Limitare il consumo del suolo, opporsi all'urbanistica privatizzata, affermare il governo pubblico del territorio, tutelare il paesaggio e la sostenibilità delle città. Tutto questo senza dimenticare lo sviluppo e l'occupazione. Sono i pochi, ma essenziali e determinanti punti cardine, che hanno guidato l'intensa storia professionale di uno dei maggiori urbanisti italiani. Quella di Vezio De Lucia, che nel suo "Le mie città" (ed. Diabasis), libro a metà tra cronaca e biografia, racconta 50 anni di urbanistica e una carriera ricca di impegni istituzionali e politici (direttore generale dell'urbanistica al ministero dei Lavori pubblici, è stato consigliere regionale Pci nel Lazio, assessore nella prima giunta Bassolino, Consigliere nazionale di Italia Nostra) . Mezzo secolo che ha visto mutare i centri urbani, con i tentativi di governo del centrosinistra del ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini, fino ai disastri del disegno di legge Lupi e del "pianificar facendo" o della "deroga come regola", vera disgrazia per una razionale pianificazione urbanistica.
Una storia che parte da lontano, quando De Lucia, giovane architetto alle prime esperienze, fu costretto ad assistere a una delle prime tragedie legate allo sfruttamento dissennato del territorio: era il 19 luglio 1966, e mentre in Inghilterra la nazionale italiana perdeva per 1 a 0 contro la Corea del nord, a Agrigento, una frana causata dal sovraccarico della speculazione edilizia, distruggeva centinaia di case. Fu proprio in quei giorni che De Lucia decise di lasciare l'Istituto romano dei beni stabili, ente che gestiva un enorme patrimonio edilizio, per entrare all'Istituto nazionale di urbanistica. «Capii che esisteva un altro modo lavorare per chi si occupa di edilizia e urbanistica, un modo nel quale gli architetti invece di piegarsi alla volontà dei privati, possono e devono contribuire alle scelte», scrive De Lucia. Un passo decisivo che lo ha portato, per conto di istituzione pubbliche, a occuparsi della redazione di piani strutturali di Pisa, Lastra a Signa, Gavorrano e dei Comuni della Val di Cornia; dei piani territoriali di coordinamento di Pisa e Lucca; dei piani strutturali coordinati di San Piero a Sieve e Scarperia.
Tra i primi impegni di De Lucia, c'è il Piano del comprensorio di Venezia con il quale, alla fine degli anni Settanta, si cercò di realizzare nuove abitazioni senza ricorrere a nuovo consumo di suolo ma recuperando lo spazio già incluso e male utilizzato nel perimetro cittadino. «Una soluzione agli antipodi rispetto al dissennato modello di sviluppo della Padania, già allora volto a eliminare ogni soluzione di continuità fra i centri urbani», scrive De Lucia. Un percorso che prosegue con la prima vera prova professionale: la ricostruzione del dopo terremoto a Napoli. Proprio in questo contesto, per evitare ogni genere di speculazione edilizia, nacque l'idea (che suscitò un acceso dibattito) «della preventiva acquisizione pubblica di notevoli estensioni di aree». «Il piano delle periferie - racconta De Lucia - formò il nocciolo centrale del programma per la ricostruzione con il completamento dei due grandi quartieri di edilizia pubblica di Ponchielli e Secondigliano, la realizzazione di 50 interventi di recupero con annessi servizi, spazi verdi per circa 100 ettari". Sempre a Napoli un altro grande impegno: l'assessorato all'urbanistica della prima giunta Bassolino (1993-1997). In questo caso, oltre alla gestione del G7, delle Vele e di Scampia, e di parcheggi, De Lucia, grazie agli Indirizzi urbanistici e alla Variante di salvaguardia, ha garantito la tutela delle aree verdi sopravvissute alla speculazione edilizia del dopoguerra: 3.500 ettari sugli oltre 11 del territorio comunale, porzioni di terreno in parte ancora coltivati che arrivano fino al centro cittadino.
Ma l'armonia con la città partenopea finisce presto e precisamente quando Bassolino decide di passare tra coloro che si sono fatti "irretire dalle sirene della scorciatoia e della disinvoltura urbanistica» (fine 1997). Una linea che ritroviamo a Roma, con l'approvazione, nel 2008, del piano strutturale. «Negli ultimi 15 anni il governo della capitale si è collocato in uno spazio politico e culturale ambiguo: non hai smesso di dichiarare l'adesione all'urbanistica d'iniziativa pubblica, ma contemporaneamente ha praticato con disinvoltura ogni forma di contrattazione promuovendo interventi edilizi in ogni angolo del territorio urbano. La conseguenza è stato lo stravolgimento dello scenario fisico che attornia Roma». E' la nuova strategia del "pianificar facendo" che il disegno di legge Lupi (oggi deputato Pdl, già assessore all'urbanistica nel comune di Milano) ha rischiato di diventare, oltre che una pratica molto diffusa, un "modello istituzionale". La norma poi bocciata nel 2005, ha tentato di «privatizzare l'urbanistica, lasciando il comando nella mani della rendita fondiaria e cancellando il principio stesso del governo pubblico del territorio nel quale l'interesse collettivo è solo uno degli attori in gioco».
Eppure, un altro modello è possibile. Lo dimostrano altri stati europei. La Germania ha elaborato un piano nazionale per la riduzione del consumo del suolo da 130 a 30 ettari giornalieri; la Gran Bretagna, che protegge da 70 anni le green belt il 12% del paese, ha scelto una strada differente fissando l'obiettivo di soddisfare, mediante riciclo delle aree urbanizzate, una quota di nuova edificazione, definita localmente, e comunque non inferiore al 50-60%; per evitare la dispersione urbana, in Francia, le leggi sul paesaggio rurale e le montagne impongono che le nuove edificazioni siano in continuità con i nuclei insediativi esistenti. Esempi virtuosi, che esistono, più come un'eccezione che come una regola, anche nel nostro Paese. E' il caso del piano strutturale di Lastra a Signa al quale ha collaborato De Lucia. «I problemi della crescita quantitativa pur prevista in misura certamente non trascurabile, sono stati risolti senza ricorrere a nuove urbanizzazioni. Vale a dire senza ridurre lo spazio dell'agricoltura e delle aree in condizioni naturali". Il metodo seguito nel Comune dell'area fiorentina, è consistito nel reperimento delle superfici necessarie per soddisfare i bisogni di spazio per la residenza, per le attività lavorative e per i servizi, per il turismo e il tempo libero, nell'ambito delle cosiddette "aree critiche", intendendo per tali gli immobili, le aree o gli edifici, degradati, dismessi o male utilizzati, oppure quelli che ospitano funzioni incongrue dal punto di vista della compatibilità ambientale, urbanistica o estetica o comunque meritevoli di trasformazione. "A conclusione dell'indagine sulle aree critiche - racconta De Lucia - la superficie disponibile è risultata addirittura superiore alle necessità». Un'esperienza simbolo, quella di Lastra a Signa, che dimostra come «è possibile lo sviluppo senza sciupare lo spazio».