Si chiama “gentrification” ed è il fenomeno che trasforma le zone popolari delle città quando ci vanno ad abitare le classi “chic".
di Franco La Cecla
Quando i gay di San Francisco tra il 1980 ed il 1985 hanno cominciato ad espandersi dal quartiere di Castro a quelli vicini, la Mission Discrict abitata dai latinos, la Fillmore tradizionalmente nera, si è sentito per la prima volta parlare di “gentrification”, un neologismo che vuol dire letteralmente “imborghesimento”, essendo la “gentry” la “gente per bene”, anzi per esattezza «gente con una buona posizione sociale vicina ma inferiore a quella della nobiltà». I gay, in piena ascesa sociale allora – poco dopo sarebbe scoppiata l’Aids decimandone e impoverendone la popolazione – volevano abitare in quartieri “chic”, col verde ben curato, una buona dose di sicurezza per strada, e negozi e boutique che riflettessero il loro gusto quello “slick” che in italiano significa un po’ “leccato”. I neri e i latini reagirono e a volte violentemente. L’Aids bloccò tutto, ma verso la fine del secolo apparvero nuovi ricchi, i “dot.com”, i giovani di Silicon Valley che avevano fatto un sacco di soldi con la rivoluzione informatica. Comprarono le case della Mission e di Fillmore al primo prezzo richiesto loro e uccisero per sempre quelli che erano stati i quartieri della bohème vera di San Francisco. La bolla immobiliare creata da loro fece lievitare talmente i prezzi che buona parte dei ristoranti e dei negozi, delle gallerie d’arte e dei posti che facevano musica chiusero. E la città nel suo insieme divenne un dormitorio per annoiati pendolari tra la Silicon Valley e San Francisco. Questo è un processo tipico della gentrification, secondo la definizione che la sociologa Ruth Glass ne diede nel 1964, una invasione dei quartieri della working class da parte delle classi medie. Ne rimane fuori però la
molla scatenante. Perché i “borghesi” vogliano trasferirsi in un quartiere un po’ malandato e popolare ci vuole l’effetto che solo recentemente – una decina di anni fa – è stato definito “creative city”.
La borghesia è attirata dalla vitalità dei quartieri più poveri, ma creativi, quelli dove ci stanno ancora i posti in cui si mangia bene, l’atmosfera è informale e per le strade c’è gente, artisti, musicisti, giovani, nullafacenti, e gente che si inventa maniere di vivere un po’ diverse o le ha per tradizione. A Parigi può essere la zona di Menilmontant o di Barbes, a Roma la Trastevere di un tempo e il Pigneto di oggi, a Milano via Paolo Sarpi o il quartiere Isola. Ma la borghesia alla fine detesta proprio i motivi per cui è attirata da un quartiere: vuole i locali, ma poi non vuole essere disturbata nel sonno, vuole l’animazione, ma non vuole vederne troppa, vuole la multietnicità, ma ne ha paura. E allora l’effetto “creative city” si trasforma presto in città dormitorio. La gentrification finisce per uccidere ciò che ama. È quello che sta succedendo a Berlino, non solo nel quartiere molto vivo di Kreuzberg, tradizionalmente uno dei più poveri della ex Berlino Ovest, ma in tutti i quartieri della ex Berlino Est come Mitte che fino a poco tempo fa erano considerati “limite” dove affitti bassi, difficoltà di accesso ed una popolazione mista di immigrati e giovani anarchici e post-hippie avevano inventato una maniera di vivere piuttosto sperimentale. Il Guggenheim finanziato dalla BMW voleva installare a Kreuzberg una architettura provvisoria ideata dall’atelier Bow-Wow e i propri laboratori ma questo ha suscitato le proteste della popolazione che vi vedeva una mossa da “gentrification”. Alla fine le proteste hanno avuto successo – nientearchitettura provvisoria, ma un laboratorio fiume da oggi al 25 luglio su “Come fare le città “, con dentro tutte le tematiche scottanti, gentrification, smart cities, partecipazione, governance. A Berlino si sente che il successo della città delle gallerie d’arte e della mondanità ha ucciso la parte più dark, trasgressiva, underground della città. La città attira il turismo in cerca di posti trendy, ma si trasforma in un posto sempre più per bene. Se questo è un esempio del problema però è vero che le cose spesso sono più complicate.
