Nel suo recente intervento in argomento di responsabilità del vigente piano regolatore per la città storica (o "antica", come lo stesso piano ha preferito chiamarla) relativamente al fenomeno dell’impetuosa, ingentissima, acceleratissima espansione delle attività turistico-ricettive a detrimento della funzione abitativa ordinaria ("Il boom di hotel non dipende dal PRG", in Il Gazzettino di Venezia del 27 ottobre 2004), l’assessore comunale alla pianificazone strategica, arch. Roberto D’Agostino, combina un tale spudorato pasticcio tra i contenuti effettivi del piano adottato alla fine del 1992, quelli del piano adottato (lui medesimo essendo assessore proponente) alla fine del 1996, le affermazioni (comunque scarsamente pertinenti con i contenuti di questo e di quello) fatte in quegli anni da chissachì, da indurmi a pensare di essere "in buona fede". Cioè di non avere compreso né la reale portata dei disposti del piano che si trovò a ereditare, né quella dei disposti del piano che pretese di sostituirgli. In caso contrario, avrebbe fatto ricorso al noto motto "imbroglio aiutami", o, quantomeno, al forse meno noto, ma glorioso motto della marineria borbonica: "facite ammuina". Nell’uno e nell’altro caso, mi sembra opportuno, per non dire moralmente doveroso nei confronti dell’opinione pubblica veneziana, fare sintetica chiarezza in merito ai dati storici reali degli atti amministrativi richiamati dall’assessore D’Agostino.
Nel piano regolatore per la città storica messo a punto all’inizio del 1990 (all’epoca della "giunta rosso-verde" diretta da Antonio Casellati, con assessore all’urbanistica Stefano Boato), e adottato alla fine del 1992 (all’epoca della giunta diretta da Ugo Bergamo, con assessore all’urbanistica Vittorio Salvagno), si distingueva nettamente tra "utilizzazioni compatibili" e "destinazioni d’uso".
Le prime, cioè le "utilizzazioni compatibili", erano intese come quelle utilizzazioni la cui efficiente esplicazione non sia necessariamente tale da contraddire, o da forzare, le caratteristiche tipologiche e formali proprie delle diverse categorie di unità di spazio (unità edilizie e unità di spazio scoperto) alle quali il piano aveva attribuito tutti gli immobili della città storica. Per farmi intendere agevolmente esemplificherò con una fattispecie estrema e (voglio sperare!) incontrovertibile. Relativamente alle "unità edilizie speciali a struttura unitaria" (chiese, teatri e simili) l’utilizzazione per "abitazioni ordinarie" non compariva tra le "utilizzazioni compatibili", in quanto l’attivazione di una tale utilizzazione implicherebbe, per ricavare alloggi, di spezzettare in verticale e in orizzontale l’ampio (sovente amplissimo) vano unitario che costituisce la caratteristica essenziale, e immediatamente percepibile, di quella categoria di unità edilizie.
Le seconde, cioè le "destinazioni d’uso", erano definite come le utilizzazioni (incluse tra quelle definite "compatibili") vincolativamente assegnate a determinati immobili, nel senso che di tali immobili era vietato il mutamento dell’uso da quello "destinato" a qualsiasi altro uso.
Nell’impianto del piano, le "utilizzazioni compatibili" erano concepite come valide "a tempo indeterminato", cioè per decenni (o per secoli), mentre per le "destinazioni d’uso" si prevedeva che il pianificatore, vale a dire il consiglio comunale, le riesaminasse e le ripensasse ogni quinquennio, e le confermasse, o le eliminasse, o le cambiasse, in relazione alle proprie acquisite conoscenze, e alle proprie scelte politiche, circa le dinamiche intercorse e in essere (di espansione, o di contrazione) di questa o di quella funzione, e circa le funzioni da tutelare rispetto a loro erosioni ritenute eccessive.
