Un modello contro l’austerity per rilanciare la crescita
di Federico Rampini
New Deal o tagli di spesa? Non è solo in Europa che si scontrano la linea dell’austerity e quella della crescita. Il dibattito è iniziato ancora prima negli Stati Uniti. Lo innescò la maxi-manovra di spesa pubblica anti-recessiva (quasi 800 miliardi di dollari) che Barack Obama riuscì a far passare nel gennaio 2009, quando si era appena insediato alla Casa Bianca, la sua popolarità era ai massimi, e il Congresso aveva una maggioranza democratica. La riscossa degli avversari partì con il dibattito sulla riforma sanitaria, quando il Tea Party invase le piazze d’America accusando Obama di imporre il “socialismo” nella patria del libero mercato, e il partito repubblicano riconquistò la maggioranza alla Camera nel novembre 2010. Oggi la scelta tra New Deal e austerity è la posta in gioco della campagna elettorale, il 6 novembre scegliendo Obama oppure Mitt Romney gli americani voteranno per un presidente che incarna l’una o l’altra opzione. Due modelli di società: perfino più distanti qui in America di quanto siano diversi in Europa i programmi economici di François Hollande e Angela Merkel.
Almeno tre premi Nobel (Robert Solow, Paul Krugman, Joseph Stiglitz) più altri economisti autorevoli come Jeffrey Sachs e Robert Reich, invocano l’urgenza di un New Deal. È costante il riferimento con gli anni Trenta. Krugman non esita a definire la crisi attuale come una vera depressione, per l’immensa quantità di risorse inutilizzate (a cominciare dalla forza lavoro). Di conseguenza, torna attuale la lezione del grande economista inglese John Maynard Keynes: in situazioni come questa tocca allo Stato rilanciare la crescita, bisogna spingere sulla spesa pubblica (in deficit!) per colmare il vuoto di domanda privata (consumi e investimenti). Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt fu questo: vasti programmi d’investimenti pubblici, a cominciare dalle grandi opere infrastrutturali, per dare lavoro ai disoccupati e supplire alla latitanza dell’iniziativa privata. Il New Deal fu anche un’altra cosa, complementare: raccogliendo esperimenti sbocciati in Europa (dalla previdenza di Bismarck in Germania alla società fabiana che prefigurò il laburismo inglese, alle socialdemocrazie nordiche), Roosevelt lanciò la costruzione di un Welfare State, che includeva pensioni pubbliche, digressisti
ritti dei lavoratori, una rete di sicurezza contro la povertà. Anche questa dimensione del New Deal – un patto sociale progressista – tornano di attualità oggi in un’America dove le diseguaglianze sono a livelli estremi, e i diritti sindacali sono stati limitati in molti settori.
Ancora un’analogia tra il presente e la Grande Depressione degli anni Trenta: la destra accusa un presidente democratico (Roosevelt, Obama) di soffocare la libertà americana imponendo lo statalismo e il socialismo; i conservatori premono per la rapida riduzione del debito attraverso
tagli feroci ai servizi pubblici e alla spesa sociale. 80 anni fa lo spauracchio usato nei comizi era l’Urss di Josif Stalin. Oggi invece è l’eurozona, che Romney descrive come una società sprovvista di ogni dinamismo perché oppressa dalle tasse e lobotomizzata dall’assistenzialismo. Una differenza notevole però c’è: mentre Roosevelt non esitava a circondarsi di consiglieri che erano socialisti, Obama se ne guarda bene. Il “keynesismo radicale” di Krugman e Stiglitz, pur essendo popolare nell’ala liberal del partito democratico e sui mass media pro-(New York Times, Msnbc) non ha diritto di cittadinanza a Washington. Nel dibattito politico quelle posizioni sono marginali. Gli equilibri politici al Congresso, sia oggi sia nella presumibile composizione post- elettorale, rendono improbabile un New Deal versione 2.0. A nulla servono i moniti di tanti esperti autorevoli, sul pericolo di “rifare un 1937”: cioè l’errore che Roosevelt commise quando cedette alle pressioni per un ritorno al rigore di bilancio, ridimensionò i grandi progetti del New Deal, e l’America ricadde nella recessione da cui sarebbe uscita solo con la seconda guerra mondiale. Oggi, proprio come nel 1937, il “partito dei tagli” non è soltanto repubblicano. Anche tra i democratici c’è una robusta corrente di moderati centristi – si rifanno alla Terza Via di Bill Clinton – i quali predicano moderazione nella spesa pubblica. Obama, pur avendo compiuto una sterzata a sinistra negli ultimi mesi della campagna elettorale, non può permettersi di proporre un vero New Deal. La prima ragione è la più ovvia: oggi il Welfare State esiste già, sia pure dimagrito dai salassi conservatori somministrati da Ronald Reagan in poi. La macchina della pubblica amministrazione è ben più grande e costosa rispetto ai tempi in cui Roosevelt la “costruiva” partendo da uno Stato minimo. La burocrazia e le tasse sono impopolari anche in una fascia di elettorato democratico. Riecheggiano nel dibattito americano posizioni che sono familiari agli europei. «Se il debito pubblico creasse lavoro, l’Italia con il suo debito-record dovrebbe avere da anni il pieno impiego », ha detto Mario Monti al festival La Repubblica delle Idee. «Se indebitarsi per crescere fosse virtuoso, allora non sarebbero esplose la bolla dei mutui subprime in America, e bolle immobiliari analoghe in Inghilterra, Spagna, Irlanda», dixit Angela Merkel. Perciò Obama è costretto a sforzi di innovazione: quando pensa al New Deal del XXI secolo, deve coniugarlo con le riforme del Welfare che tengano conto dello shock demografico, e deve pensare a strumenti di mobilitazione degli investimenti privati (nella Green Economy, nelle infrastrutture, nel digitale) che non comportino una dilatazione dell’intervento statale. Forse sta rifacendo un 1937? Per un New Deal più audace mancano i numeri al Congresso, e i consensi nella società.
