Il manifesto, 6 luglio 2016 (p.d.)
Una fotografia costruita sul silenzio, quindi, che è la trasposizione dell’idea del viaggio, della distanza, di una certa fragilità connessa con la condizione esistenziale della solitudine, ma che sollecita anche una memoria sensoriale. Certamente tematiche che hanno a che fare con il vissuto personale del regista iraniano che, come è noto, iniziò la carriera cinematografico con il cortometraggio Il pane e il vicolo (1970), seguito quattro anni dopo dal film Il viaggiatore, ma che durante la Rivoluzione del ’79 – essendo impossibile girare film nel suo paese – decise di trasferirsi in campagna. È lì, nella vastità degli orizzonti dominati da forti contrasti, tra luci abbaglianti e una natura non sempre accondiscendente, che cominciò a fotografare.
Quegli scatti erano il «dono» che faceva agli amici rimasti a Teheran: il modo per condividere con loro la libertà della natura, di luoghi incontaminati. «Queste mie foto e visioni sono il contrario della società iraniana e di quello che succede in Iran» – affermò nel 2009, in occasione della personale Abbas Kiarostami. Fotografie a colori e bianco e nero, organizzata a Roma dalla galleria Il Gabbiano – «Ho iniziato a fare foto così venticinque anni fa e, se ancora oggi continuo a scattarle nello stesso modo, è perché la gente può rovinare la società, ma non le pianure e la natura».
Una natura che, con le sue interferenze emotive, si rivela profondamente diversa rispetto alla visione lucida con cui la raffigura un altro grande interprete iraniano, Nasrollah Kasraian (attivo dal 1966), primo fotografo in Iran ad occuparsi di paesaggi. Come lui Kiarostami, che ne apprezzava il rigore, alternava il linguaggio del bianco e nero con il colore. Dichiarando, tuttavia, la predilezione per il primo che gli consentiva di prendere le distanze dal soggetto, interiorizzandolo: «soprattutto quando fotografo la natura, mi permette di farla diventare la ‘mia’ natura». Diversamente dalla sequenza cinematografica – «la fotografia è la madre del cinema», sosteneva – le sue immagini fisse sono momenti isolati, inquadrati spesso attraverso il parabrezza dell’automobile: una sorta di cornice, ulteriore filtro per connettere il mondo interno con quello esterno. Nascono così, frutto di una solo apparente casualità, gli «haiku fotografici» della serie Rain (2007-2008). «Stavo guidando, pioveva e il tergicristallo non funzionava. La macchina fotografica era sul sedile, accanto a me. Mi sono fermato e ho cominciato a scattare foto».
In realtà quel momento era stato preceduto da anni di attraversamento dello sguardo, al di là del parabrezza o dei finestrini dell’automobile, in viaggio – ancora ed ancora – per le strade dell’Iran e non solo. Il viaggio stesso è un tema centrale della sua produzione cinematografica, occasione per esplorare territori lontani, dall’Africa al Giappone passando per l’Italia con Copia conforme (2010), di cui le riprese sono state effettuate in Toscana. Interamente girato in un’automobile è, ad esempio, Ten (2002), come successivamente Like someone in love (2012), mentre il treno in corsa è lo scenario di Tickets (2005) con E. Olmi e K. Loach. Però «L’attimo decisivo», tornando alla fotografia, arrivò solo quando, con l’avvento della tecnologia digitale, Kiarostami ebbe la possibilità di dominare la luce, attenuando i riflessi che inevitabilmente avrebbero creato delle interferenze. «Pensai, allora, che era arrivato il momento di tornare a quella vecchia idea. Avrei potuto fotografare guidando. Feci così: una mano sul volante e l’altra impegnata a scattare la foto».
