno, basta vedere le nostre città paralizzate e guastate dal privatismo dominante nel mercato delle aree fabbricabili, nei trasporti; nella progettazione, costruzione e uso delle dimore, per rendersi conto che quella concezione è, ancor oggi, la concezione dominante; che quindi è con essa che è necessario fare i conti, per liquidarla.
Ma la concezione individualistica della casa non è l'unica eredità che la storia ci ha tramandato; non è quindi necessario, per liquidarla, ripartire da zero. E in realtà ci sembra che la concezione della casa come “servizio sociale” - nei termini, almeno, in cui l'abbiamo più sopra enunciata - possa costituire il punto di partenza per la ripresa di uno sviluppo organico di quel processo che è giunto a fondare e ad affermare l'insediamento concentrato come città, solo perché l'ha configurato come il luogo di determinati consumi comuni.
D'altra parte la storia della città (come del resto la medesima letteratura urbanistica) ci fornisce una serie di esempi i quali comprovano il fatto che l'esigenza di considerare la casa come un elemento strettamente e intrinsecamente legato ai luoghi del consumo comune, alle “attrezzature collettive”, non sia un'esigenza che nasce oggi, ma sia invece affiorata nei momenti più felici della storia della città, nelle intuizioni più valide e nelle proposte più anticipatrici dei maggiori esponenti della cultura urbanistica.
Si rifletta, ad esempio, sul rapporto tra dimora e luoghi pubblici nella città del medioevo comunale; non è chiaro forse che in questo illustre esempio le case nascono d'un solo getto con gli spazi e gli edifici destinati alle comuni funzioni, alle comuni necessità, ai comuni interessi? Spesso sono le case medesime a costituire, nella loro aggregazione preordinata, la prima e decisiva attrezzatura pubblica: la cinta difensiva. Quasi sempre sono le case, disposte secondo un disegno sapiente e consapevole, a formare gli invasi delle piazze civili e religiose e mercantili: del sistema di spazi, dunque, organicamente connessi e coordinati tra loro, che è il luogo stesso della cittadinanza, il cuore, il fulcro della città. Assai frequentemente, infine, la ripetizione e l'aggregazione di un'unica tipologia edilizia, intimamente correlata al sistema delle strade, delle acque, delle fogne, degli spazi aperti pubblici e privati, costituiscono un unico compatto tessuto che è la forma medesima della città, e che sottolinea e commenta - come un coro armonioso - gli edifici singolari e dominanti della cattedrale o del palazzo civico.
Si rifletta, ancora, alle intuizioni contenute nelle proposte di alcune tra le piú singolari e significative personalità della cultura urbanistica: agli utopisti “classici”, ad esempio, e a Le Corbusier [2]. Nella concezione dei primi come negli esperimenti del secondo (nei “parallelogrammi” di Owen, nei “Falansteri” e nei “Familisteri” di Fourier e di Godin, nelle unitées d'habitation di Le Corbusier), è un unico complesso, formalmente e funzionalmente definito, che raccoglie tutti i locali, gli edifici e gli spazi adibiti alle varie esigenze della residenza; e gli stessi alloggi, gli ambienti nei quali si svolge il momento privato della vita familiare, altro non costituiscono (se ci è consentito capovolgere una nota espressione lecorbusieriana) che gli organici “prolungamenti delle attrezzature comuni”.
Qual'è allora il motivo per cui, nel corso del processo storico, è la prima concezione, quella individualistica, che ha finito per prevalere, mentre non si è potuto proseguire e sviluppare adeguatamente l'esperienza della città medioevale, e le stesse intuizioni dell'urbanistica moderna sono rimaste sostanzialmente congelate nel limbo dell'utopia? Abbiamo già tentato di fornire, nei nostri precedenti scritti sulla città, una prima risposta a questa domanda; vogliamo provarci adesso ad aggiungere qualche altra considerazione, che interessa in modo specifico la questione della casa e che ci consentirà - cosí almeno speriamo - di proseguire e approfondire l'analisi intorno ad alcuni temi centrali della nostra ricerca.
C'è un punto soprattutto che ci sembra necessario sottolineare e argomentare. Sviluppare in maniera veramente adeguata quel processo che ha condotto alla nascita della città, concretare in modo generalizzato le anticipazioni dei padri dell'urbanistica moderna, avrebbe comportato - e tuttora comporta - una decisa rottura, un vero e proprio salto qualitativo, proprio sul terreno della fruizione della casa; una rottura e un salto di cui ci sembra che mai, fino a oggi, la cultura urbanistica abbia compreso con sufficiente chiarezza l'entità e le conseguenze.
Per chiarire e argomentare questa nostra tesi, prenderemo le mosse dall'esempio cui ci siamo più sopra riferiti: quello della città medioevale. Com'era risolto, entro quest'ultima, il rapporto tra la casa e la città? Qual'era il motivo per cui tra l'una e l'altra non esisteva una contrapposizione, una negazione reciproca e una prevaricazione secca dell'una sull'altra (come dobbiamo invece ai giorni nostri riscontrare e patire), e si manifestava invece una integrazione feconda e carica di virtualità estetica?
Nella città del medioevo la casa era certamente, come è tuttora, il luogo dell'individualismo. In essa si svolgeva difatti la vita di una famiglia nella quale la stessa dimensione economica ribadiva e consolidava quel chiuso particolarismo che ha sempre contrassegnato la forma storica dell'istituto familiare. Non solo il momento del consumo (di tutto il consumo economicamente riconosciuto come tale) veniva organizzato e fruito nell'ambito della famiglia e della casa; anche il momento della produzione - il quale certo sempre più veniva a espandersi, a crescere, a travalicare dalle mura domestiche e ad acquistare una sua autonomia dalla famiglia - restava comunque ancora amministrato da quest'ultima, in una sostanziale indistinzione tra capitale e patrimonio, mentre una quota della produzione (quella più direttamente ordinata agli immediati consumi familiari) rimaneva d'altra parte anche gestita e materialmente prodotta entro le mura domestiche.
Perché allora, se la casa era il luogo di un individualismo familiare ancora solidamente radicato in tutti gli aspetti dell'attività economica del cittadino, essa non distruggeva e divorava la città, non la riduceva a un mero insediamento concentrato, ma poteva trovare anzi nella città un ordine, un'íntegrazione, una forma, un superiore livello d'organizzazione? Ciò poteva accadere unicamente perché, in quella determinata epoca storica, erano le ragioni della comunità, della società civile e politica - e quindi della città - a dominare e a prevalere su quelle individuali, familiari, e dunque su quelle medesime della casa.
In altri termini, poiché tutto l'edificio sociale era ancora sostanzialmente dominato da quei criteri di massima coazione sociale e politica che erano peculiari all'ordinamento signorile, e poiché quindi lo stesso individualismo del nascente borghese doveva trovare il suo necessario sostegno - ma perciò anche il suo limite e il suo condizionamento - nelle leggi e negli istituti del “comune”, sul piano della residenza, allora, l'individualismo della casa veniva necessariamente a subordinarsi, a comporsi, a piegarsi (e perciò a completarsi) nell'ordine egemonico della città.
Si può allora facilmente comprendere perché, con il dispiegarsi del trionfo borghese, le cose siano mutate in modo così radicale come oggi ci è dato di constatare; perché, insomma, quel sostanziale equilibrio tra la dimensione individualistica della casa e quella comune della città sia stato infranto, e la seconda abbia dovuto rimaner soccombente.
La piena affermazione della classe e dell'ideologia borghese ha comportato la liberazione di ogni soggetto, di ogni produttore, di ogni cittadino, da qualsiasi subordinazione di tipo signorile; essa ha spezzato ogni residuo socialmente rilevante di quei “variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali”. Non solo i cittadini di pieno diritto, i mercanti, i capitalisti, i maestri artigiani, i possidenti; non solo i proprietari delle private dimore urbane, non solo i borghesi erano ormai pienamente liberi: anche i loro servi e garzoni e operai divenivano padroni di se stessi, produttori affrancati (e capaci perciò di esser ridotti a libera e generica forza-lavoro, impiegabile nel processo accumulativo).
Una siffatta liberazione, però, si è svolta e si è conclusa interamente sotto il segno dell'individualismo: né poteva avvenire altrimenti, dato che essa è stata gestita dalla borghesia. E in realtà gli uomini - i servi e gli operai come i borghesi - sono divenuti soggetti di un uguale diritto solo perché sono stati ridotti a individui; perché, in altri termini, solo riducendo ugualmente ogni uomo a individuo era possibile garantire il manifestarsi e il consolidarsi (non solo come fondamentale, ma come unica) di quella fondamentale discriminazione tra proprietari e non proprietari, tra possessori del capitale e possessori della propria forza-lavoro, tra capitalisti e proletari, che è la condizione per lo sviluppo di un'economia incentrata nell'accumulazione e che trova appunto la sua piena codificazione giuridica nella forma borghese del privatismo proprietario. Tutti, dunque, sono divenuti soggetti di un diritto individualistico: e il peso di quest'attributo non è stato davvero lieve sullo sviluppo della società e della città.
Così, e proprio per il carattere individualistico assunto dalla rottura operatasi col trionfo della borghesia, sul piano della residenza il privatismo individuale, che aveva sempre dominato nella vita della famiglia e nella concezione della casa, è stato anch'esso “liberato” dall'ordine della città. Quest'ultima ha perduto la sua originaria capacità ordinatrice, e si è ridotta a essere la mera figura risultante dalla giustapposizione delle particelle proprietarie e dei privati edifici. E la residenza, quindi, si è sempre più racchiusa, ristretta, limitata alla casa, alla privata dimora, mentre le attrezzature, gli spazi e i luoghi e gli edifici della comunità in quanto tale, si sono ridotti a simulacrí di se medesimi e, privati ormai del loro ruolo di centri organizzativi della vita e della forma della città, hanno trovato una collocazione subordinata e casuale su questo o su quell'altro ritaglio della trama proprietaria dell'insediamento[3].
Fragile e precario era dunque l'equilibrio raggiunto tra casa e città nei secoli del medioevo comunale. Esso era infatti il frutto di un compromesso tra le ragioni della comunità e le leggi dell'individualismo; ma poiché queste ultime hanno potuto essere soltanto contenute e imbrigliate, poiché hanno sempre dominato in una parte decisiva della residenza (la casa), poiché insomma non sono state mai definitivamente battute e sconfitte, ecco che sono aggressivamente risorte appena la bufera del trionfo borghese ha soffiato sulle braci assopite - e però mai spente - del particolarismo individuale e privato.
Dalla storia si può quindi trarre un insegnamento ben preciso: per risolvere realmente e definitivamente il rapporto tra casa e città, per concretare un assetto della residenza in cui sia garantita in modo irreversibile la piena integrazione tra i momenti che, fino a oggi, sono sempre rimasti governati dall'individualismo e quelli che possono essere soltanto comuni, è indispensabile compiere proprio quel profondo salto di qualità nella fruizione della casa di cui abbiamo più sopra affermato la necessità.
Questa, ci sembra, è anche la verità sottesa alla formula della “casa come servizio sociale”. Ma si deve convenire allora che una simile formula è inadeguata a esprimere in maniera del tutto esplicita e chiara, fuori da ogni ambigua imprecisione, una concezione della casa realmente nuova e diversa da quella individualistica, e anzi a questa antitetica. Quella formula, ínvero, mentre non pone sufficientemente in luce il fatto che l'alloggio deve essere uno dei momenti della residenza, e che non può pertanto risolvere in se medesimo (come è implicito nella concezione individualistica) tutta la residenza, così d'altra parte non indica, se non allusivamente e indirettamente, qual'è la dimensione nella quale si manifesta l'unità dei diversi aspetti e momenti della residenza, e quindi non riesce a cogliere, in tutta la sua portata, la differenza profonda tra la concezione tradizionale della casa e quella nuova concezione che deve ormai manifestarsi esplicitamente e chiaramente, affermarsi, prevalere.
E' quest'ultimo, riteniamo, un punto di estrema rilevanza, sul quale bisogna tentar di raggiungere la massima chiarezza e consapevolezza possibile. Per conto nostro, siamo del parere che la dimensione, il terreno su cui può essere individuata la differenza di fondo tra la concezione individualistica della casa e la nuova concezione sottesa alla formula della “casa come servizio sociale”, siano costituiti dal consumo.
E difatti, sul terreno del consumo è facile vedere che, mentre nell'ambito della concezione individualistica ogni singolo richiedente si provvede sul mercato dell'oggetto “alloggio” per consumarlo individualisticamente, la nuova concezione comporta invece la necessità di considerare la casa come un elemento del consumo comune: come un bene, cioè, che non può venir fruito dagli uomini in quanto singoli individui, ma solo in quanto membri di una comunità, di una società, di una collettività. Essa comporta quindi, per ciò stesso, anche una struttura del mercato radicalmente diversa da quella attuale: una struttura in cui il consumo comune dia luogo a una committenza anch'essa comune, e quindi a una domanda organizzata che abbia un peso effettivo, una capacità d'incidere nel modo in cui l'offerta viene predisposta e determinata.
Sul piano del consumo si può dunque incominciare a cogliere, con sufficiente esattezza, l'entità del passaggio dall'una all'altra concezione della casa; ma è anche su questo medesimo piano che si può comprendere in modo non ambiguo quale sia il necessario fondamento dell'unità dei vari momenti della residenza. Non è proprio la forma particolaristica del consumo che ha costituito la base per il sopravvivere - e per il prevalere - della concezione individualistica della casa, quando la piena affermazione del capitalismo borghese ha definitivamente distaccato la produzione dall'ambito domestico? E non è stata proprio la contraddizione tra il consumo individualistico della casa e il consumo, necessariamente comune, della città, all'origine della crisi di quest'ultima?
Su tutto ciò, crediamo, ci siamo già soffermati a sufficienza; ma ci sembra allora che se ne possa trarre una conseguenza particolarmente significativa. Se infatti è essenzialmente sul terreno del consumo che è esplosa e si è consumata l'antitesi tra casa e città, è chiaro che è proprio su questo stesso terreno che deve essere fondata l'unità tra i diversi aspetti della residenza; è chiaro, cioè, che il nodo da sciogliere e il fulcro su cui far leva per giungere a un'organica composizione di tutti gli edifici, i luoghi, gli spazi, gli ambienti destinati alla residenza dell'uomo, sono costituiti dal modo in cui viene ordinato il consumo della casa. È su questo piano, è sul piano del consumo della casa, che l'individualismo deve essere combattuto e liquidato, ed è perciò in definitiva necessario, è anzi indispensabíle, che anche la casa, anche l'alloggio, vengano vissuti e fruiti come un momento, un aspetto, una parte del consumo comune della residenza.
Per uscire dalla concezione individualistica della casa, per fondare e affermare pienamente quella nuova concezione che è indispensabile per consentire uno sviluppo della dimensione urbana dell'insediamento umano, è quindi necessario uscire dall'individualismo che ha sempre dominato nel consumo della casa; ma poiché un simile individualismo è legato intrinsecamente (come abbiamo più volte sottolineato) a un determinato modo di concepire e vivere la famiglia, poiché esso trova la sua radice e la sua ragione nel fatto che l'istituto familiare è sempre stato il luogo stesso dell'individualismo e del particolarismo, è chiaro altresì che il dispiegarsi della nuova concezione della casa postula inevitabilmente un nuovo modo di concepire, di organizzare, di vivere la famiglia medesima. Finché infatti la famiglia rimane il luogo nel quale vengono organizzati, gestiti e fruiti i consumi, finché essa rimane un'azienda, un'unità economica in senso tradizionale (e sia pure ordinata soltanto, ormai, all'economia del consumo), essa non può non rimanere come una cellula chiusa e segregata dell'ordinamento sociale, e deve pretendere e sostenere perciò la concezione individualistica della casa come l'unica pienamente omogenea alla sua condizione.
Viceversa, solo se la famiglia sarà liberata dalla gestione domestica del consumo, solo se la sua dimensione privata troverà la propria ragione - e la sede del proprio esplicarsi - essenzialmente nel momento dell'otium, degli affetti, del “vivere insieme” coniugale e familiare, essa potrà sussistere senza prevaricare, potrà svilupparsi senza essere soffocata dal particolarismo, e senza dissolvere nell'individualismo la residenza e la città. L'alloggio, allora, potrà certamente restar configurato e definito come il luogo in cui l'uomo e la sua famiglia vivono una parte della loro residenza, e in cui quindi potranno ancora venir fisicamente fruiti alcuni consumi; ma ciò non sarà più contraddittorio e antitetico rispetto alla necessaria dimensione comune della città (e della società), ma sarà anzi sorretto, garantito, alimentato da una siffatta dimensione.
