Il manifesto, 18 febbraio 2016 (m.p.r.)
Si chiamerebbe Salih Neccar e sarebbe un membro delle Ypg ("Unità di protezione popolare' curda). Così, con poche parole, le autorità turche si sono regalate la giustificazione per la strategia anti-kurda nella regione: ieri mattina la Turchia diceva di aver identificato il responsabile materiale della strage di mercoledì sera. Già a poche ore dall’attentato di Ankara l’esercito dava la risposta più scontata: è stato il Pkk. Ieri mattina le accuse si sono arricchite di nuovi dettagli: in coordinamento con il Partito dei Lavoratori Kurdi hanno operato membri delle Ypg siriane, le unità di difesa popolari del Pyd di Rojava. In casa turca uno più uno fa sempre due, ma le regole dell’equazione le dettano le priorità di Stato. Un’architettura che si confà alla perfezione con le ultime mosse turche: il presidente Erdogan, regista di un sistema autoritario che supera i confini nazionali, si fa inquirente, giudice e boia.
Nonostante manchino rivendicazioni dell’attacco e nonostante le Ypg siriane abbiano subito smentito un proprio coinvolgimento condannando gli attacchi ai civili, Ankara ha già deciso. Non mancano osservatori che muovono dubbi sulla veridicità dell’attentato, rievocando episodi simili e puntando i riflettori sulla strategia della tensione imposta dal partito di governo Akp. Di prove non ce ne sono né in un senso né nell’altro. Ma le conseguenze potrebbe rivelarsi tragiche, soprattutto se gli Stati uniti - finora alleati delle Ypg - decideranno di avallare la teoria turca. Le danze si sono aperte ieri mattina: il premier Davutoglu si è detto certo dell’identità dell’attentatore, Salih Neccar, nato ad Amuda in Siria 24 anni fa e membro delle Ypg. «Un collegamento diretto tra l’attentato e le Ypg è stato individuato», ha detto il primo ministro.
Secondo quanto riportato dal presidente Erdogan, 14 persone sono state arrestate perché sospettate di aver preso parte all’attacco. Un attacco studiato e ben pianificato, difficilmente realizzabile da un solo uomo. Per questo Ankara si gioca la carta del Pkk, che - tuona Erdogan - ha fornito supporto logistico. A facilitare il lavoro è l’esplosione che ieri ha investito un convoglio militare turco a Diyarbakir, nel distretto di Sur, martoriato dalla campagna militare di Ankara e sotto coprifuoco ininterrotto da oltre due mesi. Sei soldati sono rimasti uccisi da un ordigno rudimentale. Anche in questo caso manca la firma: nessuna rivendicazione, ma tutti guardano al Pkk che negli ultimi mesi ha ripreso la lotta armata contro l’esercito turco. «È fuori discussione mostrare tolleranza verso un’organizzazione che ha come target il nostro popolo nella nostra capitale», le parole di Davutoglu.
La tolleranza zero è una linea guida che il Pkk conosce bene: subito dopo l’esplosione dell’autobomba ad Ankara, i caccia turchi hanno bombardato pesantemente il nord dell’Iraq, uccidendo almeno 70 combattenti. Nuova ondata di raid anche nel nord della Siria. Da lì, da Rojava, a parlare è Saleh Muslim, co-segretario del Pyd, che ha negato qualsiasi responsabilità, aggiungendo che il Partito dell’Unione Democratica non considera la Turchia un nemico. Ma a poco serve: la macchina turca è già in moto e lavora sul piano internazionale, quello che più interessa ad un paese alla caccia di legittimazione per la campagna in corso in Siria. «Quanto successo condurrà i nostri amici nella comunità internazionale a capire quanto stretta sia la connessione tra il Pyd e il Pkk», ha ribadito Erdogan riferendosi alla Casa bianca. Davutoglu ha aggiunto che condividerà con i paesi alleati le prove del coinvolgimento turco, in particolare con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu.
La preda è succosa e non si limita ai kurdi di Rojava: Ankara punta a Damasco. Ieri Davutoglu non ha mancato di accusare il governo siriano di aver partorito l’attacco, definendo le Ypg «uno strumento in mano al regime». E una volta arrivati a Damasco, Mosca è più vicina: «Mando un avvertimento alla Russia - ha detto il premier Davutoglu - Se gli attacchi terroristici continueranno, ne sarà responsabile come le Ypg». La strategia turca è lapalissiana e le accuse ai kurdi sono un pezzo del puzzle: cuore della battaglia resta il nord della Siria e il corridoio di territori che da Azaz arriva ad Aleppo. L’altro pezzo del puzzle è il passaggio al valico di Bab al-Salama, ieri, di almeno 500 miliziani delle opposizioni, sia moderate che islamiste, dal territorio turco alla provincia di Aleppo. Sono diretti ad Azaz, ormai vicina alla caduta in mano kurda. Non sarebbero che un primo contingente: pronti a partire ce ne sarebbero in tutto 2mila, armati con artiglieria pesante e scortati di notte dalle forze turche, dice alla Reuters Abu Issa, comandante di uno dei gruppi anti-Assad. I rifugiati non passano, i miliziani sì.