Il fluire delle immagini, catturate in velocità, sono comunque frutto di un’«immediatezza costruita», ossimoro permettendo. La caratteristica di una dominante riflessiva che appartiene alla fotografia su pellicola – determinata dalla necessità del limite delle pose (i rullini ne contavano 24 o 36) – sembra però una costante anche della «deviazione» digitale con cui Abbas Kiarostami ha confermato la sua libertà di visione. «In quell’indefinibile danza di linee, punti e colori che forma l’immagine», la presenza dell’uomo è sempre indiretta. Ma dietro il profilo ondulato di una collina o dell’albero che s’intravede tra le gocce di pioggia c’è lo sguardo di chi lo ha fermato, per sempre.
. Il manifesto, 14 maggio 2016 (p.d.)
Sono gocce rosso-sangue, bollenti e brillanti, l’anima di questi macigni che hanno costruito la storia del mondo e della Sardegna prima degli Dei». Così aveva confidato a un amico giornalista Pinuccio Sciola una calda notte di maggio del 1974. Con la fiamma ossidrica, nel suo giardino di aranci di San Sperate, lo scultore che s’è spento ieri all’età di 74 anni per un’emorragia cerebrale era riuscito a fondere il basalto. Così era Sciola, artista di origini contadine che ai miti e agli archetipi di una terra antica era legato indissolubilmente. Quel giardino di aranci è poi diventato nel tempo il «Giardino sonoro», labirinto di blocchi di calcare e di grandi masse di basalto e di granito scolpite con una tecnica che Sciola ha inventato nel 1999: profonde incisioni parallele che segnano la pietra e che, percorse con le mani, o con un sasso o anche con l’arco di violino, producono suoni strutturati. La scultura diventava strumento musicale. «Ma – diceva Sciola – arte sono anche quelle pietre, quei sassi che io non sfioro, perché l’arte è nella natura. Non è un inno alla bellezza un prato di primule e di papaveri?».
Non c’era però niente di ingenuo in questo tenersi di Sciola dalla parte del linguaggio primario della natura. Era nato in una famiglia di contadini, in una regione della Sardegna, il Campidano, in cui la forza dei codici antichi della tradizione ha contrastato, sino a pochi decenni fa, una modernizzazione per molti versi violenta e per altri cialtrona. Quei codici, che sono stati «codici di resistenza», Sciola li ha filtrati alla scuola della grande cultura europea, li ha fatti passare al vaglio della riflessione teorica delle maggiori correnti artistiche del ’900. All’Accademia di Salisburgo, dove ha compiuto i suoi studi dopo una breve tappa fiorentina, è entrato in contatto con Minguzzi, Kokoschka («Volle conoscere tutte le chiese preromaniche sarde, gli rimase impressa San Nicola di Ottana»), Manzù, Wotruba e Sassu.
Il suo primo lavoro importante fu nel 1972, quando collaborò con Henry Moore nell’esposizione al Forte Belvedere di Firenze. Dopo quell’esperienza, altre tappe del suo percorso furono gli studi alla Moncloa di Madrid, un lungo soggiorno a Parigi e, soprattutto, la frequentazione a Città del Messico con David Alfaro Siqueiros. «Siqueiros – diceva – mi ha fatto capire il senso dell’arte e insieme il valore della vita». Tornato in Italia, Sciola trasformò il suo piccolo borgo di contadini nel luogo privilegiato di un progetto di arte sociale che si rifaceva alla lezione dei muralisti messicani (Rivera e Orozco li aveva conosciuti attraverso Siqueiros). Le case di tufo di San Sperate furono affrescate ad lui stesso e da artisti che arrivarono da tutto il mondo. L’intera comunità che, a metà degli anni 70, partecipò a un’esperienza collettiva da cui nacque un museo a cielo aperto, che tuttora si snoda nelle stradine e nei vicoli del paesino. E che va ad aggiungersi al «Giardino sonoro» della casa nella quale Sciola ha voluto continuare a vivere e dalla quale si muoveva per le mostre in Europa e in America, con le sue opere monumentali nel parco del castello di Oiodonk in Belgio, al Palace Trianon di Versailles, al Barndorf Beio Baden di Vienna, in piazze di New York e Chicago, Londra e Stoccolma, Barcellona.