Così, mentre quei medesimi residui consumi che saranno ancora fisicamente fruiti nell'ambito domestico, saranno però organizzati e gestiti fuori da questo, una quota di consumi incomparabilmente più alta di quella attuale potrà e dovrà essere fruita in modo comune. Non solo i consumi relativi alle esigenze scolastiche, sanitarie, del culto, della ricreazione e così enumerando; non solo i consumi che da decenni oda secoli sono organizzati in modo comune, e che costituiscono la ragione dell'esistenza delle “attrezzature collettive”; non solo i classici consumi comuni, insomma, saranno gestiti in una simile forma, ma anche quegli stessi consumi del vitto, della manutenzione dell'alloggio, della cura degli indumenti, della custodia della prole, che sono stati finora amministrati individualisticamente nell'ambito della casa e della famiglia.
Sicché, in sostanza, quello che è necessario compiere è un deciso e radicale mutamento di prospettiva. Non più la casa e la famiglia come l'istituto e il luogo, tendenzialmente esclusivizzati, dove viene organizzata, gestita e fruita la massima parte possibile dei consumi, e la città come luogo dei complementi, e degli avari prolungamenti, dell'abitazione. Ma, viceversa, la residenza - nel suo insieme - come luogo dell'organizzazione, della gestione e della fruizione di tutto il consumo; e la casa, cellula inscindibile della città, come luogo in cui la famiglia, liberata da ogni supplenza di lavoro sociale, da ogni tradizionale dimensione economica, da ogni negotium, vive il momento della propria vita privata: di quella vita privata - vogliamo sottolinearlo - che ha senso e ragione solo se è un momento della complessiva vita dell'uomo, e se perciò è organicamente legata al momento della vita pubblica e comune.
Il passaggio dalla concezione individualistica della casa a quella nuova concezione che abbiamo tentato di delineare è quindi un passaggio profondo, radicale, realmente rivoluzionario. Esso postula un modo nuovo d'impostare il problema del consumo, e comporta perciò modificazioni profonde nell'assetto della famiglia, e in quello medesimo della società. Ma non è su questi temi che vogliamo ancora soffermarci; quel che invece ora ci interessa di porre in evidenza sono le conseguenze che un simile passaggio può provocare sul piano dell'urbanistica e su quello, altrettanto decisivo, della produzione edilizia.
Già da quanto abbiamo precedentemente affermato è facile comprendere, in tutta la sua estensione, la positività che la concezione della casa come momento del consumo comune della residenza comporta nei riguardi dell'assetto urbanistico. È chiaro infatti che concepire la casa in un simile modo significa rendere esplicite e consapevoli le intuizioni affioranti nella letteratura urbanistica, liberarle dei loro limiti e svilupparle perciò compiutamente; significa rompere quella cesura tra urbanistica ed edilizia, tra città e casa, che si è venuta a determinare con il trionfo della classe borghese e in cui si è manifestata l'alienazíone dell'ordinamento formale della città; significa avere finalmente la possibilità di dare una piena unità funzionale e formale all'habitat, e di costituire insomma un assetto della residenza in cui ogni elemento - dall'alloggio alle tradizionali attrezzature - sia organicamente integrato agli altri, perché ogni elemento esprime un diverso aspetto del medesimo consumo comune.
Una serie di problemi pratici, la cui mancata soluzione ha gravemente pesato sulla qualità e sull'efficienza delle realizzazioni urbanistiche e sulla loro rispondenza all'uso, può trovare finalmente la via di una soluzione.
È il caso, ad esempio, del problema della determinazione degli standards tipologici. Questi, fino a oggi, sono stati fissati in modo necessariamente arbitrario dai progettisti e dagli imprenditori, sulla base delle esigenze - ipotizzate e presunte, o statisticamente mediate - di un generico utente individuale; possono invece, nell'ambito della nuova concezione, esser stabiliti da una committenza pubblica che rappresenti, nel mercato, la realtà del consumo comune, e che esprima per ciò stesso le reali esigenze dell'utenza[4].
È il caso, per riferirci a un altro problema del quale gli urbanisti hanno spessa avvertito la gravità, della gestione della residenza. È evidente che un simile problema non è risolubile fino a quando ogni alloggio è concepito e fruito come un bene esclusivamente individuale (in questo caso, com'è dimostrato dalla prassi della tradizionale gestione condominiale, non si arriva nemmeno a garantire la gestione del caseggiato), mentre la sua soluzione diviene possibile solo quando l'alloggio è vissuto come il “prolungamento” privato di una complessiva struttura residenziale comune: come il luogo, in definitiva, nel quale si esplica il momento individuale e familiare, distinto dal momento pubblico e comune, ma da esso sorretto e con esso pienamente integrato, senza contrapposizioni antitetiche e rigide soluzioni di continuità.
Altrettanto rilevanti, a nostro avviso, sono le conseguenze che la nuova concezione della casa può comportare sul piano della produzione edilizia. Crediamo infatti che non sia difficile dimostrare come la rottura dell'individualismo nella fruizione dell'alloggio - e di conseguenza nella domanda che si manifesta sul mercato - non solo rende possibile, ma anzi sollecita e sostiene uno sviluppo dell'industria edilizia fuori dalle condizioni di arretratezza tecnica ed economica che attualmente, com'è noto, caratterizzano il settore, e che, per il conseguente permanere di un alto livello dei costi e dei prezzi, sono all'origine della cronica carenza di alloggi in amplissime zone del mercato.
Come si è già accennato, concepire la casa come un momento del consumo comune della residenza postula il passaggio da una domanda individuale a una domanda pubblica, o comunque comune, collettiva; ma
è facile vedere allora che questa trasformazione del carattere della domanda porta con sé una serie di garanzie indispensabili per una positiva razionalizzazione del settore.
In primo luogo, infatti, dal momento che l'offerta non si trova più di fronte a una domanda individualistica, e quindi per definizione polverizzata, dispersa, sconosciuta, ma ha invece quale sua controparte una domanda organizzata, e perciò di notevoli dimensioni, economicamente e istituzionalmente concentrata, conoscibile nella sua configurazione e nella specificità deile sue richieste, ecco che divengono finalmente possibili quelle economie di scala che sono alla base di un ammodernamento produttivo del settore.
Ma in secondo luogo, poi, e sempre per la nuova dimensione assunta dalla domanda e per l'ampiezza che ogni singola operazione economica viene ad avere, può essere raggiunta quella specializzazione aziendale, tradizionalmente assai poco sviluppata nell'edilizia, la cui assenza è una delle cause principali della bassa produttività del settore.
In terzo luogo, infine, poiché una domanda del tipo di quella che ci siamo provati a configurare è una. domanda che, a differenza di quella individualistica, non può non comportare una ben precisa programmazione di lungo periodo (e non ci interessa in questa sede discutere degli strumenti tecnici e politici a ciò necessari), ecco che viene posta in essere una ulteriore condizione per una razionalizzazione della produzione edilizia: la sicurezza, cioè, dell'ammortamento dei capitali tecnici aziendali, anche ove questi debbano essere di cospicue dimensioni.
Certo - l'abbiamo ampiamente dichiarato - procedere lungo una linea simile a quella che siamo venuti prospettando postula la soluzione di numerosi problemi di non lieve entità; siamo convinti però, e ci proveremo a dimostrarlo, che muoversi in una direzione diversa non può condurre a una sufficiente soluzione della questione della casa. Ma prima di affrontare questo punto vogliamo soffermarci brevemente su due argomenti strettamente collegati a quelli dei quali ci siamo ora occupati.
La prima osservazione che vogliamo svolgere riguarda un equivoco che può sorgere nell'ambito della posizione della “casa come servizio sociale”. Ci sembra che, in quanti condividono una simile posizione, si manifesti talvolta il convincimento che non sia legittimo considerare la casa come una merce, e che anzi il raggiungimento di una situazione in cui la casa sia effettivamente un “servizio sociale” porterà al superamento del carattere di merce della casa, mentre è proprio un tale carattere - si ritiene - a costituire uno dei più gravi aspetti della negatività della situazione presente.
Per conto nostro, dobbiamo dire che proprio non vediamo perché la residenza (nel suo insieme e nelle parti che la compongono) non debba essere un bene economico come gli altri, come gli altri prodotto a certi costi ed esitato a certi prezzi determinati dal mercato. Il problema, piuttosto, è quello di garantire che il bene “residenza” venga prodotto ai costi più bassi possibili, che di conseguenza nella formazione del prezzo non intervengano rendite di nessun tipo, e che infine, last but not least, le caratteristiche d'uso del bene medesimo vengano stabilite in relazione alle effettive esigenze del consumo.
Ma tutto ciò, evidentemente, non può esser raggiunto finché la casa non viene concepita come un momento del consumo comune: finché essa, in altri termini, è un bene la cui qualità e il cui prezzo vengono determinati sull'unica base degli interessi della produzione, com'è inevitabile che avvenga finché la casa è oggetto di un consumo individualistico. Ed è appunto per questo motivo, crediamo, che i sostenitori della concezione della “casa come servizio sociale”, nella misura in cui non riescono a cogliere la reale dimensione del problema, nella misura cioè in cui non vedono chiaramente nel passaggio dal consumo individualistico a quello comune il nodo cruciale della questione, sono portati a individuare nel carattere di merce della casa l'origine delle distorsioni del mercato che attualmente si manifestano.
La seconda osservazione riguarda il problema delle aree edificabili. La mancata soluzione di tale problema, com'è universalmente noto, concorre ancor oggi in larga misura al sussistere delle carenze, delle disfunzioni, dell'anarchia e dell'inefficienza dominanti nell'assetto urbanistico della residenza. Per quanto concerne in particolare l'aspetto produttivo del settore edilizio va ricordato che l'attuale regime proprietario delle aree comporta almeno due conseguenze assai gravi: in primo luogo, infatti, consentendo alle imprese di percepire quote della rendita fondiaria urbana, esso costituisce una remora oggettiva all'introduzione di innovazioni; in secondo luogo, poi, dal momento che il prezzo delle aree incide in misura assai notevole sul costo dell'alloggio, dal regime privatistica delle aree deriva un ulteriore ostacolo a quell'allargamento del mercato che è anch'esso indispensabile per produrre a costi decrescenti.
Ora, il punto che qui ci interessa di sottolineare è che, mentre da un lato la soluzione pubblicistica del problema delle aree si presenta ovviamente come l'unica omogenea alla nuova concezione della residenza, essa diviene anche - nell'ambito della linea che abbiamo prospettato - economicamente sopportabile dalle imprese edilizie. Queste ultime, infatti, saranno messe in grado di trovare (grazie alla razionalizzazione del processo produttivo consentita dalla nuova configurazione della domanda) un vero e proprio profitto, una remunerazione cioè derivante da un'attività produttiva e non da una partecipazione parassitaria al privilegio speculativo, e perciò nessuna crisi deriverà dal fatto di costringerle a rinunciare alle rendite loro consentite dall'appropriazione privatistica delle aree urbane.
Sul piano dell'urbanistica come su quello dell'edilizia, nell'aspetto del consumo come in quello della produzione, per i problemi della città e dell'habitat come per quelli del mercato degli alloggi, la concezione della “casa come servizio sociale” si presenta dunque - ove naturalmente venga progressivamente liberata dalla sua ambiguità, compresa fino in fondo nella verità che le è sottesa e sviluppata fino alle sue logiche conseguenze - come lo storico punto di partenza. per una linea effettivamente risolutrice. E però, vogliamo ora chiederci, discende forse da tutto quel che si è detto fin qui l'oggettiva necessità del trionfo della concezione della casa come momento del consumo comune della residenza? È questa concezione; in altri termini, così immediatamente superiore in ogni suo aspetto alla posizione antitetica, da legittimare l'ipotesi che non sia possibile opporle che le resistenze del passato, le remore della cecità e dell'incomprensione, le manovre rítardatrící di interessi particolari e minoritari - come tali inevitabilmente destinati alla sconfitta?
In realtà a noi sembra che, se la nuova concezione della casa fosse l'unica a poter garantire ciascuno dei risultati su cui ci siamo prima soffermati, se - in particolare - soltanto sulla sua base fosse possibile superare la “fame di case” e l'arretratezza produttiva dell'edilízia (i due aspetti più immediati e vistosi, dunque, dell'attuale questione della casa), quella concezione avrebbe una indiscutibile forza oggettiva, e facile, quasi inevitabile, sarebbe di conseguenza il suo trionfo. Ma siamo ugualmente convinti - e cercheremo di dimostrarlo - che anche nell'ambito della concezione individualistica della casa è consentito di eliminare almeno quelle due particolari e immediate carenze cui abbiamo ora accennato, e la cui presenza indubbiamente conferisce oggi alla questione della casa un massimo di drammaticità, di tensione, e quindi di evidenza politica e di presa sociale.
Come subito vedremo, una siffatta eliminazione di due rilevanti aspetti del problema non si configura certo come una reale soluzione: essa, in altri termini, mentre avviene necessariamente con tempi assai lunghi, comporta poi soprattutto costi economici, sociali e umani assai elevati. Ciò nonostante, essa è comunque tale da conferire alla concezione individualistica della casa una oggettiva capacità di resistenza, una potenzialità di lotta e di reazione non priva di una sua robustezza; il che rende evidentemente indispensabile l'individuazione di un quadro politico entro il quale la linea individualistica possa esser battuta, e la nuova concezione della casa possa trovare il sostegno, le alleanze, le condizioni oggettive per una sua piena affermazione.
Per illustrare e argomentare la tesi che abbiamo ora enunciato (o, se si vuole adoperare una terminologia più à la page, per “verificare l'ipotesi” che abbiamo formulato) dovremo esaminare la configurazione che assume la questione della casa nell'ambito di quel processo evolutivo del sistema sociale che caratterizza il nostro tempo, e che su queste pagine - come del resto oramai in gran parte dell'attuale pubblicistica - viene definito processo opulento.
Non ci interessa evidentemente, ai fini del particolare problema di cui ci stiamo ora occupando, ricordare le cause, le caratteristiche, le prospettive di un simile processo, sulle quali ci si -è d altronde largamente soffermati nei precedenti fascicoli di questa rivista. Quel che invece ci preme e ci serve qui di sottolineare è che una delle connotazioni essenziali del processo opulento è costituita dal fatto che in esso si manifestano una centralità sempre più decisiva e un allargamento sempre più cospicuo - e tendenzialmente indefinito - del consumo. Quest'ultimo poi - il consumo opulento - mentre da un lato si risolve nella fruizione individuale e chiusamente particolaristica dei beni, è dall'altro lato contrassegnato dall'essere, per principio, consumo di tutti i produttori, di tutti i cittadini; esso è dunque, in definitiva, un consumo individualistico di massa[5].
Due conseguenze discendono allora, per quanto riguarda la questione della casa, dalle caratteristiche del processo evolutivo in atto nel sistema sociale. Innanzitutto è chiaro che l'unica concezione della casa pienamente omogenea all'opulenza è quella individualistica; e non ci sembra di doverci ancora soffermare su questo punto, dal momento che abbiamo de finito una simile concezione proprio sulla base del fatto che nel suo ambito si considera la casa come un qualsiasi bene destinato a un consumo individualistico.
Questa prima osservazione ci permette di cominciare a vedere che la posizione individualistica ha senza dubbio alcune robuste carte politiche: quelle, esattamente, proprie a ogni posizione che possa trovare la sua affermazione semplicemente nel perdurare del trend, nel proseguire del processo evolutivo in atto. Essa, però, non ci consente ancora di dimostrare - ciò che appunto intendevamo fare - come rimanendo entro la concezione individualistica della casa sia possibile eliminare quei due particolari aspetti della questione delle abitazioni cui abbiamo più sopra accennato. Per sviluppare questo secondo punto, dovremo esaminare quali siano le conseguenze comportate, nei confronti del problema del deficit di alloggi e di quello dell'arretratezza produttiva, dalla dimensione di massa peculiare al consumo opulento, e dal generale e indefinito allargarsi di quest'ultimo.
Un fatto ci sembra abbastanza facilmente e chiaramente dimostrabile. Un processo caratterizzato -- com'è quello opulento - dall'ampliamento generalizzato del consumo, tende a ridurre e, al limite, a eliminare sia la carenza quantitativa di alloggi sia l'arretratezza tecnica del settore dell'edilizia.
È noto - e vi abbiamo d'altronde già accennato - che una delle più gravi strozzature presenti nel mercato edilizio è stata fino a oggi costituita dal fatto che a tale mercato possono effettivamente accedere solo quei potenziali consumatori che, appartenendo alle fasce più elevate della stratificazione dei redditi, sono in grado di pagare (in termini di acquisto o di affitto) gli alti prezzi che attualmente caratterizzano il mercato edilizio. Questi, però, sono restati a un livello relativamente elevato anche perché il limitato volume della domanda ha giocato nel senso di ostacolare fortemente la razionalizzazione produttiva, e di impedire conseguentemente una decisa riduzione dei costi di produzione.
Deficit di alloggi per una larga porzione dei cittadini e arretratezza produttiva sono dunque in sostanza, se non le due facce d'una medesima medaglia, certo due aspetti strettamente íntrecciati dello stesso problema. Ora ci sembra che quella caratteristica del processo opulento, che abbiamo più sopra sottolineato, incida proprio sull'anello di congiunzione tra tali due aspetti, investendoli perciò contemporaneamente.
