I compagni Cesare Salvi e Massimo Villone nella loro sacrosanta battaglia contro gli sprechi, per la moralizzazione della vita pubblica rischiano (vedi il manifesto 30 settembre, pagina 4), come già fecero nel titolo del loro importante libro di qualche mese fa, di prendere lucciole per lanterne. Lo dico con grande rispetto poiché condivido pressoché totalmente l'analisi dei due esponenti diessini. Dove sta l'abbaglio? Nel confondere, non solo da un punto di vista lessicale, terminologico, democrazia con politica. La democrazia non comporta dei costi in quanto tale, semmai è la politica che li determina, soprattutto se degenera sino ad arrivare ai livelli parossistici che ben documentano i due autori. L'articolo di sabato scorso sul manifesto di Salvi e Villone conferma quello che poteva essere soltanto un dubbio derivante dal titolo del loro libro I costi della democrazia , quando propongono nella loro analisi della legge finanziaria «una serie di emendamenti volti a combattere la congestione istituzionale, i costi eccessivi della (cattiva) politica, le pulsioni clientelari di una falsa modernità». Quale primo provvedimento indicano la soppressione delle attuali circoscrizioni comunali, laddove previste, e la riassunzione nelle maggiori assemblee elettive - in non meglio precisate «varie forme» - della funzione di rappresentanza più ravvicinata del territorio.
Salvi e Villone ben ricordano, perché erano membri della commissione affari costituzionali del parlamento, che quando venne discussa la questione non ci si limitò a paventare il trasferimento di funzioni di rappresentanza o burocratico-amministrative, bensì il passaggio di reali poteri di governo, di gestione di tutti i servizi cosiddetti «alla persona». Il «Grande Comune» nello spirito di quella riforma doveva scomparire per lasciare spazio alle municipalità, con un salto di qualità da un punto di vista democratico, avvicinando le istituzioni ai reali bisogni dei cittadini, consentendo loro di partecipare alle scelte politiche e amministrative, informandoli, rendendoli consapevoli e quindi corresponsabilizzandoli. Le municipalità, di fatto, non dovevano comportare aumenti di costi poiché si dovevano ridurre drasticamente quelli del comune centrale. L'invenzione della città metropolitana, addirittura inserita nella Costituzione (articolo 114), votato da Salvi e Villone (e non dal sottoscritto perché contrario a quel pasticcio di riforma inficiata dall'elezione diretta del sindaco) non fu un'ubbia di qualcuno, bensì una razionale visione della realtà, affidando ad un governo di grado superiore la gestione dei servizi di "area vasta": grandi infrastrutture, grande viabilità, energia, acquedotti, smaltimento rifiuti solidi ecc.
Tutto questo moderno disegno istituzionale (già sperimentato in altri paesi, si pensi a Parigi e Londra) naufragò in Italia e, se vogliamo dircela tutta, per «merito» di alcuni comuni governati dal centrosinistra: Roma, Napoli e Torino, con i sindaci Rutelli, Bassolino e Castellani i quali mai e poi mai avrebbero accettato di perdere il prestigio ed il potere del comune capoluogo: Dio me lo ha dato e guai a chi me lo tocca! E la sinistra, che tante battaglie aveva fatto in passato a favore del decentramento inteso come partecipazione, sviluppo e crescita della democrazia dal basso, restò a guardare intimidita, per dirla con D'Alema, dal frastuono dei nostrani «cacicchi».
Lo sanno Salvi e Villone che oggi i consigli comunali non contano praticamente più niente? Provino ad assistere ad una seduta di queste assemblee elettive: si discute e si strilla sul nulla, come nel defunto processo del lunedì di Aldo Biscardi. La giunta non è più un organo collegiale e gli assessori sono degli impiegati-manager scelti dal sindaco, il quale ha su di loro diritto di vita e di morte. In questi anni sono state distrutte le aziende municipalizzate per un perverso concetto di liberalizzazione e privatizzazione, costituendo una miriade di spa, con tanti presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati, consigli di amministrazione, direttori, funzionari, stipendi e gettoni a go-go. Tutto sotto l'alto patrocinio del nuovo deus ex machina : il sindaco. Gli assessorati che con la riforma degli anni Novanta erano stati ridotti sono silenziosamente cresciuti: nel quadro dell'austerity e del risparmio, ad esempio, a Torino sono passati in quest'ultimo anno da 14 a 16 per accontentare le «esigenze» della politica, non della democrazia. Non parlo degli assistenti, degli staffisti, dei consulenti esterni alcuni dei quali marciano «a botte» da 100 a 200 mila euro all'anno (e non sono a tempo pieno, fanno tutti un altro mestiere, magari il preside di qualche facoltà universitaria). Sono totalmente d'accordo per la revisione delle provincie che stanno lievitando. I nostri due bravi fustigatori degli sprechi si facciano dare dalla segreteria del senato l'elenco delle proposte di legge per l'istituzione di nuove provincie in Italia, e verifichino quante di queste sono state presentate da parlamentari della sinistra (o presunta tale).
E' la politica, cari Salvi e Villone, che è ammalata e non da oggi. E non dalla discesa in campo di Berlusconi: semmai il Cavaliere ha portato avanti, aggravandolo, un processo di degrado avviato con il protagonismo, il liderismo, il decisionismo, la politica-spettacolo, la falsa modernità di craxiana memoria. Tutto ciò è accaduto nella totale timidezza, nell'imbarazzo, se non nel silenzio responsabile della cultura politica di sinistra. Diceva mia nonna: chi è colpa del suo mal pianga se stesso.