IL Segreto di Roosevelt
di Guido Crainz
Quando Franklin Delano Roosevelt viene eletto Presidente degli Stati Uniti, nel novembre del 1932 – e ancor più quando si insedia alla Casa Bianca, nel marzo successivo – gli effetti devastanti della “grande crisi” del 1929 sono giunti all’estremo. In America, con il crollo della produzione e degli investimenti e la polverizzazione dei titoli azionari, con migliaia di fallimenti bancari e con tredici milioni di disoccupati (effetto anche delle scelte – tradizionali e del tutto inadeguate – del presidente uscente Edgar Hoover). E in Europa, dove lo scenario è reso ancora più cupo dall’ascesa del nazismo in Germania.
Roosevelt diventa dunque presidente in condizioni catastrofiche: «se c’è qualcosa da temere è la paura stessa », dice subito al Paese. E dà il segnale di una drastica inversione di tendenza con i primi “cento giorni”: così densi di provvedimenti, scrisse André Maurois, da «richiamare la narrazione biblica della creazione». Vi erano sullo sfondo le teorie economiche di John Maynard Keynes: «se Lei fallisse – scriveva a Roosevelt l’economista inglese – la scelta ragionevole risulterà gravemente pregiudicata in tutto il mondo». La “scelta ragionevole” aveva al centro una qualità nuova dell’intervento dello stato in economia e l’uso della spesa pubblica in funzione “anticiclica”:volto cioè a superare il ciclo economico sfavorevole rilanciando la domanda interna e il reciproco sostenersi di salari, consumi e profitti. Aveva al centro al tempo stesso l’avvio del welfare state, con l’introduzione della previdenza sociale. E con l’idea-forza che lo Stato non debba lasciare solo nessuno di fronte ai drammi del vivere. Di qui alcuni momenti centrali del New Deal rooseveltiano: l’assunzione nei corpi forestali di mezzo milione di giovani poveri; un intervento straordinario nella Valle del Tennessee che univa sistemazione idraulica dei terreni, sfruttamento delle risorse idroelettriche e sostegno agli agricoltori; il National Industry Recovery Act, che difendeva salari e libertà sindacali, e così via. Assieme a interventi sulle banche e sulla Borsa, misure fiscali progressive, garanzie ai piccoli risparmiatori e ai proprietari di casa minacciati dal pignoramento. Assieme alla scelta di far leva su un elemento decisivo: «con il miracoloso sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa – scriveva l’American Institute for Public Opinion fondato allora da George Gallup – per la prima volta nella storia ci dobbiamo confrontare con l’opinione pubblica come elemento determinante». La capacità di far leva su di essa per far rinascere la speranza fu uno dei punti di forza del New Deal, grazie anche alla scelta di Roosevelt di rivolgersi direttamente agli americani riducendo drasticamente la distanza fra la politica e il Paese: con quei toni e con quella capacità di dare risposte alle inquietudini che rendevano così efficaci i suoi colloqui radiofonici con la nazione, i “discorsi al caminetto”. E con il sostegno della parte più vitale della cultura americana, dal cinema alla letteratura. Così Roosevelt superò l’opposizione conservatrice dei potentati economici e della Corte Suprema, che annullò alcuni provvedimenti importanti, ed ottenne conferme elettorali eloquenti: e oggi giudichiamo il New Deal non solo per i suoi risultati nel breve periodo (decisivi, anche se non “miracolosi”) o per la sua proiezione nel futuro (che avrebbe cambiato sia l’economia che la politica) ma anche per la sua capacità di risollevare e trasformare un Paese restituendogli la fiducia in se stesso.