Nella concreta versione del piano di cui si è sinora dato conto, si era ritenuto di dover tutelare (imprimendo a immobili puntualmente individuati nelle cartografie, o a intere categorie di immobili indicate nelle norme, vincolanti "destinazioni d’uso") esclusivamente cinque raggruppamenti di funzioni: le attività ricettive (anche in ottemperanza dell’allora vigente legislazione regionale, e vincolando all’uso gli immobili che avessero tale utilizzazione in atto e quelli che l’assumessero legittimamente in prosieguio di tempo), le manifatture private (cioè l’artigianato tipico e tradizionale, con particolare riferimento alla cantieristica minore); le strutture culturali private (il "terziario avanzato", la "produzione immateriale" di cui tanto si parla, anzi si blatera), le strutture pubbliche e/o per attività collettive (dalle scuole alle strutture sanitarie e assistenziali, agli uffici pubblici alle strutture religiose, e via enumerando: occorre dire perché? o precisare che si trattava anche di ottemperare a una previsione di legge regionale e nazionale?) e, innanzitutto e soprattutto, le abitazioni.
Erano infatti vincolativamente destinate ad abitazioni ordinarie e/o specialistiche (alloggi per disabili, e simili) tutte le unità immobiliari che avessero utilizzazione abitativa in atto alla data di adozione del piano.
Era ammesso il mutamento dell’uso da quello abitativo a un altra "utilizzazione compatibile" soltanto, a determinate e rigide condizioni, per le unità immobiliari site al piano terreno, per le unità edilizie già adibite per almeno due terzi a un'unica utilizzazione diversa da quella abitativa, e infine, soltanto nelle unità edilizie di tipo C (i cosiddetti "palazzi"), per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avessero una superficie utile superiore a 400 metri quadrati, e le trasformazioni fisiche ammissibili non consentissero di ricavarne almeno due unità immobiliari a utilizzazione abitativa.
In altri termini, non c’era, in quella versione del piano, alcuna preconcetta ostilità verso non meglio definite attività "direzionali" (checché ricostruisca oggi l’assessore D’Agostino, che forse trova comodo citare prese di posizioni di "fantocci polemici" che della realtà del piano avevano capito poco o nulla), e neppure verso le attività ricettive, che non si intendeva affatto né "bloccare" né "contingentare". V’era, puramente e semplicemente, l’intenzione di vietare ulteriori indiscriminate e generalizzate erosioni degli spazi edilizi veneziani utilizzati per abitazioni ordinarie (e/o specialistiche), nella convinzione che le altre utilizzazioni (essenziali anch’esse alla città, ma diversamente bisognose di essere tutelate nella concreta, durissima, competizione economica per l’uso degli spazi edificati) potessero trovare equilibrata soddisfazione innanzitutto nelle unità edilizie appartenenti alle tipologie originariamente non abitative (chiese, scolae, conventi, palazzi per uffici, fondaci, capannoni, opifici, e via via enumerando), quindi negli spazi edilizi già sottratti alla funzione abitativa (ingentissimi), e infine in quelli (limitati) ancora sottraibili secondo le nuove norme.
Le quali nuove norme furono giudicate, dopo il 1993 (all’epoca della giunta diretta da Massimo Cacciari, con assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino) insopportabili "lacci e laccioli" posti al libero dispiegarsi delle attività economiche.
Più in generale, fu giudicato (forse per difficoltà di comprensione) troppo macchinoso l’impianto complessivo del piano adottato nel precedente mandato amministrativo, e in questo contesto la distinzione (di significato, e di valenza precettiva) tra "utilizzazioni compatibili" e "destinazioni d’uso". Cosicché quelle che erano, come si è spiegato dianzi, definite "utilizzazioni compatibili", riferite alle diverse categorie di unità di spazio (unità edilizie e unità di spazio scoperto) alle quali il piano aveva attribuito, in rapporto alle loro caratteristiche tipologiche, tutti gli immobili della città storica, divennero, nella nuova redatta versione del piano "destinazioni d’uso compatibili". Sono questi gli elenchi di utilizzazioni che l’assessore D’Agostino afferma, nel suo intervento giornalistico, essere rimasti immutati dall’una all’altra versione del piano. Non ho ricontrollato se ciò risponda perfettamente al vero. Per due ottimi motivi. Il primo è che, come il Marco Antonio di Shakespeare, sono convinto che "D’Agostino è un uomo d’onore". Il secondo è che la cosa è perfettamente irrilevante, dato che l’invarianza si colloca in un contesto di significati tutt’affatto diverso.