E infatti, a mano a mano che lo sviluppo opulento procede, si accrescono di conseguenza le capacità individuali di consumo e aumenta, parallelamente, il numero di soggetti che dispongono di redditi tali da poterne impiegare una quota nell'acquisto di una casa; si allarga perciò, sul mercato degli alloggi, la domanda effettiva. Un simile ampliamento della domanda, mentre evidentemente significa che una maggiore aliquota di cittadini entra in possesso di un alloggio - ed è appunto per questo motivo che il processo dell'opulenza tende a “sgonfiare” il problema della “fame di alloggi” -, comporta poi, evidentemente, la possibilità di organizzare la produzione in vista di un mercato più largo, e di introdurre perciò nel settore edilizio quelle innovazioni tecnologiche che sono state fino a ieri impensabili anche a causa - appunto - dell'asfitticità del mercato.
Si deve allora convenire che, nel corso stesso del processo opulento, e della graduale eliminazione del deficit di alloggi e dell'arretratezza produttiva dell'edilizia, vengono a essere profondamente mutati i termini politicosociali del problema della residenza.
Prima, infatti, un simile problema (il problema della cesura tra casa e città, della mortificazione della dimensione urbana dell'insediamento umano, della mancata integrazione di tutti i momenti e gli elementi dell'habitat, e di tutte le varie carenze quantitative presenti nell'assetto della residenza) si presentava e si configurava essenzialmente come una realtà unitaria, nel senso appunto che tutti gli aspetti rivelavano, con diversa evidenza, insufficienze profonde. Gli aspetti più largamente urbanistici del problema, in particolare, restavano strettamente intrecciati a quegli aspetti più immediati, elementari e perciò diffusamente avvertibili, i quali, poiché appunto davano luogo alla profonda e generale insoddisfazione di tutti gli esclusi dalla disponibilità della casa, conferivano per ciò stesso alla questione della residenza una tensione sociale, una carica, una capacità di presa e di mordente che rendevano tale questione, nel suo insieme, un vistoso problema politico.
In altri termini, finché il consumo individualistico di massa non diviene la realtà dominante, e finché quindi non è consentito - nell'ambito della concezione individualistica - di incidere sui più cocenti aspetti quantitativi del problema della casa, la spontanea protesta che nasce dalla scarsità sociale di alloggi può essere indirizzata lungo l'unica linea che può realmente risolverla: verso un fine cioè (quello della soluzione del problema della residenza) il quale, se consente di rimuovere la causa immediata che originava e alimentava quella protesta, la trascende, però, e la risolve a un superiore livello.
Ora, invece, con il procedere dello sviluppo opulento, mentre il complessivo problema della residenza non trova certamente la sua soluzione - e viene anzi aggravato -, vengono comunque via via a essere ridotte, e tendenzialmente eliminate, proprio quelle carenze, quelle strozzature e insufficienze del mercato degli alloggi, che hanno tradizionalmente caratterízzato il problema della casa, e che hanno consentito allo stesso problema della residenza di porsi come una realtà emergente sul piano sociale e politico.
Il processo opulento, nel suo progressivo realizzarsi, non limita quindi la sua azione soltanto all'eliminazione di determinati aspetti della questione della casa; nel corso e nel corpo di questa medesima operazione esso viene via via a sottrarre, a qualsiasi posizione sulla residenza differente da quella individualistica, alcuni sostanziali - e fino a oggi decisivi - strumenti di sollecitazione sociale. Né vale obiettare, a una simile considerazione, che l'eliminazione sotto segno opulento della “fame di case” e dell'arretratezza economica del settore edilizio avverranno - come ci sembra índubitabile - in una prospettiva assai lunga, e comportando comunque costi notevolmente elevati, poiché questo non muta i termini sostanziali della questione.
Certo, si deve evidentemente convenire sul fatto che, nell'ambito del processo opulento, la razionalizzazione produttiva è affidata, in modo pressoché totale e comunque prevalente, alla mera spontaneità delle forze economico-sociali in gioco, e che perciò essa procede con tempi estremamente lunghi e deve lasciar scoperte amplissime zone del territorio: tutte quelle, precisamente, in cui l'assenza di un'adeguata concentrazione “fisica” di possibili consumatori impedisce il formarsi di un mercato sufficientemente ampio, e in cui di conseguenza la “soluzione” opulenta coinciderà con l'abbandono, o con la graduale emarginazione.
Così, ugualmente, non è possibile contestare che uno sviluppo della razionalizzazione qual'è quello consentito dal processo opulento trova il suo equilibrio a un livello di prezzi relativamente elevato. Ciò non solo perché nell'ambíto della linea opulenta e individualistica la questione delle aree edificabili non ha alcun motivo di emergere in tutta la sua indifferíbilità e la sua importanza (ed è anzi tranquillamente procrastinabile ed eludibile), e perché quindi la rendita fondiaria urbana continua a concorrere in una misura più o meno rilevante alla formazione del prezzo; né solo perché è facilmente ipotizzabile il costituirsi di rendite di monopolio, favorite dalla particolare natura, “a compartimenti chiusi”, del mercato dell'edilizia; ma anche ed essenzialmente perché, proprio a causa della lentezza (e in definitiva della parzialità) che caratterizza il tipo di razionalizzazione di cui ci stiamo occupando, può ritenersi inevitabile il sopravvivere, per un periodo assai lungo e comunque indefinito, di larghe aliquote di aziende marginali, le quali, producendo a costi elevati, consentiranno alle aziende ammodernate di conseguire prezzi più alti di quelli comportati dai loro costi.
E però, in definitiva, a che cosa si riducono questi inconvenienti della razionalizzazione opulentistica se non a ritardi, a sprechi e, politicamente e socialmente, ad attriti? Non v'è dubbio: i maggiori costi pretesi dalla soluzione individualistica e opulenta del problema della casa, rispetto a quelli consentiti dall'affermarsi della nuova concezione della residenza, saranno evidentemente pagati da qualcuno; essi saranno pagati, nel concreto, da tutti quei ceti e quelle categorie (e quei popoli e quei continenti) che sono oggi marginali o esclusi dal processo opulento, e che per anni o per lustri o per decenni dovranno restare in attesa, nell'inferno della miseria e della disperazione. Su queste zone del tessuto sociale si potrà certamente far leva, e si potrà utilizzare così, per la soluzione del problema della residenza, questa quota residua della generale carica di protesta che scaturiva dalla questione della casa; si potrà ancora giocare, insomma, sulle inevitabili contraddizioni - e soprattutto sui ritardi - che il processo opulento incontrerà nella sua strada verso l'eliminazione della “fame di alloggi”.
Ma tutto ciò non potrà durare all'infinito. A mano a mano che lo sviluppo opulento compirà il suo cammino, a mano a mano che esso consumerà i propri attriti, i propri ritardi - e che sacrificherà le innumerevoli e inevitabili sue vittime -, la “zona della immediata protesta” verrà a ridursi sempre di più, fino a scomparire del tutto. Ed è chiaro, allora, che se si vuole effettivamente affrontare e risolvere il problema della residenza (così come del resto quello della casa, ma in modo effettivamente umano e non privilegiato, non “svedese”, non per i pochi uperstiti ma per tutte le esistenze umane oggi in atto e da oggi possibili), è necessario non solo affrettarsi a utilizzare tutti i residui attriti che possono alimentare la lotta per un umano abitare dell'uomo, ma occorre altresì, fin d'adesso, ricercare le nuove forze politiche, sociali e civili, che possono cospirare in una simile lotta e anzi guidarla, poiché appunto direttamente interessate al problema della residenza in quanto tale.
Il problema della casa infatti, soprattutto se visto esclusivamente nei suoi aspetti di carenza di alloggi e di arretratezza produttiva, non esaurisce - già lo abbiamo implicitamente osservato - tutto il problema della residenza. Quest'ultimo, d'altra parte, non può essere per principio eliminato - come abbiamo sottolineato e ribadito - entro la linea individualistica e opulenta, la quale è peculiarmente incapace di avvertire, e quindi di affrontare e di risolvere, sia gli aspetti urbanistici che, in generale, gli aspetti qualitativi del problema.
E difatti, è chiaro che entro quella linea si procede nell'assenza di qualsiasi organizzazione autonoma del consumo, e che anzi il suo sviluppo è caratterizzato - e consentito - proprio da una espansione individualistica, anarcoide, disorganica di un consumo particolaristico e generico. Perciò appunto, mentre da un lato non si può giungere a un'effettiva soluzione dei problemi urbanistici della residenza, e nella città insorgono anzi continue tensioni dissolutrici, accade poi, dall'altro lato, che la razionalizzazione opulenta trova le sue regole esclusivamente all'interno della dimensione produttiva e non può quindi - data l'inesistenza di un adeguato condizionamento da parte del consumo - fornire alcuna garanzia sui risultati qualitativi, sui requisiti, sugli standards dei beni prodotti.
Ambedue queste conseguenze della soluzione opulentistica del problema della casa ci sembrano particolarmente rilevanti, e si traducono infatti nel pagamento di costi umani e sociali di notevolissima - anche se non subito evidente - gravità. L'entítà di tali costi può essere compresa se si riflette alla soluzione che un'industria razionalizzata secondo moduli opulentistici tende a fornire a uno dei decisivi aspetti qualitativi della residenza: quello della tipologia degli alloggi e degli insediamenti.
A quanti si occupano professionalmente di edilizia e di urbanistica è noto, per quotidiana esperienza, che il « punto d'impatto » tra la loro attività specialistica e le esigenze della concreta umanità, cui sono destinati gli oggetti che essi progettano e predispongono, è costituito proprio da quel momento, decisivo nel loro lavoro, in cui vengono stabilite le « tipologie »: in cui, cioè, vengono determinati e scelti gli schemi organizzativi degli alloggi, degli edifici, degli spazi, degli insediamenti, i rapporti tra le superfici e i volumi destinati alle diverse funzioni della residenza, la distribuzione e l'associazione delle molteplici quantità che compongono il prodotto finale della loro opera. E' proprio in questo momento che è massimo il loro sforzo di cogliere e di interpretare le necessità, le esigenze, le aspettative dei futuri consumatori della residenza (e dell'alloggio), per tradurle in modelli tipologici, che tenteranno poi d'esprimere in forme esteticamente valide.
Come abbiamo più sopra accennato, questa laboriosa ricerca, questo complesso lavorìo di comprensione e d'interpretazione, da cui deve scaturire un ambiente pienamente adeguato alla società che dovrà utilizzarlo e viverlo, non potranno mai giungere a un risultato sufficiente finché non sarà presente in modo corposo la realtà del consumo comune. Ma qual'è - vogliamo domandarci adesso - la “soluzione” che è fornita al problema tipologico dalla linea opulentistica?
L'esperienza già ci fornisce alcune precise indicazioni al riguardo. Dove la razíonalizzazíone dell'industria edilizia e la determinazione dell'assetto urbanistico della residenza si sviluppano nell'assenza di un reale condizíonamento da parte di un consumo comune, di una domanda organizzata, dove esse avvengono in relazione all'allargamento di un mero consumo individuale di massa, le tipologie sono dettate dalle esclusive esigenze aziendali delle unità produttrici, e comportano lo svuotamento e la dissoluzione della dimensione urbana dell'insediamento umano.
Come meravigliarsi, del resto, di un simile risultato? Esso rientra pienamente nella logica di un sistema, quale è quello dell'opulenza, in cui il consumo, mentre resta inevitabilmente individualistico, ha un valore puramente quantitativo (svolgendo difatti il mero ruolo di generico suscitatore di domanda), e in cui di conseguenza la sua qualità non è in alcun modo avvertibile.
Come stupirsi se la struttura e la forma dei quartieri sono determinati dalle convenienze economiche dei percorsi delle macchine edili, e se nelle tipologie degli alloggi si abbandonano - anziché svilupparle - le acquisizioni del razionalismo architettonico, per adottare gli schemi più elementari e amorfi, più immediatamente calzanti all'esigenza, necessariamente esclusivizzata, indiscriminata e incontrollata della riduzione dei costi aziendali? Come stupirsi se l'insediamento urbano si disgrega nel pulviscolo dei nuovi suburbi, costituiti dalla giustapposizione e dalla ripetizione ad infinitum di case unifamiliari, concepite, costruite e propagandate - e vissute - come unità perfettamente conchiuse e autosufficienti, al cui interno sono contenuti tutti i dispositivi e gli spazi che consentono alla famiglia di fruire del maggior numero possibile di consumi senza uscire dal recinto del lotto individuale? È inevitabile che tutto ciò accada, quando il consumo rimane individualistico, e perciò privo di una sua autonoma voce, d'una sua capacità di incidere e di pesare, di determinare le scelte e i risultati.
Ci sembra allora di poter definitivamente ribadire, sulla base del nostro esame delle prospettive che vengono offerte al problema della residenza (e alla questione della casa) nel quadro dello sviluppo opulento, una conclusione di singolare rilievo e di notevole portata pratica cui poco sopra abbiamo accennato. E difatti, se il processo evolutivo del sistema consente indubbiamente di sottrarre via via al problema della casa quegli elementi di immediata insopportabilità sociale che potevano costituire un'arma, uno strumento, una carica utilizzabile per sospingere verso una soluzione adeguata del problema della residenza nel suo insieme, ma se d'altra parte quest'ultimo, nell'ambito di quel medesimo processo, non può essere sufficientemente risolto, e deve anzi venir progressivamente e ulteriormente compromesso, è evidente che non ha alcun senso porre al centro dell'attenzione e dell'azione le tradizionali carenze quantitative che hanno fino ad oggi contrassegnato il problema della casa, e che diviene perciò indispensabile affrontare cbiaramente ed esplicitamente la questione della residenza nella sua interezza, nella sua complessità e nella sua autonomia.
La lotta indiscriminata e generica per la disponibilità di un alloggio a buon mercato e per tutti, insomma, si presenta ormai inevitabilmente come una battaglia di retroguardia; come tale, se ha ancora un significato (e lo ha, a nostro avviso), può avere soltanto quello, certamente subordinato e tattico, di utilizzare tutte le residue contraddizioni, gli attriti, i ritardi - e le conseguenti tensioni - caratteristici del processo opulento. Il centro, il cuore, il fulcro della lotta per il trionfo di una nuova concezione della casa, la sua dimensione strategica e fondamentale, possono essere oggi individuati, viceversa, unicamente nell'azione (e nella lotta) per un diverso assetto della residenza: per quell'assetto, cioè, che è contraddistinto dall'essere fondato su una concezione della residenza come consumo comune e della casa come momento organico d'una simile residenza, e la cui realizzazione consentirà di risolvere - ma con una efficacia, con una rapidità, con un risparmio di risorse, e dunque con una universalità, impossibili alla linea opulentistica e individualistica - anche quei medesimi aspetti quantitativi che abbiamo più volte ricordati.
Su quali interessi sociali e politici ci si può allora basare, per condurre un'azione siffatta? Quali sono le forze, presenti nel concreto della società civile, le cui aspettative non vengono in alcun modo colmate nel corso dello sviluppo opulento, e che possono quindi - e anzi devono, per le loro stesse peculiari esigenze - costituire il sostegno, lo stimolo, la base sociale per l'affermazione della nuova concezione della residenza? Questo è il tema sul quale dobbiamo soffermarci, allargando dunque lo sguardo al di là dei confini della disciplina urbanistica e della problematica strettamente pertinente all'edilizia, e affrontando quello che non esitiamo a definire “problema politico”.
A una simile questione viene generalmente fornita, da parte dei più fervidi sostenitori della concezione della “casa come servizio sociale”, una risposta ben precisa. Essi cioè (o per meglio dire quelli tra loro che hanno il merito di affrontare il problema in termini espliciti, ma che a noi sembrano francamente estremistici) tendono a vedere nella classica alleanza rivoluzionaria, quella degli operai e dei contadini, la forza sociale e politica essenziale - e anzi unica ed esclusiva - per l'affermazione, sul terreno della società, della loro concezione della casa.
Ora a noi pare - e cercheremo di dimostrarlo - che l'alleanza degli operai e dei contadini, se ha svolto storicamente un ruolo di massimo rilievo sul piano del problema della casa, non può costituire però una base sociale e politica adeguata alla soluzione del problema della residenza: del reale ed effettivo problema, quindi, di fronte al quale oggi ci troviamo. Le due proposizioni ora enunciate sono strettamente correlate tra loro, nel senso che dall'esame delle stesse ragioni che hanno determinato la positività del ruolo svolto da quell'alleanza nei confronti del problema della casa, è possibile dedurre l'insufficienza del blocco delle due tradizionali classi lavoratrici di fronte al problema della residenza.
