Le conseguenze della crisi sono state contenute anche attraverso l'indebitamento pubblico, evitando alle generazioni future di pagare un prezzo maggiore di quello che stanno già pagando. L'economia di mercato capitalistica è iniqua, inquinante e instabile. Nonostante la crisi attuale, è prevedibile che si consolidi ulteriormente. Ciò che serve è una politica riformista che compensi i suoi indesiderabili effetti collaterali
La crisi economica ha mostrato gli equilibri tra gli elementi fondamentali dell'attività economica. E tuttavia l'attuale recessione non ha molti punti di contatto economici politici con quella del 1929. Anche se gli effetti sono drammatici, l'economica mercato capitalistica uscirà in qualche misura rafforzata da questa crisi, mentre a livello internazionale il centro dell'economica mondiale sarà basato sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Sono questi i temi dell'intervista a Pierluigi Ciocca, nuova puntata della serie «Il capitalismo invecchia?», dove sono state poste le stesse domande a un gruppo di economisti tanto mainstream che eterodossi rispetto alle teorie economiche correnti.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Come quasi sempre è avvenuto, profondi squilibri nei fondamentali preesistevano. Fra essi, quelli incombenti sul dollaro. Solo negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti hanno cumulato disavanzi nella bilancia dei pagamenti di parte corrente, e quindi accresciuto la posizione debitoria netta verso l'estero, nella misura di oltre 5.000 miliardi di dollari (un terzo del loro prodotto lordo). Giappone e soprattutto Cina, in strutturale avanzo, sono divenuti i principali creditori degli Stati Uniti. In sintesi, gli americani non risparmiano, gli asiatici risparmiano troppo. La crisi 2008-2009 si è innestata su questi squilibri: una crisi grave, accesa dalla finanza, estesa alla produzione, in via di superamento ma con aspetti sistemici irrisolti. Tuttavia, non v'è confronto con la disastrosa, interminabile contrazione degli anni Trenta. Il Prodotto interno lordo del mondo cadde del 5 per cento nel 1930; cadde ancora nel 1931 e nel 1932, crollando del 17 per cento nell'intero triennio.
Quest'anno diminuirà dell'1 per cento, ed è previsto risalire del 3 per cento nel 2010. Nemmeno si configurano analogie d'ordine politico seriamente fondate con quegli anni, segnati da Hitler, Mussolini, Stalin. Abbiamo avuto l'ennesima conferma della intrinseca instabilità dell'economia di mercato capitalistica. Formidabile motore di crescita, essa è tendenzialmente iniqua, inquinante e, per l'appunto, instabile. Nonostante queste carenze - queste tre «i» - il sistema di mercato si radica e si diffonde in ragione del potenziale di sviluppo economico che prospetta.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale ?
L'instabilità - come Thornton, Bagehot, Marx, Keynes, Minsky, fra gli altri economisti, hanno da tempo teorizzato e come i banchieri centrali da sempre sanno per esperienza - è insita nel modo di funzionamento del sistema. Nella General Theory Keynes ha chiarito che in una «economia monetaria di produzione» le decisioni d'investimento - altamente decentrate, atomistiche - si fondano su «aspettative molto precarie». Seppure razionali, esse sfociano spesso in «improvvisi crolli dell'efficienza marginale del capitale». Allora, la crisi, reale e finanziaria, viene innescata da qualunque causa prossima che induca gli investitori a svendere merci, prodotti primari, immobili, titoli, valute. La scintilla può essere «una bancarotta, un suicidio, una fuga, una notizia, un debitore razionato, un mutamento d'opinione che induca un operatore importante a smobilitare» (Kindleberger).
Nell'economia di mercato le crisi sono certe; sono imprevedibili nei tempi e nelle sequenze; quando assumono forme nuove, come non di rado avviene, sono difficilmente prevedibili. Nondimeno, dopo Keynes, le crisi sono contenibili nelle loro ripercussioni, finanziarie e reali. Nel 2008-2009, l'applicazione acritica da parte degli operatori di modelli fondati sulla ipotesi di efficienza dei mercati può aver concorso ad aggravare la dimensione finanziaria della crisi. Pure, i pensieri della massa degli economisti accademici di stampo neoclassico hanno contato meno degli assetti strutturali che il sistema assumeva e meno del suo spontaneo modus operandi, largamente indipendente dalle politiche economiche, attuate o non attuate. Semplicemente, il sistema non è plasmabile a piacimento, così da conformarsi alla teoria economica di volta in volta prevalente.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
La liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali è stata talvolta troppo brusca. Ha provocato instabilità valutaria, quindi finanziaria e reale, in più occasioni (Argentina, Messico, Russia, Asia). Ma ciò non è avvenuto in questa crisi. Lo si temeva con riferimento al dollaro, che invece, sebbene sopravvalutato rispetto alle valute asiatiche, si è rafforzato fino al marzo scorso nella fase più turbolenta della crisi. Al contrario, all'interno delle singole economie, la finanza non è mai stata tanto regolamentata segnatamente nei mercati finanziari. Sono cambiate le modalità della regolamentazione e della supervisione. La discrezionalità delle banche centrali e la loro azione orientata alla prudente gestione degli intermediari creditizi sono state ritenute eccessivamente invasive dagli interessi finanziari e quindi dai legislatori.