Nelle prime stesure del nuovo piano, infatti, era sostanzialmente eliminata tutta la parte, di cui sopra si è dato resoconto, relativa alle "destinazioni d’uso" impresse a specifici immobili, o a categorie di immobili, in vista della tutela di determinate funzioni. Nella stesura del piano adottato alla fine del 1996 si "cedeva" alle insistenze di alcune componenti della maggioranza consiliare, e si ripristinava qualche disposizione a tutela dell’utilizzazione abitativa, peraltro ammettendo il mutamento dell’uso da quello abitativo a un altro, oltre che negli ulteriori casi puntualmente disciplinati dal precedente piano, in tutte le unità edilizie, per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avessero una superficie utile superiore a 120 metri quadrati.
L’osservazione dell’associazione Polis, tendente a ripristinare le limitazioni del piano del 1990-1992, non fu accolta dal consiglio comunale, la cui maggioranza, com’è noto, era composta dalle stesse formazioni politiche che costituiscono la maggioranza odierna (dalle forze politiche di minoranza, di allora e di oggi, non ci si aspettava, né ci si aspetta, un opposto atteggiamento, ma in questo caso va riconosciuta la coerenza con la loro natura).
Da più di tre anni, periodicamente, componenti politiche di tale permanente maggioranza, e loro autorevoli esponenti (anche assessori), levano lamentazioni nei confronti dell’eccessiva espansione delle attività ricettive, nei casi più intellettualmente e politicamente apprezzabili in quanto intervenuta a detrimento della funzione abitativa ordinaria. L’anno addietro, il Consiglio comunale tentò persino di porci una pezza, con una variante al nuovo piano per la città antica che aveva, tutt’assieme, i difetti dell’irresolutezza, del confusionismo intellettuale, del compromesso politico.
Oggi anche l’assessore D’Agostino riconosce la gravità del problema, ma ammette quale "fenomeno pericoloso" soltanto la "proliferazione degli affittacamere". E, comunque, ciò che gli interessa è difendere il piano di cui è responsabile, che, a suo dire "viene chiamato in causa in modo improprio". Giacché, afferma, "gli affittacamere sono residenze che, utilizzando una legge regionale che regola le attività extra alberghiere, possono esercitare l’attività ricettiva facendo una semplice denuncia al comune e senza cambiare la destinazione d’uso residenziale".
Ebbene: l’affermazione ora testualmente riportata è per metà falsa, o, per essere più cortesi, infondata. E’ infatti verissimo che, ai sensi della legge regionale veneta 4 novembre 2002, n.33, recante "Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo" l’attività di affittacamere (come in genere le attività ricettive extra alberghiere) è subordinata a mera denuncia di inizio dell’attività. Ma è altrettanto vero che, ai sensi della legislazione statale che la regola, la denuncia di inizio dell’attività si fonda sull’attestazione, da parte dello stesso soggetto interessato, del pieno rispetto di ogni vigente disciplina, avente forza di legge o di atto amministrativo regolamentare, ivi compresi gli strumenti di pianificazione. E nella legge regionale dianzi citata non v’è una sola parola che consenta a chi voglia intraprendere l’attività di affittacamere (o un’altra attività ricettiva extra alberghiera) di derogare da una disposizione della pianificazione urbanistica che vieti di mutare l’uso abitativo ordinario, in atto, di una unità immobiliare in qualsiasi altro uso (soprattutto ove la medesima pianificazione si sia premurata di dettare definizioni dettagliate dell’uso abitativo ordinario e degli altri usi considerabili).
Per cui mi sento di affermare serenamente che, se fosse stato vigente il piano regolatore per la città storica adottato alla fine del 1992 (eventualmente, ma non indispensabilmente, ritoccato per tenere conto della più vasta gamma di attività ricettive considerate dopo di allora nell’ordinamento), gli uffici comunali competenti avrebbero potuto respingere la più gran parte delle denunce di inizio di attività di affittacamere (o omologhe), per mancanza dei relativi requisiti di legittimità, e perseguire per abuso chi avesse ciononostante avviato tali attività.
E di concludere dichiarando di concordare con l’assessore D’Agostino laddove afferma che non si aiuta la città oscurando le vere cause dei fenomeni, e che bisogna cercare i nemici dove ci sono. Per l’appunto, è quel che mi sono impegnato a fare con questo scritto.