Osserveremo intanto, in primo luogo, che la classica alleanza rivoluzionaria è stata certamente quella che ha consentito di raggiungere - in linea generale e di sistema - il fondamentale risultato della rottura del dominio borghese, ed è stata quindi l'elemento decisivo e centrale della lotta grazie alla quale si è giunti a una situazione, quale è quella del nostro tempo, in cui sono scomparsi o vanno inevitabilmente scomparendo gli antichi privilegi, gli antichi parassitismi, le antiche posizioni di rendita preborghese e propriamente borghese. Solo la vigorosa e continua spinta rivendicativa degli operai e dei contadini ha potuto infatti far si che l'incremento della domanda, indispensabile all'allargamento del processo accumulativo (e perciò alla stessa sopravvivenza di questo), non fosse perseguito “malthusianamente”, a destra, mediante l'espansione privilegiata del consumo improduttivo delle classi proprietarie, ma fosse raggiunto invece attraverso l'ampliamento del consumo dei produttori.
Sul piano specifico della questione della casa, poi, è appunto per il continuo e progressivo incremento dei redditi di lavoro, determinato dalla lotta rivendicativa, che si è potuti giungere a soddisfare in maniera sempre più larga e generale la “fame di case”: la primitiva e primordiale carenza, quindi, il cui sopravvivere è certamente, da tempo, un fatto in nessun modo tollerabile, e che in realtà è stato sempre avvertito come intollerabile da tutti i membri delle tradizionali classi lavoratrici, e ha concorso ad alimentare perciò la loro azione sindacale e i suoi prolungamenti politici.
E però, proprio perché la causa dello stimolo, della tensione, della sollecitazione, che hanno tradizionalmente sospinto l'insieme delle classi operaia e contadina a intervenire, con la loro lotta sindacal-politica nella questione della casa, era costituita dalla constatazione immediata e sofferta, viva ed elementare, della profonda insufficienza del mercato degli alloggi, della cronica carenza di case a buon mercato, dell'impossibilità, per larghissimi strati delle classi lavoratrici, di accedere alla disponibilità dell'alloggio, si deve necessariamente convenire che nelle stesse ragioni, che determinavano l'attivo interesse degli operai e dei contadini per la questione della casa, risiede anche - come abbiamo già accennato - il limite del ruolo della classica alleanza dei lavoratori.
Questo è un Congresso diverso da quelli tradizionali. Nella tradizione dell'Inu l'evento congressuale è infatti composto da due parti separate. Il vero e proprio Congresso, dedicato a un tema di generale richiamo, aperto a chiunque abbia interesse a parteciparvi, alimentato da relazioni specifiche affidate a personalità o a gruppi particolarmente versati nelle questioni enucleate, curato nello scenario e nella scenografia, negli aspetti anche piú appariscenti e rituali. E poi, separata dal Congresso e posta in sua prosecuzione, quasi in coda, l'Assemblea dei soci, dedicata a discutere le questioni piú interne della vita dell'Istituto e perciò riservata alle varie componenti della sua base associativa.
Anche questa volta la distinzione tra Congresso e Assemblea c'è, ma la separazione è scomparsa. Oggi iniziamo la discussione dei documenti congressuali, che sono stati distribuiti in anticipo e che sono composti da tesi, e non da relazioni (e dopo ne spiegherò le ragioni). Domattina la proseguiamo e la concludiamo domani pomeriggio, quando il nostro Congresso, pur restando ovviamente aperto a tutti quanti intenderanno seguirne i lavori, si trasformerà in Assemblea per condurre a termine la discussione delle tesi, con la loro prevista votazione riservata ai soci. Sabato poi l'Assemblea proseguirà i suoi lavori, sugli argomenti ordinari della vita dell'Istituto e con l'elezione delle cariche sociali. Le ragioni di questo intreccio diventeranno, credo, subito chiare fin da questa relazione introduttiva, la quale toccherà inevitabilmente questioni e temi che non hanno a che fare solo col tema del Congresso, ma anche con la natura e la congiuntura dell'Istituto.
Il titolo che abbiamo scelto, su intelligente proposta di Gaetano Lisciandra, presidente della Sezione Lombardia e perciò anche nostro ospite (voglio ringraziarlo subito per l'una e per l'altra cosa), mi sembra un titolo bello e ricco: «Il territorio dell'urbanistica». In primo luogo evoca l'oggetto del nostro lavoro e del nostro interesse. Esprime la nostra propensione a legare i nostri ragionamenti a qualcosa di concreto, di relativamente stabile. E soprattutto indica la volontà di comprendere meglio qual è il campo che dobbiamo occupare, e qual è il modo in cui oggi dobbiamo occuparlo.
Del campo dell'urbanistica sappiamo già molto. Sappiamo che occupa il medesimo spazio occupato dalla società in cui viviamo. Sappiamo che gli intrecci tra l'urbanistica e la società sono cosí essenziali da non poter essere recisi senza negare l'urbanistica; ma sappiamo anche che essi sono cosí complessi da esigere sempre (e forse oggi piú che ieri) lo sforzo di comprendere qual è l'ambito dell'autonomia della nostra disciplina, della nostra "funzione", del nostro punto di vista, della nostra responsabilità sociale e politica.
E sappiamo anche che il modo della nostra operazione è quello volto a vedere lo spazio fisico della vita della società come sede di una serie di eventi suscettibili di trasformare la sua consistenza fisica e il suo assetto funzionale; eventi che possono essere dominati ove se ne sappia comprendere il carattere complesso e sistemico, e definire una coerenza, attraverso quella specifica procedura che chiamiamo pianificazione territoriale e urbana; quella procedura culturale, tecnica, politica di cui vogliamo rivendicare la necessità sociale, in una società che cambia, che muta le proprie esigenze e i propri obiettivi.
E cercheremo appunto di ragionare collettivamente, qui e dopo, nel Congresso e oltre, tra noi e con gli altri, su come sia oggi necessario adeguare gli strumenti della pianificazione alle nuove esigenze e ai nuovi obiettivi della società, come alle nuove possibilità del nostro mestiere traendo tutto il frutto possibile dalle esperienze parziali che sono state compiute in questi anni in piú parti d'Italia.
Dal Congresso di Pescara al Congresso di Milano
Le basi di questo XIX Congresso dell'Inu furono poste nel corso stesso del XVIII Congresso di Pescara (1986), in un pubblico colloquio con Cesare Macchi Cassia, allora presidente della Sezione Lombardia; un colloquio che si svolse prima, durante e dopo il dibattito congressuale. Rileggendo oggi su Urbanistica informazioni (n. 90) alcuni passaggi di quel colloquio mi sono reso conto che le intenzioni che ci muovevano allora hanno alimentato il lavoro preparatorio del XIX Congresso in tutti questi anni, sebbene dal confronto con gli obiettivi espressi allora appaia con chiarezza, mi sembra che non tutti sono stati raggiunti. E per la loro pertinenza con quanto devo esporvi per presentarvi questo Congresso, consentitemi di citare con una certa ampiezza quanto allora, dialogando con Macchi Cassia, affermavo.
«Cesare Macchi Cassia mi aveva proposto di dedicare il prossimo XIX Congresso alla discussione del tema (e della tesi) della necessità di pianificazione. Questo tema mi era sembrato molto opportuno, cosí come mi era sembrato, e mi sembra, opportuno articolarlo maggiormente, nel senso di chiedersi, e di tentare di dare risposte, a quale pianificazione sia oggi necessaria. A me sembra infatti che ciò che oggi in qualche modo rende debole la posizione degli urbanisti nei confronti dei loro interlocutori sta nel fatto che, nonostante le molte variegate esperienze svolte e in corso, le molte idee innovative maturate, non si sia ancora raggiunto (ma sia raggiungibile senza troppe difficoltà) quello stato di elaborazione collettiva che consenta di presentare all'esterno una proposta positiva (che cosa fare, come farlo) chiara e convincente.
«Un altro elemento che mi piaceva, della proposta che Macchi Cassia avanzava anche a nome della Sezione Lombardia, era che, lavorare fin dall'indomani della preparazione del XVIII Congresso alla preparazione del XIX su questo tema, ci avrebbe permesso di riannodare intorno a un unico filo conduttore sia il proseguimento del lavoro fatto negli anni trascorsi (dalla critica all'efficacia del piano, alle rassegne urbanistiche, al regime degli immobili), sia quanto è maturato in preparazione e nel corso del XVII Congresso (le trasformazioni in atto nel sistema. territoriale), sia infine le questioni delle quali non potremo comunquenon occuparci nei prossimi anni (il bilancio sull'attuazione della legge 431/1985, le questioni delle grandi città e dei grandi interventi, il rapporto tra pubblico e privato nel governo delle trasformazioni).
«Infine, lavorare su questo tema, e impegnare tutto il corpo dell'Istituto a lavorarvi, avrebbe anche consentito di superare un limite della nostra attività (...). Il limite, cioè, consistente nel fatto che l'impegno ad affrontare e risolvere i problemi materiali e strutturali dell'Inu, e a condurli a soluzione in modo unitario, ha impedito di procedere con sufficiente impegno nella elaborazione, e quindi di dispiegare anche quel confronto tra posizioni diverse, quel procedimento dialettico per tentare di giungere a una sintesi, che è essenziale per un istituto di cultura».
Scusate questa lunga autocitazione. Ma essa non solo esprime, mi sembra con sufficiente chiarezza, quelle che sono stati fin dall'inizio le intenzioni, i moventi che ci hanno spinti a lavorare in questi anni, gli obiettivi che ci eravamo proposti di raggiungere, ma ci consente anche di valutare se quelle intenzioni erano giuste, e soprattutto di comprendere criticamente che cosa degli obiettivi abbiamo raggiunto e che cosa non abbiamo potuto raggiungere. Prima di toccare questi punti, prima di proporre al dibattito una risposta alle domande in essi implicite, vorrei brevemente illustrare il lavoro che abbiamo compiuto da allora a oggi.
Perché un Congresso a tesi
Il primo punto che vorrei sottolineare è questo: il nostro è un congresso a tesi. Perché questa scelta? Le sue ragioni sono già adombrate nel documento che ho prima citato, là dove si parla di "confronto tra posizioni diverse", di "procedimento dialettico". E già nel primo documento in preparazione del Congresso, approvato dal Cdn nel marzo 1987, si parlava di "posizioni differenti" che sarebbero emerse e della necessità che le convergenze e divergenze che certamente si manifestavano tra gli urbanisti italiani venis
sero messe in evidenza per dar luogo a un lavoro fruttuoso, prima, durante e dopo il Congresso.
Piú chiari ancora eravamo nel secondo documento di preparazione del Congresso, approvato dal Cdu nel novembre 1989.
In quel documento ponevamo in primo luogo i nostri obiettivi: «riaffermare la necessità della pianificazione, riflettere sul modo in cui oggi bisogna pianificare, e far emergere con la massima chiarezza le differenti posizioni che nell'Inu sono presenti. Quest'ultimo obiettivo - sottolineavamo - è essenziale. In questa fase della vita dell'Istituto, nella nuova dimensione che esso ha raggiunto, l'unanimità non è un dato acquisito a priori, ma può essere il risultato di un percorso che parta, appunto, dalla definizione esplicita e chiara delle posizioni presenti».
«La formula del congresso a tesi - scrivevamo ancora - è quella che meglio si presta a raggiungere gli obiettivi proposti. Essa infatti consente di affrontare un arco molto ampio di problemi enunciando e argomentando ciascuno di essi col massimo di chiarezza ed efficacia. Contemporaneamente, con la possibilità di misurarsi con tesi alternative, fornisce a tutte le posizioni presenti lo strumento per esprimersi con chiarezza, aiutando cosí anche la successiva costruzione di una sintesi. Infine, sollecita e agevola la partecipazione al Congresso e alla sua preparazione da parte di tutti i soci».
Questa nostra decisione nasceva da una valutazione della situazione dell'Inu. Il nostro Istituto, negli ultimi anni, è infatti molto cambiato. Da un organismo culturale molto coeso e compatto, dotato di una propria linea nella quale tutto il quadro attivo si riconosceva e che era facilmente riconoscibile dall'esterno, siamo diventati un insieme molto pluralista, dove convivono posizioni diverse, su determinati punti anche alternative. Queste posizioni diverse, però, non devono - questo è almeno il mio radicato convincimento - confondersi e stemperarsi in un confuso amalgama prima ancora d'essersi chiaramente e comprensibilmente espresse. In altri ter
mini, non dobbiamo cercare il compromesso a priori, la soluzione grigia e indeterminata che proprio per questo non incontra opposizioni e mette tutti apparentemente d'accordo. Dobbiamo invece fare lo sforzo perché le diverse posizioni presenti nell'Inu, a loro volta espressione delle diverse posizioni presenti nella società (o in quella parte della società che nell'Inu si riflette) si esprimano nella massima chiarezza, perché tra esse nasca un fruttuoso confronto.
Le questioni
Già nella prima discussione sul Congresso, e poi nella preparazione della 2a Rassegna urbanistica nazionale, avevamo individuato tre ordini di questioni capaci di strutturare un ragionamento complessivo sulla pianificazione oggi in Italia.
Il primo ordine di questioni riguardava la definizione dei requisiti che con la pianificazione si vogliono ottenere per l'assetto territoriale e urbano, cioè degli obiettivi di merito che la pianificazione dovrebbe porsi: in primo luogo l'obiettivo della qualità, nei suoi vari aspetti (funzionali, formali, culturali, sociali) e intesa sia come tutela delle qualità esistenti che come produzioni di qualità nuova.
Il secondo ordine di questioni che con le tesi ci eravamo proposti di affrontare riguardava l'efficacia del processo di pianificazione, da esaminare e definire nei suoi due versanti: la migliore rispondenza degli strumenti e dei procedimenti rispetto ai fini perseguiti, il piú razionale impiego delle risorse adoperate nel procedimento. Si trattava indubbiamente dell'argomento piú complesso, se volete piú "disciplinare", nel quale c'era da aspettarsi - piú ancora che difficoltà di elaborazione - l'affacciarsi di numerose e diverse posizioni, derivanti da differenti esperienze pratiche, sensibilità culturali, contaminazioni disciplinari, impostazioni metodologiche.
Il terzo ordine di questioni, infine, riguardava il rapporto tra pubblico e privato: un argomento che tocca una serie di versanti e di nodi tutti di grande importanza e delicatezza: da un lato, le questioni in qualche modo tradizionali ma sempre rinnovate nel modo di porsi (da quella del regime degli immobili a quella dell'urbanistica contrattata), dall'altro lato quel complesso di questioni che ruota attorno al rapporto tra etica, politica e cultura: questioni che è decisivo affrontare in modo non manicheo, nell'intento di far chiarezza tra ruoli, compiti e funzioni, oggi sempre piú ambiguamente intrecciati in una confusione che mortifica sempre e solo gli interessi generali.
Le tesi
Il modo in cui abbiamo lavorato per giungere alla elaborazione di un documento che potesse essere posto come base di discussione è sinteticamente descritto nella presentazione del documento stesso. Nulla voglio aggiungere ad esso, se non per sottolineare il grande sforzo, non solo organizzativo ma anche di lavoro intellettuale, che l'elaborazione del documento ha richiesto all'Istituto.
Un lavoro che ci ha impegnati per un tempo piú lungo di quello che avremmo voluto e che perciò ci ha costretti a rinviare piú volte la data del Congresso. Un lavoro di cui credo si debbano ringraziare tutti quelli che vi hanno collaborato, i cui nomi sono riportati nella Presentazione: con qualche imprecisione però, perché sono posti sullo stesso piano, e con la stessa responsabilità, quanti (e sono i piú) hanno lavorato scrivendo e partecipando alle numerose riunioni svolte, e quanti sono stati solo interpellati per raccogliere un loro parere od ottenere una verifica e una messa a punto.
A tutti, comunque, va un ringraziamento senza riserve per l'impegno, per il tempo e per la pazienza che hanno voluto spendere. E naturalmente il ringraziamento piú forte a quanti hanno coordinato il lavoro nei vari settori, in primo luogo quindi a Gianluigi Nigro, che mi ha validamente affiancato, e in certe fasi sostituito, nel coordinamento generale, e poi a Guido Masè, a Gaetano Lisciandra, a Gianfranco Pagliettini, ad Alessandro Dal Piaz.
Io sono convinto che la produzione di queste tesi, delle tesi pubblicate come base di discussione per il Congresso, costituisca un passaggio importante nella vita dell'Istituto. È la prima volta, dopo molti anni, che l'Inu si fa carico della proposizione di una piattaforma complessiva sui punti piú problematici del "fare urbanistica". È la prima volta, dopo quasi vent'anni, che l'Inu propone una traccia che, almeno tendenzialmente, copre tutto l'arco dei problemi che ci occupano e preoccupano, e che interessano i nostri interlocutori. Un buon punto di partenza, dunque, per una discussione fruttuosa e serena, quale quella che avremo in questo fine settimana.
Tre punti di un'autocritica
Credo che sia giusto e corretto però, soprattutto per chi è ancora per due giorni presidente di questo Istituto e quindi ha la massima responsabilità anche per questo suo prodotto, esporre qualche valutazione autocritica.