L’idea sbagliata dei tagli al bilancio.
Così rinasce il lavoro
Di Luciano Gallino
Di fronte a un’emergenza che si riassume in quattro milioni di disoccupati e altrettanti di precari, con una marcata tendenza al peggioramento, qualsiasi intervento in tema di occupazione dovrebbe presentare una serie di caratteristiche quali: creare in breve tempo il maggior numero di posti di lavoro; dare priorità alle fasce sociali più colpite, poiché un indicatore negativo che segna il 10 per cento per alcuni può toccare il doppio o il triplo per altri; privilegiare attività ad alta intensità di lavoro; indirizzare i nuovi occupati verso settori di pubblica utilità ed alta priorità, tipo, visto quel che succede, la messa in sicurezza antisismica degli edifici.
Gli interventi finora previsti in questo campo dal governo non presentano nessuna di tali caratteristiche. Dal lato della spesa si pensa ancora una volta a grandi opere, che richiedono anni prima di vedere assunto un solo lavoratore, e in ogni caso ne occupano assai pochi in rapporto al capitale fisso impiegato. Dal lato degli incentivi fiscali, tipo i 10.000 euro di sgravi promessi alle imprese per ogni giovane che assumono, si tratta di vetusti incentivi a pioggia: invece di piantare un albero qui e ora, si irrora un campo sterminato sperando che in futuro spunti non si sa dove qualcosa di simile a un albero.
Inoltre il governo ha peggiorato la situazione dell’occupazione, sia nel settore pubblico che nel privato, con i tagli ai bilanci che ha eseguito o sta predisponendo. Sembra predominare in esso, per non parlare dei commentatori che ogni giorno lo spronano in questo senso, l’idea che ogni forma di spesa pubblica sia un costo da contenere il più possibile. È un’idea iper-liberale, che i conservatori americani riassumono nella battuta “bisogna far morire di fame la bestia”, cioè lo stato. Fermo restando che ogni genere di spreco nella PA va combattuto, bisognerebbe recuperare la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo stato, nonché gli acquisti di beni e servizi che effettua, sono tutti soldi che entrano nel circuito dell’economia al pari di ogni altra spesa, trasformandosi in domanda e occupazione. Per cui i tagli alla spesa pubblica sono in ultimo efficaci contributi alla crescita non del Pil, bensì della disoccupazione.
A fronte del predominio di questa idea nel governo e nei partiti che lo sostengono, ripetere che lo stato dovrebbe finalmente decidersi a operare come datore di lavoro di ultima istanza – come chi scrive prova a dire da tempo muovendo proprio dalle realizzazioni del New Deal rooseveltiano – sembra davvero una causa persa. Con un piccolo segno in controtendenza. Il ministro dell’Istruzione Profumo ha annunciato che il suo ministero intende avviare entro il 2012 le procedure per l’assunzione di 25.000 insegnanti, metà per concorso e il resto attingendo dalle graduatorie dei precari della scuola. Non è esattamente il New Deal, quando con il programma Federal Emergency Relief Act fu ridato un lavoro a 100.000 insegnanti disoccupati e al tempo stesso furono aiutati nel proseguire gli studi 2 milioni di studenti delle scuole superiori e dell’università. Ma è quanto meno un segno che in un settore vitale come l’istruzione, dove la spesa pubblica è assolutamente insostituibile, pena l’esclusione da esso di milioni di giovani, l’idea di tagliarla ancora perché i costi della macchina statale vanno sempre e comunque ridotti, è stata riposta nel cassetto. Dove si può sperare sia raggiunta presto da altre idee controproduttive intorno allo stesso tema.
Alla radice dell’esperienza del New deal di Roosvelt c’è una verità che il pensiero corrente dimentica. Proporre lo Stato come il soggetto che determina le scelte della produzione, e introdurre i bisogni collettivi come l’argomento e l’obiettivo del consumo significa indurre una trasformazione radicale (alla radice) del sistema economico-sociale nel qualie viviamo: il capitalismo. E' anche evidente che lo stesso termine di "crescita" ha un senso del tutto diverso dquello che ha assunto nel dibattito attuali.E’ certo questa la ragione di fondo per la quale tutte le proposte che vanno in questa direzione (dal “piano Di Vittorio del lontano 1947 fino alle recenti proposte nate anche nel nostro paese (Guido Viale e Luciano Gallino, per citare solo quelli più frequentemente ripresi da eddyburg)sono cadute nel vuoto: un vuoto non riempito dalle “sinistre” politiche e sociali, con l‘unica eccezione della Fiom.
Si veda in proposito, su eddyburg: l’ eddytoriale 144e il lavoro su eddyburg