L’articolo dell’assessore Roberto D’Agostino
da il Gazzettino del 27 ottobre 2004
Esistono alcune affermazioni che, per quanto false, vengono ripetute spesso e, a forza di essere ripetute, diventano vere. Senza entrare nelle ragioni del perché cose false, e facilmente verificabili in quanto tali, vengono spacciate per vere, ogni tanto vale la pena tentare di rimettere sui piedi la verità. Una di queste affermazioni data per incontestabilmente vera è quella che il processo di trasformazione alberghiera di molte parti della città derivi dal piano regolatore del Centro Storico.
E, in particolare, dal lassismo in fatto di cambio di destinazioni d'uso voluto da chi quel piano ha elaborato (giunta Cacciari) cambiando le previsioni della precedente proposta di piano molto più rigida in materia.
Prima cosa falsa: quando venne discusso il piano regolatore il dibattito sul cambio di destinazioni d'uso ci fu e fu forte, ma esso non riguardava affatto le destinazioni alberghiere, bensì quelle direzionali. C'era infatti chi voleva tutelare la residenzialità della città impedendo che si potesse trasformare un edificio o parti di un edificio residenziale in direzionale, e c'era chi pensava che la residenzialità a Venezia si sarebbe tutelata meglio favorendo, anziché ostacolando, l'insediamento di nuove attività lavorative. Prevalse, a ragione, questa seconda posizione, che peraltro non poteva contribuire da sola a trattenere attività che tendono ad andarsene espulse proprio anche dalle destinazioni residenziali che rappresentano la vera frontiera avanzata della speculazione immobiliare a Venezia.La seconda cosa falsa è che il piano precedente a quello in vigore avesse norme più rigide in fatto di destinazioni alberghiere. In realtà tali norme sono state trasferite senza modificazioni da un piano all'altro e fanno ambedue riferimento alla gamma di destinazioni d'uso insediabili nelle diverse tipologie edilizie: per quanto riguarda tipologie e destinazioni alberghiere i due piani coincidono.
Dunque è falso che il proliferare delle trasformazioni alberghiere sia il frutto delle decisioni del piano regolatore. In realtà il piano regolatore ha consentito in questi anni che alcuni edifici di grandi dimensioni, non adatti alla residenza e spesso abbandonati da tempo, fossero trasformati in albergo (è questo il caso dell'isola di S.Clemente o di alcuni palazzi sul Canal Grande): d'altra parte i dati ci dicono che nel 1966 Venezia aveva dodicimila stanze di albergo e tre milioni di turisti, nel 1996, trent'anni dopo, quando fu fatta quella scelta di piano, Venezia aveva ancora dodicimila stanze di albergo e dieci milioni di turisti, oggi ha sedicimila stanze di albergo e quindici milioni di turisti.Dunque il piano ha avuto una funzione nel riequilibrare un mercato bloccato, monopolistico e di bassa qualità, ma non avuto nessuna influenza sulla proliferazione degli affittacamere che è il vero fenomeno pericoloso e a cui opporsi in quanto sottrae residenza alla città e contribuisce all'innalzamento dei costi degli alloggi. Infatti, gli affittacamere sono residenze che, utilizzando una legge regionale che regola le attività extra alberghiere, possono esercitare l'attività recettiva facendo una semplice denuncia al comune e senza cambiare la destinazione d'uso residenziale. Dunque, il piano regolatore non c'entra, come si suole dire, un fico secco in questa faccenda e viene chiamato in causa in modo improprio.Sgombrato il campo, si spera, da queste leggende metropolitane, rimane da affrontare il problema di merito di come contrastare un fenomeno distorsivo della realtà veneziana come è quello della proliferazione delle strutture ricettive minori, prodotto di una fortissima spinta economica alla quale certo i veneziani non si sottraggono.
Alcune cose il Comune ha fatto di recente, di più forse si potrebbe fare e sarebbe opportuno fare, cominciando col premere sulla Regione per una modifica della legge che ha aggravato il problema. Certo non si aiuta la città oscurando le vere cause del fenomeno e cercando nemici dove non ci sono.