Uno dei casi tipici è Barcellona, la Barcellona di fino a sei anni fa, di quando tutti i giovani europei volevano andarci a stare, una zona franca di libertà, simpatia, convivialità e pazzia. L’origine era il modo con cui la città aveva affrontato il dopo-Franco, dandosi una configurazione pensata proprio in funzione di un rilancio internazionale. Un grande sindaco, un gruppo geniale di architetti avevano “risanato” il centro storico, luogo di una secolare miseria, ma anche di una intensissima vita popolare, avevano creato un lungomare ed una spiaggia, interrato le arterie di grande traffico, offerto alle imprese immobiliari l’occasione di costruire, se provvedevano anche al decoro degli spazi pubblici. Ovviamente si trattava di “gentrification” e una parte della gente – dei poveri – che abitavano nel centro storico se ne dovettero andare, non perché cacciati via, ma perché il costo della vita si era improvvisamente quintuplicato. L’effetto è stata una Barcellona bella, internazionale, ma che consumava ad un ritmo veloce proprio i valori che propagandava: la convivialità distrutta dall’arrivo di troppi turisti, la vita di quartiere devastata dai nuovi compratori, i tradizionali luoghi di ritrovo trasformati in “tiendas” chic e care.
Chi ha sbagliato? Tutti e nessuno: la gentrification risponde all’esigenza di rendere le città più vivibili, meno degradate, ma è vero che questo processo di upgrading
inevitabilmente elimina le opportunità che un quartiere povero e popolare offre a chi ci sta. La “bohème” o come la chiamano oggi i comunicatori “la creative city” ha sempre attirato quelli che pensano di poterla comprare, ma che non dormirebbero mai nella soffitta di Mimì. È la dialettica tra rinnovamento urbano e conservazione sociale, una dialettica difficile da gestire in modo che non si trasformi in un meccanismo distruttore. Josip Acebillo, l’architetto geniale che di Barcellona è l’inventore, sa di avere creato un po’ un mostro che alla fine è crollato con l’esplosione della bolla immobiliare. Eppure viene chiamato a ripetere l’esempio Barcellona a Singapore, in Russia, negli Emirati. E oggi come non mai il verbo delle “creative cities” e delle “smart cities” non fa altro che inventare altre definizioni per una questione che rimane aperta. “Smart city” sarebbe una città “eco-sostenibile”, “socialmente innovativa”, “partecipativa”, che ha risolto i problemi della mobilità e quelli della conflittualità e che ha un governo misto pubblico-privato. Tutto molto interessante, ma il verbo rimane sempre innovazione e questa spesso si scontra con i valori prodotti da chi già ha abitato la città, rendendola un posto bello e vivibile. Le città sono creative e furbe se mantengono quel condensato di vita sociale informale e autoprodotta che soltanto i quartieri ad alta densità – rapporti vis-à-vis, botteghe artigianali, bambini che giocano per strada, presenza di anziani fuori dalla porta, mercati e cibo all’aperto, panni stesi ad asciugare – possono assicurare. Shanghai e Pechino sono l’esempio dicome il potere centrale e il nuovo vangelo dell’arricchimento condanna proprio gli “utong” e gli “shikumen”, i vicoli e le strade della Cina conviviale e popolare. E nello stesso tempo cancella quello che invece riconosce come un patrimonio, almeno dal punto di vista turistico. Che soluzioni ci sono? Probabilmente una ridefinizione di “rinnovamento urbano” che tenga conto della necessaria componente di compattezza e densità sociale. Anni fa mi ero battuto perché qualcuno calcolasse il valore aggiunto prodotto dall’abitare bene – socialmente, collettivamente – un posto. La gentrification è attirata proprio da quel valore, da quella che io chiamo “Mente Locale” la relazione di identità tra abitanti e luoghi dell’abitare. È questa la ricchezza prodotta da una città che non deve essere spazzata via dalla gentrification.