L'accento è stato spostato sulle regole formali. Queste sono state rivolte a imporre ai mercati della finanza correttezza e trasparenza di comportamenti. Attraverso di esse, si pensava, i mercati avrebbero espresso autonoma stabilità. La crisi è esplosa nonostante questa fitta rete di regole. Più in generale, le regole, se efficaci e rispettate, evitano il ripetersi delle crisi finanziarie quando queste assumono le stesse forme già sperimentate in precedenti occasioni. Ma, come la presente crisi conferma, le forme della instabilità sono spesso nuove, e le regole non possono prevenire la speculazione realmente innovativa. Entro limiti, in passato vi sono riuscite le banche centrali, agendo in modo discrezionale, tanto discrezionale da apparire arbitrario, intrusivo. La discrezionalità delle banche centrali è stata fortemente ridimensionata proprio alla vigilia della crisi in corso, forse anche perché sgradita alla cultura economica «mercatista» fino a ieri prevalente. V'è da chiedersi se quella discrezionalità non vada accettata, giuridicamente meglio definita, ripristinata, politicamente confortata.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La Cina ha sostenuto il mondo nella recessione. Lo ha fatto con senso di responsabilità e con pragmatismo, cosciente del proprio ruolo. La sua economia ne esce rafforzata. Politicamente, si va verso un G2 tra Usa e Cina. Sono in più aspetti convergenti gli interessi dei due paesi leader, che rappresentano da soli oltre un terzo del prodotto lordo mondiale. L'economia europea è la meno dinamica al mondo. Nondimeno, l'Europa ha ancora la potenzialità politica per svolgere un ruolo. Sta agli europei affrettarsi a esprimerla. Sinora non l'hanno fatto. Per difetto di politica economica - cioè di politica - nel 2009 la stessa regressione del prodotto interno lordo è stata più acuta in Europa (-4,2 per cento) che negli Stati Uniti (-2,7 per cento), dove pure la crisi finanziaria era esplosa. Il caso italiano è specifico. Anche per l'inazione della politica economica, l'Italia patisce quest'anno la più grave contrazione del Pil mai sperimentata in tempi «normali», con conseguente crollo dell'occupazione. Ma la recessione si è innestata su un male più profondo, cronico: il ristagno della produttività in atto dal 1992, con le sue pesanti ripercussioni sul potenziale produttivo, sulla competitività, sui conti con l'estero.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Sono occorsi, e occorreranno ancora, cospicui danari pubblici sia per turare le falle nella finanza sia per sostenere la domanda effettiva. I moltiplicatori dei bilanci statali sono risultati, in diverse economie del G-20 inferiori all'unità. Ciò è dovuto ai ritardi nell'incentrare la politica fiscale sulla protezione dei redditi più bassi e sulla spesa in infrastrutture utili. L'una e l'altra avrebbero espresso effetti moltiplicativi del reddito più pronunciati. Resta prioritario agire dal lato della domanda, che non è ancora in una espansione autoalimentantesi.
In alcuni paesi, peraltro, la possibilità di accrescere la spesa pubblica per infrastrutture, finanziare ammortizzatori sociali, ridurre la tassazione in modo progressivo è strettamente collegata con l'avvio di politiche strutturali, o dell'offerta, che prospettino, per il medio periodo, il consolidamento dei bilanci pubblici e una più sostenuta dinamica della produttività. Ciò è particolarmente vero per l'Italia, la cui economia vive due crisi: recessione e produttività stagnante. Da noi, urge l'avvio di una risposta ai problemi strutturali, a cui sono chiamati sia il governo sia le imprese, su quattro fronti: risanamento del bilancio, adeguamento delle infrastrutture, innovazione, concorrenza. Se questa risposta si concretizzerà, la stessa fuoruscita dalla recessione sarà accelerata. Un maggior deficit temporaneo di bilancio - imperniato sugli investimenti della Pubblica amministrazione e sul sostegno ai senza lavoro e ai meno abbienti - verrebbe accolto dai mercati finanziari senza aggravi del premio al rischio sul debito pubblico, perché inscritto in un programma serio volto, oltre il ciclo, a risanare le finanze dello Stato e a riformare fondamentali assetti dell'economia.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Il riformismo ha i suoi limiti. Sarebbe pura demagogia affermare che l'economia di mercato sia pienamente governabile. E tuttavia, se le ripercussioni finanziarie e reali della crisi non fossero state contenute anche attraverso l'indebitamento pubblico, le generazioni future avrebbero pagato un prezzo ben maggiore. Il reddito medio mondiale pro capite è oggi dieci volte quello di due secoli fa, quattro volte quello di un secolo fa, tre volte quello di soli cinquanta anni fa.
Nei principali paesi industriali, il patrimonio netto delle famiglie è oggi mediamente pari a sette volte il loro reddito disponibile. Figli e nipoti devono poter pienamente disporre dei proventi del loro lavoro ma - a differenza di quanto era avvenuto ai loro genitori e ai loro nonni, che non avevano ricevuto eredità - vivranno anche del lascito di benessere e di produttività, della ricchezza accumulata dai loro genitori e dai loro nonni. «L'umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico»: così valutava Keynes «le prospettive dei nostri nipoti» nel 1930. Sta a loro saper scegliere, fra libertà e necessità, fra mezzi e fini, fra il bene e l'utile.