La prima, la piú ovvia, è quella di una certa incompletezza delle tesi. Noi abbiamo voluto cogliere quelli che ci sono sembrati i nodi delle questioni. Una certa ricerca di essenzialità dei temi toccati era doverosa. Ma forse qualcosa di rilevante, magari di essenziale, ci è sfuggito. Non mi riferisco tanto alle questioni di piú spiccata attualità (ad esempio, una valutazione sulla legge sugli espropri e del regime delle aree, o sulle iniziative per la vendita degli immobili demaniali), che nel nostro documento sono assenti non per dimenticanza, ma perché il taglio era quello di un documento che potesse guardare oltre le contingenze, tracciare le linee di un percorso lungo. Mi riferisco a questioni piú di fondo, che in certe fasi della vita dell'Istituto erano centrali e ora sono scomparse. È stato giusto, ad esempio, sottacere del tutto la questione della casa? oppure quella della mobilità e dei trasporti? Il dibattito ci aiuterà a comprenderlo.
Il secondo rilievo autocritico che vorrei fare al nostro lavoro è quella della scarsa chiarezza. Non è per qualche vezzo o ambizione lettera
ria che pongo questa questione. Non è perché pensi che un istituto "di alta cultura" debba essere necessariamente un istituto di belle lettere. Pongo semplicemente la questione che noi non siamo ancora capaci di trovare le parole che ci aiutino a comunicare le nostre idee a chi non è dentro il nostro specialistico linguaggio.
Perché non sappiamo scrivere chiaro e comprensibile per una cerchia piú ampia di persone di quella che noi stessi costituiamo? Non credo che la causa sia in una difficoltà tecnica, in una nostra scarsa conoscenza dell'italiano. Non credo neppure che essa sia prevalentemente nella insufficiente chiarezza delle idee. Credo che la causa piú rilevante stia in quello che è per me il terzo motivo di autocritica.
Il terzo e ultimo rilievo che vorrei fare al nostro lavoro, e al suo prodotto, è che non abbiamo fatto uno sforzo sufficiente per far emergere le differenze che tra noi ci sono, e anzi abbiamo fatto ogni sforzo, anche con generosità, per trovare l'unanimità, o almeno il consenso piú ampio, sulle formulazioni volta per volta prospettate. Io credo - voglio dirlo con la massima franchezza - che questo sia stato un errore. Come ho già detto, sono convinto che l'unanimità si può raggiungere (ove essa oggi sia raggiungibile) solo sulla base di una preliminare esposizione - scritta, formalizzata, chiaramente e durevolmente espressa, affidata alla logica e alla ragione e non all'oratoria o all'allusione o alla battuta - delle posizioni differenti che tra noi vi sono. Non perché io sia innamorato delle differenze, anzi. Ma perché sono convinto che, se le differenze ci sono, è dalla chiara espressione dei loro contenuti che bisogna partire per compiere il percorso verso la sintesi, verso l'unità.
Le tesi alternative
È anche per questo, è anche e soprattutto per questa mia profonda convinzione - che peraltro non ho mai sottaciuto - che sono stato il primo a pronunciare, e poi a scrivere, delle tesi alternative. Qualcuno si è scandalizzato del fatto che il presidente, garante dell'unità dell'Istituto, abbia prodotto posizioni alternative rispetto a quelle della maggioranza. Ma quello che in questa fase io ho sentito mio compito cercar di garantire è stato invece proprio non solo il diritto, ma in primo luogo il dovere, da parte di tutti, e perciò innanzitutto da parte mia, di esprimere con chiarezza il proprio punto di vista, la propria posizione, la propria proposta.
Non voglio adesso cambiare cappello e, dimesso quello di presentatore del Congresso, indossare quello di partecipante, passando a illustrare le tesi da me proposte. Come tutti, mi sono sforzato di essere chiaro. Se ci sono riuscito, le tesi si illustrano da sé; se non ci sono riuscito, merito di esser punito con l'incomprensione.
E non voglio neppure entrare nel merito delle varie tesi alternative e degli altri contributi proposti alla discussione. Abbiamo affidato ad alcuni molto autorevoli e prestigiosi presidenti di sezione il compito di regolare i lavori relativi alle tesi e proporne la conclusione, e quindi è a loro che lascio l'onere di esprimere valutazioni e proposte. Non avranno molto lavoro da fare, perché mi sembra che le tesi alternative pervenute siano pochine: come se fosse circolata una voce per scoraggiarne la presentazione! Consentitemi solo pochissime osservazioni personali.
A me sembra indubbio che il materiale presentato (quello almeno che ho potuto leggere perché mi è pervenuto per tempo) sia di grande interesse e utilità. Ciò sia quando si esprime in forma direttamente ed unicamente di valutazione critica, sia quando è formulato nella veste di puntuali tesi argomentate. Sono per esempio largamente d'accordo con la formulazione di Radicioni circa la tesi 17 (che indubbiamente completa su piú punti la formulazione di cui sono responsabile), mentre non condivido la sua critica e le conseguenti proposte di emendamento, all'istituzione della città metropolitana. E sono d'accordo con le proposte di Beltrame per le tesi del primo gruppo (che mi sembrano, nella sua stesura, utilmente asciugate e rese piú chiare). E sono molto d'accordo con le puntualizzazioni e i commenti contenuti nella comunicazione di Franco Girardi, che troverà non marginali coincidenze tra le sue considerazioni sulla pianificazione con le posizioni che ho espresso nelle tesi alternative che io stesso ho presentato. Viceversa, devo dire con franchezza che non condivido gli atteggiamenti genericamente, e a volte ingiustamente, liquidatori del lavoro compiuto che ho letto in qualche contributo.
Come concludere, quando concludere?
Insomma, credo che il materiale su cui imbastire un buon Congresso, e anche per lavorare al di là di esso, ci sia e sia abbondante. Spetta a tutti noi saper cogliere quest'occasione nell'interesse comune. Riusciremo a farlo fino in fondo, riusciremo a tirare le somme e aggiungere a una prima conclusione formalizzata, a un'approvazione delle tesi, nel corso stesso di questo Congresso? So che vi sono proposte per non arrivare al voto, per lasciare ancora aperto il confronto e l'elaborazione. Su queste proposte deciderà il Congresso, e poi l'Assemblea.
Io comprendo le ragioni che spingono ad approfondire, a riesaminare, a valutare con maggior attenzione. Ma sento anche, personalmente e istituzionalmente, molte perplessità nei confronti di questa proposta. Non vorrei che l'Inu si configurasse come un istituto che discute molto, ma che non è mai in grado di esprimere una propria posizione.
Sono certo che di una espressione di ciò che pensa il piú antico organismo degli urbanisti italiani ci sia bisogno piú che mai, in questi mesi, su molti argomenti, tutti in qualche modo toccati nelle tesi proposte dal Cdn e negli altri documenti presentati al Congresso. Basta accennare, a titolo quasi esemplificativo, ad alcune delle questioni che sono sul tappeto. Questioni, come vedrete, che sono certo tra quelle nodali per definire, o ridefinire, il modo di essere urbanisti, di sviluppare la nostra specifica cultura e di fare il nostro mestiere, ma che sono anche questioni che riguardano il nostro rapporto con la società, con interlocutori esterni alla nostra disciplina.
La questione del regime degli immobili. Finalmente uno dei due rami del Parlamento ha approvato una proposta, sostanzialmente sulla linea (e per la tenacia) del sen. Cutrera. Nel commentarla su Urbanistica informazioni (n. 110) ne ho individuato i limiti di fondo nell'esser un provvedimento che riguarda solo i suoli e non tutti gli immobili, nell'essere costruita sull'ipotesi della pertinenza dell'edificabilità alla proprietà dei suoli, nella conseguente non raggiunta "indifferenza" dei proprietari alle destinazioni dei piani. In queste mie valutazioni mi sono riferito alla posizione tradizionale dell'Inu messa a punto, nella sua forma piú compiuta, nel 1983, grazie soprattutto all'impegno della commissione coordinata da Luigi Scano, e all'apporto dell'indimenticabile Guido Cervati. È la proposta che è sintetizzata nella tesi 17. Ora, è ancora su quella linea che va misurata, culturalmente e non in termini di opportunità politica, la legge oggi all'attenzione della Camera. È in relazione a quella linea che vanno indirizzate le pressioni per modificarla e, quando sarà il momento, per attuarla? E se non è quella, qual è?
La questione dell'urbanistica contrattata". In molte città, anche le piú insospettabili, il piano viene sostituito, o scavalcato, dalla contrattazione diretta con i proprietari delle utilizzazioni e delle stesse quantità di edificazione. Su questa forma perversa di gestione del territorio, in cui la pubblica amministrazione incorre quanto meno nel reato di simonia, e in cui la proprietà immobiliare acquista un peso ancor maggiore di quello che aveva negli anni Cinquanta, talché sembriamo tutti esser tornati ai tempi della guerra di Corea, si soffermano secondo me in modo adeguato le tesi del terzo gruppo. Ebbene, è giusto che su questo tema, d'importanza certamente generale e nazionale, che esprime una tendenza in atto da tempo in tutto il Paese, la voce dell'Inu si esprima solo là dove (come per esempio a Firenze) la nostra sezione è vigile e tenace nel denunciare e nel proporre? È giusto, è utile che l'Inu in quanto tale, in quanto istituto nazionale, non si esprima con forza e con chiarezza nella sua massima assise?
La questione dei "principi ", delle nuove regole della pianificazione. Va bene continuare a pianificare secondo criteri, procedure, meccanismi che sono ancora quelli derivati dalla legge del 1942, complicati piú che arricchiti dalle legislazioni regionali? Oppure è necessario spingere perché il Parlamento finalmente statuisca una nuova definizione, organica e coerente, di "principi" - secondo la dizione costituzionale - ai quali ispirare le legislazioni regionali, in base ai quali affrontare piú sistematicamente, ad esempio, le questioni poste dalla legge Galasso (come assicurare effettiva priorità all'interesse generale della tutela del patrimonio ambientale, naturale e storico), o quelle toccate di striscio dalla nuova legge sull'ordinamento locale (come trovare coerenza tra l'assetto del potere pubblico e gli obiettivi che attraverso la pianificazione si possono perseguire)? E se si, se verso una nuova definizione dei principi della pianificazione bisogna spingere, secondo quali criteri, modelli, indirizzi bisogna farlo?
Ho accennato ad alcune questioni tra le tante che a ciascuno di noi vengono alla mente, tra le tante sulle quali la porzione piú attenta dell'opinione pubblica aspetta da noi una risposta. Abbiamo tentato, con le tesi, e poi vorremmo tentare con il Congresso, di formulare una risposta che non sia episodica e parziale, ma che abbia una qualche organicità. Una proposta che sia frutto di un dibattito e un confronto aperti, nel quale magari si arrivi a misurarsi e anche a contarsi là dove c'è divergenza. Non so se ci arriveremo in questi giorni. So però che, se cosí non riusciremo a fare, dovremo allora impegnare i nuovi dirigenti dell'Istituto, che sabato mattina eleggeremo, a lavorare perché ciò avvenga nell'arco di tempo il piú stretto possibile.
Perché, al piú presto, l'Istituto nazionale di urbanistica, nella sua piú ampia e collegiale rappresentatività, faccia sentire una voce chiara, determinata, precisa sulle questioni
sulle quali noi, piú di altri, abbiamo l'autorità per denunciare e per proporre. E se abbiamo l'autorità, abbiamo allora il dovere di farlo. Grazie a tutti, e buon lavoro.
Digitazione con scanner OCR da Urbanistica informazioni, n. 111, maggio/giugno 1990
LIVELLI DI PIANIFICAZIONE E LIVELLI DI GOVERNO:
LE TENDENZE CHE DEVONO AFFERMARSI
PER LA COSTRUZIONE DI UN PROCESSO UNITARIO DI PIANIFICAZIONE
Premessa
Poche questioni - nel campo almeno del governo del territorio - appaiono oggi così confuse, e del resto così poco discusse, come quella del rapporto tra i diversi livelli di pianificazione. Ciò dipende, a mio parere, da numerose circostanze che in qualche modo determinano, o condizionano, il clima in cui la nostra riflessione si svolge. Ed è anche per questo che è opportuno soffermarvisi brevemente.
La prima circostanza sta indubbiamente nel fatto che è il principio stesso, la categoria, della pianificazione che è oggi in una fase di parziale eclisse. Gli anni '50 furono in qualche modo contrassegnati dal paziente sforzo di un piccolo gruppo di urbanisti, compresi e appoggiati da qualche amministrazione, di gettare le basi della pianificazione nel nostro Paese. Gli anni '60 furono l'epoca della proposizione di piattaforme complessive di riforma urbanistica, della centralità di questo tema nel dibattito politico e culturale nazionale, della conquista di importanti - seppure parziali - traguardi legislativi e amministrativi. Gli anni '70 saranno probabilmente ricordati come quelli nei quali nuovi nodi vennero al pettine, nuove e nuove e più avanzate conquiste – ricche di potenzialità e di limiti - vennero dialetticamente raggiunte. Ed è facle affermare che gli anni '80 - quasi una interruzione ciclo evolutivo pressoché ininterrotto - saranno invece ricordati così come noi oggi li viviamo: come anni, cioè, nei quali quelli che dovrebbero essere i protagonisti della pianificazione, a tutti i livelli, appaiono sfiduciati, frustrati, impotenti, sottoposti all'attacco pressoché quotidiano di chi alla pianificazione non crede, o la pianificazione rifiuta.
La seconda circostanza, che è in qualche modo il corollario e la conseguenza della prima, sta nel fatto che proprio in questi anni, proprio cioè quando le potenzialità manifestatesi nel periodo trascorso avrebbero dovuto essere sviluppate e i limiti legislativi e amministrativi superati, proprio cioè quando il processo di riforma avrebbe dovuto dispiegarsi e finalmente affrontare i nodi di fondo, l'involuzione e la regressione hanno costretto quanti, e non sono pochi, credono alla pianificazione e all'urbanistica, a concentrarsi nella difesa di alcuni capisaldi essenziali del fare urbanistica quando invece sarebbe stato necessario andare avanti e innovare. Abbiamo avuto così il riesplodere delle questioni degli indennizzi e dei vincoli, quando si doveva affermare un nuovo regime degli immobili; la tragedia dell'abusivismo edilizio e urbanistico, quando si doveva puntare alla generalizzazione della capacità di governo del territorio; la liquidazione del mercato degli affitti e dell'intervento pubblico nell'edilizia abitativa, quando il problema del controllo e della gestione del patrimonio edilizio esistente assumeva il carattere di problema e obiettivo centrale; infine, la costante e sistematica azione di svuotamento della pianificazione locale attraverso la generalizzazione dell'istituto della deroga, quando si doveva rilanciare la pianificazione e il governo del territorio uscendo finalmente dai limiti dei confini municipali.
Ma al di là di queste circostanze, in qualche modo provocate da tendenze e azioni e accadimenti esterni alla cultura urbanistica, mi sembra che ve ne sia una terza sulla quale è opportuno richiamare l'attenzione. Mi sembra, insomma, che uno dei fatti caratterizzanti la situazione attuale sia che non esiste più un metodo, un indirizzo, un criterio unitario per la pianificazione: non esiste nei piani di livello comunale (in quelli dunque in cui c'è la più larga messe di esperienze e conoscenze e attività), e non c'è dunque da stupirsi se non esiste, come rilevava Giorgio Trebbi nella sua relazione al Seminario di Trento del maggio scorso, per quelli degli altri livelli e, di conseguenza, per gli intrecci e le connessioni dei livelli di pianificazione.
L'obiettivo: un sistema unitario di pianificazione
La tesi che vorrei proporre è in sostanza la seguente. Nella pianificazione tradizionale il punto di partenza è stato costituito dai piani di livello comunale: i piani regolatori generali comunali, formati e redatti nei modi che ben conosciamo, e quindi caratterizzati dalla definizione rigida delle destinazioni d’uso per zona, dalla centralità del ruolo del Comune ma dalla complessità di un iter procedurale fortemente garantistico per tutti i poteri coinvolti, dall'attuazione affidata alle decisioni degli operatori-proprietari e dal meccanismo del rinvio sistematico ai piani attuativi. I piani di livello superiore vengono generalmente pensati e costruiti nell'ipotesi che essi siano anelli di una catena di atti pianificatori che ha al suo termine il P.R.G. comunale così come esso è nella sua accezione tradizionale. E quindi sono nella forma del P.R.G. a maglie più larghe (o a colori più tenui); oppure sono nella forma di prescrizioni di tipo normativo, più o meno territorializzate, che diventano operative nella loro traduzione comunale nei P.R.G.; oppure sono un unico P.R.G. esteso a un territorio ampio; oppure ancora si limitano alla forma di documenti, poco operativi, di strategia e d'indirizzo generale o settoriale.