Da Amburgo a Buenos Aires, virtù e vizi di una rivoluzione
di Saskia Sassen
La “gentrification” ha già cambiato il volto delle nostre città e continuerà a farlo. Ci sono luoghi dove questi cambiamenti sono stati positivi e senza speculazione In altri, invece, si è arrivati a privatizzare aree storiche di grande pregio Ma c’è qualcosa di più profondo dietro questa parola dal suono gentile che spesso nasconde una realtà brutale. È la realizzazione di un nuovo spazio di potere che si incastona in una rete mondiale di città. E ad avere più bisogno di occupare questi spazi sono proprio le multinazionali. Che arrivano così ad accumulare quello che io chiamo “capitale di conoscenza urbana”: la formazione cioè di un tipo di rete di conoscenza che nessuna azienda può comprare.
Questo spazio conquistato è uno spazio strategico. All’apparenza è uno spazio “gentrificato”: con nuovi edifici costruiti con gusto, appartamenti, uffici, ristoranti, locali, altri servizi, etc. dove tutto è più costoso e prende il posto prima occupato da imprese dal profitto più basso e da famiglie con un reddito più modesto. Dietro la realizzazione di questo spazio di potere, si nascondono la privatizzazione e la deurbanizzazione di gran parte dei centri cittadini e di altre importanti aree storiche di grande pregio. Questo non significa solo lo sfratto di imprese e famiglie, ma anche, in casi più estremi, la formazione di nuovi senzatetto.
C’è addirittura un’ultima tendenza – la cosiddetta “super prime del mercato immobiliare” – che vede ora i super ricchi acquistare case in città come Londra, Zurigo, Parigi, Hong Kong e rilevarle dai ricchi “normali” per farne grandi dimore. Questo trend va oltre la gentrification. Tuttavia, dietro questa parola, che andrebbe un po’ rivista e ampliata nel senso, non si nascondono solo conseguenze negative, se il risultato di questo processo non è l’espulsione delle persone dai loro quartieri. Zone residenziali, che oggi sono viste come una forma estrema di gentrification, sono all’origine di spazi urbani che ammiriamo profondamente. Dobbiamo ricordarci che la gestione privata e controllata cambiò il volto dei sobborghi della Parigi di inizio Ottocento, una città oggi considerata un esempio per la sua urbanistica.
Però in molte metropoli diverse tra loro come Lagos, Buenos Aires, Johannesburg si espandono zone residenziali che diventano rifugi di élite in cerca di sicurezza. Questi recinti urbani nelle città globali possono essere considerati come un particolare assemblaggio di
pezzi di territorio, autorità e diritti concentrati in un’ampia zona della città. Tali comunità elitarie sono sempre più parte di quelle che altrove ho definito come le geografie di centralità che connettono tra loro i centri del potere del mondo e tagliano via tutto il resto riproponendo per certi versi l’antico divario Nord-Sud.
Ma per arrivare a un esempio positivo, invece, voglio citare il progetto Iba di Amburgo. Nella città tedesca, un gran numero di unità abitative ad affitto basso, occupate da cittadini dal reddito modesto, sono state migliorate con un costo aggiuntivo per i residenti di soli tredici centesimi per metro quadro. A tutti è stato chiesto di lasciare gli appartamenti nel corso dei lavori, ma adesso gli abitanti sono tornati nelle loro case. I cittadini di Amburgo, attraverso il loro governo, hanno impiegato 78 milioni di euro per migliorare e rinnovare migliaia di appartamenti in una zona non ricca e azzerarne le emissioni di anidride carbonica. Non è stata una ditta privata a realizzare tutto questo, ma il governo. Si tratta di gentrification? A guardare gli appartamenti ristrutturati, gli spazi pubblici, gli alberi intorno, si direbbe di sì, ma non lo è. È la possibilità di far vivere in un modo migliore, e con maggiori benefici, i cittadini meno privilegiati, residenti in un’area degradata. Il costo degli affitti per metro quadrato oscilla tra gli 8,29 e gli 8,42 euro. Ecco, questo è un modello di crescita che andrebbe seguito. Si tratta di un piccolo inizio, è vero. Ma rappresenta un esempio di ciò che può essere fatto. E non è gentri fication.