Guardando la sua intera produzione, Sciola può essere iscritto a una sorta di «linea sarda», che allo scultore di San Sperate arriva partendo da Costantino Nivola e attraversando Maria Lai. Tutti e tre legati a una visione dell’arte che intreccia l’attenzione per ciò che sfugge alla storia (l’archetipo e il mito) a una fortissima connotazione relazionale del lavoro dell’artista. Dire l’ineffabile per creare nuova socialità.
Il manifesto, 14 marzo 2015
Era un canto, una ballata di racconto e di riflessione, una voce che raccontava una storia comune, sua e del pubblico che come lei vedeva, capiva e lottava. L’Italia in lungo e in largo è l’attacco di una famosa composizione di Giovanna Marini, vivida e pungente nonostante l’apparente nonchalance con cui l’autrice passava in rassegna un paese pieno di contraddizioni, sofferenze e anche involontario umorismo. Era come il film delle sue «tournée», che erano veri viaggi di tenace militanza fatti su pulmini sgangherati e treni ansimanti e affollati. Quell’attraversamento di una condizione, sentimentale sociale e politica (una sorta di inno nazionale alternativo allora, quando l’ascoltammo le prime volte) torna ora, dopo più di quarant’anni, a raccontare un paese che nel profondo non è cambiato nelle sue sofferenze, a dispetto delle molte trasformazioni, spesso solo superficiali.
E torna anche, quell’attacco, a dar titolo a un cd (appena pubblicato da Finisterre e distribuito da Egeamusic) in cui Giovanna Marini, assieme, in accordo o in controcanto, con la più brava e solida delle sue allieve, Francesca Breschi, raccoglie molti brani di quegli anni e degli anni successivi, alcuni divenuti famosissimi come I treni per Reggio Calabria, unica documentazione di una vera epopea liberatoria, e altri rimasti in una dimensione più intima come Lamento per la morte di Pasolini o Ragazzo gentile. Canzoni bellisime tuttora, Commoventi fino alle lacrime, eppure rasserenanti per il fatto di essere storica testimonianza di fatti molto importanti.
Giovanna Marini ha il dono della poesia, che non viene minimamente scalfito dal passare del tempo, e dei gusti e delle mode. È uno straordinario monumento musicale del nostro tempo e della vita quotidiana, senza alcuna retorica, e senza per altro alcun riconoscimento dalla cultura «ufficiale», o tanto meno di governo. Eppure il titolo di quella ballata, l’altra sera in una sala dell’Auditorium al Parco della musica romano, era ancora l’occasione di un viaggio, possibile e lucidissimo, nell’umanità che questo paese è stato capace di elaborare e modulare. Una Italia in lungo e in largo che aveva come cabina di comando le due cantanti, consapevoli e emozionanti, ma ha anche voluto assumere il corpo storico e musicale di una comunità femminile davvero fuori dell’ordinario, le donne di Giulianello.
Che è un paesino rurale in provincia di Latina, dove però da sempre viene coltivato il canto corale, e di origine religiosa, che si allarga ad abbracciare, e immortalare, ogni aspetto, bisogno, speranza della vita. Racconta la Marini che la prima volta che le incontrò, tanti anni fa durante le sue indagini musicali sulla scia di Ernesto De Martino e Diego Carpitella (cui la serata è stata affettuosamente dedicata), se le vide arrivare su un carrello trainato da un trattore, e cantavano senza sosta. Il canto, per le donne di Giulianello, è una attività a tutto campo, che quasi armonizza e rende possibili tutte le altre fatiche. La loro «leader» Lalla ha appena compiuto 93 anni, ma non si nega virtuosismi vocali di alto respiro. Con quel contraltare vivente che dava spessore e radici alle loro voci, Giovana Marini e Francesca Breschi hanno fatto balenare per una sera una Italia che possa ancora oggi essere attraversata, nella profondità del cuore, vincendo gli ammennicoli e i soprammobili e gli orrori che che tante volte la rendono irriconoscibile e orrendamente sporca.