La pianificazione a tutti i livelli ha insomma, ancor oggi, nel P.R.G. comunale il suo essenziale riferimento e criterio. Ma oggi, è proprio il P.R.G. comunale che è sottoposto a una sostanziale e profonda discussione e verifica. Oggi è il P.R.G. che è sottoposto a critica: per la sua rigidità; per il suo meccanismo d'attuazione; per la complessità del suo meccanismo di formazione; per la separatezza (anche dopo la legge Bucalossi) del momento del piano da quelli del programma e della gestione. Oggi, è in corso una vasta ricerca e sperimentazione, in quel grande “laboratorio diffuso” costituito dalle amministrazioni comunali, nella quale si cerca per diverse vie, con diversi approcci, seguendo diversi percorsi, di costruire un modo nuovo e più adeguato di pianificare: anzi, di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali.
In questa situazione, a mio parere, sarebbe sbagliato riflettere e lavorare sui livelli di pianificazione pensando solamente di aggiungere piani a livelli superiori (comprensoriali, provinciali, regionali, interregionali, di bacino o d'area montana ecc.) a un quadro di pianificazione a livello comunale già definito e immutabile. E ancor più sbagliato sarebbe costruire i piani di livello superiore semplicemente come estensione dei criteri e indirizzi e tecniche dei piani comunali: significherebbe unicamente estendere i limiti già riconosciuti dei piani regolatori comunali. Anzi, accentuarli, perchè si finirebbe unicamente per aggiungere nuovi anelli alla catena degli atti pianificatori.
Il vero problema, e il vero obiettivo, è allora secondo me quello di ritrovare una unitarietà di metodi, criteri, indirizzi, per tutto il processo di pianificazione. È quello - per esprimermi in modo molto sintetico - di trovare un unico piano, una unica “forma piano”, da formare utilizzando i diversi livelli di governo.
I requisiti del piano
Lo sforzo che vi propongo, che propongo a noi tutti, è quello di uscire per un momento dai confini amministrativi e dalle competenze dei livelli di governo. E di uscire anche dalle forme canonizzate degli strumenti di pianificazione. Di riflettere invece, in primo luogo, a quali devono essere i requisiti che un piano deve possedere, quale che sia l'estensione di territorio che deve governare o l'ente che ha la responsabilità di governo. Proviamo ad elencare questi requisiti.
Il piano deve essere basato su una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti (dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante). E per ciascuna delle componenti della risorsa territorio la lettura deve consentire di individuare quali sono i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quali e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione. E quali costi le diverse trasformazioni comportano.
Il piano deve essere basato su una lettura altrettanto attenta della domanda sociale, cioè delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per ospitare funzioni nuove, o per ospitare altrove funzioni oggi non insediate correttamente, o per rendere i siti in cui già sono insediate funzioni più idonei e adeguati alle funzioni ospitate. E quali sono le risorse disponibili, in relazione alle varie funzioni, impiegabili per operare le trasformazioni necessarie.
Il piano deve definire quali sono - all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione della risorsa territorio - le operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.
Il piano, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse sono certamente disponibili.
Il piano, quindi, deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più certo esplica la propria efficacia.
Il piano, di conseguenza, deve essere contemporaneamente aggiornabile nella sua parte invariabile, o di lungo periodo, e programmabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva.
Il piano deve contenere al proprio interno gli strumenti della propria attuazione: i vincoli sulle risorse (e quindi sui bilanci) degli enti pubblici in vario modo coinvolti nella sua attuazione; gli incentivi e i disincentivi (finanziari, creditizi, fiscali, normativi, tecnici) capaci di indirizzare verso determinate trasformazioni anzichè verso altre l'impiego delle risorse e l'attività degli operatori privati, gli strumenti tecnici necessari per la sua gestione.
Il piano deve rendere il più breve possibile il tempo che separa il momento in cui si sceglie e si decide e quello nel quale la scelta diventa efficace; il processo decisionale, il percorso burocratico devono essere perciò resi completamente diversi da quelli attuali, concludersi in pochi mesi.
Il piano però, e contemporaneamente, deve essere formato e gestito in modo del tutto trasparente (offrendo in tal modo le garanzie oggi fornite solo formalmente dal complesso iter procedimentale), e deve esserlo da un ente che possieda i requisiti della autorevolezza, della rappresentatività e dall'efficacia.
Due corollari
Se fossimo d'accordo con la necessità di questi requisiti, credo che dovremmo poi convenire su due corollari che ne discendono.
Il primo: un piano siffatto è certamente molto diverso dai piani che conosciamo. Ma affermare che questi requisiti sono necessari, significa allora anche affermare che ciò di cui disponiamo oggi (nella cultura, nella legislazione, nella prassi ed esperienza) è solo un insieme di barlumi, di germi, di parziali anticipazioni del piano come deve essere. Significa perciò affermare che è necessario fare uno sforzo consistente per innovare il modo di pianificare: anzi, il modo stesso di concepire il piano.
Il secondo corollario: quei requisiti devono caratterizzare ogni piano, non un piano di un determinato livello. Anzi, devono caratterizzare il processo di pianificazione ad ogni livello, se conveniamo che più d'uno è il livello di governo coinvolto nel processo di pianificazione, nell'azione di governo del territorio.
Ma se questo è vero, allora forse è possibile riconoscere una validità e un senso alla tesi che ho dianzi accennato. Che, cioè, il problema di fondo non è oggi quello di consolidare le esperienze compiute negli ultimi 30 anni per ragionare con quali contenuti o procedure debba essere formato il piano provinciale o comprensoriale, il piano regionale, il quadro delle coerenze nazionali, e con quali definizioni o aggiustamenti di competenze questi differenti livelli di pianificazione debbano correlarsi tra loro e con il piano regolatore comunale. Ma che il problema da porre al centro della riflessione è quello di comprendere come deve svolgersi un'attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che investa con una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.
Le tendenze che devono affermarsi
Con una formulazione che può apparire paradossale, ma che non lo è, voglio affermare che il problema è di fare un piano, il piano, investendo l'insieme del territorio nazionale, nel corso di un unico processo di pianificazione / programmazione / gestione, il quale veda il coinvolgimento e la collaborazione procedimentale degli enti di governo competenti ai diversi livelli.
E se questo è il problema di fondo di fronte al quale ci troviamo, è allora con molta umiltà che dobbiamo porci nei confronti della pianificazione e dei suoi problemi, in questi anni. Con la consapevolezza che non abbiamo certezze se non su pochi punti cardinali; che dobbiamo avere perciò la tenacia e la spregiudicatezza che sono necessarie in una fase è, che deve essere, pienamente di sperimentazione e di ricerca.
Ma è anche con molta fermezza che dobbiamo porci per tentar di fare maturare i processi di pianificazione verso l'unitarietà che riteniamo necessarie. Con uno sforzo che non deve esercitarsi solo sul terreno della riflessione e della ricerca, ma anche sul terreno dell'azione politica, amministrativa, professionale. E allora, in questa direzione, possiamo forse individuare già alcune tendenze che devono affermarsi - nella definizione dei contenuti, delle competenze, delle procedure dei piani ai differenti livelli - perchè quel processo di costruzione della unità del piano possa svilupparsi fin d'ora. Nella consapevolezza che tendere verso l'unitarietà del processo di pianificazione è cosa che certo esige uno sforzo e un impegno nella direzione della “ingegneria istituzionale”, “pianistica”, della costruzione di un nuovo modello pianificazione e di connessione tra i livelli di piano e tra quelli di governo, ma esige anche - una volta individuata la direzione lungo la quale muoversi - l'impiego di determinazione, volontà e lucidità nell'individuare le forme di coordinamento, di unitarietà parziale, perseguibili fin dall'immediato.
Unitarietà delle analisi
Mi sembra che una prima tendenza che deve manifestarsi, un primo passo che bisogna compiere, è quello di ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono, o promuovono, come base per la redazione dei piani. Le analisi che vengono effettuate dalle regioni, dalle provincie, dai comuni - sia sulla struttura fisica che su quella economico-sociale del territorio - non possono essere condotte più secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili, non integrabili. Quelle che vengono impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere sistematicamente integrate (oltre che verificate) da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori: le une e le altre devono essere maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenza.
È una rete di conoscenza che ha la sua base - il suo primo elemento - nel sistema cartografico, che è l'elemento primordiale e fondamentale di ogni processo di pianificazione. E se pensiamo al costo che un sistema cartografico comporta, non possiamo non considerare un gravissimo e ingiustificato danno il fatto che ciascun ente (ciascuna Regione, ciascuna Provincia, ciascun Comune) costruisce la propria cartografia separatamente l'uno dall'altro. È certamente benemerita l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali (forse l'unica struttura di coordinamento delle Regioni che funziona), ma è un'attività monca se e finché le Regioni si disinteressano della cartografia alle scale maggiori, se e finché anche le province e i comuni non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.
E la rete di conoscenze, in tutte le sue componenti di livello, nella sua componente a maglie larghe e in quelle a maglie via via più fitte, deve ovviamente essere aggiornata, con periodicità e sistematicità. Ebbene, è forse utopistico proporre che le date, le cadenze dell'aggiornamento siano le stesse per Regione, Provincia, Comune? che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette e globali a quelle campionarie) sia unitario non solo nella sua concezione, nei suoi indirizzi e criteri, ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione?
Certo, perchè il sistema informativo territoriale raggiunga una sua unitarietà è necessario che un simile obiettivo venga perseguito da tutte le amministrazioni che hanno competenza primaria nel governo del territorio. Non possono essere le Regioni a imporlo a Provincie e Comuni, come oggi avviene là dove qualcosa di tenta di fare - e necessariamente in modo inefficace. Il ruolo delle Regioni è certamente decisivo, ma deve essere chiaro che le analisi sono la base del piano: una buona analisi contiene già in sè quasi l'orditura del piano. Non è quindi ininfluente il modo in cui l'analisi viene compiuta. E non può quindi il Comune delegare ad altri - sia pure espressivi di un “livello superiore” - il modo in cui fare l'elemento decisivo del piano.
Chiarimento delle competenze
Una seconda tendenza che deve affermarsi secondo me molto più ampiamente di quanto oggi avvenga è quella di chiarire in modo più univoco e più rigoroso quali sono gli elementi territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende, da un lato, la possibilità di definire in modo convincente il contenuto dei piani ai differenti livelli, e dall'altro il potere che ciascuno dei livelli di governo esercita, e quindi le procedure. È un chiarimento essenziale, quindi, se vediamo il problema dei diversi livelli di piano e di governo non come un problema di regolazione diplomatica di sovranità diverse (non separate da confini, come quelle tradizionali, ma racchiuse l'una dentro l'altra) ma invece come concorso di diversi livelli di governo del territorio nella formazione e gestione d'un unico piano.
Io continuo a restar convinto che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o comprensoriale, comunale) la determinazione prima (prioritaria) e ultima (decisionale) circa quegli elementi della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello. Così mi sembra indubbio, tanto per fare un esempio, che esiste una competenza di livello nazionale (anche se oggi nessuno sembra in grado di esercitarla) per quanto riguarda la grande rete delle infrastrutture che compongono il sistema nazionale, i conseguenti indirizzi di uso del territorio, così come per quanto riguarda le norme, e che concernono i diritti del cittadino italiano: e tra queste norme e indirizzi io porrei, con incisività, quelle che concernono la salvaguardia e la fruizione dei beni ambientali e culturali, che dovrebbero costituire materia non irrilevante della riforma costituzionale.
Ma la competenza di ciascun livello dovrebbe esprimersi con scelte che invadano il minimo possibile l'autonomia di scelta dei livelli territorialmente inferiori. Ed è possibile costruire una casistica dei diversi “margini di definizione” possibili. Esistono elementi per i quali è indispensabile individuare, nel piano di livello superiore, un'area definita (ad es., la posizione di un traforo o di un valico, o la delimitazione di un porto); altri per i quali è sufficiente un ambito di localizzazione o una direttrice (ad es., per la localizzazione di un aeroporto nel piano nazionale, di una università in un piano regionale, di un istituto scolastico superiore in un piano provinciale, della giacitura di una strada in qualsiasi piano); altri, infine, che implicano solo la definizione di una quantità o di una soglia quantitativa, perchè riguarda elementi della struttura territoriale influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommatoria delle decisioni che ne risultano (ad es., le quantità di strutture produttive, o di popolazione, o di posti barca da attribuire come soglia inferiore e/o superiore a ogni ambito comunale e intercomunale nel piano regionale).
Mi sembra indubbio che per quanto si tenti di contenere al massimo le competenze territoriali dei livelli superiori, esse comunque incideranno sempre sensibilmente sulle scelte dei livelli territorialmente più limitati. È inutile richiamare alla mente gli effetti devastanti che la politica delle ferrovie o quella delle autostrade ha provocato sull'assetto ai intere regioni, provincie e comuni. Si apre allora il grande problema delle procedure. Mi sembra che la tendenza che deve affermarsi è che vi sia un pieno concorso degli enti di livello inferiore nelle scelte dei livelli superiori e, invece, un mero controllo da parte degli enti di livello superiore sulle scelte di competenza dei livelli inferiori. Questa posizione ne comporta un'altra, che è bene rendere esplicita. A mio parere anche nella fase attuale - anche prima, cioè, che il sistema di pianificazione si sia evoluto fino a raggiungere quel carattere pienamente unitario che ho affermato necessario nella prima parte di questa relazione - è necessario che ciascuno dei livelli di governo che ha competenza sull'assetto del territorio definisca le proprie scelte mediante un piano. Cioè, mediante una serie di elaborati, riferiti a una base cartografica (cioè al territorio), che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. Credo che i cosiddetti piani o programmi di settore abbiano un senso, non siano distorcenti, non siano alla fine devastanti nei loro effetti, solo se costituiscono attuazione, o specificazione, di un piano - di un quadro di coerenze - unitario e complesso.
È nell'adozione e presentazione del piano che l'ente competente per livello esplica la sua potestà propositiva. È nella discussione del piano e nella formulazione di proposte alternative o correttive (ma sempre ponendosi all'interno dell'obiettivo della coerenza) che gli enti di livello territoriale inferiore esplicano la loro potestà di concorso. È nella sintesi delle proposte alternative e correttive presentate, e nell'approvazione del piano, che l'ente competente per livello esplica infine la sua potestà decisionale. Ed è solo la conformità e coerenza del piano di livello inferiore agli indirizzi, alle scelte e alle prescrizioni del piano di livello superiore la condizione sulla quale deve essere verificato in sede di controllo. Vorrei affermare - e non per provocazione - che una Regione che non ha formato il proprio piano urbanistico o territoriale non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale, e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare e correggere un piano comunale.
Politica di piano e politica di bilancio
La potestà decisionale degli enti di governo del territorio non dovrebbe però esplicarsi solo nella formazione del piano (del quadro delle coerenze territoriali). Dovrebbe manifestarsi anche, ed essenzialmente, su un altro e decisivo terreno: quello dell'attuazione del piano. Su questo terreno mi sembra debba affermarsi una tendenza che mi sembra ben lungi dal manifestarsi: la subordinazione, o se volete il raccordo obbligatorio, dalla politica di bilancio alla politica di piano.
Quest'affermazione merita di essere precisata. Io sono convinto che in ogni amministrazione che abbia competenza sul territorio la capacità di governo si esplica attraverso due ordini di coerenze: quella sulle scelte economiche (appunto il bilancio), e quella sulle scelte territoriali (appunto il piano). Finchè queste due dimensioni, questi due momenti, si muoveranno indipendentemente l'uno dall'altro, nelle trasformazioni territoriali la legge prevalente sarà sempre quella determinata dallo spontaneismo, individuale o aziendale, dal disordine, dall'abuso; e nella situazione economica delle amministrazioni pubbliche '(ma più generalmente della collettività) gli sprechi e le diseconomie dissiperanno risorse consistenti. Qualunque tentativo o tensione verso una austerità, verso un impiego accorto delle risorse, pretende una grande attenzione agli effetti territoriali. provocati o indotti dalle decisioni d'investimento. E, viceversa, le scelte territoriali, le decisioni di piano, restano monche e astratte se non si prolungano nelle politiche economiche, se non condizionano te decisioni di bilancio. Non mi riferisco, ovviamente, solo alle spese d'investimento, ma anche alle spese correnti: he senso ha decidere di pianificare e programmare il vincolo e poi l'acquisizione di aree per verde e scuole, se contemporaneamente non si impegna il bilancio per la formazione del personale che dovrà gestirle?
La salda connessione della politica di bilancio alla politica di piano deve evidentemente manifestarsi all'interno di ciascuno dei livelli di piano e di governo, per così dire “in orizzontale”. Ma essa è essenziale anche, e forse soprattutto, per le connessioni tra i diversi livelli. Se in un piano di livello comunale si decide, in accordo con le decisioni di pianificazione regionale, di localizzare e attuare una determinata infrastruttura, e in relazione a questa scelta si prevedono determinate trasformazioni nell'area coinvolta o connessa, oppure se in quel piano si prevede un intervento di adeguamento della capacità residenziale sulla base di un determinato programma di attribuzione di finanziamenti operato dalla Regione, occorre che poi il bilancio regionale sia vincolato ad eseguire effettivamente quegli investimenti previsti o programmati. È insomma necessario che operi una connessione tra bilancio e piano anche “in verticale”, anche tra i diversi livelli.
Il problema dell'efficacia
Una ulteriore tendenza e tensione che deve manifestarsi è quella che riguarda l'efficacia degli enti di governo che hanno competenza nella pianificazione territoriale e urbana. Raggiungere questa efficacia è obiettivo irrinunciabile. E raggiungerla in modo omogeneo (in tutti i livelli di governo, in tutte le porzioni di territorio) è condizione essenziale perchè la pianificazione non sia un eterogeneo insieme di atti pianificatori (dove più e dove meno credibili, dove maturi e dove del tutto assenti), ma un sistematico processo che investe l'insieme del territorio nazionale.
Affrontare questo tema, proporre questa tendenza, tentar di soddisfare questa condizione apre certo problemi complessi. Basta pensare a quello del modo di formazione, reclutamento, qualificazione, retribuzione del personale impiegato nelle attività di governo del territorio, e al gigantesco salto qualitativo che è necessario compiere - in primo luogo nella consapevolezza culturale del quadro sindacale e politico. Basta pensare al problema del modo ancora arcaico e “politico” nel quale sono ripartite e frammentate le competenze nelle amministrazioni pubbliche - dal Comune su su fino agli organi centrali, dello Stato.
Ritengo che questo problema, il problema (e l'obiettivo) dell'efficacia del processo di pianificazione sia così. rilevante che esso debba essere assunto quasi come una variabile indipendente rispetto ad altri problemi riguardanti la forma dei piani e i livelli di pianificazione; ciò soprattutto in una situazione, come quella italiana, nella quale le realtà territoriali sono così diversificate (penso alla distanza che separa le regioni dove esiste una consolidata cultura del piano e quelle nelle quali questa è assente, penso al grandissimo numero di comuni con una popolazione di poche migliaia, o addirittura di centinaia di abitanti).
In questo senso, mi sembra del tutto ragionevole che in determinate aree non vi sia un piano comunale, ma questo sia sostituito da un piano di livello intercomunale o comprensoriale o provinciale, il quale abbia la stessa efficacia del P.R.G. pur promanando (certo con le opportune interrelazioni tra i “classici” livelli di governo) da un livello di governo diverso: come del resto già avviene in alcune regioni.
In sostanza, se si concepisce la pianificazione come un insieme continuo che organizza il territorio nazionale come una unica e coerente rete, dove a maglie più larghe dove a maglie più fitte, il prezzo che si pagherebbe per il fatto che le aree pianificate “a maglie strette” non sempre e non dovunque coincidono con le circoscrizioni municipali, mi sembra meno rilevante del prezzo che si pagherebbe per l'inefficacia che si avrebbe in quelle aree dove la consistenza delle realtà comunali non consente di avere una sufficiente dotazione di “servizi del piano”, di raggiungere e superare la soglia al di sotto della quale la pianificazione è impossibile.
Considerazioni conclusive
Perchè i piani di differente livello non costituiscano una congerie di atti di scarsa o nulla efficacia complessiva, ma comincino a configurarsi come elementi di un unico, e coerente, e continuo, processo di pianificazione del territorio nazionale, è quindi necessario che, accanto e a sostegno della riflessione scientifica, si introducano - e via via si generalizzino - alcune decisive e sostanziali innovazioni rispetto al modo attuale di pianificare: innovazioni che concernono (questi sono i temi che mi sembrano più rilevanti) il coordinamento delle analisi, la definizione delle competenze per elementi della struttura territoriale, la conseguente trasformazione nel modo di formulare le procedure, la rigida connessione - a tutti i livelli - della politica di bilancio a quella di piano, l'efficacia degli enti di governo territoriali.
Credo però che si debba sottolineare come l'introduzione generalizzata di tali innovazioni comporti un consistente investimento di risorse.
In primo luogo, di risorse culturali. È giunto il tempo di investire capacità intellettuali. Non nella coltivazione di chiusi e separati orticelli specialistici, magari contrassegnati ciascuno dal titolo di una delle diecimila materie accademiche nelle quali si frammenta il potere universitario. Non nella contrapposizione di scuole l'una all'altra impermeabile e ciascuna esaltata nella contemplazione della porzioncella di verità che possiede. Ma nella ricerca dialettica dei modi in cui deve, e può, unitariamente configurarsi una nuova cultura del territorio.
Una volta, venti o trent'anni fa, la cultura del territorio era l'appannaggio e l'insegnamento e la predicazione di pochi maestri; oggi, può essere solo il paziente risultato di un lavoro di discussione e di confronto e di circolazione di idee e di verità parziali che nascono da mille laboratori, da mille esperienze, da mille realtà - disciplinari, ideali, territoriali - disseminate in tutto il paese. È giunto il momento, io credo, di tessere le fila di questo lavoro - certo faticoso, certo impervio - di ricomposizione dei frammenti di una possibile nuova cultura del territorio.
In secondo luogo, un investimento di risorse politiche. Il futuro, in una società complessa, in un'epoca caratterizzata dai limiti delle risorse naturali, può essere diverso dalla catastrofe unicamente se la primordiale risorsa - il territorio - è amministrata con lungimiranza e con l'attenzione, vorrei dire con l'avarizia, che è necessaria quando si amministra un bene di grande scarsità. Amministrare il territorio vuol dire pianificare. Preparare il futuro per la società di oggi vuol dire gestire il potere democratico, fare politica. La risorsa politica che sembra oggi più necessario investire è la capacità di lungimiranza, di prospettiva.
Lo spegnersi delle tensioni ideologiche ha condotto, negli ultimi anni, al trionfo degli opportunismi, dei corporativismi, degli accomodamenti di breve e mediocre respiro: in una parola, al trionfo della miopia politica. Uno scatto è necessario per far sì che la politica, pur laicizzandosi, ritrovi il respiro dei grandi momenti della nostra storia, il ruolo di costruzione - attraverso il presente - del futuro.
In terzo luogo, infine, è necessario un investimento di risorse economiche. Un assetto territoriale preordinato è fonte di risparmio di risorse. Ma raggiungerlo significa investire, spendere. In primo luogo, dotare di personale e di attrezzature gli uffici e gli enti cui spetta di governare il territorio, metterli nelle condizioni di adoperare i sistemi, le macchine, il personale che sono indispensabili per pianificare, programmare, gestire le trasformazioni territoriali. In secondo luogo, investire nel territorio, il quale è stato sede di interventi così devastanti che ha bisogno di consistenti risorse semplicemente per risarcirlo, per tamponare e far lentamente cicatrizzare le ferite che gli sono state inferte per la carenza di pianificazione e programmazione, per la conseguente proliferazione dell'abusivismo e delle illegittimità sostanziali, per l'abbandono delittuoso nel quale è stata lasciata la difesa del suolo.
Per finire, la questione del regime immobiliare L'impiego delle necessarie risorse culturali, politiche, economiche non è un'esigenza e una predicazione astratta. Ha una prima occasione sulla quale cimentarsi. È un'occasione basilare e fondamentale, perchè da essa dipende - in ultima istanza - l'efficacia di ogni possibile modo di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Mi riferisco, com'è ovvio, alla questione del regime immobiliare.
L'aver lasciato per decenni irrisolta questa questione è colpa grave per quanti potevano agire e non hanno agito, come per quanti dovevano sollecitare e protestare e non l'hanno fatto, o l'hanno fatto troppo debolmente e sporadicamente. Finché quella questione non sarà risolta, finché permarrà l'incertezza sul modo in cui potestà pubblica e diritti patrimoniali privati trovano le regole dei loro reciproci comportamenti, finché insomma espropriazioni, indennità, vincoli, convenzioni saranno lasciate alla discrezionalità degli amministratori e all'oscillazione della giurisprudenza, l'attività di pianificazione e programmazione resterà qualcosa più vicino alla sfera dell'accademia che a quella del concreto intervento sul territorio.
Testo ottenuta dalla scansione, mediante un programma OCR e successiva revisione, dal testo raccolto negli atti del convegno. Gennaio 2008
Il suo obiettivo era rendere la città più bella e funzionale. Aveva colto due punti centrali della verità dei suoi e dei nostri tempi. Aveva colto due insegnamenti della storia che hanno permeato la cultura degli urbanisti e degli amministratori quando i valori e le esperienze dell’Europa democratica, dopo l’eclissi fascista, rientrarono nel nostro paese. Due insegnamenti che oggi molti sembrano aver smarrito.
Il primo. La città non è un ammasso di case, non è il mero risultato quantitativo dell’aggregazione di edifici e di persone, non è il cieco prodotto del mercato. È una creatura sociale, un prodotto del lavoro collettivo e storico, e in quanto tale ha un’individualità che trascende la somma delle individualità che la compongono. Ed è un prodotto destinato a durare, a rimanere nel tempo uguale a se stesso pur nel succedersi delle sue trasformazioni. È quindi un oggetto che deve essere progettato e riprogettato di continuo, con una regia che non può essere che pubblica.
Il secondo. La base necessaria per la bellezza e la funzionalità della città è la proprietà indivisa del suolo urbano: le sue parti, i suoi “lotti” e i suoi spazi, possono essere usati dai cittadini, dalle famiglie, dalle aziende, ma la collettività deve restare padrona della propria base. Tra gli effetti negativi di quella grande ventata liberatrice dell’ingegno e dell’attività umana che fu la rivoluzione borghese, il primo, nei paesi dell’Europa continentale, fu quello di liquidare questa necessità pratica. La sconfitta dell’ancien régime aveva provocato la privatizzazione del suolo urbano:
“Nella notte tra il quattro e il cinque agosto 1789, la nobiltà francese non aveva forse abbandonato i suoi privilegi e la sua proprietà fondiaria insieme a tutti i tributi e le prerogative? Il suolo era dunque divenuto libero. Non era più proprietà e titolo di diritto della nobiltà o del clero ma dei cittadini e dei contadini cui veniva venduto o assegnato. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune. In tutte le discussioni aveva sempre la meglio il sentimento di libertà e di indipendenza appena riconquistate. Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune[1].”
L’appropriazione privata del suolo urbano ha costituito, per la città e la società che la abita, una sciagura colossale. È nata la speculazione:
“Ognuno vendeva il proprio fondo al prezzo più alto possibile. Lo sfruttamento speculativo del terreno da parte delle società fondiarie fu condotto con metodo.[…] La rendita più alta si ottiene dal terreno maggiormente sfruttabile: un’area su cui sia consentito costruire edifici di cinque piani, frutta più di un’area dove, secondo la legge edilizia in vigore, si possono costruire edifici di due o tre piani al massimo. In egual modo un’area edificabile per i tre quarti della superficie frutta una rendita maggiore rispetto ad una edificabile solo per un quarto o un quinto. La rendita ed il prezzo di vendita del terreno saranno tanto più alti, quanto più alto sarà il numero di appartamenti e negozi edificabili su di una determinata superficie. Come la speculazione fondiaria aveva imposto il gran numero di lotti d’angolo, anche l’edilizia riuscì ad imporre i cinque piani [2].”
La bellezza è stata sostituita dall’arricchimento del proprietario, il progetto non è più «lavoro creativo, ma un semplice problema di calcolo». E se «nella loro impotenza molte città istituirono a fianco della vigilanza per gli aspetti tecnici dell'edilizia anche una vigilanza estetica», presto «le sentenze [di quest'ultima] furono sentite non a torto come un'inopportuna intromissione in faccende private». Se la città non è proprietaria del suolo sul quale nasce e si sviluppa, il suo potere diventa subalterno, l’iniziativa passa ad altre mani: «Non potendo rifiutare progetti edilizi insoddisfacenti, la città è costretta ad accontentarsi di proporre solo miglioramenti, ecco perché la mediocrità predomina sempre»[3].
Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però, comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero. Ora invece non è più così: ora accade che
“[...]quando la città progetta di costruire una struttura pubblica come un parco, uno stadio, una scuola, una caserma dei vigili del fuoco o un cimitero, per reperire il terreno deve rivolgersi ai proprietari privati. Questi si mettono a disposizione sorridendo, ma lasciano cortesemente intendere che potrebbe essere una faccenda piuttosto costosa. Si inizia a trattare, a tirare sul prezzo e quanto più il terreno risulterà adatto agli scopi previsti, tanto più alto sarà il prezzo fissato dal proprietario. Il rappresentante del comune deve spesso abbandonare il gioco stringendosi nelle spalle. Cercare l’area adatta diventa una via crucis per molti edifici pubblici, perché un teatro, un museo o un municipio non possono accontentarsi di appezzamenti casuali. […]Per questo le nostre città difettano di aree libere per gli adulti e di parchi giochi per i bimbi. Occorre pagare un alto prezzo per il terreno [4].”
Per restituire funzionalità all’organismo urbano, per correggere gli effetti della privatizzazione del suolo la società ha dovuto ricorrere a strumenti parziali: gli espropri là dove le strade dovevano essere realizzate e dove la città doveva essere risanata o ristrutturata, la zonizzazione là dove occorreva regolare in modo differenziato l’edilizia, le sue utilizzazioni, i suoi rapporti col suolo. E’ nata così la pianificazione urbanistica, come strumento inventato per risolvere problemi che il mercato era incapace di affrontare[5].
Gli strumenti regolativi e autoritativi che la borghesia ha via via inventato per tentar di condizionare la perdita della disponibilità del suolo si sono rivelati in effetti strumenti utili per correggere gli errori più macroscopici e soddisfare le esigenze più urgenti: ma ciò è avvenuto solo là dove il potere della città (la politica, l’amministrazione) ha saputo contrastare con decisione il potere della proprietà immobiliare, sconfiggendolo o piegandolo. Quegli strumenti non sono stati mai utili all’interesse collettivo quando il potere pubblico è sceso a patti con i “poteri forti” della città, né tanto meno quando – come nell’attuale clima politico – si è addirittura proposto di rovesciare secoli di storia ed esercitare la pianificazione del suolo urbano mediante «l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi»[6].
Nel pensiero di Bernoulli l’esigenza pratica (il suolo deve essere indiviso perché la città possa essere bella e funzionale) si salda con l’esigenza morale: non è giusto che un bene comune, la terra, sia occupato dal primo che se ne impossessa, o dal più avvantaggiato dalla ricchezza o dal potere. Notevole è in lui l’influenza del pensatore statunitense che l’aveva da poco preceduto, Henry George (1839-1897)[7].
Per George l’appropriazione privata della terra era, nel mondo contemporaneo, un’illogicità palese:
“ […] far derivare un diritto individuale esclusivo e pieno all’uso della terra dalla priorità di occupazione, gli è questa, se possibile, la più assurda base, su cui uno possa collocarsi per difendere la proprietà della terra. La priorità di occupazione dare un titolo esclusivo e perpetuo alla superficie di un globo, su cui, nell’ordine della natura, generazioni innumere si succedono! O che gli uomini dell’ultima generazione avevano forse maggior diritto all’uso di questo globo che noi della generazione attuale? O lo ebbero quelli di cento, di mille anni fa? […] O che il primo arrivato ad un banchetto avrà il diritto di capovolgere le sedie e di pretendere che nessuno degli altri invitati tocchi la mensa apprestata, se prima non sia venuto a patti con lui? E chi primo presenta un biglietto alla porta di un teatro ed entra, acquisterà per questa sua priorità il diritto di chiuder le porte e di avere la rappresentazione per sé solo? E il viaggiatore che primo sale in vagone avrà il diritto di occupare coi suoi bagagli tutti i posti e di costringere quelli che salgono dopo di lui a starsene in piedi?[8]”
Invero ciò che spingeva George a criticare la proprietà fondiaria e a denunciarne l’illogicità non era solo una sollecitazione morale, ma una precisa esigenza economica. L’obiettivo di George (tipografo autodidatta, ma attento lettore di Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mills) era quello di abolire le tasse sul reddito, che deprimevano produzione e consumo, per instaurare un’imposta unica sulla proprietà della terra. L’obiettivo che proponeva era contrastare con l’imposizione fiscale il peso della rendita; eliminare così, o fortemente ridurre, la taglia che questa pone allo sviluppo delle forze produttive, per potere liberare queste (liberare il profitto e il salario) e consentire alla loro dialettica di proseguire lo sviluppo della produzione e, per questa via, eliminare la povertà.
È interessante ricordarlo oggi, in Italia. La destra italiana è da tempo abissalmente lontana da quella del liberalismo e del liberismo dei Croce e degli Einaudi , e la borghesia del nostro paese è sempre stata più abile a stimolare l’accrescimento dell’assistenzialismo e del parassitismo di Stato che a impiegare innovazione e competizione per lo sviluppo della produzione. Ciò nonostante, non molti decenni fa l’obiettivo della riduzione del peso della rendita immobiliare era condiviso da un arco ampio di forze politiche e sociali, che andava dal pci a parti consistenti della dc, dai sindacati dei lavoratori a esponenti di spicco del mondo imprenditoriale. Oggi quell’obiettivo è scomparso su quasi tutti i versanti dello schieramento politico.
Attivo nel dopoguerra in molte città europee come urbanista e conferenziere, Bernoulli propagandò le sue idee e le sue esperienze nel fervido terreno della ricostruzione posbellica. La sua fama giunse anche in Italia. Il libro per il quale è più noto, La città e il suolo urbano, fu tradotto da Luigi Dodi e pubblicato da Vallardi nel 1951. Ebbe un peso notevole sulla cultura urbanistica italiana di quegli anni: gli anni fecondi in cui, nelle esperienze dei paesi dell’Europa socialdemocratica, si cercarono soluzione adeguate a rendere migliori le nostre città. Le argomentazioni dell’urbanista elvetico alimentarono il dibattito che sfociò nelle proposte di “riforma urbanistica” degli anni Sessanta. Si aprì allora quel vasto e inconcluso “processo di riforma” che non giunse a sciogliere il nodo della disponibilità dei suoli urbani, e condusse invece, fino alla conclusione del decennio successivo, a risultati parziali ma significativi: le leggi per sottrarre la condizione abitativa all’arbitrio totale del mercato, quelle per rafforzare il potere pubblico e generalizzare la pratica della pianificazione, quelle infine (last but not least) per sottrarre quantità adeguate di aree agli usi privati e al primato della speculazione per destinarle ai servizi collettivi e al verde.[9]
In realtà il peso della rendita nel sistema economico-sociale (e nel sistema di potere) dell’Italia postunitaria era ben più grave di quanto non fosse negli altri paesi dell’Europa. Il modo stesso in cui si era giunti alla formazione dello Stato unitario (un compromesso, di portata storica, tra la borghesia imprenditoriale e agraria del Nord e la feudalità latifondista e parassitaria del Sud) aveva costituito nella rendita fondiaria, e nelle classe sociali che ne beneficiavano, una delle colonne del potere condiviso della nuova direzione politica dello Stato. La trasformazione della rendita fondiaria agraria in rendita urbana, sapientemente descritto da Bernoulli nelle sue caratteristiche generali, era divampata in Italia ed era proseguita ininterrottamente in tutte le fasi di trasformazione demografica e d’espansione delle città che si sono susseguite (fatte salve le pause belliche) dall’Unità alla ricostruzione del secondo dopoguerra.
Non è casuale il fatto che l’utilizzazione delle tesi di Bernoulli e il dibattito sulla “riforma urbanistica” siano avvenute in Italia proprio in quel decennio. Negli anni Cinquanta del secolo scorso si cominciava a modificare sensibilmente lo scenario, sul terreno dei fatti e su quello delle consapevolezze.
Si era conclusa la fase della ricostruzione della base materiale del paese. Case, strade, ferrovie (le fabbriche erano state salvate dalla distruzione grazie alla resistenza della classe operaia) erano state ricostruite, con un massiccio ricorso all’attività di imprese edilizie frettolosamente allestite. Era appena stata approvata, nel periodo bellico, una buona legge urbanistica nazionale[10]. Ma gli strumenti della pianificazione da essa previsti erano stati presto accantonati, nella convinzione che ciò avrebbe significato liberare l’attività edilizia da lacci e lacciuoli, accelerando così la ricostruzione. Ciò avvenne, ma rendendo invivibili le città e devastando il territorio in vaste aree del paese.
Nello stesso periodo l’Italia, abbandonando l’autarchia imposta dal regime fascista, era entrata nel mercato mondiale. Per stimolare la ripresa della produzione industriale in settori in cui si riteneva più facile vincere la competizione con le imprese straniere, si promosse l’espansione della domanda di beni di consumo durevoli: primo fra tutti l’automobile. Si costruirono autostrade e si sostennero le industrie dell’automobile e dei pneumatici, ma si rinunciò alla ricerca di modalità collettive per risolvere problemi di massa, quale quello della mobilità. La rapida trasformazione dell’economia da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale provocò l’abbandono delle campagne e delle aree del Meridione e l’espansione incontrollata delle città e delle aree industriali del Nord. Aumentò così la congestione urbana.
La crescita della democrazia e l’ingresso delle donne nel processo produttivo aumentarono la domanda di servizi sociali, di verde pubblico, di asili e scuole. Aumentava insomma la domanda di aree per le esigenze collettive: ma l’urbanizzazione era dominata dalla speculazione, ogni lotto era utilizzato per costruire abitazioni vendibili. La carenza dei servizi che man mano divenivano essenziali, la mancata disponibilità di alloggi a prezzi moderati, le condizioni del traffico urbano, tutto ciò incideva pesantemente sui costi della vita. La spinta salariale divenne irresistibile: attraverso il carovita la rendita urbana e le disfunzioni della città premevano sul profitto.
L’imprenditoria più avanzata, che aveva raggiunto livelli competitivi con l’industria estera, cominciava a sentire ormai la rendita (e i suoi effetti sull’organizzazione urbana) come un ostacolo. Nelle regioni del Nord e del Centro l’ambiente sociale e quello economico divenivano favorevoli alla ripresa delle pratiche razionalizzatici della pianificazione urbanistica; e questa, infatti, governò, o almeno controllò, le trasformazioni delle regioni a Nord della Capitale.
Il tentativo di applicare quasi alla lettera la proposta di Bernoulli (realizzare l’espansione della città su suolo preliminarmente reso pubblico e concedere agli operatori il solo diritto di utilizzazione) fu coraggiosamente esperito da un ministro democristiano, Fiorentino Sullo. Egli propose una legge di riforma urbanistica che prevedeva che l’espansione delle città avvenisse, in modo generalizzato, su aree acquisite al patrimonio pubblico dei comuni e assegnato agli utilizzatori non in proprietà ma in uso, per un numero determinato di anni (“diritto di superficie” per 99 anni rinnovabili). Ma il blocco di potere che nei decenni si era saldato attorno alla rendita e all’attività edilizia frustrò il tentativo. Alla vigilia delle elezioni del 1963 il ministro fu sconfessato dal suo partito, sostituito nel nuovo governo. La sua proposta di legge venne ripresentata per più legislature dal pci, senza fortuna. Il vento aveva girato[11].
Si può dire che, da allora, la lotta per la riappropriazione del suolo urbano da parte della collettività si è trasformata da guerra dichiarata a guerriglia, si è ridotta da battaglia campale a un disordinato insieme di isolati episodi di lotta corpo a corpo, combattuti da qualche comune più avveduto o da qualche comitato di cittadini più agguerrito.
L’industria avanzata, dopo aver fornito occasionale sostegno ai tentativi di liberare profitto e salario dalla rendita [12], aveva trovato più comodo accomodarsi al banchetto della spartizione della ricchezza del paese. Non aveva investito il profitto nell’accrescimento del capitale industriale, cioè nell’accumulazione e nell’innovazione, ma aveva puntato in misura sempre più larga sulla rendita immobiliare e finanziaria.
Il tentativo di condizionare la rendita, di contrastarla con politiche urbanistiche orientate ad adoperare gli strumenti delle “piccole riforme” per migliorare le condizioni della vivibilità urbana (casa, servizi, trasporti, verde), è rimasta nelle mani delle amministrazioni locali. E’ soprattutto grazie a queste se in molte parti del paese le città hanno un certo ordine, se il rapporto tra spazi pubblici e aree private, tra spazi aperti e lotti edificati non è troppo distante da quello che si vede in altri paesi europei, se la vita urbana si svolge in condizioni decenti. Mentre è certamente al peso della rendita immobiliare, alla debolezza delle amministrazioni pubbliche, alla mancanza di una rigorosa e avveduta politica nazionale del territorio che si deve se, in altre parti del paese, il territorio è devastato e le città invivibili.
Si può dire che fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, sebbene fosse stata accantonata la speranza di un nuovo regime proprietario dei suoli urbani, la rendita immobiliare era comunque rimasta un soggetto pericoloso che occorreva contenere. Era rimasto intatto il principio che la città è un bene comune (la prima delle intuizioni di Bernoulli) e che quindi il suo governo, attraverso la pianificazione urbanistica, era responsabilità piena del potere pubblico. Il segno cambiò tra la fine degli anno Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.
Il potere politico, nel governo nazionale e nelle amministrazioni locali, non era più esercitato in funzione di interessi generali. Era diventato fine a se stesso. Il “partito” contava più dell’istituzione: la parte contava più del tutto. Per rafforzare la parte era lecito eludere la legge, fornire decisioni pubbliche per favorire interessi privati ottenendo in cambio una “tangente”. Le decisioni urbanistiche (insieme a quelle sulla gestione amministrativa) erano un terreno particolarmente favorevole al proliferare di queste pratiche. Se favorisco, con una variante al piano regolatore, il proprietario di un terreno perchè lui possa costruire edilizia da vendere il suo terreno vale di più, ottiene una rendita più elevata, può tagliarne una parte e regalarla sottobanco a me amministratore, o al mio partito.
Perchè ciò possa avvenire è necessario che la pianificazione non sia più un insieme di regole valide per tutti, formate in modo trasparente: così come la legislazione urbanistica, bene o male, impone di fare. Occorre che le scelte sul territorio siano contrattate tra i promotori immobiliari e l’amministrazione (o la segreteria del partito). Nacque così la pratica che ha preso il nome di urbanistica contrattata. Questa fu quindi, da una parte, l’espressione più piena di quel fenomeno che fu definito Tangentopoli[13], ma dall’altra parte fu una delle manifestazioni dello smarrimento di alcuni valori di fondo che la civiltà europea aveva sedimentato negli ultimi due secoli, nel tentativo di correggere alcuni errori più gravi del sistema capitalistico borghese e dell’economia di mercato, se non di superarne i limiti. Mi riferisco in primo luogo all’attribuzione al potere pubblico della responsabilità di decidere, con procedure trasparenti e partecipate, il futuro della città a partire dal suo disegno e dalle utilizzazioni dei suoli, superando la miopia delle scelte dettate da interessi individualistici. E mi riferisco in secondo luogo all’invenzione di strumenti di decisione che consentano di affrontare l’insieme dei problemi connessi al funzionamento della città, superando l’ottica frammentata del mercato.
Quando slogan come “privato è bello”, “meno Stato e più mercato”, “basta lacci e lacciuoli” divennero dominanti nell’area della destra e popolari in quella della sinistra, fu facile comprendere che era iniziata “la notte dell’urbanistica”[14]. Il terreno nel quale Hans Bernoulli (e altri saggi scrutatori della realtà) aveva gettato il suo seme era divenuto arido.
Tra gli urbanisti italiani, la fase che si aprì con Tangentopoli fu definita “controriforma urbanistica”. Era infatti il rovesciamento secco e l’antitesi di quella stagione di vera tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta.
Il punto più basso di questo vero e proprio declino della civiltà del governo urbano è stato probabilmente raggiunto nella stagione alla quale stiamo volgendo le spalle: quella dei reiterati condoni dell’abusivismo urbanistico, dello smantellamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, dell’assunzione del mercato a misura di tutte le cose, della privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica che abbia come obiettivi l’uguaglianza, la fraternità, la libertà. Il fenomeno più significativo è forse l’arroganza della nuova espressione del mondo della rendita, dei cosiddetti “immobiliaristi”.
L’incremento della rendita immobiliare che è stato promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata nei due decenni trascorsi è stato così consistente da consentire a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico, come la Banca nazionale del lavoro e il Corriere della sera. E’ stata documentata dalla magistratura la complicità di eccellenti organi istituzionali, come il Governatore della Banca d’Italia, ed è stata testimoniata dalla stampa la simpatia per gli “immobiliaristi” di insospettabili esponenti di gruppi politici, come il segretario nazionale dei ds.
Il documento più espressivo del clima degli anni che ci auguriamo siano alle nostre spalle è probabilmente la cosidetta «Legge Lupi»: in essa si proclama, e lucidamente si persegue, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa”, cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività “negoziale”, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[15].
Ma appaiono ormai all’orizzonte i segni di una svolta. L’aggravamento delle condizioni di vita nelle città (l’abitazione, il traffico, l’inquinamento) accresce la consapevolezza che occorre una politica regolatrice pubblica. I disastri che devastano il territorio e cancellano vite umane rivelano l’insensatezza delle pratiche che hanno consentito la trasformazione in una «repellente crosta di cemento e asfalto», come ripeteva Antonio Cederna. Il declino dell’industria italiana spinge a ricercarne le cause e ad individuarne una certamente non marginale nelle occasioni d’investimento alternative fornite dalle rendite finanziaria e immobiliare. Comincia a farsi strada la convinzione che il paesaggio, il territorio aperto, i beni culturali siano la ricchezza essenziale cui il paese può affidare il suo sviluppo, abbandonando i traguardi della crescita quantitativa della produzione di merci per costruire le prospettive “innovative” della messa in valore delle qualità dei beni storici, artistici, culturali, naturali dei quali il nostro territorio è intriso.
È maturo il tempo per rileggere le pagine di Hans Bernoulli, in una traduzione fedele alla pulizia e allo stile del linguaggio lirico nel quale fu scritto (l’urbanista era anche letterato e poeta), non per compiacersene, ma per trarne le conseguenze culturali e politiche.
[1] Qui pag. 35-36.
[2] Qui pag. 37, 38.
[3] Qui pag. 39.
[4] Qui pag. 39.
[5]Il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, può essere considerato quello di New York del 1811. La città aveva raggiunto 60 mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e depositi. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori. Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città.
[6] Il riferimento è al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005. Si veda in proposito Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”, Alinea editrice, Firenze 2005.
[7] Nato a Filadelfia nel 1830, morto a New York nel 1897, Henry George fece molti mestieri: marinaio, minatore, tipografo: Girò il mondo, prima e dopo aver scritto l’opera per la quale è noto. Progresso e povertà ebbe una notevole diffusione, non solo nei paesi di lingua anglosassone. Autodidatta, studiò l’economia sui testi dei classici dell’epoca, ma soprattutto sulle condizioni reali del mondo del lavoro. La sua teoria trasse ispirazione da David Ricardo e da John Stuart Mill; influenzò particolarmente il pensiero del socialismo americano ed europeo della fine del xix secolo.
[8]Henry George, Progresso e Povertà. Indagine sulle cause delle crisi industriali e dell’aumento della povertà in mezzo all’aumento della ricchezza. Il Rimedio, Robert Schalkenbach Foundation, New York 1963 (ristampa dell’edizione italiana utet, trad. di Ludovico Eusebio, Torino 1888).
[9] Mi riferisco in particolare: alla legge 167/1962, che promosse la costruzione di quartieri integrati socialmente e urbanisticamente, finanziati con risorse pubbliche e private, su terreni preliminarmente espropriati dai comuni, dotati di tutti i servizi necessari; alla legge 765/1967 e al successivo decreto 1444/1968, che generalizzarono la pianificazione urbanistica, regolarono le lottizzazioni a scopo edificatorio e imposero la presenza, nei piani urbanistici, di una quota minima di aree per il verde e i servizi pubblici nei piani urbanistici; alla legge 865/1971, che instaurò un’efficace sistema di programmazione statale, regionale e comunale per il finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica; alla legge 10/1977, che introdusse (sia pure ambiguamente) il principio che la facoltà di costruire non è una diritto appartenente alla proprietà ma il risultato di una concessione pubblica; la legge 392/1978, che rese omogeneo e governabile (ma non fu governato) il controllo pubblico sui prezzi delle abitazioni private.
[10] Legge 14 agosto 1942 n. 1150, «Legge urbanistica».
[11]Lo scandalo edilizio è il dolorante racconto della vicenda da parte del suo maggiore protagonista, Fiorentino Sullo. Un’analisi rigorosa della realtà sociale che provocò la sconfitta di Sullo è costituita dal saggio di V. Parlato, Il blocco edilizio, pubblicato sulla rivista Il Manifesto, nel n. 3-4 del 1970; ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972. E’ disponibile online in eddyburg.it.
[12] In un’intervista rilasciata al settimanale l’Espresso, Gianni Agnelli, presidente della fiat e dopo poco presidente della Confindustria, si dichiarò convinto “che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impreSa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire”. Citato in P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992.
[13] «L'urbanistica contrattata è la sostituzione, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti» (Della Seta, Salzano, L’Italia a sacco, p. 100).
[14] Fu il titolo di una grande manifestazione popolare, organizzata da Vezio De Lucia e Antonio Bassolino, sulla spiaggia di Bagnoli, in occasione dell’approvazione della legge Berlusconi-Radice sul condono edilizio, nell’estate del 1994.
[15] Mi riferisco al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» approvato dalla Camera dei deputati ma decaduto non avendo avuto l'approvazione del Senato prima dello scioglimento del parlamento. Il testo del disegno di legge e un’ampia rassegna delle critiche sollevate è contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”.